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VITA: Giambattista Vico nasce a Napoli nel 1668 da una modesta famiglia di librai, dal 1680 è accolto presso

il Collegio massimo dei gesuiti di Napoli dove intraprende gli studi di grammatica e metafisica con scarsi
successi, finisce con il laurearsi nel 1694 in Giurisprudenza avendo studiato sia il diritto civile che quello
ecclesiastico.

(Gli interessi filosofici): Ma l’interesse principale di Vico è la filosofia: la carriera universitaria di Vico, difatti,
è lunga e discontinua e ai corsi universitari egli preferisce lo studio privato che si concentra principalmente
sullo studio e la lettura dei classici e dei filosofi. Dal 1689 al 1695 svolge l’attività di precettore dei figli di un
marchese cilentano, ed ha così modo di accedere alla ricca biblioteca del nobiluomo dove può studiare la
Scolastica, sant’Agostino, Platone, Tacito e tanti altri.

(L’insegnamento): Malato di tisi, nel 1695 torna a casa della famiglia a Napoli e si sostenta dando lezioni di
grammatica e retorica. Nel 1699 prende la cattedra di retorica all’Università di Napoli ma la cosa non lo
solleva dai travagli economici, tanto che continua a dare lezioni private. Nello stesso periodo comincia la
stesura delle orazioni inaugurali degli anni accademici e legge Bacone e Grozio, la cui scoperta risulta
fondamentale, poiché dirige gli interessi di Vico sulle materie giuridiche e storiche.

Il sistema vichiano poggia su quattro autori: Platone e Tacito, in grado rispettivamente di mostrare l’uomo
come dovrebbe essere e l’uomo qual è in effetti, poi Bacone, che descrivendo la complessità del mondo
culturale gli ha fornito lo stimolo a comprenderne le leggi, e Grozio, che gli ha fatto capire la necessità di
comprendere gli usi tramandati degli uomini.

LE OPERE: La prima opera di Giambattista Vico significativa dal punto di vista filosofico è Orazioni inaugurali,
il discorso pronunciato all’inizio di ogni anno accademico, tra il 1699 e il 1708. Dopo che fu respinta la sua
domanda di passare alla cattedra di giurisprudenza, più redditizia, si dedicò alla composizione della sua
opera maggiore, la Scienza nuova, la cui prima edizione risale al 1725 in cui erano presenti anche i tre scritti
precedenti, e fu pubblicata con il titolo Principii d’una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni. Nel
1730 uscì una seconda edizione nota come Scienza nuova seconda; la terza, e definitiva edizione venne
pubblicata nel 1744 con il titolo Scienza nuova terza, poco dopo la morte di Giambattista Vico, avvenuta il
23 gennaio dello stesso anno.

CRITICA A CARTESIO (2 SLIDE): Vico ha una posizione antitetica a quella di Cartesio in relazione al criterio di
verità adottato. Cartesio afferma che la certezza conoscitiva ha il suo fondamento nell’evidenza razionale;
Vico invece, controbattendo che qualunque idea, anche falsa, può apparire chiara e distinta alla mente di
chi la pensa, dichiara che soltanto chi produce una cosa può conoscerla perfettamente (verum ipsum
factum = la verità sta nel fatto stesso).

Di conseguenza Cartesio trascura lo studio delle attività umane nell’ambito della storia perché le considera
manifestazioni irrazionali, non deducibili da principi rigorosamente logici, ed ammette la conoscenza dell’io,
di Dio, della natura e della matematica.

Vico, invece sostiene che solo la storia è oggetto di vera scienza perché prodotta dall’uomo, e nega che l’io,
Dio e la natura possano essere conosciuti.

Inoltre ammette che la matematica sia scienza, in quanto costruzione dell’uomo, ma ne limita e ne
circoscrive l’importanza giudicandola finzione astratta, perché creazione convenzionale e arbitraria che non
può essere applicata al mondo delle cose.( Infatti la mente umana costruisce i numeri, il punto, la linea, le
figure, di cui si serve per le sue dimostrazioni.)
La polemica anticartesiana, basata sull’assunto che l’uomo non possa conoscere sé stesso, ma solo averne
coscienza, spinge Vico a dire che la famosa massima di Cartesio “Penso dunque sono” avrebbe dovuto in
realtà essere Penso dunque esisto evidenziando l’impossibilità metafisica dell’autocoscienza.

