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GIORGIO PANNUNZIO
QUALCHE RIFLESSIONE SULLO PSEUDO-PLATONE EPIGRAMMISTA TRADOTTO DA
SALVATORE QUASIMODO

I.

L'esegesi relativa alle tradizioni degli epigrammi di Platone (o, se si vuole, dello pseudo-
Platone) dovute alla penna di Salvatore Quasimodo (beninteso, quella delle arcinote versioni incluse
nel volume dell'Antologia Palatina) non ha avuto un profluvio di studi specifici, men che meno –
sia detto senza ingiuria – sul versante dei pochi frammenti pur approntati dal poeta siciliano. Vero è
che, a tutt'oggi, esiste l'accurato studio catalografico approntato da Ilaria Rizzini 1, che si pone come
una sorta di edizione critica di tutte le testimonianze manoscritte quasimodiane esistenti in archivio
(benché talvolta il metodo ecdotico di gestione delle varianti mi trovi in assoluto disaccordo), ma
non esiste nulla di specifico sul filosofo ateniese. E anche in generale, a parte gli originari
riferimenti dello Steinmayr2, oggi rimpolpati dalle analisi, anche bibliograficamente esaustive, di
Aurélie Gendrat3 (a cui aggiungerei – come sostegno mitografico – le pregnanti osservazioni del
Van Den Bossche4), non c'è stata nessuna dimensione critica ulteriore che tentasse qualche diversa
interpretazione di base. E questo non solo a livello puramente semasiologico (i riferimenti scovati
dalla Gendrat e dagli studiosi a cui afferisce la sua ricerca, pur se – come detto – generalizzati, sono
certamente solidi e bastevoli, ma traggono origine dalla letteratura greca e non penetrano, come
forse si sarebbe dovuto tentare, nella qualificata congerie di fonti italiche che certamente erano alla
base della riproducibilità documentale quasimodiana), ma anche su un piano più ampio. Non ci si è
chiesti, ad esempio, come mai la cernita dello scrittore siculo abbia escluso, in larga parte, le pur più
corpose testimonianze del Platone poeta a favore di altri autori e di altre tipologie espressive; e non
ci si è neppure domandati perché taluni dei testi convertiti in lingua italiana non siano stati inseriti
in nessuna forma nella silloge che egli ebbe a pubblicare. Tutte queste lacune interpretative trovano
qui qualche riferimento oggettivo, anche a partire da un’analisi filologica che ponga in rilievo,
essenzialmente, la non diversificata attitudine del Quasimodo traduttore anche rispetto ai testi del
Platone poeta. Rispetto a quest'ultimo, Quasimodo sembra disinteressarsi – in ogni maniera – delle
polemiche filologiche relative alla paternità reale degli epigrammi stessi, avendo come unico punto
di riferimento il proprio gusto, laddove tali liriche rappresentano comunque un ambito di elezione
del tutto personale che nulla può avere a che vedere, in tutta evidenza, con questioni di letteratura
scientifica esulanti il semplice attro del tradurre. Il mio studio non affronterà la totalità dei
frammenti quasimodiani d'ascendenza pseudo-platonica, dal momento che si è deciso di
assecondare – in alternativa – un'interpretazione semasiologico-letteraria dei frammenti stessi alla
luce delle fonti e dei richiami letterari in esse circolanti. Per tale impostazione, com'è ovvio, non
sono necessarie analisi complessive, bastando un sondaggio a campione sugli esempi più
significativi. Ma andiamo con assoluto ordine.

II.

