SULLA NATURA
Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario Zucchello
PREMESSA
Dario Zucchello
4
L'indagine περὶ φύσεως
Che in effetti tale intestazione potesse risalire a Parmenide è
stato sostenuto da Guthrie1, sulla scorta della parodia che ne a-
vrebbe fatto Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως, an-
che se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la designa-
zione di un testo avvenisse attraverso la citazione dell’incipit (che
doveva risultare particolarmente incisivo), con l'indicazione del
contenuto, preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del
testo, analogamente a quanto registriamo nel caso di Erodoto)2.
Il trattato ippocratico Sull'antica medicina riferisce la formula
indentificativa περὶ φύσεως almeno ai testi della metà del V secolo
a.C.:
1
W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194.
2
G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16;
W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della
filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 12.
3
J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico
nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa
2006, p. 296.
4
Gorgia ne avrebbe portato avanti uno analogo, ma connotato più in senso
critico, per sottolineare gli insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe
influenzato direttamente Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele.
5
in prosa), di ogni epoca, per coglierne convergenze e stabilire li-
nee di continuità5.
In ogni caso, al di là della discussione sull'attendibilità storica
di quel titolo per le opere del V secolo a.C., non è contestato il
fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse individuabile un gruppo di
autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla na-
tura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se coloro
che chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di con-
tribuire a una specifica impresa culturale (sottolineandola nell'in-
testazione o incipit dei propri contributi), è tuttavia difficile nega-
re che, almeno tra i contemporanei di Platone, si fosse diffusa la
convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura
(φυσιολογία), iniziata con Talete e conclusasi con Socrate6.
5
Balaudé, op. cit., p. 291.
6
W. Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to
the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philoso-
phy, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit.,
p. 357.
7
Op. cit., pp. 28-29.
6
ἐσθλόν) contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα
λύγρα) di Circe: Odisseo racconta come Hermes, estratta dalla ter-
ra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta medicamentosa (μῶλυ), ne illustras-
se la «natura» (καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε). Per un verso, in quel
contesto, φύσις può apparire immediatamente sinonimo di εἶδος,
μορφή, φύη, termini (ricorrenti in Omero) indicanti la «forma»: è
per altro evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela non riguar-
da semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta,
piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui
esse discendono. In particolare Hermes si riferisce alla radice, ne-
ra, da cui cresce il fiore dal colore opposto, bianco: utilizza il ter-
mine, quindi, per denotare non tanto la forma fenomenica, né
propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire
l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente
da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo).
In questo senso il termine φύσις occorre nelle più antiche cita-
zioni della sapienza greca:
7
la natura, secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi
(Temistio; DK 22 B123).
8
M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les incipit
des présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp.
16-17.
9
Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Pub-
lishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960), pp. 201-202.
10
Naddaf, op. cit., p. 15.
8
περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ
ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ
τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ
γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ
προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι
σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς.
Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che
nessuno possa conoscere la <scienza> medica a meno di
non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba
conoscere colui che intenda curare correttamente gli
uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia,
proprio come nel caso di Empedocle o degli altri che
scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo,
come sia stato dapprima generato e come costituito. Io
ritengo che quanto è stato scritto da medici e filosofi sulla
natura abbia più a che fare con il disegno che con la
medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa
conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non attraverso
la medicina (De prisca medicina cap. 20).
11
Naddaf, op. cit., pp. 24-25.
9
καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ
ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει.
Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto
necessario a mostrare, rispetto all'uomo e a tutti gli altri
viventi, come si sono generati e sviluppati, che cosa sia
l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa sia cattivo
e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1).
12
Naddaf, op. cit., pp. 22-23.
11
ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς
ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως
ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς
αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί
ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι
Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente
affascinato da quella sapienza che chiamano indagine
sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le
cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si
corrompa e perché esista (96a).
13
M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in
La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 344.
12
οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ
ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν.
οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων
οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ
τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα
γίγνεται τῶν οὐρανίων
Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire
alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si
interessava della natura di tutte le cose, alla maniera della
maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i
sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si
produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte,
Memorabili I, 1, 11).
14
A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une
catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Phi-
losophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord)
2002, p. 20.
13
Beato è colui che alla ricerca
ha dedicato la sua vita;
egli né i suoi concittadini danneggerà
né contro di loro compirà atti malvagi,
ma, osservando della immortale natura
l'ordine che non invecchia, ricercherà
da quale origine fu composto e in che modo.
Tali individui non saranno mai coinvolti in atti turpi.
Il modello peripatetico
Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha certa-
mente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la tra-
dizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofi-
a, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi
filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la con-
vinzione che «principi di tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero
«solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così
argomentando:
15
ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως.
[...]
Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e
elemento delle cose che sono, adottando per primo questo
nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia
né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi,
ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano
tutti i cieli e i mondi in essi: «è secondo necessità che
verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine,
avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la
pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo
l’ordine del tempo» [B1]. Così si esprime in termini molto
poetici. È evidente allora che, avendo considerato la
reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne
adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo
piuttosto qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa
discendere la generazione dalla alterazione dell’elemento,
ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento
eterno [...] (Simplicio; DK 12 A9).
15
J. Burnet, Early Greek Philosophy, Black, London 19203, pp. 11-12.
16
W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze
1961, p. 32.
17
(i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς
ἀρχῆς);
(ii) individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος
κινοῦντος);
(iii) modalità di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται
τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo» (τὸν κόσμον γεννῶσιν).
Parmenide e la φύσις
Tornando ora alla titolazione del Poema parmenideo, le testi-
monianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne citazioni
– sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto proba-
bilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) –
sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbia-
mo già letto le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως
ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle
di Sesto:
17
Su questo punto N.L. Cordero nel suo commento a Platon, Le Sophiste,
traduction et presentation par N.L. Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240;
J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999,
p. 190.
19
e secco ovvero caldo e freddo -, li fa convivere e li unisce
in matrimonio (242 c8-d4).
18
È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους
τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di accentuare
la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide in direzione delle
origini. Su questo il commento di F. Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di
F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2007, p. 341-342.
19
Palmer, op. cit., pp. 191-192.
20
πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν
εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά
Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il
tutto [l'universo] è uno, e porti prove di ciò in modo
brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che
i molti non esistono, e anche lui porta prove molto
numerose e consistenti. Il primo dice quindi che esiste
l'uno, l'altro che i molti non esistono: così ciascuno parla
in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile,
mentre in realtà affermate le stesse cose,
21
Secondo le indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193 ss.) sulla concentrazione di
termini parmenidei nel dialogo.
22
tutti i viventi non poteva essere che quella che
comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo
tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte
ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più
perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa,
giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte
ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla
era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché
nulla era rimasto da sentire; né vi era intorno aria, che
dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo
per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito,
dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso
separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte,
perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato prodotto in
modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria
corruzione e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni
passione (33 b-c)22.
22
Platone, Timeo, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR
Rizzoli, Milano 2003.
23
E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni
Quasar, Roma 2009, p. 24.
24
Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss..
25
L. Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L.
Brisson, Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21.
23
(b) esistono realmente molteplici realtà sensibili, esse sono
componenti dell'universo a loro volta costituite da componenti e-
lementari26.
26
Ivi, p. 21.
24
πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ
τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει.
Una discussione intorno a costoro esula dall’esame
attuale delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni
dei naturalisti, i quali, posto l’essere come uno, fanno
comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia;
essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in
effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto
[l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il tutto]
sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è
appropriato alla presente ricerca (986 b12-18).
27
Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli
della Fisica (I, 2 e 3).
25
Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla
verità sono stati in disaccordo sia rispetto ai discorsi che
noi proponiamo, sia reciprocamente.
Gli uni, infatti, eliminarono completamente
generazione e corruzione: sostengono in vero che nessuna
delle cose che sono si generi o si corrompa, ma
semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di
Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono
adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si deve
credere che parlino da un punto di vista fisico, dal
momento che l'essere alcuni degli enti ingenerati e
completamente immobili è proprio piuttosto di
un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica.
Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro
oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro per primi
pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci
una qualche forma di conoscenza o intelligenza: così
trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti riferiti
a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24).
28
J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35
giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo
Sulla natura o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione
"riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di
recuperare le differenze tra le relative posizioni.
26
niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una discontinuità nel
contributo di Parmenide, capace di individuare la causa specifica
del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον):
27
ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν
καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν
δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων
δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ
ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν.
Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane),
Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe le
strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche
di spiegare la generazione degli enti, pur non affrontando
entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo, secondo
verità, che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico;
ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo
di spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che
appaiono] - che i principi siano due, fuoco e terra, l'una
come materia, l'altro come causa e agente (DK 28 A7).
29
G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto,
in effetti, prospetta Parmenide discepolo di Senofane - come riferiscono
Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i commentatori aristotelici
Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro (secondo quanto
attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle -
«ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) -
e Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι
τῆς φιλοσοφίας, DK 28 A8).
28
Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di vista
cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sor-
prendente31 e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue rico-
struzioni: egli insegue le tracce di problemi che sarebbero giunti
ad adeguata formulazione solo successivamente, cogliendone lo
sviluppo attraverso la connessione tra le principali personalità
(per altro all’interno di rigide categorie aristoteliche) 32. In questa
prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra registrato,
avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si
sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta
da quella del sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato
chiaramente i principi diversi 33.
Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo
è da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'univer-
so (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le
ricadute interessanti anche «sull'indagine in corso intorno alle
cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων). Parmenide, infatti, avrebbe
inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν λόγον), ovve-
ro come unità finita (essendo la finitezza espressione di determi-
natezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν
ὕλην), come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il
primo tra costoro a essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων
ἑνίσας) e per ciò ancora una volta riconosciuto maestro di Parme-
nide – si sarebbe invece limitato, volgendosi «all'universo nel suo
30
L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene, Anassagora,
Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo
riconosciuto complessivamente ad Anassimandro.
31
Nella ricerca contemporanea è stata sottolineata la dipendenza della
cosmologia del poema Sulla natura dalla cosmologia e cosmogonia
attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf, op. cit., p. 138. D’altra
parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza, David Furley ha
opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal universe» del poema
e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The Greek
Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its earliest
critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.).
32
Un’ampia discussione della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in
G. Colli, La natura ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E.
Colli, Adelphi, Milano 1998, cap. II (Storicismo peripatetico).
33
G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, cit., p. 327.
29
insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità (τὸ ἓν
εἶναί φησι τὸν θεόν).
Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel Teeteto pla-
tonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di
Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus "ai-
tiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ trop-
po grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea:
30
φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenome-
ni [cose che appaiono]»).
Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità (πλείω
κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine,
inducendo Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο
τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς), ciò legittimando la sua rilevanza per
la discussione aristotelica. Si tratta di una lettura che trova con-
ferma nella dossografia successiva, anche in un autore, Plutarco,
che attingeva probabilmente a una tradizione accademica, relati-
vamente autonoma rispetto alla linea teofrastea:
31
l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus
Colotem 1114 d-e).
32
bene se ne registrasse la "eccentricità"34 e quindi la problematica
riducibilità al paradigma della περὶ φύσεως ἱστορία.
«Gli elementi costitutivi delle cose che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν
ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come principi di tutte –
34
Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero
greco arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di
filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F.
Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178.
33
risultano in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ
στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto ciò che è. In questo
senso la cifra sapienziale comune alla «scienza dell'essere in
quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e all'indagine dei
φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realiz-
zazione: «ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς
ἀκροτάτας αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro,
infatti, Aristotele rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν
ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente consapevoli di «ricercare
sulla natura [realtà] nella sua interezza e sull’essere» (περί τε τῆς
ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica IV, 3 1005 a32-
33), intendendo quindi la «natura» come una totalità omogenea
(dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprie-
tà riconducibili a principi universali.
Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν coincidessero, che la φύσις
cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici» avrebbero manife-
stato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più generali
di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει
τοῖς οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello speciali-
sta (che si limita ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filo-
sofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου [σκέψεως]). Il riferimento è indetermina-
to ed è stato precisato in modo diverso dagli interpreti: noi rite-
niamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per la riflessione
sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in considerazio-
ne del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettiva-
mente sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi
dei «segni» (σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia
con l'insistenza sulla reciproca implicazione di verità ed essere.
34
ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς
ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ
τῆς ἀληθείας
consideriamo comunque anche coloro che prima di noi
hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno
filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1),
35
W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della
filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16.
35
impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti,
non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non
è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti
qualcosa che funga da sostrato. E aggravando in questo
modo la conseguenza immediata, affermarono che non
esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I,
8 191 a25 ss.).
36
Su questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit.,
pp. 130 ss..
37
È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di
ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists,
C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di
Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e quello
dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) –
potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente elaborati in
modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano
di un peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti,
Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la collaborazione
di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234).
36
to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας e
Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispetti-
vamente di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con
la formula «indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà
genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi oltre le ap-
parenze che la occultano38. Illuminante un passo di De generatio-
ne et corruptione:
38
Leszl, op. cit., p. 17.
39
Così Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione,
introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p.
200.
40
Non è un caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico
come un vero e proprio frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e
frammenti, traduzione, introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970,
La Nuova Italia, pp. 98-104.
37
ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo in-
sieme (τὸ πᾶν). Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed
"epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la determina-
zione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine
gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων -
ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων).
Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come ri-
velano le letture antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν
(«ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si definiscono proprietà
strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον) «senza morte»
(ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές),
«saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele
indica come τὸ πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo
sforzo di evitare le incongruenze colte nelle coeve indagini sull'o-
rigine e sulla struttura del mondo naturale 42, avrebbe trasfigurato
lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo
dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale ai limiti di logi-
ca e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una tratta-
zione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si
chiude con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà
oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico
dell'opera tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di
quella realtà e una sua accettabile ricostruzione a partire dall'espe-
rienza che gli uomini ne hanno.
41
Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54.
Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 –
osserva come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che
è, e sia dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che
proponiamo è espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht
des Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare
rilievo le pagine 260-1.
42
Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare comunque in
ambito ionico e pitagorico.
43
D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in
The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A.
Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175.
44
Leszl, op. cit., p. 19.
38
Natura e verità in Parmenide
In effetti, nel caso del poema di Parmenide, presumendone u-
nitarietà e coerenza, possiamo registrare:
(i) lo squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'e-
sposizione dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato»
(διάκοσμον ἐοικότα πάντα, B8.60) doveva essere assai più consi-
stente di quella (la prima) relativa al «percorso di Persuasione,
che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ
ὀπηδεῖ, B2.4);
(ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος, a un
lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e
proprio programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra
l'altro in sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia45:
45
L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I, 4,
introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai precedenti
di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore.
39
Che l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata
come περὶ φύσεως ἱστορία sembra, alla luce delle considerazioni
introduttive, indiscutibile, così come appare chiara la sua inten-
zione cognitiva: nella costruzione del Poema, è allora possibile
rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda sezio-
ne e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'o-
biettivo dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è
compiutamente conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla
inequivocabile valenza cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη
quanto ai δοκοῦντα:
40
καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ.
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε.
Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi:
nulla è più inconsistente dell'uomo tra tutte le cose
che nutre la terra, e sulla terra camminano e si
muovono.
Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà,
fin quando gli dei concedono forza e le membra sono
in movimento.
Quando invece gli dei beati infliggono anche dolori,
pure questi sopporta, suo malgrado, con animo
paziente.
Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla
terra,
quale il giorno che manda il padre degli dei e degli
uomini (Odissea XVIII, 129-137)
41
a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è pos-
sibile delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità
della prima istruzione.
Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura
convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali
frammenti B9-B1246, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi,
anche perché i rilievi del testo richiamano puntualmente i divieti
di B2-B8:
46
Lesher, op. cit., p. 240.
42
In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide
tenta di salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione
tra umano e divino:
(i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime
in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria
disamina dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è
ed è necessario non essere», esso riconosce che:
43
(a) del contributo scientifico47 (prevalentemente in campo co-
smologico48) riconosciuto a Parmenide nell’antichità: ancora una
volta è interessante soprattutto il fatto che Teofrasto (DK 28 A44)
gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra:
Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’
αὐτοῦ φωτίζεται
47
Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del
vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura,
introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR
Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the
Cosmos.The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University
Press, Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182.
48
Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello cosmogonico della seconda
sezione del poema dovesse essere influenzato da una prospettiva biologica e
ricordato opportunamente le tracce di una «antropogonia», attestata da
Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Na-
ture, cit., pp. 137-138.
44
Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è
infatti illuminata (DK 28 A42);
49
Lesher, op. cit., p. 241.
50
Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova edizione (La
pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe et Phi-
losophie chez Parménide.
46
ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι
Il giudizio in proposito dipende da ciò:
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità,
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile
(poiché non è
una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale
(B8.15b-18),
Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino ri-
flettano l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, im-
plicita nella cultura delle origini, tra la dimensione temporale del-
le cose in divenire (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose
che sono, le cose che sono state e le cose che saranno», Iliade I,
70) e quella peculiare alla concezione arcaica del divino ( θεοὶ αἰὲν
ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51.
La distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come ab-
biamo visto, è quella tra:
(i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razio-
nale su τὸ ἐὸν:
51
Ivi, p. 102.
48
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης
καὶ φύσιν
Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti
i segni e della pura fiamma dello splendente Sole
le opere invisibili e donde ebbero origine,
e le opere apprenderai periodiche della Luna
dall’occhio rotondo,
e la [sua] natura (B10.1-5a),
49
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν·
παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης
ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ
σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν),
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν
μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν
ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων·
τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ
κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare
con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo
che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli
crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […]
Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che
l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo
sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi
dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere.
50
τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni
imposero
separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della
fiamma etereo fuoco,
che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione
identico,
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte,
anche quello in se stesso,
le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e
pesante (B8.55-9)
52
In modo diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of
Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton Uni-
versity Press, Princeton 1998; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Be-
ing. A Philosophical Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cos-
mos, cit..
51
Parmenide53 – come risulterebbe da una serie di frammenti (DK
31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17).
53
D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in
The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una
più meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare
D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit..
52
IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI
54
N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide,
sous la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Pa-
ris 1987, p. 4.
55
E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni
Quasar, Roma 2009, p. 143.
56
Ibidem.
53
a proposito del primato di Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d
a proposito del «parricidio»; 244e a proposito della struttura e in-
divisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta, replica la descrizio-
ne del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita il verso su
Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Me-
tafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza
postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16
(in una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le
citazioni del frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso,
Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino da Platone57.
Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58, non pro-
priamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «man-
cato utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare
uso abbondante dei frammenti del poema, aprendo di fatto la se-
conda stagione d’attenzione per l'opera - la più ricca di citazioni
testuali - che dura fino a tutto il VI secolo. Caratteristica di questa
fase è il ricorso al Poema non per illustrare la posizione dell'auto-
re, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi da parte
dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di prima
mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teo-
frasto.
A Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un
manoscritto dell’intera opera di Parmenide 59 , dobbiamo la cita-
zione (in gran parte come unica fonte) dei due terzi dei 160 versi
tràditi del poema: egli cita estensivamente anche perché consape-
vole della rarità del testo già nella sua epoca (clamorosamente
quella in cui aumenta il numero di autori che direttamente o indi-
rettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Bo-
ezio, Olimpiodoro60):
57
Cordero, op. cit., pp. 4-5.
58
Ivi, p. 5.
59
A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht
1986, p. 1.
60
Cordero, op. cit., p. 6.
54
τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’
ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου
συγγράμματος
anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere
a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide
sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia
per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21).
61
Cordero, op. cit., p. 5.
62
Coxon, op. cit., p. 2.
63
Seguiamo Passa, op. cit., p. 21.
55
Fonti attiche
Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avu-
to accesso a copie del poema: secondo Passa 64, si può facilmente
dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è
probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del mate-
riale presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone
e Aristotele ricorressero alle selezioni approntate nella seconda
metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella sua Συναγωγή aveva e-
stratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in opere
poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato
dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano
essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli in-
solubili contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha
lasciato tracce ancora nelle opere ippocratiche, in Senofonte e I-
socrate). Platone e Aristotele, che rivelano nelle loro opere di
combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare diret-
tamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi,
sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella
loro lettura66.
Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Plato-
ne, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero
accesso a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Te-
ofrasto e Eudemo non siano fonti primarie dei versi che citano e
che lo stesso Aristotele citi (3 volte su 4) probabilmente sulla
scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati nel riportare
il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti ver-
sioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può
essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due
distinte tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente im-
possibile per noi risalire oltre la redazione attica del poema pos-
64
Ivi, p. 25.
65
J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico
nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa
2006, pp. 288 ss..
66
J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek Philoso-
phy, cit., pp. 26-27.
67
Ivi, pp. 2-3.
56
seduta dall'Accademia e dal Peripato, è dunque almeno ipotizza-
bile discriminare al suo interno tra il testo usato (o citato a memo-
ria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto. Né, come
abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni
alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tar-
da68.
La recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da
una versione già in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dun-
que sopportato interventi simili a quelli operati (nello stesso peri-
odo) sul testo omerico: modificazioni del vocalismo e introduzio-
ne di aspirazioni (in origine il testo doveva essere psilotico). Il te-
sto riportato da Platone è nel complesso accurato, sebbene, se-
condo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la spiccata
propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i neopla-
tonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da
Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizio-
ne "accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del
Poema disponibili.
In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che
Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto po-
trebbe aver attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo
di Aristotele che si sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la
tradizione "dossografica", quella delle fonti che derivano le pro-
prie citazioni da compilazioni 70.
68
Passa, op. cit., p. 26.
69
Ibidem.
70
La tradizione dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella
tradizione per lo più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in
16 libri): integrata in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata
dagli Epicurei, Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico,
seconda metà II secolo), dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III
secolo). Diels denominò questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata
ulteriormente rivisitata, abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore
indicato come Aëtius, la cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da
Diels. Il filologo tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in
realtà pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e
il De historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudo-
Plutarco) e soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale
riassunto da pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo
57
Fonti ellenistico-romane
Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il pri-
mo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi
del Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15
hanno Plutarco come fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica
fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcu-
ne varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibi-
li 71. È probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a
quella "accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con
varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni in-
tervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione
plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico
e Diogene Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simpli-
cio72. Indicativo della validità della fonte plutarchea è soprattutto
il caso di B13 (trasmesso anche da Platone, Aristotele, Sesto Em-
pirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in grado
di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento,
con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un
unicum nelle fonti)73.
Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon 74 , mostrerebbe
nel complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di
quasi tutto ciò che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il
fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la variante ἀγένητον
(nella dossografia impiegata per sottolineare l'accordo di Parme-
nide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον - fa sup-
pore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di
Fonti neoplatoniche
La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo lo stesso Plo-
tino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti isolati:
76
Passa, op. cit., p. 32.
77
Passa, op. cit., p. 29.
78
Ivi, p. 31.
79
Ibidem.
80
Cordero, op. cit., p. 5.
81
Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti
peripatetiche e stoiche.
59
B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca
dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo
un consistente numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3,
B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-32, B8.35-36, B8.43-
45, che rivelano la sua familiarità con l’opera parmenidea82, ciò
suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo completo.
Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazio-
ne dei suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a me-
moria, eppure si conviene che, in considerazione delle coinciden-
ze non casuali con la versione di Plutarco, il testo di Proclo do-
vesse essere antico almeno quanto quello di Plutarco, e derivare
dalla medesima tradizione testuale accademica 84, sebbene ormai
modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide.
Nella propria edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels at-
tribuì a Simplicio - come fonte per la ricostruzione dell'opera di
Parmenide - enorme valore. A conclusione della propria introdu-
zione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare di
Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortref-
flich), forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuo-
la di Platone86, di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima del-
la chiusura a opera di Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, ri-
conosceva anche come Simplicio e Proclo non potessero aver ri-
cavato dalla stessa copia le rispettive citazioni. Così, nonostante
risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i due
commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi 87 ,
esemplari di versioni testuali alternative all'interno della stessa
tradizione accademica.
