Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Zio paterno di Lucano e figlio di Seneca il retore, nacque anch’egli a Cordova da una
ricca famiglia di ordine equestre che gli garantì raffinati studi di retorica e filosofia
a Roma, dove entrò in contatto con filosofi epicurei, eclettici, cinici e neopitagorici.
Trasferitosi stabilmente a Roma intorno al 26-27 d.C., iniziò a godere di notevole
fama come oratore, al punto da far ingelosire Caligola, il quale non apprezzava
l’insieme di valori, quali il rispetto delle libertà civili, che Seneca predicava. Il
filosofo rischiò addirittura la condanna a morte da parte dell’imperatore, presso il
quale intercedette un’amante del principe stesso, che lo convinse a non impugnare
l’accusa viste le precarie condizioni di salute di Seneca.
Nel 41, Claudio lo condannò alla relegatio in Corsica, a causa di una vicenda
adulterina, probabilmente neppure veritiera, che vide protagonisti Seneca e la sorella
di Caligola. Come vendetta per il trattamento ricevuto, rientrato a Roma, dopo la
morte di Claudio, nel 54 d.C., Seneca comporrà l’unica opera satirica a lui attribuita,
l’Αποκολοκύντοσις o Ludus de morte Claudii, tradotto in italiano con Inzuccamento
del divino Claudio: trasformatosi in un essere vanaglorioso a causa delle continue
adulazioni, il princeps non solo perde la possibilità di trasformarsi in un dio, ma
anche la sua natura umana, fino a prendere le sembianze di una zucca, vegetale
simbolo dell’ignoranza, della vuotezza e della stupidità in cui l'imperatore stesso è
caduto.
Dopo otto anni di relegatio, Seneca viene richiamato a Roma da Agrippina, madre
di Nerone, ed affiancato al neo imperatore in qualità di precettore durante il
quinquennium neronis, periodo durante il quale Seneca ebbe l’illusione di realizzare
il buon governo di matrice platonica, ispirato a principi di equilibrio e moderazione;
tuttavia le speranze si affievolirono fino ad annullarsi nel 58 e 59 con la
degenerazione del governo di Nerone, sempre più svincolato dai legami con il
filosofo.
Nel 62, Seneca ottiene il permesso di ritirarsi a vita privata dall’imperatore, ma nel
65 viene coinvolto nella congiura dei Pisoni: che Seneca fosse stato semplicemente
informato, o che mirasse a scalzare esso stesso Nerone, il filosofo fu costretto al
suicidio per taglio delle vene. Il suo atteggiamento di serenità nel momento della
morte viene magistralmente descritto da Tacito nel XV libro degli Annales (Exitus
stoicorum)
In quanto seguace dello stoicismo ma anche di altre correnti etiche, tutto il pensiero
di Seneca era rivolto all’indagine interiore, il γνῶθι σεαυτον, che a Roma era una
via pressoché sconosciuta: seppur in parte trattato da Cicerone nelle opere filosofiche,
o da Terenzio, che aveva dichiarato homo sum, humani nihil a me alienum puto,
denotando così una particolare attenzione allo spirito umano e alle sue sfaccettature,
il concetto di analisi interiore non era mai stato indagato a fondo, limitatamente
alla cultura romana.
Un altro principio cardine della filosofia di Seneca è l’αυτάρκεια, intesa come
autonomia interiore, che comporta il raggiungimento della felicità.
Le riflessioni di Seneca, però, non si limitano alla mera indagine sul piano
individuale, ma approfondiscono anche il rapporto tra individuo e societas: mentre,
secondo i principi del mos maiorum, i cittadini dovevano aprirsi alla sfera sociale
senza mai chiudersi in se stessi, per Seneca è necessario che il sapiens si impegni
socialmente e politicamente, tuttavia, qualora l’attività politica diventi un motivo di
turbamento, per l’uomo è contemplata l’ipotesi del retirum, estraniazione, rinuncia
alle attività sociali al fine di tutelare il suo equilibrio interiore. Egli stesso infatti si
era allontanato dalla figura di Nerone, per ritirarsi poi a vita privata, abbracciando
così il principio epicureo del λάθε βιῶσας. È dunque evidente che, pur essendo
considerato meramente uno stoico, Seneca fosse invece un eclettico (da ἐκ+ λέγω=
scelgo), poiché appoggiava e faceva propri alcuni elementi di più movimenti
filosofici, come Cicerone.
