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Teocrito e la poesia bucolica

Le origini della poesia bucolica come genere distinto entro il corpus teocriteo sono difficili da
determinare. Le versioni tardo-antiche o Bizantine di un saggio precedente agli scolii agli Idilli di
Teocrito collegano l’invenzione dei τὰ βουκολικά a dei culti di Artemide in Laconia o Sicilia.
Questa ipotesi non trova supporto nei contenuti dei componimenti bucolici di Teocrito, e è
generalmente considerata come una costruzione scolastica basata sulla spiegazione peripatetica
dell’emergere della tragedia attica da rituali rurali. Altre ipotesi, sebbene dubbie, sono almeno
maggiormente legate a quello che sappiamo sulla poesia bucolica in Teocrito. A questo proposito il
più importante punto di contatto è il bovaro archetipico Dafni, la cui consunzione e morte sono
narrate in Id. 7.72-77 e 1.64-142. Tra le altre fonti più tarde che hanno a che fare con la storia di
Dafni, un passaggio di Diodoro Siculo e un altro di Eliano sono di particolare interesse, perché
includono riferimenti alle origini della poesia bucolica:
Nelle montagne Eree (sud est della Sicilia, nell’entroterra di Siracusa), così racconta la
storia, nacque Dafni, figlio di Hermes e una ninfa, e lui per l’alloro (δάφνη) che lì
cresceva a profusione fu chiamato Dafni. Fu allevato dalle ninfe, e possedeva
moltissime mandrie di bestiame che curava molto attentamente. Per questa ragione si
guadagno il nome “Boucolos”. Era un musicista naturalmente portato e inventò la
poesia e la canzone bucolica, che esiste ancora attraverso la Sicilia ancora oggi. La
storia è che Dafni cacciava con Artemide e trovò il favore della dea, e che la deliziava
estremamente con il suono della sua siringa e il suo canto bucolico. Dicono che una
delle ninfe si innamorò di lui, e lo avvertì che se avesse dormito con un’altra donna
avrebbe perso la vista. La figlia di un re lo ubriacò e lui dormì con lei, dopodiché fu
accecato in accordo con l’avvertimento della ninfa. DIOD. SIC. 4.84

Alcuni dicono che il boucolos Dafni era l’eromenos di Hermes, altri che era il figlio ...
Sua madre era una ninfa e lo espose in un cespuglio di alloro. Dicono che il suo
bestiame proveniva dalla stessa riserva di quello del sole, di cui Omero parla
nell’Odissea. Mentre stava pascolando il bestiame in Sicilia, una ninfa si innamorò di
lui; era bello e giovane, con la sua prima barba, e lei dormì con lui. Lei fece sì che lui
accettasse di non dormire con nessun’altra, e lo minacciò che se avesse trasgredito
sarebbe stato accecato. Qualche tempo dopo la figlia i un re si innamorò di lui, e sotto
l’influenza del vino lui ruppe il suo patto dormendo con la principessa. Di
conseguenza, la canzone bucolica fu cantata per la prima volta e il suo contenuto fu
quello che era successo ai suoi occhi. Stesicoro di Imera diede inizio a questo tipo di
poesia. ELIANO, VH 10.18
Sia Diodoro che Eliano, così come apparentemente Timeo prima di loro, menzionano alcuni aspetti
fondamentali del “Dafni teocriteo”: il suo background siciliano, la sua vicinanza a Hermes e le
Ninfe, e il suo talento musicale. È ciò nonostante degno di nota che i loro racconti non sono coerenti
con le versioni teocritee della triste fine di Dafni in Id. 1 e 7, in cui Dafni muore perché (come
sembra) rifiuta di arrendersi all’amore o si strugge per amore di una ragazza, rispettivamente. In
contrasto, i racconti di Diodoro e Eliano sulla storia di Dafni con la ninfa hanno alcune somiglianze
con quello che leggiamo nell’ultimo verso dello pseudo-teocriteo Id. 8, in cui un bovaro di nome
Dafni (probabilmente da identificare con l’eroe bucolico) sposa felicemente una ninfa di nome
Naide (? Nais in inglese). Mentre Diodoro dice che Dafni stesso “inventò” la poesia bucolica e poi
