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Seneca

Con Seneca emerge una “figura nuova”, quella di un filosofo e letterato che non si dedicò all’otium
letterario. Egli fu uno dei personaggi più importanti dell'impero soprattutto come “uomo d'azione”, si
immerse attivamente nella vita pubblica e politica, ricoprendo ruoli anche molto importanti, basti pensare
che fu maestro e consigliere dell’imperatore. Operò con l’obiettivo di rendere migliore proprio quel potere
che cercava di servire e che era incarnato da figure sanguinarie come Nerone, dalle quali, alla fine, fu
travolto.
Lucio Anneo Seneca, figlio del retore Seneca il Retore, nasce nel 4 a.C. a Cordova, in Spagna. Il padre
apparteneva a una ricca famiglia provinciale di rango equestre. Si trasferì a Roma all’epoca di Augusto,
sposò una donna integerrima, Elvia, da cui ebbe tre figli: tra cui Lucio Anneo, il secondo genito.
A Roma, Seneca ricevette un’eccellente formazione letteraria e per alcuni anni si trasferì in Egitto per
tentare di curare l’asma, un male che pativa da anni e che più volte lo aveva portato a pensare al suicidio.
Tornato a Roma, iniziò, attorno al 31 d.C., una brillante carriera politica e divenne questore. Oratore di
successo, ammirato e acclamato per le sue straordinarie capacità intellettuali e la sua formidabile
eloquenza, ben presto si fece notare ed entrò in Senato diventandone uno dei membri più autorevoli.
Caligola, geloso delle sue qualità eccezionali, pensò di farlo uccidere, a smuovere Caligola dalle sue
posizioni fu un’amica del principe che gli fece notare che ben presto, Seneca, a causa delle sue pessime
condizioni di salute sarebbe morto.
Nel frattempo, Messalina, sposa del nuovo imperatore Claudio, lo fece esiliare in Corsica con l’accusa di
essere coinvolto dell’adulterio di Giulia Livilla, giovane sorella di Caligola. L’intento di Messalina era quello
di colpire proprio Giulia che sarebbe stata uccisa due anni dopo nell’isola di Ventotene dove era stata
esiliata, mentre Seneca trascorse ben 8 anni in Corsica, da cui tentò anche di andarsene, scrivendo una
“Consolatio ad Polybium”, ricca di elogi, con il fine di riconciliarsi con l’ambiente della corte di Claudio.
(come aveva fatto Virgilio anni prima)
Messalina fu messa a morte per aver commesso un adulterio e aver congiurato contro suo marito, e così
Agrippina Minore (sorella di Livilla), sposò Claudio. Nel 49 d.C, fu proprio lei a richiamare Seneca, non di
certo per amore della giustizia o della filosofia ma affinché egli diventasse un tassello importante per
portare a termine il suo progetto di conquista del potere. Il suo piano prevedeva che Seneca diventasse
precettore di Nerone e che Nerone diventasse successore di Claudio a scapito del suo erede legittimo,
Britannico, figlio di Claudio e Messalina. Così Agrippina, avvelenò Claudio (a questo periodo risale la stesura
di un opuscolo satirico, in cui Seneca deride ferocemente l’imperatore defunto rappresentandolo come
uomo ridicolo, intitolato “Apokolokyntosis Divi Claudii”) e nel 54 Seneca divenne precettore di Nerone. Egli
cercò di farne un reggente illuminato, ma davanti alla smania di assolutismo dell’imperatore (che in pochi
anni ordinò l’assassinio della madre e forse del prefetto Afranio Burro) si ritirò a vita privata. Pochi anni
dopo, coinvolto, anche se indirettamente, nella congiura di Pisone, si suicidò.
Il pensiero
Di Seneca filosofo resta il giudizio di Quintiliano, che dice “in filosofia non fu molto accurato, ma fu eccelso
nella condanna dei vizi”, da cui evince che la grandezza del pensiero di Seneca stesse nella sua dottrina
morale e che egli non fu un pensatore sistematico. Infatti, riteneva che la filosofia non fosse un esercizio
del pensiero, ma parte della vita; una guida per l’azione, un conforto per l’esistenza, un modo di essere e
non solo di ragionare. Seneca voleva “servire gli uomini” e non chiudersi nell’otium contemplativo, e
proprio per questo, nei suoi scritti adottò lo stoicismo. Una corrente filosofica che nasce con Zenone, che
trasferitosi ad Atene, aprì una scuola in cui si svolgevano lezioni di stoicismo. Zenone riteneva che
l’individuo potesse raggiungere la felicità solamente non avendo contatto con gli altri). Questa corrente
filosofica si evolve con Panezio in Stoicismo moderato, secondo il quale l’uomo può partecipare alle
attività sociali senza rimanere coinvolto. Questa ideologia consente a Seneca di essere
contemporaneamente un uomo d’azione e di dedicarsi alla sapienza.
Gli stoici, in epoca imperiale, appartenevano alla classe dirigente e in quanto filosofi si sentivano, al servizio
della società e dell’umanità, e si assumevano il compito di rendere questa società migliore e più giusta,
contribuendo al miglioramento di sé stessi e degli uomini attorno a loro.
