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SENECA: IL VALORE DEL TEMPO

La riflessione sul valore del tempo e l’individuazione dei modi migliori per impiegarlo occupano una
posizione privilegiata negli scritti di Seneca.

De brevitate vitae, I,1-4 (p.66)

Il De brevitate vitae è uno dei trattati filosofici (dialogi), scritto molto probabilmente intorno al 49 d.C. dopo
l’esilio in Corsica quando, Seneca, tornato a Roma, riprende la vita attiva e soprattutto la scrittura filosofica.

Il breve trattato ha come probabile spunto di riflessione la vita frenetica della Roma del tempo,
contrapposta all’introspezione condotta in prima persona negli anni dell’esilio: Seneca ha dinanzi a sé
concittadini occupati nelle più svariate attività ma anche il ricordo recente della meditazione sulla vita. Di
qui la scelta di affrontare nell’opera il problema del tempo con le sue implicazioni.

Il tema si ritrova già in Sallustio, nell’esordio del Bellum lugurthinum, in cui l’autore affermava: «A torto il
genere umano si duole della propria natura perché, debole e di breve durata, è dominata dal caso più che
dal valore. Se vi si riflette, al contrario, non si troverà al mondo cosa più alta e mirabile; ciò che manca alla
natura umana non è il vigore, non è il tempo, è la costanza nell’operare» (trad. L. Storoni Mazzolani).

Allo stesso modo Cicerone nel De senectute nella lotta contro il tempo attribuisce grande importanza alle
energie non solo fisiche, ma morali della persona: «Il tempo di una vita, pur breve che sia, è abbastanza
lungo per viverlo con rettitudine e con onore» (De senectute 70, trad. G. Pacitti).

La novità sottolineata da Seneca consiste nel senso di liberazione interiore che l’individuo ricava dal
recupero della vera natura del tempo, la cui durata viene valutata in termini non oggettivi ma soggettivi.

Nel De brevitate vitae, il filosofo esorta Paolino, probabilmente suo suocero, a lasciare i suoi impegni di
funzionario imperiale e a rivolgersi interamente allo studio e alla pratica della sapienza: ricorre alla
riflessione sul tempo con un’analisi minuziosa, condotta secondo gli insegnamenti della dottrina stoica.

Al centro di questa riflessione c’è l’idea del tempo come dono della natura, il solo di cui l'uomo possa
servirsi liberamente; per Seneca è necessario pertanto non disperdere le proprie energie in occupazioni
vane, ma rivolgere ogni cura al corretto uso del tempo.

Tale esortazione non poggia sulla contrapposizione tra il godimento delle gioie presenti e la fugacità della
vita, ma investe l'intera esistenza: la valorizzazione di ogni suo attimo permette di superare le debolezze
della condizione umana e di raggiungere la saggezza.

Nel primo capitolo (par.1-4) del trattato, confutando l’opinione corrente secondo cui la vita umana è breve,
Seneca afferma che ciò che conta non è la quantità oggettiva del tempo concessa all’uomo, ma il modo in
cui esso viene utilizzato, che dipende esclusivamente dalla responsabilità di ciascuno.

Nei primi due paragrafi egli afferma che la maggior parte dei mortali si lamenta dell’avarizia della natura
perché il tempo concesso per vivere scorre così velocemente che la maggior parte degli uomini devono
abbandonare la vita proprio quando si stanno preparando ad essa; di questo male si sono lamentati anche
due grandi uomini, il medico Ippocrate (il quale esclama “vitam brevem esse longam artem” =la vita è
breve, invece l’arte è lunga) e il filosofo Aristotele accusa la natura che ha concesso agli animali una lunga
vita di cinque o dieci generazioni, mentre per l’uomo, nato per compiere “cose numerose e grandi”, ha
stabilito un termine molto più breve.
Par 3, capitolo 1 (p.67 dulce): Di qui, l’affermazione di Seneca: “non exiguum temporis habemus, sed
multum perdidimus = non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto”. In realtà la vita è
abbastanza lunga per realizzare grandi cose a patto che venga spesa bene; quando invece sprechiamo la
vita in opere inutili ci rendiamo conto che essa è passata solo quando ormai si è prossimi alla fine.

Fare analisi.: par.3 → -la tesi principale del brano è espressa con una sententia, tipica dello stile senecano,
caratterizzata dal parallelismo tra termini contrapposti: exiguum/multum, habemus/perdidimus.

