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In una scheda cartacea del vecchio catalogo topografico, databile intorno agli anni ’30, si

trova la descrizione del codice APUG 1293. Si tratta di due drammi gesuitici: La


Madalena penitente di Francesco Rosecco e Il trionfo del Giappone di Michele
Colomera. La scheda è corredata da una serie di dati come misura del codice, quantità di
fogli, datazione. Ma prima di finire la descrizione l’archivista aggiunse: Drammi di
nessun valore del secolo 17.

Questa scarna segnalazione mi ha fatto pensare a quella frase più volta utilizzata da
Heinz von Foester: il mondo non contiene alcuna informazione, il mondo è come è.
Questa sentenza la si potrebbe estendere al catalogo: il catalogo non contiene alcuna
informazione è solo un catalogo. Ai miei occhi quella scheda si presenta come un
interessante caso di studio.

Questa possibilità di ricavare informazione si realizza nella misura in cui non si


ubbidisca l’indicazione valorale del catalogatore, sdoppiando la scheda tra la notizia
dell’esistenza di un codice (l’APUG 1293) e la descrizione del catalogatore, che è
un’altra cosa ancora. Detto in modo più astratto, la informazione risiede nel sistema
osservatore e non nell’ambiente. In questo modo si resero manifesti da una parte,
l’esistenza di un codice e dall’altra, una sua possibile rappresentazione in una scheda di
catalogo. Si biforcavano così davanti ai miei occhi due realtà inconfondibili e distinte,
come distinta è la mappa dal territorio in essa rappresentato. Solo così ho ottenuto, per
me, sostanziose informazioni, osservando l’osservazione che il vecchio archivista aveva
lasciato registrata. Qualora lui avesse voluto, con la sua indicazione lapidaria, aiutare il
ricercatore a non perdere del tempo, in me è cresciuto invece un movimento di doppia
curiosità sia per il suo giudizio valorale che per i drammi riportati sulla scheda. Tutto ciò
meritava di dedicare molto tempo a queste considerazioni.

Quello che oggi velocemente è denominato teatro gesuitico può essere considerato come


una razionalità che attraversava non solo la pedagogia gesuitica ma costituiva un modo
di conoscere. Nell’educazione gesuitica si mette in atto un cambiamento riguardo la
retorica in generale. La ricezione dei testi di Cicerone e Quintiliano, dei maestri cristiani
come Sant’Agostino, insieme ad altri padri della Chiesa, andrà a stabilire nuovi nessi e
riletture tra retorica e conoscenza. Il gesuita Cipriano Soarez (1524-1593) aggiunge, nel
suo celebre manuale, De arte rhetorica, alle tradizionali parti in cui si divideva
l’ars (inventio, dispositio, elocutio) la memoria e la pronunciatio.

Secondo Giovanna Zanlonghi (Teatri di formazione) si tratta della messa in essere di


una retorica totale. Una retorica tutta indirizzata al movere, al convincere, dove la voce e
il gesto saranno i protagonisti nel processo educativo. Non solo, questa retorica
totale sarà un modo di stare al mondo. Come ricorda il gesuita Jacobus Pontanus (1542-
1626) nel suo trattato Progynnasmatum latinitatis (1590):

 i genitori desiderano grandemente che ai loro figli venga insegnato a comportarsi


bene, a controllare le loro mani, il viso e tutto il corpo, e anche a flettere e variare la
loro voce, e che in tutte queste cose siano liberi da vergogna rustica e non temere nulla.
Questo non è mai più comodo e con maggiore piacere per sé stessi e per gli altri che a
teatro (p. 283).

Questo movimento retorico sboccerà in un gran numero di tragedie, dialoghi,


commedie… Ma sarà presente anche nell’aula, nelle lezioni di grammatica, di filosofia e
di teologia, nella difesa delle tesi, nella predicazione, nella gloria e nel trionfo pittorico
della chiesa di Sant’Ignazio. Se Dio sembra allontanarsi dalla scena del mondo,
il theatrum mundi si riempie delle sue rappresentazioni.

Nelle scuole della Compagnia, docenti e discenti, salivano sul palcoscenico:

Quanto tempo si spende in andar a scuola a sentire la voce del maestro? Non sarebbe
meglio risparmiare tale dispendio di tempo stando a casa? La esperienza ci insegna che
andare a scuola a sentire il maestro non è una perdita di tempo; perché dall’udire il
suono delle parole, perché vedere il volto e i gesti di chi le proferisce, queste sono come
delle martellate che imprimono profondamente le immagini delle cose insegnate
nell’animo degli studenti.

(Sforza Pallavicino, Considerazioni sopra l’arte dello stile, e del dialogo, 1646, p. 471)

Era questo anche un modo per ristabilire e riconoscere la collocazione della persona in
quella struttura sociale che sentiva spinte destabilizzanti che potevano minacciare la
distinzione che la configurava: la gerarchia dell’ordine sociale. La retorica degli antichi
gesuiti, e non solo, riserverà per le sue operazioni comunicative la elocutio e l’actio
(pronuncia); inventio e dispositio passeranno a formar parte della logica, della dialettica.