Congiungere potere e filosofia, soprattutto in epoca imperiale, fu difficile. Infatti, Seneca proprio per la
posizione che occupava all’interno della società; dovette combattere contro il dispotismo e la crudeltà di
imperatori come Caligola e Nerone. Egli ambiva a essere un uomo libero nell’anima e anche un buon
romano, fedele servitore dello Stato. Quest’ideale era di difficile realizzazione, in quanto vi era un problema
che comprendeva un’intera classe sociale: il conflitto tra Senato e imperatore, scaturito dal fatto che
l’imperatore aveva sottratto ai senatori il controllo dello stato e di conseguenza anche gli enormi privilegi
che ne derivavano. Dunque, Seneca scelse lo stoicismo per giustificare e nobilitare l’azione; e per tutte
queste ragioni i suoi scritti hanno un carattere poco teorico mentre sono densi di problemi che toccano
l'esistenza umana; il progresso dell'anima, la posizione dell'intellettuale nella società e nell'organizzazione
del mondo; dato che per gli stoici ogni cosa rientrava in un grande progetto divino che soverchiava
l'esistenza del singolo uomo o anche dello Stato.
Il fine della filosofia stoica è la saggezza, il filosofo è colui che ha imparato a essere “saggio”, ossia a non
lasciarsi turbare dalle circostanze, ma a mantenersi fermo e saldo nell’anima. Ciò non significa, che il
sapiente debba scegliere di condurre una vita nell’isolamento anzi, per Seneca il sapiente deve essere un
“vir bonus”, come ne furono esempio Scipione e Catone Uticense nella storia romana. Solamente
conversando con uomini buoni, imitandone l’azione, educando la propria anima alla moderazione e alla
forza davanti ai casi della vita potrà raggiungere la serenità dell’animo e attraverso essa la sapienza,
acquistando la consapevolezza di valori come l’amicizia, il dovere, il senso del tempo e della propria
posizione nel mondo.
Un principio fondamentale della dottrina stoica è il concetto di natura, non considerata il prodotto di leggi
meccaniche e impersonali (Epicuro) ma un insieme vivente, governato, costruito con esattezza e progettato
da una mente divina e diretto da una forza razionale il Lògos da cui tutto dipende. Come questa ragione
divina domina l’universo, così la ragione deve dominare l’uomo. L’uomo si deve distaccare da:
-l’ignoranza: che impedisce di capire dove sta il bene e quali siano le cause dei fenomeni naturali;
-l’irrazionalità e passioni: a cui bisognare impedire di svolgere la loro azione nefasta.
La saggezza consiste nel mobilitare la ragione, fino a fare in modo che il comportamento razionale diventi
istintivo.
Un altro tema fondamentale dello stoicismo è il tema del tempo, è uno dei temi tipici del pensiero di
Seneca. Lo troveremo soprattutto nelle opere dell'ultimo periodo come le “Epistulae ad Lucilium”. Il tempo,
dono della natura, è l'unico vero bene del quale l'uomo disponga e non deve essere sprecato in attività
futili, ma deve essere investito per il miglioramento di sé. Il tema è affrontato da Seneca in una prospettiva
interiore, secondo lui non importa la quantità del tempo che abbiamo a disposizione, ossia quanto tempo
ci venga concesso, ciò che conta è la qualità del tempo che noi spendiamo e quest’ultima dipende dalla
scelta etica dell'uomo.
Seneca compose le sue opere per tutto il corso della sua esistenza ma pochissime sono quelle databili con
certezza o associabili a un certo momento della sua vita. Pertanto, possiamo raggruppare le sue opere per
argomenti.
Le opere
Le opere di Seneca furono raccolte dopo la sua morte sotto il titolo complessivo di Dialoghi; non si tratta di
dialoghi veri e propri ma di agili trattati destinati alla divulgazione del pensiero stoico. Tuttavia sono molte
le opere non incluse nei Dialoghi, per esempio: De beneficiis (7 libri), De clementia (dedicato a Nerone), 124
Epistulae morales ad Lucilium (20 libri) considerata la sintesi del pensiero morale di Seneca e le Naturales
quaestiones (7 libri) che trattano problemi scientifici e che furono composte nell’ultimo periodo della vita di
Seneca.
Seneca scrisse anche 9 tragedie di argomento mitico, derivate da modelli greci (cothurnatae) e l’Octavia,
una tragedia di argomento romano che è stata trasmessa sotto il suo nome. Si tratta di un’opera non
autentica, in cui si fa riferimento alla morte di Nerone, che in realtà fu posteriore a quella del filosofo. Nella
tragedia compare anche, tra i personaggi, lo stesso Seneca.
Una delle opere più importanti è l’Apokolohyntosis, l’opuscolo satirico, che si rifà al genere letterario greco
della satira menippea. Fu composto in occasione della morte di Claudio con lo scopo di deridere
l’imperatore, infatti il titolo composto dai termini “apoteosi, divinizzazione” e “kolòkynta, zucca”,
suggerisce una parodia della divinizzazione di Claudio. In realtà, oltre le Naturales quaestiones, ci sono altre
opere non autentiche che vengono tramandate sotto il nome di Seneca, tra le più importanti ricordiamo le
presunte lettere tra Seneca e san Paolo. Queste lettere sono una falsificazione cristiana, che mirava a creare
un collegamento tra il sapiente pagano e il santo cristiano, entrambi imbevuti di dottrina stoica.
