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STORIOGRAFIA 11 MARZO

ECATEO e i LOGOGRAFI
Cominciamo a vedere il lungo cammino che la cultura greca ha compiuto per giungere fino a noi. Il chiedersi cosa è
successo in passato e quale sia il suo rapporto con noi non è immediato, ma ci si arriva dopo determinate conquiste
culturali, determinate tappe, dopo le quali ci si rende conto perché il passato è importante, perché ci interessa, perché
noi siamo il prodotto culturale del passato. La storiografia è invenzione greca, e quasi sempre è l’attività di una singola
persona che non ha dietro mandanti, committenti come sovrani i quali richiedono una determinata impostazione. È
attività individuale e libera che scaturisce dalla curiosità sulle proprie radici. Questa invenzione giunge a maturazione
verso il 500 a.C., solo 10 anni prima la prima guerra persiana. Il secolo d’oro della cultura greca è il V secolo, perché in
questo secolo si verificano le tre grandi innovazioni per cui la Grecia è nota ancora oggi: le guerre persiane, la guerra
del Peloponneso e la diffusione del sistema democratico. La storiografia viene inventata a Mileto, sulle coste dell’asia
minore, che si vantava dire essere una colonia ateniese, proprio nel periodo in cui c’era lo sbandamento dei regni
micenei. Viene fondata da Ecateo, che scrive la prima opera che possiamo considerare degna di appartenere al genere
storico, perlomeno per come lo consideriamo noi. In quello stesso momento a Mileto viene fondata la filosofia: Talete
era concittadino di Ecateo e probabilmente si conoscevano e chiacchieravano; negli stessi anni viene inventata anche
la medicina scientifica, ovvero lo studio dell’anatomia umana e quindi delle malattie non fatto sulla base della
semplice empeiria, esperienza, ma su basi sicure, fondate. Se voglio curarmi un raffreddore posso prendere un
medicinale apposito che si basa su conoscenze di chimica e fisiologiche molto complesse, oppure posso rivolgermi a
mia nonna che mi suggerisce di fare i suffumigi assumendo dei vapori. Mia nonna probabilmente non saprebbe dirmi
perché la cosa funzioni, ma quello che lei sa è che il sistema funziona. Medici ce n’è stati anche prima, ovviamente, ma
tutti erano semplicemente dei curatori con erbe e procedimenti basati sull’esperienza; si era visto che funzionavano e
venivano utilizzati. Poi ci si chiede: perché funzionano? Quali sono i meccanismi innescati da erbe e sostanze, che
fanno sì che un organismo possa guarire o peggiorare? Si incominciano ad accertare leggi che regolano il
funzionamento del corpo umano. Il fatto che assumendo determinate sostanze si guarisce più o meno tutti, vuol dire
che tutti i corpi sono retti da determinate leggi sempre uguali, che le strutture corporee sono più o meno tutte uguali,
garantisce l’esistenza di terapie universali, che una volta accertate possano valere per tutti. Questi medici milesi
confidano nel fatto che le regole corporee sono uguali per tutti e per guarire un malato bisogna solo scoprirle, scoprire
cosa sia bene e male per me. Noi siamo immersi in una realtà fisica apparentemente inconoscibile, e su questo inizia a
riflettere la filosofia: una cosa che ci colpisce, di banale evidenza per tutti noi, è che la realtà è molteplice. Il professore
ha davanti a sé un microfono, una tastiera, un mouse, uno schermo; come fa a distinguere la funzione dei mille e mille
oggetti che compongono la realtà momento per momento, t.c. basta volgere lo sguardo e la realtà cambiano,
cambiano gli oggetti? Evidentemente perché c’è, dietro l’apparenza della molteplicità, qualche elemento
fondamentale che permette il riconoscimento della realtà. I primi filosofi ionici cercano di capire quali siano gli
elementi essenziali cui ricondurre la molteplicità della realtà – e questi possono essere acqua, aria, fuoco eccetera. In
questo contesto nasce la storiografia, e nasce dagli stessi presupposti: i primi storici vogliono cercare di indagare le
leggi che regolano l’agire umano, e quali sono i rapporti tra cause, avvenimenti e conseguenze. Una difficoltà specifica
che incontra Ecateo e quelli come lui che si avventurano nello studio del passato è il fatto che il passato era, per i
greci, un insieme di conoscenze, di fatti, tramandati sempre con una forza tale da essere quasi indiscutibili. Quello che
si sapeva era una serie di storie sui rapporti tra uomini e dei, come la guerra di troia, le fatiche di Eracle, e tutta questa
massa di racconti, di miti, costituiva l’insieme di conoscenze assolutamente saldo e inattaccabile che andava solo
recepito. Gli storici si ribellano: il passato può essere approfondito, non ci è solo consegnato, perché nella tradizione ci
sono elementi veri e falsi, e bisogna soprattutto distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Anche nello
studio per un esame bisogna comprendere quali siano gli eventi importanti e il legame reciproco, perché solo
comprendendo gli eventi importanti si mette nel giusto contesto quello che si deve imparare, anche le cose meno
importanti. Se si mette tutto sullo stesso piano è la fine. Sottolineare significa ricordarsi solo le cose veramente
importante, ma sottolineare tutto innanzitutto confonde l’occhio, ma soprattutto vuol dire che tutto è importante allo
stesso modo. Capire che ci sono delle cose più importanti non in natura – non esistono fatti che hanno etichetta di
fatto storico, perché la qualifica di storico la diamo noi a un determinato fatto se ci spiega in maniera esaustiva quello
che stiamo cercando – e dunque se in un documento troviamo una nota marginale che però ci fa capire una serie di
fatti, questa è una nota storica importante. Gli storici greci innanzitutto cercano di capire cosa è venuto e cosa è
venuto dopo, perché il rapporto causa-effetto è innanzitutto cronologico, la causa viene prima dell’effetto. Nei miti
spesso invece un racconto non era collocato storicamente; Esiodo cerca di costruire un’opera chiamata Teogonia,
discendenza degli dei, proprio per chiarire quale dio è venuto prima e quale dopo; ci sono dei generati, ad esempio
Caos produce Tempo, che produce Zeus, che produce altri figli eccetera. Questa necessità di mettere anche in ordine
cronologico i fatti è una impresa per nulla secondaria per due ordini di ragioni. Sia perché senza conoscere la
collocazione di un determinato evento non si comprende l’evento stesso perché non se ne comprendono le
conseguenze, sia perché nel mondo antico – ma fino al III secolo avanti Cristo – ogni città datava gli eventi della storia
del mondo con un sistema cronologico diverso. Esistevano tanti sistemi quante erano le città; ad esempio ad Atene il
nome della città era data dall’arconte eponimo in carica in quell’anno. Ad Argo, per esempio, la numerazione degli
anni era data dai nomi delle somme sacerdotesse del tempio di Era; insomma gli antichi avevano questa doppia
difficoltà:

1. Far ordine tra una massa di sistemi cronologici diversi tra loro (e alla fine si arriverà a un sistema di
sincronizzazione, le Olimpiadi, e degli autori, i cronografi, si occuperanno di tradurre le date locali in questo
sistema unico; ma bisogna arrivarci a capire che una cronologia è fondamentale il passato;
2. Mettere le cose in ordine cronologico.
Costa da piccolo, 3-4 anni, faceva grandi passeggiate col nonno materno fuori dal paesino del nonno, dove vedeva
grandi palazzi nobiliari abbandonati, su cui crescevano erbacce eccetera. Loro passavano attorno a queste vestigie di
antiche costruzioni, e lo attirava uno di questi palazzi, chiedendo al nonno quando fosse stato costruito, e il nonno
rispondeva: “nei tempi antichi”. Costa, tignoso già da allora, si domandava: antico che vuol dire? Quanti secoli? Prima
di Gesù? Il passato, per come lo presentava il nonno, era semplicemente qualcosa di antico. Ma quando si diventa
adulti, se si rimane al concetto che certe cose sono antiche e basta, si rischia di far la figura di certi personaggi che se
ne escono con svarioni improbabili. Per questi individui tutti i secoli sono appiattiti su una sola dimensione.

Questo nuovo genere letterario dello studio del passato, la storiografia, avviene in tempi recenti ma ha avuto una
lunga gestazione. Come tutte le innovazioni dell’umanità, ha avuto un periodo di gestazione in cui ne sono state poste
le premesse; anche nelle scienze per arrivare a determinate scoperte è necessario che l’insieme delle scienze avanzi
fino a un certo punto, punto in cui la scoperta diventa possibile. Non è possibile quasi mai che una scienza arrivi a un
punto particolarmente avanzato se le altre scienze sono rimaste indietro; una innovazione è possibile solo se c’è il
contributo di tante scienze diverse, di tanti settori diversi. L’ultimo teorema matematico di Fermat, un matematico del
Seicento che in realtà era un magistrato di professione, coltivava genialmente la matematica da dilettante. A margine
di un determinato testo scrisse un teorema in cui afferma: “io ho trovato una straordinaria dimostrazione di questo
teorema che però non sta nello spazio di questo margine”. Lui dice che ha la dimostrazione di questo teorema, ma
non sta sul margine della pagina. Questo teorema si presenta in una forma semplicissima e chiarissima, ma nessuno
fino ad oggi era stato in grado di dimostrarlo: la matematica ha la caratteristica di poter raggiungere certezze
definitive, cosa rarissima, ma nessuno era stato capace di farlo. Wines, matematico inglese, qualche anno fa è riuscito
dopo 10 anni a dimostrare il teorema di Fermat. Poi, quando questa sua dimostrazione era stata passata al vaglio dai
valutatori della rivista, si erano resi conto che c’era un problema nella dimostrazione, un errore, e Wines aveva dovuto
ricominciare tutto daccapo. Alla fine era riuscito a dimostrare il teorema, ma utilizzando una serie di procedimenti
scoperti solo nel Novecento, secolo in cui si è arrivati a grandissime scoperte. Ma allora Fermat come aveva fatto a
dimostrarlo con la matematica del suo tempo? Oggi si pensa che in realtà lui credesse di aver dimostrato il suo
teorema ma ci fosse un problema dietro, dal momento che la dimostrazione è così complicata che solo la conoscenza
dei progressi del Novecento lo ha permesso. Wines ha potuto raggiungere il suo sogno solo utilizzando il sapere di
quelli venuti prima di lui, che avevano aperto nuove vie in campo matematico e gli avevano permesso di arrivare alla
sua conclusione. La storiografia è uguale. Complicatissima da dimostrare, da intuire, ma qualcuno ogni tanto fa il salto,
inventa la storiografia, perché qualcuno nel frattempo ha fatto dei passi intermedi portandolo al risultato finale. Come
mai Ecateo di Mileto fa questo passaggio finale, anche psicologico, per metter in discussione la tradizione? Perché lui
mette in discussione la tradizione, e non accetta passivamente tutte le cose che sono state trasmesse? Lui afferma di
voler scrivere la versione vera dei fatti così come è arrivato a pensarli.