1 Cfr. Salvatore Quasimodo e gli autori classici. Catalogo delle traduzioni di scrittori greci e latini conservate nel
fondo manoscritti, cur. I. RIZZINI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 20082, pp. 39 ss.gg. Nel mio studio, pur
tenendo presente l'egregio lavoro curato dalla Rizini, ho voluto prescindere da esso, riscontrando personalmente i testi
quasimodiani sui manoscritti originali e utilizzando una serie di segni filologici più vicini al modello della filologia
d'autore. Gli epigrammi classificati dalla Rizzini si trovano in versino manoscritte adespote e anepigrafe, siglati – a
matita – in una calligrafia talvolta difficile da interpretare. Ringrazio la dottoressa Mariella Marcello per la
collaborazione in tal senso.
2 Cfr. G. STEINMAYR, “L’Antologia Palatina”, in Letterature moderne, 3 (1958), pp. 274 – 280. L’articolo, in realtà e a
onta del suo titolo generico, è una recensione al volume di liriche tradotte da Quasimodo.
3 Cfr. A. GENDRAT, “Quasimodo e i classici: il filtro dell’antichità”, in AA.VV., Quasimodo e gli altri. Atti del
Convegno Internazionale. Lovanio, 27-28 aprile 2001, cur. F. MUSARRA – B. VAN DEN BOSSCHE – S. VANVOLSEM,
Leuven-Firenze, LUP-Franco Cesati Editore, 2003, pp. 33 – 44.
4 Si veda B. VAN DEN BOSSCHE, “Quasimodo e il mito”, ivi, pp. 21 – 32.
2

Il primo escerto a cui voglio fare riferimento è l'epigramma XIX Fava 5, peraltro non
contenuto nell'Antologia, ma appartenente ad un altro corpus noto come Appendix Platonica6. Al
testo greco preposto (TG, in distici elegiaci greci), seguono la traduzione quasimodiana (TQ, in
versi liberi) e – per pura esemplificazione contenutistica – la versione di Onorato Fava (VF, in
distici elegiaci italiani)). Le lezioni cancellate da poeta vengono poste tra parentesi quadre e rese in
tondo:

TG

Ύψίκοὰάίή
ίῖςῶὑὸύς
ίάἐῖςὰάύ
έῳάῶὰά

TQ

[Io] Siedo accanto a questo pino, sì della chioma


che trema [freme] e risuona per i forti venti,
anche a te che [stavi] incantato [presso] vicino ai miei fiumi
che [gorgogliano/rumoreggiano] scrosciano, il flauto pastorale
insinua [infonde/infuse/sparge] il sonno sotto le palpebre.

VF

Sotto questo pino che ai soffi di zeffiro l’alta


chioma fremendo nel ciel svetta, ti siedi, o viator.
Quivi al murmure lene de l’acque correnti, canora
fistola grato su i tuoi occhi un sopor stenderà.

