Sei sulla pagina 1di 11

LUCIO ANNEO SENECA IL GIOVANE

Zio paterno di Lucano e figlio di Seneca il retore, nacque anch’egli a Cordova da una
ricca famiglia di ordine equestre che gli garantì raffinati studi di retorica e filosofia
a Roma, dove entrò in contatto con filosofi epicurei, eclettici, cinici e neopitagorici.
Trasferitosi stabilmente a Roma intorno al 26-27 d.C., iniziò a godere di notevole
fama come oratore, al punto da far ingelosire Caligola, il quale non apprezzava
l’insieme di valori, quali il rispetto delle libertà civili, che Seneca predicava. Il
filosofo rischiò addirittura la condanna a morte da parte dell’imperatore, presso il
quale intercedette un’amante del principe stesso, che lo convinse a non impugnare
l’accusa viste le precarie condizioni di salute di Seneca.

Nel 41, Claudio lo condannò alla relegatio in Corsica, a causa di una vicenda
adulterina, probabilmente neppure veritiera, che vide protagonisti Seneca e la sorella
di Caligola. Come vendetta per il trattamento ricevuto, rientrato a Roma, dopo la
morte di Claudio, nel 54 d.C., Seneca comporrà l’unica opera satirica a lui attribuita,
l’Αποκολοκύντοσις o Ludus de morte Claudii, tradotto in italiano con Inzuccamento
del divino Claudio: trasformatosi in un essere vanaglorioso a causa delle continue
adulazioni, il princeps non solo perde la possibilità di trasformarsi in un dio, ma
anche la sua natura umana, fino a prendere le sembianze di una zucca, vegetale
simbolo dell’ignoranza, della vuotezza e della stupidità in cui l'imperatore stesso è
caduto.

Dopo otto anni di relegatio, Seneca viene richiamato a Roma da Agrippina, madre
di Nerone, ed affiancato al neo imperatore in qualità di precettore durante il
quinquennium neronis, periodo durante il quale Seneca ebbe l’illusione di realizzare
il buon governo di matrice platonica, ispirato a principi di equilibrio e moderazione;
tuttavia le speranze si affievolirono fino ad annullarsi nel 58 e 59 con la
degenerazione del governo di Nerone, sempre più svincolato dai legami con il
filosofo.

Nel 62, Seneca ottiene il permesso di ritirarsi a vita privata dall’imperatore, ma nel
65 viene coinvolto nella congiura dei Pisoni: che Seneca fosse stato semplicemente
informato, o che mirasse a scalzare esso stesso Nerone, il filosofo fu costretto al
suicidio per taglio delle vene. Il suo atteggiamento di serenità nel momento della
morte viene magistralmente descritto da Tacito nel XV libro degli Annales (Exitus
stoicorum)

In quanto seguace dello stoicismo ma anche di altre correnti etiche, tutto il pensiero
di Seneca era rivolto all’indagine interiore, il γνῶθι σεαυτον, che a Roma era una
via pressoché sconosciuta: seppur in parte trattato da Cicerone nelle opere filosofiche,
o da Terenzio, che aveva dichiarato homo sum, humani nihil a me alienum puto,
denotando così una particolare attenzione allo spirito umano e alle sue sfaccettature,
il concetto di analisi interiore non era mai stato indagato a fondo, limitatamente
alla cultura romana.
Un altro principio cardine della filosofia di Seneca è l’αυτάρκεια, intesa come
autonomia interiore, che comporta il raggiungimento della felicità.

Le riflessioni di Seneca, però, non si limitano alla mera indagine sul piano
individuale, ma approfondiscono anche il rapporto tra individuo e societas: mentre,
secondo i principi del mos maiorum, i cittadini dovevano aprirsi alla sfera sociale
senza mai chiudersi in se stessi, per Seneca è necessario che il sapiens si impegni
socialmente e politicamente, tuttavia, qualora l’attività politica diventi un motivo di
turbamento, per l’uomo è contemplata l’ipotesi del retirum, estraniazione, rinuncia
alle attività sociali al fine di tutelare il suo equilibrio interiore. Egli stesso infatti si
era allontanato dalla figura di Nerone, per ritirarsi poi a vita privata, abbracciando
così il principio epicureo del λάθε βιῶσας. È dunque evidente che, pur essendo
considerato meramente uno stoico, Seneca fosse invece un eclettico (da ἐκ+ λέγω=
scelgo), poiché appoggiava e faceva propri alcuni elementi di più movimenti
filosofici, come Cicerone.

