Sei sulla pagina 1di 7

IL DOPPIO, LO SPECCHIO E LA FOLLIA

L’origine del tema del doppio: il tema del doppio ricorre in modo ossessivo nell’opera di Pirandello.
Il motivo ha sia un’origine biografica, documentata dalle lettere (“in me sono quasi due persone: tu
già ne conosci una; l’altra, neppure la conosco bene io stesso”), sia un’origine artistica.

Il doppio costituisce un aspetto fondamentale del saggio L’umorismo (1908): “il sentimento del
contrario” sottolinea l’esistenza di un legame profondo tra la riflessione umoristica e lo
sdoppiamento del personaggio.

Pirandello giunge così al rifiuto dell’unità, dell’ordine e della coerenza del carattere del
personaggio.

L'elaborazione della poetica dell'umorismo avviene tra il 1904 e il 1908, anno in cui esce il volume
L'umorismo. Questo fu scritto con intenti accademici, evidenti soprattutto nella dissertazione
storica che costituisce la prima parte, mentre la seconda, dedicata all'analisi dell'«essenza»
dell'umorismo, riflette maggiormente il programma letterario dell'autore. Del 1904 sono le due
Premesse iniziali del Fu Mattia Pascal, che gettano già le basi della nuova poetica. Questa viene
ideata sulla base di considerazioni sollecitate dalla lettura dei maestri dell'umorismo europeo,
Cervantes e Sterne soprattutto, ma anche di studiosi di psicologia come Binet.

Mentre nel saggio del 1908 Pirandello sembra considerare l'umorismo una caratteristica perenne
dell'arte, riscontrabile nell'antica Grecia come nell'Italia moderna, nelle due Premesse esso è
collegato alla nascita della modernità e in particolare alla scoperta di Copernico. Più in generale
Pirandello oscilla sempre, ogni volta che parla dell'umorismo, fra una visione ontologica
dell'umorismo, considerato come una possibilità perenne dell'uomo, e invece una sua visione
storica, derivante da particolari condizioni che hanno posto in crisi le antiche certezze. Da un lato
infatti egli vede un limite connaturato all'uomo, che da sempre vive in un mondo privo di senso e
che tuttavia si crea una serie di autoinganni e di illusioni attraverso i quali cerca di dare significato
all'esistenza: in questa prospettiva, l'umorismo sarebbe l'eterna tendenza dell'arte a svelare tale
contraddizione.

Dall'altro egli individua invece nella caduta dell'antropocentrismo tolemaico, che considera- va
l'uomo e la terra centri del creato, e nell'affermazione del pensiero copernicano e galileiano,
per il quale l'uomo e la terra sono entità minime e trascurabili di un universo infinito e
inconoscibile, la nascita di quel malessere, tipico della modernità, che induce alla percezione della
relatività di ogni fede, di ogni valore, di ogni ideologia e all'intuizione che fedi, valori e ideologie
sono solo autoinganni, utili per sopravvivere ma del tutto mistificatori. Ne deriverebbero un
disincanto, uno sbandamento, un tendenziale nichilismo che, sviluppatisi con forza a partire da
Cervantes, si sarebbero poi accentuati con l'affermazione piena della modernità e con la crisi delle
ideologie ottocentesche.

L’umorismo pirandelliano non è solo una poetica; è anche l’espressione coerente del
pensiero e della cultura del relativismo filosofico.

Esso presuppone la messa in discussione sia del positivismo, sia delle ideologie romantiche.

Dal positivismo Pirandello rifiuta, a partire dal 1904, il criterio della verità oggettiva, garantita dalla
scienza; del Romanticismo l’idea della verità soggettiva, della centralità del soggetto e della sua
capacità di dare forma e senso al mondo.
Entrano in crisi tanto l’oggettività quanto la soggettività, ed è il concetto stesso di verità che viene
posto radicalmente in questione. Ne deriva un assoluto relativismo che sul piano artistico trova
elaborazione nella poetica pirandelliana dell’umorismo.

Secondo la teoria della relatività ristretta elaborata da Einstein nel 1905, nessun sistema teorico è
valido di per sé, poiché la strumentazione e il metodo utilizzati incidono in modo determinante sulla
natura stessa dell’osservazione. Spazio e tempo dunque non sono categorie immobili, ma
dipendono dai sistemi di riferimento prescelti.