Le consolationes
Nel Corpus delle opere di Seneca sono presenti tre Consolationes: la “Consolatio ad Helviam matrem”, la
“Consolatio ad Polybium” e la “Consolatio ad Marciam”. Le prime due risalgono al periodo in cui il filosofo
era in esilio in Corsica, mentre la terza appartiene al periodo immediatamente precedente. Sono opere
abbastanza giovanili, scritte nel periodo in cui il pensiero di Seneca non si era ancora affermato, si tratta di
testi a metà strada tra la retorica e la parenesi morale, genere praticato sia in Grecia che a Roma.
La Consolatio ad Marciam è la più antica opera di Seneca, risale ai primi tempi dell'impero di Caligola ed è
rivolta a un’aristocratica, Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, storico autore degli Annali, per la perdita del
giovane figlio Metilio. L'opera di Seneca è percorsa da un forte spirito anti tirannico ed è incentrata sull'idea
che la morte è pietosa se impedisce un uomo di vivere in tempi terribili e che il ricordo del bene passato
deve consolare del male presente. Da qui evince anche il motivo storico secondo il quale non c'è da temere
la morte poiché dopo la morte c'è la possibilità di una vita nuova, una vita migliore. Seneca per consolare
Marcia allude all'immagine del nonno e del figlio di marcia che si incontrano.
Nella Consolatio ad Helviam matrem, dedicata a sua madre Elvia, sofferente per la lontananza del figlio,
scrive dall'esilio in Corsica nel 41, e la rassicura sulla sua condizione di esule e sulla convenienza di quella
situazione per le sue meditazioni. Ovunque si venga a trovare, ciascuno ha sempre con sè il proprio animo e
le proprie virtù, a cui fare appello in caso di necessità, tra l’altro, per il poeta l’esilio essendo un
cambiamento di luogo non può turbare la serenità dell’uomo, il quale deve essere capace di valutare gli
avvenimenti dando loro la giusta importanza.
La Consolatio ad Polybium è indirizzata all’onnipotente liberto di Claudio, Polibio. Seneca disperato per la
sua condizione di esule, scrive quella che sembra una lettera di conforto per Polibio che ha appena perso
suo fratello; in realtà è un modo per tentare di venire a patto con la corte imperiale e trovare un appoggio
per essere richiamato a Roma. Per l’elevato contenuto di adulazioni e elogi nei confronti di un uomo che
non era noto per le sue qualità morali o culturali non si colloca di certo tra le opere più alte del poeta.
In generale, le Consolationes sono opere piene di luoghi comuni retorici sulla sventura che attende ogni
essere umano, sui capricci del destino e sulla necessità di fronteggiare con forza i casi della vita: temi che
troveranno ben più ampio sviluppo nel pensiero di Seneca. Tuttavia, l’impianto generale è già senecano:
l’idea di fondo è che il dolore appartiene alla natura dell’uomo. Dolore che non può essere evitato, ma a cui
non bisogna abbandonarsi, poiché ciò rappresenterebbe una colpa, perché la ragione e il giudizio ci devono
allenare alla sofferenza, e un’anima preparata alla sventura soffre di meno. Persino la morte può essere un
bene, perché libera l’anima dalle catene del corpo.
Il controllo delle passioni e la vita del saggio
Seneca rifacendosi al concetto stoico di “saggio”, ossia di colui che ha raggiunto il pieno controllo razionale
delle proprio passioni, riprende all’interno delle sue opere il tema degli istinti irrazionali e del loro
dominio.
Ne sono un esempio i tre libri del De Ira, un trattato filosofico che scrisse nel 41, dedicandolo al fratello
Novato, in cui egli si chiede come faccia un uomo a lasciarsi trasportare dalla collera fino a diventare feroce
come un animale. Secondo Seneca l'ira è una pazzia momentanea e ciò che la causa è la sensazione di
un'offesa subita, una “iniuria”. La prima reazione all'offesa può essere un moto di rabbia, un “impetus”
automatico, questa però non è ancora ira, che subentra quando nasce la consapevole volontà di nuocere gli
altri. Uno degli scopi del trattato è dimostrare che l'offesa per il saggio non esiste egli deve infatti rendersi
imperturbabile in modo che qualsiasi sia l'offesa non lo tocchi nel profondo dell'anima.
Lo stesso argomento si ritrova anche nel testo De Constatia Sapientis, dedicato al prefetto dei vigili e amico
di Seneca, Sereno, un epicureo che il filosofo cercava di convertire allo stoicismo. Secondo Seneca superato
l’impetus, bisogna iniziare un dialogo con sé stessi in modo che si assorba l'idea che nessun’offesa deve
prendere possesso dell'anima e insediarvisi, tutto dipende dalla giusta valutazione delle cose e dalla
ragione che tiene a freno le passioni.
Uno sviluppo di questa linea di pensiero si ha nel trattato De Tranquillitate Animi, dedicato all'amico
Sereno, che risale all'epoca in cui Seneca era ancora in contatto con Nerone. Il poeta si domanda cosa porti
un uomo a calmare i moti dell'anima in modo da sentirsi più in armonia col mondo e quindi, dal punto di
vista degli stoici, più vicino alla sapienza. Un animo inquieto non può essere quello di un uomo felice perché
chi cerca qualcosa senza mai trovarla si condanna solamente all'infelicità. Seneca indica dei rimedi che egli
definisce esercizi spirituali da praticare con costanza:
-frequentare uomini buoni,
- allontanarsi dagli uomini nefasti,
-impegnarsi nella vita al servizio del bene comune,
-praticare la frugalità,
-non andare a caccia di piaceri e
-allenarsi ad attendere serenamente la morte.