La faticosissima genesi della traduzione quasimodiana, evidente nel dato filologico primevo,
lascia intravedere un tentativo di rendere nel modo più musicale possibile l’idillica rappresentazione
dell’epigramma ascritto al filosofo ateniese, con l’utilizzo di termini via via più delicati e meno
caratterizzati emotivamente (“trema” al posto di “freme”, il soave “insinua” al posto di una triade di
verbi connotati da un maggiore attivismo) e/o tali da riprodurre – da un punto di vista fonetico – i
suoni e le atmosfere evocate nella lirica (“scrosciano” in luogo di “gorgogliano” e “rumoreggiano”),
eliminando, all’inizio, l’inutile pronome personale “io”, del resto non contenuto nel testo greco. A
livello citazionale e nel solco di una tramatura verbale consimile, si potrebbe proporre un
accostamento con atmosfere orientalistiche, di tipo tardo-estetizzante, quali quelle reperibili, ad
esempio, nei testi di Mario Novaro7:
5 Il riscontro puntuale sul testo greco è stato fatto tenendo presente il classico studio di D. FAVA, Gli epigrammi di
Platone. Testo – Varianti – Versione. Precedute da uno studio sull’autenticità di essi , Milano, Tipografia Bernardoni di
C. Rebeschini, 1901, in part. pp. 48 – 70. Si è preferito lo studio del Fava perché (mancando a tutt’oggi un’edizione
critica valida degli epigrammi di Platone) esso contiene tutto intero il supposto “corpus” platonico, rilevandovisi
ognuno degli epigrammi tradotti dal poeta di Tindari.
6 Citando Stanzel, dirò che “[t]he Corpus Platonicum contains in its appendix several dialogues which were already
generally agreed to be false in antiquity (ὁμολογουμένως νοθευόμενοι; homologouménōs notheuómenoi). Besides the
dialogues Sisyphus, Demodocus (actually containing four conversations), Περὶ δικαίου (Perì dikaíou), Περὶ ἀρετῆς
(Perì aretês), Alcyon, Eryxias and Axiochus, which follow the Hóroi in the MSS, five additional titles are named by
Diog. Laert. 3,62 […]”. Cfr. K-H. STANZEL, “Appendix Platonica”, in Brill’s New Pauly, Antiquity volumes edited by:
Hubert Cancik and Helmuth Schneider, Verlag J.B. Metzler, Stuttgart, 1996, in http://dx.doi.org/10.1163/1574-
9347_bnp_e129030, ult. cons. 21 settembre 2017.
7 Cfr. M. NOVARO, Acque d’autunno, Lanciano (CH), Carabba, 1922, p. 40. Sul Novaro (1868 – 1944), storico direttore
della “Riviera Ligure”, nonché amico di numerosi intellettuali appartenenti alle correnti poetiche del primo ‘900, cfr. E.
CARDINALE, in Dizionario Biografico degli Italiani “online”, vol. 78 (2013), con abbondante bibliografia.
3

[…] Il respiro della gran Terra si chiama Vento. Ora tace; ma quando spira tutti i fori risuonano –
non udisti mai questo suo fremito? Per gli erti pendii boscosi le cavità e i buchi dei grandi alberi
sono come narici, bocche, orecchi; sono coppe, mortai, pozze, canali. Soffia il vento e odi
ondeggiare di acque, sibilo di freccia, rigido comando, respiro, grido, aspre parole, lamento triste,
voce che fischia. Le prime note sono squillanti, seguono toni più cupi. Dolci venti hanno lievi
risposte, forti venti robuste. Quando la furia della tempesta è passata ogni foro tace; – non vedesti
mai questo curvarsi e tremare di rami e di foglie? […].

Come si vede, appare molto difficile essere d’accordo con le opinioni di Steinmayr, secondo
cui Quasimodo, in questo caso, fu “immune dalla speciosa seduzione della eredità retorica” 8, che –
a un sondaggio più approfondito – era invece presente, almeno a livello subliminale, data la
preponderante erudizione dell’autore.
Un altro utile riferimento, stavolta relativo al Prélude à l'après-midi d'un faune, noto poema
sinfonico “fin de siécle” di Claude Debussy, nell’interpretazione che ne offre il critico musicale
Antonio Capri9:

[…] Egli non vuol possedere le ninfe, ma abbandonarsi al rapimento della visione panica, parlare
alle cose col suo flauto campestre, contemplare il sole che s'insinua tra le foglie, naufragare in
seno alla natura. Vi è qui l’ebrezza dionisiaca di una festa pagana, […] nell'afa del meriggio estivo
ma purificato dalla voce del flauto di Pan perduta nella pace sospesa sulle cose, modulata da
un'aspirazione pastorale che tutto avvolge in un amplesso gaudioso […].

L'intento quasimodiano, in questo caso, è quello di procacciare alla sua traduzione quel
minimo di musicalità tonale che emerge – in tutta evidenza – nell'antecedente del Capri,
sottolineando, da un lato, le movenze pastorali e bucoliche presenti nell'epigramma ascrivibile a
Platone, dall'altro tentando di collocare la tramatura testuale in una dimensione impressionistica
propria della composizione di Debussy.

III.