Specialmente nelle prime sei Orazioni inaugurali esalta, per quanto riguarda la formazione, la cultura
umanistica – quella retorica e letteraria – in contrapposizione a quella matematica-scientifica. Nel dettaglio
sostiene che quest’ultima richiede una mente già sviluppata, pertanto non è adatta ai giovani che invece si
stanno formando. A ciò si aggiunge il fatto che Vico riteneva un’illusione, se non un inganno, il fatto di
ridurre la natura in schemi matematici, come pretendeva di fare la scienza moderna. Scriveva infatti:
“Dimostriamo le proposizioni geometriche perché le facciamo, se potessimo dimostrare quelle della fisica,
le faremmo.”

SCIENZA NUOVA (3 SLIDE) Nell’opera più importante la Scienza nuova, Vico espone la cosiddetta scienza
della storia che, al contrario della fisica, è una scienza nuova perché indaga le vicende umane e queste sono
interamente costruite dall’uomo. La filosofia e la filologia devono essere usate come strumenti per
un’indagine finalizzata allo studio dei popoli per individuarne leggi e princìpi della storia.

È necessario però accertarsi dei fatti storici, dei quali si vogliono indagare le cause, attraverso la filologia
che attraverso il linguaggio studia la vita, i costumi dei popoli, tutte realtà che Vico racchiude nella nozione
di “certo”, da cui deriva che la filologia è una conoscenza del certo.

Entra poi in gioco il ruolo della filosofia che deve spiegare i fatti che sono stati accertati dalla filologia. Dato
che le cause scoperte dalla filosofia costituiscono ciò che Vico chiama il “vero”, ne consegue che la filosofia
è conoscenza del vero. Tra due queste materie esiste un’interconnessione tale per cui non c’è scienza del
certo se non se ne conoscono le cause, indagate dalla filosofia. C’è quindi la necessità di una sintesi tra il
certo e il vero, Vico dice infatti che bisogna “inverare il vero” quindi ricondurre fatti particolari a leggi
universali, e al contempo “accertare il vero” quindi ricostruire i fatti particolari a cui quelle leggi si
applicano.

VERUM ET FACTUM ( 4 SLIDE)

Vico è stato uno dei primi filosofi a sviluppare una teoria filosofica del linguaggio, specialmente nel De
antiquissima Italorum sapientia, in cui cerca di estrapolare elementi di una sapienza antica dalle etimologie
delle parole latine. Emerge anche in questo caso come la cultura umanistica per Vico fosse fonte di un
sapere autentico e profondo. Uno degli esempi più eclatanti delle sue analisi etimologiche è quella da cui è
tratta il famoso assioma «il vero è identico al fatto». In quest’analisi infatti Vico stabilisce l’equivalenza tra i
termini verum e factum intendendo con questo una realtà prodotta da qualcuno. L’assioma pertanto viene
interpretato nel senso che si può conoscere la verità solo di qualcosa che si è compiuto, ne consegue che
può conoscere la verità solo chi fa quella medesima cosa. Per esempio, la fisica proprio perché indaga su
oggetti di cui non siamo gli artefici, non può essere conosciuta se non da Dio che ha creato la natura.

I RICORSI STORICI (5 SLIDE): La teoria dei corsi e ricorsi storici ci permette di comprendere fino in fondo la
complessa concezione della storia vichiana. Seguendo un’antica tradizione egiziana Vico afferma che la
storia è caratterizzata dall’esistenza di tre età ( età degli dei, degli eroi e degli uomini) che ciclicamente si
ripetono. Bisogna mettere in evidenza che nel pensiero vichiano la concezione ciclica della storia risulta
incompatibile con il concetto cristiano di storia, poiché per il cristianesimo la storia presenta un andamento
lineare e non è assolutamente ciclica. La concezione ciclica della storia era riscontrabile nel mondo pagano,
sia nell’antica Grecia sia a Roma.

Quindi, secondo Vico, la storia non è un succedersi slegato di avvenimenti, ma deve avere un ordine
fondamentale.

La storia rappresenta la scienza delle cose fatte dall’uomo e, allo stesso tempo, la storia della mente umana
che ha fatto quelle cose.