L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente di-
scussa con acribia da Passa 88, secondo il quale è difficile credere
82
Coxon, op. cit., pp. 2-3.
83
Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39.
84
Passa, op. cit., p. 39.
85
H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 2001 2,
pp. 25-26.
86
Ivi, p. 26.
87
Ibidem.
88
Op. cit., pp. 35 ss.
60
che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca
dell'Accademia, dal momento che:
(i) dopo la chiusura decretata nel 529 dall'editto di Giustinia-
no, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e l'allievo Simpli-
cio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe (531),
per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Har-
ran (Mesopotamia) o in Siria;
(ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo il ritorno dalla
Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam, (iii)
in categorias, (iv) de anima89.
89
Ivi, p. 36.
90
Coxon, op. cit., p. 6.
91
Passa, op. cit. p. 40.
92
Ibidem.
93
Ivi, pp. 41-43.
61
καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί
τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ
τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς
καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι
π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ
σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως
ἑκάτερα
tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello
stesso Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro
è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la
densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza
e pesantezza.
94
J. Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition
in Greek Philosophy, Osloae 1971, p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2.
95
K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» 87,
1938, p. 3.
62
Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι·
ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ
μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ
τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων
καὶ μετὰ μέτρων -
Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα·
ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα
[B7.1-2]
Questo discorso ha osato ammettere che il non essere
sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il
grande Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che
eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla
fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi
versi, che:
«Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che
non sono.
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero».
96
Passa, op. cit., p. 25.
97
Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo
punto.
63
Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu
discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al
contrario, di Anassimandro di Mileto. [...] Scrisse di
scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa,
come ricorda Platone (DK 28 A2).
Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema
parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si ri-
flettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola
platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio
il caso di Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la
ricostruzione di Passa99.
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta
la sua opera di commento, si era radicata, a partire dal II secolo,
una tradizione che, da Numenio a Giamblico (III secolo), aveva
puntato a una rilettura della storia della filosofia (Φιλόσοφος
ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione del maestro di
Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino) im-
perniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti in-
terpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione,
di una verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di
Zarathustra, Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima,
98
Passa, op. cit., p. 145.
99
Ivi, pp. 35 ss..
64
e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più lucidi testimoni100.
Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico (cui si deve
un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica dell'opera
platonica 101 ) rispetto all'interpretazione porfiriana 102 era la valo-
rizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e Ari-
stotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensa-
tori presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel cata-
logo dei pitagorici103. È in tale ambiente che Simplicio avrebbe
recuperato in genere gli strumenti necessari al ripensamento di
Platone e Parmenide (visto come anello di congiunzione 104) e il
materiale per le proprie citazioni.
Le citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali
(in particolare per la possibilità del commentatore di ricorrere di-
rettamente a esemplare del Poema, che consente di conservare ca-
ratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori della tradi-
zione 105 ), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della
presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente pro-
cesso di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello
attico; (ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il
testo106; (iii) una probabile "normalizzazione" 107 del testo sul pia-
no dei contenuti, alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante
e pitagorizzante.
100
Molto utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G.
Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita di
Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e
l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della
filosofia, Rusconi, Milano 1997.
101
(i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone; (ii) Platone-logico:
Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista e Politico; (iv) Platone-teologo:
Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene). Il tutto era poi ricomposto
nella lettura di Timeo e Parmenide, che riassumevano tutto l'insegnamento
platonico sulla natura e la teologia.
102
Girgenti, op. cit., p. 11.
103
Passa, op. cit., p. 37.
104
Ivi, p. 145.
105
Ivi, p. 42.
106
Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, ibidem.
107
Ibidem.
65
BIBLIOGRAFIA
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traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999
[strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per
la discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione
dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come
Cerri]
H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über
griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von
W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2003 2 (edizione originale
1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la compren-
sione dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indichere-
mo come Diels]
Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edi-
zioni Medusa, Milano 2006
Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi fi-
losofica, a cura di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007
Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles),
Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläute-
rung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Ver-
lag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Mar-
ciano]
Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso,
traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indiche-
remo l'edizione come Tonelli]
The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Frag-
ments and Selected Testimonies of the Major Presocratics, trans-
lated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge
2010 [indicheremo l'edizione come Graham]
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Molto utili per la discussione di singoli problemi interpretativi
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che Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera gene-
ricamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo,
Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università
degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera genericamente
come Leszl].
In generale, per lo status interpretativo fino alla seconda metà
degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento
l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo,
La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume
III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E.
Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani, Milano
2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G. Girgenti).
Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue pre-
messe è davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs
and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of
Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham,
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74
PARMENIDE
SULLA NATURA
Frammenti
testo greco e traduzione italiana 1
1
Le note al testo greco si riferiscono a problemi di determinazione del testo
originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi di resa del testo greco e
di interpretazione.
DK B1
ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι,
πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι
δαίμονος1, ἣ κατὰ † ... †2 φέρει εἰδότα φῶτα·
τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
[5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον.
ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3 σύριγγος ἀυτήν
αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν
κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν
Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4
[10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας.
ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων,
καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·
αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις·
τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς.
[15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν
1
Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema
parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo
δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà.
2
Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto:
KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ
πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels
legge: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice
N da parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a
congetture plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ
πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la
traduzione si veda nota relativa.
3
χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι del codice N,
χνοιῆσιν (codici EL).
4
Scegliamo, seguendo Diels, di considerare Νύξ nome proprio della divinità,
così come nel caso del successivo Ἦμαρ.
5
Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il
κράτων da Diels.
6
La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo plurale di
terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della aedica ionica: la
presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da Passa (pp. 99-100).
7
La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην.
76
πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα
ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων
χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους
ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι
[20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9· τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10
ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν11 ἅρμα καὶ ἵππους.
καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα
ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν,
[25] ἵπποις θ’ αἵ13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ,
8
La forma del genitivo πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p.
84) la familiarità di Parmenide con la dizione epica, manifestando in
particolare la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di
metatesi quantitativa. Diels, nell'edizione del poema (1897), si interrogava
(pp. 26-27) sull'opportunità di conservare πυλέων in vece di πυλῶν.
9
La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata da Bergk e generalmente accolta
dagli editori. Si distingue Cordero, che conserva la forma del participio
plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores.
10
Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo
codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare
dello stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels,
in verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa
Cordero. Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII,
424) e esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque
il sospetto (Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice
N, copia di uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del
poema.
11
Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20.
12
I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui
vocalismo - ᾱορος appare fuori posto in un poema in esametri, composto da
un autore ionico. In Omero è attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813)
e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò
la correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La scelta di
Diels è stata di recente difesa, su diverse basi interpretative, da Passa (pp.
132-137), che vede nel vocalismo - ᾱορος il segno di una incidenza della
lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione
dei codici attici del poema (che dovevano riportare συνήορος), ma
probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide, che se ne
appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia
contemporanea.
77
χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι
τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -,
ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε. χρεὼ17 δέ σε πάντα πυθέσθαι
ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς20 ἦτορ
13
I codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come
osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford
2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di
ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1,
che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la
stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come
il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί
della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare
che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista
di N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte
(ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi
difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato
appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di
Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’
αἵ sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal
pronome relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi,
la mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu
originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel
proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici
di Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da
attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende
la tradizione sestana fosse psilotica.
14
Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare Μοῖρα nome proprio,
coerentemente con il contesto divino.
15
La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori.
16
Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their
cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59,
l'uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci
troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14.
17
Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la
forma più antica χρειώ (Passa, p. 77-9).
18
È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels
1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη,
evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In
considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe
definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo
la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano
(II, p. 12).
78
[30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21
χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23.
19
Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto
Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De
Caelo aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente
di Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il
testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in
forza della qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il
filologo tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner,
Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli,
Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e
Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος (che viene tradotto come
«ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon,
Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo
Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi,
si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità della redazione di
Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha
argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro
all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema che mette
in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio, che
risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di
Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe
invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei.
Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in
Palmer (op. cit. pp. 378-80).
20
Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono
ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di
Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione, riconoscendo,
invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico dell'Ἐόν
parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione
ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato come
l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti illustri
in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato
vittima di un rimaneggiamento secondario.
21
Passa (p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto
probabilmente un atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che
δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La lezione
δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα.
22
Nella sua edizione del poema (1897) Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι
come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i
pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe,
79
[vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111;
vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b-
30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem
1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo,
In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathema-
ticos VII, 114]
80
Le cavalle 1 che mi portano 2 fin dove il [mio] desiderio 3 po-
trebbe giungere4,
1
Il testo greco riporta ἵπποι ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in
Pindaro, Bacchilide e Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di
origine omerica: secondo Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una
influenza orfica.
2
Il verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel
proemio all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e
all’aoristo (impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p.
14) l’uso del presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con
un viaggio ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide
intendesse effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un
proemio in cui nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di
rivelazione (passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la
propria attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di
canti»). G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del
Sole di Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei.
Classe di scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-
464) osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e
«autobiografico»: Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una
sua lontana esperienza». A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente
«mi portano» indicherebbe in particolare che sono state «le solite cavalle di
adesso e di sempre ad averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo
imperfetto πέμπον che l'azione è avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος
(v. 24) segnalerebbe l'età in cui il viaggio fu intrapreso. (p. 449).
3
Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo che il termine greco, nel
contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore di «slancio», ovvero – ma
il significato appare più generico - di «animo». È plausibile che θυμός si
riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che parla: il termine, tuttavia,
può essere simbolicamente collegato anche allo sforzo della corsa delle
cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano (Becoming Being. On
Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin
2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero all'inizio del
viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura del poema
suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è già
motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo.
4
L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè
un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è
attestato un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op.
cit., pp. 65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche
Mourelatos (The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and
Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London
81
mi guidavano5, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato 6
sulla via7 ricca di canti8
82
della divinità9 che10 porta † ... †11 l’uomo sapiente12.
83
Su questa via13 ero portato14, su questa via mi portavano 15 mol-
to avvedute16 cavalle,
84
[5] trainando il carro 17: fanciulle18 mostravano la via.
Nei mozzi emetteva un sibilo acuto19 l’asse,
può riferirsi alla via su cui al momento si muove il poeta nella sua missione
pubblica, ovvero la via al centro del successivo racconto.
14
Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti in diatesi
passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle) e il
privilegio di essere trasportato (del poeta).
15
Si tratta dell’ennesima ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi
iniziali. Tale ripetizione, sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni
(Mourelatos, p. 35) come un difetto, un limite della poesia di Parmenide, da
altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999,
p. 135), invece, come mezzo per incidere sull’audience: la ripetizione
sarebbe «una tecnica per creare un effetto incantatorio». Secondo Chiara
Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe essenzialmente una funzione
retorica: preparerebbe l’audience al concetto di guida, centrale nel «second
journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto sotto la direzione della Dea,
verso la verità.
16
L’aggettivo πολύφραστοι, riferito alle cavalle, significa letteralmente «che
hanno molto da dire»: supponendo che πολύ comporti intensità, si può
rendere con «molto avvedute», «molto sagge». Parmenide vuole forse
sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si allude ai vv. 5 e 9.
17
Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da cavalle o cavalli sia chiara
metafora della poesia, impiegata spesso nella lirica corale: il poeta sul carro
guidato dalle Muse è avviato all’itinerario espressivo più adeguato
all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano mediatore tra uomini e dei,
come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la capacità di lasciare in trance il
proprio corpo e viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre
anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Il suo viaggio,
pericoloso, avviene talvolta su un carro volante: frequentemente accostata a
certi animali, come i cavalli, la figura dello sciamano - spesso poeta o
cantore - narra in prima persona le sue esperienze celesti. L’associazione con
le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti (v. 9) alla «dimora della Notte»
(δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di Notte e Giorno»
(πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono un nesso tra il
carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile
contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al
carro di Hades.