Si diceva a proposito della forza della tradizione che i poemi omerici, Iliade e Odissea – composti il primo intorno al
700 a.C. e l’Odissea una 50 d’anni più tardi, coeva ai poemi esiodei – che hanno uno schema fisso, tipico dei poemi
epici, cioè il fatto che le storie che il poeta rappresenterà non sono sue, ma gli sono state trasmesse dalla dea, la Musa
della poesia.

1. Omero, Iliade, 1,1-7


“L’ira cantami, o dea, di Achille figlio di Peleo,
l’ira funesta che inflisse agli Achei infiniti dolori,

che tante anime forti gettò nell’Ade

di eroi, e li diede in pasto ai cani

e agli uccelli. Si compiva il volere di Zeus

dal giorno in cui la discordia aveva diviso

il figlio di Atreo, signore di popoli, e il divino Achille”.

2. Omero, Odissea 1, 1-5


L’uomo cantami, o dea, dai molti volti, che per tanto tempo

vagò dopo aver distrutto la città sacra di Ilio.

Vide le città e l’indole di molti uomini,

e molti dolori soffrì sul mare, nell’animo,

per procurare la vita a sé e il ritorno ai compagni”.

La tradizione insomma è un dono degli dei, un frutto della rivelazione divina, a cui gli uomini spetta solo ripetere
quello che è stato svelato dagli dei. Nell’Iliade però c’è anche un altro modo di concepire la tradizione: non solo i
grandi fatti rivelati, ma anche memorie familiari, individuali, non custodite dall’intera comunità ma dai membri di una
particolare famiglia. In generi queste famiglie sono nobili, che hanno antenati importanti di cui vogliono a tutti i costi
conservare il ricordo, anche perché le aristocrazie che sorgono in ogni città al posto degli antichi regni micenei sono
spesso imparentate tra loro, in cui gli antenati delle famiglie si sono conosciute e anche i discendenti sono amici, o
viceversa tra antenati c’era odio e tra i discendenti resta inimicizia. Vediamo ora un esempio

Iliade 6 119-236

“In mezzo ai due eserciti, avidi di lotta, si incontrarono Glauco figlio di Ippoloco e Diomede figlio di Tideo. Andarono
l’uno verso l’altro, e quando furono vicini parlò per primo Diomede dal grido potente: «Chi sei, guerriero, fra gli
uomini mortali? Non ti ho mai visto prima nella battaglia gloriosa; eppure sei superiore a tutti per il coraggio, tu che
ora affronti la mia lancia dalla lunga ombra: infelici i genitori di coloro che si oppongono alla mia forza! Se sei un dio
disceso dal cielo, io non voglio battermi con gli immortali. (...) Ma se sei un uomo mortale e ti nutri dei frutti della
terra, avvicinati e presto raggiungerai i confini della morte». Gli rispose il glorioso figlio di Ippoloco: «Grande figlio
di Tideo, perché mi domandi chi sono? Le generazioni degli uomini sono come le foglie: le fa cadere il vento ma altre
ne spuntano sugli alberi in fiore quando viene la primavera. Così le stirpi degli uomini, una nasce, l’altra svanisce. Se
però vuoi sapere anche questo, se vuoi conoscere la mia discendenza, te la dirò, a molti essa è nota. Nella valle di
Argo, ricca di cavalli, vi è una città, Efira, e qui viveva il più astuto fra gli uomini, Sisifo figlio di Eolo; egli ebbe un figlio,
Glauco, e Glauco generò il nobile Bellerofonte a cui gli dei donarono forza, grazia e bellezza (...). Tre figli la sua sposa
diede al forte Bellerofonte, Isandro, Ippoloco e Laodamia. (...) Io sono figlio di Ippoloco, da lui io discendo; fu lui a
mandarmi a Troia e mi comandava di essere sempre il primo, fra tutti gli altri il più forte, di onorare la stirpe dei padri
che a Efira e nella vasta Licia furono sempre i migliori. Questa è dunque la mia stirpe, questo il mio sangue». Così
disse, e fu lieto Diomede dal grido possente; conficcò la sua lancia nella terra feconda e rivolse parole  amichevoli a
Glauco, signore di popoli: «Sei dunque un ospite antico per me da parte di padre! Un tempo il divino  Oineo accolse il
nobile Bellerofonte nella sua reggia e lo trattenne per venti giorni. Si scambiarono l’un l’altro bellissimi
doni ospitali: Oineo offrì una splendida cintura di porpora, Bellerofonte una coppa d’oro a due manici. L’ho lasciata
nella mia casa quando sono partito. Non ricordo Tideo perché ero ancora bambino quando mi lasciò per andare a
Tebe dove l’esercito acheo fu distrutto. Io sono dunque per te ospite e amico in Argolide e tu in Licia, se mai io vi
giunga. Non incrociamo le lance fra noi, anche se siamo in battaglia; sono molti i  Troiani e gli illustri alleati che io posso
uccidere se un dio me li manda davanti o se li raggiungo io stesso; e molti sono gli Achei che tu puoi abbattere.
Scambiamoci invece le armi perché sappiano anche costoro che siamo ospiti per tradizione antica e questo è il nostro
vanto». Dopo aver così parlato balzarono entrambi dai carri, si strinsero la mano, si giurarono fede. Ma Zeus figlio
di Crono tolse il senno a Glauco che scambiò le sue armi d’oro con quelle di bronzo del figlio di  Tideo: il valore di cento
buoi contro quello di nove”.
Un giorno nella piana di Troia vengono a confronto casualmente, nella mischia, due personaggi: Glauco, un guerriero
troiano, e Diomede, figlio di Tideo – che dopo il ritiro di Achille nel primo libro è il più grande tra i guerrieri degli achei,
uomo piccoletto, compatto, molto aggressivo, non è alto e energumeno come Aiace ma molto concentrato, un
terrificante strumento di morte. Alcuni libri dell’Iliade sono i libri dell’aristia di Diomede, di come lui da solo semina
morte tra i troiani: combattano davanti alle mura di Troia e un giorno Diomede si trova di fronte a Glauco. Diomede ha
già compiuto un’impresa delle sue, e ha mandato in fuga, dopo averlo ferito, nientemeno che Ares, il dio della guerra:
Ares, combattendo dalla parte troiana, trova qualcuno di più valoroso di lui: se Ares ti giura vendetta perché ferito,
magari preoccupati. Glauco ha avuto un’idea molto poco furba, ovvero di scendere in campo con un’armatura tutta
dorata: mentre tutti hanno armature scure, bronzee, tra di loro spicca, per lucentezza, in una bella mattinata serena,
l’armatura di Glauco. È come se dicesse: “venite, venite, uccidetemi!”. Diomede mette le mani avanti: tu che sei così
luccicante, sei un dio o un uomo? Se sei un dio, preferirei evitare, visto come è andata con Ares. Omero fa dire a
Diomede: “Ma quanto sei coraggioso, Glauco!” Ma non perché Glauco abbia fatto qualcosa, solo perché ha osato
affrontarlo. Glauco risponde con un verso famosissimo, ripetuto da tantissimi poeti, fino addirittura a Leopardi e
Ungaretti: noi siamo come le foglie, dice Glauco, e cadiamo come il vento ma altre foglie spuntano su alberi in fiore a
primavera. Così le stirpi nascono e svaniscono. Allora Glauco racconta tutta la sua ascendenza, da Eolo, a Sisifo, a
Bellerofonte, Ippoloco, e poi appunto Glauco. Ippoloco lo manda a Troia e gli dice di onorare la stirpe dei padri.
Diomede allora è contento, perché vede che è un uomo: gli rivolge parole amichevoli, affermando che un tempo il
divino Oineo, nonno di Diomede, aveva accolto Bellerofonte nella sua reggia e i due si erano scambiati dei doni. Allora
Diomede dice a Glauco che saranno entrambi amici, e potranno essere reciprocamente ospiti; molti sono alleati e
nemici tra achei e troiani, ma loro no: si stringono la mano, si giurano fede, propongono di scambiarsi le armi. Glauco
allora scambia le armi con Diomede e ci perde sicuramente in armatura, ma ci guadagna in vita.

Da questo racconto emerge che i personaggi conoscono bene le loro genealogie, le relazioni che mantenevano. Gli
aristocratici dei poemi omerici tengono in poco conto la parte per cui combattono, ma le proprie famiglie sono ben più
importanti: se si incontra una persona che ha avuto una relazione con te, quella non è più tuo amico. Queste persone
tenevano accuratamente traccia della storia della propria famiglia, e la storia del dono, dei rapporti, degli ospiti, è
fondamentale dal punto di vista politico. Leggiamo un passo dell’Odissea, in cui Odisseo narra l’incontro con Polifemo.

Omero, Odissea 9, 105-119

“Di là navigammo in avanti, turbati nel cuore,

e alla terra dei Ciclopi ingiusti e violenti

giungemmo, i quali, confidando negli dèi immortali,

non piantano con le loro mani né arano,

ma tutto nasce senza semina e senza aratura:

grano, orzo e viti che recano

il vino nei grappoli, e che la pioggia di Zeus fa maturare.

