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SENECA

LA VITA
Seneca fu uno tra i maggiori filosofi e letterati del suo tempo, e, grazie ai suoi ruoli
politici, e all’attività di maestro e consigliere, fu uno dei personaggi più potenti
dell’impero. Nonostante la sua completa adesione allo stoicismo, non applicò
sempre i suoi insegnamenti alla sua vita, essendo un uomo avido di ricchezze e
potere e immergendosi nella vita pubblica, piuttosto che nell’otium letterario.
Lucio Anneo Seneca nacque a Cordova, una colonia romana in Spagna,
probabilmente intorno al 4 a.C., e apparteneva alla ricca classe provinciale che
formava il cuore della forza di Roma. Suo padre fu il famoso Seneca il Retore e,
spostatosi a Roma, sposò la moglie Elvia, con cui ebbe tre figli. A Roma, Seneca
ricevette un’accuratissima educazione letteraria e tra i suoi maestri vi furono filosofi
e recettori, tra cui Attalo, che lo fece avvicinare allo stoicismo.
Sin dalla giovinezza la sua salute fu precaria. Soffriva di attacchi d’asma e meditò
molte volte il suicidio, fermato solo dal pensiero della sofferenza del padre. Per
migliorare la sua salute, decise di trasferirsi per alcuni anni in Egitto.
Tornato a Roma, nel 31 a.C. decise di intraprendere la carriera politica, diventando
prima questore, poi senatore, per via della sua spiccata intelligenza. Le sue qualità
eccezionali attirarono la gelosia di Caligola, che nel 39 pensò di farlo uccidere. Fu
salvato da un’amica del principe, mentre un’altra donna, Messalina, sposa di
Claudio, convinse il marito a farlo esiliare in Corsica, per 8 anni, con l’accusa di
essere coinvolto nell’assassinio di Giulia Livilla. In questi anni tentò di riconciliarsi
con la corte scrivendo una Consolatio ad Polybium.
Fu, in seguito, l’energica e intelligente Agrippina Minore a convincere Claudio a
graziare Seneca, che nel 49 tornò a Roma. In realtà questa mossa fu motivata da un
progetto più grande, che mirava alla conquista del potere tramite il figlio Nerone, di
cui Seneca doveva essere il precettore. Dopo aver convinto Claudio a nominare suo
successore Nerone, a discapito di Britannico, Agrippina uccise il marito e Seneca
divenne precettore di un imperatore, e per deridere Claudio scrisse
l’Apokolokyntosis Divi Claudii.
Iniziò così per Seneca il periodo più alto nella sua politica, trovatosi a governare
insieme ad Agrippina e al prefetto del pretorio Afranio Burro, e arricchendosi
notevolmente. Crescendo, però, Nerone si convinse di voler governare da solo, così
uccise dapprima Britannico, e poi la madre, gesto giustificato da Seneca a causa del
ruolo pericoloso che stava assumendo Agrippina.
A quel punto Nerone iniziò a circondarsi di uomini di livello intellettuale e morale
bassissimo e a dare libero sfogo ai suoi atteggiamenti populisti. Per questo Afranio e
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Seneca vennero emarginati. Il primo morì in circostanze sospette, mentre il secondo
era odiato dal principe e dai suoi consiglieri. Per questo si allontanò dalla corte per
dedicarsi appartato ai suoi studi. Nel 65 fu scoperta una congiura contro Nerone, la
congiura di Pisone, in cui Seneca rimase implicato. Così Nerone invitò un centurione
che gli ordinasse di uccidersi, per evitare un processo diffamante e scandaloso.
Seneca fece una fine pietosa, affiancato dagli amici e dalla moglie Pompea Paolina.
Prima tentò di tagliarsi i polsi, poi bevve la cicuta e infine, chiedendo di essere
portato in un bagno a vapore, morì soffocato. Fu cremato senza cerimonie, come
scritto nel suo testamento.