18
Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi.
19
Così traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto
a canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto
dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al
carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito,
Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a
85
incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti
cerchi da ambo i lati), mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22
le fanciulle Eliadi 23 , avendo abbandonato 24 la dimora 25 della
Notte
86
[10] verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal capo27.
87
Là28 sono i battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno:
proemio il tempo del racconto scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce
precederebbe il racconto della catabasi nel regno della Notte. Secondo
Privitera (op. cit., p. 460), invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι
δώματα Nυκτός εἰς φάος rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e
scoglio funesto, contro cui è destinata a naufragare ogni interpretazione
catabatica del viaggio di Parmenide».
27
Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre:
I due passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a
illustrare il moto e i gesti delle Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide.
Anche Palmer (op. cit., p. 57) suggerisce l'accostamento.
28
Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα ricorra nella tradizione
epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione aggiuntiva. Nella
lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto dell’esperienza
oltremondana» (p. 103).
29
Il testo greco presenta il plurale πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri
che sorreggono un grande portale a due battenti (su questo punto si leggano
le osservazioni di O’Brien, p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p.
180, Coxon, pp. 161-2) riferiscono il plurale a due porte distinte, una in
faccia all’altra: Coxon, per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di
Simplicio e Numenio, crede che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per
le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν
(«alla generazione, incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le
divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto. Il verso successivo
sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è attestata l'espressione
πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea XIV, 156) per indicare i
cancelli che immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella
tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit., p. 453), che ricostruisce
l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo,
Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che
88
architrave e soglia31 di pietra li incornicia32;
89
essi, alti nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35.
Il riferimento ad Atlante, che con i piedi piantati per terra solleva il cielo con
testa e braccia, potrebbe (come vuole Burkert) essere avvalorato proprio
dall'uso di λάινος οὐδός («soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι,
quasi a indicare gli estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide
potrebbe dunque aver avuto Esiodo come modello per la sua porta dei
«sentieri di Notte e Giorno», replicando l'analogo portale di Atlante
(Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8).
34
La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli
editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha
con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι
(«avvicinarsi»), di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio
(πέπλημαι). Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro
contesto.
90
Dike36, che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso al-
terno39.
[15] Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti,
35
Anche in questo caso molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il
significato tecnico del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche
come variante di θύρα («porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della
porta]», come correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da
Passa.
36
Nella tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle
Ore, sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V,
749; VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo
che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come
garanti del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura
di Dike è tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non
a caso la ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di
Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni
all’interno di natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso
sarebbe garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa
correttamente segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea,
rivelato nei versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso.
37
L’espressione Díkh πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158
Kern), ma la datazione è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come
abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella stessa tradizione
(fr. 105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della
Notte». Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente,
come osserva Mourelatos (p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le
chiavi (delle retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari
nella stessa direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del
racconto proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike
sarebbe quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà
oltremondana (Sassi, op. cit., p. 389).
38
L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a intendere il genitivo
pronominale iniziale τῶν riferito (come il pronome αὐταί, nella stessa
posizione del verso precedente) a πύλαι.
39
L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe
riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta
(Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel
contesto è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno:
Dike regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo
potrebbe spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in
effetti plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore.
40
Il verbo πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è
spesso associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse
91
[la] persuasero 41 sapientemente affinché per loro la barra del
chiavistello
togliesse rapidamente dai battenti 42. E questi43 nel telaio
vuoto enorme44 produssero aprendosi, i bronzei
cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare,
[20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46,
92
dritto condussero le fanciulle lungo la via maestra47 carro e ca-
valli.
E la Dea48 benevola mi accolse: con la mano [destra] la [mia]
mano
47
L'aggettivo (qui in forma sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a
ὁδός, indica la strada attrezzata per il passaggio dei carri, quindi,
derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p.
54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro
con la Dea il percorso non è breve. In questo senso potrebbe dunque
approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio.
48
Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare
plausibile alla luce del suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata, che
guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione dell’anonima
divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è interessante l’indicazione di
Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie
altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera», «ninfa infera» o
semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era chiaramente a Persefone.
A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente, Kingsley (op. cit., pp.
93 ss.). Anche Passa ( p. 53) ha di recente riconosciuto in Persefone la dea
rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La filosofia greca arcaica
e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la θεά alluderebbe a
Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie
di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro
(Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli
(“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346)
ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a Μνημοσύνη,
ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto con
Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi
analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di
J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75,
1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die
Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente
concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che
Νύξ (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In
particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza
ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana
del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit.,
pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere
su Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio,
ma rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema
oggetto di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari
associate alla figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan-
93
destra prese49, e così parlava e si rivolgeva50 a me:
O giovane51, che, compagno52 a immortali guide53
Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di identificazione
l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era quanto mai
improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In alternativa, quindi,
aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide evocata come
Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161). Di
recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit.,
pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: (i)
la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico; (ii)
l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come
θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema
"epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che questa
δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario viaggio
oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove l'iniziato
è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine (Sassi,
op. cit, p. 390).
49
Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a testimonianze vascolari che ritraggono
Persefone nell'atto di accogliere nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro
appunto la mano destra.
50
Il verbo greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v.
26: «spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione
sono impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il
punto di partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire»
(O’Brien, p. 8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto.
51
Il termine vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del
poeta, potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella
umana degli interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος),
relativamente raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto
all’anziano, sia il figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può
implicare anche un legame particolare con la divinità, dal momento che
κοῦρoι erano chiamati i giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei
(negli inni omerici a Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni
caso, il termine sarebbe titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59)
fa notare come l’appellativo sia coerente con il contesto educativo,
giustificando la disponibile e benevola accoglienza della dea. La Sassi (op.
cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε a εἰδὼς φώς, come espressione
legata a una prospettiva iniziatica.
52
Il termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma
«associato a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente
ambigua da accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a
συναείρω («aggiogare»), con il significato immediato di «aggiogato
insieme»: anche in questo caso, dunque, è evidente il debito del proemio
94
[25] e cavalle che ti conducono, giungi alla nostra casa54,
rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva a percorrere
questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uo-
mini57),
ma Temi 58 e Dike 59 . Ora 60 è necessario 61 che tutto 62 tu 63 ap-
prenda64:
95
sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68,
serrata per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee
nelle parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione
delle due dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento
proietta e impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine
e di necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei
frammenti (p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke
(Necessità), rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione
di norma cosmica».
60
Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce valore
avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano
(«also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse solo
a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione
iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino,
quindi sottolinea il compito che lo aspetta.
61
Il termine χρεώ è associato nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica
era utilizzato come vero e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso
fu trattato come un neutro. Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ,
finì per diventare un sinonimo di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con
copula sottintesa) χρεώ rende una necessità soggettiva, dunque opportunità,
convenienza, piuttosto che una costrizione oggettiva: si potrebbe rendere
anche con «è giusto», «è opportuno». In ogni modo, l’uso di tale formula
implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte del compito, del dovere
che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op. cit., p. 75). Ferrari (op. cit.,
p. 104) giustamente osserva come il kouros per la dea sia in fondo solo un
«apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε).
62
La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è
significativa perché garantisce al programma della comunicazione
(rivelazione) della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le
articolazioni annunciate negli ultimi versi.
63
L'insistenza sui pronomi personali è confermata anche nei frammenti
successivi (soprattutto la polarità «tu» e «io», in contrapposizione ai
«mortali»).
64
Il verbo πυνθάνομαι ha il valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo
informazioni)» ovvero «imparare per indagine». Può implicare dunque sia
un atteggiamento di passiva ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare
esperienza»).
65
Secondo Coxon (p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non
significherebbero nel contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e
«reale». Di recente Palmer (op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni
argomenti. Anche Ferrari traduce con «Realtà». Nel suo Parmenides und die
Anfänge der Erkenntniskritik und Logik (Auer, Donauwörth 1979, pp. 33
ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della preistoria del termine, come
96
ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e non dimenticanza)
suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e soggettivo di verità:
ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare «riportare nel discorso
qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In effetti, in Omero
ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi: Gloria
Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII,
1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità sintattica»
del termine nella individuazione del processo unitario che connette soggetto
e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a chi
parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale
manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui
«conoscere e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185).
In effetti, già Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5
1010 a1-3), poteva sottolineare:
αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν
ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ
μόνον
la causa di questa opinione presso di loro è che essi
certamente ricercavano la verità intorno agli esseri, ma
supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili.
Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha fatto notare Leszl (p. 16),
il fatto che, a un certo punto, in relazione alle opere di Melisso e Gorgia
(seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate, accanto alla corrente
indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί τοῦ ὄντος e περί
τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della inadeguatezza della
tradizionale titolazione).
Passa (p. 53), che interpreta il proemio come itinerario dell'iniziato verso la
Verità, sostiene che esso contiene «la rappresentazione poetica di esperienze
sciamaniche vissute da Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe
«figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea, assurto esso stesso a
ipostasi divina». Come segnala l'autore, per altro, Verità ritorna,
"ipostatizzata", anche nei reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a
Olbia Pontica.
97
È allora da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura
divina appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione
parmenidea del problema della verità, dopo la profonda incrinatura
dell'orizzonte arcaico, soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso
alla verità potrebbe fungere da chiave di lettura generale (oltre che,
specificamente, dello stesso proemio). Su questo punto ancora la Germani,
op. cit., pp. 186-7.
66
Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben
rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di
εὐπειθέος, se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben
persuasiva»). Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei
mortali» (βροτῶν δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con
una inversione, Parmenide passerebbe da una «verità» (ἀληθείη)
«persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una «vera» (ἀληθής) «credibilità»
(πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia
«sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto «a Verità si
accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua esposizione della
verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1):
98
[30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale credibili-
70
tà .
99
Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte
nelle opinioni74
100
Patricia Curd (The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later
Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 113-4)
ha marcato le differenti implicazioni semantiche rispetto al precedente
πυνθάνομαι: πυνθάνομαι suggerisce che si raccolga informazioni e
apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce piuttosto
apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio.
74
Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di
salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα
indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte
nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del
loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti
di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα
(Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle
opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo
come è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα,
di «correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai».
Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei
termini greci in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα:
«le cose che i mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i
mortali [le] ritengono accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma,
suggerire che i termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose
costituiscono l'identità propria dell’oggetto della accettazione dei mortali.
Brague (Études sur Parménide, t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5)
ricorda come in Simplicio ricorra la formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere
apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in contrapposizione a τὸ ὄν
ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una formulazione senza
paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione autenticamente
parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il doppio
registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto al
discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento aristotelico
(Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα e in
genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ
e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro
termine sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo,
nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si
preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e
all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In
questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ
δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da
loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per
spiegare il mondo in divenire.
101
era necessario 75 fossero effettivamente76, tutte insieme77 davve-
ro esistenti78.
75
L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito può indicare un tempo reale del
passato (pensando soprattutto all’origine delle erronee opinioni mortali e
all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale,
del passato o del presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la
forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è
stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il verbo esprime
piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»).
La concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico pensare
che Parmenide intendesse contrapporre alle «opinioni dei mortali» una
prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di
quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di
Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these things too will you learn, how
what they resolved had actually to be [...]».
76
L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento dell’infinito εἶναι: il
predicato in effetti può essere espresso da un avverbio, facendo così
assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di esistenza. L’avverbio può
tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente» (Mourelatos, p. 204),
sia con «realmente, genuinamente» (secondo l’uso eschileo). Rendendo
l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina una costruzione
ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) un’esistenza
qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di gioco
espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien, pp. 13-
4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in proposito DK
22 B28:
102
δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: «come era necessario
acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono».
77
Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come
una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva
su paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica.
Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them
together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». Sulla scorta dell’uso
platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere
in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso di una
competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso»
(Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo
autonomo il significato e la funzione di πάντα («tutte le cose»).