Oltremodo conosciuto è, senz'ombra di dubbio, l'epigramma XX Fava (AP IX.3), quello in


cui si descrive la spoliazione di un noce, per gioco, da parte di un gruppo di fanciulli (la
strutturazione metrica delle tre versioni qui proposte è identica alla precedente) 10:

TG

Eἰnodίhn karύhn me parercomέ noiς ἐfύteusan


paisὶ liqoblήtou paίgnion eὐstocίaς.
pάntaς d᾽ἀkremόnaς te kaί eὐqalέaς ὀrodάmnouς
kέklasmai, pukinaῖς χέrmasi ballomέnh.
dέndresin eὐkάrpoiς oὐdὲn plέon · ἦ gάr ἔgwge
dusdaίmwn ἐς ἐmἢn ὕbrin ἐkarpofόroun.

TQ
8 Cfr. STEINMAYR, “L’Antologia”, p. 275.
9 Cfr. A. CAPRI, Musica e musicisti d'Europa dal 1800 al 1930, Milano, U. Hoepli, 1931, p. 161. Nessuna notizia ho
reperto sul Capri, se non che – attivo essenzialmente nella prima metà del secolo XX – pubblicò vari volumi di storia
della musica.
10 Nei testi antichi, talvolta, l'epigramma è attribuito alternativamente anche ad Antipatro di Sidone (170 a.C. – 100
a.C.), poeta ellenistico ammirato dai “neoteroi” latini. Su di lui, cfr. G. BENEDETTO, “Su alcuni epigrammi di Antipatro
di Sidone in relazione al nuovo Posidippo”, in Eikasmos, XV (2004), pp. 189 – 225, con bibliografia.
4

Un noce cresciuto [piantato] sulla strada era oggetto di gioco


ai fanciulli che passavano e vi scagliavano contro con destrezza delle pietre [sassi/dei sassi].
Tutte le fronde e i possenti [prosperosi] rami
risuonavano al lancio delle numerose pietre [dei numerosi ciottoli/al lancio delle pietre/alle pietre
lanciate].

VF

Me su la pubblica via, de' fanciulli a le fitte sassate


gioco e bersaglio qui, povero noce, piantar.
Tutte de' floridi rami le frondi e le foglie novelle
già con i forti schiantar colpi le mani crudel'.
Niuno è concesso favor a le piante di frutti feconde;
molti a sventura mia frutti sui rami recar.

Il testo approntato da Quasimodo è mutilo, mancando della chiusa gnomica finale. Il perché
si trova, probabilmente, nel tentativo quasimodiano di privilegiare l'immagine icastica del noce
spoliato, piuttosto che mettere in evidenza il valore proverbiale o simbolico che tale spoliazione
poteva avere agli occhi del viandante che passasse di fronte al noce medesimo. In effetti, la
strutturazione dell'epigramma originario, benché non relativo ad esseri umani ma certamente
inscritto in una cornice propopopaica del tutto evidente, lo porta a essere configurato nel novero di
quelli sepolcrali, quasi come se la sottrazione violenta dei frutti del noce ne causasse,
implicitamente, la morte. Va ricordato che il testo di partenza trova spunto da una favola,
assolutamente consimile ma con diverse versioni, presente nella raccolta esopiana, di cui riportiamo
il testo biforme (la traduzione, a fianco, è mia)11:

Καρύα παρά τινα ὁδὸν πεφυκυῖα καὶ Un noce cresciuto presso una strada e
ὑπὸ τῶν παριόντων λίθοις colpito con sassi da coloro che passavano,
lamentandosi tra sé, disse: “Sono proprio
βαλλομένη στενάξασα πρὸς ἑαυτὴν
sventurato, io che ogni anno produco
εἶπεν· ἀθλία ἔγωγέ εἰμι, ἥτις κατ' insulti e sofferenze per me stesso”. Il
ἐνιαυτὸν ἐμαυτῇ ὕβρεις καὶ λύπας racconto [è rivolto] a coloro che soffrono
προφέρω. Ὁ λόγος πρὸς τοὺς ἐπὶ τοῖς per le proprie buone azioni.
ἰδίοις ἀγαθοῖς λυπουμένους.