LE OPERE
Dopo la sua morte, le opere filosofiche di Seneca furono raccolte sotto il titolo
complessivo Dialogi, anche se non si tratta di dialoghi veri e propri, ma di trattati
destinati alla divulgazione del pensiero stoico. Sono dieci opere: nove racchiuse in
un unico libro, e il De ira, in tre.
Separatamente ci è giunto il De beneficiis, in sette libri, il De clementia, dedicato a
Nerone, e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, in venti libri, che riassumono il
pensiero di Seneca. Sempre dedicate a Lucilio sono le Naturales Questiones che
tratta problemi scientifici.
Seneca scrisse anche nove tragedie di argomento mitologico e basate sui modelli
greci (Medea, Phaedra, Oedipus, Agamennon). E’ giunta anche una praetexta, anche
se non autentica, in cui si parla della morte della prima moglie di Nerone e compare
anche lo stesso Seneca.
Va considerato a parte l’opuscolo satirico Apokolokyntosis, il cui titolo di derivazione
greca suggerisce la divinizzazione di una zucca. Infatti si tratta di una parodia sulla
morte e sulla divinizzazione di Claudio decisa dal senato.
Ci sono altre opere non autentiche tramandate sotto il nome di Seneca, come il
presunto scambio di lettere tra il poeta e San Paolo, anche se si tratta di un artificio
dei cristiani.

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SENECA LO STOICO
LA SCELTA DELLO STOICISMO
Il più importante giudizio su Seneca ci viene fornito da Quintiliano, che lo descrive
come un uomo non accurato nella filosofia, ma eccelso nella condanna dei vizi,
andando a cogliere l’essenza del pensiero di Seneca, che sta nella sua dottrina
morale e che egli non fu un pensatore sistematico.
Per Seneca la filosofia non doveva essere un esercizio, ma una parte della vita e un
modo di essere, che guidasse l’azione, che confortasse l’esistenza e che portasse a
dialogare con il proprio io. Per questo Seneca decise di non chiudersi solo nell’otium
contemplativo, ma di agire per gli uomini. E fu lo stoicismo a permettergli entrambe
le cose, quindi di ricercare la sapienza e di essere un uomo d’azione. Gli stoici in
generale sentivano il compito di rendere la società più giusta.
Questo compito fu reso difficile dal potere imperiale, che aveva proibito l’Impero
dalla libertà repubblicana e diffidava dagli intellettuali, e Seneca dovette misurarsi
con il dispotismo e la crudeltà di Caligola e Nerone. La sua ambizione di uomo libero
d’animo e buon romano fu perciò ostacolata. Questa ambizione era propria in realtà
dell’intera classe senatoria, che si vide privata del proprio controllo sullo stato e dei
propri privilegi. Fu questo il motivo che spinse Seneca a dedicarsi alla filosofia stoica,
per averla come compagna di strada.
I PRINCIPI DELLO STOICISMO
Il fine della filosofia stoica è la saggezza, perché il filosofo è colui che impara ad
essere saggio. Questa idea era già diffusa in età ellenistica, ed il saggio era colui che
non si faceva turbare dalle circostanze per restare saldo nell’anima. Ma per lo
stoicismo, e in particolare per Seneca, il sapiente stoico doveva coincidere con il vir
bonus, ed è nella prassi che si acquisisce la saggezza, quindi conversando, educando
la propria anima alla moderazione e apprendendo valori come l’amicizia, il dovere e
la propria posizione nel mondo.
All’interno di questa dottrina la natura assume un ruolo importante, poiché viene
concepita come un sistema vivente progettato e animato da una mente divina e
diretto da una forza razionale, il Logos, Ragione. Si raggiunge un parallelismo tra il
rapporto Logos-universo e mente-corpo, che deve rendere l’uomo capace di
rimuovere le cause, come l’ignoranza, il cedimento alle passioni e all’irrazionalità,
che stravolgono il suo giudizio. Per gli stoici tutto è in evoluzione e in cambiamento,
fino all’universo, che nasce, si sviluppa, esplode e si riforma. In questa visione
l’uomo, per quanto microscopico, deve sentirsi un centro, una molecola in armonia
col tutto. Il tempo, quindi, è l’unico vero bene del quale l’uomo dispone, per cui non
deve sprecarlo in attività inutili, ma per il miglioramento di se e per attività utili.
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I TRATTATI
Sono poche le opere databili di Seneca, per cui è obbligatorio fare una rassegna
tematica, piuttosto che una cronologica.
LE CONSOLATIONES
Fra le opere di Seneca sono presenti tre Consolationes, di cui due sono state scritte
durante l’esilio in Corsica, mentre l’altra poco prima di esso. Si trattano di opere
abbastanza giovanili, in cui il pensiero di Seneca non era ancora maturato. Questi
testi presentano caratteri a metà tra la retorica e la parentesi morale, genere
praticato sia in Grecia sia a Roma. Sono opere ricche di luoghi comuni retorici sulla
sventura di ogni essere umano, sui capricci del destino e sulla necessità di essere
forti. Nonostante ciò è evidente l’idea di fondo di Seneca secondo cui il dolore
appartiene alla natura dell’uomo e che non può essere evitato. Abbandonarsi ad
esso però è una colpa, per cui la ragione e il giudizio devono allenare l’animo alla
sofferenza, e talvolta la morte può essere un bene perché libera l’anima dalle catene
del corpo.
 CONSOLATIO AD MARCIAM
Questa Consolatio, rivolta ad un’aristocratica, Marcia, per la morte prematura
del figlio, è l’opera più antica di Seneca a noi nota. Marcia era figlia dello
storico Cremuzio Cordo, che in un’opera aveva esaltato i cesaricidi come
paladini della libertà repubblicana, e per questo, accusato di lesa maestà, si
era lasciato morire. L’opera di Seneca è quindi impregnata da uno spirito
antitirannico e dall’idea che la morte è pietosa se impedisce ad un uomo di
vivere in tempi terribili, ed è il ricordo del bene passato che deve consolare.
 CONSOLATIO AD HELVIAM MATREM
Con questa Consolatio Seneca vuole confortare sua madre, per la sventura
dell’esilio. Infatti scrive che l’esilio è solo un cambiamento di luogo e che non
può turbare la serenità, l’animo e le virtù proprie di ogni uomo, a cui fare
appello in caso di necessità.
 CONSOLATIO AD POLYBIUM
La terza consolazione è indirizzata al liberto di Claudio, Polibio, per la perdita
di un fratello, anche se in realtà Seneca sperava di trovare un appoggio per
essere richiamato a Roma. Quindi si tratta di una consolazione piena di
adulazione verso un uomo non noto per le sue qualità morali e culturali,
sottomettendosi e cercando di trovare un punto d’incontro con l’Impero.

