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PETRARCA PETROSO

Forse perché Francesco Petrarca era destinato a diventare l'ini-


ziatore della civiltà letteraria del Rinascimento, l'arte sua fu
illuminata dalla castiglionesca virtù della sprezzatura. Celare an-
ziché esibire, sicché la creazione appaia naturalissima e facile,
potrebbe essere una delle massime del suo mestiere poetico;
non mi riferisco qui alle abili cesellature e ai sapienti colpi di
lima che nascondono difficoltà tecniche, sibbene alla sintoma-
tica scomparsa di certi luoghi comuni, cari a D'ante e agli' stil-
novisti,' e vitali per lunga tradizione. Il motivo del vanto poe-
tico (esempio classico il " taccia Lucano ... taccia Ovidio! " di
In!. XXV; oppure, fermandosi alla produzione lirica di Dante,
si ricordi il congedo di Amor, tu vedi ben) cede il posto a quel-
lo contrario, pur esso altrettanto tradizionale, dell'esibizione di
modestia:
o poverella mia, come se' rozza!
Credo che tel conoschi:
rimanti in questi boschi.
(Canz., 125, 79-81)
Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir infra la gente.
(Canz., 126, 66-68)

Uguale dimensione di luogo letterario ha il disprezzo che il


Nostro ostenta nei riguardi della sua poesia in volgare (Famil.,
VIII; 3, XII, 6; Senil., V, 2; XII, 10; Canz., 1).
Parimenti scompare un altro genere di vanto, quello del-
l'atmosfera esoterica e delle difficoltà che l'esegeta avrà da af-
frontare per calarsi oltre la corteccia istoriale (altro classico
esempio, il " canwne, a panni tuoi non ponga uom mano! "
della famosa canzone delle tre donne di Dante). Non che il Pe-
trarca non si diletti talvolta a colpire il lettore con espressioni
enigmatiche; solo non sottolinea tali enigmi col vanto.
Spariscono di conseguenza le allusioni a quella specie di

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524 PAOLO POSSIEDI

consorteria In1Zlatlca, CUI l poeti si compiacevano di apparte-


nere; al posto della setta aristocratica dei Fedeli d'Amore, com-
paiono nel Canzoniere e nei Trionfi amici, confidenti e protet-
tori, con ognuno dei quali il poeta intrattiene un diverso par-
ticolare rapporto, dichiarato e preciso: cosi Simone è il ritrat-
tista ammirato, vincitore di Policleto per meriti metafisici (Canz.,
77); Sennuccio è il confidente (Canz., 112); il Colonna costi-
tuisce una speranza politica e culturale (Canz., lO), e cosi via.
Ma gli amici non si dispongono in gerarchia, non c'è per lui,
come per Dante, un primo amico, né un iniziatore, né un pa-
dre-maestro. Si potrebbe osservare che l'esibire padri-maestri
e primi amici era una moda superata ai tempi del Nostro; ma
non era cosi, poiché proprio al Petrarca (per citare un altro
esempio famoso) toccò a sua volta l'onere di diventare guida
letteraria e anche morale-spirituale di Giovanni Boccaccio.
Certo il moralista e l'umanista del Secretum trova in Ago-
stino una figura di questo genere; e, in un certo senso, anche
Laura è, platonicamente, uno strumento di ascesi e, dantesca-
mente, la
... fida e cara duce,
che mi condusse al mondo, or mi conduce,
per miglior via, a vita senza affanni.
(Canz., 357, 2-4)

Ma il poeta non ha maestri, ovvero non ci presenta i suoi mae-


stri; benché, ovviamente, le situazioni, le movenze, i luoghi
comuni della sua poesia siano di necessità legati alla tradizione,
egli riesce a tacere di quei legami con tanta accuratezza, che
la novità della sua ispirazione divenne uno dei motivi più sot-
tolineati da certa critica.1 Insomma accade paradossalmente
che, proprio da questa sorta di sprezzatura che lo porta a ta-
cere anziché a vantarsi, nasce l'apprezzamento, portato talvolta
a una certa esagerazione, della sua originalità.
Del resto egli stesso (benché non in sede di poesia vol-
gare) aveva ostentato questo rifuggire dai maestri, appunto per
cercare uno sviluppo poetico libero e personale. Per questa ra-
gione, scriveva da vecchio al Boccaccio, e non già per invidia,

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PETRARCA PETROSO 525

non aveva accolto nella sua biblioteca la Divina Commedia,


perché temeva che il suo stile ne sarebbe stato troppo influen-
zato. 2 Perciò mancano nella sua opera quei versi destinati alla
celebrità, quei simpatici episodi, che rivelano viventi nella co-
scienza del poeta ripensamenti letterari, affinità elettive, o an-
che valutazioni di indole morale: si pensi, come termine di
confronto, al Guido -Cavalcanti quale appare nel Decameron e
nella Commedia, cosi coerente col beffardo pseudo-razionalista
e forse averroista che si esprime nelle sue proprie poesie; op-
pure si pensi a certi incontri danteschi, come quelli con Guido
Guinizelli, Arnaut Daniel, Bonagiunta, coi signori dell'altissimo
canto.