La saggezza consiste nella capacità di farsi guidare dalla ragione sempre, sia nel pensiero e nell’azione. Nel
trattato De Vita Beata, il filosofo afferma che il giudizio di un uomo può essere influenzato da: ignoranza e
cedimento agli impulsi. Un filosofo deve orientare la propria vita in modo da imparare e quindi lottare
contro questi due nemici dell'anima; così quando arrivano la sventura e il dolore sarà pronto ad affrontarli
perché ha appreso come esercitare con forza e fermezza il suo giudizio. Seneca utilizza quest'opera anche
come una forma di autodifesa nei confronti di chi gli rimprovera di predicare bene ma di comportarsi in
modo del tutto opposto rispetto a un filosofo distaccato dal mondo. Coloro che lo criticano, gli rinfacciano
l'ingente quantità di ricchezze accumulata e l'elevato tenore di vita e Seneca risponde affermando di essere
un uomo non sapiente ma che tende alla Sapienza e ciò giustifica la sua imperfezione.
Il rapporto con il divino e con il tempo
Uno dei punti fondamentali del pensiero stoico è poi la nozione di “provvidenza”. Secondo la corrente
stoica se l’Universo è governato da una grande mente allora c’è un suo piano che abbraccia tutto, niente
avviene per puro caso o contro la sua volontà.
Nel trattato De Providentia Seneca spiega il perché del male e dell’ingiustizia, se c’è la Provvidenza perché
le sventure possono toccare ai buoni? Seguendo le argomentazioni stoiche, il filosofo enuncia “i buoni in
realtà affrontano le ingiustizie come prova della loro virtù e proprio questo dimostra l’esistenza delle
provvidenza” e continua dicendo che Dio ha dato all’uomo uno strumento per sfuggire alle sventure nel
caso in cui esse risultino intollerabili: il darsi alla morte volontariamente e a tal proposito, Seneca cita
l’esempio dell’eroe romano Catone Uticense che si suicidò pur di non rinunciare alla propria libertà.
Nel rapporto tra uomo ed eternità fa ritorno anche il tema del tempo che Seneca affrontò più volte nel
corso della sua carriera letteraria. Nel trattato De Brevitate Vitae, il poeta afferma che il senso della vita
non sta nella durata (che non dipende dall’uomo), ma nella qualità (che al contrario dipende dalle scelte
etiche che l’uomo compie nel corso della propria vita); nessuna vita è davvero breve se assume un
significato, anche se c’è chi la spreca in occupazioni inutili e poi si lamenta di non avere a disposizione un
tempo infinito che poi, comunque, continuerebbe a sprecare. Pertanto, esistono le vittime del tempo, gli
occupati, che lo riempiono di attività inutili e c’è il sapiens: colui che è in grado di gestire il tempo che il
destino gli ha messo a disposizione poiché agisce da persona consapevole.
Nella concezione stoica di divino rientra anche il concetto di natura. Verso la fine della vita, quando si è
dato a vita privata, Seneca si dedica alla stesura dei 7 libri delle Naturales Quaestiones, che sono un
compendio divulgativo che ingloba storia naturale e i suoi interessi naturalistici. Egli tratta vari problemi
naturali, dalle comete ai fulmini, ai terremoti, i fiumi; addirittura, si occupa di problemi geografici come la
questione delle sorgenti del Nilo. L'opera è frutto delle letture dei fisici greci in particolare dello stoico
Posidonio; nonostante ciò, non si tratta di una scienza vera e propria ma di una sintesi di conoscenze e
scientifiche divulgate con finalità morali ed educative. Lo studio della natura, combattendo l’ignoranza,
serve infatti al miglioramento dell'anima perché libera l'uomo dalle superstizioni che scaturiscono dalla
non conoscenza delle cause dei fenomeni naturali; infatti, quest’opera, fu largamente usata nel Medioevo
come libro di studio per la storia naturale.
Le virtù politiche
Le opere di Seneca riservate alle virtù politiche, si inseriscono in una lunga tradizione, quella della:
- riflessione sulla natura e lo scopo del potere,
- l’organizzazione migliore della società.
Il modello di riferimento è la Republica di Platone, in cui filosofo ritiene che il sovrano debba fondare il
proprio potere basandosi sul concetto di giustizia, mentre secondo Seneca, il sovrano deve fondare il
proprio potere e il proprio rapporto con i sudditi sul concetto di clemenza.