racconta la storia del suo accecamento, Eliano afferma che la canzone bucolica fu cantata per la
prima volta come risultato dell’accecamento di Dafni e scelse ciò come contenuto, e aggiunge che
fu il poeta arcaico Stesicoro a “cominciare questo tipo di poesia”. Il significato di quest’ultima frase
è incerto: dovremmo ricavarne che Stesicoro per primo raccontò la storia di Dafni, o che fu il primo
a comporre poesia bucolica? Più in generale, l’affidabilità del riferimento di Eliano a Stesicono è
questione aperta. Alcuni critici sono disposti a credere che Stesicoro abbia trattato la storia di Dafni
(storia d’amore sfortunata e accecamento), o almeno che lo abbia menzionato in alcuni suoi
componimenti: a questo proposito, potrebbe essere significativo che Teocrito situa la consunzione
di Dafni sulle rive del fiume siciliano Imera, dato che questo dettaglio potrebbe essere considerato
un’allusione a Stesicoro e alla sua poesia su Dafni. Alcuni altri studiosi invece rifiutano la menzione
elianea di Stesicoro, sottolineando che le storie d’amore non sembrano avere spazio preminente nei
frammenti di lui pervenutici, e talvolta aggiungendo un argumentum ex silentio, cioè l’assenza di
qualsivoglia riferimento a Stesicoro nei saggi sugli “inventori della poesia bucolica” che precedono
gli scolii agli Idilli di Teocrito. Alternativamente, West suggerisce che il poeta “Stesicoro di Imera”
menzionato da Eliano dovrebbe essere identificato con lo sfuggente/ombroso Stesicoro Secondo di
Imera, il cui ditirambo “Il Ciclope” fu rappresentato nel 354 a.C.
Oltre a Dafni, altre figure archetipiche hanno trovato posto nel corpus teocriteo. Una di queste è il
mandriano Menalca, presentato come avversario di Dafni in due gare negli pseudo-teocritei Id. 8 e
9, La storia di Menalca, come raccontata dal filosofo peripatetico Clearco di Soli negli Erotica,
somiglia per certi versi a quella di Dafni:
Erifani, la poetessa lirica, si innamorò di Menalca mentre stava cacciando, e andò a
cacciare a sua volta. Vagò e errò tra i boschi delle montagne ... così che non soltanto i
più spietati uomini, ma anche le più selvagge bestie, piansero alla sua sofferenza,
perché percepivano l’illusione dell’innamorata. Dunque, dicono, compose poesie e
vagò nella natura selvaggia cantando la cosiddetta “canzone pastorale”, in cui
compaiono le parole “Alte sono le querce, Menalca”.
Ciò che leggiamo su Menalca negli idilli 8 e 9 non ha connessione con il racconto di Clearco dello
sfortunato amore di Erifani nei suoi confronti. Nonostante ciò, il fatto che lui e Dafni fossero uniti
nel corpus teocriteo, così come nel “Dafni” del drammaturgo ellenistico Sositeo, suggerisce che
erano concepiti come figure archetipiche rivali. All’interno del corpus di Teocrito troviamo anche
due figure fondanti della poesia “aipolic” (non trovo che cazzo vuol dire). La prima emerge
anonimamente in una canzone che Titiro presto eseguirà in una festa cittadina, l’ultima (chiamata
Comata) è nominata subito dopo da Licida in persona (Id. 7.83-89):
Lui (Titiro) canterà come il capraio fu una volta chiuso vivo in una grande cassa a
causa della malvagia spietatezza del suo re, e come le api giunsero dai prati alla cassa
odorosa di legno di cedro per nutrirlo di fiori teneri, perché le Muse avevano versato
dolce nettare sulle sue labbra. Comata benedetto, tu hai fatto esperienza di questi
piaceri; anche tu fosti chiuso in una cassa; anche tu fosti nutrito di miele e lavorasti
duro durante la primavera. Se solo tu fossi stato presente tra coloro che vivono nei miei
giorni, così che avrei potuto pascolare le tue belle capre sulle colline e ascoltare la tua
voce mentre sedevi facendo dolce musica sotto le querce o i pini, divino Comata.