Un esempio che bene illustra quanto detto è fornito dal


canto quarto del Trionfo d'Amore. D'opo aver ammirato l'im-
mensa turba dei vinti d'amore, romanamente aggiogati al carro
di quel vittorioso, il Petrarca, prima libero e selvatico più che
i cervi, viene vinto, fatto prigioniero e legato nel corteo, assie-
me a tutti gli altri. Naturalmente gli viene assegnato un posto
in mezzo ai poeti vinti d'amore, e cosi comincia a guardare di
qua e di là, per vedere qualche glorioso collega, antico o mo-
derno.
A questo punto, il lettore potrebbe aspettarsi un episodio
parallelo a quello del canto quarto dell' Inferno; magari qualche
scambio di opinioni, qualche incontro, qualche espressione di
simpatia o polemica; invece niente. Anzi, l'elenco tende a sof-
fermarsi proprio su quelle figure che al nostro poeta non po-
tevano essere note professionalmente, per sorvolare inve-
ce su quelle alle quali evidentemente doveva qualcosa, o pa-
recchio.
Tipico il caso di Virgilio, liquidato con un semplice " Vir-
gilio vidi " (v. 19), proprio poco dopo aver tradotto una sua
espressione nel dichiarare la vicenda di Orfeo ed Euridice:
vidi colui che sola Euridice ama,
e lei segue a l'inferno, per lei morto,
con la lingua già fredda anco la chiama.
(Tr. Cup., 13-15)

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526 PAOLO POSSIEDI

terzina calcata sull'espressione virgiliana


... Eurydicen vox ipsa et frigida lingua,
ah, miseram Eurydicen, anima fugiente vocabat.
(Georg., IV, 525~526 )

Tra gli altri antichi, allo stesso modo son trattati Ovidio,
Catullo, Properzio e Tibullo, affastellati tutti e quattro in una
terzina:
l'un era Ovidio, e l'altro era Catullo,
l'altro Properzio, che d'amor cantaro
fervidamente, e l'altro era Tibullo.
(Tr. Cup., IV, 22~24)

Mentre la non conosciuta, e perciò solamente mitica, Saffo cam-


peggia tutta sola nella terzina seguente:
una giovane greca a paro a paro
coi nobili poeti iva cantando:
ed avea un suo stH soave e raro.
(Ibid., 25~27)

Pure in una sola terzina appaiono i più importanti poeti


toscani:
ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo,
che di non esser primo par ch'ira aggia.
(Ibid., 31~33)

E qui l'ultimo verso pare alludere alla lunga polemica mossa


da Dante contro Guittone; e anche il modo con cui introduce
il Guinizelli e il Cavalcanti (" ecco i duo Guidi, che già fur
in prezzo," I bid., 34) ricorda la dantesca valutazione posta in
bocca a Oderisi:
così ha tolto l'uno all'altro Guido
la gloria della lingua, e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà di nido.
(Purg., XI, 97~99)

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(
PETRARCA PETROSO 527

Seguono Onesto Bolognese, i Siciliani e Franceschino. Come


si vede, Dante ha il primo posto nell'elenco, e tutto l'episodio
è ispirato a motivi che risalgono a lui; ma l'omaggio resta vago
e non dichiarato, e l'incontro non stimola l'invenzione.
Nella terza schiera, quella dei trovatori volgari non ita-
liani è al primo posto Arnaldo Daniello, al quale il Petrarca
rivolge l'unico elogio poetico preciso di tutto l'episodio:
gran maestro d'amor, ch'a la sua terra
ancora fa onor col suo dir strano e bello.
(Tr. Cup., IV, 41-42)

V'è infatti una certa precisione negli aggettivi' strano' e ' bel-
lo,' riferibili allo stile arnaldesco, bello perché aspro, chiuso e
coperto. Ma le altre valutazioni non riguardano la poesia, bensi
la vicenda umana dei trovatori:
Folco, que' ch'a Marsiglia il nome ha dato
ed a Genova tolto, ed a l'estremo
cangiò per miglior patria abito e stato;
Giaufrè Rudel, ch'usò la vela e 'l remo
a cercar la sua morte ...
(Ibid., 49-53)

Appena terminato di presentare i poeti famosi, allora si


che cominciano le espressioni di simpatia, e il dettato si sof-
ferma significantemente sui personaggi: Tommaso Caloria da
Messina, al quale sono dedicate tre terzine (vv. 58-66), si pone
come figura esemplare: morto immaturamente, suggerisce una
moralità piena di accoratezza:
dove se' or, che meco eri pur dianzi?
Ben è 'I viver mortaI, che si n'aggrada,
sogno d'infermi e fola di romanzi!
(Ibid., 64-66)

E cinque terzine sono dedicate ai cari Socrate e Lelio, che


anche dopo la morte resteranno sempre vivi nella memoria del
poeta; il quale è commosso dall' amicizia, non dall'arte poetica,
e neppure dalle figure dei grandi poeti.
Un altro esempio di questo è il sonetto 288 del Canzo-

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528 PAOLO POSSIEDI

niere, scritto in morte di Sennuccio del Bene, che appare nelle


quartine come amico e come pretesto alla meditazione rasse-
renatrice; nelle terzine invece come poeta d'amore, e perciò as-
sunto nel cielo di Venere, dove sono gli spiriti amanti, fra i
quali in particolare riconoscerà Guittone, Cino, Dante, Fran-
ceschino degli Albizzi. Ma fra tutti questi poeti il solo Fran-
ceschino spicca, a cagione dell' affettuoso possessivo con cui è
designato:
ma ben ti prego che 'n la terza spera
Guitton saluti, et messer Cino, et Dante,
Franceschin nostro, et tutta quella schiera.
(Canz., 288, 9-11)

Anche stavolta dunque è l'amicizia e non la devozione per i


maestri che muove sentimentalmente la poesia.
Dopo queste considerazioni, la canzone 70, Lasso me, ch'i'
non so apparirà eccezionale. Le. cinque stanze che la compon-
gono vengono chiuse infatti da cinque incipit di canzoni di
diversi autori: la prima dall'arnaldesco Drez et raison es quJieu
ciant em demori,3 la seconda dal famoso Donna me priegha,
perch'io voglio dire di Guido Cavalcanti; la terza dal petroso
Così nel mio parlar voglio esser aspro di Dante; la quarta da
La dolce vista e 'l bel guardo soave di Cino da Pistoia; la quinta
dall'autocitazione Nel dolce tempo de la prima etade.
Questa è l'unica volta che le citazioni non sono nascoste,
ma esibite, come poste fra virgolette, e che vengono presentati
cinque autori come punti fermi di una tradizione, e anche se-
condo un preciso ordine cronologico. Una specie di sintetica
storia della poesia amorosa, delineata per mezzo delle citazioni?
Non direi, e un confronto fra il modo di citare del Petrarca e
quello di Dante potrà illuminare l'atteggiamento rivelato dalla
Canzone 70.
Dante esprime spesso nelle sue citazioni un chiaro atteg-
giamento di accettazione o di negazione dei contenuti. Si ve-
dano per esempio i versi d'apertura
Amore e cor gentil sono una cosa,
si come il saggio in suo dittare pone.
(Vita Nuova, XX)