Il De Clementia è l’espressione più completa del pensiero politico di Seneca. L’opera divisa in 3 libri, di cui
superstiti solo il primo e il secondo; fu dedicata al giovane diciottenne Nerone. Si presenta come una vera e
propria rappresentazione letteraria di quello che secondo Seneca doveva essere il “buon governo”, di un
principe moderato, l’esatto opposto di quello che Nerone si sarebbe dimostrato essere in futuro. Il buon
principe, per Seneca, doveva essere esattamente il contrario di quel che erano stati Caligola e Claudio. La
trattazione è tutta ispirata alla dottrina stoica del potere e si fonda su questo principio: “come tutto
l'Universo è diretto da una forza divina (Logòs) che lo amministra e lo governa, così in uno stato il monarca
deve assicurare la pace e la prosperità ispirandosi alla ragione, la stessa che il Dio usa per amministrare
l'Universo.” Solamente praticando moderazione, giustizia e mansuetudine gli uomini che sono animali
ribelli accetteranno l'autorità del sovrano.
Pochi anni dopo, Seneca scrisse il De Otio un trattato con un fine politico. Otium è l'atteggiamento di chi
lascia l'azione per dedicarsi a se stesso che è in opposizione negotium, ossia alle attività della vita sociale
condotte nell'interesse pubblico. Il trattato è una lode e una giustificazione della vita intellettuale: se lo
Stato è troppo corrotto il sapiente non deve fare sforzi vani e se non può essere utile agli altri è meglio che
lui si dedichi al miglioramento di se stesso, poiché così facendo migliorerà indirettamente gli altri (i
contemporanei e i posteri) che trarranno beneficio dalle sue meditazioni. Per avvalorare il suo pensiero,
Seneca utilizza l'immagine delle due res publicae:
- la minor, ossia quella in cui il saggio si trova materialmente a vivere;
-la maior, il mondo intero.
Quando gli sarà preclusa la possibilità di servire la prima, il saggio potrà dedicarsi all'altra offrendole i suoi
insegnamenti e le sue riflessioni.
Un altro trattato legato alle opere sulle virtù politiche è il De Beneficiis. 7 libri in cui Seneca affronta un
problema di coscienza: quale atteggiamento bisogna tenere davanti a chi ci rende un beneficio? È giusto
esser grati per un beneficio ricevuto da un malvagio? Qui, egli allude: alla sua esperienza personale e alla
storia dei suoi rapporti con Nerone e all'intenzione di proporre ai benestanti comportamenti di generosità
volti al miglioramento della società. Tutti possono fare favori, anche uno schiavo nei confronti del padrone.
Le epistole a Lucilio
Lo stile
La prosa filosofica di Seneca occupa un ruolo fondamentale nell’evoluzione dello stile latino. Si tratta di
uno stile originale, inimitabile che si allontana dal rigore di quello classico
Se mettessimo a confronto lo stile di Cicerone o ciò che si insegnava nelle scuole di retorica con lo stile del
filosofo, potremmo definire quello di quest’ultimo “post-classico” poiché il poeta usa una sintassi nervosa,
movimentata, “più moderna”.
Le frasi sono generalmente brevi, la subordinazione (tipica dello stile ciceroniano e dello stile latino
classico) è generalmente evitata; la frase segue: sbalzi e movimenti del pensiero. Mentre gli scrittori e
teorici classici (Orazio) raccomandavano l’ordine e l’equilibrio, in modo che ogni frase fosse collegata
logicamente, Seneca tende a sorprendere il lettore, quasi a sfidarlo, con salti di pensiero e variazioni.
Il suo stile sicuramente si caratterizza per l’andamento teatrale. È molto difficile trovare una frase simile
alla precedente, per andamento e stile. A volte, nei passaggi in cui cerca effetti patetici ed emotivi, Seneca:
-ripete la stessa sequenza di parole,
-fa uso di personificazioni, domande retoriche e immagini.
-inserisce “clausole rimiche”, tipiche della prosa d’arte fatta per la declamazione, si tratta di sequenze
metriche fisse di brevi e lunghe, a metà strada perciò tra verso e prosa.
Così facendo crea uno stacco rispetto al parlato. Lo stile di Seneca, ha un timbro declamatorio, e si propone
di affascinare gli ascoltatori, prima seducendoli con la parola e poi convincendoli con le argomentazioni.
L’Apokolokyntosis o Ludus de morte Claudii
Questo componimento appartiene al genere della satira menippea, un misto di prosa e di versi di spirito
satirico. Fu scritta nel 54, subito dopo la morte di Claudio, ed è una feroce presa in giro del defunto
imperatore e della sua pretesa divinizzazione. Era tradizione, infatti, che, dopo la morte, gli imperatori
fossero divinizzati, ricevessero onori di culto e spesso un tempio a loro dedicato. Ma Claudio nell’opera di
Seneca riceve tutt’altro trattamento. L’imperatore fu avvelenato dalla sposa Agrippina; Seneca, dunque,
poteva deriderlo senza problemi anzi, la sua opera di demolizione avrebbe trovato favore presso i nuovi
regnanti.