78
Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα)
dei codici di Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit.,
p. 114, nota 52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso
significato. Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo
(manca, in effetti, l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in
Omero e Esiodo, designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi
ionici l’oggetto della ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp.
61-2).
103
DK B2
1
Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di Proclo
da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i
codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la propria
scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da
verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal
punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che
nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che
dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per
eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico
(Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω.
2
Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in
Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è
correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice
moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν.
Passa (p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico
davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla
dizione omerica».
3
Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale.
4
Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco
maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è
proposta degli editori.
5
La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova
solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79).
6
I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio
παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88.
Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria.
7
Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω).
8
I codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da
ἐφικνέομαι), quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta
paralleli in Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua
104
οὔτε φράσαις·
105
Orsù1, io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una volta ascolta-
5
ta -
1
La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata nell’epica, anche in
relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio un verso formulare
che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea).
2
Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si
rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p.
LXXX) ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune
espressioni che ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali»)
confermano la lettura tradizionale.
3
Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione e cura (come di
cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole Mansfeld, pp. 95-6).
Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con «accompagna la
mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 135) recupera,
invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come «riporta con te».
4
Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda significa (come il latino
fabula) una narrazione meravigliosa, in origine indicava qualcosa di
completamente diverso: la «parola», la parola che esprime ciò che è
realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della
oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in
questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F.
Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32).
Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso,
comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di
Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea
ha da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero,
in cui il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio».
Solo progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso»
sarebbe sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito».
Anche alla luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd)
hanno preferito tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and
Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp.
17-18) distingue tra l’uso di ἔπος per «parola» o genericamente
«affermazione» e quello di μῦθος, che, come rivelerebbero alcune ricorrenze
omeriche, si riferirebbe a un «authoritative speech act». In questo senso, di
recente Couloubaritsis, nella nuova edizione del suo volume su Parmenide,
ha insistito su una resa poco familiare ma attenta a conservare un aspetto
essenziale del valore originario del termine greco: egli traduce (La pensée de
Parménide, , Ousia, Bruxelles, 2008, p. 541) come «ma façon de parler
autorisée». Una traduzione di compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura
delle mie parole dopo averle ascoltate».
5
Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129:
106
quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9:
107
l’una10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non essere14 –
108
di Persuasione 15 è il percorso16 (a Verità 17 infatti si accompa-
gna) –
109
[5] l’altra: [che] non è e [che] è necessario 18 non essere19.
Proprio20 questa ti dichiaro 21 essere sentiero 22 del tutto privo di
informazioni23:
110
poiché non potresti conoscere ciò che non è 24 (non è infatti co-
sa fattibile25),
né potresti indicarlo 26.
111
Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno
del motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un
viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere
οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti
parlarne».
112
DK B3
... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι.
113
La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3.
1
Zeller, seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come
dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3:
εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein».
Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing
can be thought and can exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti
sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronome-
verbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si
traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet une seule et même
chose que l'on pense et qui est» («For there is the same thing for being
thought and for being»). Il fatto che, optando per questa soluzione
interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi oggetto
dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già attestato
nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op. cit., p.
89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte, seguendo
Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del greco
(Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ
predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase. Un’alternativa sensata, che tiene
conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto del
senso dei vv. 34-36a di B8:
è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»), variata
nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is (there)
for understanding and for being».
2
Secondo Cerri (p. 194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato
specifico di «capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può
regolarmente attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica
ricerca filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their
Derivatives in Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the
Beginnings to Parmenides”, «Classical Philology» 40, 1945, pp. 223-242)
osserva come νοεῖν in Omero significhi «comprendere una situazione» e
come questo valore sia ancora presente nel poema di Parmenide, indicando
qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica: sarebbe ancora sua
funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo
sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire», cogliendo la
continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione che
114
«attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con
esso» (p. 118).
3
Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la continuità di B3 con
B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di
testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti già proposto di leggere
B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in questo modo:
115
DK B4
λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον
οὔτε συνιστάμενον.
116
Considera 1 come cose assenti 2 siano comunque 3 al pensiero 4
saldamente5 presenti6;
1
Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp. 336-7) per
indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per
comprendere il presente: capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo
discernimento, contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori
optano per una resa che ne accentui il valore percettivo: «osserva»,
«guarda». Etimologicamente, d’altra parte, il verbo deriva dall’aggettivo
λευκός, che nel linguaggio omerico significa «chiaro», «limpido»: porta con
sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza, come nell’italiano
«chiarire», «rischiarare».
2
Ovvero «cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un
valore a un tempo materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la
vicinanza) nel tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso
indefinito.
3
Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore
oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che
è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p.
238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante,
secondo lo stile attestato anche in Eraclito.
4
A chi debba essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di
discussione: è possibile infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di
«chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato a
παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla
visione dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il
valore di «essere presente alla mente, allo spirito».
5
L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo,
come suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo
studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK
31 B17.30:
117
non impedirai7, infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere,
119
DK B5
ξυνὸν δέ μοί ἐστιν,
ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις.
120
Indifferente1 è per me
da dove cominci, dal momento che là, ancora una volta, farò
ritorno.
1
Bicknell (“Parmenides, DK 28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha pro-
posto di tradurre ξυνὸν come «a basic point»: «It is a basic point from which
I shall begin: I shall come back to it repeatedly». Collocando il frammento
subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è assicurato e, come
è stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo. Difficile però avere un riscontro
della traduzione proposta per ξυνὸν.
121
DK B6
χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ3 φράζεσθαι ἄνωγα.
πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος † ... †5,
1
I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò
invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a
opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una
minoranza di editori contemporanei.
2
I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione
degli editori.
3
Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp.
101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più
affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il
codice F: τά γε.
4
Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄.
5
La tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione
manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω
(«tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄
ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il
pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in
riferimento al rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει
(«comincerai»). Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di
recente anche da Patricia Curd, che la preferisce alla precedente in quanto
mantiene il baricentro del discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri
versi del poema. La Curd insiste in particolare sul parallelismo con i versi
B8.50-52:
123
Dire e pensare1: «ciò che è è2», è necessario 3; essere4 è infatti
possibile,
1
Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da
Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν)
introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora
più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero (ii)
come pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra
traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari
costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come
suggerisce Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si
devono registrare le riserve di Cassin, p. 146).
Costruzioni alternative:
(a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il
loro articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e
pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una
variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux
chemins de Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la
costruzione χρὴ εἶναι (ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario
dire e pensare ciò che è». Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua
opera, traduce diversamente: «It is necessary to say and to think that by be-
ing, it is».
(b) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario
che siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius.
Coxon (pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con
paralleli (ἐὸν εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo,
Platone, Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da
Karsten) è, di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is
Being». Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon
riferisce a τὸ αὐτὸ di B3).
(c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui dipendono
λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»): così, tra
gli altri, Burnet e Raven.
2
Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per mantenere l'ambiguità che a nostro
avviso caratterizza il testo, attribuendogli tuttavia valore decisamente
esistenziale.
3
L’impersonale χρή è formula di necessità ma anche di opportunità: il valore del
vincolo implicato può variare in intensità, dal necessario, al corretto,
all’opportuno. Ha insistito su questo punto Patricia Curd (1998, p. 53),
124
il nulla5, invece, non è6. Queste cose7 io ti esorto a considera-
8
re .
riducendo così l’impianto modale dei primi due versi del frammento. Ma il
nesso con B2 suggerisce la forma di necessità.
4
Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti il
problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione
dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati. Se,
come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito
sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri); «infatti
l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is Being» (Tarán).
Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura potrebbe
essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò
εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si
accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei
soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi
versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto
perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per
riconoscergli una funzione confermativa.
Se, invece, si intende εἶναι come infinito retto da ἔστι, allora è naturale
attribuire a questo valore di possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla
particella γάρ). Alcuni sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo
esso infatti è possibile che sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon);
«è possibile, infatti, che sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli,
Ferrari). Altri, come O'Brien e Cordero, optano per una formula
impersonale: «car il est possible d'être»; «for it is possibile to be».
5
Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in questo caso il suo significato
più stretto, quello di «non una cosa». L’intera frase, dunque, asserirebbe che
ciò che non ha essere, non è per niente una cosa. Kranz (in apparato)
riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in questo senso B8.10: τοῦ
μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 46
nota) considera possibile un rimando al non-essere, intendendo la lezione
(corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come μὴ δ’ ἐόν.
6
Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere», intendendolo
comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare l’esistenza
dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità dell’essere e
l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere nell’intera
formula valore di possibilità: «for it is possible for it to be, but impossible
for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc. Das Seiende)
kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è convinto
che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con
l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per
completare l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible
125
Per prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti <tengo lonta-
no>10,
e poi da quella11 che appunto12 mortali che nulla sanno13
(οὐκ ἔστιν) que <soit> (εἶναι) ce qui n’est rien (μηδὲν)». L’alternativa,
seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in entrambi i casi, al valore
esistenziale, affermando (Tarán): «for there is Being, but nothing is not». È
possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale a ἔστι e senso esistenziale alla
negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004) e, seguendo Colli, Tonelli,
a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene improbabile la soluzione.
Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p. 113) propone di considerare
ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ
ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is) is to be, but
nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la traduzione senza
articolo: «nulla [ovvero niente] non è».
7
Il pronome τά (accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito
esclusivamente al contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda
a quanto seguiva B2 precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione
della via «che non è e che è necessario non essere» come effettivo percorso
di indagine.
8
La formula τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo:
richiama l’attenzione sull’esclusione della via «che non è e che è necessario
non essere».
9
Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel
considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός
διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la
conclusione, e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione
cui allude Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52:
Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a costruzioni meno
ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold you back»
(Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo per
prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano»
(Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni interpretative,
che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso, per rimanere
più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in funzione
predicativa.
10
Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels.
126
[5] <si inventano>, uomini a due teste14: impotenza15 davvero
nei loro
petti16 guida la mente errante17. Essi sono trascinati18,
11
Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta
Coxon a concludere che nel contesto Parmenide si riferisca a filosofi,
ricercatori.
12
Normalmente si lascia cadere in traduzione δή, che pure, seguendo un
pronome relativo, ne enfatizza la posizione nella frase. L'uso nel contesto
potrebbe alludere alla discussione che precede B6.
13
L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il tradizionale contrasto
tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in particolare a una
tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della κρίσις di B2. La
ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la loro
«impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ
εἰδότες οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali
non conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti
alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico,
l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che
Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα).
14
Il greco δίκρανοι si riferisce alla condizione di coloro che manifestano una
sorta di schizofrenia e in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in
due: affermano a un tempo essere e non-essere, fingendo di poter incrociare
due vie in realtà (verità) incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala
come nella lirica arcaica il tema della indecisione-confusione propria della
condizione umana fosse espresso nel riferimento a un νόος diviso
(Teognide) o a una sorta di doppia mente (Saffo).
15
Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di aiuti per
risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di
impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella
costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini,
ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che
gli uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo
fronte alla propria impotenza.
16
L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove è marcato il nesso tra
ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon (p. 184) assume
che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός distinto da νόος,
secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale del carro (e poi
reso celebre nel mito del Fedro platonico).
17
L’espressione πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo
luogo della «mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del
«pensiero»: la mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada.
127
a un tempo sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20,
per i quali esso21 è considerato22 essere e non essere la stessa
cosa
e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti 23 il percorso torna
all'indietro 24.
18
La forma verbale φοροῦνται rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui
conduce la mente dissennata dei «mortali che nulla sanno».
19
L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol marcare una condizione di
disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento uditivo e visivo. Anche
Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la stoltezza manifestata
dalle opinioni correnti.
20
Il greco ἄκριτα φῦλα sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso
(φῦλόν indica razza, tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere.
Evidentemente la Dea intende marcare, per contrasto, la prospettiva di
ricerca aperta in B2 con l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in
questo caso, la «mente» erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni
ritengono (tra gli altri anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai
seguaci di Eraclito.