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PETRARCA PETROSO

Simpatia, accettazione: il poeta intende esprimere una sostan-


ziale identità di vedute intorno all'amore, nei riguardi del
" saggio," ossia di Guido Guinizelli; in particolare, del suo
" dittare," ossia della canzone Al cor gentil.
Altro esempio di citazione dantesca è il verso" che 'ntender
no la può chi no la prova" (Vita Nuova, XXVI), che appare
nel famoso sonetto Tanto gentile. Questa volta invece l'inten-
zione del poeta esprime amichevole polemica intorno agli ef-
fetti dell'amore: il verso citato, che è un calco del cavalcantiano
" imaginar noI pote om che noI prova" (Donna me prega, 53),
rimanda a una esperienza diretta di dolcezza amorosa, altri-
menti ineffabile, mentre Guido rimandava all'opposta espe-
rienza di ira amorosa. Comunque, accettazione o meno, è note-
vole che, in entrambi i casi, il poeta bada più al contenuto che
alle parole, mostrando di voler discorrere coi suoi predecessori,
i quali divengono cosi palesemente i suoi autori.
Il Petrarca non cita con altrettanta simpatia. Più che
di citazioni, sarebbe corretto parlare di omaggi astratti nei
confronti di poeti ammirati. I versi altrui sono avulsi dai
loro contesti originali e calati in un contesto nuovo e diffe-
rente.
Un esempio. Aprendo la sua canzone (" Donna me prega
perch'io voglio dire / d'un accidente che sovente è fero,") il
Cavalcanti voleva' dire," ossia' parlare,' intorno al fero acci-
dente dell'amore, secondo e per mezzo di " natural demonstra-
mento." Il Petrarca usa invece il termine ' dire' assolutamente,
e nel senso latineggiante di 'far poesia'; una poesia di gioia
e di beatitudine, dovuta al desiderio di compiacere la sua
donna:
Et s'io potesse far ch'agli occhi santi
porgesse alcun dilecto
qualche dolce mio detto,
o me beato sopra gli altri amanti!
Ma più, quando dirò senza mentire:
Donna mi priegha, perch'io voglio dire.
(Canz., 70, 15-20)

Una poesia entusiastica dunque, e tutt' altro che dottrinale; inol-


tre, la Donna del Nostro è ben connotata come donna amata,

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530 PAOLO POSSIEDI

mentre quella del Cavalcanti assomiglia di più alle donne sen-


tenziose ed esaminatrici della Vita Nuova o delle Corti d'Amore.
In senso parimente generico e non aderente agli originali
vengono accepiti i versi di Cino, di Arnaldo, e perfino l'ultimo,
che è un'autocitazione.
In mezzo a tanta indifferenza per i contesti, hanno anche
più risalto la strana simpatia e la singolare cura con cui è pre-
parata la citazione dantesca.
Vaghi pensier' che così passo passo
scorto m'avete a ragionar tant'alto,
vedete che madonna à '1 cor di smalto,
sì forte, ch'io per me dentro noI passo.
Ella non degna di mirar sì basso
che di nostre parole
curi, chè '1 ciel non vole
al qual pur contrastando i' son già lasso:
onde, come nel cor m'induro e 'naspro,
così nel mio parlar voglio esser aspro.
(Canz., 70, 21-30)

La stanza si distingue in primo luogo per la sua posizione


centrale (è la terza fra cinque), e perciò privilegiata. Al secondo
e al terzo verso è introdotta la rima' alto-smalto,' che già era
apparsa in un' altra canzone petrosa, lo son venuto, ai versi 55
e 59, " che d'abisso li tira susa in alto / ... / la terra fa un
suoI che par di smalto."
Questi paralleli non sono casuali: la madonna amata dal
Petrarca ha il " cor di smalto," allo stesso modo che la " par-
goletta " della canzone lo son venuto ha " per core un marmo "
(v. 72); e, come la donna delle canzoni petrose (" cotanto
del mio mal par che si prezzi / quanto legno di mar che
non lieva onda," Così nel mio parlar, 18-19) è sdegnosa e
indifferente.
Il Petrarca esprime l'ostinatezza dell'amore con l'immagine
del contrasto al cielo, in un verso che condensa sinteticamente
la prima stanza della petrosa lo son venuto:
\

lo son venuto al punto de la rota


che l'orizzonte, quando il sol si corca,
ci partorisce il geminato cielo,

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e la stella d'amor ci sta remota
per lo raggio lucente che la 'nforca
sì di traverso che le si fa velo;
e quel pianeta che conforta il gelo
si mostra tutto a noi per lo grand'arco
nel qual ciascun di sette fa poca ombra:
e però non disgombra
un sol penser d'amore, ond'io son carco,
la mente mia ... (Io san venuto, 1-12)

~tanza che descrive analiticamente una situazione astrale quanto


mai impropizia, anzi contraria all'amore: il Sole in Sagittario
mostra prossimo l'assalto dell'inverno, Venere si trova al mi-
nimo della sua potenza e Saturno ha modo di esaltare al mas-
simo la malinconia; ma il poeta, 'contrastando al cielo' per
l'appunto, continua ad amare.
Il cuore del Petrarca si inclura, come quello dell'amatore
petroso (cfr. l'espressione dantesca « al core ov'io san petra,"
in Amor, tu vedi ben, 18).
Con questi riferimenti, la citazione che conclude la stanza
è dunque adeguatamente preparata. Ma le allusioni alle canzoni
petrose non si fermano qui: tratto dall'artifizio della capfinida,
il Petrarca apre la stanza seguente col distico
che parlo? o dove sono? e chi m'inganna
altri ch'io stesso e '1 desiar soverchio?
(Canz., 70, 31-32)

che è una trasposizione dell'esametro virgiliano " quid loquor?