Nel breve testo di Seneca, Claudio, appena morto, si avvia verso il cielo convinto di essere ammesso tra gli
dei. Siccome però è zoppo, balbuziente e pieno di tic, gli dei si stupiscono che un simile individuo bussi alla
loro reggia e mandano Ercole, armato di clava, ad accoglierlo. Segue un dibattito in cui prende la parola il
divo Augusto, che accusa Claudio di avere sterminato tutta la sua famiglia; così gli dei decidono di non
ammettere Claudio tra loro e lo condannano a essere confinato nell’Ade. Mentre la sua anima passa per
Roma, Claudio assiste ai suoi funerali e vede tutto il popolo in festa per la sua morte. Giunge nel regno dei
morti dove viene condannato anche lì per i suoi crimini, la sua pena consisterà nella fatica vana di giocare a
dadi per l’eternità con un bossolo forato, in modo che il colpo non possa mai essere tirato. Compare però
Caligola, che lo reclama come suo schiavo, adducendo il fatto che in vita l’aveva frustato e preso a ceffoni
infinite volte, e quindi Claudio viene affidato al suo crudele predecessore, il quale per scherno lo affida
come servo all’ombra del liberto Menandro. Così Claudio, che da vivo aveva affidato l’amministrazione
dell’impero ai suoi liberti, da morto diventa lo schiavo di un suo liberto.
L’apokolokyntosis è un libello diffamatorio: la sua particolarità sta nel fatto che mentre in genere questi
libelli circolavano in segreto come satira del potere, quello di Seneca fu scritto con l’appoggio della corte,
alla quale ormai egli apparteneva, contro un nemico uscito di scena. Forse fu una vendetta privata del
filosofo per l’odio che Claudio nutriva nei suoi confronti, ma è difficile non pensare che Seneca avesse
concordato il testo con l’ambiente di Agrippina e Nerone, i veri assassini di Claudio, l’opera, per certi
versi ,può apparire una giustificazione indiretta dei colpevoli, che si erano si macchiati di un atroce delitto,
ma ai danni di un simile mostro.
È un’opera acre, piena di risentimento, ma la vena comica è continua, le trovate divertenti e strane si
susseguono una dopo l’altra, tutte indirizzate a deridere sotto ogni aspetto Claudio. La lingua si distingue,
oltre che per la mescolanza di prosa e versi, tipica della satira menippea, per un suggestivo pastiche di
termini colloquiali appartenenti alla lingua d’uso e di espressioni e passi solenni, che costituiscono una
evidente parodia del linguaggio epico. Forse questo scritto non fa particolarmente onore a Seneca perché la
vendetta non è un atteggiamento molto filosofico, certo, ma la via verso la saggezza Seneca doveva ancora
percorrerla fino in fondo.
Seneca il tragico
Sotto il nome di Seneca sono trasmesse 10 tragedie, le uniche della letteratura Latina che ci siano giunte
per intero, nove di esse sono tragedie cothurnatae, di argomento mitico, derivato dalla tradizione greca.
Le prime 8 sono sicuramente autentiche mentre:
-la 9°, Hercules Oetaetus, parla della morte dell'eroe suicida su una pira alzata sul Monte Eta ed è
considerata spuria,
- la 10°, l’Octavia è l'unica tragedia di argomento latino (praetexta) che ci sia rimasta e non è autentica,
protagonista è la morte infelice di Ottavia, figlia di Claudio e prima moglie di Nerone, e tra i personaggi vi è
Seneca stesso.
Le tragedie mostrano un'altra faccia di Seneca: quella di un poeta in grado di comporre versi di grande
intensità, anche se percorsi da una vena oratoria che li rende a volte pesanti. Negli anni in cui Seneca si
dedicò alla stesura delle tragedie, la stesura in drammi era molto popolare tra la aristocrazia colta, come:
-esercizio letterario,
-forma occulta di opposizione al potere, parliamo di una forma occulta proprio perché attraverso i versi
tragici prestati a tiranni e ribelli del mito si potevano far circolare idee che sarebbe stato pericoloso
esprimere liberamente.
Le tragedie senecane, pertanto, sono considerate un completamento del pensiero stoico.
Se Seneca aveva sempre incitato alla ricerca della saggezza attraverso il controllo delle passioni, egli nelle
tragedie porta un vero e proprio scatenarsi di quelle passioni, nella forma più cruenta. Le tragedie di
Seneca portano sulla scena:
- eventi luttuosi e crudeli,
- personaggi più che eroici criminali.
Le situazioni della tragedia greca sono spinte sino al limite della ferocia e della follia, infatti uno dei temi
tipici della tragedia senecana è il furor cioè un impasto di follia e violenza che si avvicina alla pazzia tanto da
oscurare la ragione dei personaggi questo sentimento spinge l'uomo a compiere azioni spaventose e
disumane che lo fanno precipitare in un abisso di dolore infelicità.
L'eroe tragico di Seneca è l'opposto del sapiente stoico: poiché è dominato dagli impulsi e non ha alcun
freno morale. Degli esempi sono: Medea che uccide i suoi figli, Edipo che acceca se stesso dopo aver ucciso
il padre, Atreo e Tieste, due fratelli nemici che si odiano a tal al punto che uno uccide i figli dell'altro e
imbandisce a banchetto del padre.
Tutti questi miti si trovavano nella tragedia greca, di fatto, il principale modello di Seneca fu Euripide, di cui
Seneca amplifica i toni e rende le situazioni e i personaggi ancora più cupi. A differenza di Euripide, egli
fece anche uso della contaminatio; fondeva in un'unica opera frammenti della trama di tragedie diverse, un
esempio sono le Troades che si ispirano alle: Troiane e all’ Ecuba di Euripide. Tra l'altro non sappiamo se
egli si ispirasse anche a trame di autori latini a lui precedenti come Accio o Pacuvio proprio perché abbiamo
perso totalmente il teatro tragico latino.