Ciò non comporta un atteggiamento nichilistico né un relativismo assoluto: una certa oggettività è
infatti garantita dalla coerenza delle leggi e delle modalità d’approccio in una situazione data.

Il contrasto tra “forma” e “vita” e tra “persona” e “maschera”: L'arte umoristica evidenzia il
contrasto tra «forma» e «vita». L'uomo ha bisogno di autoinganni: deve credere che la vita abbia
un senso e quindi organizza la sua esistenza secondo convenzioni, riti, leggi civili, regole della vita
associata. Ciò costituisce la «forma» dell'esistenza, che blocca la spinta delle pulsioni vitali e la
tendenza a vivere al di fuori degli schemi imposti dalla società, cioè la «vita». L'uomo, costretto a
vivere nella «forma», non è più una «persona» integra, coerente e compatta, fondata sulla
corrispondenza armonica di passioni e ragione; ma si riduce a una «maschera» che recita la parte
che la società esige da lui (la parte di impiegato, di marito, di figlio, ecc.). Per questo nell'arte
umoristica non ci sono più né «persone» né eroi, ma solo «maschere» o «personaggi» che
recitano una parte.

p. 176 parte seconda, cap. V de l’Umorismo: “La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo di
arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi perché noi già siamo forme
fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso
della vita” →Alla base della visione del mondo pirandelliana c'è una concezione vitalistica:
la vita, è un continuo divenire, un’incessante trasformazione da uno stato all'altro, un
flusso continuo.

Le forme in cui cerchiamo di fissare in noi il flusso continuo sono i concetti e gli ideali e secondo
Pirandello questo tentativo è falso perché noi ci creiamo delle forme destinate per la stessa
configurazione della vita ad essere transeunti. “Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo
anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi
imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità.”

Noi in tutti i modi cerchiamo di fissare la nostra identità ma rimane sempre una costruzione
illusoria.

“Il flusso della vita è in tutti”: Pirandello dice che anche quando qualcuno pensa di aver fermato la
vertigine di forme molteplici, in realtà il flusso dentro di noi continua, anche senza rendercene
conto. Pirandello probabilmente sta parlando dell’inconscio, di una categoria della nostra psiche
che noi non controlliamo ma che continua a vivere sempre in contrasto perché mentre l’io tenta di
formare le forme, al di sotto il flusso della vita erode tutti i tentativi di dare un senso all’esistenza e
di darci un’identità.

“E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima che si muove e si fonde,
il nostro stesso corpo fissato per sempre in fattezze immutabili. Oh perché proprio dobbiamo
essere così, noi? — ci domandiamo talvolta allo specchio”.

Il tema dello specchio è stato posto in relazione col tema dell’identità.


Nel capitolo XV, intitolato “io e l’ombra mia” il dialogo di Adriano Meis con la propria ombra esprime
in modo drammatico l’incapacità del protagonista di coincidere con sé stesso: “allora mi mossi; e
l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti,
voluttuosamente.

Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi
davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco, la avevo dietro,
ora.”

Adriano Meis rifiuta e calpesta l’ombra del suo “corpo” perché questa materializza l’anima di Mattia
Pascal, l’io negativo che egli ha voluto respingere da sé e uccidere, ma che è ancora presente in
lui.

La coscienza della propria duplicità svela l’inconsistenza della nuova identità e provoca il terrore
del dissolvimento.

L’unica difesa della follia è l’accettazione dello sdoppiamento: l’ombra diventa il simbolo della
propria vita (cap. XV “Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari,
quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era
la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa.”).

L’alternarsi delle identità si conclude al Fu Mattia Pascal, emblema del “non essere”, dello
svuotamento dell’io ormai estraniato dalla vita, e arriva alla gnosi dell’inappartenenza.

Capitolo XVIII: Alla fine il fu Mattia Pascal è un fantasma che, portando fiori alla propria tomba
rende un paradossale omaggio al corpo-identità perduto. “Basta. Io ora vivo in pace, insieme con
la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha offerto accoglienza e rifugio in casa sua. La mia strana
avventura ha contribuito a farmi recuperare la stima che ho di lei.”