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IL CONTROLLO DELLE PASSIONI E LA VITA DEL SAGGIO
Per lo stoicismo il saggio è colui che raggiunge il pieno controllo delle proprie
passioni, per cui Seneca si sofferma spesso sul tema degli istinti irrazionali e del loro
dominio.
 DE IRA
Nei tre libri del De ira viene affrontato l’argomento della collera, e Seneca si
chiede com’è possibile che un uomo possa raggiungere questo stato di pazzia
momentanea e quali sono le cause. Secondo Seneca nasce da un’offesa
subita, una iniuria, che può provocare un moto di rabbia automatico, e che
poi si trasforma in ira quando subentra la consapevolezza di voler nuocere gli
altri a causa dell’offesa. Uno degli scopi del trattato è, quindi, di dimostrare
che per il saggio l’offesa non deve esistere e che deve rendersi
imperturbabile, in modo tale da non permettere alla iniuria di toccare la sua
anima.
 DE TRANQUILLITATE ANIMI
Nel De tranquillitate animi, che Seneca dedica all’amico epicureo Sereno, egli
indaga i metodi per calmare i moti dell’anima dell’uomo per sentirsi più in
armonia con la natura e più vicino alla sapienza. Un uomo inquieto non può
essere felice, per cui Seneca individua degli esercizi spirituali, quali ad
esempio, frequentare uomini buoni, praticare la frugalità, impegnarsi al
servizio del bene comune e attendere serenamente la morte.
 DE VITA BEATA
Nel De vita beata Seneca individua due cause che possono oscurare il giudizio
di ognuno, cioè l’ignoranza e il cedimento agli impulsi. Per questo il filosofo
deve esercitarsi a combatterle, in modo tale da essere pronto ad affrontare le
sventure o il dolore. Seneca usava quest’opera anche come difesa nei
confronti di chi gli rimproverava di non mettere in atto ciò che predicava, così
il filosofo affermava di non essere un sapiente, ma di essere un uomo che
tende alla sapienza e quindi imperfetto.
IL RAPPORTO CON IL DIVINO E CON IL TEMPO
Un altro punto forte del pensiero stoico è la concezione di “provvidenza”, connessa
con quella del divino. Se una grande mente governa l’universo allora ci sarà un piano
che lo comprende.
 DE PROVIDENTIA
In questo trattato Seneca affronta la spiegazione dell’esistenza del male e
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dell’ingiustizia, nonostante la mente divina. La domanda principale che egli si
pone è perché nonostante la provvidenza le sventure toccano pure i buoni.
Come di consueto nella trattatistica stoica, la risposta starebbe nel fatto che i
buoni trattano le sventure come prova della loro virtù, e questo
testimonierebbe l’esistenza della provvidenza. In ogni caso esiste un mezzo
per sfuggire alle sventure intollerabili, cioè il suicidio. A questo proposito
Seneca cita Catone Uticense, che si suicidò per non rinunciare alla libertà.
 DE BREVITATE VITAE
Seneca affrontò anche il discorso del trascorrere del tempo. Nel De brevitate
vitae Seneca afferma che il senso della vita non sta nella durata, ma nella
qualità. Infatti, nessuna vita è breve se viene riempita con un significato. Sono
i sapiens che sanno dominare il tempo, utilizzando consapevolmente i giorni
che ha a disposizione, mentre gli occupati sono vittima del tempo, poiché lo
impiegano in occupazioni inutili e poi si lamentano del poco tempo a
disposizione, che anche se fosse infinito, occuperebbero futilmente.
 NATURALES QUESTIONES
Anche la concezione della natura ha un ruolo importante nella dottrina stoica.
Nell’ultima parte della sua vita, Seneca racchiuse le sue conoscenze
scientifiche, naturali e geografiche con finalità morali ed educative, nei sette
libri che formano le Naturales Questiones. Secondo Seneca lo studio della
natura serve al miglioramento dell’anima, perché combatte l’ignoranza e
libera l’uomo dalle superstizioni.
LE VIRTU’ POLITICHE
Le opere di Seneca riservate alle virtù politiche si inseriscono nella lunga tradizione
della riflessione sulla natura e lo scopo del potere e l’organizzazione migliore dello
stato. Il modello di ispirazione è La Repubblica di Platone, ma Seneca fa ruotare il
potere del sovrano ideale attorno alla virtù della clemenza e il buon rapporto con i
sudditi.
 DE CLEMENTIA
Il De Clementia, in tre libri, di cui rimangono il primo e parte del secondo,
riassume in maniera più completa le idee politiche di Seneca. L’opera fu
dedicata a Nerone e descriveva quello che doveva essere il “buon governo” di
un principe moderato, cioè l’esatto opposto di ciò che diventò Nerone.
Secondo Seneca il buon principe doveva assicurare la pace e la prosperità
ispirandosi alla Ragione, al Logos, la stessa che la divinità usa per
amministrare l’universo. Bisogna praticare giustizia, moderazione,