Tutto è poi sovrinteso da un λόγος, che, assumendo caratteri simili al Dio Cristiano,
stabilisce per tutto un obiettivo finale (escatologia).
Attraverso un progressivo cammino etico, però, gli uomini possono sviluppare la
propria razionalità fino a farla coincidere con il λόγος universale, arrivando per
esempio a comprendere le leggi della natura e ad accettarle (anche se ci sembrano
spietate o assurde). Si tratta ovviamente di un compito non semplice che comporta
un grado di perfezione quasi disumana; non a caso la figura del saggio stoico è un
paradigma morale quasi privo di esempi pratici.
Quanto alle opere, che ci sono pervenute quasi interamente, ci giunge, con il nome di
Consolationes o Dialogi, un primo blocco di 10 dialoghi in 12 libri (poiché il De Ira
è organizzato in 3 volumi).
Pur ispirandosi alla struttura Platonica, non si tratta di dialoghi veri e propri: il tono è
senz’altro dialogico, ma di fatto lo scambio tra gli interlocutori è raro, per cui i
testi appaiono quasi dei monologhi (a eccezione del De traquillitate animi, in cui
l’amico Sereno è un interlocutore più partecipe); piuttosto, queste opere risentono
della tecnica letteraria della diatriba cinico-stoica, caratterizzata da un andamento
colloquiale, dalla presenza di apostrofi, proverbi, paragoni, fittizie obiezioni di
presunti ascoltatori e soprattutto sententiae, frase, possibilmente ad effetto, che
racchiude un concetto universalmente valido.
Consolatio
La consolatio è un particolare genere di prosa nato in Grecia dalle orazioni funebri,
durante i quali si imbastivano discorsi finalizzati a consolare i parenti del defunto ed
ad esaltare la sua figura. Spesso però, l’occasione di recare sollievo e consolazione ai
luttuosi era solo un espediente per trattare argomenti più ampi, quali la morte, il
bene e il male.
Concernenti questo genere, 3 sono le opere di Seneca:
1) Consolatio Ad Marciam
L’opera è dedicata a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, letterato la cui opera era stata
censurata e mandata a rogo sotto Tiberio. La donna, dopo la perdita del padre,
affronta ora, in tempi più recenti, anche la prematura perdita del figlio, morto
suicida: a questa madre affranta, Seneca propone uno stravolgimento dei luoghi
comuni che afferma la morte non come il peggiore dei mali, ma come una
liberazione dalla sofferenza terrena e come destino inevitabile all’essere umano e
perfino all’universo. Si verificherà infatti per Seneca la Conflagrazione universale,
dottrina secondo la quale una grande catastrofe cosmica assorbirà tutta la natura per
ricominciare un nuovo ciclo identico al primo.
A chiusura dell’opera è poi la visone del ricongiungimento del figlio morto con il
defunto nonno nei Campi Elisi, finale particolarmente solenne.
2) Ad Helviam matrem
È forse lo scritto più personale e partecipata: è dedicata alla madre Elvia, addolorata a
causa della lontananza dal figlio, relegato in Corsica, per ordini imperiali. Nel corso
dell’opera, Seneca insiste che la morte non sia un male, e dunque nemmeno
l’esilio: il motivo di consolazione principale verte sul fatto che il saggio non è mai
esule, sia perché non manca mai di ciò di cui ha veramente bisogno, sia perché egli è
cittadino del mondo e dunque può sentirsi parte dell’universo e ne può ammirare
l’armonia.