Il fu Mattia Pascal ha rinunciato all’autoinganno della vita e infatti risponde a Don Eligio di non
essere affatto rientrato nella legge e nello stato civile. Dichiara inoltre di non sapere proprio chi sia,
cioè di non conoscere la propria identità. Ha intuito, infatti, che un’identità vera non esiste e che
non può essere conferita da norme sociali false che riducono l’uomo a un nome e a una maschera.

“Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere
quale insegnamento se ne possa trarre.”

“- Intanto, questo, - egli mi dice: - che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o triste
che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.”

La prima pagina è ad anello con l’ultima, sono l’anello esterno e, cioè, la parte della dimensione
del presente, la dimensione META NARRATIVA, perché sta “al di là” del racconto. In essa si
raccontano le condizioni che consentono il racconto. È una parte ESPLICATIVA, chi sta narrando
spiega le ragioni che lo hanno portato a narrarlo, le condizioni in cui la narra, come la narrerà.
Questa condizione meta narrativa si deve confrontare con la parte narrativa vera e propria (il
flashback, dal terzo capitolo al diciottesimo).

La crisi di identità: Mattia Pascal ha un rapporto difficile non solo con la propria anima, ma anche
con il proprio corpo. Ha difficoltà a identificarsi con se stesso. Spia di questo malessere è l'occhio
strabico, che non gli consentiva di vedere la realtà così com’è.

Proprio per questo decide di cambiare i connotati: si fa crescere la barba, mette degli occhiali neri
e si reca a Roma dove si fa operare all’occhio strabico dal quale vedeva la realtà deformata.
Adriano Meis subito subito l'operazione che gli ha "rimesso l'occhio a posto" è costretto a quaranta
giorni di «prigionia cieca». É a questo punto che viene "consolato" da Anselmo Paleari, il quale gli
enuncia la sua «lanterninosofia». Anselmo Paleari è l’alter ego di Pirandello.

“E mi svolse (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti
questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione
filosofica, speciosissima1, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia”

“E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come
l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che
sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un
tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come
una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i
tempi, i casi e la fortuna.”

Gli esseri umani sono gli UNICI enti di natura che sanno di essere vivi. Vediamo la realtà fuori
mediante questo sentimento interno che ognuno di noi ha. Prendiamo per vera la realtà che sta
fuori ma è una realtà guardata attraverso un sentimento SOGGETTIVO, MUTABILE E VARIO. La
realtà fuori è illusione, pensiamo di guardare la realtà ma in realtà ne guardiamo una soggettiva.
Nessuno ci dice che sia quella la realtà che noi vediamo sia una realtà oggettiva

Le sue riflessioni, che appaiono «speciosissime» ad Adriano Meis, in realtà sono in piena
consonanza con le più importanti acquisizioni della cultura della prima metà del Novecento: le
scoperte della fisica (Einstein, Planck, Heisemberg) e la teoria freudiana dell’inconscio, conducono
tutte alla medesima conclusione: l'idea dogmatica di un universo fondato su uno spazio e su un
tempo oggettivi e assoluti non è credibile.

“E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno
di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e
il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal
quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in
noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento
alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o
non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della
nostra ragione.”

Nomina ancora una volta “l’ombra”. Il sentimento della vita che ci guida nella nostra esistenza è
come un piccolo lanternino che proietta della luminosità. Di tutto l’universo vediamo solo lo spazio
illuminato dal lanternino, il resto è ombra nera non visibile che non vediamo, limitati alla porzione di
spazio del nostro lanternino. Quando il lanternino si spegne ci accoglierà la morte perpetua perché
quello spazio di luce reso evidente dal lanternino è l’unica realtà che conosciamo. Quella che
vediamo noi è quel piccolo spazio, quella piccola regione di universo illuminata da questo
lanternino, dalla nostra soggettività → DESTINATA A FINIRE.

Solo per un autoinganno, l'uomo può ritenere che la luce del «lanternino» della propria coscienza
sia la luce stessa delle cose. Ne deriva il carattere illusorio di qualunque certezza, anche di quelle
date dalla religione e dalla scienza. Ciò che noi sperimentiamo, ciò che chiamiamo realtà ha infatti
un carattere necessariamente relativo, mediato: ogni idea di univocità e verità si rivela un mito
privo di fondamento.
Dunque, Pirandello non crede più alla ragione come strumento di conoscenza della realtà, dopo
tutta la tradizione filosofica occidentale fondata sul logos, sulla ragione, il primo Novecento
distrugge l’io, non crede più alla ragione e cambia strada.