aut ubi sum? quae mentem insania mutat? " (Aen., IV, 595).
Così gridava l'infelice Didone, percuotendosi tre e quattro volte
il bel petto, nel momento che Enea si allontanava da Cartagine
con la sua flotta, virtuosamente abbandonando la regina ormai
folle per il dolore e prossima al suicidio. E quello di Dido-
ne è l'unico nome del mondo classico che compare nelle Rime
di Dante, in particolare proprio nella canzone Così nel mio
parlar:
E' m'ha percossi in terra e stammi sopra
con quella spada ond'elli ancise Dida,
Amore... (vv. 35-37)

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I
532 PAOLO POSSIEDI

Per mezzo dell'allusione al mito virgiliano-dantesco della Didone


figura esemplare di lussuria (mito solitamente rifiutato con di-
sdegno dal Petrarca),4 si istituisce il parallelo: il poeta, indu-
rito e inasprito nel cuore, parla come Didone; e Dante si era
a sua volta identificato con la stessa Didone, nel cantare se
stesso come vinto d'Amore.
Concludendo questa analisi, osserverò, sempre nella stanza
quarta, un' altra probabile reminiscenza dantesca: le " cose bel-
le " del verso 36 indicano i corpi celesti, astri e sfere eteree,
allo stesso modo che nella Divina Commedia: " .. .l'amor divi-
no I mosse di prima quelle cose belle" (Inf., I, 39-40).5
Il senso di tutta questa stranamente meticolosa e ben
preparata citazione è da individuare a due livelli: sul piano for-
male, è il poeta che rende omaggio al suo maestro (un omaggio
eccezionale nella carriera del Petrarca); sul piano contenutisti-
co, il protagonista lirico del Canzoniere mostra di muoversi da
un'esperienza molto simile a quella del protagonista delle can-
zoni petrose.

Il motivo petroso scorre attraverso tutto il Canzoniere,


concretandosi in immagini e situazioni, che fondamentalmente
sono identiche a quelle tramandate da Dante; ma il Petrarca
se ne appropria con tanta forza e le elabora con tanta coerenza,
che divengono parte del suo proprio linguaggio, allo stesso mo-
do che (per esempio) la coppia emblematica Dafne-Apollo, quan-
tunque abbia radici e significanze facilmente rintracciabili nella
favola ovidiana, diventa una delle più tipiche immagini del suo
mondo poetko.
Mi soffermerò ora sulle due figure petrose che ritengo so-
stanziali, quelle della donna-pietra o donna-statua, e dell' amante
petrificato. Il poeta opera su di esse amplificandole secondo due
principii rettorici, che si possono indicare come: 1) determinare
restrittivamente la materia lapidea, per mezzo di un passaggio
logico da sostanza seconda (pietra) a sostanza prima (volta a
volta diamante, marmo, alabastro e cosi via); 2) contaminare
il mito petroso, figurativamente pure abbastanza indistinto
e generico, con altri miti, che lo rendono più preciso e che

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PETRARCA PETROSO

al contempo lo nobilitano per la loro patina di cultura uma-


'"
nistica.
Entrambi i procedimenti sono caratterizzati da un comune
gusto esemplificativo; ed erano entrambi presenti in nuce nella
lezione dantesca.

La canzone 50, Ne la stagion, poggia ancora sulla descriptio


temporis e su una simmetria di petrosa nonché amaldesca me-
moria (Al poco giorno, lo son venuto, Can chai la fueilla, ecc.),
sebbene, a differenza dei suoi modelli, qui il tempus rappre-
senti non la stagione dell'anno, bensll'ora del giorno. E chissà
che dietro a questa situazione non ci sia ancora una suggestione
virgiliana e didonica.6 Nel congedo la petra compare, e in un
contesto decisamente allusivo, tanto da aver fatto pensare" ad
un gruppo di rime petrose nel Canzoniere." 7
ch'assai ti fia pensar di poggio in poggio
come m'à concio il foco
di questa viva petra, ov'io m'appoggio.
(Canz., 50, 76-78)

Nonostante che la parola' petra' designi di solito la sostanza


seconda, questo è un esempio di determinazione restrittiva.
Normalmente infatti la pietra non ha fuoco, al contrario, es-
sendo per eccellenza di natura terrea, essa è fredda e secca.
Qui però l'aggettivo' viva' e il ' foco' contribuiscono a deter-
minare l'immagine di una particolare pietra, la selce (detta la-
tinamente lapis vivus), o pietra focaia. Dunque il doppio ossi-
moro, 'foco di questa ... petra' (ovvero ' calore di freddo og-
getto ') e ' viva petra' (ovvero' vivo oggetto inanimato '), non
è gratuito, ma sostanziato da una metafora fornita dalla scienza
della fisica e dall'uso umanistico del latino classico.
Più appariscenti sono invece le determinazioni in altri luo-
ghi, come:
nulla posso levar io per mi' 'ngegno
del bel diamante, ond'ell'à il cor sì duro;
l'altro è d'un marmo che si muova e spiri,
(Canz., 171, 9-11)

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534 PAOLO POSSIEDI

dove la materia lapidea viene specificata e differenziata: il cuore


della donna è di diamante, il corpo di marmo.
La contaminazione aggiunge una ricchissima possibilità di
variazioni figurative: fermo restando 1'attributo della durezza,
che si determina in una particolare sostanza lapidea, altre for-
me vengono offerte dal patrimonio della mitologia:
ch'Amor conduce a pie' del duro lauro
ch'à i rami di diamante, et d'or le chiome.
(Canz., 30, 24-25)