21
Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo
rilevato Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da
articolo per sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del
frammento τό è da riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic
Philosophy, pp. 115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di
Parmenide dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha
segnalato una costruzione analoga in B8.44b-45:
129
DK B7
οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ1 εἶναι μὴ ἐόντα·
ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2 εἶργε νόημα·
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν
καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ3 πολύδηριν4 ἔλεγχον
ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.
130
Mai, infatti1, questo2 sarà forzato3: che siano cose che non so-
4
no .
Ma tu da questa via di ricerca5 allontana il pensiero 6;
1
Coxon (p. 190) osserva giustamente che la presenza di γὰρ presuppone
un'asserzione da giustificare, per noi mancante: questo solleva dubbi
sull'effettivo riferimento del successivo τοῦτο.
2
Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di τοῦτο in funzione
prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto τόδε): nel contesto il
pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto precede (per noi perduto).
3
Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa a quelle suggerite da O’
Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté» («Mai,
infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci ne sera mis
sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»). Secondo
l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso dell’aoristo
congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle citazioni
platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista (241 d5-
7):
131
né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia
violenza9,
5
Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος
- «questa via di ricerca» - alla seconda via:
Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via che conduce al non-
essere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1. Come fa
osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra l’obiettivo
polemico di B6 e quello di B7.
6
Il sostantivo νόημα è qui impiegato probabilmente nel significato – già
omerico - di mente, intelligenza, organo del pensiero e della comprensione.
I primi due versi del frammento sono citati da Platone e Simplicio: essi
costituiscono un primo blocco testuale. Diogene cita isolatamente i vv. 3-5,
secondo blocco. Sesto consente di cucire i due blocchi, citando i vv. 3-6
dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non c’è posto per il verso 1.
Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle interpretazioni il frammento
abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi scegliamo di conservare
l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio, l’ultimo autore che si ha
fondato motivo di ritenere disponesse di una copia del poema (ancorché non
esente da rielaborazioni linguistiche e contenutistiche).
7
Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα (abitudine versus
analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo
persuasivo.
8
Dal momento che ἔθος si connoterebbe autonomamente in contrasto a νόημα,
secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν:
contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ del verso
132
a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante 11
[5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la pro-
va polemica16
15
135
DK B8 vv. 1-49
μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,
οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον5·
1
È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus Mathematicos VII,
111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di B7.6a
(ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
- è tuttavia improbabile in epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma
(presente nei codici DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni editori
preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe
metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per la continuità tra B7
e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma autenticamente
parmenidea.
2
In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il
codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione –
largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale versione.
3
Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς.
4
L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento
alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18),
Clemente e Teodoreto (che tuttavia non è considerato fonte indipendente),
originariamente accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori
contemporanei. Nella V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia,
essa fu sostituita dalla trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote
1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti intero [nelle sue membra]»), accolta
tra gli altri anche da O’Brien e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι
γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di Plutarco: Passa fa notare,
tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in B8.33. Proclo cita (commento
al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso solo οὐλομελές, ma,
quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario, 6.1152.25), il testo
del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi l'impressione di
una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto identico a quello
citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce Passa (p. 63),
potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea a partire
dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I sec. d. C..
Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici
simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in Pseudo-
Plutarco, Teodoreto ed Eusebio.
5
La ricostruzione del testo di questo secondo emistichio è molto controversa. La
versione più attestata nelle fonti antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον.
136
[5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν6,
ἕν, συνεχές7· τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;
πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν
ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν
[10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν;
οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί.
Tuttavia Simplicio presenta anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13,
145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον. La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare
sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον del verso precedente. Sulla
variante esistono comunque dubbi e non mancano le trascrizioni alternative
nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον, ἢ δι’ ἀτέλεστον.
Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il suo senso
appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον... πάντοθεν
(vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le
implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ
τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri
(Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon)
hanno proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma
significativa: Hölscher, Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la
versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.
6
Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio,
Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ
μοῦνον. A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non
era, non sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non
era, non sarà, ma è solamente, tutto intero insieme».
7
I codici di Simplicio riportano ἕν, συνεχές; in Asclepio è attestato invece
οὐλοφυές («di natura intera»), lezione difesa e preferita da Untersteiner.
8
Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω,
presente nei codici omerici e per lo più anche in quelli di Simplicio (che
presentano anche la variante ἐασέω).
9
Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel
significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha
riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3).
10
I codici attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo
formula analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι.
Passa (pp. 80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e
χρεόν, sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a
quanto riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν,
137
οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς
γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι
οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν,
[15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν·
ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.
πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο;
[20] εἰ γὰρ ἔγεντ΄13, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι.
τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος.
οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι,
οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
[25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει.
138
αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν
ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος
τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται
[30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει,
οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι·
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν17 δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο.
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.
[35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ18 πεφατισμένον19 ἐστίν,
15
Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei codici EW di Simplicio (Phys.); i
codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ Ea).
16
Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio
(Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di
Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει
(«identico, resta in un identico [luogo]»).
17
La prima parte del verso è trasmessa con varianti nei manoscritti di Simplicio
(Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6 EaF) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10.
40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές· μὴ ὂν (146, 6 D). Da un
punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge; d'altra parte ἐπιδεές non
è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute ampiamente i problemi
connessi con la scelta del testo greco più plausibile, propende – con riserve –
per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile appunto per la misura del
verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori (Tarán, O'Brien, Palmer,
Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk, espungono μὴ,
conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con buoni
argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές riflettesse in
origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione da parte di
Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui già era
caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito all'ἐπιδεῖς
parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo scritto».
Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk,
conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν.
18
I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal
significato sostanzialmente equivalente. O'Brien (p. 55) ipotizza che in
origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per precisare il senso di ἐν
ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito da Couloubaritsis.
19
I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F; 143, 23-24 EF)
riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri manoscritti di
139
εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται
ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν
οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23,
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,
[40] γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
140
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν.
αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί
πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ,
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον
[45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ.
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26
εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν27 ἔστιν ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος
τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον·
οἷ29 γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30.
141
Unica1 parola2 ancora, della via3
che4 «è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6
1
Il complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo)
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua la connessione logica del frammento con
quanto precede: prospettate le due vie, esclusa una delle due come
impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, «rimane una sola via»
da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene chiaramente l’aggettivo
mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto lo applicano a ὁδοῖο:
«One path only is left for us to speak of» (Burnet), ovvero «So bleibt nur
noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left to be spoken
of» (Raven).
2
Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte
divina: la «parola» (ovvero il «discorso») proferita dalla Dea doveva essere
accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore del termine sembrerebbe
dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota
di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan
(K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, cit., pp.
17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore di «authoritative speech act»;
Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p. 541) insiste sullo stesso
valore con una traduzione poco familiare: «ma façon de parler autorisée».
3
Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in
relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende
una sua interpretazione “partitiva” («di via, resta soltanto una parola»),
riferendolo alle vie prese in esame.
4
Il valore della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) –
complesso: non significherebbe semplicemente «che», ma anche «come».
Per tale valore si veda il parallelo di B1.31.
5
Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra σήματ΄ ἔασι e il successivo
(v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla convenzionalità
dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze dell’Essere.
6
Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi», «segnali», anche
«evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere intesi anche
come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria direzione lungo
una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non perdersi. Così,
secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα sarebbero
indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di essere:
pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la via
giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα – rigorosamente
parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma della sua via,
con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di conoscenza
dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la determinazione
142
specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i «segni»
fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili deviazioni dalla via
dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali
negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto
valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom Wahr-
Scheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung
des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt
Augustin 2005, p. 142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero
conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del principio di
fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp.
211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un tempo
strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori della
sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da
ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali»
interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il
mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa potrebbe
essere deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria
audience (interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld
segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di σημεῖον, termine che
ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce
l’interpretazione dei σήματα all’interno del motivo della quest: per
raggiungere il fine della quest è necessario percorrere la strada «è»; per fare
ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia». Rimanendo fedele
all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i segnavia come
imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente Chiara
Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi, in
effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per provare,
mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona.
Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di
Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica
dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della
propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa
il nesso tra σήματα e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα,
che l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di
interpretare segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22
B93:
143
molto numerosi: che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza mor-
10
te ,
fuori della loro portata. La Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214)
sul fatto che σήματα non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma
ai successivi argomenti. A una funzione essenzialmente argomentativa dei
σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i
«segni» costituirebbero gli argomenti della dimostrazione, coincidendo di
fatto con gli attributi fondamentali dell’essere. Essi sarebbero in parte
dimostrati nel seguito, in parte assunti senza dimostrazione, fungendo da
medi aristotelici e contribuendo al carattere razionale della dimostrazione.
7
Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν)
esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς come congiunzione
dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán p. 85); «what-
is is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b) intendendo ὡς
come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and imperishable»
(Guthrie p. 26); «étant inengendré, <il> est aussi impérissable» (O’Brien, p.
171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La costruzione
σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia
la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia il che
(dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e dunque la
loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo,
manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura
(per cui il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo
Mourelatos, p. 95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo
punto: Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi
procede a una loro giustificazione.
8
Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di poco posteriori a
Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50):
144
L'aggettivo indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha
nascita (Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da
altro ma che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane
sarebbe stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è
corruttibile» (πρῶτός τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι).
Secondo Coxon (p. 195), il termine potrebbe essere di conio parmenideo.
Della stessa idea Mourelatos (p. 97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la
prima volta nella letteratura greca, assumendo un significato più forte del
semplice «ingenerato»: ἀγένητον in Parmenide escluderebbe ogni forma di
processo in cui qualcosa venga all’essere. Possiamo qui notare di passaggio
che la caratteristica essenziale dei segni parmenidei è quella di presentarsi
come negazioni (alfa privativo + aggettivo) di qualcosa di significante
all’interno del linguaggio e della esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277).
9
Come già segnalato, traduciamo ἐόν come «ciò che è», segnalando invece τὸ
ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la seconda,
con l’articolo, è la formula più astratta. Nel contesto ἐόν, come forma
participiale, potrebbe essere reso con valore verbale (come fa, per esempio
Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è anche imperituro». In tal caso, però, le
altre determinazioni rischierebbero di essere subordinate alle prime due. Si
può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da Scuto (op. cit., p.
141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da un valore
ancora temporale del participio a un significato atemporale: si tratterebbe di
una netta correzione nella direzione dell'astrazione, con cui dall’esperienza
della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella certezza di un
essere sottratto al tempo.
10
L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa
privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte]
(ὄλεθρος)». Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica:
prima di Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo
Parmenide ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella
testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in
riferimento ad Anassimandro, abbiamo:
Ciò potrebbe significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai
pensatori arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia
anassimandreo. In ogni caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro –
corrispondono alle tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti,
immortali.
145
tutto intero 11, uniforme12, saldo13 e senza fine14;
11
Il termine οὖλον (che rendiamo come «tutto intero» per dar ragione sia della
totalità sia della integrità implicite) è di diretta eco senofanea:
146
[5] né un tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tut-
to insieme19,
147
17
Non è chiaro se ἐπεί si riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a
ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè se anche questi attributi concorrano alla
determinazione delle due affermazioni iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄
ἔσται: appare, in effetti, più semplice escludere la possibilità che «ciò che è»
(ἐόν) sia stato (e in qualche modo non sia più) o debba essere in futuro (e in
qualche modo non sia ancora) per il fatto che esso è ora tutto insieme, uno e
compatto, cioè che è pienamente, senza mancare di alcunché che coinvolga
in qualche modo «non è» (McKirahan, p. 207).