Non hanno assemblee popolari né leggi,

ma vivono sulle cime dei monti più alti

in grotte profonde; ciascuno di loro è legge

ai propri figli e alle proprie donne, e l’uno non si cura dell’altro.

Davanti al porto sorge un’isola piatta,

non vicina né molto lontana dalla terra dei Ciclopi,

coperta di boschi, e vi nascono numerosissime capre

selvatiche”.
Prima di introdurre il famoso racconto dell’avventura con Polifemo, Omero ci spiega che dai Ciclopi tutto nasce senza
semina e senza natura, ma tutto avviene per natura, non hanno leggi o assemblee popolari; ciascuno è legge davanti ai
propri figli e alle proprie donne; ci sono capre selvatiche. Questo passo ha tre suddivisioni: nel descrivere questa terra
Odisseo fa tre osservazioni.

1. I ciclopi non praticano l’agricoltura, ma mangiano quello che trovano, quello che la pioggia di Zeus fa
maturare, e a differenza degli altri uomini, sedentari, non costringono la terra a dare del frutto ma fanno vita
seminomade e così trovano sempre da mangiare. Osservazione economica.
2. Non hanno assemblee popolari né leggi ma vivono su monti e grotte, e non vivono in città, né in
raggruppamenti statuali o urbani. Ognuno è isolato e nessuno si cura dell’altro, proprio il contrario di ciò che
è proprio degli uomini, e chi non vive in una polis, diceva Aristotele, o è una bestia o è dio. Osservazione
politica
3. Davanti al porto c’è un’isoletta piatta, con boschi e capre selvatiche. Osservazione geografica
Molti autori antichi si dedicano proprio a questo tipo di osservazioni sui popoli nel Mediterraneo.

Circa un paio di secoli dopo Ecateo c’è un autore chiamato eforo, Eforo di Cuma, che vuole fare il punto su tutta la
guerra di Troia, il primo elemento che per lui è indiscutibilmente storico. Eforo arriva a dire che tutte le informazioni
sulla guerra di Troia sono esposte da Omero, un poeta che reinventa la storia, e gli storici si devono comportare in
altro modo. Molto più in là, tra I e II secolo d.C., Plutarco di Cheronea, parlando di Teseo, mitico re ateniese che aveva
abbattuto il Minotauro e detronizzato Minosse, dice che gli storici sono soliti designare come terre sconosciute quelle
terre ai confini delle mappe, quelle su cui non ci sono informazioni. E lui si avventura in una terra incognita parlando di
Teseo, dal momento che l’oscurità su questa figura prevale sulla luce, la luce che col metodo storico possiamo portare
su di questa. Ieri parlavamo di Iliade e Odissea di 24 canti l’uno. L’Iliade è stata composta intorno al 700 a.C. ca, e
l’Odissea intorno al 650 a.C. Il primo parla dell’ira di Achille, un episodio dell’ultimo anno della guerra di Troia, il
secondo del periglioso e rocambolesco ritorno di Odisseo a Itaca. Questi poemi sono risultanti dall’assemblaggio di
moltissimi canti epici, nuclei risalenti forse fino addirittura all’età micenea, composti da una serie di poeti circolanti
che si spostavano di corte in corte e offrivano i propri servigi ai re e ai notabili del posto, per cui il poeta va in una
determinata corte e il re o l’aristos e attinge al patrimonio di racconti sulla guerra di Troia narrando quello che si
adatta all’ospite della reggia. I due grandi poemi hanno trovato una forma definitiva in un determinato momento
storico: un poeta di genio, d’istinto, deve aver fatto un assemblaggio di racconti rendendo l’Iliade una narrazione –
non sempre coerente – ma di grandissimo valore di poetico, costruendo parti di raccordo e inserendo altri poemi. Un
altro poeta lo fa con l’odissea. I due poeti, che noi chiamiamo complessivamente col nome di Omero, nome parlante –
omerein vuol dire in greco “vagare, spostarsi, viaggiare”, esattamente quello che facevano questi poemi, oppure o mè
oron, colui che non vede, Omero era appunto un poeta cieco – non è esistito. A narrare la storia nei poemi non sono i
poeti stessi con le loro capacità ma la musa, gli dei, e gli autori che scrivono i poemi non sono che mediatori, strumenti
degli dei. Ieri abbiamo visto il famosissimo incontro sul campo di battaglia del libro VI dell’Iliade tra Glauco e Diomede.
Diomede chiede a Glauco quale sia la sua genealogia e Glauco prima dice che siamo di passaggio, come foglie sugli
alberi, e poi spiega tutta la sua genealogia, spiegando di essere discendente del famosissimo eroe Bellerofonte. Anche
nei poemi epici dunque c’è traccia di tutte le principali genealogie che tutte le famiglie aristocratiche dell’epoca
coltivavano sia per motivo di prestigio – come potremmo fare oggi per giusto qualche generazione – e gli esponenti
delle famiglie più illustri, come i Savoia, arrivano fino al medioevo; proprio perché nelle famiglie aristocratiche si è
sempre tenuto conto degli antenati, perché il prestigio di una famiglia non deriva solo dal potere politico o dal danaro,
ma anche dall’autorevolezza dell’ascendenza. Già gli aristocratici di allora tenevano conto degli antenati, e lo facevano
perché era importante anche, attraverso queste tradizioni, tenersi in contatto con le altre famiglie nobiliari che erano
al potere nel resto della Grecia. Questo incontro tra Glauco e Diomede finisce con Diomede che conclude: ma allora i
miei genitori e i tuoi genitori erano amici! Non ammazziamoci tra di noi, ma scambiamoci le armature. Lo stesso
Odisseo cita la consuetudine di andare a trovare gli aristocratici di cui era amico se non lui, almeno gli antenati erano
amici, e ci si scambiavano dei doni. Uno dei filoni da cui nasce la storiografia è la cosiddetta genealogia. Genos vuol
dire famiglia, stirpe, anche in senso allargato, e dunque la genealogia è la memoria scritta dei componenti della
famiglia anche nel passato e delle loro relazioni con altri individui altrettanto importanti. La storia è importante sia per
la cronologia, quindi la distanza tra me e i miei ascendenti e i loro avvenimenti, ed è resa più consapevole proprio dalle
loro memorie genealogiche: se il mio bisnonno ha partecipato alla guerra di Troia, e posso calcolare l’età di mio padre
e di mio nonno, posso collocare storicamente la guerra di Troia. Sarà proprio questo il metodo di Ecateo di Mileto per
approdare a un metodo storico più maturo. Ma per molti secoli le famiglie illustri orientano la loro sensibilità
attraverso lo studio delle genealogie familiari. Ma ieri abbiamo letto anche un altro passo, ovvero la famosa
descrizione che Odisseo, alla corte di Alcinoo, fa dell’isola dei ciclopi. I ciclopi sono esseri giganteschi con un occhio
solo, che si cibano ci carne umana. Odisseo entra nella caverna del ciclope e in quella caverna alcuni suoi amici
saranno divorati dal ciclope. A noi interessa il modo con cui è stata ripresa questa location della storia di Polifemo.
Uno dei probabili filoni che poi porteranno alla nascita della storiografia greca si lega alla nascita dei cosiddetti
portolani (parola medievale): ovvero delle descrizioni, inizialmente molto schematiche, poi più ricche di carattere
etnografico e geografico, che i naviganti usavano quando il mar Mediterraneo, dopo la crisi micenea, torna a essere un
mondo sconosciuto. Soprattutto i pionieri, quelli che per primi si avventuravano sul mare con dei veri e propri gusci di
noci (larghe ca 2 metri e lunghe 15-20 m, quindi delle barche) avevano la necessità di sapere innanzitutto dove trovare
acqua. La navigazione si svolgeva perlopiù costeggiando, senza andare troppo a largo – specie nei punti dove
prendere una via di largo era obbligatorio, come quando bisognava fare un salto dalla penisola greca alle coste
dell’Italia meridionale – ma normalmente ci si teneva vicino alle coste sia perché le imbarcazioni erano molto fragili –
e anche quando si passò a delle navi più consistenti, come le triremi, si usavano dei legni non perfettamente
stagionati, cosicché anche le navi da guerra successive, della guerra del Peloponneso o di Alessandro Magno, avevano
necessità di essere tirate a secco e capovolte. Stare troppo in mare significava che il legno non perfettamente
stagionato e calafato, ovvero chiuso negli interstizi dalla pece, si impregnava di acqua e le navi affondavano. Tutte le
sere dunque, o almeno una si e una no, bisognava tornare alla costa per far asciugare lo scafo. Questo rendeva
necessario sapere esattamente dove approdare, dove fare rifornimento d’acqua – perché le navi non erano molto
spaziose e non c’era posto per l’acqua potabile per molti giorni. Così i portolani, oltre a questo tipo di indicazioni su
approdi e corsi d’acqua, sugli scogli eventuali e simili, cominciarono ad annoverare anche annotazioni sul carattere
degli abitanti di un determinato luogo. Attenzione che questi sono cannibali! Che questi non gradiscono gli stranieri! O
al contrario, questi sono popoli amichevoli e gradiscono il commercio, eccetera. I portolani sono dunque testi molto
tecnici e adatti a scopi pratici, e col tempo vengono arricchiti di annotazioni sempre più ricche e diventano col tempo
vere e proprie opere letterarie, che possono essere lette anche a prescindere da qualsiasi scopo pratico. In questa
descrizione dell’isola di Polifemo Odisseo è molto attento a fornire particolari precisi, e non carica di troppe parole e
aggettivi l’avventura pur affascinante e pericolosa che aveva vissuto, ma dice cose precise. Ieri abbiamo visto che
questo testo è tripartito: “di là navigammo in avanti”, tipica clausola omerica usata spessissimo, e continua che
arrivano alla terra dei Ciclopi dove