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mansuetudine, così che gli uomini ribelli possano accettare l’autorità del
sovrano.
 DE OTIO
Pochi anni dopo Seneca scrive un trattato con un fine politico orientato in
senso opposto. L’otium è l’atteggiamento di chi lascia l’azione per dedicarsi a
se stesso, mentre il negotium prevede l’impegno nella vita sociale e pubblica.
Il trattato va a giustificare la vita intellettuale. Secondo Seneca, se lo stato è
troppo corrotto, il sapiente non deve fare sforzi vani ed essere utile almeno a
se stesso, in modo tale da migliorare indirettamente gli altri, contemporanei e
posteri, attraverso l’esempio lasciato dalle sue meditazioni. Per rafforzare
questo pensiero, Seneca utilizza le immagini delle due res publicae: la minor,
quella in cui il saggio si trova a vivere, e la maior, il mondo intero. Quando il
saggio non potrà dedicarsi alla prima, potrà farlo con la seconda, offrendo i
suoi insegnamenti e riflessioni.
 DE BENEFICIIS
Il trattato in sette libri analizza un problema di coscienza, cioè come
comportarsi davanti l’offerta di un beneficio da parte di un malvagio. Qui
trapela l’esperienza personale di Seneca con Nerone, oltre all’intenzione di
proporre ai benestanti gesti di filantropia volti al miglioramento della società.