Esta retorica ristretta costituisce il primo passo per consolidare la distinzione


tra retorica e metodologia. Innanzi alla percezione di un mondo che si frantuma, questa
retorica che muove gli affetti pretende di tener nell’unità tutto ciò che minaccia
di traviarsi.

Questa perdita di compattezza si manifesta nel moto utilizzato da Athanasius Kircher:


“omnia in uno sunt, et in omnibus unum”. L’elocutio in questa retorica occuperà un
posto centrale. Per Soarez, è la maxima vis, è come la luce per la parola, che la fa
diventare una spada fuori dal fodero che accende le cose astratte.

Noi, ormai, non siamo intuitivamente disposti a riconoscere in questa retorica una
funzione cognitiva, ne vediamo solo un ornamento, un marchingegno che possiamo oggi
intravedere nella pubblicità o nel discorso politico che, assetato di consensi, tende
sempre a muovere ma non appartiene al discorso scientifico. Per quei gesuiti invece
quella retorica era lo strumento per costruire la realtà.

Se il dramma era nel centro della vita di quei uomini, senza il quale tutta la poesia si
congelava e ogni insegnamento rischiava di morire (Ratio Studiorum) come mai
quell’archivista dichiarò impavido, rassegnando il codice 1293: “drammi di nessun
valore”?
In parte perchè i valori funzionano finché non siano osservati da vicino e non vengano
sottoposti a una prospettiva storica orientata piuttosto dalla differenza che
dall’automatismo dell’analogia. I valori sono sufficientemente astratti per assicurare la
comunicazione, un po’ come le lanterne volanti: rimangono in aria mentre la loro
fiamma è accesa. Se si volesse capire quali sono i fondamenti dei valori si potrebbe
rischiare di accrescere i disaccordi. I valori aiutano a stabilire formule di contingenza,
vale a dire, sono utili per reprimere altre possibilità già date, fanno così più sopportabile
la indeterminazione dell’accadere. Questa variabilità dei valori diventa per lo storico un
possibile oggetto di ricerca.

A questo punto, la scheda in questione può diventare una metonimia di tutto l’archivio.
La scheda può essere considerata come una osservazione di secondo ordine. L’archivio è
“di nessun valore” secondo determinate distinzioni. Questa affermazione si evince dal
suo stato critico di conservazione e dal suo divenire periferico alla vita accademica
dell’università. L’archivio, o meglio, qualche sua parte potrà essere osservata come
rappresentante di “valore” nella misura in cui coincida con un determinato ordine del
sapere, con l’interesse che può suscitare un determinato tema previamente stabilito. Nel
momento in cui l’archivista gesuita esplicitava l’applicazione del suo codice valorale ai
“drammi gesuitici”, altri materiali come le lettere di Roberto Bellarmino o alcune delle
sue opere erano di “grande valore” secondo alcune possibili devianze teologiche che si
vedevano all’orizzonte. Nel 1931, Roberto Bellarmino appare per la rivista dei
gesuiti La Civiltà Cattolica come: Dottore quindi speciale del Pontificato romano, quale
«martello degli eretici» […] Dottore della Chiesa universale, per conseguenza il
maestro sicuro in tutti tempi e guida bene accertata per tutta l’universalità del popolo
cristiano. Al meno in quel momento parte della documentazione bellarminiana era in
salvo.

Il progetto Jesuit Drama, vuole tracciare questa evoluzione utilizzando il “teatro


gesuitico” come uno studio di caso. In questo modo, la ricerca seguirà, insieme ad altre
piste, in che modo il teatro gesuitico è stato osservato sin dalla sua nascita fino ai giorni
nostri. Ci vogliamo chiedere come un determinato ordine si è reso possibile. In che
modo la retorica totale si è resa probabile.

Questa dimensione della ricerca, come direbbe ancora Heinz von Foester, implica
concepire il lavoro dell’archivista, del bibliotecario, o del ricercatore in una doppia
dimensione: come uno che realizza una serie di operazioni di conservazione ma che, allo
stesso tempo, incarna anche il ruolo della levatrice. Conservare, in qualsiasi delle su
accezioni, e non dare a luce e consegnare alla rovina. L’archivio deve procurare, nella
misura del possibile, che i suoi materiali possano vivere nella dimensione della ricerca,
cominciando da quelli che potrebbero apparire lontani dagli interessi “à la mode”. Per
questo sarà necessario immaginare un ordine della conoscenza che superi l’unilateralità
con cui le ricerche spesso si aprano strada. Pensare alternative alle semantiche concepite
ad albero, che prevedono una gerarchia, un centro, un ordine di significazione. Come
direbbero Deleuze e Guattari, pensare in chiave di rizoma:
il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi
tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco
regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. (…). Rispetto ai sistemi
centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il
rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante.

(Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), sez. 1,
Castelvecchi 1997, p 33 sgg.)

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