Tutto è poi sovrinteso da un λόγος, che, assumendo caratteri simili al Dio Cristiano,
stabilisce per tutto un obiettivo finale (escatologia).
Attraverso un progressivo cammino etico, però, gli uomini possono sviluppare la
propria razionalità fino a farla coincidere con il λόγος universale, arrivando per
esempio a comprendere le leggi della natura e ad accettarle (anche se ci sembrano
spietate o assurde). Si tratta ovviamente di un compito non semplice che comporta
un grado di perfezione quasi disumana; non a caso la figura del saggio stoico è un
paradigma morale quasi privo di esempi pratici.

Quanto alle opere, che ci sono pervenute quasi interamente, ci giunge, con il nome di
Consolationes o Dialogi, un primo blocco di 10 dialoghi in 12 libri (poiché il De Ira
è organizzato in 3 volumi).
Pur ispirandosi alla struttura Platonica, non si tratta di dialoghi veri e propri: il tono è
senz’altro dialogico, ma di fatto lo scambio tra gli interlocutori è raro, per cui i
testi appaiono quasi dei monologhi (a eccezione del De traquillitate animi, in cui
l’amico Sereno è un interlocutore più partecipe); piuttosto, queste opere risentono
della tecnica letteraria della diatriba cinico-stoica, caratterizzata da un andamento
colloquiale, dalla presenza di apostrofi, proverbi, paragoni, fittizie obiezioni di
presunti ascoltatori e soprattutto sententiae, frase, possibilmente ad effetto, che
racchiude un concetto universalmente valido.

Consolatio
La consolatio è un particolare genere di prosa nato in Grecia dalle orazioni funebri,
durante i quali si imbastivano discorsi finalizzati a consolare i parenti del defunto ed
ad esaltare la sua figura. Spesso però, l’occasione di recare sollievo e consolazione ai
luttuosi era solo un espediente per trattare argomenti più ampi, quali la morte, il
bene e il male.
Concernenti questo genere, 3 sono le opere di Seneca:
1) Consolatio Ad Marciam
L’opera è dedicata a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, letterato la cui opera era stata
censurata e mandata a rogo sotto Tiberio. La donna, dopo la perdita del padre,
affronta ora, in tempi più recenti, anche la prematura perdita del figlio, morto
suicida: a questa madre affranta, Seneca propone uno stravolgimento dei luoghi
comuni che afferma la morte non come il peggiore dei mali, ma come una
liberazione dalla sofferenza terrena e come destino inevitabile all’essere umano e
perfino all’universo. Si verificherà infatti per Seneca la Conflagrazione universale,
dottrina secondo la quale una grande catastrofe cosmica assorbirà tutta la natura per
ricominciare un nuovo ciclo identico al primo.
A chiusura dell’opera è poi la visone del ricongiungimento del figlio morto con il
defunto nonno nei Campi Elisi, finale particolarmente solenne.

2) Ad Helviam matrem
È forse lo scritto più personale e partecipata: è dedicata alla madre Elvia, addolorata a
causa della lontananza dal figlio, relegato in Corsica, per ordini imperiali. Nel corso
dell’opera, Seneca insiste che la morte non sia un male, e dunque nemmeno
l’esilio: il motivo di consolazione principale verte sul fatto che il saggio non è mai
esule, sia perché non manca mai di ciò di cui ha veramente bisogno, sia perché egli è
cittadino del mondo e dunque può sentirsi parte dell’universo e ne può ammirare
l’armonia.

3) Ad Polybium
L’opera è dedicata a un potente liberto presso l’imperatore Claudio, Polibio, il quale
era in lutto per la morte dell’amato fratello, tuttavia, il testo è molto encomiastico, e
addirittura di adulazione: l’obiettivo di fondo di Seneca era infatti quello di tentare di
accattivarsi questo liberto, e quindi lo stesso imperatore Claudio, circondato e quasi
comandato dai funzionari di corte, di modo da poter rientrare a Roma.