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LETTERE A LUCILIO
L’ultima opera di Seneca fu un epistolario: le Epistuale ad Lucilium, una raccolta di
124 lettere racchiuse in venti libri. Le epistole non possono essere racchiuse in
quadri unitari, perché sono concentrate su molteplici argomenti, che si presentano
sia come un diario privato, sia come un testamento spirituale in cui Seneca riassume
la sua dottrina. Il destinatario delle lettere era un amico, poeta e politico, Lucilio, che
aveva ricoperto alcune cariche pubbliche significative. Seneca, come già detto, scrive
più a se stesso che a Lucilio, infatti si è dubitato dell’autenticità di queste lettere. In
ogni caso non si tratta di lettere private, ma scritte con la coscienza di una futura
pubblicazione, o per una diffusione più o meno vasta, per donare al mondo le sue
idee elaborate una volta uscito dalla scena politica. Il rapporto tra i due
corrispondenti è squilibrato, poiché, se Lucilio è l’allievo, Seneca ne è il maestro, che
con il carattere didascalico e morale vuole consigliare al suo interlocutore dei
percorsi da seguire e condividere.
Nelle Epistulae sono frequenti le narrazioni di eventi quotidiani, ed è proprio a
partire da questi che spesso Seneca si dedica a riflessioni più vaste e generali.
Seneca iniziò a scrivere queste lettere quando erano appena iniziati gli assassini
politici di Nerone, per cui, da un lato si trovò ad assistere al fallimento della sua
opera di maestro, dall’altro vide che iniziarono ad agitarsi forze cupe e malvagie, e,
come altri senatori, anche lui era spiato e sospettato. Per questo decise di
allontanarsi dalla vita pubblica per sentirsi più vicino alla sua vocazione di filosofo.
Anche da vecchi era possibile migliorare, poiché, come egli stesso scrive, la sapienza
si può conquistare in ogni momento.
Il pensiero generale di Seneca si può trovare riassunto in alcuni versi della lettera
124, in cui dice che è possibile capire quando si è raggiunto il proprio bene, e
l’indizio sarà che guardando gli uomini felici, messi a confronto con se stesso,
sembreranno i più infelici. Questo perché un’anima è libera e nobile quando non si
lascia sottomettere.
Da queste lettere evince un atteggiamento di bilancio di un pensiero scaturito da
una lunga esperienza di vita. Fra gli altri temi, è possibile rintracciare il tempo e la
morte, in descrizioni che sembrano preparare Seneca al passo estremo, ormai
sempre più vicino. A questo punto, dare un senso alla morte diventava come dare
un senso alla vita, perché basta vivere quanto serve all’anima di ognuno.
Man mano che l’epistolario si sviluppa gli orizzonti intellettuali si Seneca si vanno ad
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ampliare. Lo stile epistolare è il più adatto e coinvolgente per esprimere i suoi
ragionamenti in costante divenire, e va a porre il lettore in stretta vicinanza emotiva
con il filosofo. La scrittura è varia, illuminata da sentenze che chiudono o aprono i
periodi. Lo stile è emozionante, ricco di anafore, antitesi, interrogazioni e altri
espedienti che si allontanano dallo stile classico, un po’ monotono. (Schiavi e Liberti,
buoni e malvagi).
Per tutti questi motivi, le Epistulae ad Lucilium sono considerate il capolavoro di
Seneca, l’opera che più di tutte ha parlato ai posteri e parla ancora agli uomini di
oggi.

LO STILE DELLA PROSA DI SENECA


La prosa filosofica di Seneca rappresenta un punto molto importante dell’evoluzione
dello stile latino, e il suo stile può essere definito post-classico, poiché rispetto ad
tipico modello di Cicerone, adesso si ha una sintassi nervosa, movimentata e
moderna. Le frasi sono brevi, la subordinazione viene evitata così da seguire gli
sbalzi del pensiero, e andando contro gli scrittori classici, che raccomandavano
l’ordine e l’equilibrio. Gli scritti di Seneca sono quasi teatrali. E’ difficile trovare frasi
simili alle precedenti, mentre nelle situazioni patetiche ed emotive, insiste sulla
stessa sequenza di parole e arricchisce il contenuto con frasi retoriche, immagini e
personificazioni. Tende ad usare le cosiddette clausole ritmiche, cioè sequenze
metriche fisse, per creare un distacco rispetto al parlato, e in generale si presenta
declamatorio e si propone di affascinare gli ascoltatori, con uno stile nuovo.