La durezza viene attribuita al lauro, divenuto qui preziosamente


adamantino, del mito dafneo, del più amorosamente modulato
dei miti petrarcheschi.
Un'altra volta, un'altra favola ovidiana rinnova l'immagine
della donna-statua,
Pigmalion, quanto lodar ti dei
de l'imagine tua, se mille volte
n'avesti quel ch'i' sol una vorrei,
(Canz., 78, 12-14)

rappresentando il contrasto tra il felicemente riuscito amore


dell'antico scultore per la sua statua, e il bellissimo ritratto di
Laura dipinto da Simone Martini, opera gentile sl, ma priva di
" voce ed intelletto."
Ma dove i due processi di contaminazione e di determina-
zione toccano un estremo, dando vita a una meraviglia gotico-
flamboyante e grandiosa, è nella prima parte della canzone 325,
Tacer non posso, composta in lode di Laura, morta ma allo
stesso tempo vivente in cielo, donde ascolta le parole del suo
poeta. La fantasia del quale, nel descrivere la sua donna, con·
tamina tre temi tradizionali e li fa rivivere in una audace am-
plificazione. Alla base del discorso è il mito platonico del corpo
inteso come prigione dell'anima:
ne la bella pregione, onde or è sciolta,
poco era stato anchor l'alma gentile.
(Canz., 325, 9-10)

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PETRARCA PErROSO, 535

Su di esso s'innestano fantasticamente le immagini pe-


trose specificate: se questa ' pregione ' sede dell' anima è ' bella,'
se ne potrà parlare come d'un edificio bello; ed ecco che le
carni bianchissime e quasi diafane diventano mura alabastrine,
i biondi capelli diventano tetto d'oro, i denti uscio eburneo, gli
occhi finestre di zaffiro; il cuore, che già altrove era stato de-
signato come adamantino, diviene qui un trono superbo situato
all'interno della splendida pregione, ancora di perfetto diaman-
te, sul quale siede la reale eterna donna, cioè l'anima; la fronte
è infine una colonna di cristallo, che, per la sua trasparenza,
permette di scorgere i pensieri gentili.
Il terzo motivo tradizionale è quello, ormai invecchiato,
della personificazione delle potenze p sichiche , per il quale gli
sguardi della donna diventano terribili spiriti messaggeri d'Amo-
re, portatori di tremiti e distruzione; escono naturalmente dalle
" fenestre di zaffiro," e armati, com'era usanza, " di saette e di
fuoco," ma l'inconfondibile sigillo li fa vivere di nuova vita:
essi sono " coronati d'alloro " !
Muri eran d'alabastro, e 'l tetto d'oro,
d'avorio uscio, et fenestre di zaffiro,
onde 'l primo sospiro
mi giunse al cor, et giugnerà l'extremo:
inde i messi d'Amor armati usciro
di saette et di foco, ond'io di loro,
coronati d'alloro,
pur come or fusse, ripensando tremo.
D'un bel diamante quadro, et mai non scemo,
vi si vedea nel mezzo un seggio altero
ove, sola, sedea la bella donna:
dinanzi, una colonna
cristallina, et iv'entro ogni pensero
scritto, et for tralucea sì chiaramente,
che mi fea lieto, et sospirar sovente.
(Canz., 325, 16-30)
Simmetricamente, anche l'amatore è " in pregione " (v. 41),
benché secondo altra metafora; e, pure secondo altra meta-
fora, al guardare la bella come esposta al balcone, diviene di
marmo:
i' era in terra, e 'l cor in paradiso,
dolcemente obliando ogni altra cura,

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536 PAOLO POSSIEDI

et mia viva figura


far sentia un marmo e 'mpier di meraviglia.
(Canz., 325, 46-49)

Sostegno di tutta la figurazione è dunque l'antica vicenda


metaforica della donna petrosa e dell'amante per causa sua
impetrato.

Di queste due figure (donna-pietra e amatore-pietra) il


Petrarca, a differenza di Dante, si sofferma con maggiore insi-
stenza sulla seconda; della quale, inoltre, amplifica la vicenda.
Ché, mentre in Dante e nei due Guidi la mineralizzazione del-
l'uomo conseguiva alla vista della donna e all'innamoramento,
il Petrarca esprime con immagini petrose anche lo stato di fred-
dezza che precede l'amore, stato che, in precedenza, aveva sol-
lecitato una diversa metafora, quella del sonno. Cosi il Caval-
canti diceva, rivolgendosi agli occhi della donna:
Voi che per gli occhi mi passaste al core
e destaste la mente che dormia
(Voi che per gli occhi, 1-2)

e descrivendo, forse burlescamente, l'inizio del processo amo-


roso,
Per gli occhi fere un spirito sottile
che fa in la mente spirito destare.
(Per gli occhi tere, 1-2)

In termini analoghi Dante esprimeva il passaggio da po-


tenza ad atto dell'amore: lo stato potenziale era designato come
sonno dell'amore entro la sua naturale residenza, il 'cor gen-
tile,' e lo stato attuale come risveglio:
falli natura quand'è amorosa,
Amor per sire e '1 cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
talvolta poca e tal lunga stagione.
Bieltate appare in saggia donna pui,

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PETRARCA PETROSO 537

che piace a li occhi sl, che dentro al core


nasce un disio de la cosa piacente;
e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d'Amore.
(Vita Nuova, XX)

Il Petrarca invece illustra lo stato preamoroso con la me-


tafora, contenente una valutazione negativa, del gelo, dello smal-
to, della durezza:
e dintorno al mio cor pensier' gelati
facto avean quasi adamantino smalto
ch'allentar non lassava il duro affetto
(Canz., 23, 24-26)
io non creda per forza di sua lima [sua, d'Amore]
che punto di fermezza o di valore
mancasse mai ne l'in durato core.
(Canz., 65, 5-7)