1. I ciclopi non praticano l’agricoltura, ma mangiano quello che trovano, quello che la pioggia di Zeus fa
maturare, e a differenza degli altri uomini, sedentari, non costringono la terra a dare del frutto ma fanno vita
seminomade e così trovano sempre da mangiare. Osservazione economica.
2. Non hanno assemblee popolari né leggi ma vivono su monti e grotte, e non vivono in città, né in
raggruppamenti statuali o urbani. Ognuno è isolato e nessuno si cura dell’altro, proprio il contrario di ciò che
è proprio degli uomini, e chi non vive in una polis, diceva Aristotele, o è una bestia o è dio. Osservazione
politica
3. Davanti al porto c’è un’isoletta piatta, con boschi e capre selvatiche. Osservazione geografica
La prima osservazione costituisce forse il più importante elemento di alterità rispetto alle persone civili: lui stesso ad
Itaca, pur essendo il re, non si occupava solo di politica ma lavorava i campi con le sue mani. Lui stesso era un
agricoltore. L’ultima osservazione non si riferisce all’isola di Polifemo: che c’entra con tutto il resto? Prima Omero ha
giustamente introdotto l’ambiente geografico in cui si svolgerà l’avventura che sta per raccontare, e ok. Ma che
c’entra quest’isola, non lontana dalla terra dei ciclopi? Dice che ci sono moltissime capre selvatiche, e vale a dire: ci si
può trovare da mangiare. Le capre possono essere molto utile ai marinai che approdano in una terra lontana dalla
patria e devono far rifornimento di acqua, certo, ma anche di cibo, e quale cibo migliore della carne arrostita? Nei
poemi omerici il cibo, tanto dei grandi signori quanto del popolino, è sempre la carne arrostita. Nella Grecia di Platone
e Aristotele invece ci si cibava principalmente di verdure, e l’alimentazione era estremamente povera, si mangia la
carne 1-2 volte l’anno durante le feste religiose, in cui la carne non era arrostita ma bollita. Invece gli eroi omerici
fanno grandi mangiate di carne arrosto, e questo ci fa pensare che fossero anche più alti di statura perché si cibavano
meglio, mentre la dieta di vegetali non era proprio adatta a una vita avventurosa. La statura media degli eroi che
hanno combattuto le guerre Persiane, le Termopili eccetera doveva essere circa di 1 metro e mezzo: spartani, ateniesi,
non erano grandi colossi ma uomini molto piccoli, perché la loro alimentazione non consentiva uno sviluppo del corpo
troppo accentuato. Quando poi i romani si troveranno a competere con i vandali, i germani, popolazioni che si
nutrivano di carne descrivono in maniera piuttosto atterrita questi uomini alti, biondi, dagli occhi azzurri, mentre
l’ideale di bellezza del mondo romano è l’uomo di media altezza, moro e con gli occhi neri. Queste annotazioni sono
tipiche del genere del portolano: quando poi i portolani diventano una specie di descrizioni etnografiche e non solo
geografiche, finiranno per andare nelle mani non soltanto dei marinai ma anche di tutte le persone interessate a
conoscere cosa c’è oltre casa propria.

Andiamo adesso a un’altra tappa, ovviamente ne dovremmo citare moltissime, ma vediamo i passaggi essenziali di
questa lunga marcia di avvicinamento verso la storiografia. Esiodo fu considerato il secondo poeta dopo Omero. Il
primo posto è occupato da Omero, e lui è il secondo non solo per la qualità artistica dei poemi, ma anche per la qualità
morale. Esiodo era letto nelle scuole, e tutti lo conoscevano perché i suoi due poemi si studiavano a scuola e tutti lo
studiavano. Esiodo nasce in Asia Minore, a Cuma. Col nome di Cuma ci riferiamo nell’antichità a due località: una è
Cuma in Campania, quella in cui Annibale dopo la battaglia di Canne si fermò per far riposare le proprie truppe, e
l’altra è Cuma eolide, in Eolia, sulla costa dell’asia minore, terra popolata dai greci dopo il crollo della civiltà micenea. Il
padre di questo Esiodo era un commerciante internazionale, un tale relativamente ricco – relativamente perché
bisogna riferire la ricchezza sempre a una determinata epoca; siamo intorno al 650 a.C., contemporanei al poeta
dell’Odissea, e essere ricchi è sempre in rapporto ai propri tempi. Comunque era uno che stava bene, aveva proprie
navi e faceva attività di import-export soprattutto con la Grecia continentale. Poi però queste navi erano andate a
picco: le scarse conoscenze di meteorologia dei Greci facevano sì che spesso le navi andavano a fondo perché non si
era stati in grado di prevedere una tempesta o un cambiamento climatico. Quindi da una posizione di relativa
ricchezza economica Esiodo era sprofondato nella più nera povertà. Aveva molti debiti e non potendovi far fronte era
fuggito con la famiglia in Beozia, nella Grecia centrale. All’epoca era un posto remotissimo rispetto a Cuma in Eolia: è
come se oggi Costa per scappare dai creditori se ne andasse in Gabon. Il padre si era rifugiato dunque in un paesino
molto sgradevole della Beozia, Ascra, e il baby Esiodo aveva finito con il fare il pastore. Le famiglie ricche avevano
molte greggi e un Esiodo di 4-5 anni era stato avviato a una vita molto dura: doveva pascolare le greggi, starci sempre
attento, dormire anche all’addiaccio, stare sempre da solo, una vitaccia. Un giorno però Esiodo, mentre pascolava le
greggi sul monte Elicona – che è una collinetta in realtà – gli apparvero le Muse Olimpie. Le Muse sono le dee delle
arti, che gli fanno un certo discorso. Ancora una cosa: Esiodo compone due poemi, Le opere e i giorni, e la Teogonia,
da cui è tratto il seguente brano.

Esiodo, Teogonia 22-28

“Le dee che un giorno insegnarono a Esiodo il bel canto,

mentre pascolava le greggi sul santo Elicona,

per prime narrarono a me ciò che io narro,

le Muse Olimpie, figlie di Zeus egioco:

“Pastori selvaggi, meritevoli di disprezzo, voi che siete solo dei ventri:

noi sappiamo dire molte falsità simili alla verità,

ma quando vogliamo sappiamo dire anche cose vere”.

Esiodo è mosso dallo stesso intento degli storiografi: vuole mettere ordine su quale dio sia figlio di chi, vuole mettere
ordine nei miti del passato descrivendo la teogonia, la discendenza degli dei. Abbiamo all’inizio del poema il solito
schema: “cantami o dea”, uguale ai poemi omerici, il poeta è strumento. Ma le dee non si rivolgono solo a Esiodo, ma
a tutti i pastori “selvatici”, simili agli animali che custodiscono, in condizione ferina: “meritevoli di disprezzo” è proprio
“voi che non valete niente” in greco, molto più forte. Sono solo dei ventri, delle pance, gli importa solo di mettere
qualcosa sotto i denti. Che significa questa cosa? Queste Muse stanno dicendo a Esiodo che ciò che diranno, ovvero la
tradizione, i racconti su dei e uomini, quelli visti anche qui, possono essere falsità simili alla verità. Vale a dire: la
tradizione, ciò che viene tramandato, le memorie comuni sul passato, contengono molte falsità simili alla verità, ma
contengono anche cose vere. Le Muse non stanno dicendo che i racconti sono alcuni veri e altri falsi e loro
trasmettono un mix, dicono piuttosto che questi racconti a volte sono veri, a volte invece sembrano veri, ma sono falsi.
Potremmo tradurre che tali falsità non sono riconoscibili come tali, perché somigliano alla verità. Il passato delle
memorie mitiche appare come un complesso di racconti tutto vero, verosimile; ma di questo complesso alcune cose
sono effettivamente vere, altre lo sembrano soltanto; pertanto è ancora più difficile distinguere il vero dal falso,
perché il falso ha l’aspetto della verità. Esiodo dice insomma che è difficile distinguere il vero dal falso, perché il falso
non ci appare come tale, perché molto spesso ci appare come verosimile, pur non essendo vero. Chi vuole accertare
come siano andati realmente i fatti deve versare molto sudore per distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.
Ma parliamo ora di Ecateo di Mileto. Mileto è una città della Ionia, sulle coste dell’Asia Minore, popolata da persone
che parlavano un dialetto affine a quello ateniese. Milesi e ateniesi si intendevano alla perfezione perché il loro
dialetto era più o meno lo stesso, ed è quello che studiamo al classico. Si diceva persino che Mileto fosse stata colonia
ateniese. Dunque: Mileto è una città della Ionia che intorno al 500 a.C. era considerata la più grande, prospera e ricca
città del mondo greco. Era allora senza paragone più importante e ricca di Atene; in quel momento Atene stava
crescendo ma il primato economico e culturale erano di Mileto. In questi ultimi anni del VI secolo a.C. a Mileto
nascono medicina scientifica, filosofia e storiografia. Le città greche della costa dell’Asia Minore erano state per molto
tempo libere e indipendente, ma a un certo punto erano state conquistate da due grandi imperi orientali: prima il
regno di Lidia che occupava la penisola anatolica, la Turchia. Era un regno molto potente, non greco, ma aveva una
dinastia regnante ellenizzata, ovvero i re avevano non solo una grande simpatia della cultura greca ma versavano
offerte regolari ai templi greci, in particolari a Delfi e i greci sconfitti nel regno di Lidia erano stati trattati in modo
relativamente mite. Alla dinastia della Lidia c’erano personaggi assorbiti nel mito greco, come il re Mida, che
trasformava in oro tutto ciò che toccava. Gli dei avevano offerto a Mida di soddisfare un qualunque desiderio, e lui
aveva chiesto poter trasformare in oro tutto quello che toccava, ma così era morto di fame perché anche la pagnotta
si trasformava in oro. Pare il regno di Lidia fosse dunque molto ricco. Ma nel 546 a.C. il regno di Lidia soccombe a un
nuovo vicino molto più agguerrito e potente, comparso intorno all’inizio del VI secolo avanti Cristo. Nelle steppe
dell’Asia centrale c’era stato un grande re, Ciro, che aveva dato un assetto statale alle grandi tribù locali: la Persia. La
Persia, che grazie alle conquiste ci Ciro e dei successori, come Cambise, che aveva annesso l’Egitto, era diventata
sempre più potente. La Persia aveva fatto un solo boccone del regno di Lidia, col suo ultimo re, Creso, che alcuni
dicono ucciso, altri graziato proprio da Ciro. Le sorti della Grecia peggiorano. I sovrani della Grecia erano trattati in
maniera piuttosto indulgente dal regno di Lidia. Questo nuovo impero totalmente barbarico, totalmente non greco,
quando abbatte il regno di Lidia si prende anche il dominio sulle città greche che appartenevano al regno di Lidia, ma
per un impero così esteso che arrivava fino all’India queste città non contavano più niente. Erodoto insiste molto sul
fatto che Serse non sa nemmeno chi siano gli ateniesi, proprio perché nell’immenso impero persiano quattro città
greche erano assolutamente trascurabili. Le città greche erano dunque state sottoposte a una pesantissima
tassazione: si passa da una epoca di relativo benessere nonostante la sottomissione al regno di Lidia a un’epoca in cui
la pesantezza delle tasse porta molti alla rovina e al malcontento. Da qui la rivolta del 520 a.C. che le città della Grecia
orientale promuovono contro la Persia, capeggiata da Mileto: c’è una grande ribellione tra il 500 e il 499 a.C.; nel 494
c’è una battaglia a Glade, davanti alle coste di Mileto, vinta dai persiani che entrano a Mileto e per dare una
dimostrazione distruggono Mileto pietra su pietra. Qualche anno dopo i persiani prendono la decisione di punire
anche le città della Grecia continentale che avevano dato assistenza ai ribelli, in particolare ad Atene. Ci sarà una
prima grande spedizione del 492, finita male per i persiani perché nei pressi del monte Athos, nel nord della Grecia,
una tempesta fa colare a picco la flotta. Nel 490 tornano e quella sarà la Prima guerra persiana che si concluderà con
la Battaglia di Maratona.