Par.4: a dirla con Seneca “non riceviamo una vita breve ma l’abbiamo resa noi tale, non siamo poveri di vita
ma eccessivamente generosi”, infatti accade che gli uomini non ricevono una vita breve ma la rendono tale
sperperando questo grande patrimonio come farebbe un cattivo padrone.

Fare analisi: -L’antitesi tra il passato e il presente è rilevata dal contrasto tra il perfetto intelleximus e il
presente sentimus, da cui dipendono rispettivamente un infinito presente e un infinito perfetto; si noti il
chiasmo tra i due presenti e i due perfetti ire…intelleximus/ transisse sentimus.

- è una tipica sententia senecana, giocata sull’antitesi non…sed/ nec…sed, che introduce la
contrapposizione tra i verbi accipimus e fecimus e gli aggettivi ìnopes e prodigi.

-Il periodare si dilata in un’ampia similitudine tra la ricchezza e la vita, basata sulle antitesi
amplae/modicae, dissipantur/crescunt, malum dominum/ bono custodi.

Lingua e stile: la prima parte del brano è svolta in modi che evocano il dibattito tipico della diàtriba.

Seneca riporta infatti i pareri di Ippocrate e Aristotele nella forma del discorso diretto, come fossero
chiamati a prendere la parola in una discussione reale. Sullo sfondo c’è la turba hominum ovvero il volgo
poco giudizioso che si lamenta di questa condizione.

Nella parte successiva, la costruzione della tesi è affidata a brevi sententìae fondate sull’antitesi tra
l’opinione errata dei più e la prospettiva proposta dal filosofo. L’argomentazione è rafforzata dalla
metafora, sottesa a tutto il passo e ricorrente nel De brevitate vitae, che assimila il tempo, prezioso bene
intangibile, al denaro, attraverso il ricorso a vocaboli tipici del lessico finanziario conlocaretur, impendìtur).
L'antitesi tra inopes e prodìgi culmina nella similitudine finale, in cui il rapporto dell’uomo con il proprio
tempo è equiparato alla gestione di un patrimonio economico, che conclude l’argomentazione con
l’immagine efficace di un buon custode che accresce il suo patrimonio anche se modesto.

La struttura, lo stile e la lingua (p.94 forum romanum): Il capitolo presenta, come per lo più accade nella
scrittura senecana, un andamento in prevalenza paratattico, anche se non mancano periodi con
un’impronta fortemente ipotattica. Così, per esempio, a un periodo paratattico come Non... habemus, sed…
perdidimus (par.3), se ne contrappone uno ipotattico come Sicut amplae..., ubi... pervenerunt, ...
dissipantur, at..., si... traditae sunt, ... crescunt, ita... patet (par. 4).

Il lessico è per lo più quello quotidiano e comune, come attestano i sostantivi malignitate, vitae, malo,
turba, volgus, virorum, querellas, exclamatio, lis, homini, consummationem, luxum, neglegentiam, opes,
dominum, custodi e gli aggettivi exiguum, publico, imprudens, clarorum, maximi, multa, maglia, longa,
bonae, brevem, inopes, prodigi, amplae, modicae, bono. Si riscontrano, tuttavia, alcuni termini e locuzioni
ascrivibili al linguaggio etico-filosofico come temporis spatia, vitae apparatu, rerum natura, sapienti viro,
ultima... necessitate cogente, aetas. La prosa “moderna” di questa pagina di Seneca è, in ogni caso,
abbellita dall’impiego di frequenti figure retoriche, come l’asindeto avversativo (vitam brevem esse, longam
artem con l’omissione di sed., par. 1); l’anafora (quod... quod; tam... tam, par. 1); la variatio (quod...
gignimur, ... quod... decurrant, par. 1); L’assonanza (nobis temporis spatia; querellas evocavit, par. 1;
transisse sentimus, par. 3); il poliptoto (in ipso vitae apparatu vita destituat, par. 1); l’allitterazione (turba
tantum; maximi medicorum, par. 1); l’iperbato (de naturae malignitate; dati nobis temporis; publico, ut
opinantur, malo; illa... exclamatio, par. 1).                     

- Il tempus è inteso dal filosofo S. come “bene” concesso dalla natura che gli uomini possono usare
bene per raggiungere la virtus attraverso un percorso di perfezionamento interiore; però quello
stesso bene può essere sprecato da coloro che si dedicano a occupazioni vane.