La differente scelta delle immagini non è gratuita, ma ri-


specchia una fondamentale divergenza nel concepire la natura
e le operazioni dell'amore. Gli ' stilnovisti ' erano certi, e non
si lasciavano mai sfuggire l'occasione di vantarsene, della loro
sostanziale nobiltà, e si ritenevano come segnati da Dio, per
nascita, col marchio della gentilezza. Quella dei ' Fedeli d'Amo-
re' era veramente non una setta (una sorta di società segreta
nello stile massonico-carbonaro, come certa critica stravagante
e amabile continua ancora a ripetere), ma piuttosto una casta,
la cui superiorità era messa in evidenza dall'amore. Il quale
era si un " accidente in sostanza,» 8 ma anche, e soprattutto, il
proprium del cuore gentile; e l'innamoramento era quindi la
necessaria rivelazione dell' appartenenza alla casta. Da ciò de-
riva l'immagine tranquilla e serena del sonno d'Amore entro la
sua naturale sede.
Non che il Petrarca rifiuti una tale tematica; questi luoghi
comuni della tradizione trovadorica e stilnovistica ricorrono certo
nel Canzoniere, ma la prospettiva della figurazione è differente,
e di conseguenza diverse ne sono pure le implicazioni morali e

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538 PAOLO POSSIEDI

ideologiche. Gioverà a illustrare queste divergenze un confronto


con una prestigiosa espressione poetica del Dugento.
Per esprimere il fatto che l'amore è il proprium del cuore
gentile, Guido Guinizelli aveva aperto il suo dittare col para-
gane:
Al cor gentil rempaira sempre amore
come l'ausello in selva a la verdura
(Al cor gentil, 1-2)

L'amore-uccello trova la sua naturale sede nel cuore gentile.


Il Petrarca esprime lo stesso concetto, ricorrendo (benché se-
condo una molto ellittica metafora anziché secondo un para-
gone) alla medesima immagine dell'uccello:
Amor che solo i cor' leggiadri invesca
nè degna di provar sua forza altrove,
da' begli occhi un piacer sì caldo piove
ch'i' non curo altro ben nè bramo altr'ésca.
(Canz., 165, 5-8)

Ma qui l'uccello è il cuore gentile; e non rempaira al suo nido,


ma cade nella trappola, nel vischio, che Amore-uccellatore pre-
para per lui; e, come non bastasse, questo uccello è anche
sciocco, perché desidera l'esca.
In questo modo l'idea di nobiltà passa in secondo piano,
cedendo a quella di inganno celato nella pania amorosa. Per
queste ragioni l'emblema petroso, col suo carico di suggestioni
negative, caratterizza nella poesia petrarchesca tutta la vicenda
del suo protagonista. Pietra prima dunque, ma ahimè, pietra
pure dopo l'innamoramento: perché c'è qualcosa di sbagliato,
dist9rto e malsano in questo amore, per il quale non scatta
quel misterioso meccanismo catartico, ben individuato e de-
scritto dall'antica tradizione platonica e cortese. Il protagonista
del Canzoniere conosce peraltro la tradizione e sa come fun-
ziona il meccanismo, per averne letto assai sui libri dei filosofi
e dei poeti, eppure non lo vive, e (guaio ancor più grave) di
ciò si sente sempre colpevole. L'occasione gli è stata offerta, ma
lui non ha saputo trarne profitto: vinto d'Amore.

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PETRARCA PETROSO 539

La sfida perduta si concreta in emblemi splendidamente


icastici di promesse evanescenti e senza rimedio irraggiungibili,
che susciterebbero senza dubbio leopardiane bestemmie, in un
animo meno pio di quello petrarchesco: gli occhi di Laura che
per sempre rimarranno velati (Canz., Il, Lassare il velo), il
Cristo liberatore e cortese, che però se ne vola via (Canz., 81,
lo san sì stanco), la candida cerva dalle corna d'oro che spa-
risce mentre l'ammiratore cade nell'acqua (Canz., 190, Una can-
dida cerva).
A questa categoria di figurazioni appartiene la vaga e mal
ricostruibile vicenda petrosa che compare, accanto a parecchie
altre, in quella specie di atanòr poetico che è la canzone 23,
Nel dolce tempo, nella quale il poeta sperimenta sistematica-
mente un processo che diviene uno dei più frequenti nel Can-
zoniere. Contaminando il proprio mito con diversi miti ovidiani,
egli instaura identificazioni e paralleli fra personaggi e storie
sue, e personaggi e storie degli antichi. Sapientemente però il
poeta limita il numero dei particolari che potrebbero rendere
le identificazioni troppo precise, e anche quelli che renderebbero
troppo perspicua la sua storia amorosa. L'effetto è vago e inde-
finito, e perciò estremamente suggestivo e invitante alla me-
ditazione.
Una bella realizzazione di questo genere si trova nell'epi-
sodio dell'impetramento calcato sulla favola ovidiana di Batto
(Metam., II, 676 sgg.).
Questo Batto era un vecchio poveraccio, che faceva il pa-
store per conto altrui. Per caso si trovava presente mentre Mer-
curio rubava le vacche di Apollo, il quale, essendo, al solito,
angustiato da pene amorose, ci stava poco attento. Mercurio,
rendendosi conto di essere stato osservato da uno scomodo te-
stimone, comperò il silenzio di Batto regalandogli una delle
vacche rubate; e se ne andò. Più tardi ci ripensò, e decise di
mettere Batto alla prova: mutando voce e figura, il dio si ri-
presentò al vecchio e, fingendo di dover indagare sul furto, gli
promise di dargli come ricompensa una vacca e un toro, se gli
avesse confidato dove si trovava la refurtiva. Batto,. lusingato,
disse la verità, e indicò il luogo dove il ladro aveva nascosto

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540 PAOLO POSSIEDI

l'armento rubato. Allora Mercurio, ridendo, rinfacciò al vec-


chio il suo tradimento (" me mihi, perfide, prodis? me mihi
prodis? "), e lo trasformò in pietra.
Si osservi ora la favola petrarchesca.
Questa che col mirar gli animi fura,
m'aperse il petto, e 'l cor prese con mano,
dicendo a me: Di ciò non far parola.
PC'i la rividi in altro habito sola,
tal cb'i' non la conobbi, oh senso humano,
anzi le dissi 'i ver pien di paura;
ed ella ne l'usata sua figura
tosto tornando,' fecemi, oimè lasso,
d'un quasi vivo e sbigottito sasso.
(Canz., 23, 72-80)