Dialogi
I Dialogi, genere che si propone di guidare chi si pone sulla via della saggezza,
caratterizzata dal dominio di sé e da un pacificato equilibrio, sono invece 7:
1) Ad Novatum De ira
Diviso in 3 libri, è la trattazione del fenomeno dell’ira e delle sue conseguenze a
livello fisico, oltre che psicologico: durante un impeto d’ira il viso è contratto, il
corpo si tende e l’anima è in preda all’irrazionalità, sentimento al quale il saggio non
dovrebbe mai essere soggetto.
L’ira, tuttavia, può essere tenuta sotto controllo dalla ragione: come le onde da
lontano cominciano ad ingrossarsi e a procedere, arrivando a riva ingigantite e
travolgendo ciò su cui si infrangono, così il compito della filosofia è quello di fornire
strumenti perché si possano distinguere le passioni, individuare i loro movimenti, la
loro incidenza sull'animo e frenarle prima che lo travolgano.
Nei Dialogi il dedicatario è solitamente l’interlocutore, seppur fittizio, prassi che ci
rimanda dunque al sistema dialogico platoniano.
2) Ad Paulinum de Brevitate vitae
Dedicato a Paolino, prefetto dell’annona, il dialogo tratta il problema del tempo e
l’annessa fugacità della vita. Per Seneca, le lamentele che gli uomini muovono circa
l’esiguità del loro tempo nascano da un errore di valutazione: la vita è molto lunga e
pertanto il tempo è sufficiente per compiere azioni virtuose, tuttavia, l’uomo lo
spreca in attività banali, rendendosene conto troppo tardi una volta giunto in fondo
alla propria esistenza.
Nella concezione senechiana, solo i sapientes sono in grado di sfruttare la vita in
maniera efficace: consapevoli che il presente è l’unico lasso temporale pienamente
sotto il loro controllo, agiscono di conseguenza considerando il tempo in base alla
sua qualità, e non quantità.

3) Ad Serenum de constantia sapientis


Il dedicatario è l’amico di Seneca Anneo Sereno, profondamente umiliato per essere
stato coinvolto in una torbida vicenda imperiale ed essere stato utilizzato come
prestanome dall’imperatore Nerone, che, in questo modo, pur salvaguardando la sua
immagine, poteva intraprendere relazioni illegittime con le liberte.
Seneca dunque si rivolge all’amico rassicurandolo: il saggio, pur avendo subito gravi
onte pubbliche, non può soffrire l’offesa, poiché il suo unico bene è la virtù. Ne
deriva una superiorità morale che lo rende imperturbabile e gli permettono di
godere di una felicità interiore.

4) Ad Gallionem de vita beata


L’opera è dedicata a suo fratello Anneo Novato, denominato Gallione a dopo essere
stato adottato dal retore Giunio Gallione.
Nella prima parte Seneca tratta il tema della felicità in chiave stoica, per poi passare
a quella epicurea: mentre gli stoici ricercano la felicità nella virtù intesa come
indagine su se stessi e come equilibrio tra se stessi e la realtà esteriore, per gli
epicurei la felicità coincideva con il piacere.

Nella seconda parte poi, Seneca, il quale conduceva comunque una vita agiata, tratta
poi il tema della ricchezza, smentendo così l’opinione pubblica che lo dipingeva
come un ipocrita: il sapiens può essere padrone di beni materiali, a patto che questo
non ne diventi schiavo e sia pronto a staccarsene senza rimpianto in qualunque
situazione.

5-6) Ad Serenum de tranquilliate animi e Ad Serenum de otio


Il dedicatario è Anneo Sereno, uomo affetto dal taedium vitae e costantemente nel
dubbio se dedicarsi al negotium, cioè alla vita politica e agli affari, o all’otium, la
vita contemplativa e privata. Seneca non suggerisce però una risposta univoca ed
inequivocabile, ma una via di mezzo: il vero saggio è infatti colui che riesce a
barcamenarsi tra queste due dimensioni equilibratamente. Qualora infatti la
dimensione del negotium diventi motivo di turbamento dell’animo, è doveroso per
l’uomo allontanarsi dalla prima occupazione per dedicarsi esclusivamente alla
seconda.