De brev. 12, 2-3 (p.71 dulce e.): Nel capitolo 12 del De brev. Seneca passa in rassegna un gran numero di
personaggi: alcuni non si accorgono di sprecare il loro tempo in attività futili e vivono in una “desidiosa
occupatio” = un ozioso affaccendarsi; altri si affannano negli impegni lavorativi, senza concedersi uno spazio
da dedicare alla riflessione interiore.

Analisi par.2.: -il motivo del disgusto di sé è centrale nella riflessione senecana: allo spreco del tempo
corrisponde un impoverimento interiore che è alla base dell’insoddisfazione di sé; ma nello stesso tempo
chi è insoddisfatto di sé cerca di affaccendarsi continuamente per distrarsi dal vuoto esistenziale che gli
diviene palese se si ferma a osservare la propria vita.

- Quorum… occupatio: l’espressione è basata sulla contrapposizione sottile tra il significato di otius
“libero da impegni lavorativi” e desidiosus “pigro”. A rendere più significativa l’espressione è
l’ossimoro desidiosa occupatio, che definisce la vita assurda dei personaggi che si accinge a
rappresentare.

Nella rassegna Seneca rappresenta gli occupati con un tono ironico e a volte sarcastico: fra questi c’è
l’uomo vanitoso che teme di scompigliarsi la capigliatura che gli sta a cuore più che la salvezza dello stato
(leggere par. 3 pag.73); ci sono inoltre coloro “la cui vita è stata divorata dai latrunculi o dalla palla o dal
dedicarsi a far rosolare il corpo al sole”; ci sono anche quegli eruditi occupati in studi letterari inutili che per
esempio consistono nel ricercare “quale fu il numero dei rematori di Ulisse”.

De brev.14,1 : nel capitolo 14 S. individua il sapiens che a differenza dei più dedica il tempo alla saggezza:
“soli essi vivono, né solo della loro vita sono attenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro
spalle sono un loro acquisto” poiché i sapientes e i filosofi si riappropriano del passato attraverso la lettura
delle opere dei grandi pensatori che li hanno preceduti. Per S. il filosofo non solo sfrutta a pieno il presente
secondo il precetto del “protinus vive” ma si riappropria anche della sapienza del passato e al tempo stesso
prepara la via alle generazioni che verranno.

Attraverso la cultura e la saggezza egli supera i limiti del tempo e raggiunge una sorta di immortalità laica,
attraverso una collatio temporum in unum =una concentrazione di tutti i tempi in un solo istante, che mette
insieme passato, presente e futuro. (leggi pag. 89 14,1 fontes)

Seneca dunque propone non una meta realmente raggiungibile ma un modello ideale di saggezza a cui si
deve tendere.

In Seneca il termine occupatio, occupatum, occupatos hanno un’accezione spregiativa poiché sono
occupationes cioè attività insulse e inutili a sé e agli altri, per tanto causa di infelicità; essi sono contrapposti
ai vocaboli officium e negotium che si riferiscono invece a occupazioni utili alla comunità.
- La riflessione sul tempo, inteso stoicamente come unico vero bene concesso all’uomo dalla divinità
ricorre in numerosi passi delle Epistulae ad Lucilium, una raccolta di 124 lettere rivolte all’amico e
discepolo Lucilio Iuniore, dopo aver abbandonato la vita pubblica.

Epistulae morales ad Lucilium, 1

La lettera posta all’inizio delle epistulae funge da prologo all’intera raccolta e sviluppa un tema caro alla
riflessione filosofica di S. ossia la conquista del dominio su sé stessi e la liberazione da ogni forma di
condizionamento, indispensabili per conseguire la sapienza.

Seneca spiega che il cammino verso la perfezione è spesso ostacolato da un uso scorretto del tempo e da
una scarsa considerazione del suo valore.

Con un tono colloquiale S. invita Lucilio, (vindica te tibi = rivendica te stesso a te), a raccogliere e conservare
il tempo che fino a quel momento gli veniva sottratto, oppure rubato oppure gli sfuggiva. Egli aggiunge che
in ogni caso la perdita più vergognosa avviene per nostra negligenza.

Analisi par.1 (p.78 dulce): - l’esortazione vindica te tibi, collocata in posizione di rilievo in apertura
dell’epistolario, è tra le più note espressioni del linguaggio senecano: il poliptoto del pronome personale, in
cui te è l’oggetto dell’azione, tibi il fine e tu il soggetto sottinteso, rende più incisivo l’invito a riappropriarsi
di sé. Il verbo vindico, letteralmente “rivendico il possesso di qualcosa”, è una metafora tratta dall’ambito
giuridico.