Nei versi precedenti Licida aveva detto che il primo soggetto della canzone di Titiro sarebbe stata la
consunzione del bovaro malato d’amore Dafni sulle rive dell’Imera. Procede poi a predire il
secondo argomento di Titiro; da quanto riusciamo a capire dall’esprimersi ellitticamente di
Teocrito, qui allude a una storia riassunta in uno scolio ai vv. 78-79, attribuita allo storico Lico di
Reggio:
In una caverna delle Ninfe sul Monte Talamo vicino Turi ... un pastore regolarmente
sacrificò gli animali del suo padrone (master) alle Muse; arrabbiato per questo, il
padrone lo rinchiuse in una scatola per vedere se le dee lo avrebbero salvato. Dopo
due mesi aprì la cassa e trovò il pastore vivo e la cassa piena di favi.
Diversamente da Lico, Teocrito specifica che il mandriano salvato dalle api era un capraio, e dice
espressamente che era anche un poeta (82). È presentato come figura parallela a Comata, ora morto
e divinizzato, che Licida nomina nei versi seguenti: Comata fu chiuso in una cassa e nutrito dalle
api ed era un poeta-capraio. Un capraio mitologico chiamato Comata non è attestato altrove, e non
abbiamo modo di sapere se Teocrito abbia inventato questa figura o l’abbia presa da una tradizione
precedente. Al contrario, i componimenti del corpus teocriteo non parlano del bovaro Diomo che,
secondo Ateneo, inventò un tipo di canzone chiamata boukoliasmòs e fu menzionato da Epicarmo
in due dei suoi drammi. Nonostante l’assenza di riferimenti a Diomo nel corpus teocriteo, l’uso da
parte di Teocrito delle parole boukolikòs, boukoliàsdomai e boukoliastàs in connessione alla
canzone e alla musica è coerente con il significato di boukoliasmòs nel passaggio di Ateneo e
potrebbe segnalare n influenza di Epicarmo su Teocrito. Sappiamo poco o nulla sulle tradizioni pre-
teocritee sulle figure archetipiche fino ad ora discusse, che non sono di grande aiuto per determinare
le origini della poesia bucolica di Teocrito. Inoltre a questo proposito dobbiamo basarci su fonti più
tarde che, almeno nel caso di Dafni, possoo essere state parzialmente influenzate dalla tradizione
teocritea stessa. Anche se alcune di queste fonti rimandano diverse figure fondative in Teocrito ad
autori a lui precedenti, è ragionevole supporre che le loro controparti teocritee siano il risultato di
un sostanziale lavoro creativo di rielaborazione. Possiamo apprezzare tale lavoro negli Id. 6 e 11,
entrambi incentrati sull’amore di Polifemo per la ninfa del mare Galatea in Sicilia. Dall’Odissea
(9.170-542) in poi, Polifemo era stato considerato il pastore mitico per eccellenza. Euripide aveva
già dato importanza agli elementi bucolici dell’episodio omerico nel suo dramma satiresco “Il
Ciclope”, e Polifemo era diventato un soggetto popolare nella Commedia di Mezzo. Quello che
sappiamo del ditirambo “Il Ciclope” di Filosseno di Citera (circa 400 a.C.) suggerisce che esso
abbia influenzato non solo il focus erotico, ma anche altri aspetti specifici degli Id. 6 e 11 di
Teocrito. Secondo il filosofo peripatetico Fenia di Ereso, Filosseno compose Il Ciclope mentre era
imprigionato nelle cave di pietra di Siracusa. Mostrò l’amore di Polifemo per Galatea, e gli fece