Ecateo di Mileto vive in uno di quelli che gli storici moderni chiamano tempi interessanti, ovvero tempi interessanti per
lo storico ma non per chi ci vive: tempi di guerra, di trasformazione, di prova. Ecateo vive in una Mileto avanzatissima
dal punto di vista culturale, ma prossima alla distruzione. Leggiamo la voce che l’enciclopedia bizantina dedica ad
Ecateo di Mileto. Risale al XII secolo d.C. e noi la consideriamo l’opera più preziosa per tutti i classicisti, e soprattutto
per i grecisti, perché è un’enciclopedia vastissima, immensa, risultato di enciclopedie precedenti sempre più ampliate
che hanno portato nel XII a questa edizione. Sarebbe più corretto chiamarla dizionario enciclopedico diviso in voci che
ci dà dati su tutto il mondo antico: senza di essa conosceremmo meno della metà delle cose che conosciamo del
mondo antico. L’edizione critica attuale, della prima metà del ‘900, è in cinque volumi molto grossi. È chiamata in due
modi: uno è Suda, che è uno dei nomi con cui già gli antichi la citavano. Noi non sappiamo cosa vuol dire suda, ma
sappiamo che un titolo. A volta è chiamata anche Suidas, dove Suidas sarebbe l’autore dell’opera. Tra Suidas nome di
autore e Suda nome dell’opera è più probabile che sia vero il titolo dell’opera, Suda. È un’opera vastissima che
contiene delle voci, a volte molto lunghe a volte molto brevi, anche sulla maggior parte degli autori greci. A volte
contiene scarne informazioni di tipo biografico, sui genitori, epoca e opere, a volte invece c’è anche un elenco –
soprattutto per i poligrafi, autori fecondi – completo delle opere e a volte anche il numero di libri in cui erano
suddivise le opere. Tale enciclopedia è dunque data da uno stratificarsi di opere a partire dai registri alessandrini fino
all’ìultima mano, che porta alla costituzione dell’enciclopedia che noi abbiamo integralmente: fatto clamoroso, non è
un’opera frammentaria ma grazie a Dio è arrivata a noi. Ha una voce dedicata a Ecateo di mileto. Suda s.v. (sub vocem,
alla voce) Ecateo (FGrHist, Die Fragmente der griechischen Historiker, Felix Jacoby, più grande filologo classico di tutti i
tempi morto nel 1958, che in questa raccolta sterminata ha collezionato tutti i frammenti degli storici greci: o
frammenti papiracei o citazioni di autori successivi. Di tutti gli storici greci a noi noti, poco meno di 2000, Jacoby ha
raccolto tutti i passi citati o sulla vita o sulle opere. Sono numerati col numero dell’autore e col passo di quell’autore: T
è testimonianza, F è frammento; abbiamo infatti 1 T1 nel caso di Ecateo, ovvero 1=Ecateo, T1=testimonianza 1, dalla
Suda alla voce Ecateo):

Suda s.v. Ecateo (FGrHist 1 T1)

“Figlio di Egesandro, milesio, visse ai tempi di Dario [522-485 a.C.] che regnò dopo Cambise, mentre era in vita anche
Dionisio di Mileto, nella sessantacinquesima Olimpiade [520-517 a.C.]; fu uno storico. Erodoto di Alicarnasso lo
utilizzò, essendo più giovane. Ecateo fu uditore di Protagora. Fun il primo a scrivere una storia in prosa (…)”: Tre
opere: Periègesis tes ges, Perìodos tes ges, Genealogie.

Un autore di età ellenistica, Eratostene di Cirene, composte un’opera in due libri chiamata Olimpiadi, Olimpiades,
sincronizzava tutti i fatti storici più importanti avvenuti nella Grecia con le date locali con gli anni olimpici, rendendone
molto più facile la fruizione. Era una sorta di lunga tabella in colonne in cui da una parte c’era un determinato evento,
poi la datazione locale (se un avvenimento riguarda Atene si riporta l’arconte eponimo ad esempio) e poi l’equivalente
in anni olimpici. Qui la Suda dà una triplice indicazione: l’epoca di Dario, Dionisio di Mileto, la 65 olimpiade. In questa
traduzione c’è “visse”; ma il verbo greco è gegonen. A volte in greco è “visse”, a volte invece floruit, fiorì, mentre i
greci dicono che raggiunse l’akmè, il vertice. Gli antichi spesso non sapevano le date di nascita e morte anche di
grandissimi personaggi storici, però si sapeva più o meno l’epoca di vita e si tendeva a prendere un evento importante
di quel personaggio e considerarlo convenzionalmente la data di massima espressione di un personaggio. Questo
periodo era più o meno intorno ai 40 anni: quando un tale era fiorito, ad esempio, nel 444 a.C., si considerava il suo
anno di nascita ca 40 anni prima, quindi 484 a.C. Non è un esempio a caso, è così che si stabilisce la nascita di Erodoto:
di lui si sapeva solo che aveva partecipato alla colonizzazione di Turi in Calabria nel 444, e si era stabilito quello come il
momento della sua fioritura. Questo sistema lo troviamo anche in altre epoche e culture: non a caso “Nel mezzo del
cammin di nostra vita” sono i 35 anni nel Medioevo (il periodo di massima fioritura nel medioevo erano i 35 anni). Si
dà il nome del padre di Egesandro, dato incredibile se si pensa che passano ca 2000 anni da Ecateo alla composizione
della Suda. Da una parte però dobbiamo ricordare che la Suda è l’ultimo ampliamento di una serie di enciclopedie e
lessici precedenti, oppure questo potrebbe essere un autoschediasmo, ovvero una notizia ricavata dall’opera stessa di
un determinato autore, insomma un dato che non deriva da altre fonti ma viene tratto, a volte correttamente, altre
meno, dall’opera di un determinato autore. Questo potrebbe essere il caso: magari si leggevano ancora parti di
un’opera di Ecateo che cominciavano col nome del padre di un autore. In genere le voci riportano il genere letterario
cui si dedica un autore. Ma nel caso di Eratostene di Cirene, che scrive di poesia oltre alle Olimpiadi, ma anche di
matematica o astronomia: quando un autore ha trattato di opere appartenenti a vari generi letterari la Suda prende
quello principale. C’è poi un’altra notizia: l’opera di Ecateo fu usata da Erodoto di Alicarnasso, che era più giovane.
Ecateo fu uditore di Protagora: uditore in greco vuol dire in realtà allievo, ovvero che ne seguì le lezioni. Questa parte
dedicata dalla Suda ad Ecateo è particolarmente corrotta; in alcuni manoscritti si legge “Pitagora”, dicitura più
realistica dato che Protagora fu di molto successivo. Pitagora fu un filosofo di Samo la cui datazione si armonizza
meglio. La voce poi prosegue, ma ci sono essenzialmente tre opere note di questo autore: noi abbiamo però solo dei
frammenti, non leggiamo per intero le opere ma ne conosciamo i titoli. Lui scrisse 1 – o 2 – opere geografiche, e
un’opera storica, le genealogie. La prima opera geografica riporta Periègesis tes ges – con la g sempre dura – ovvero
“Periegesi della terra”. Periegeomai, in greco, indica “fare un viaggio in circolo”, vale a dire fare un viaggio che riporta
al punto di partenza. Perì in greco vuol dire attorno, intorno. Questa opera era un trattato in due libri intitolati in modo
diverso: il primo Europa e il secondo Asia, in cui Ecateo descriveva brevemente tutti i posti che uno avrebbe
attraversato facendo un giro da un certo punto a un altro. Nel caso di Europa lui partiva dalla Spagna, poi in Francia,
poi scendeva in Italia, poi risaliva, poi scendeva nella Penisola Balcanica, poi tornava in Grecia, percorreva tutte le
coste dell’Africa per poi tornare in Spagna. Le informazioni geografiche però erano ridotte all’osso: capire che è in due
libri, è già un’opera breve. Un libro è un papiro, che non è moltissimo, e questa doveva essere una descrizione di tutte
le località dell’Europa e dell’Asia necessariamente molto sintetica. Di quest’opera abbiamo molti frammenti perché un
autore tardo, Stefano di Bisanzio, del VII secolo a.C., scrisse un’opera biografica attingendo molti dati dalla Periegesi di
Ecateo. Si dice ad esempio il nome di una città, come vengono chiamati gli abitanti… ad esempio, in termini moderni:
gli abitanti di Ivrea vengono chiamati Eporediesi. Quindi si dice: il nome della località, il nome del popolo, etnonimo, e
poi un luogo vicino più noto. Ad esempio: Gallarate, vicino Milano. DI quest’opera abbiamo moltissimi frammenti
proprio perché citata da Stefano di Bisanzio, ma testi brevissimi, 1 o 2 righe. Poi: Perìodos tes ges. Odon è via, Perì
intorno; dunque un giro tutto intorno alla terra. Ma non può essere qualcosa di simile a Periegesis, non è un titolo
della medesima opera: oggi si pensa – anche se Costa ha delle riserve – che fosse una sorta di carta geografica acclusa
alla Periegesi. Dunque la Periegesi era uno scritto, e il Periodos era una raffigurazione grafica dello stesso contenuto.
Ipotesi suggestiva, perché Erodoto – storico delle Guerre Persiane che racconta anche la rivolta delle città dell’Asia
Minore e della distruzione di Mileto – dice che il capo della rivolta, Aristagora, sapendo che i greci non avevano da soli
la forza per sconfiggere i persiani, fece il giro delle città della Grecia continentale e in particolare a Sparta e Atene. Per
esprimere i vantaggi che i greci del continente avrebbero avuto dalla loro partecipazione alla guerra contro l’Asia,
utilizzò una cartina, mostrando quali terre potevano essere conquistate – le conoscenze medie di geografia erano
scarsissime – e lui si sarebbe servito di una carta per far vedere graficamente quali terre potevano essere conquistate.
Si dice infatti che questa era la carta redatta da Ecateo. La terza opera, per cui la Suda lo definisce storico, sono le
Genealogie, ovvero la storia delle principali famiglie del mondo greco. Ecateo, mettendo insieme le storie personali
delle famiglie al potere nelle principali città della Grecia, crea un’opera fondamentale. La Suda infatti non lo chiama
geografo, ma storico! Tuttavia lui era entrambe le cose. Si congettura inoltre, senza alcuna dimostrazione, che l’opera
geografica sia più giovanile, e le Genealogie più matura. Ma solo perché pensiamo che l’opera principale si scrive da
maturi. Può essere, ma Charles Dickens scrisse il suo capolavoro – secondo il professore – a 25 anni, il Circolo Pickwick.
Leggiamo un passo interessantissimo delle Storie di Erodoto, che ci fa capire come mai – anche se si tratta solo di una
speculazione – tra tanti scrittori proprio Ecateo fece quel passo decisivo nel dire: “la tradizione mitica greca non è
mescolanza di vero e di falso – come diceva Esiodo – ma in gran parte non ha alcuna consistenza”. Come fece Ecateo a
concepire l’idea che ciò che ci viene tramandato debba comunque essere vagliato dalla ragione?