3) Ad Polybium
L’opera è dedicata a un potente liberto presso l’imperatore Claudio, Polibio, il quale
era in lutto per la morte dell’amato fratello, tuttavia, il testo è molto encomiastico, e
addirittura di adulazione: l’obiettivo di fondo di Seneca era infatti quello di tentare di
accattivarsi questo liberto, e quindi lo stesso imperatore Claudio, circondato e quasi
comandato dai funzionari di corte, di modo da poter rientrare a Roma.
Dialogi
I Dialogi, genere che si propone di guidare chi si pone sulla via della saggezza,
caratterizzata dal dominio di sé e da un pacificato equilibrio, sono invece 7:
1) Ad Novatum De ira
Diviso in 3 libri, è la trattazione del fenomeno dell’ira e delle sue conseguenze a
livello fisico, oltre che psicologico: durante un impeto d’ira il viso è contratto, il
corpo si tende e l’anima è in preda all’irrazionalità, sentimento al quale il saggio non
dovrebbe mai essere soggetto.
L’ira, tuttavia, può essere tenuta sotto controllo dalla ragione: come le onde da
lontano cominciano ad ingrossarsi e a procedere, arrivando a riva ingigantite e
travolgendo ciò su cui si infrangono, così il compito della filosofia è quello di fornire
strumenti perché si possano distinguere le passioni, individuare i loro movimenti, la
loro incidenza sull'animo e frenarle prima che lo travolgano.
Nei Dialogi il dedicatario è solitamente l’interlocutore, seppur fittizio, prassi che ci
rimanda dunque al sistema dialogico platoniano.
2) Ad Paulinum de Brevitate vitae
Dedicato a Paolino, prefetto dell’annona, il dialogo tratta il problema del tempo e
l’annessa fugacità della vita. Per Seneca, le lamentele che gli uomini muovono circa
l’esiguità del loro tempo nascano da un errore di valutazione: la vita è molto lunga e
pertanto il tempo è sufficiente per compiere azioni virtuose, tuttavia, l’uomo lo
spreca in attività banali, rendendosene conto troppo tardi una volta giunto in fondo
alla propria esistenza.
Nella concezione senechiana, solo i sapientes sono in grado di sfruttare la vita in
maniera efficace: consapevoli che il presente è l’unico lasso temporale pienamente
sotto il loro controllo, agiscono di conseguenza considerando il tempo in base alla
sua qualità, e non quantità.
Nella seconda parte poi, Seneca, il quale conduceva comunque una vita agiata, tratta
poi il tema della ricchezza, smentendo così l’opinione pubblica che lo dipingeva
come un ipocrita: il sapiens può essere padrone di beni materiali, a patto che questo
non ne diventi schiavo e sia pronto a staccarsene senza rimpianto in qualunque
situazione.
7) Ad Lucilium de providentia
All’amico Lucilio, al quale sono indirizzate anche le Epistulae, 124 lettere, e alle
Naturales quaestiones, Seneca dedica l’ultimo dei Dialogi.
Questo dialogo contiene evidenti analogie con la cristianità, motivo per il quale
Seneca fu poi reinterpretato in chiave cristiana durante il medioevo: il filosofo stoico
afferma infatti in questa opera l’esistenza di un λόγος universale, che in un’ottica
finalistica, conduce la realtà, e che è dunque in grado di provocare dolore anche
agli uomini più buoni. Per spiegare quest’ultima contingenza, Seneca interpreta il
potere di infliggere sofferenza come uno strumento di miglioramento: cosi come la
Provvida sventura manzoniana è una prova mandata da Dio per riscattare l’uomo,
così le avversità per Seneca rinsaldano la virtù e rinforzano lo spirito.
Opere in prosa
Lo schema di questi testi non si differenzia dalle opere precedenti, per cui non è
chiaro per quale motivo essi siano state tramandati a parte
De Clementia
Il de clementia, testo di filosofia politica dedicato a neoimperatore Nerone, tratta il
sistema ideale del buon governo e analizza gli atteggiamenti che il governante
dovrebbe adottare: in quanto specchio in terra del λόγος universale, che tutto
amministra saggiamente, il sovrano dovrebbe punire malvolentieri e soltanto se
costretto da realtà intollerabili, e non mosso da sadico piacere né da ire vendicative,
soprattutto a seguito di delitti di lesa maestà e questioni di carattere privato.