cantare una canzone d’amore con la lira (to the lyre, forse alla lira boh) e “consolarsi per il suo
amore per Galatea e dire ai delfini di riportarle che stava guarendo il suo amore con le Muse”. Se
dobbiamo fidarci della testimonianza dello scrittore tardo antico Sinesio, nel Ciclope di Filosseno
Odisseo suggerisce a Polifemo di fingere indifferenza nei confronti di Galatea, anticipando la finta
nonchalance del ciclope in Teocrito 6.21-40. Il trattamento teocriteo di Polifemo, modello primario
per i suoi personaggi bucolici, ci fa capire che le origini della poesia bucolica teocritea non
dovrebbero essere riportate a nessuna specifica tradizione o figura archetipica, ma piuttosto a un
ampio spettro di tradizioni e generi letterari che Teocrito rielaborò in maniera altamente creativa. A
questo proposito, Omero è naturalmente un punto di partenza essenziale. La descrizione dello scudo
di Achille nell’Iliade (18.478-607), con le sue scene di canzoni, danze, e vita pastorale e rurale, ha
influenzato profondamente la poesia bucolica, e ha avuto un profondo impatto sulla descrizione
della coppa di legno in Id. 1.27-60. L’ambientazione pastorale di molte similitudini ilidiache
anticipa caratteristiche teocritee. L’Odissea ha offerto a Teocrito numerosi elementi di ispirazione:
l’Isola della Capra, Polifemo ecc. Il proemio della Teogonia di Esiodo, in cui le Muse gli appaiono
mentre pascola le pecore sul monte Elicona, gli danno una verga/bastone di alloro e lo ispirano
perché canti agli deii, ha stabilito il modello per la figura bucolica del poeta-mandriano e ha
influenzato la descrizione teocritea di come Licida da a Simichida il suo bastone di olivo, dopo che
entrambi hanno cantato le loro canzoni. Il motivo esiodeo dell’incontro del poeta con le Muse viene
apparentemente arrichito di un intreccio bucolico nella storia dell’incontro fra il giovane Archiloco
e le Muse mentre portava una mucca in città, come riportato in un’iscrizione di metà III sec.
dell’Archilocheion di Paros: secondo questa storia, le Muse travestite scherzarono con il ragazzo e
fecero sparire la mucca, ma al suo posto Archiloco trovò la lira della poesia. Tutta la tradizione
poetica greca è presente nelle descrizioni teocritee dei loca amoena. Anche l’ambientazione idillica
della conversazione di Socrate con Fedro nel “Fedro” di Platone anticipa il paesaggio idealizzato di
Teocrito. Nella scena d’apertura del dialogo, Socrate incontra Fedro nella periferia di Atene e
cammina con lui nella campagna. Qui Socrate focalizza l’attenzione sulla bellezza della macchia
sulle rive dell’Ilisso dove, come suggerito da Fedro, si riposano a mezzoggiorno (descrizione tra
pag. 138-139). L’ambientazione del Fedro è particolarmente significativa per la poesia bucolica
perché forma lo sfondo ai discorsi sull’amore, così come molti loca amoena teocritei costituiscono
lo sfondo di canzoni e discorsi sull’amore. Inoltre più avanti Socrate dice che le Muse hanno
trasformato in cicale alcuni uomini che cantavano così incessantemente che si dimenticavano di
mangiare e bere: questa esplicita associazione di cantori e poeti all’insetto musicale per eccellenza
anticipa l’interazione tipicamente teocritea tra i suoni della natura e canzoni e musica umane.