Storie, 2, 143-144 (FGrHist 1 T2). Il secondo libro delle Storie parla dell’Egitto, e in particolare Erodoto parla di un
famoso santuario a Tebe – Tebe in Egitto, non in Beozia. Dice Erodoto: quando andai a Tebe e visitai questo famoso
tempio, essendo un greco abbastanza famoso, i sacerdoti di quel tempio cercarono di farmi lo stesso scherzetto che
avevano fatto con Ecateo. Evidentemente questi sacerdoti erano abituati a parlare con uomini colti della Grecia e,
avendo una cultura molto più antica, consideravano totali fesserie le storie dei greci. Insomma: Ecateo visita lo stesso
tempio, i sacerdoti gli chiedono chi è, e lui risponde che è un aristocratico e ha una famiglia illustre, e allora spiega la
sua genealogia. Lui esibisce tutta la sua genealogia, per 16 generazioni, e poi dice che il suo più antico antenato, il 16,
è il dio Apollo. I sacerdoti non gli dicono: che fesseria! Non è possibile che gli esseri umani discendano dagli dei! Non si
mettono a ragionare, ma lo fanno accomodare in una sala, dove sui due lati c’erano statue in legno colossali. Nel VI
secolo a.C. era in voga la scultura colossale, proprio perché si creavano delle statue colossali di legno che
rappresentavano i sacerdoti capi di quel tempio. Ognuna di quelle statue rappresenta il capo dei sacerdoti, e la
presidenza del tempio se la passano di padre in figlio i membri di una determinata famiglia, sempre quella. Allora dice:
queste statue rappresentano ciascuna, a partire dalla più recente, delle generazioni dei sommi sacerdoti. E glieli fanno
vedere tutti: ognuna delle statue è stata costruita mentre il sommo sacerdote è in vita.

Erodoto, Storie 2, 143-144 (FGrHist 1 T2)

“In passato il logografo Ecateo, che a Tebe aveva esposto la sua genealogia ricollegando la discendenza paterna a un
dio come sedicesimo antenato, i sacerdoti di Zeus si erano comportati come fecero con me, anche se io non avevo
esposto la mia genealogia: fattomi entrare nell’interno di un tempio mi enumerarono, additandoli uno per uno, dei
colossi di legno. In quel luogo ogni sommo sacerdote, mentre è in vita, colloca la propria statua. Mentre l contavano e
me li additavano, i sacerdoti mi spiegarono che ciascuno di loro era figlio di un padre in quella serie, e a partire da
quello morto più recentemente, me li mostrarono tutti fino al più antico. Ad Ecateo, che aveva esposto la propria
genealogia, ricollegandosi a un dio come sedicesimo antenato, avevano contrapposto le loro genealogie, non
ammettendo che un uomo possa nascere da un dio. Così gli opposero le proprie genealogie, affermando che ciascuno
di quei colossi era un piromi nato da un piromi, sinchè non gli ebbero mostrato tutti i 345 colossi, e non li facevano
discendere né da un dio né da un eroe. Piromi significa “uomo di valore”.

(144) Mi dimostrarono dunque che tutti quelli raffigurati dalle statue, e ben lontani dall’essere dei”.

Dunque Ecateo parla, mentre i sacerdoti hanno delle prove autentiche, concrete: le statue realizzate mentre il
sacerdote è in vita. Allora Ecateo si rende conto che lui, con la sua misera genealogia familiare di 16 generazioni, non
poteva competere con le 345 generazioni degli egizi. Si rende acconto, grazie a una prova materiale, che le discussioni
che c’erano in famiglia sulla loro genealogia erano fandonie prive di un fondamento di verità: se quelli dicono che
addirittura il più antico dei 345 non era figlio di un dio ma solo di un papà che nessuno conosce! Questo è lo shock che
porta Ecateo a ricredersi sulla consistenza della tradizione greca. Leggiamo ora l’inizio delle Genealogie. Noi
fortunatamente abbiamo, ed è cosa rarissima, veramente rara, l’incipit della primissima opera storica: secondo
Demetrio, autore del IV secolo a.C., l’inzio delle Genealogie era: “Ecateo di Mileto così narra: queste cose le scrivo
come a me sembra possano essere vere; infatti i racconti degli Elleni, a quanto mi sembra, sono molti e risibili”,
Ἑκαταῖος Μιλήσιος ὧδε μυθεῖται· τάδε γράφω, ὡς μοι δοκεῖ ἀληθέα εἶναι· οἱ γὰρ Ἑλλήνων λόγοι πολλοί τε καὶ
γελοῖοι, ὡς ἐμοὶ φαίνονται, εἰσίν. Ecateo di Mileto, in questo proemio, si distacca profondissimamente dalla
tradizione epica non solo perché è il primo a scrivere in prosa: lui sa benissimo di stare creando un nuovo genere
letterario, un nuovo modo di pensare il passato che non c’entra con la vecchia poesia epica, ma soprattutto scrive in
prima persona: è Ecateo di Mileto che parla, sono io, non c’è nessuna Musa né la voglio. “Così narra” in greco è
mytheitai, la radice è mythos, di mito. Tade grapho, os moi dokei alethea einai: come a me sembrano vere, non agli
altri. Oi gar Ellenon logoi polloi te kai geloioi, os emoi phainontai, eisin. Ripete ancora os emoi phainontai. Geloioi
significa: “fanno ridere”. Alcuni hanno pensato che polloi kai geloioi sia un’endiadi: ovvero che vadano insieme, sono
molti e perciò fanno ridere. Se su un determinato avvenimento ci sono più racconti, uno è vero e gli altri sono falsi, e
quindi fanno ridere. Ecateo di Mileto, dopo il trauma, dice: la tradizione fa ridere, e quindi bisogna trovare il modo per
capire come stanno le cose. La prossima volta vedremo che Ecateo è figlio del suo tempo e non dirà mai che la
tradizione fa schifo e bisogna ricominciare daccapo. Lui è tanto influenzato dalla tradizione che pensa che certe cose,
ridicole nella forma attuale, siano in realtà deformazioni di un racconto che all’origine era vero, un po’ diverso.
Quando la deformazione è avvenuta, allora sono sorti i logoi geloioi.