Karύ a tiς ἐn ὁdῷ έ stam nh karpὸ n Un noce cresciuto in una strada produsse
fere pol n. Oἱ dὲ parodtai
ύ ί l qoiς kaὶ molti frutti. I passanti facevano cadere sul
bά kloiς katέ klwn diὰ tὰ kά rua. Ἡ dὲ noce pietre e bastoni. Egli, lamentandosi,
oktron
“ ἔfh· “ὦ ί ql a ὼg , ςti, oὓς tῷ disse: “In che angustie mi trovo io, che
karpw mou efra
ί nw, ὸp toύ twn deinὰ ς produco frutti per loro e ricevo in cambio
ntilamb nw cά ritaς.” Toὺς ί
ά car stouς da costoro una cattiva ricompensa.” La
kaὶ kakoύ rgouς, toὺς ntὶ gaqn ὰ kak
favola rivela che sono ingrati e cattivi
ntid ntaς, ὁ mqoς
ό ς έl gcei.
coloro che fanno male a chi agisce bene.

11 Leggo il primo testo in Ésope, fables, Texte établi, traduit et commenté par Émile Chambry, Paris, Les belles lettres,
19673, (19271), fav. CXLI. Il secondo in Fabulae aesopicae collectae, ex recognitione Caroli Halmi, Lipsiae in
aedibus B. G. Teubneri, MDCCCLXXXIX, fav. 188. Sulle diverse tradizioni delle favole di Esopo, cfr. Chambry,
Ésope, pp. 5 ss.gg.
5

Nel primo testo esopiano, quello più direttamente imparentato con l'epigramma in questione,
sono del tutto assenti i riferimenti ai bambini, che si trasformano in “τῶν παριόντων” e non vi sono
accenni di tipo evocativo e/o impressionistico, limitandosi il favolista a porre in evidenza la
personificazione del noce e la morale, posta nell'explicit esattamente come nel posteriore testo
pseudo-platonico a cui esso afferisce. Nel secondo, i “parodῖtai” sono una tipologia verbale
presente proprio negli epigrammi funerari ed identificano coloro che si soffermano davanti alle
lapidi dei morti (i “viatores” delle epigrafi funerarie latine). Il testo pseudo-platonico presenta
addirittura un altro termine, participiale esattamente come i precedenti ma in una forma del tutto
differente, al punto da sembrare sinonimico (“parercomέ noiς”). La derivazione del testo pseudo-
platonico da un antecedente esopiano rende sostanzialmente impossibile una paternità diretta; non
sembra credibile, infatti, che Platone possa aver parafrasato una favola assai famosa, pur
cambiandone i connotati paremiografici finali, benché sia nota la propensione del filosofo ateniese –
forse derivata da un comune interesse nei confronti del mondo misteriologico 12 – verso i
componimenti di Esopo13. Si tenga presente, a latere, che il Fava include tra i richiami relativi a
quest'ambito semantico anche un paio di versi della Nux pseudo-ovidiana14, la quale appare un
chiaro sottoprodotto (sia pure bulimico e acromegalico, vista la lunghezza del testo) della topica
esopica e platonica (se a Platone andasse eventualmente ascritto il testo dell'epigramma in oggetto).
Sul versante delle fonti quasimodiane, non sembrano esserci particolari definizioni
semantiche da citare, fatte forse poche eccezioni. La prima consiste in un testo di analisi letteraria,
sostanzialmente coevo al poeta e contenuto in una rivista a cui egli collaborò fattivamente, in cui
Manlio Fubini menziona la poesia come fonte di divertimento associando ad essa proprio i
bambini15:

[…] ché, si può dire, l'uomo l'ha scoperto [sc.: il divertimento] col linguaggio stesso, il quale può
diventare per lui oggetto di gioco al pari di ogni altra cosa sua. Non si diverte il bimbo appena ha
appreso a balbettare poche parole ed ha acquistato coscienza di questo strano e meraviglioso
potere, a storpiare volontariamente vocaboli, godendo della sorpresa altrui […]?