18
L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota un
istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136),
«l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata
temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora»
indicherebbe una «durata senza successione» (come il «durare di Dio»
secondo Tommaso). O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso
con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν: la Dea intenderebbe escludere generazione e
corruzione e dunque, in quanto ingenerabile e indistruttibile, l’Essere
sarebbe eterno. Secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa
il tempo presente ἔστιν per marcare la presenza propria dell’«ora» (νῦν),
cioè il permanente presente dell’essere: l’essere non avrebbe nulla a che fare
con il tempo strutturato in momenti temporali. A queste letture si
contrappongono tradizionalmente quelle che, nel rilievo dell’avverbio
temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e futuro, colgono la
presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere sarebbe presente
eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della “atemporalità”
dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo, Gigon,
Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103 ss.)
ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica consolidata in
ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali (tenseless)
sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e implicazioni
logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata.
In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un
condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo
Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente
è». In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione
di Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo
del tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico:
l’Essere non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni
mutamento. Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso
di una continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente
una esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206)
sarebbe conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile
all’essenziale pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and
the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura
148
uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso?
149
Come23 e donde cresciuto 24? Da ciò che non è non permetterò25
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare 26
che «non è» 27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto 30,
[10] originando31 dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34?
150
Così35 è necessario 36 sia per intero o non sia per nulla37.
32
L'infinito aoristo φῦν può essere reso come «nascere\sorgere» o «crescere»: i
traduttori si dividono.
33
La particella ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una
comparazione (= quam).
34
Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono:
«früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner»
(Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later
or before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In
effetti ὕστερον è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi,
letteralmente «più tardi che [\o] prima», sebbene la costruzione possa
sembrare asimmetrica.
Nei versi 9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio
di ragion sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a
spiegare perché si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141),
si tratterebbe della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per
dimostrare la centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel
complesso il «pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in
proposito è espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide
intendesse marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi
in un qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non
potrebbe offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da
McKirahan (p. 194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν,
«più tardi o più presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima
evidenzia come manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè
non ce ne sia in alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato
e coinvolgendo il “principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci
sia ragione perché esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in
un altro». Sempre McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in
termini di domanda retorica, che presuppone una risposta del tipo: in
nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe generarsi qualcosa.
35
McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale traduzione di οὕτως come
«così, perciò», che introdurrebbe la conclusione di un'argomentazione.
Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il senso del v. 11 appare – nel
contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più naturalmente collegato
all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a quel che immediatamente
precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre l’avverbio οὕτως
collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo valore sarebbe
allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua funzione
sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la
discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un
passaggio (esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi
precedenti. In questo senso confermiamo la traduzione più comune.
151
Né mai <dall’essere>38 concederà forza di convinzione 39
36
McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è giusto»: il suo significato -
nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί - sarebbe quello di
prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da considerare
relativamente a ciò che è.
37
Come segnala Coxon (p. 199) la formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι
πάμπαν πελέναι «o non deve essere per niente». Parmenide sottolinea la
contraddizione e l’esclusione di una terza via (adottando di fatto il principio
del terzo escluso): la via dell’essere esclude non solo la via del non-essere,
ma anche un'impossibile combinazione tra essere e non-essere (Conche p.
142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non costituisce elemento
della prova successiva, ma serve solo a ricordare la krisis radicale, la
«decisione», operata in connessione con le due vie.
38
Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito,
dobbiamo comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due
volte il nostro passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione:
152
che nasca qualcosa40 accanto41 a esso 42. Per questo43 né nascere
né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le catene45,
153
[15] ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò:
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità 49,
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile 50 (poiché
non è
una via genuina51), e che l’altra invece esista e sia reale 52.
154
E come potrebbe esistere 53 in futuro l’essere 54 ? E come po-
trebbe essere nato 55?
[20] Se nacque, infatti, non è56, e neppure [è] se57 dovrà esse-
re58 in futuro.
linguaggio ma alla realtà oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179)
sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa di un logos presentato da
una via: solo per illegittima generalizzazione, la via stessa sarebbe da
considerare vera. La verità risiede in un logos che, se valido, ha il privilegio
di essere accompagnato dalla verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι
κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di Persuasione è percorso – a Verità,
infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide, introducendo la
sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la formula [νόημα] ἀμφὶς
Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la Wilkinson (Parme-
nides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via” può definirsi
«vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel poema si
riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, Πειθώ,
che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il
riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio
discorso è».
52
Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente coincidente con
quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati sostanzialmente come
sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5.
53
Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo
ἐόν, e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in
Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono,
rende diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have
being, how come into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò
che diviene (what becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La
variante (oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν
(«potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento
contro la corruzione.
54
Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν.
55
Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato».
56
Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si colga nella
contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο – aoristo che può
riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a una condizione
remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a essere, è ora
diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio:
se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche Mourelatos
(pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi verbali di
questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo; ἔγεντo,
155
Così è estinta59 nascita e morte oscura60.
aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola
durata e continuità: se x è in un certo momento, allora non è in senso
continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur
Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il presente οὐκ ἔστι non si
riferisca al momento fuggevole intercalato tra passato e futuro, ma a un
«presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni possibilità di nascita («più
tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non
esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p. 227).
57
Qui dovremmo intendere «se [è vero che]».
58
Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come «essere
sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione
indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza dell’avverbio
(ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être
et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p. 139).
McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione nel
futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può
essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora
possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità.
Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa
arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura».
Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere
durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità.
59
O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è estinta\spenta») come complemento
verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia di ὄλεθρος (distruzione, morte).
Soluzione che abbiamo preferito a quella, adottata da molti, che invece
sottintende il verbo essere nel secondo emistichio e fa di una due
proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta e distruzione ignorata».
Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno intreccia
intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione aristotelica di
tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono sottomessi al
divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al problema
la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non si
riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo
Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9).
60
Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche –
l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma
anche ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan:
«Thus generation has been extinguished and perishing cannot be
investigated» (p. 196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo
πυνθάνεσθαι («imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα
ἀταρπόν (B2.6), la via di ricerca scartata perché impossibile da investigare,
da cui era impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος
156
Né è divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63;
né c’è qui qualcosa di più64 che possa impedirgli di essere con-
tinuo65,
157
né [lì] qualcosa di meno66, ma è67 tutto pieno 68 di ciò che è69.
[25] È perciò tutto continuo 70: ciò che è si stringe71 infatti a ciò
che è72.
del verbo a quello dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all
together». Robbiano (p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a
unioni strette: l’unione sessuale di individui o le estremità annodate di una
cintura. Il senso è comunque quello di estrema coesione.
66
Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per rimanere coerenti con
la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204) sottolinea ancora il
valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso avrebbe usato
χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno).
67
Intendiamo ἐόν come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto
(«but all is full of Being», Tarán).
68
L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò che esiste è solo
l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere (uguale in tutto
e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la continuità sia dedotta
dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is adjacent to Being»,
che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso dall’Essere. McKirahan (p.
197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò che è, che consegue dal
bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura complessiva di B8, di un
“segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν πελέναι del v. 11, cui
essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi. Thanassas (Parmenides,
Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il contesto non sia
quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione ontologica (condotta
alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e Non-Essere), insiste
nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος come rilievo della
«pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da
condividere con spazialità fisica, vuoto e massa.
69
McKirahan (p. 197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν
ἐστιν ὁμοῖον (v. 22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν
avverbialmente (come nel successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che
ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe equivalente a ὁμοῖον.
70
Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale indivisibilità: Coxon (p. 204)
osserva giustamente che, a parte la solitaria occorrenza di ἕν nel v. 6,
ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno». McKirahan traduce
diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la relazione con
συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si tiene
insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua ambiguità
spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di difficile
resa italiana, «holding together».
71
Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe
essere tematicamente collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre
158
Inoltre73, immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76,
lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere
nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει la suggestione dell’ultimo passo di un
viaggio che si avvicina alla sua meta: l’Essere.
72
Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui
due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non è ed è
necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso al
non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la
molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti
Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi
documentino il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò
che è» con «ciò che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una
sorta di molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con
B4. McKirahan (p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione:
una interpretazione letterale susciterebbe difficoltà.
73
Improbabile che nel contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo
attribuirgli valore progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit.,
pp. 83-4).
74
L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da
quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non
suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di
muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán
giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo
ἀκίνητον si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla
immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce
sulla questione è stata – a nostro avviso – proiettata dalla lettura di
McKirahan (p. 200), il quale insiste sul contesto immediato: «immobile» ha
a che fare con i limiti dei grandi legami piuttosto che con assenza di
generazione e corruzione. I vv. 27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due
ulteriori conseguenze dell’essere ingenerato e incorruttibile, cioè senza
inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν). Attributi che non hanno in alcun modo a
che vedere con l’assenza di moto. Nel contesto l’espressione «immobile»
coinvolgerebbe l’idea della natura fissa, limitata e costretta di ciò-che-è. In
questa prospettiva rimane aperta la questione circa le convinzioni
parmenidee sul movimento o cambiamento di ciò-che-è. Thanassas (p. 51)
privilegia nella propria lettura un’immobilità fondata nell’assenza di
relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il «movimento
ontologico» che avvicina Essere e Nulla.
75
Ovvero «nei limiti» (πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente
come alla nozione omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di
traslazione rispetto a un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita,
allontanamento da una posizione originaria e dai suoi limiti: il caso
paradigmatico sarebbe, insomma, quello di "e-gresso", concettualmente
159
è senza inizio e senza fine77, poiché nascita e morte
sono state respinte78 ben lontano 79: convinzione genuina80 [le]
fece arretrare.
ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ
τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο,
οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι
e tutto intorno le catene
ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto,
ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi.
77
Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità
dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per
questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione adottata – la formula
ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle affermazioni
di Anassimandro (DK 12 A15):
160
Identico e nell’identica condizione 81 perdurando82, in se stes-
so riposa84,
83
78
All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un significato attivo (Coxon:
«becoming and perishing have strayed very far away»), sia un significato
passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien
(p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva.
79
Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta
in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide
potrebbe usarla per marcare analoga distanza dall’Essere di generazione e
corruzione.
80
Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso
contesto – in particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una
differente accentuazione del valore di πίστις, intesa come convinzione,
convincimento che scaturisce dall’esame condotto correttamente. In effetti il
termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113),
in cui designa l’evidenza o la prova addotta in tribunale. Il legame con la
Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera, veritiera,
genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione.
81
L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica, con valore variabile tra
«restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231).
Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla condizione,
Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso analogo
dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo
privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai
fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere.
McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura
del fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel
linguaggio del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso
«identico e nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche
le scelte verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero
questa lettura: ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel
modo.
82
L'intero verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane:
161
[30] e, così, stabilmente85 dove è86 persiste87: dal momento che
Necessità88 potente89
ἀλλά με δεσμῷ
δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω,
ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω
ma con funi
saldissime dovete legarmi, perché io resti immobile,
ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le corde.
Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale quanto
temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi variazione temporale
(Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere militare di ἔμπεδον
μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o
162
nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinser-
91
ra .
163
Per questo 92 non incompiuto93 l’essere [è] lecito che sia94:
Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea
XII, 158-162:
164
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere 95, inve-
ce, mancherebbe di tutto.
La stessa cosa96 invero è pensare97 e il pensiero98 che99 «è»:
95
Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio sostantivo, in
contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere» ovvero «ciò
che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci troveremmo in
presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere (τὸ ἐὸν) e
non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in effetti non
manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto». D'altra parte,
μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea ipotizzerebbe:
«se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di tutto».
96
A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che
impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche
Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165).
Molto convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41
esplorerebbero le implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti
conoscere ciò che non è […] né indicarlo». Se qualcosa è possibile
conoscere o affermare, deve trattarsi non di «ciò-che-non-è», ma (come
conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è. Esiste una proposta
(originariamente suggerita da Calogero) di restauro del testo greco da parte
di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im
Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp. 121-138), secondo
il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha
di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel
blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso
Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò
significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione
del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen
vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il
testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre
fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante
e pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia
a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari)
implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili
altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A
Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio:
nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41.
97
Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande
discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa:
(i) «thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is
there to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd).