Traendo da queste varie fonti, così come probabilmente da tradizioni sulle canzoni rustiche
siciliane, Teocrito ha composto la sua poesi bucolica, che arrivò a essere considerata un genere
nuovo, a sè, inventato da lui. Alcuni elementi ricorrenti caratterizzano la poesia bucolica nel corpus
di Teocrito: nella maggior parte dei carmi, mandriani che cantano e suonano si scambiano canzoni
in maniera competitiva o amichevole, oppure producono performances solitarie; l’ambientazione
più usuale è una campagna idealizzata in cui la natura talvolta risponde alle azioni umane con i suoi
suoni e paesaggi; l’amore, soprattutto se non corrisposto, è la principale preoccupazione del
mandriano e costituisce il principale argomento delle sue canzoni; i personaggi bucolici vivono in
un mondo “chiuso”, in cui ricorrono gli stessi nomi, e agisce un gamma limitata di dei (Pan, le
Ninfe ecc). Le parole boukolikòs, boukoliàsdomai, e boukoliastàs compaiono in numerosi idilli
bucolici di Teocrito, sempre in connessione con la canzone e musica pastorale. Questo tipo di
utilizzo potrebbe attestare un’influenza di Epicarmo su Teocrito dal momento che Ateneo riporta
che il bovaro siciliano Diomo inventò una canzone pastorale chiamata boukoliasmòs e dice che
Epicarmo menzionò Diomo in due dei suoi drammi. Stando alla testimonianza di Ateneo, Teocrito
potrebbe avere tratto la sua terminologia bucolica da una tradizione siciliana di canzoni
“bucoliche”, non limitate ai bovari, ma estese a pastori e caprai, che avrebbero apparentemente
avuto un impatto sul poeta siracusano Epicarmo. L’uso specializzato della terminologia bucolica in
Teocrito ha avuto successo, ed è stato adottato anche negli id. Pseudo-teocritei 8 e 9. Boukoliastài è
il titolo trasmessoci di questi due componimenti e dell’idillio teocriteo 6, ed è uno dei titoli
trasmessi di 4 e 5. La più antica collezione conosciuta delle poesie di Teocrito, messa insieme dal
grammatico Artemidoro di Tarso nella prima metà del I sec. a.C., era probabilmente chiamata
boukolikà, come si può dedurre dall’epigramma introduttivo di Artemidoro trasmesso
nell’Antologia Greca sotto il titolo “Per la messa insieme delle poesie bucoliche”. Riguardo ai
“marcatori bucolici”, l’Idillio 1 risalta nel corpus teocriteo. Questo è il passaggio in apertura,
pronunciato dal pastore Tirsi dell’Etna e un capraio non nominato:
Tirsi: E’ una cosa dolce la musica sussurrata di quel pino in primavera, capraio, ed è
dolce anche il suono del tuo piffero; dopo Pan prenderai il secondo premio. Se dovesse
scegliere la capra con le corna, tu avrai la capra femmina, e se ha la capra femmina
come premio, il figlio va a te. La carne del capretto è buona prima di mungerla.
Capraio: E’ più dolce l’emissione della tua canzone, pastore, che quella cascata che
scende dalla pietra in alto. Se le Muse dovessero prendere la capra come loro dono,
avrai un agnello cresciuto nella stalla, se invece a loro piacesse avere l’agnello, sarai
il prossimo e porterai via la capra.
Tirsi sottolinea che il fruscio del pino è allo stesso livello del suono de capraio: in questo locus
amoenus i dolci suoni della natura ricordano la musica umana. Quindi Tirsi introduce il motivo dei
relativi meriti musicali e dei proporzionati premi “aipolic”, debitamente dando priorità virtuale a
Pan, dio tutelare del mondo bucolico. Il capraio ricambia il complimento di Tirsi in forma
intensificata: la canzone di Tirsi scivola (flows down) più dolcemente dell’acqua che scende dalla
pietra. Quindi il capraio riprende il motivo dei meriti e dei premi, adattandolo allo status di Tirsi
come capraio, e dando virtualmente la prima scelta alle Muse, le dee tutelari di cantanti e poeti. La
menzione dei premi è preparatoria dell’accurata descrizione della coppa che il capraio darà a Tirsi
alla fine del componimento, in cambio della canzone su Dafni. Inoltre, nonostante id. 1 ruoti intorno
alla performance solitaria di Tirsi, il passaggio in apertura allude allo scambio di canzoni di altri
idilli bucolici. Più avanti il capraio osserve che Tirsi è un rinomato cantore bucolico. Il pezzo per
eccellenza di Tirsi è una canzone sulle sofferenze di Dafni, che egli ha eseguito con successo in una
gara. Spinto fal capraio, Tirsi canta la stessa canzone, intercalandola con tre diversi ritornelli
indirizzati alle Muse della poesia bucolica (vv. 64, 94 e 127). Dopo che Tirsi ha commemorato la
consunzione e la morte di Dafni, le Muse dominano sia la fine della can zone che le ultime parole al
capraio. Tirsi dice che non solo le Ninfe, ma anche le Muse si preoccupano per Dafni: è “l’uomo
caro alle Muse”, il che vuol dire che una volta morto è diventato l’eroe della poesia bucolica. A
questo punto Tirsi dice che userà la coppa con cui è stato premiato dal capraio per offrire una
libagione del latte caprino alle Muse. Alla fine, utilizzando una dizione tipica dell’inno, dice addio
alle Muse, e che canterà di nuovo per loro una canzone ancora più dolce. Questo annuncio finale si
rifà ai complimenti iniziali che si era scambiato con il capraio sulla dolcezza del canto e suono di
entrambi: gli ultimi versi dell’Idillio sottolineano questo effetto di ring-composition. Performances
solitarie dominano altri Idilli bucolici del corpus teocriteo in maniera ancora più evidente e diretta.