Per descrivere i modi in cui si perde il tempo S. si serve di una metafora economico-finanziaria in cui il
tempo è assimilato al denaro.

Le diverse forme di perdita del tempo sono indicate dai verbi auferebatur, subripiebatur, excidebat che
indicano la sottrazione aperta, il furto subdolo e la perdita casuale per disattenzione.

Nel par.2 S. propone a Lucilio una serie di interrogative retoriche con le quali lo invita a riflettere sul fatto
che non ci si rende conto di morire ogni giorno e ingannandoci vediamo la morte dinanzi a noi; invece
“tutto il tempo che abbiamo dietro le spalle lo possiede la morte”.

Analisi par.2:- S. utilizza spesso un linguaggio metaforico, trasferendo nel discorso filosofico termini tratti da
ambiti diversi, come quello militare, quello giuridico, quello finanziario.

- Manum inicere: “mettere la mano sopra”: l’espressione è propria nell’ambito giuridico e designa la
procedura con cui i Romani rivendicavano la proprietà di qualcosa ponendovi la mano sopra.

Nel par. 3 viene presentata l’idea del tempo come possesso (tempus nostrum est) il cui valore è
inestimabile rispetto ad altri beni considerati insignificanti e di nessun valore.

Nel par. 4 anche la descrizione del rapporto di S. con il proprio tempo è affidata alla metafora finanziaria: si
trovano nella stessa condizione di povertà chi è privato del tempo della sua vita e chi sperimenta la
mancanza di beni.

L’antidoto a questa “iactura temporis” consiste nella valorizzazione di ogni istante dell’esistenza e
nell’possesso pieno e consapevole del proprio tempo che rende l’uomo padrone del presente e lo libera
dalla dipendenza dal futuro.
S. esorta Lucilio a vivere intensamente ogni attimo per realizzare il perfezionamento di sé e la conquista
della sapienza (S. utilizza i verbi progredior, procedo e proficiscor in senso metaforico per indicare il
progresso nel cammino verso la virtù).

Anche nell’epistola a Lucilio, la prosa di S. è caratterizzata dall’uso della sententia che concentra il
significato in poche parole.

Un’altra costante è l’atteggiamento dell’autore che si rivolge, parlando sempre in prima persona, al suo
interlocutore con un tono confidenziale.

Anche la costruzione sintattica è organizzata in modo da esprimere il pensiero in modo forte e incisivo:
periodi brevi, caratterizzati da una struttura paratattica, si alternano a periodi ampi e complessi costruiti
ipotatticamente in cui S. fa larghissimo uso degli artifici retorici della concinnitas ciceroniana come per
esempio l’antitesi, l’anafora, l’omoteleuto, il poliptoto.

Queste scelte stilistiche permettono a S. di accentuare l’espressività della sua prosa e di conseguenza la
potenza del messaggio morale.

CONFRONTO CON ORAZIO

L’esortazione di Seneca a prendere possesso della propria interiorità mediante l’attento esame dei
momenti della propria vita, perché non scivolino via, comunica un messaggio differente rispetto a quello
contenuto nel carpe diem dell’Ode I 11 di Orazio.
Nel carpe diem oraziano, il tempo scorre inarrestabile e la vita è breve. L’uomo non può conoscere il futuro,
che resta imperscrutabile, e non può neanche determinarlo. Nell’impossibilità di fermare il suo flusso
continuo e di opporsi alla morte, l’uomo deve afferrare l’attimo, sottraendosi almeno per un istante alla
fuga del tempo. Il presente è l’unica cosa su cui l’uomo può esercitare la propria volontà, agendo e
godendo dell’attimo. “carpe diem, quam minimum credula postero”.

(Tu non domandare – è un male saperlo – quale sia l’ultimo giorno che gli dei, Leuconoe, hanno dato a te
ed a me, e non tentare gli oroscopi di Babilonia.)

(Mentre parliamo, già sarà fuggito il tempo invidioso:) cogli il giorno, fidandoti il meno possibile del
domani. Quanto è meglio accettare qualunque cosa verrà!