7) Ad Lucilium de providentia
All’amico Lucilio, al quale sono indirizzate anche le Epistulae, 124 lettere, e alle
Naturales quaestiones, Seneca dedica l’ultimo dei Dialogi.

Questo dialogo contiene evidenti analogie con la cristianità, motivo per il quale
Seneca fu poi reinterpretato in chiave cristiana durante il medioevo: il filosofo stoico
afferma infatti in questa opera l’esistenza di un λόγος universale, che in un’ottica
finalistica, conduce la realtà, e che è dunque in grado di provocare dolore anche
agli uomini più buoni. Per spiegare quest’ultima contingenza, Seneca interpreta il
potere di infliggere sofferenza come uno strumento di miglioramento: cosi come la
Provvida sventura manzoniana è una prova mandata da Dio per riscattare l’uomo,
così le avversità per Seneca rinsaldano la virtù e rinforzano lo spirito.

Opere in prosa
Lo schema di questi testi non si differenzia dalle opere precedenti, per cui non è
chiaro per quale motivo essi siano state tramandati a parte
De Clementia
Il de clementia, testo di filosofia politica dedicato a neoimperatore Nerone, tratta il
sistema ideale del buon governo e analizza gli atteggiamenti che il governante
dovrebbe adottare: in quanto specchio in terra del λόγος universale, che tutto
amministra saggiamente, il sovrano dovrebbe punire malvolentieri e soltanto se
costretto da realtà intollerabili, e non mosso da sadico piacere né da ire vendicative,
soprattutto a seguito di delitti di lesa maestà e questioni di carattere privato.

In questo testo pertanto, Seneca si dichiara evidentemente a favore della monarchia,


ormai unico e migliore forma di stato possibile (al contrario di quanto affermato da
Tacito, che la presenterà come un male necessario).

De beneficiis
Divisa in 7 libri, l’opera tratta dettagliatamente il rapporto che intercorre tra il
problema della beneficenza e della relativa gratitudine: per Seneca le azioni
benefiche possono e devono essere un gesto spontaneo e disinteressato, e compiute
da uomini mossi esclusivamente dal desiderio di una realizzazione personale; la
gratitudine invece è arbitraria, cioè espressa da alcuni in maniera più cerimoniosa e
smaccata, e da altri in modo più schivo.

Secondo il filosofo, chiunque può recare favori, anche uno schiavo al suo padrone: è
infatti importante lo stato interiore di colui che compie il gesto, non la sua
condizione sociale. Attraverso questo pensiero, Seneca sembra infatti portare avanti
un messaggio di fraternità e di universalità dell’uomo, tuttavia si contraddirà più
avanti.
Lettere morali a Lucilio
Indirizzate all’eques Lucilio Iuniore, procuratore della Sicilia e interessato letterato,
si tratta di una raccolta di 124 lettere, attraverso le quali Seneca tenta di dare risposta
a problemi filosofici che spesso l’amico si poneva.
Il modello seguito non è tuttavia quello ciceroniano, ma quello epicureo; Cicerone
viene anzi criticato: mentre Cicerone nelle Epistulae allude alla sfera prettamente
privata, alla sua condizione di esule, e a fatti che si stavano verificando in Roma,
Seneca dichiara esplicitamente di voler scrivere per i posteri per mettere a loro
disposizione le sue conoscenze ed esperienze.

L’epistolario era pensato dunque come un testo pubblicabile, quasi un frammentario


trattatello filosofico. Il pretesto epistolare consente inoltre di trattare gli argomenti
più vari in modo asistematico ma giustificato.
Il fine dell’opera è quindi protrettico, cioè di introduzione alla filosofia, intesa come
strumento per raggiungere la saggezza, ovvero realizzare la virtù e quindi essere
felici.
Nel corso dell’opera, Seneca invita, in nome di questa ricerca, ad eseguire
giornalmente un esame di coscienza (altro tema riconducibile al cristianesimo),
attuabile ripercorrendo la sera le azioni compiute durante la giornata.