Pirandello nell’ Umorismo (p.180) afferma che «L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione
assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna.”

La logica astraendo dai sentimenti veri, tende a fissare quello che è mobile; la logica vuole dare un
valore assoluto a ciò che è relativo e quindi non ci riesce perché la prima radice del nostro male è
il sentimento che noi abbiamo della vita, che è la lanternino sofia. Il lanternino è limitato e noi
scambiamo quella porzione di spazio illuminato dal lanternino per l’assoluto.

“Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile,
mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo”.

Pirandello rifiuta la logica, tanto da definirla come “una macchinetta infernale” che ci intossica la
vita, come un veleno.

“Il cogito ergo sum” cartesiano si fa delirio in Pirandello perché “penso dunque sono” si risolve in
“penso, dunque che cosa sono?”. Quindi si converte in una domanda perché il pensiero non è più
in grado di dare una risposta definitiva.

“Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile,
mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo“: La logica astraendo dai
sentimenti veri, tende a fissare quello che è mobile; la logica vuole dare un valore assoluto a ciò
che è relativo e quindi non ci riesce perché la prima radice del nostro male è il sentimento che noi
abbiamo della vita, che è la lanternino sofia. Il lanternino è limitato e noi scambiamo quella
porzione di spazio illuminato dal lanternino per l’assoluto.

EDUCAZIONE CIVICA- L’IDENTITA’ ALL’INTERNO DELL’UE


Se si guardano le cose nella prospettiva storica, che poi è quella che meglio permette di pensare
al futuro, la Costituzione ci appare il simbolo e il risultato di uno straordinario progresso non solo
economico, ma di civiltà, E il solo fatto di poter parlare di "cittadini europei", pur non essendoci
ancora uno "stato europeo", permette di guardare al futuro in un'altra ottica: che è quella del
superamento degli orizzonti nazionalistici (che non significa annullamento delle identità nazionali)
per consentire all'Europa di esprimere le grandi potenzialità della sua millenaria cultura. Come, se
e quanto tutto questo si realizzerà, è impossibile dirlo. Sarà un processo storico lungo e difficile,
che conoscerà probabilmente momenti di crisi. L'Europa non ha ancora un'identità politica
comune, come dimostrano le sue molte incertezze e divisioni in politica estera e la mancanza di
una forza militare unificata. Ma i trattati dell'Unione europea, sin da quello di Roma del 1957, la
moneta comune e la Costituzione sono le basi culturali, politiche e giuridiche sulle quali questo
processo può venire costruito.

DUALITÀ DELLA DEFINIZIONE DEL TERMINE

Il concetto di identità civica può essere caratterizzato da due prospettive. Il primo afferma che
questa definizione esprime l'appartenenza di una persona a un particolare popolo di un
determinato stato. La seconda posizione, in contrasto con la precedente, sostiene che
l'introduzione non riguarda una società specifica, ma la totalità delle persone nel loro insieme.
Questa teoria conferma che una persona civile si considera un soggetto collettivo.

p.473

Il fu Mattia Pascal, scritto dopo la grave crisi fa- miliare del 1903 che pose Pirandello in cattive
condizioni economiche e scatenò la malattia mentale della moglie, fu pubblicato a puntate sulla
«Nuova Antologia» fra l'aprile e il giugno del 1904, e poi, in volume, nello stesso anno. Il romanzo
fu in seguito ripubblicato altre volte, con ritocchi e modifiche, fino al 1921, quando a Firenze venne
pubblicato con l'aggiunta di un'Avvertenza sugli scrupoli della fantasia.