Nel teatro di Seneca protagonista è il tiranno, secondo Seneca un personaggio in cui concentrare ogni
infamia mentre Platone lo considerava la peggiore specie di uomo, un essere dominato da istinti e proteso
a schiacciare chiunque osasse opporsi al suo potere. Si è supposto che Seneca abbia composto le tragedie
per Nerone per assicurarsi che lui non seguisse esempi così odiosi. La tesi opposta è che queste tragedie
fossero di opposizione: ossia una critica al potere arbitrario degli imperatori. Non sappiamo in che epoca
queste tragedie furono composte, l'aspetto inquietante è che il tiranno tragico di Seneca sembra incarnare
la figura che l'uomo che Nerone diventerà.
Seneca porta le situazioni fino all'estremo limite, anche il linguaggio è cupo, violento e macabro. e tutto è
studiato in modo tale da, fare in modo, che protagonisti delle scene siano l'orrore la paura. Per renderle
ancora più spaventose un’ espediente molto usato era la comparsa di spettri o fantasmi (come quello di
tantalo) o di orribili scene di magia come nell’Oedipus dove la terra si spacca durante un rito negromantico
e viene descritta l'ombra corrucciata di Laio, il padre di Edipo, in mezzo ai mostri dell'oltretomba.
Attraverso queste tragedie, Seneca vuole dimostrare a quali follie porti il lasciare libero sfogo delle parti
irrazionali dell'anima. Così questi drammi sarebbero le esemplificazioni in termini poetici dei vizi che
Seneca combattevano i suoi trattati.
Un problema molto discusso la destinazione di queste tragedie: molti si chiedono se fossero destinati alla
rappresentazione, a una semplice lettura o allora declamazione in ambienti ristretti. La maggior parte dei
critici ritengono che non fossero destinate al teatro, per diversi motivi: 1) risulta molto difficile immaginare
un Seneca che presenti i suoi testi davanti al vasto pubblico dei ludi teatrali e 2)non abbiamo alcuna notizia
di una performance di queste opere. Pertanto, si tratta di testi poco teatrali nel senso tecnico del termine,
ciò non significa che non potessero essere portati in scena, ma dal punto di vista drammaturgico si rivelano
opere poco dinamiche fatte per lo più di lunghe tirate declamatorie dei personaggi, efficace da un punto di
vista retorico ma non da quello teatrale.
La forza delle tragedie di Seneca non sta solamente nell'elevatezza dello stile ma è notevole anche la
capacità di delineare la psicologia dei personaggi, soprattutto quelli estreme e crudeli. In questi casi lo
studio dell'anima umana in cui Seneca si dedicò soprattutto nelle opere filosofiche emerge in tutta la sua
efficacia, poi per tal motivo alcuni dei personaggi di Seneca prevalgono, offrendo modelli importanti per il
teatro successivo : un esempio è la Fedra innamorata del figliastro Ippolito e trascinata al suicidio dalla sua
passione incontenibile e rovinosa, un personaggio che fece da modello a molti autori successivi e resta nella
storia del teatro come una parte in cui si misura la bravura di un'attrice.
Le opere di Seneca vengono considerate dei drammi mancanti in quanto, possiamo notare l'assenza di
colpi di scena spettacolari o di un plot in grado di emozionare gli spettatori che era tipico della tragedia
latina. Possiamo definirle delle tragedie della parola in quanto i personaggi pronunciano lunghi monologhi,
densi di immagini e metafore, spesso pieni di divagazioni e descrizioni che interrompendo l'azione
drammatica creano dei momenti di grandi maestri letteraria, un esempio può essere la lunga descrizione
dello zodiaco con cui inizia il Thyestes. Mentre, dal punto di vista letterario Seneca si distingue per la sua
capacità di delineare luci e ombre e trasmettere pathos, rendendo questi testi affascinanti, tant'è che si
può pensare che non fossero rappresentati in forma teatrale ma recitativa. Questa era una forma di
performance in voga in età imperiale, ad esempio, Tacito racconta che Nerone amasse esibirsi in canti e
declamazioni tragiche ed epiche.
Epistulae morales ad Lucilium
Probabilmente l'ultima opera di Seneca (scritta tra il 62 e il 65) fu un epistolario, le Epistulae morales ad
Lucilium, una raccolta di 124 lettere riunite in 20 libri. Questo epistolario non può essere collocato
all’interno di un quadro unitario, poiché non si concentra solamente su un argomento, infatti, può essere
letto come:
- un vero e proprio diario privato,
- testamento spirituale, la sede dove Seneca esprime la summa di tutta la sua dottrina.
Non era la prima volta che per la divulgazione del proprio pensiero filosofico venisse usata la forma
epistolare di fatto, lo abbiamo visto, anche con altri filosofi greci come: Platone e ed Epicuro, Seneca fu il
primo autore latino ad adottarla.
Il destinatario delle lettere di Seneca era Lucilio, un amico, poeta e politico che aveva ricoperto significative
cariche pubbliche. Seneca più che rivolgersi a Lucilio sembra quasi rivolgersi:
- a se stesso e
-al vasto pubblico dei posteri.