Il parallelo Laura-Mercurio è suggerito dalle seguenti ana-


logie: 1) come il dio ruba l'armento, cosi la donna ruba gli
animi; 2) come il dio intima a Batto di non parlare del furto,
cosi Laura ordina al suo amante di non far parola, ma (e questa
è una divergenza) non del furto degli animi, ma di quello del
cuore; 3) poi Laura si ripresenta sotto mentite spoglie, come
Mercurio a Batto; 4) la donna si rivela, come il dio al perfido;
5) finalmente la vendetta: ambedue i perfidi vengono petrificati.
Parimenti, due altre analogie rifiniscono l'altro già evidente
parallelo, amante-Batto: 1) entrambi non riconoscono la per-
sona che si cela sotto falso sembiante; 2) entrambi di conse-
guenza cadono nel tranello e ridicono la verità.
Il Petrarca era una natura pia, dicevo, ma certo non reli-
giosa, nel senso che era del tutto incapace di avvertire l'orrore
della ierofania; per questa ragione elimina nella sua trascrizione
quegli elementi che nella favola ovidiana rivelavano gli aspetti
terribilmente paradossali del nume, il quale mette alla prova,
tenta e quasi imbroglia, e infine deride il disgraziato antagonista.
Laura riesce invece molto meno attiva e più distaccata: ruba, è
vero, ma solo metaforicamente; ordina il silenzio, ma non lo com-
pra. D'altra parte, la ' perfidia' del suo amante non consiste nel
mancare a una promessa, bensi nel disobbedire a un ordine, pecca-

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541

to questo che contribuisce a situare tutta la storia d'amore in


un'ideale gerarchia cavalleresca. Resta tuttavia il senso di un
bene, per un attimo offerto o almeno intravisto, e indi perduto
senza rimedio, a causa d'un imperdonabile errore; e resta so-
prattutto quello che era il movente figurativo del calco poetico,
il motivo della punizione per impetramento.

Le Metamorfosi offrivano un ricco repertorio di impetra-


menti (Aglauro, Dafni, Scilla, Anassarete e diversi altri), ma il
Petrarca ne usa pochi per le sue contaminazioni: un altro passo
della canzone 23 (137 sgg.) richiama la vicenda della ninfa Eco,
della quale le ossa si mutarono in selce e la voce sola rimase.
Più avanti rimane vivo nell'immaginazione del poeta un solo
mito, che si riaccende di tanto in tanto nel Canzoniere con una
certa regolarità: quello di Medusa.
Una scelta invero un po' strana, ché questa favola era fra
le meno adatte a essere accolta nell'universo ristrettissimo e ri-
pulitissimo di parole e di immagini del Canzoniere. Medusa era,
al principio della sua vicenda, una creatura assai bella, sebbene
non altrettanto virtuosa: aveva dato scandalo infatti alla castis-
sima Minerva, facendo l'amore con Nettuno proprio nel tempio
della dea (Metam., IV, 794 sgg.). Per punizione le sue belle
chiome erano state mutate in serpenti. Dopo essere stata scon-
fitta e decapitata da Perseo poi, il suo aspetto era divenuto ad-
dirittura repellente, poiché l'eroe andava in giro per il mondo
portando con sé questo teschio (" squalentia ora" lo dice Ovi-
dio, in Metam., IV, 656), dal quale stillavano per di più gocce
di sangue.
Inutile dire che il nostro poeta allontana decisamente tutta
questa imagérie alquanto macabra e fuori luogo, e usualmente
evita di suggerire il parallelo, stonato e sconveniente, fra Me-
dusa e Laura; 9 piuttosto, tende a stabilire un rapporto fra sé
e gli uomini impetrati dalla vista della Gorgone.
La prima volta che allude alla favola è nel sonetto 51, Poco
era ad appressarsi, di atmosfera dantesco-petrosa (non per nulla
è contiguo alla canzone 50, che si chiude sull'immagine della
" viva petra "): vedi il verso 7, " di qual petra più rigida s'in-

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.542 PAOLO POSSIEDI

taglia," e la rima ' diaspro-aspro' dei versi 10/13. La medita-


zione si conclude evocando la figura di Atlante
(et sarei fuor del grave giogo et aspro,
per cui i' ò invidia di quel vecchio stancho
che fa CD le sue spalle ombra a Marroccho)
(Canz., 51, 12-14)

che appare non come il fortissimo avversario di Perseo delle


Metamorfosi, ma nella figura dell'antica e veneranda montagna,
riumanizzata dall'immagine delle 'spalle,' e caricata di mesta
espressività per mezzo dell'appellativo' vecchio stanco,' che ram-
menta altri momenti della confessione petrarchesca, come" lo
son sì stanco sotto 'l fascio antico / de le mie colpe " (Canz.,
71, 1-2), oppure" 'l ciel / al qual pur contrastando i' son già
lasso" (Canz., 70, 27-28).
La repellente Medusa non compare però, e neppure vie-
ne direttamente evocata nei due sonetti 179 e 197, che ne ri-
cordano la favola. La situazione descritta in essi è simile: la
donna, mostrando gli occhi all'amante, lo fa diventare di mar-
mo, unica difesa a tanta potenza è l'umiltà:
le mostro i miei [sco occhi] pien' d'umiltà si vera,
ch'a forza' ogni suo sdegno indietro tira;
(Canz., 179, 7-8)
al quale passo corrisponde nell'altro sonetto il verso 11, " l'al-
ma, che d'umiltate e non d'altr'armo."
In entrambi la potenza dello sguardo di Laura è illustrata
dallo stesso paragone:
... andrei non altramente
a veder lei, che '1 volto di Medusa,
che facea marmo diventar la gente,
(Canz., 179, 9-11)
pò quello in me, che nel gran vecchie mauro
Medusa quandO' in selce trasformelle.
(Canz., 197, 5-6)
La gorgone è invece evocata direttamente, a modo di em-
blema, proprio dove meno ce l'aspetteremmo, voglio dire nel-
la canzone 366, Vergine bella, l'accorata preghiera conclusiva,
per il resto piena di reminiscenze bibliche, liturgiche e asceti-