Il romanzo è suddivisibile in tre parti, che corrispondono a tre diversi modelli di romanzo:

1. Prima parte (cap. I-II e XVII-XVIII): L'antiromanzo: la storia comincia dalla fine: negli ultimi due
capitoli (XVII- XVIII) e nei primi due protagonista è il «fu» Mattia Pascal, un individuo che vive
in uno stato di non-vita, in una condizione di estraneità rispetto all'esistenza, in un tempo
fermo e in uno spazio morto (quello di una biblioteca che nessuno frequenta e che egli
dovrebbe curare). Il modello narrativo di questa parte è l'antiromanzo, che esclude qualsiasi
possibilità di svolgimento;
2. 2. Seconda parte (cap. IlI-VI): Romanzo idillico-familiare: in un piccolo paese della Liguria,
Miragno, Mattia Pascal eredita una grossa fortuna dal padre. Ostacolato dall'avido
amministratore Batta Malagna, Pascal seduce Romilda, che invece voleva sposarsi con il ricco
amministratore, e mette incinta la moglie di Batta Malagna. Pascal deve però accettare di
sposare Romilda: l'inferno della nuova vita coniugale e le difficoltà economiche in cui cade la
famiglia inducono Pascal a pensare al suicidio. Ma, improvvisamente arricchitosi alla roulette,
approfitta della falsa notizia della sua morte (è stato trovato un cadavere che gli somiglia) e
cambia identità (è questo il tema del capitolo VII che fa da snodo fra la seconda e la terza
parte);
3. Terza parte (cap. VIII-XVI): Romanzo di formazione: la vicenda si svolge in due grandi città,
Milano e Roma. Qui si muove la nuova incarnazione di Pascal, che prende il nome di Adriano
Meis. Dopo un soggiorno a Milano dove conosce la modernità, Adriano Meis giunge a Roma,
innamorandosi della figlia dell'albergatore, Adriana, che il cognato Papiano corteggia. Ma i
timori che venga scoperta la sua vera identità e l'impossibilità di avere uno stato civile che
renda possibile il suo matrimonio con Adriana lo angosciano continuamente. Per non essere
scoperto non può denunciare un furto che subisce, da parte di Papiano, durante una seduta
spiritica: si sente, così, ridotto a un'ombra. Per allontanare da sé Adriana, che non può
sposare, corteggia la fidanzata di un pittore spagnolo, che lo sfida a duello; Adriano Meis non
riesce a trovare i padrini per battersi e decide di fingere un suicidio nel Tevere. Tornato a
Milano, trova Romilda sposata con l'amico Pomino, ma rinuncia a vendicarsi contro di lei e
decide invece di restare a Miragno «come fuori dalla vita», in una condizione di estraneità e di
distacco da ogni meccanismo sociale

p.482

La totale estraneità di Pascal divenuto «fu» Pascal di notte dorme nel letto della madre morta,
quasi a ricongiungersi idealmente con lei, mentre di giorno vive in un altro luogo "morto", una
biblioteca abbandonata. Inoltre va a trovare la propria tomba (quella dell'annegato cui è stato dato
per errore il nome di Mattia Pascal) e si considera ormai al di là della vita, un «fu». La fine del
romanzo ribalta l'inizio: nella prima pagina dell'opera, esprimendo la coscienza di sé che aveva
prima della conclusione della sua bislacca» e «strana» storia, il protagonista poteva dire: - lo mi
chiamo Mattia Pascal -, sottolineando così il nome della "maschera", cioè la convenzione sociale
che gli permetteva di essere 'il cittadino' Mattia Pascal. Ora invece può dire di sé soltanto: «- lo
sono Il fu Mattia Pascal -, manifestando così la consapevolezza non solo del suo distacco dalla
vita, ma anche delle trasformazioni avvenute nel frattempo che lo inducono a negare qualsiasi
valore all'identità sociale.

Il significato della conclusione del romanzo Anche la conclusione del Fu Mattia Pascal
sembrerebbe dotata di un «frutto» che sarebbe possibile «cavarne», cioè di una lezione da trarne.
A prima vista la morale del romanzo potrebbe essere quella proposta da don Eligio: fuori delle
convenzioni sociali è impossibile vivere. In realtà la conclusione è diversa. Se è vero che Adriano
Meis ha sperimentato che fuori da un assetto sociale è impossibile vivere, è anche vero che il «fu»
Mattia Pascal ha imparato a non vivere, cioè a vivere in una condizione di estraneità alla vita. Il
«fu» Mattia Pascal ha rinunciato all'autoinganno della vita e infatti risponde a don Eligio di non
essere affatto rientrato nella legge e nello stato civile. Dichiara inoltre di non sapere proprio chi sia,
cioè di non conoscere la propria identità, Ha intuito, infatti, che un'identità vera non esiste e che
non può essere conferita da norme Sociali false che riducono l'uomo a un nome e a una
maschera.

Potrebbero piacerti anche