Altro elemento da non sottovalutare sembra essere un riferimento effettuato dal Bisztray a
una leggenda magiara riecheggiata nel dramma “Uccello canoro” di Aaron Tamási, una versione
ungherese del mito di Cenerentola (“[…] Supplicato da Maddalena il vecchio noce cala nel pozzo
uno dei suoi possenti rami, e Móka è salvo. Altre volte il noce fiabesco e benevolo cresce fino alle
nuvole […]”, sottolinenado che la menzione risale al 1940) 16. A tal proposito, non sembra errato
sottolineare che tali eventi mitografici (in particolare, la personificazione dell'albero) corrispondono
a tipologie ben conosciute dalla letteratura europea tra '800 e '900, laddove – ad esempio – la
dimensione prosopopaica prediletta nell'epigramma pseudo-platonico potrebbe essere ricondotta
anche allo stesso campo semantico della “fôret en marche”, già presente in Tito Livio e poi ripreso
dal Clemanceau romanziere e da Tolkien17.
12 Riguardo il legame tra le dottrine misteriologiche e Platone, cfr. ad esempio, A. MOTTA, Prolegomeni alla filosofia
di Platone, Roma, Armando, 2014, p. 22; sulla stretta connessione tra Esopo e i misteri delfici, cfr. M.J. LUZZATTO,
“Plutarco, Socrate e l'Esopo di Delfi”, in Illinois Classical Studies, 13 (1988), pp. 427 – 445, con bibliografia.
13 Cfr., ad esempio, PLATONE, Fedone, cur. A. TAGLIAPIETRA, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 250, n. 24.

14 Cfr. PS.-OVIDIO, Nux, V.50-51: “Sponte mea facilis contemto nascor in agro/ paraque loci qui sto, publice paene via
est [...]” (in FAVA, Gli epigrammi, p. 62)
15 Cfr. M. FUBINI, “Notizie intorno al Didimo chierico con inediti del Foscolo”, in La Rassegna d'Italia, 1 (1946), p.
18 (ora in Studi sulla letteratura del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1971, p. 45).
16 Cfr. G. BISZTRAY, “Il teatro a Budapest nella stagione 1939/40” , in Corvina. Rassegna Italo-Ungherese, 7 (1940),
pp. 488 – 493, in part. p. 491. Significativamente Bisztray sostiene che il dramma è “un intreccio di favola, di scherzo,
di poesia e di tradizioni popolari”. Si noti che un giovane Quasimodo era stato citato, nella stessa rivista, in un articolo
del Saviotti pubblicato nel 1938 e dedicato alla poesia italiana contemporanea (“Panorama letterario dell'Italia d'Oggi.
III. La Lirica”, in Corvina, 3 (1938), pp. 213 – 218, in part. p. 218.
17 Su tali questioni, cfr. il mio “A moving wood. Appunti sul Clemenceau narratore nella ricezione derobertiana”, in Nei
meandri del testo. Peregrinazioni letterarie tra un secolo e l'altro, Carmignano di Brenta (PD), Munari, 2013, pp. 17 –
28, con bibliografia.
6

IV.

Άστέρας εἰσαϑ

Guarda le stelle, mia stella, se almeno [sorgesse/il cielo ti conoscesse, “in rasura”] fossi il ciel [il
cielo] così [con molti occhi guarderei verso te, “in rasura”] [parola illegibile] ti guarderei con molti
occhi [con|parola illegibile|occhi numerosi di guardarti].

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