Per questo motivo, si è dubitato che questo fosse un epistolario reale (noi abbiamo la testimonianza
perché Seneca in alcuni passi fa riferimento alle risposte di Lucilio). Questa raccolta non è una
conversazione privata come lo fu l'epistola di cicerone. Le lettere di Seneca erano ideate già in origine per
una pubblicazione o meglio per una diffusione presso una cerchia più o meno vasta di lettori, era la sua
voce che parlava al mondo dopo che si era appartato nell'otium letterario uscendo dalla scena politica. I
due interlocutori non sono neanche alla pari, perché Seneca è il maestro e Lucilio è l'allievo. Lo scopo
didascalico e morale compare quasi in ogni riga anche se i toni di Seneca non sono mai prescrittivi ma sono
quelli di chi propone un percorso da condividere con il proprio interlocutore.
Nelle Epistulae ad Lucilium vi è un proprio intreccio tra:
-eventi quotidiani; come ad esempio la visita a un podere di campagna,
-temi morali elevati.
Seneca partendo dall'esperienza quotidiana e da piccoli eventi della vita arriva a compiere riflessioni più
generali. Quando Seneca iniziò a dedicarsi alla trascrizione di queste lettere, Nerone e Tigellino avevano
appena avviato una vera e propria politica di persecuzione soprattutto nei confronti di coloro che si
opponevano al regime dispotico dell'imperatore e al suo potere. Le vittime predilette, pertanto, erano i
senatori e anche lo stesso Seneca, in quanto Nerone non credeva al desiderio del poeta di voler vivere
appartato. Seneca vedendo, attraverso Nerone, il suo sogno di creare un buon princeps andare in fumo in
quanto Nerone era diventato un imperatore tirannico, decise di dare un messaggio di speranza e di forza
morale e proprio questo che emerge nella raccolta; in cui Seneca racconta a Lucilio quanto egli si sentisse
purificato, dopo aver abbandonato la vita pubblica ed essendosi allontanato dalle ambizioni di potere.
Sentiva di poter migliorare persino da vecchio, tant'è che uno dei temi importanti più importanti di questa
raccolta è proprio quello secondo la quale; l'uomo può sempre spingersi al miglioramento persino quando
diventa anziano, poiché il bagaglio morale e intellettuale di quest'ultimo non è mai concluso. La Sapienza si
conquista in ogni momento e verrà messa alla prova soprattutto nel momento di distacco della vita.
Per riassumere il punto fondamentale di queste lettere conviene citare alcuni passi della lettera 124, una
delle più famose secondo la quale: solamente quando l'uomo capirà che gli uomini felici in realtà siano i più
infelici avrà raggiunto il suo bene e pertanto la perfezione. Con questa frase Seneca si riferisce al fatto che
gli uomini nutrendosi di beni falsi risultano felici perché questi ultimi sono solamente delle illusioni
effimere. Il bene autentico da cui deriva la felicità, essendo l'uomo un animale razionale, è la Ragione
Perfetta, colei che consente all'uomo di avere un'anima libera, nobile e di non lasciarsi sottomettere da
nessun altro anzi di sottomettere.
Seneca avvicinandosi alla morte non assume un atteggiamento di delusione anzi inizia a prepararsi a
quest'ultima dando un senso alla vita vissuta. Pertanto, riprende il tema del tempo e della morte su cui
ritorna sistematicamente e riferendosi anche a un tema già trattato nel De Brevitate vitae; egli ritiene che
“non bisogna vivere a lungo ma vivere quanto basta”, poiché vivere a lungo dipende dal nostro destino
mentre vivere quanto basta dalla nostra anima. Una vite è lunga se è piena ed è compiuta quando l'anima
ha restituito a se stessa il suo bene e ha conquistato il potere su di sé.
Man mano che l’epistolario si sviluppa gli orizzonti intellettuali di Seneca si ampliano sempre di più, lo
possiamo notare anche dal fatto che le prime lettere molto brevi man mano si allungano diventando quasi
dei brevi saggi. Lo stile epistolare è più adatto per esprimere i moti e i sussulti del suo ragionamento
sempre in evoluzione, inoltre il lettore è molto più coinvolto emotivamente nel discorso dell'autore
rispetto a quanto avviene nel trattato. La scrittura è varia, sorprendente e illuminata da una sententia che
chiude un periodo o lo inizia. È uno stile che tende a emozionare, tant'è che Seneca fa un'accurata scelta
stilistica di antitesi, anafore e interrogazioni che lo allontanino dalla monotonia dello stile classico come
nel passa nel famoso passo in cui Seneca rivendica gli schiavi pari dignità rispetto ai liberi , in cui utilizza
una successione di frasi brevi, costituite da anafore martellanti, in un in uno stile asindeto che rende
ancora più fulmineo il ragionamento di Seneca secondo il quale tutti gli uomini siano uguali, ogni anima
uguale all'altra, l'unica differenza è tra chi è malvagio e chi buono.
Quest’opera è concentrato di temi Senecani, costituiscono la sintesi del suo pensiero: idee che l'hanno
accompagnato per tutta la vita trovano qui un approfondimento e una trattazione più distesa e intima.
Rinunciando alla forma del trattato Seneca riversa nel discorso epistolare la sua esperienza di intellettuale
e di uomo in un modo intimo e diretto. Quindi l'elevatezza del pensiero e del sentimento e per la sua
forma lucida e incisiva è considerata generalmente il capolavoro di Seneca.

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