La scienza nuova instaura un’indagine del mondo diretta a rintracciarne le leggi e come tutte le scienze la
storia presenta delle leggi, dei principi universali che si ripetono costantemente allo stesso modo e
costituiscono il punto di riferimento per la nascita e il mantenimento delle nazioni.

La storia è un percorso progressivo di corsi e ricorsi (HISTORIA SE REPETIT), di evoluzioni e innovazioni, ma


anche di involuzioni e regressioni, e ciò non avviene per caso ma in base ad un preciso disegno stilato da
una intelligenza superiore, ovvero la divina provvidenza.

L’azione della Provvidenza nel corso storico apre la questione sul rapporto tra l’uomo, che dispone del
libero arbitrio ed il disegno divino che agisce sulla storia indirizzando i desideri e le azioni degli uomini. La
contraddizione è apparente, in quanto la Provvidenza intesa da Vico non è un agente esterno e
trascendente, ma un ideale immanente verso cui gli uomini tendono e da cui sono guidati. In questo modo
si possono spiegare sia i momenti progressivi vissuti dai popoli che quelli di decadenza.

È in questa tensione del libero arbitrio verso l’ideale provvidenziale che va intesa la formazione delle
società complesse e delle nazioni. Vico spiega come dall’impulso della libido si è formato l’istituto
matrimoniale, dal desiderio di prestigio dei capi sono state fondate le città, dalla reazione delle plebi
contro i soprusi della nobiltà si sono formati sistemi giuridici più egualitari. Questo processo viene definito
eterogenesi dei fini.

LE TRE Età ( 6 SLIDE)

In quest’evoluzione Vico individua tre età distinte nella storia dell’uomo: un’ età degli dèi che è lo stadio più
selvaggio della natura umana in cui domina il timore per gli dèi e gli uomini sono governati da sovrani
teocratici. “nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro
comandata con gli auspici e gli oracoli”

- L’Età degli eroi, in cui si formano le prime repubbliche fondate sulla predominanza di un ceto
aristocratico che deriva il proprio potere direttamente da Dio e che sviluppa le virtù della pietà, della
prudenza e della temperanza. “dove si costituiscono repubbliche fondate sull’aristocrazia, che fa derivare
da Dio la propria nobiltà”

- L’Età degli uomini in cui i ceti più bassi della società rivendicano la loro uguaglianza formando così
delle repubbliche popolari in cui i gruppi dirigenti non vengono più scelti solo in base alle loro virtù, ma
anche per il loro censo. “nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana” Repubbliche
popolari.

A ciascuno di questi momenti Vico associa tre tipi diversi di natura umana e quindi di tipologie di diritto:
nella prima c’è il diritto divino, basato sulla volontà degli dèi; nella seconda il diritto appartiene sia a Dio che
agli uomini, mentre nella terza si basa sulla ragione.
Non tutti i popoli raggiungono questi tre stadi, ed è capitato che alcuni si fermassero a stadi intermedi, e
Vico individua nel popolo romano, guidato dalla Provvidenza, quello che li ha raggiunti tutti. Esiste il caso
che popoli progrediti decadano e questo avviene quando la ragione diventa astratta inaridendo il sapere ,
così i popoli si separano dalla loro storia. Quella dei corsi e ricorsi storici, appena descritta, non è una legge,
ma una possibilità concreta.

IL LINGUAGGIO (7 SLIDE): La principale innovazione della concezione vichiana del linguaggio consiste nel
pensare che quest’ultimo sia una attività formatrice. Nel momento in cui gli uomini primitivi vengono scossi
dalla visione del primo fulmine e dal fragore assordante del primo tuono, essi non reagiscono percependo
la realtà per come si era manifestata, ma interpretandola come manifestazione di una entità
sovrannaturale.

Si scardina così la teoria secondo la quale il linguaggio sia solo frutto di una convenzione sorta per scopi
solamente comunicativi

Il linguaggio è enérgeia, ossia attività vivente e storica, soggetta a mutazioni frutto delle umane necessità, e
non érgon, cioè opera compiuta una volta per tutte. Il fondamento del linguaggio non va pensato in modo
statico ma va rintracciato nel processo attraverso cui la funzione linguistica si manifesta e si arricchisce,
percorrendo stadi via via più complessi di realizzazione del suo carattere simbolico e articolandosi
attraverso diversi sistemi linguistici, da quelli primitivi a quelli più evoluti, ciascuno dei quali costituisce un
particolare punto di vista sul mondo.