Nell’Idillio 3 un capraio anonimo lascia le sue capre e va a cantare una serenata fuori alla caverna di
una ragazza di nome Amarillide. Le prime parole del capraio, “Sto per fare una serenata ad
Amarillide” (I’m going to serenade Amaryllis) qualificano il componimento come una versione
rustica e parodica del komos eminentemente urbano o del paraklausithyron. Qui Teocrito, come
sottolineato da Hunter, potrebbe essersi ispirato a un passaggio del Ciclope di Euripide, “in cui il
coro punzecchia Polifemo, che vuole partire con un komos”, e potrebbe anche ricordare un
componimento del liricista tardo-classico Licofronide, in cui un capraio annuncia il suo amore per
una ragazza. Il capraio teocriteo non osa entrare nella caverna, e desidera di potersi trasformare in
un’ape che vede volare al suo interno. Sta conservando una capra per Amarillide, e gliela darà se lei
lo accoglie. Dice che si riposerà contro un pino mentre canta. Per persuadere Amarillide le racconta
di numerose eroine e dee che si arresero all’amore, e non è soprendente che la maggior parte di loro
fu conquistatanda giovani uomini che erano mandriani o avevano a che fare con mandrie (Però
cedette a Biante dopo che il fratello Melampo recuperò il bestiame di suo padre, Afrodite ad Adone
mentre pascolava il suo gregge sulle colline, Selene a Endimione). Alla fine della sua serenata, nella
speranza di ottenere la compassione di Amarillide, il capraio sfrutta il motivo komastico del
thyraulia (dormire di fronte alla porta), in forma rustica. La polarità tra città e campagna, che
implicitamente domina nei komoi pastorali di Teocrito, diventa esplicita nel pseudo-teocriteo Idillio
20, un componimento fortemente influenzato dagli Idilli 3 e 11 di Teocrito. Qui il sentimento
amoroso è diventato amaro; un capraio anonimo si lamenta che Eunica, una ragazza di città, si è
rifiutata di baciarlo. Alla presenza di altri mandriani, celebra la sua stessa bellezza in termini rustici:
la sua barba è come edera, i suoi capelli come prezzemolo, la sua bocca è più morbida della
cagliata, e la sua voce è più dolce del miele. Afferma anche di essere in grado di suonare dolce
musica con la siringa (syrinx, flauto) e altri strumenti pastorali, e fa una lista di amanti divini di
caprai: Afrodite amante di Anchise e Adone, Selene di Endimione, Cibele di Attis, e Zeus di
Ganimede. Alla fine, prega ad Afrodite affinché Eunica non trovi l’amore nè in collina nè in città.