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SENECA TRAGICO
Sotto il nome di Seneca sono trasmesse dieci tragedie, le uniche della letteratura
latina giunte per intero, di cui nove sono di argomento mitico di tradizione greca, ma
solo otto di queste sono sicuramente autentiche: Hercules furens, Troades,
Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamennon, Thyestes, Hercules Oetaeus. La
decima tragedia, l’Octavia, è l’unica tragedia praetexta, cioè di argomento latino e
sicuramente non è autentica.
Le tragedie mostrano un altro aspetto di Seneca, ovvero la sua capacità di compore
versi molto intensi. Contemporaneamente alla scrittura di esse, tra l’aristocrazia
colta era già diffusa la scrittura di drammi di argomento mitologico o con tiranni,
grazie ai quali potevano esprimere idee che li avrebbero messi a rischio. Infatti
Seneca sfrutta le tragedie proprio per divulgare il suo pensiero stoico. Se il suo
messaggio era quello della ricerca della saggezza e del controllo delle passioni, nelle
tragedie si assiste a scenari nettamente contrari. Uno dei temi tipici è il furor, cioè
una miscela tra follia e violenza, che va ad oscurare la ragione dei personaggi e a far
compiere gesti disumani. Gli eroi tragici di Seneca, dunque, si contrappongono alla
figura del saggio stoico.
Tutti i miti trattati da Seneca sono propri della tragedia greca, e in particolare il
modello di riferimento per il filosofo fu Euripide, anche se Seneca ne va a
semplificare i toni e a rendere più foschi personaggi e situazioni. Inoltre faceva uso
della contaminatio, cioè andava a fondere nella stessa tragedia temi di tragedie
differenti.
Nel teatro di Seneca compare sempre un personaggio tipico: il tiranno. Per Seneca il
tiranno è la peggior specie di uomo, e si è, infatti, supposto che egli scrivesse
tragedie a Nerone per ammonirlo a non seguire esempi del genere. Ma ci sono altre
supposizioni, secondo cui in realtà fossero una critica al potere arbitrario degli
imperatori. In ogni caso il tiranno tragico di Seneca preannuncia il tipo di tiranno che
sarà poi Nerone.
Seneca porta al limite tutte le situazioni, il linguaggio è cupo, violento e macabro, e
le scene sono tagliate in modo da favorire orrore e paura. Compaiono spesso anche
fantasmi e spettri, o si ricorre alla magia. Nelle sue tragedie Seneca proietta tutti i
vizi che voleva combattere con la sua dottrina.

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Non è certo se queste tragedie fossero destinate alla rappresentazione o alla lettura,
ma le circostanze fanno pensare alla seconda opzione. Infatti non si hanno
testimonianze di performance e si tratta di testi poco teatrali, dal punto di vista
tecnico, perché dal punto di vista drammaturgico si rivelano poco dinamiche e poco
efficaci. Si può parlare di drammi mancati, a causa dei lunghi monologhi, delle
metafore, delle divagazioni, delle descrizioni che interrompono il ritmo. Ma dal
punto di vista del linguaggio letterario, la maestria e la forza dello stile di Seneca,
sono in grado di trasmettere pathos e di emozionare. Ma la forza delle tragedie è
data anche dalla delineazione psicologica dei personaggi, in cui lo studio dell’anima
umana si manifesta in tutta la sua efficacia.

APOKOLOKẎNTOSIS O LUDUS DE MORTE CLAUDII


L’Apokolikyntosis, che tradotto dal greco significa “divinizzazione di una zucca”, è un
testo che rimanda alla satira menippea, un misto di prosa e versi satirici. Fu scritta
nel 54 a seguito della morte dell’imperatore Claudio, ed è una feroce presa in giro
nei suoi confronti e nella divinizzazione. Era norma che dopo la morte di un
imperatore lo si riconoscesse come divinità e che venisse dedicato un tempio al loro
culto, ma il trattamento che Seneca riservò a Claudio fu del tutto opposto. Egli morì
avvelenato dalla moglie Agrippina, e Seneca potè deriderlo senza problemi.
Nel testo, Claudio si avvia verso il cielo convinto di essere ammesso fra gli dei, ma a
causa dei suoi difetti fisici gli dei si stupiscono della sua presenza, così mandano
Ercole ad accoglierlo. Segue un dibattito in cui prende parola Augusto, che accusa
Claudio di aver sterminato la sua famiglia, così gli dei decidono di condannarlo
all’Ade. Mentre la sua anima passa per Roma, Claudio assiste ai suoi funerali e vede
tutto il popolo in festa per la sua morte. Nell’Ade si tiene un nuovo processo, e
Claudio sarà condannato a giocare a dadi per l’eternità con un bossolo forato.
Subentra Caligola, che lo reclama come suo schiavo, così Claudio viene affidato al
suo predecessore, che lo affida come servo all’ombra del liberto Menandro. Così
Claudio diventa lo schiavo di un suo liberto.
Ludus de morte Claudii è quindi un libello diffamatorio, e la sua particolarità sta nel
fatto che fu scritto col favore della corte, invece di girare in segreto. Secondo alcuni
fu scritto per una vendetta personale, secondo altri fu il frutto di un accordo con
Nerone e Agrippina.
Si tratta di un’opera acre in cui la vena comica è continua. Tutti gli aspetti divertenti
sono indirizzati alla derisione di Claudio. La lingua si distingue per l’accostamento di

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termini colloquiali e termini e passi solenni, che costituiscono una parodia del
linguaggio.

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