De beneficiis
Divisa in 7 libri, l’opera tratta dettagliatamente il rapporto che intercorre tra il
problema della beneficenza e della relativa gratitudine: per Seneca le azioni
benefiche possono e devono essere un gesto spontaneo e disinteressato, e compiute
da uomini mossi esclusivamente dal desiderio di una realizzazione personale; la
gratitudine invece è arbitraria, cioè espressa da alcuni in maniera più cerimoniosa e
smaccata, e da altri in modo più schivo.
Secondo il filosofo, chiunque può recare favori, anche uno schiavo al suo padrone: è
infatti importante lo stato interiore di colui che compie il gesto, non la sua
condizione sociale. Attraverso questo pensiero, Seneca sembra infatti portare avanti
un messaggio di fraternità e di universalità dell’uomo, tuttavia si contraddirà più
avanti.
Lettere morali a Lucilio
Indirizzate all’eques Lucilio Iuniore, procuratore della Sicilia e interessato letterato,
si tratta di una raccolta di 124 lettere, attraverso le quali Seneca tenta di dare risposta
a problemi filosofici che spesso l’amico si poneva.
Il modello seguito non è tuttavia quello ciceroniano, ma quello epicureo; Cicerone
viene anzi criticato: mentre Cicerone nelle Epistulae allude alla sfera prettamente
privata, alla sua condizione di esule, e a fatti che si stavano verificando in Roma,
Seneca dichiara esplicitamente di voler scrivere per i posteri per mettere a loro
disposizione le sue conoscenze ed esperienze.
Tragedie
Circa la produzione teatrale, le opere di Seneca rappresentano un vero e proprio
unicum letterario: le 10 tragedie, da lui scritte nel rispetto delle unità aristoteliche
(distinte in unità di tempo, unità di spazio, unità di azione), sono infatti gli unici testi
tragici romani pervenuti a noi integralmente.
Phaedra
La narrazione è affrontata anche da Ovidio, e da Euripide nell’Ippolito incoronato.
Tyestes
Atrio si vuole vendicare del fratello di Este, che gli ha sedotto la moglie e insidiato il
trono: mette quindi in atto una sadiche macabra vendetta, invitando a cena al fratello
e facendoli mangiare le carni dei figli.
Delle molte opere di Lucano, per lo più andate perdute, rimangono solo alcuni
frammenti o esclusivamente i titoli, che suggeriscono tuttavia una indubitabile
versatilità e riportano i suoi interessi principali. Il suo capolavoro, nonché opera
meglio conservata fino ai nostri giorni, è però il Bellum Civile, da egli stesso definito
Pharsalia, che, considerabile una sorta di inno alla realtà repubblicana, si distacca in
modo netto dalla linea celebrativa dell’imperatore Nerone da Lucano
precedentemente adottata.
Quanto alle opere, sono giunte solo 6 satire in esametri, pubblicate postume
dall’amico Cornuto, oltre a un breve testo programmatico di 14 coliambi (trimetro
giambico scazonte), che probabilmente si trovava all’inizio della raccolta: Perseo
spiega infatti le sue intenzioni poetiche, esprimendo un particolare disprezzo verso
la poesia alta, tragica ed epica; la sua predilezione verte invece sul genere satirico,
che non ambisce a nessuna ispirazione proveniente dall’alto in quanto specchio di
realtà quotidiane e realistiche. Perseo si dichiara inoltre semipaganus, cioè mezzo
campagnolo, sottolineando dunque la propria assoluta estraneità al panorama dei
letterati "alla moda".
I modelli delle satire di Perseo sono da una parte Lucilio, nei toni aggressivi e
sferzanti, e dall’altra, nei temi, Orazio, che invece evidenziava la negatività dei vizi
con velata e quasi distaccata ironia, dominando sempre il disprezzo e senza
dimostrarsi inflessibile nei confronti di chi si dimostrava immorale.