La più riuscita serenata bucolica di Teocrito è la canzone di Polifemo per Galatea nell’Idillio 11. La
canzone è preceduta da un riferimento gnomico da parte di Teocrito a un suo amico, il dottore
Milesio e poeta Nicia, in cui afferma che soltanto le Muse possono fornire un rimedio contro
l’amore, e dall’introduzione dell’exemplum mitico, in cui descrive il comportamento e lo stato
mentale di un Polifemo malato d’amore: dimentico delle sue pecore, era solito cantare la sua
serenata seduto su un’alta roccia mentre guardava il mare. Qui la superficie del mare sta per la porta
chiusa che separa una ragazza di città dal komastes. Nel corso della sua canzone, Polifemo cerca
ingenuamente di convincere Galatea che i pastori vivono una vita molto migliore delle ninfe; egli si
lamenta che lei lo fugge “come una pecora fugge un lupo”, con una riconoscibile prospettiva
pastorale dunque. Per attrarre Galatea si vanta delle sue mille pecore, delizioso latte, e rifornimenti
di formaggio, e afferma di essere il migliore suonatore di piffero (the best piper) tra i Ciclopi. Vuole
che Galatea idealizzi la sua caverna come locus amoenus per eccellenza, con allori, cipressi, edera,
una vigna. Vorrebbe portare dei fiori a Galatea sott’acqua, ma il desiderio del suo cuore è che lei
possa lasciare il mare e curarsi delle pecore, mungere, e fare il formaggio insieme a lui. Come la
canzone del capraio in Id. 3 la serenata di Polifemo si chiude con una nota severa, in cui egli decide
di tornare alle sue solite occupazioni. La sua identità pastorale emerge umoristicamente
nell’espressione proverbiale che adotta per convincersi che farebbe meglio a guardare piuttosto a
una “ragazza della terraferma”. Polifemo e Galatea sono ancora il soggetto dello scambio bucolico
“prompt and response” (richiesta e risposta?) descritto nell’Idillio 6. Il componimento si apre con
un passaggio narrativo che presenta i due cantanti e l’occasione:
Dameta e Dafni il capraio una volta spinsero le loro greggi insieme nello stesso luogo,
o Arato. Uno di loro aveva una faccia lanuginosa, l’altro una barba non
completamente sviluppata. Seduti tutti e due presso una fonte, alla metà d'una giornata
estiva cantavano così. Cominciò Dafni, poiché per primo si poneva in gara.
Lo stato delle cose fra Polifemo e Galatea è radicalmente cambiato rispetto all’Idillio 11, dal
momento che ora Polifemo finge indifferenza nei confronti di Galatea per attrarla. In questa
canzone, Dafni rivolge l’attenzione del Ciclope ai tentativi della ninfa di ottenere il suo interesse
mentre egli siede e suona il piffero. Dopo un verso narrativo di transizione, comincia la canzone di
Dameta. Impersona Polifemo, che spiega la sua strategia e sottolinea che Galatea fissa in maniera
seccata le sue caverne e greggi dal mare. Lo scambio di canzoni termina in armonia: nessuno vince
e nessuno perde. Questo modello “prompt and response” si applica anche al contesto bucolico dello
pseudo-teocriteo Idillio 9; all’inizio, qualcuno invita Dafni e Menalca a competere nel canto. Dafni
canta la sua canzone, celebrando la sua vita e le sue risorse; a questo punto il verso in prima persona
che fa da transizione tra le due canzoni è inaspettatamente diegetico, invece che mimetico. Nella
sua canzone Menalca elogia la sua caverna siciliana, dicendo che sa come tenerla calda durante
l’inverno. Alla fine, colui che aveva spinto per la gara dice come abbia premiato entrambi i cantori,
e ripete una canzone che lui stesso aveva cantato in quella stessa occasione. Particolarmente
interessante è l’utilizzo della terminologia “bucolica specializzata” in questo componimento:
all’inizio la voce parlante invita Dafni a cantare con le parole “canta un canto pastorale, Dafni”.
