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DE BREVITATE

Seneca compone il De brevitate Vitae nell’inverno del 50 d.C. di ritorno da un lungo esilio in Corsica causato
a male voci su un suo possibile coinvolgimento in uno scandalo che aveva riguardato anche la prima moglie
dell’imperatore Claudio, Messalina ma prima del suo impegno come precettore del futuro imperatore
Nerone, figlio adottivo di Claudio, legato a lui dalla sua seconda moglie, la strategica e opportunista
Agrippina minore. Il termine dialogo con Seneca va utilizzato con particolare attenzione, il modello infatti
non è il dialogo platonico o aristotelico ma quello della diatriba popolare, sorta in età ellenistica con lo
scopo di diffondere il pensiero filosofico tra il popolo attraverso esempi di vita quotidiana e
un’argomentazione non troppo complessa, di solito di tema etico o morale composta in una lingua
semplice e viva. Seneca abbandona la scelta stilistica tipica della diatriba popolare optando per un livello
medio, comunque, scorrevole grazie all’uso della paratassi che facilitava lo scorrere della lettura che
rimaneva simile ad un linguaggio parlato. In tutta l’opera, nonostante l’esclusione del tipico linguaggio
volgare, l’autore fa uso delle strategie tipiche del modello scelto proponendo spesso esempi conosciuti e
famosi (Augusto, Cicerone e Druso).

Il de brevitate vitae è una delle opere fondamentali del corpus di Seneca, cornice e testimonianza di una
delle fasi del suo pensiero filosofico. L’autore, infatti, seguace della corrente stoica non si applicherà mai ad
un severo dogmatismo e non comporrà mai un sistema filosofico organico rielaborando il suo pensiero
durante tutta la sua esistenza. Testimonianza ed esempio della dinamicità del suo pensiero è la riflessione e
la considerazione riguardante il negotium; se, infatti, in precedenti scritti, egli afferma di stimare e ritenere
importante l’impegno pubblico, in questo dialogo invece sembra trasparire quasi una sorta di disprezzo sia
per il negotium che per coloro che lo rendono centro della propria vita, i così detti occupati. Probabilmente
in questo particolare caso il cambiamento di opinione potrebbe essere legato direttamente ai suoi trascorsi
con l’impegno politico, durate la sua fase attiva questo tipo di impegno viene esaltato, mentre, durante la
sua lenta e progressiva esclusione diventa più importante la riflessione interiore rispetto alla superficialità e
al duro e prosciugante impegno politico.

Scandendo in ben venti capitoli grandi temi che egli ritiene importanti, Seneca, invita il padre della moglie,
il prefetto dell’annona Paolino, a ritirarsi a vita privata, dopo svariati anni di ottimo servizio reso alla patria,
per dedicarsi all’otium, considerato positivamente come tempo speso nella speculazione filosofica, unica
modalità di passare il tempo in modo proficuo, molto più utile all’umanità di qualsiasi carica pubblica e
politica, un’occupazione apparentemente inattiva ma concretamente più attiva delle altre.

Tutta l’opera grava intorno al concetto che Seneca ha del tempo, cosa più preziosa che sia mai stata donata
all’uomo e unica cosa che l’uomo spreca senza rimorso nonostante sia anche l’unica cosa che non ci possa
essere mai più restituita e di cui dobbiamo impadronirci per vivere in modo consapevole, guidati dalla
filosofia per tentare di raggiungere la saggezza. L’opera si apre con una critica rivolta proprio a coloro che
affermano la brevità della vita, secondo l’autore infatti la vita non è breve, ma viene resa tale dalla nostra
incapacità di maneggiare il tempo, nostro bene più prezioso (1). Molti, infatti, sprecano quest’incredibile
dono nei modi più disparati inconsapevoli della reale importanza e del vero valore del tempo, persi in
campagne elettorali o nell’ascolto dei loro clienti, rimanendo avari nei confronti del denaro ma regalando
con facilità il proprio tempo, unica cosa di cui noi dovremmo realmente essere egoisti (2-3).

Seneca definisce questi soggetti ben lontani dalla comprensione della reale importanza del tempo gli
occupati, persone quindi occupate in attività non essenziali di varia natura, sprecando il presente e
rimandano alla vecchiaia l’otium. L’autore ricorda numerosi e famosi esempi di occupati che nei loro scritti
lamentano i loro duro lavoro e desiderano la vecchiaia per vivere per sé stessi, tra questi ricorda il divo
Augusto con cui ogni discorso ricadeva sul tema del tempo libero che egli pregustava nella sua
immaginazione, accompagnano l’imperatore il retore Cicerone, che sorreggeva lo stato andando a fondo e
che si definì semilibero, e il tribuno della plebe Livio Druso, che non ebbe mai vacanze, nemmeno da
bambino. Dopo aver raccontano nei capitoli dal quattro al sei cosa i negotia comportano ecco che nei
capitoli dal sette all’undici l’autore ricorda che anche le occupazioni del tempo libero, vizi e lussi, sono
enormi ostacoli alla strada verso la saggezza. I banchetti, l’attenzione alla capigliatura e al gioco della palla,
o l’eccessiva conoscenza storica riguardante inutili avvenimenti sono dannosi (12-13). I peggiori rimangono
i lussuriosi, mentre coloro in cerca di gloria sbagliano con garbo e i rancorosi errano in modo virile. Coloro
che invece rimandano e fanno piani a lungo termine sono insensati e si pongono davanti il più grande
ostacolo alla vita: l’attesa. Nel decimo capitolo Seneca divide la vita in tre tempi: presente, passato e futuro
che sono rispettivamente breve, sicuro e incerto. Affermando che solo il passato non è più sotto il potere
della sorte, è fermo e stabile, il futuro invece è incerto e quindi all’uomo rimane solo il presente che però è
troppo breve per essere vissuto dagli occupati (9-11).

Viene infine esposta negli ultimi sette capitoli la via per un uso utile, pieno e saggio del proprio tempo:
ritirarsi a vita privata e dedicarsi alla filosofia, strada per conoscere il pensiero e dialogare con i saggi e i
maestri vissuti prima di noi che ci guideranno verso l’eternità, modificando il nostro stato di mortalità in
immortalità attraverso ciò che la saggezza ha consacrato (14-16). Per questo Seneca invita Paolino a
dedicarsi alla vita privata (18-19) e cercare di vivere veramente come un saggio giungendo alla morte senza
rimpianti. Gli occupati, infatti, non possono dire di aver vissuto veramente, sprecando la loro vita in
faccende superficiali, che non generano alcun frutto se non infelicità e insoddisfazione e i quali funerali
dovrebbero essere celebrati come quelli dei bambini che non hanno veramente vissuto.

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