Abbiamo lasciato Ecateo a guardare i 345 Piromi del tempio egiziano in cui la sua povera genealogia di 16 persone è
assolutamente ridicola. Erodoto dice che anche con lui i sacerdoti avevano fatto lo stesso scherzo, e questo ci ha fatto
pensare che di questa avventura con i sacerdoti Ecateo stesso avesse parlato, all’inizio delle Genealogie. Noi abbiamo
il proemio, è vero, in cui lui in aperta contrapposizione con la tradizione epica dice che la tradizione è ridicola e
polivoca; per tre volte dice “io”, rimarcando il suo ruolo. Ma non abbiamo molte parti del poema. Non c’è nessuna
finzione con una Musa, non c’è alcuna pretesa di oggettività dettata dagli dei; Ecateo di Mileto spiega che lui è un
essere umano senza assistenza degli dei, ma ha capacità di ragionare, e spiega come sono avvenute le cose. Dopo
questo inizio folgorante Ecateo doveva inserire la narrazione di ciò che è successo a Tebe; è solo una congettura ma
senz’altro Erodoto ne parla per aver letto, non per aver ascoltato ciò che era successo. Erodoto non parla quasi di una
confidenza che gli era stata fatta, ma Ecateo stesso aveva parlato della sua figuraccia proprio per mostrare che i greci
sono troppo presuntuosi. La colpa di quanto è successo coi sacerdoti non è del povero Ecateo, ma della cultura di cui è
stato come tutti imbevuto. È probabile che questo passo decisivo fosse inserito subito dopo il proemio. Un’altra
differenza con la tradizione epica è che Ecateo sceglie una veste nuova per presentare il contenuto storico delle
genealogie: la prosa, non più il verso epico, l’esametro, verso per eccellenza che fino ad allora aveva veicolato le
memorie storiche; Ecateo cerca di distinguersi anche in questo per dire: il mio prodotto, la mia storia, è qualcosa di
completamente diverso. Erodoto ci racconta anche un altro fatto su Ecateo, altro passo interessantissimo. Nel 5 libro
delle Storie Erodoto parla della rivolta ionica, che nel 500 a.C. scoppia: tutte le città greche dell’Asia Minore si ribellano
alla Persia, che ha abbattuto l’impero di Lidia, dei vecchi padroni delle città greche sulla costa ionica, e queste città
erano finite nel calderone delle città dominate dal re di Persia. Nel 500 a.C. c’è una rivolta contro il re, gli insorti
chiederanno aiuto ai fratelli greci del continente, a rispondere saranno solo Atene e Eretria, che manderanno dei
contingenti in soccorso degli ioni. Quando nel 494 la rivolta sarà repressa nel sangue e Mileto sarà rasa al suolo, i
persiani si ricorderanno dell’aiuto di Atene e Eretria e vorranno punire le città con una grande spedizione. Qui, nel 5
libro, siamo all’inizio della rivolta, si deve ancora decidere cosa fare: a Mileto comanda Aristagora, il cugino del tiranno
della città, Estieo, il quale – ospite dei persiani a Susa – è in qualche modo prigioniero del gran re dei re Dario, che non
si fida di lui. È ospite d’onore ma non può andar via, è di fatto prigioniero. Prima di partire ha affidato il comando a
Aristagora, che ha avuto l’idea di una grande ribellione contro la Persia. Questo passo si riferisce a un momento in cui
si sta ancora decidendo, a Mileto, insieme ai capi delle altre città ribelli, cosa fare: ci ribelliamo davvero? Possaimo
vincere? La Persia era un impero immenso, di gran lunga più esteso ricco e potente dell’intera Grecia. Alcuni sono
entusiasti all’idea, altri si accodano perché non sanno che fare, altri sono invece prudenti. Prende la parola Ecateo. Il
fatto che Ecateo fosse stato invitato a questa riunione decisiva che alla fine portò alla ribellione, ci indica anche
l’autorevolezza di cui questo storico godeva: era considerato un uomo ragguardevole che in un momento decisivo
doveva far parte di quei pochi che avrebbero deciso cosa fare. In qualche modo opponendosi ad Aristagora, Ecateo
sconsiglia di ribellarsi. Ricordiamo che Ecateo aveva scritto anche una Periegesi del mondo abitato, una grande opera
geografica divisa in Europa e Asia, in cui descriveva anche le terre del re di Persia; Ecateo sapeva dunque molto bene
quanto fosse potente il nemico da sfidare. Probabilmente non tutti in quella riunione avevano una chiara
consapevolezza dell’estensione dell’impero persiano. La storia greca mostra che anche personaggi importanti avevano
scarse cognizioni geografiche, e qui siamo all’alba dell’età classica, in cui ci sarà la Guerra del Peloponneso. Durante
questa guerra ci sarà la famosa spedizione ateniese contro Siracusa: Tucidide insiste sul fatto che la gente normale
non aveva la più pallida idea di quanto fosse grande la Sicilia, e si avventuravano in un’impresa che forse non
avrebbero intrapreso con una cartina.

Erodoto, Storie, 5,36 (FGrHist 1 T3)

“Lo storico Ecateo in un primo momento sconsigliò di far guerra al re dei Persiani, elencando tutti i popoli su cui Dario
comandava e l’entità delle sue forze. Visto però che non riusciva a dissuaderli suggerì loro di provare a impadronirsi
del mare. E aggiunse che questo obiettivo non sarebbe stato raggiunto in nessun altro modo (già si sapeva, infatti, che
Mileto era debole militarmente): ma se avessero messo le mani sulle ricchezze consacrate da Creso di Lidia nel
santuario dei Branchidi, egli nutriva buone speranze che avrebbero conseguito il dominio del mare. Così essi
avrebbero messo a frutto quei beni e i loro nemici non avrebbero potuto rapinarli. Si trattava di ricchezze ingenti,
come ho già detto nel primo libro dei logoi. La proposta di Ecateo non prevalse; essi comunque deliberarono di
ribellarsi e inviarono uno di loro a Miunte, presso l’esercito che se ne stava all’ancora dopo la ritirata da Nasso, per
tentare di catturare gli strateghi imbarcati sulle navi”.

Ecateo fa il suo mestiere: spiega il potere di Dario. Quando poi parlerà della seconda guerra persiana, della battaglia di
Salamina, e il poeta Eschilo scriverà I persiani, in cui descriverà il ritorno triste in patria di Serse, figlio di Dario, il nuovo
gran re dei re. Anche Eschilo fa un elenco infinito dei popoli che compongono l’impero persiano, che era
sovranazionale: si parlavano centinaia di lingue, riuniva centinaia di popoli molto diversi tra loro. Era davvero una terra
sterminata con genti diverse, e si poteva andare avanti per ore a spiegare i popoli su cui Dario comandava e l’entità
delle loro forze. Ecateo dunque, quando vede che tanto si è deciso per la guerra, suggerisce l’unica speranza:
impadronirci del mare, imporre una talassocrazia, impedire ai Persiani di affacciarsi sull’Egeo. Era un’affermazione
sensata, ragionevole: si sarebbe così potuto almeno pareggiare la forza dei persiani con una forza sul mare, che
avrebbe perlomeno permesso ai rivoltosi di poter ricevere rifornimenti del mondo greco. Almeno così le città greche
sulla costa non sarebbero state assediate. La proposta di Ecateo dunque è la talassocrazia. Ecateo aggiunge che nel
santuario dei Branchidi, proprio a Mileto, c’erano tanti oggetti d’oro donati dal re Creso della Lidia. Suggerisce di usare
l’oro di Creso, perché se non lo usano i milesi, lo useranno i persiani. È una proposta molto ardita, molto spinosa da un
punto di vista religioso: questo era un po’ l’equivalente di prendere i gioielli della Madonna di Loreto, ad esempio, e
usarla per scopi profani. Ecateo fa cioè una proposta logica strategicamente: abbiamo ricchezze, tanto oro, possiamo
fonderlo, costruire navi, imporre una talassocrazia. È però una proposta scandalosa: significava fare un’offesa agli dei;
quell’oro non era stato destinato agli uomini, non potevano fruirne degli uomini, visto che Creso lo aveva consacrato
alla divinità. La proposta di Ecateo non prevale, ma ai nostri occhi è significativa: lui ormai, dopo il fatale episodio, si
sta comportando come una sorta di laico assoluto: dice: vabbè, sì, è roba degli dei, ma ci serve: usiamola. Gli altri non
hanno il coraggio di fare questa mossa: è un personaggio che ha abbandonato ogni scrupolo anche religioso, e pensa
in modo molto razionale, forse anche troppo per i suoi compagni di avventura. In che consiste il razionalismo di
Ecateo? Egli si oppone alla tradizione ricevuta, alla tradizione storica ripetuta, per una nuova tradizione fondata su
elementi razionali. Ecateo, che pure è il primo storico, il primo a rendersi conto che i racconti dei greci sono molti e
ridicoli, è anche lui figlio di quella tradizione. Non arriva al punto di dire che certi racconti sono totalmente falsi: lui
pensa che tutto ciò che ci viene dalla tradizione debba essere verificato perché in fondo c’è sempre un nucleo di verità
in ogni racconto. Ogni racconto può e deve esser vagliato, per vedere se può essere accettato. Non arriva a dire che ci
sono racconti veri, con un nucleo di verità che si è andato col tempo oscurando, e racconti totalmente falsi. Siccome
non si libera dalla tradizione, crede che anche nelle cose più incredibili c’è il modo di rendere l’incredibile credibile. Lui
usa il seguente metodo: scrive come le cose “a lui” sembrano vere. Il suo criterio è il ragionamento: rendendosi conto
che certe cose non possono stare così, se ci pensa bene può però trovare una forma per rendere ragionevole un
discorso inaccettabile. Ecateo è convinto che i miti più incredibili, irrazionali, assurdi, contengano un nucleo di verità
perché sono la forma a noi giunta di un racconto originariamente diverso: con la trasmissione il senso originario è
andato perduto e il racconto è stato interpretato in modo diverso; pensiamo alla casa di Loreto e agli angeli, forse un
riferimento alla famiglia “Angeli”, una famiglia di crociati. La Madonna di Loreto è la patrona degli aviatori perché si
immaginava che gli angeli, volando, avessero portato la Santa Casa a Loreto. Leggiamo un passo di Pausania, un
geografo del II secolo d.C., in cui ha scritto una guida della Grecia in cui parla dei vari posti, spiega i monumenti, miti e
storie legate ai monumenti eccetera. Nel III libro dell’opera parla di Capo Tenaro, la punta più meridionale del
Peloponneso. Dice Pausania:

Pausania, Periegesi della Grecia 3.25.4 (FGrHist 1 F27)


“Presso il Capo Tenaro, c’è un tempio simile a una grotta, e davanti ad esso una statua di Posidone. Alcuni Greci
affermano che in questo punto Eracle avrebbe ricondotto in superficie il cane dell’Ade, sebbene non esista una via che
attraverso la caverna conduca sottoterra né si possa facilmente credere che esista una dimora sotterranea degli dei
nella quale si affollano le anime. Ma Ecateo di Mileto escogitò una soluzione verosimile, ipotizzando che presso il
Tenaro vivesse un terribile serpente, chiamato “cane dell’Ade” perché chi ne veniva morso moriva all’istante per
effetto del veleno; e asserì che Eracle recò ad Euristeo proprio questo serpente”.