Questa terminologia ricorre anche in alcuni Idilli bucolici che si avvicinano a un modello di
“schermaglia”, per il quale la gara canora assume una forma amebea. Questo tipo di struttura è più
evidente nell’Idillio 5, ambientato nell’Italia meridionale, vicino alla città di Turii, e caratterizzato
dall’attitudine particolarmente aggressiva dei due competitori, il capraio Comata e il pastore
Lacone. All’inizio dell’idillio, ciascuno accusa l’altro di aver rubato le sue proprietà; Lacone sfida
Comata a una gara canora, e i due mettono in palio con acrimonia un agnello e un maschio di capra,
rispettivamente. Con numerosi insulti, iniziano una sorte di “pre-agone” amebeo su dove la gara
debba svolgersi: ad esempio Lacone dice che preparerà una grande coppa/scodella (bowl) di latte
per le Ninfe, e Comata risponde che preparerà otto secchi di latte per Pan. Alla fine ciascuno
conserva il rispettivo posto, competendo da là. Quando nominano il taglialegna Morsone come
giudice, Lacone gli spiga così la situazione: “competiamo per vedere chi sia migliore nel canto
pastorale”. La gara vera e propria prende la forma di uno scambio di distici improvvisati, con
Comata che canta per primo e progressivamente stabilisce i temi, gli argomenti. Il componimento
termina con la vittoria di Comata, che si gode pienamente il suo trionfo. La struttura dell’Idillio 5 ha
influenzato lo pseudo-teocriteo Idillio 8, che è apparentemente ambientato in Sicilia. Il
componimento si apre con un passaggio narrativo che descrive l’incontro tra Menalca e Dafni e la
sfida del primo. I versi successivi rappresentano l’offerta, da parte di entrambi, delle siringhe come
palio e la loro scelta di una capra anonima come giudice. Un altro passaggio narrativo introduce la
gara canora, rendendo chiaro che il ruolo principale è stato assegnato a Menalca; la gara prende la
forma di uno scambio “cut and thrust” (schermaglia, scontro) di quartine elegiache, e dopo una
transizione narrativa di due versi prende invece quella di scambio “prompt and response (richiesta e
risposta?) di otto esametri ciascuno, con l’interposizione di un verso narrativo. Alla fine il narratore
esterno riporta che il capraio-giudice aveva lodato Dafni per la sua voce dolce, e dato a lui il
premio. L’Idillio 4, anche se non contiene una gara canora, è formalmente simile al 5 nel fatto che
drammatizza un dialogo fra Batto (probabilmente un capraio) e Coridone, che sta guidando il
bestiame di Egone. La conversazione avviene in un luogo dell’Italia meridionale vicino alla città di
Crotone, e passa da un soggetto bucolico all’altro. In contrasto con l’idillio 4, il pseudo-teocriteo
idillio 27 drammatizza uno scambio amebeo. Nella forma trasmessaci, il componimento è
incompleto nella parte iniziale: probabilmente si apriva con una introduzione narrativa. Il nostro
testo contiene un lungo dialogo in sticomitia tra un bovaro di nome Dafni e una capraia,
rappresentando la seduzione di quest’ultima a opera del primo: tra le altre cose Dafni invita la
donna a venire sotto gli olmi e udire il suono del suo flauto (piping). Infine, il verbo bukoliàsdomai
e l’aggettivo boukolikòs si riferiscono alla giustapposizione di due canzoni indipendenti nell’Idillio
7, il componimento di Teocrito maggiormente programmatico e autoriflessivo. L’idillio è
ambientato a Cos e narrato dal poeta Simichida, un personaggio immaginario rappresentativo, per
molti aspetti, dell’autore. Mentre cammina a mezzogiorno con alcuni amici dall’isola di Cos verso
la festa del raccolto per Demetra in campagna, incontra il poeta-capraio Licida. Simichida si
complimenta con lui per la sua fama universale come suonatore di flauto, e confidando nel proprio
talento lo invita a una performance di canzoni. Licida loda Simichida per le sue preferenze poetiche
e introduce le loro performances. Licida canta un propemptikon per la sua amata Ageanatte che ha
recentemente composto. Simichida annuncia che avrebbe cantato la migliore delle canzoni che le
Ninfe gli avevano insegnato mentre si occupava del suo bestiame sulle montagne. La canzone che
esegue si focalizza sull’amore non ricambiato del suo amico Arato per Filino. Licida dà a Simichida
il suo ramoscello di olivo selvaggio come premio per il suo talento poetico e va via. Simichida e i
suoi amici raggiungono la fattoria in cui si svolge la celebrazione; dopo aver parlato del vino
fragrante bevuto in quell’occasione il narratore Simichida si rivolge alle Ninfe Castalian? (non so
cosa vuol dire) e chiede loro se fosse simile al vino procurato da Chirone per Eracle nella cava di
Folo. Alla fine il narratore, adottando una voce quasi innodica, dice che desidera prendere parte a
un’altra festa del raccolto per godere nuovamente del favore di Demetra. L’ambientazione della
celebrazione descritta nella parte finale dell’Idillio è il più famoso dei loca amoena di Teocrito (vv.
135-146).

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