Il processo linguistico si sviluppa in tre tappe fondamentali, rispecchianti la scansione in età degli dèi, età
degli eroi, età degli uomini, in cui si passa da una massima aderenza al mondo sensibile, a una fase di più
libera espressione dei significati.

Il più consistente cambiamento si ha nel passaggio dalla seconda alla terza età, Vico fa capire che, con
l’avvento dell’età degli uomini, tutto cambia, a cominciare dal fatto che il mezzo privilegiato della
comunicazione non è più l’occhio ma la voce.

Convinto che “ gli uomini prima sentono senza avvertire, poi avvertono con animo perturbato e
commosso”, Vico ritiene che la poesia sia l’espressione più adeguata di questo animo perturbato;
distaccandosi dall’oggettivismo greco aristotelico Vico sottolinea la creatività, l’originalità, l’alogicità e
l’autonomia della poesia rispetto la ragione.

Per tanto Vico afferma che la poesia è la forma d’espressione collettiva dei nostri antenati; così come la
poesia di Omero non fu opera di un singolo poeta ma voce di espressione collettiva di tutto il popolo greco.

Vico riconosce lo stesso valore ai miti che sono “vere e severe storie dei costumi delle antichissime genti di
Grecia”.

Incapaci di astrazioni logiche i primitivi davano luogo a universali fantastici, cioè immagini o miti con cui
tramandavano le loro esperienza.

I miti per tanto sono espressioni di verità per immagini, le uniche forme che consentivano ai primitivi di
pensare e di tramandare le loro esperienze.
ILLUMINISMO

Per Illuminismo si intende il movimento di idee, diffusosi nel corso del Settecento, nel quale si riconobbero
quegli intellettuali che sottoposero a critica, in nome della ragione, ogni forma di opinione e conoscenza
ricevuta dalla tradizione. Il termine “Illuminismo” si è affermato in Italia all’inizio del XX secolo. (i
contemporanei parlarono piuttosto di una “età dei lumi”), mentre l’equivalente francese âge o siècle des
lumières, così come il tedesco Aufklärung, sono concetti settecenteschi. L’estensione del significato di
“Illuminismo” al XVIII secolo nel suo complesso è ingiustificata in quanto l’Illuminismo non esaurì il
patrimonio intellettuale del Settecento europeo, pur costituendone l’espressione storicamente più
rilevante. L’Illuminismo non fu un movimento filosofico unitario e internamente coerente, nel quale
identificare uno sviluppo sistematico di princìpi speculativi, ma espresse, al contrario, uno stile di pensiero
che accomunò scienziati, giuristi, teologi, eruditi, funzionari e uomini politici. Al di là delle differenze su
questioni specifiche, comuni furono agli illuministi la rinuncia alla metafisica, alla teologia, alla ricerca delle
cause trascendenti e la volontà di applicare la capacità di comprensione razionale ai fenomeni del mondo
umano, sociale e naturale. La discussione delle idee e delle scoperte si basava sulla tolleranza reciproca e
sul rifiuto dei dogmi; si affermarono istituzioni culturali preposte alla verifica comune delle nuove
conoscenze; il dibattito pubblico, nutrito da un numero crescente di periodici, sostituì in linea di principio
l’imposizione di credenze in nome dell’autorità. Lo stile intellettuale degli illuministi fu dominato
dall’interesse per il mondo terreno, del quale si studiò il funzionamento perché l’umanità potesse
migliorare le condizioni della propria esistenza. La cultura illuminista ebbe una forte componente
pragmatica e utilitaristica: la critica alla tradizione in ogni campo del sapere non doveva esaurirsi in se
stessa, ma predisporre piuttosto l’intervento dell’uomo nel mondo naturale, sociale e politico. La felicità
terrena dell’umanità doveva essere l’obiettivo finale di ogni attività conoscitiva fondata sulla libera ricerca
della verità.