Tragedie
Circa la produzione teatrale, le opere di Seneca rappresentano un vero e proprio
unicum letterario: le 10 tragedie, da lui scritte nel rispetto delle unità aristoteliche
(distinte in unità di tempo, unità di spazio, unità di azione), sono infatti gli unici testi
tragici romani pervenuti a noi integralmente.

Pur riprendendo i contenuti narrati da tragediografi greci come Eschilo, Sofocle ed


Euripide, Seneca non ne rispetta tuttavia alcune prassi: mentre la tragedia greca non
rappresentava direttamente sulla scena l’omicidio, che era dunque annunciato da
qualche testimone, il filosofo stoico insiste su particolari macabri e descrive scene
orribilmente cruente: è lecito pertanto ritenere che queste tragedie non fossero state
scritte per essere rappresentate in teatro, ma semplicemente destinate alla lettura.

Delle 10 tragedie di Seneca, 9 sono di argomento mitologico; la decima è l'Octavia,


unica tragedia praetexta del mondo romano che ci sia giunta per intero. Essa tratta
la triste fine della prima moglie di Nerone, ripudiata e infine fatta uccidere dal marito
affinché quest’ultimo potesse sposare l’amante Poppea. L’uccisione di Octavia,
avvenuta nel 62, segnò a tal punto Seneca da ritirarsi a vita privata ed allontanarsi del
tutto da Nerone e dall’ambiente politico esacerbato.
Nonostante i fatti riportati siano contemporanei a Seneca, questa praetexta è ritenuta
non autentica, sia perché Seneca è presente tra i personaggi, sia poiché il testo
profetizza, con particolari abbastanza precisi, la morte di Nerone, avvenuta nel 68, tre
anni dopo la morte di Seneca, avvenuta nel 65
Hercules Furens
La vicenda presenta Ercole che, di ritorno dagli inferi dopo l'ultima fatica (uccisione
del Cerbero), trova prigioniera Megara, moglie di Ercole stesso.
Dopo essersi vendicato, viene colto da una temporanea pazzia per mano di Giunone,
e, in un momento di ira, fa strage della famiglia. Tornato in se stesso, medita il
suicidio, ma, trattenuto dal padre e dall'amico Teseo, decide di andare ad Atene per
cercare purificazione.
Il comportamento del giovane, analogo a quello di Aiace, richiama anche la tematica
filosofica affrontata da Seneca nel De ira.

Medea, Agamemnon, Oedipus

Phaedra
La narrazione è affrontata anche da Ovidio, e da Euripide nell’Ippolito incoronato.

Il protagonista è Ippolito, figlio del re ateniese Teseo, che in seconde nozze ha


sposato Fedra, matrigna e pressoché coetanea di Ippolito. Poiché Ippolito, dedito alla
caccia e alla sola Artemide, a cui è consacrato, vive in castità e disprezza l’amore,
Afrodite si dichiara trascurata dal giovane e temendo che gli uomini, vedendo
questa propensione di Ippolito per Artemide, non facessero più sacrifici in suo onore,
decide di vendicarsi, servendosi proprio di Fedra: approfittando della temporanea
assenza di Teseo, la dea fa in modo che Fedra si innamori del figliastro e,
nell’impossibilità di pagare questo amore proibito, precipiti in uno stato di
struggimento e di delirio.
Dopo essere stata rifiutata, l’eroina si impicca dopo aver però lasciato una lettera in
cui, rovesciando diametralmente la verità dei fatti, accusa Ippolito di aver tentato di
abusare di lei. Teseo, tornato in patria, Teseo prega allora il dio Poseidone, da cui lui
discende, di una vendetta mortale su Ippolito, che non tarda ad arrivare: dopo
essere stato esiliato, il giovane si trova in riva al mare per partire, quando un toro
infuriato, rincorrendo il carro, fa in modo che i cavalli lo facciano sbattere
violentemente contro le rocce. Ancora agonizzante, Ippolito viene portato alla reggia,
dove compare la dea Artemide, che svela al re l’innocenza del giovane. A Teseo
non resta che piangere lacrime amare e riconciliarsi con il figlio negli ultimi attimi
terribili di agonia. In una variante del mito, Artemide porta Ippolito nel Lazio, dove
continuerà la sua vita quasi da immortale.