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PETRARCA PETROSO 543

che, assai lontane dal mondo della mitologia classica. Tanto


che appare davvero sorprendente il 'mea culpa' che risuona
improvviso, quasi con effetto di dissonanza:
Medusa e l'error mio m'àn fatto un sasso
d'umor vano stillante. (Canz., 366, 111-112)

Chissà che il vecchio poeta non abbia posto tra le sue


fonti d'ispirazione, accanto a testi ufficialmente sacri, anche un
altro testo, che della sacralità possedeva forma e pretese, la
Divina Commedia dove, in uno dei momenti più arcani, la tre-
menda figura di Medusa era stata evocata, e anche entro un'at-
mosfera sonora e allusiva da rime petrose.
Se è vero, come credo, che questa Medusa della Canzone
alla Vergine viene direttamente dal sacrale canto IX dell'In-
fernO' e non, come altre volte, dal poema ovidiano, il Petrarca
conclude con questo emblema classicheggiante (che è pure l'ul-
timo che appare nel CanzO'niere) il suo tirocinio poetico dan-
tesco in maniera altamente significativa. Chè l'omaggio non è
più per il trovatore delle rime petrose, bensì per il vate del
« poema sacro."

Come la sopra analizzata citazione della canzone 70 in;


staurava un doppio parallelo fra poeta e poeta, e fra il prota-
gonista lirico del CanzO'niere e quello delle rime petrose, così
l'emblema dantesco della canzone 366 propone analogamente
un doppio confronto fra due poeti e due personaggi. Da un
lato il pellegrino paradigmatico della Divina CO'mmedia, che,
aiutato da potenze superiori e invincibili, supera l'ostacolo e
procede decisamente verso la meta iperuranica; dall'altro lo
sconfitto e petrificato eroe petrarchesco, solo, indifeso e ap-
pesantito dal cumulo delle sue responsabilità morali. Il suo
viaggio certo non porta ad altezze iperuraniche, ma è piutto-
sto un interminabile aggirarsi entro un labirinto senza uscita,
un lungo error in cieco laberinto. (C
I anz., 224 , 4)

PAOLO POSSIEDI
MO'ntclair State CO'llege
1 Esempio: "Precursore del T asso e del Leopardi, il Petrarca in pien
Medio evo, ... fu senza saperlo attinto da quella specie di malattia morale,

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544 PAOLO POSSIEDI

che nei tempi moderni s'è dichiarata con tanti esempli." F. De Sanctis, Saggio
critico sul Petrarca (Bari, 1954), p. 150.
2" Eidem tunc stilo deditus, vulgari eloquio ingenium exercebam; nichil
rebar elegantius necdum altius aspirare didiceram, sed verebar ne si huius aut
alterius dictis imbuerer, ut est etas illa flexibilis et miratrix omnium, vel invitus
ac nesciens imitator evaderemo Quod, ut erat animus annis audentior, indi-
gnabar, tantumque fiducie seu elationis indueram, ut sine cuiusquam mortalis
auxilio in eo genere ad meum et proprium quendam modum suffecturum michi
ingenium arbitrarer." Famil., XXI, 15.
a Almeno, il Petrarca lo riteneva arnaldesco; lo Scherillo discute l'attri-
buzione della canzone a Guillem de Saint-Gregori nell'introduzione al Canzo-
niere, Milano, Hoepli, 1925, cap. 15. Il discorso comunque resta aperto, e del
resto Guillempare essere stato un imitatore di Arnaut Daniel.
4 Oltre a questa della canzone 70, c'è, nella poesia del Petrarca, sola-
mente un'altra allusione a Didone considerata come esempio di lussuria, e cioè
nella canzone 29, Verdi panni, nella quale l'eroina appare come colei che
" l'amata spada in se stessa contorse" (v. 38). Normalmente il poeta rifiutava
come falsa e plebea la versione virgiliana e dantesca della di lei morte non
virtuosa. Esempio:
poi vidi, fra le donne pellegrine,
quella che per lo suo diletto e fido
sposo, non per Enea, volse ire al fine:
taccia il vulgo ignorante; io dico Dido,
cui studio d'onestate a morte spinse,
non vano amor, com'è il publico grido"
(Tr. Pud., 154-160)
Cfr. anche Ibid., 10 sgg.; Africa, III, 42 sgg.; Senil., IV, 5.
5 E anche
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo
salimmo su, el primo e io secondo,
tanto ch' i' vidi delle cose belle
che porta '1 ciel, ...
(Inferno, XXXIV, 133-138)
6 Nox erat et placidum carpebant fessa soporem
corpora per terras, silvaeque et saeva quierant
aequora, cum medio volvuntur sidera lapsu,
cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,
quaeque lacus late. liquidos quaeque aspera dumis
rura tenent, somno positae sub nocte silenti.
Lenibant curas et corda oblita laborum.
At non infelix animi Phoenissa neque umquam
solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem
accipit: ingeminant curae rursusque resurgens
saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu.
7 Cosi F. Neri, nel suo studio "Il Petrarca e le rime dantesche della
pietra" (in F. Neri, Letteratura e leggende, [Torino, 1951], p. 53-72), rife-
rendosi a una enunciazione del Cesareo.

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545

8 Così Dante: «Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno acci-


dente in sustanzia" (Vita Nuova, XXV, 2). E, prima di lui, Guido Ca-
valcanti:
Donna me prega, perch'eo voglio dire
d'un accidente che sovente è fero
ed è sì altero ch'è chiamato amore.
(Donna me prega, 1-3)
9 Anzi, nei Trionfi" Laura è rappresentata armata proprio dello scudo,
che Minerva aveva dato a Perseo per sconfiggere Medusa:
Ell'avea indosso, il dì, candida gonna,
lo scudo in man che mal vide Medusa.
(Tr. Pud., 118-119)

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