Foscolo fu influenzato anche dal pensiero di Gian Battista Vico che aveva concepito la storia umana come
un processo di possibili corsi e ricorsi, regolato da un piano provvidenziale. Da qui Foscolo derivò una
concezione pessimistica della storia vista come l’alternarsi ciclico di grandezza e decadenza.

Vico rimase per secoli incompreso e poco considerato nonostante la complessità e l’eccentricità del suo
pensiero: Benedetto Croce per primo studiò in lungo e in largo l’opera di Vico, mettendone in luce
l’attualità che ancora aveva. Non fu il solo a riscoprire il fascino del suo pensiero: anche James Joyce ha
tratto evidente ispirazione da Vico nelle sue opere. Fu un precursore addirittura dello storicismo di Hegel.

Sostenne l’andamento ciclico della storia, ponendola sotto il regime di leggi non matematiche ma
metafisiche: eppure, ritiene la scienza della storia valida al pari della matematica, in quanto entrambe
opere umane. Si oppose alla concezione della conoscenza di Cartesio, sostenendo la limitatezza della
mente umana. Vico fu sì un prodotto dell’Illuminismo, ma fu nei fatti divergente da molti dei pensatori
dell’epoca: riteneva la matematica una scienza reale, ma utile soltanto nella formalità, mentre nell’epoca
del razionalismo non concepiva la fisica come una scienza poiché la natura, non essendo opera umana, non
era descrivibile dall’uomo.
Vico distingue tre età che ciclicamente si ripetono sempre e comunque: l’età degli dei, l’età degli eroi e l’età
degli uomini

Il vero ed il fatto

Vico intraprende dunque il tentativo originale e difficile, non compiuto prima in queste forme, di studiare il
mondo in quanto mondo storico e di farne la matrice stessa sia delle idee umane, sia delle azioni umane
che quelle idee riflettono ed insieme ispirano. Se conoscere vuol dire penetrare il reale per cercare come i
fenomeni si sono progressivamente formati ed articolati nel mondo, la storia è, in certo senso, il massimo
della conoscenza perché cerca di comprendere, sondandone i segreti più profondi, la complessità dei
processi attraverso cui l'uomo è passato dalla ferina animalità alla consapevolezza della sua capacità
creativa e dalla istintuale spontaneità alla valutazione critica del suo agire. Il metodo di questa scienza
nuova è per Vico una combinazione di verità e certezza o, se si vuole, di filosofia e filologia. La ragione è
sempre in cerca di principi più coerenti ma la ragione di per sé non basta ed essa non ha presa sul reale se
non attraverso la mediazione dell'esperienza, attraverso il confronto di quell'umano arbitrio che non è
affatto arbitrario ma espressione della libertà dell'uomo come essa si determina nelle forme particolari di
ciascuna attività umana. L'autorità dell'umano arbitrio è quella della vita pratica a cui bisogna riferirsi
quando, come sempre avviene nella storia, la verità non è deducibile da misure logiche ed etiche
prestabilite. Filologia vuole dire, quindi, accertamento realistico dell'originale natura di ogni elemento della
realtà ed analisi specifica delle loro mutevoli combinazioni, perciò cogliere la verità di una cosa vuol dire
conoscere storicamente le cose, vedere cioè come esse si sono progressivamente formate, come
definiscono e come mutano i loro significati e le loro rilevanze, come si unificano con altri elementi della
realtà e come si distinguono e si separano. Per Vico le cose sono fenomeni reali, storicamente determinati;
sorgono in un certo modo, in un certo contesto di situazioni, si sviluppano in una certa trama di rapporti e
hanno nel tempo la categoria esplicativa del loro essere. Il tempo non è tuttavia costituito, per Vico, da
successioni meccaniche e da durate puramente metriche, non è commisurazione passiva dello svolgersi
inconsapevole degli eventi: esso è dotato di un suo significato qualitativo e porta l'uomo verso una
consapevolezza critica del suo destino. La scienza storica è così scienza delle idee umane come esse si
formano nel tempo. Misura della qualità delle idee, la storia cerca di promuovere quella "benigna
interpretazione" della vita che possa giovare al genere umano e, perciò, il senso umano della storia è
lontano sia dall'abuso idealistico, sia dall'abuso materialistico ed utilitaristico. Vico non vuole, come
chiedono gli Stoici, "l'ammortamento dei sensi" ma non vuol neppure che i sensi siano, come per gli
Epicurei, la regola di ogni cosa; per i loro estremismi questi filosofi, stoici ed epicurei, sviluppano attitudini
poco sociali e poco storiche.