Tyestes
Atrio si vuole vendicare del fratello di Este, che gli ha sedotto la moglie e insidiato il
trono: mette quindi in atto una sadiche macabra vendetta, invitando a cena al fratello
e facendoli mangiare le carni dei figli.

Lo scopo delle opere tragiche di Seneca è didattico: le tragedie si limitano a


rappresentare situazioni più concrete quanto già espresso dall’autore negli scritti
filosofici (Dove posso arrivare applicando quanto espresso nel De Ira? A situazioni
come nell’Eracle).
MARCO ANNEO LUCANO
Nipote di Seneca, nacque anch’egli a Cordova nel 39 d.C., per trasferirsi l’anno dopo
a Roma con la famiglia. Durante i suoi anni di studi, Lucano strinse amicizie
letterarie importanti con letterati come Perseo, autore di satire, e anche con il giovane
Nerone, per essere ammesso poi all’interno della sua corte come consigliere
imperiale.
Forse per rivalità letteraria, nel 60 i rapporti con Nerone si incrinarono fino a
precipitare con la congiura dei Pisoni, e Lucano, che nel frattempo aveva manifestato
simpatie repubblicane, viene condannato insieme a Seneca al suicidio nel 65. La
sua morte, descritta da Tacito nel XV libro degli Annales, è un chiaro esempio di
exitus stoicorum, cioè atteggiamento poco drammatico da parte di chi vede la morte
come una via di fuga da una realtà in cui non si può più operare.

Delle molte opere di Lucano, per lo più andate perdute, rimangono solo alcuni
frammenti o esclusivamente i titoli, che suggeriscono tuttavia una indubitabile
versatilità e riportano i suoi interessi principali. Il suo capolavoro, nonché opera
meglio conservata fino ai nostri giorni, è però il Bellum Civile, da egli stesso definito
Pharsalia, che, considerabile una sorta di inno alla realtà repubblicana, si distacca in
modo netto dalla linea celebrativa dell’imperatore Nerone da Lucano
precedentemente adottata.

Progettata secondo lo schema strutturale del poema epico, probabilmente da


distribuire in 12 libri (come l’Eneide), l’opera non fu tuttavia portata a compimento,
poiché, a causa della sua prematura morte, il poeta riuscì ad approntare solo i primi
10 libri.
Distaccandosi dai temi tradizionali dell’epica, che trattava vicende molto lontane
rispetto all’autore, Lucano affronta lo scontro politico tra Cesare e Pompeo, fino
alla battaglia di Farsalo nel 48 a.C, argomento abbastanza recente.
L'opera si apre con l'esposizione dell'argomento e con un ampio elogio di Nerone;
vengono in seguito elencate le cause della guerra, per lasciare poi spazio alla la vera e
propria narrazione:
Intimorito dai continui successi di Cesare, il senato incaricò Pompeo, nel 52 a.C., di
assumere il ruolo di console sine collega,: ristabilito l’ordine in una Roma che
versava in un clima confusionario ed incerto, Pompeo si preparò allo scontro con
Cesare.
Nel 49 a.C infatti, terminato il proconsolato di Cesare, questo avrebbe dovuto
sciogliere l’esercito e fare ritorno a Roma; si fermò tuttavia sulla linea del pomerium
e, ignorando l’ultimatum del senato, al grido alea iacta est marciò contro Roma.
Prima di varcare il confine appare a Cesare, consapevole che avrebbe scatenato una
guerra civile non indifferente, il fantasma della patria, che lo scongiura di evitare
l'ennesimo bagno di sangue, ma invano.
Nel libro VI, Sesto Pompeo, uno dei figli del generale Gneo Pompeo, si reca presso la
maga Eritto per conoscere le sorti dello scontro imminente; ella richiama in vita il
cadavere di un soldato (espediente della necromanzia) che annuncia un futuro
tragico per Pompeo e per lo stato romano.
Nel frattempo sconfitti in modo fulmineo i pompeiani rifugiati in Spagna, Cesare
organizza una seconda campagna Grecia, sconfiggendo Pompeo a Farsalo il 9 agosto
del 48 a.C.
Pompeo tuttavia, scampato alla morte, trova rifugio in Egitto presso il faraone
Tolomeo XIV, il quale, convinto di compiacere Cesare, tradisce Pompeo
uccidendolo; sappiamo poi che Cesare al contrario reagirà destituendo Tolomeo e
insediando sul trono la colta ed affascinante sorella Cleopatra, con cui intreccerà
anche una relazione, ma quest’ultima parte della vicenda non è riportata nella
Pharsalia.