Pausania vuole verificare una storia celeberrima, di una delle fatiche di Eracle: proprio ieri abbiamo parlato di Euristeo
e dei figli di Eracle. Euristeo aveva chiesto a Eracle di portargli Cerbero, il cane dell’Ade. Sarà mito ripreso anche da
Dante. Pausania dice: il mito racconta che l’ingresso dell’Ade si trovava a Capo Tenaro, io sono andato a Capo Tenaro,
non c’è niente. Non c’è una via che conduca sottoterra, nella grotta non c’è niente, e molto difficilmente esiste poi
realmente l’Ade. Pausania scrive in un’epoca in cui la religione tradizionale viene formalmente onorata ma agli dei
classici non ci crede più nessuno. Ecateo euren logon eikoton, “trovò un discorso accettabile”, trovò una forma
accettabile del mito: un serpente velenoso che viene chiamato “cane dell’Ade”. Dato che se questo ti morde vai
all’altro mondo, da questa idea semplicissima che se ti morde il serpente muori, queste parole, fraintese di
generazione in generazione, hanno fatto pensare che lì si andasse realmente all’altro mondo. Ecateo è molto
ingegnoso nello sforzarsi di capire come possa essere accettabile il mito, ma non si pone per nulla il problema che
magari le stesse Fatiche di Eracle siano un mito. L’atteggiamento di Ecateo è detto “razionalismo”: riportare un
discorso inaccettabile a termini accettati dalla ragione. Io posso cioè capire dove un certo discorso è stato frainteso, e
che dunque ha portato a un mito inaccettabile. Qual è il limite di questo procedimento di Ecateo, per cui legge i miti
con questo sistema? Il limite è semplicemente che il criterio per distinguere ciò che è accettabile da ciò che non lo è, è
assolutamente personale: Ecateo dice: “secondo me le cose sono andate così”. È un criterio interno, uno potrebbe
ribattere: “secondo me invece sono andate così. Come la mettiamo?”. I latini dicevano tot capita, tot sententiae: tante
le teste, tanti i pareri. Una stessa partita di calcio può far pensare che una vittoria sia stata meritata, o magari
immeritata, o che una squadra era più forte e l’altra meno, eccetera. Ognuno ha il suo parere di fronte a ogni cosa, e
non se ne esce, perché tutti i pareri sono sullo stesso piano. Il limite di Ecateo è che lui non è riuscito a trovare un
criterio oggettivo per distinguere il vero dal falso, un criterio estraneo alla persona dello storico. Ecateo di Mileto ci
dice: “come a me le cose sembrano vere”, ma chi mi dice che le cose stiano effettivamente così solo perché tu me lo
vieni a dire? Bisogna cercare un riscontro oggettivo. Vedremo a partire da domani che Erodoto di Alicarnasso è il
primo a cercare un metodo oggettivo, perché a un certo punto dirà: per capire come sono andate veramente le cose,
bisogna servirsi di testimoni oculari. Se riesco a procurarmi un testimone che ha visto coi propri occhi come sono
andate le cose, avrò una chance molto maggiore di capire come sono effettivamente andate le cose. Ad esempio
davanti a un incidente stradale i due automobilisti hanno pareri contrastanti, la polizia fa una perizia infruttuosa, e
allora si ricercano dei testimoni oculari che possano riferire i fatti. La presenza di un testimone oculare può essere
decisiva. Dice Erodoto che il testimone deve essere oculare, non può parlare per sentito dire: il testimone ideale è
quello che ha visto lui, non quello che riferisce quanto ha sentito. Quanto è importante quando si parla dei pentiti
della mafia! Se un pentito dice che il tal onorevole è affiliato alla mafia, poi il magistrato lo arresta. Ma se il giudice fa il
proprio dovere, quel tale è scarcerato: occorre una prova concreta del fatto che quello è proprio un mafioso. La
semplice voce è inutile. Proprio due giorni fa tutti i giornali hanno parlato di uno scandalo nella pubblica
amministrazione in cui delle persone sono state arrestate perché due pentiti parlavano al telefono della possibile
corruzione di questi individui. Non ci sono prove. Ingiustizia somma! Che spesso nasce dal fatto che spesso chi
amministra la giustizia oggi non sa che già nell’antichità questi problemi erano risolti in modo valido. Il testimone deve
essere oculare, credibile, ovvero disinteressato, non deve essere in stato di alterazione, cieco, pregiudicato. La
storiografia greca nasce dunque a partire da Ecateo, che non riesce a risolvere del tutto le cose, ponendosi un
problema: come distinguere il vero dal falso? Per criticare la tradizione, quali strumenti intellettuali abbiamo a
disposizione? Vedremo con Erodoto prima e Tucidide poi, come si perfeziona l’arte di interpretare e leggere il passato.
Leggiamo ora la testimonianza di Dionisio di Alicarnasso, Su Tucidide. Dionisio di Alicarnasso è un retore, un critico
letterario contemporaneo di Cesare, I secolo a.C. ed è di Alicarnasso, città della Ionia da cui proviene anche Erodoto.

Dionisio di Alicarnasso, Su Tucidide 5, 2-4

“Di antichi storici, prima della guerra del Peloponneso, ne sorsero molti e in vari luoghi: ad esempio Eugeon di Samo,
Deioco di <Cizico, Bione di> Proconneso, Eudemo di Paro, Democle di Figela ed Ecateo di Mileto, e poi Acusilao di
Argo, Carone di Lampsaco e Melesagora di Calcedone. Poco anteriori del conflitto peloponnesiaco, e giunti sino all’età
di Tucidide, furono Ellanìco di Lesbo, Damaste del Sigeo, Xenomede di Ceo, Xanto di Lidia e molti altri.
Questi autori, che ricorsero a una medesima soluzione nella scelta degli argomenti ed ebbero capacità non molto
diverse gli uni dagli altri, scrissero gli uni le storie greche, gli altri quelle dei barbari, senza però collegarle le une alle
altre, ma distribuendole per popoli e per città, pubblicandole separatamente e perseguendo il medesimo fine: offrire
alla conoscenza di tutti (…), senza nulla aggiungere o togliere, le memorie per popoli e per città che erano
sopravvissute presso le popolazioni locali oppure le composizioni scritte depositate nei santuari o nei luoghi pubblici.
In tali testi erano presenti anche dei miti ai quali da molto tempo si prestava fede e alcuni teatrali capovolgimenti della
sorte, che agli uomini d’oggi paiono veramente risibili.

(4) Quanti preferirono i medesimi tratti linguistici adottarono più o meno tutti uno stile chiaro, ordinario, puro,
essenziale, adatto al contenuto e privo di elaborazione tecnica; e tuttavia una certa freschezza e grazia percorre le loro
opere, alcune più altre meno, e per tale ragione i loro scritti sopravvivono ancora”.

Dice cose interessantissime sugli storici precedenti Tucidide. Come si evolve la storiografia dopo Tucidide? Dionisio fa
una distinzione tra gli storici antichi, archaioi symgrapheis, persone quasi completamente sconosciuti tranne Ecateo –
abbiamo giusto qualche frammento di Eudemo di Paro – e alcuni storici, comunque precedenti alla Guerra del
Peloponneso, che però arrivarono quasi a Tucidide: ci sono dunque anche quelli più vicini a Tucidide. Di questi
abbiamo più frammenti, in effetti. Dice Dionisio: questi autori furono più o meno corrispondenti per valore, più o
meno tutti allo stesso livello, e scrissero gli uni le storie greche, gli altri quelle dei barbari. Alcuni si occuparono del
mondo greco, altri del mondo barbaro, per esempio quello dei Persiani o degli Egizi. Però dice: queste storie erano o di
popoli greci o di popoli barbari, e non erano collegate le une alle altre: noi abbiamo visto che la storia di Mileto si
intreccia con quella del mondo barbaro. Eccetto Ecateo, che scrive genealogie di tutti, questi scrivono storie di singoli
popoli o di singole città; Carone di Lampsaco per esempio scrive Perì Lampsakou – pubblicandole separatamente.
Ciascuno scrive per sé, senza intrecciare la storia del mondo greco con quella dei grandi imperi orientali, ma lo fa
senza prendere parte da un punto di vista critico, attingendo a fonti molto scarse. Sono i primi storici! Non ci sono
grandi fonti storiografiche. Alcuni raccolgono le memorie orali, le tradizioni che si tramandavano di bocca in bocca,
altri invece attingono a memorie depositate nei santuari o nei luoghi pubblici. Dice Dionisio che nei templi o negli
archivi pubblici c’erano composizioni scritte, fonti scritte: è un mistero cosa siano. Noi sappiamo che c’erano tradizioni
orali, ma queste composizioni nei santuari, boh. In questi testi c’erano miti, storie eccetera. Questi primi storiografi
scrivono senza alcuna ambizione letteraria, dunque in maniera chiara, e tuttavia una certa freschezza riecheggia e
dunque anche adesso, che sono passati cinque secoli tra Dionisio e Ecateo, si continuano a leggere le opere: il
contenuto è molto ingenuo, ma la semplicità, a loro – moderni – che sono abituati a una artificiosità retorica, risulta
piacevole la semplicità del linguaggio piano e scorrevole dei primi storici. Domani presenta Acusilao e Carone, e poi
con la collega inizieranno a parlare del grande Erodoto, uno di quegli autori che si deve leggere prima di morire.

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