(Sia che sia questo inverno – che ora stanca il mare Tirreno sulle opposte scogliere – l’ultimo che Giove ti
ha concesso, sia che te ne abbia concessi ancora parecchi, sii saggia, filtra il vino e taglia speranze
eccessive, perché breve è il cammino che ci viene concesso.)

Orazio non rivolge un banale invito a cogliere il piacere ma a prendere coscienza del fatto che il piacere
stesso è effimero come ogni altra realtà. Per tanto invita a comportarsi come se ogni istante della propria
vita fosse l’ultimo, a essere padroni della propria esistenza.

Seneca, diversamente da Orazio, valuta il tempo qualitativamente: la vita non è breve, ma siamo stati noi
ad averla resa tale, sprecandola in occupazioni febbrili e dispersive che ci allontanano da noi stessi.

Seneca: “non abbiamo ricevuto una vita breve, ma l’abbiamo resa tale.”

Seneca aggiunge che l’unico possesso che l’uomo ha, senza rendersene conto, è il tempo, in particolare il
presente. Le persone però, prese dalle loro futili occupazioni, non si rendono conto di sprecarlo, oppure,
immersi nella memoria del passato, o nelle aspettative per il futuro, non riescono a vivere nel presente: da
qui l’esortazione “protinus vive”, vivi ora, perché solo così sarai uomo saggio”.

Inoltre, la figura del saggio, esempio morale proposto da Seneca, non solo riesce ad essere padrone del suo
tempo nel presente ma anche ad aggiungere, al proprio, il tempo passato. Attraverso lo studio e la
discussione di alcuni filosofi e scrittori quali Socrate, Zenone, Democrito ed Epicuro, è possibile imparare da
vite passate autorevoli, precettori delle nostre vite presenti.

In entrambi gli autori, comunque, si esprime una sfiducia verso il futuro: quam minum credula postero, al v.
8 del carme oraziano; minus ex crastino pendeas, nell’epistola senecana (1, 2).

Per capire meglio la differenza fra queste due concezioni si deve specificare cosa intendevano epicurei e
stoici per il concetto di tempo.
Se per gli epicurei il tempo era un continuo fluire di piccoli attimi, da afferrare, e la vita risultava un insieme
di istanti, per gli stoici il tempo era circolare, le epoche, gli eventi si ripresentavano, e la vita era dunque
breve solo in relazione all’uso che ne faceva ogni uomo: lo stolto perdeva il suo tempo e viveva una vita
breve, il saggio invece aveva un’esistenza lunghissima, che gli permetteva di arrivare al fine ultimo, la virtù.
In Dialoghi con Leucò Cesare Pavese scrive:

“Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più domani. Che cos’è vita eterna se non questo
accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo.”

Queste considerazioni richiamano il tema del tempo trattato da Esiodo nell’età greca arcaica, in
particolare nel poema didascalico “Opere e giorni”, dedicato alla descrizione delle opere agricole e
dei giorni sacri, propizi o infausti per le attività. 

Nella vita della natura e nel lavoro dei campi, l’alternanza delle stagioni segna un elemento fondamentale; e
nella precettistica esiodea viene dedicata una sezione di ampio rilievo al loro ciclico ritorno. Esiodo, quindi,
abbraccia una visione ciclica, e non lineare, del tempo.

Nell’età arcaica, e in particola nella poesia epica, infatti, l’idea del tempo si organizzava secondo due
modelli opposti. Il primo era fondato sul ritorno ciclico dei fatti naturali, così come viene imposto dall’ordine
dell’universo (la luce viene sempre dopo il buio). Ma l’uomo possiede l’esperienza di un tempo irreversibile: i
giorni che trascorrono non possono tornare ed è da questo che nasce la successione padre/figlio. Nella
memoria, prerogativa degli uomini, su questo modello si fonda il ricordo del passato; e il tempo lineare che
esso riproduce può definirsi anche storico.
È questo uno degli aspetti in cui appare con maggiore evidenza l’attitudine di Esiodo ad assimilare i motivi
della tradizione epica, trasformandoli in un’originale forma di poesia. Vera e puntuale è l’evocazione dei
sentimenti, che nell’uomo accompagnano le diverse condizioni atmosferiche ed il ritorno delle fasi della vita
dei campi (ma non delle stagioni della vita passata). Il sollievo di una bevuta e di un pasto all’ombra, mentre
intorno infuria il solleone, non è solo che un momento di pace e di distrazione in una vita che ci mette
sempre dinanzi alla realtà di un tempo che passa e che mai più tornerà.

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