Morto Pompeo, è Catone Uticense ad assumere il comando delle truppe pompeiane


rimaste, affrontando svariati pericoli. Anche Catone viene tuttavia raggiunto da
cesare e sconfitto a Tapso, colonia fenicia (in africa quindi), nel 46 a.C.: per non
cadere in mani nemiche, Catone si suicidò stoicamente a Utica, convinto che
Cesare avrebbe leso le libertà repubblicane e instaurato un governo autocratico.
Nell’ultimo libro Cesare visita la tomba di Alessandro magno, per poi festeggiare la
vittoria sui nemici con una sontuoso banchetto, al quale partecipa anche Cleopatra.

Di 8000 esametri circa, la Pharsalia di Lucano dipinge una realtà devastata, un


mondo sull’orlo della rovina a causa dello scontro tra Cesare e Pompeo, metafora
del destino di Roma.
Lucano, attraverso la scelta del momento storico, si pone l’obiettivo di sottolinea il
nefas commune che fu la guerra civile, fratricida poiché scontro sanguinario tra
soggetti dello stesso popolo.
A permeare l’intero poema è un generico pessimismo, accompagnato da un certo
cinismo nei confronti di fenomeni ritenuti soprannaturali, per i quali il poeta non
tarda a fornire spiegazioni razionali. L'assenza del divino non deve tuttavia far
pensare a una completa omissione dell'elemento soprannaturale, che invece è
abbondantissimo nel poema: fatti sinistri e cattivi presagi, incantesimi, apparizioni
sono un filo conduttore dell’intera narrazione.

L’opera e le vicende narrate suggeriscono una sorta di dichiarazione di sfiducia non


solo nei confronti dell’impero romano, ma anche nei riguardi di coloro che in
precedenza avevano cantato ed esaltato la grandezza di Roma e predetto per la
comunità romana un futuro luminoso; e Virgilio ne è un lampante esempio. La
Pharsalia è dunque da considerarsi un’Anti-Eneide, non solo sul piano
contenutistico, ma anche stilistico: lo stile di Lucano è drammatico e in movimento
continuo, ricco di enfasi e sententiae, di paradossi, antitesi, ossimori, insieme di
fattori che nel complesso rispecchiano l’illogicità del reale percepita dal poeta
stesso. I versi di lucano sono anche caratterizzati, in forte contrasto con lo stile
limpido ed equilibrato di Virgilio, di una enigmatica oscurità: spesso infatti gli
endecasillabi sono densi di concetti e poco chiari, e dunque anche difficili da rendere
in italiano.

All’interno dell’opera sono distinguibili 3 diversi blocchi, così come 3 sono i


protagonisti dei fatti narrati:
1. Cesare, tiranno affascinante ma sinistro, invasato dal furor, viene paragonato da
Lucano a un fulmine. Dietro a cesare si cela la figura di Nerone, ma molti
riconoscono le somiglianze anche con Catilina, personaggio negativo ma
coerente con i propri ideali
2. Pompeo, paladino della libertas, ma intorpidito nel suo intento a causa
dell’abbaglio di potere e ricchezza, e per questo paragonato a una quercia. Si
riscuoterà troppo tardi, e per questo subirà una sonora sconfitta
3. Catone Uticense, portatore dei valori repubblicani destinati alla sconfitta
Nel terzo libro, Lucano compie una digressione riguardante le truppe di Pompeo,
delle quali, rifacendosi al Catalogo delle navi di Omero, fornisce un elenco.