Le idee di Foscolo sulla natura, la società e la funzione della letteratura appaiono già ben definite tra il 1802
e il 1803. Intorno ai venticinque anni, in una fase di intensa produzione letteraria su di un fondo personale
ricco di lacerazioni, entra definitivamente in crisi il suo originario giacobinismo e si manifesta in modo
coerente il suo ideale neoclassico della poesia e del mito.

Ciò comporta un allontanamento dal pensiero di Rousseau, che aveva avuto un peso fondamentale nella
sua formazione, e specialmente dalla sua aspirazione a modificare l’assetto sociale attraverso un ritorno alla
presunta bontà originaria della natura. L’appassionata affermazione dei diritti degli «affetti», del «forte
sentire» aveva d’altra parte accentuato il suo distacco dalle prospettive dell’Illuminismo e lo aveva portato
ad attribuire un valore di verità alla poesia e alla letteratura, in opposizione all’aridità del sapere scientifico
(e in tutto ciò si faceva sentire con forza la suggestione del modello alfieriano).
Già nell’Ortis del 1802 Foscolo vede i processi naturali e sociali sotto il segno della distruzione: una totale
assenza di significati umani nel piano della natura, una guerra senza quartiere di tutti contro tutti nella
società (cfr. 7.3.3). Ma proprio tra il 1802 e il 1803 questa visione pessimistica inizia a sfumarsi, volgendosi
verso una disillusa accettazione della vita sociale. Il comportamento di Foscolo sarà mosso sempre da un
impulso autodistruttivo, da una carica di estrema negatività (che del resto agita non solo la maschera di
Jacopo Ortis, ma anche quella di Didimo Chierico); ma nella sua riflessione ideologica egli finisce per
affermare l’inevitabilità degli stessi aspetti distruttivi della vita sociale, solo sulla base dei quali possono per
lui svilupparsi la continuità degli «affetti» familiari e nazionali, la tradizione, il ruolo civile della poesia, il
compito di mediazione dei letterati e degli scrittori.

Si è già seguito, nello stesso articolarsi del discorso poetico dei Sepolcri, lo svolgersi di un’affermazione di
valore, a partire da presupposti pessimistici e nichilistici. Ma, nel contesto dell’Italia del tempo, il modello
sociale «positivo» suggerito da Foscolo contiene una forte carica di opposizione: la società che egli
vagheggia non si identifica certo con quella del regime napoleonico, né con quella della Restaurazione, ma
è una comunità nazionale futura, legata alla tradizione classica, capace di dialogare con il proprio passato e
di risuscitarne la «virtù»; è comunque una società fondata su una netta discriminazione tra le classi, dove il
potere tocca alla classe dei proprietari terrieri, e agli scrittori spetta un ruolo di mediazione, di educazione,
di testimonianza della verità.

In occasione della breve esperienza all’università di Pavia, Foscolo compì il suo massimo sforzo per definire,
in termini espliciti, il proprio sistema ideologico. I testi di quelle lezioni costituiscono la sintesi più coerente
delle sue idee sulla natura, la società, la letteratura, benché siano prive di sviluppi teorici originali e si
abbandonino spesso a formule retoriche ed esteriori, a perorazioni opache e ripetitive. Si tratta di idee su
cui egli tornerà più volte in scritti successivi, senza modificarne la sostanza, ma sempre in modo episodico e
occasionale.