Le fonti da cui Lucano trasse ispirazione per la narrazione storica probabilmente


furono Tito Livio e Cesare, e forse anche Seneca il vecchio, e Asinio Pollione. La
Pharsalia non è tuttavia definibile come un’opera storica, poiché, là dove è possibile
operare un confronto, ci si accorge che in genere Lucano ha sottoposto i fatti storici a
una deformazione, rielaborandoli in modo personale e piegandoli al fine di
avvalorare le proprie tesi.

AULO PERSIO FLACCO


Nato a Volterra nel 34 d.C., si trasferì a Roma all’età di circa 12 anni, dove iniziò la
sua formazione letteraria sotto il grammatico Remmio Palemone, personaggio
abbastanza noto per aver introdotto nel "sistema scolastico” dell’epoca lo studio dei
principali poeti dell’eta augustea come Catullo e Virgilio, oltre che il solo
approfondimento dell’epica arcaica: dalle sue satire traspare infatti un amore
incondizionato per la poetica più recente, e un disprezzo nei confronti dei poeti suoi
contemporanei, dediti alla poesia a unico scopo di lucro.
Dopo soli quattro anni di didattica con Palemone, Persero divenne allievo del filosofo
stoico Anneo Cornuto, grazie al quale entrò a contatto con intellettuali come Lucano
e Seneca: queste conoscenze influirono notevolmente sulla sua persona e sulla sua
impostazione filosofica, che da quel momento prese una piega essenzialmente
stoica.
Perso il padre molto giovane, Perseo ereditò una cospicua fortuna, che a sua volta
lasciò alla madre e alla zia, alle quali era molto legato, nel 62 d.C., quando morì
all’età di soli 28 anni, mentre la sua ricca biblioteca andò all’amico Cornuto.

Quanto alle opere, sono giunte solo 6 satire in esametri, pubblicate postume
dall’amico Cornuto, oltre a un breve testo programmatico di 14 coliambi (trimetro
giambico scazonte), che probabilmente si trovava all’inizio della raccolta: Perseo
spiega infatti le sue intenzioni poetiche, esprimendo un particolare disprezzo verso
la poesia alta, tragica ed epica; la sua predilezione verte invece sul genere satirico,
che non ambisce a nessuna ispirazione proveniente dall’alto in quanto specchio di
realtà quotidiane e realistiche. Perseo si dichiara inoltre semipaganus, cioè mezzo
campagnolo, sottolineando dunque la propria assoluta estraneità al panorama dei
letterati "alla moda".
I modelli delle satire di Perseo sono da una parte Lucilio, nei toni aggressivi e
sferzanti, e dall’altra, nei temi, Orazio, che invece evidenziava la negatività dei vizi
con velata e quasi distaccata ironia, dominando sempre il disprezzo e senza
dimostrarsi inflessibile nei confronti di chi si dimostrava immorale.

Nell’aggredire i difetti umani, Persio, pervaso dall’enfasi dell’invettiva, salta spesso


i nessi logici, con il risultato di un testo oscuro e poco lineare. Analogamente, lo stile
è molto icastico, forte e violento, caratterizzato da un lessico eccessivo: l’autore
condanna i toni altisonanti l’epica e la poesia encomiastica dei poeti di bassa lega
suoi contemporanei, che tendevano a riproporre gli stessi stereotipi della mitologia,
già ampiamente trattati in epoche precedenti. Al fine di scuotere le coscienze, Persio
utilizza la cosiddetta iunctura acris, che, contrapposta alla callida iunctura di
Orazio, consiste in un’associazione di parole aspra, ardua e difficile, dovuta a una
lingua volgare e cruda.
Nello svelare nel dettaglio tutti gli aspetti più ripugnanti e grotteschi del vizio, che
viene preso in considerazione in quanto fenomeno, l’intento di Persio non è
moraleggiante o pedagogico, ma semplicemente descrittivo e finalizzato a suscitare
disprezzo e ribrezzo nel lettore.

Potrebbero piacerti anche