L’unica lezione allora pubblicata fu l’orazione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della letteratura,
pronunciata il 22 gennaio 1809; tra le carte del Foscolo rimasero due Lezioni su la letteratura e la lingua e
tre lezioni Della morale letteraria. Nel definire la funzione sociale della letteratura, egli parte dalle origini
storiche del linguaggio e guarda a Vico come al maggiore punto di riferimento. Dalla condizione ferina dello
stato di natura, il consorzio sociale si sviluppa sul duplice fondamento della parola e delle istituzioni, che
mettono gli uomini in solidale comunicazione; la poesia, costruendo illusioni mitiche, fornisce un alimento
essenziale a questa comunicazione e al suo prolungarsi in una tradizione. Nelle civiltà più sviluppate le
lettere, «ministre delle immagini, degli affetti, della ragione dell’uomo», hanno una più complessa funzione
di «persuasione», che deve sostenersi sull’amore del «vero», su sentimenti che abbiano valore di verità. Il
letterato «deve far conoscere ed amare la verità eccitando passioni e fantasmi»; le lettere e l’eloquenza
autentiche sono opposte all’«arte» esteriore che costruisce finzioni fini a se stesse o, peggio, sostiene
interessi meschini e menzogne. La vita sociale si fonda, d’altra parte, su un insuperabile equilibrio tra
padroni e servi, tra oppressori e oppressi; la coercizione e le leggi danno forma a questo equilibrio, che
acquista stabilità grazie alla «forza delle ragioni» e all’«onore delle opinioni». Gli scrittori hanno il potere di
attribuire valore alle «ragioni» e alle «opinioni», collocandosi in una posizione intermedia tra oppressori e
oppressi, col compito di «dire il vero».

La visione più generale che Foscolo ha dei rapporti sociali viene espressa nella «orazione per laurea in
legge», pronunciata nel giugno 1809, Sull’origine e i limiti della giustizia, dove si fa più esplicito l’influsso del
pensiero di Machiavelli e di Hobbes. La situazione di «guerra perpetua in mezzo al genere umano»
smentisce per Foscolo ogni nozione di giustizia naturale e universale e mostra come il fondamento della
giustizia risieda nella forza. La giustizia, così, diventa possibile soltanto all’interno di gruppi sociali
determinati, di comunità che sappiano ricondurre a un ordine superiore l’eterna lotta tra gli individui che le
costituiscono. La giustizia si identifica allora con la ragion di Stato e si radica in una «patria»: essa diviene il
mezzo che permette a uno Stato di sopravvivere sia alle distruzioni naturali sia ai conflitti con gli altri Stati.
Non esiste quindi una giustizia assoluta, ma solo un perpetuo bilanciarsi tra il bene e il male: all’interno
delle singole comunità si possono però affermare vincoli di solidarietà, le cui manifestazioni più alte
corrispondono a «due forze che compensano tutte le tendenze guerriere ed usurpatrici dell’uomo: la
compassione e il pudore».

Rifiutando in questo modo l’universalità a cui tendeva la cultura illuministica, il pensiero di Foscolo
riconosce nella violenza e nell’oppressione dei dati costanti e insuperabili della vita naturale e sociale: ma la
violenza può essere arginata, controllata e giustificata dai valori nazionali e dalla tradizione, che la
letteratura deve mediare e celebrare in funzione del «vero». Foscolo si avvicina così ad alcuni degli aspetti
più conservatori delle ideologie romantiche europee, ma dal Romanticismo vero e proprio lo separano il
fatto che la tradizione a cui egli si richiama è quella classica, con i suoi più antichi valori mitici, e la sua totale
mancanza di simpatia per il Cristianesimo, le tradizioni popolari e il mondo medievale.

D’altra parte, egli non si piega all’apologia di sistemi politici costituiti, mantenendo sempre una forte
tensione polemica, sia contro il regime napoleonico, sia, in seguito, contro quello della restaurazione
austriaca. In numerosi scritti successivi a quelli esplicitamente dedicati alla riflessione teorica, la sua visione
si incupisce e il tono della polemica diventa più aspro di fronte a eventi che sembrano allontanare la
possibilità di una positiva azione politica in Italia. Si tratta di scritti tortuosi e disordinati nei quali Foscolo si
scaglia indistintamente contro tutti i gruppi politici operanti in Italia, contro tutti gli attori che calcano la
scena del presente, e oppone ad essi una sdegnosa solitudine e la sua scelta dell’esilio. Ricordiamo almeno i
discorsi Della servitù d’Italia, iniziati a Milano nel 1814 e continuati durante l’esilio svizzero, ma lasciati
inediti; la Lettera apologetica, scritta in Inghilterra tra il 1824 e il ’25, puntigliosa ricostruzione e
giustificazione dei suoi comportamenti politici, che egli intendeva premettere all’edizione da lui curata della
Divina Commedia: un’idea a cui poi rinunciò.

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