McKirahan (p. 203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione
165
[35] giacché non senza l’essere, in cui 100 [il pensiero] è espres-
101
so ,
come un richiamo di B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per
essere pensato”).
98
Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua
volta conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo
ciò che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò
che è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4).
Sulla scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare
anche l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là,
infatti, ancora una volta farò ritorno».
99
Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come congiunzione equivalente a ὅτι
(«che»), come, tra gli altri, Calogero («La stessa cosa è il pensare e il
pensiero che è»), Guthrie («What can be thought [apprehended] and the
thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the same to think and the
thought that [the object of thought] exists»), O’Brien («C’est une même
chose que penser, et la pensee <affirmant>: “est”»), Conche («C’est le même
penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la
pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula
pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione.
Questa lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il
pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is
for conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe
aber ist Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa
cosa è capire e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because
of which there is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist
zu denken und das, was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come
τὸ οὗ ἕνεκα con valore finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und
des Gedankens Ziel ist eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même,
penser et ce à dessein de quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in
Tarán, pp. 120-3. Di recente McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale
di οὕνεκεν, ma ha avanzato l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia
contemporaneamente anche una sfumatura finale.
100
Per evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il pensiero sia
espresso «nell’essere», sono state proposte varie alternative. Zeller, Burnet,
Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a
soggetto del quale», «in riferimento al quale», «rispetto al quale». A
conclusione di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo Albertelli
e Mondolfo) propone «in what has been expressed». A questa traduzione
(cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia opposte obiezioni di ordine
grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La Robbiano (pp. 169-170)
intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ, proponendo τὸ νοεῖν come
soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione risulta quindi: «for
without Being you will not find understanding in that where understanding
166
troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né esisterà
altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106
a essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno
nome109,
167
quante i mortali stabilirono110, persuasi che fossero reali111:
[40] nascere e morire, essere e non essere,
cambiare luogo 112 e mutare luminoso colore113.
Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò».
109
Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali
πάντα e ὅσσα: genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole
si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄
ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been named all things»
(Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it
[the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un
dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a
questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione
risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito
aggettivo peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome»,
assolutamente assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata
nelle versioni degli ultimi decenni.
110
Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui, in B8.53 e
B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria comprensione del
mondo.
111
Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo noi, correttamente colto il
senso complessivo del passo: i vv. 34-38 argomentano che l’unico possibile
oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è; i vv. 38-41 ricavano la
conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali pretendano di riferirsi nei
loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente (veramente) pensano e
possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei loro pensieri, anche di
quei pensieri che ricorrono a formule proibite come generazione e
corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide sarebbe che i
«mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le
designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere
stesso, non nell'applicarli alle cose.
112
Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella espressione τόπον ἀλλάσσειν, il
sostantivo τόπος molto probabilmente significa «spazio vuoto». Parmenide,
tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica nei confronti dei
168
Inoltre, dal momento che [vi è] 114 un limite115 estremo116, [ciò
che è] è compiuto117
da tutte le parti 118, simile 119 a massa 120 di ben rotonda121 pal-
la122,
169
suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene
che rinserrano tutto intorno).
119
L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente una comparazione, che
tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a σφαῖρη (palla, sfera),
ma a ὄγκος (massa, estensione).
120
Il termine ὄγκος può tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214):
in tal senso è da intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si
riferisce probabilmente all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma
geometrica compiuta. Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di
recente McKirahan (pp. 213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto
significativo che Parmenide non dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a
una sfera, ma «simile al corpo di una sfera», una espressione giudicata
«inaspettatamente elusiva». Non si tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso
di peso) della sfera, né della sua misura, né di altre qualità fisiche, né, pur
avendo a che fare con la forma della sfera, di forma o superficie.
L’espressione potrebbe approssimativamente tradursi come «estensione
fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di astratta nozione
geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la tentazione di
pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva a suo
tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per estensione
tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla sfera è la
forma.
121
Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν riferito a
εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe un
oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio perfetto.
Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha
sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ
ἐὸν – e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è
forma archetipica della perfezione e della totalità.
122
Seguo Leszl (p. 211) nel tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente
all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare a palla). Ciò rende più efficace
l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere fosse detto «simile a una
sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è veramente una sfera,
mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione per
quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione
εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che
Parmenide qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la
sfera (σφαῖρη), la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου.
In ogni caso è ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la
comparazione proposta non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla,
piuttosto tra la completezza di ciò-che-è e l’espansione-estensione di una
palla perfetta, ben-rotonda. L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna
della sfera.
170
a partire dal centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché
è necessario che esso non sia in qualche misura di più,
171
[45] o in qualche misura di meno 125 , da una parte o
dall’altra126.
Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di giunge-
re
a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che
129
è -
qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132.
172
A se stesso, infatti, da ogni parte uguale 133, uniformemente134
entro i [suoi] limiti rimane135.
173
DK B8 vv. 50-61
[50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα
ἀμφὶς Ἀληθείης1· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων.
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν·
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -·
[55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ,
ἤπιον ὄν4, μέγ΄ ἐλαφρόν5, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν,
τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε.
[60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω,
ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη7 παρελάσσῃ8.
1
Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino.
2
I codici DEEaF di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma per lo più
accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1
riportano invece γνώμαις.
3
Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία.
4
Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν.
5
I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti
irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di
ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto rarefatto e
leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa
dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che suggeriamo
è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il testo dei
codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande acribia
ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa
forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il
termine ἀραιόν («raro», «rarefatto») è probabilmente da considerare un
termine tecnico della cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22,
Anassimene DK 13 B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν non è attestato nel
linguaggio fisico presocratico. Coxon (p. 223) considera ἀραιόν certamente
parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso e
Anassagora e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide.
6
L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di
correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente
a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto verosimile».
174
[Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam
145-146; vv. 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39]
7
Nella trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito
tra gli altri da Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo
del verso cambia di poco: «così che nessuno dei mortali possa esserti
superiore nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement»
Coxon).
8
I codici EaF di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli
editori hanno corretto in παρελάσσῃ.
175
[50] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabi-
1
le e al pensiero
intorno a Verità2; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5
impara6, l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando 10, che può in-
gannare11.
1
L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a
νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo
preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto.
2
Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere -
anche come «pensiero intorno alla realtà».
3
I due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione
della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ
τοῦδε [...] μάνθανε.
4
Ovvero «convinzioni» o «considerazioni».
5
L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del soggetto divino della
comunicazione - potrebbe forse rendersi semplicemente con «opinioni
umane».
6
L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il
programmatico futuro μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore
"scientifico" che il verbo venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero
ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto partecipe di una elaborazione
scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed esaustiva». Interessante
soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω, senza dubbio positivamente
connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza dell’esposizione della
Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ («apprenderai»),
εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con un'esortazione
simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta dalla divinità
al sapere che andava a esporre.
7
Si potrebbe forse rendere κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi
verbale». In ogni modo è da preferire una resa letterale del sostantivo
κόσμος (come suggerisce O' Brien, p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις
(Anassimandro). Mourelatos (p. 226) indica come possibilità anche «forma».
Nella cultura arcaica l'espressione ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων
ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV secolo in Democrito (DK 68 B21): in
entrambi i casi si sottolinea la composizione, l'artificio poetico. Coxon (p.
218), che rende il greco come «composition», sostiene che il termine sarebbe
stato scelto per la sua congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che
la «composizione» deve esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è
quella di J. Frère ("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études
176
sur Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων
come complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον
come «ordine del mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che
κόσμος mantenesse in Parmenide il suo valore omerico (disposizione
ordinata che è conveniente, che funziona e che è anche bella da vedere: il
prodotto di un essere intelligente), precedente al riferimento (che per altro
conservava aspetti della accezione originaria) all'universo (per la prima volta
forse in Eraclito B30). Nello specifico, secondo la studiosa, kosmos si
riferirebbe a prodotto della mente e della parola umana: a ciò che vediamo
da una certa prospettiva (umana) e non a ciò che (e come) le cose sono
nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", cit., p.
60) ha invece ipotizzato che κόσμος significhi nel contesto il mondo di cui
la dea parla: «da questo punto in avanti, impara le opinioni mortali, venendo
a conoscere (attraverso l'ascolto) il mondo ingannevole cui le mie parole si
riferiscono». È possibile che le affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria
che essa contiene, non siano di per sé erronee, che descrivano correttamente
un mondo di per sé ingannevole, in quanto mascherato da realtà quando è
solo apparenza.
8
L'uso dell'aggettivo possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e
l'assunzione di responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa:
analogamente ai pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ
(v. 60).
9
Coxon (p. 218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso
poetico» sarebbe contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura
del V secolo riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide,
Eracle 111). Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel
contesto, le implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza
delle parole che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea
come la Dea, pur impiegando parole secondo le regole della grammatica e
della poesia, non potrà evitare che il suo discorso risulti decettivo.
10
Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος viene invitato ad ascoltare, a manifestare
con la disponibilità all'ascolto la propria aspirazione alla conoscenza.
11
Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201) il rilievo circa il significato antico di
ἀπατηλός: che non sarebbe, come per il corrispettivo moderno,
«ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare». La sua resa francese è
la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se trompeur». Lo studioso
propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza fare di ἐμῶν
ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un complemento di
ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con «seducente»:
Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso dell'aggettivo
vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore (come sarebbe
proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto, l'apparire. Mourelatos
(p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della formula κόσμον ἐπέων
177
Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a due16 forme17,
179
οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι
καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα·
τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ.
Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine
e ora sono,
e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno.
A queste cose un nome gli uomini imposero, particolare per
ciascuna.
Se teniamo conto della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da
parte di Ebert, potremmo effettivamente concludere che l'arbitrio della
convenzione linguistica è indissociabile dalla concezione parmenidea della
Doxa. Leszl (p. 230) ha colto in questo un’anticipazione della distinzione-
opposizione tra nomos e physis.
16
Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia
una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno
dato nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a
quella di B6.4-5.
17
Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246) quello di
strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due) sensazioni
più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente la trama
complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare
direttamente il verso parmenideo:
Nella stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due forme
opposte la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a minimal
number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine,
Cordero (By Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come
«external forms». Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures»,
anche alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e
aspetto fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger
(“The Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112)
osserva come la scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme
esteriori», «apparenze per un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la
dea si è volta dalla realtà alle apparenze.
180
delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario [nominare]20:
in ciò sono andati fuori strada21.
18
L'interpretazione del valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile
dibattito (che origina nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella
(proposta tra gli altri da Zeller e alla fine accolta anche da Diels,
inizialmente critico) che intende rilevare come, delle due forme imposte dai
mortali, una non avrebbe dovuto essere introdotta, una è «di troppo» (ci si
riferisce spesso alle due forme come repliche di Essere e Non-Essere: la
seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe l'errore dei
mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto dell’interpretazione di Aristotele;
essa è stata oggetto di critica, in quanto: (i) da un punto di vista linguistico
intende μίαν come se fosse ἑτέρην (non si potrebbe leggere in μίαν il
significato di «una delle due»); (ii) da un punto di vista interpretativo
accosta arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra. Una seconda
linea di lettura (proposta tra i contemporanei in particolare da Kirk-Raven)
sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due forme, di cui non
si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato da
Raven: «two forms, of which it is not right to name one only (i.e. without the
other)». Coxon segue la stessa linea. Una terza esegesi (anticipata da
Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner,
Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ =
οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme:
nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata: «mortals have decided to
name two Forms, of which it is not right to name (so much as) one». La
Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come
«enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa sottintenda
qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta possibile
interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già
nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e
approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener
Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name
two forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale.
Gli uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò
cadendo in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in
tal caso avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί.
Conclusione: μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità»
delle δύο μορφαί. Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel
non cogliere che sono riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale
dunque l'accurata traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono
l'unica grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126):
denn sie legten ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu be-
nennen,
181
von denen die Eine (d.h. eine einheitliche, die beiden
zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in diesem Punk-
te sind sie in die Irre gegangen.
Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31,
8-9):
182
[55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25 nel corpo26 e se-
27
gni imposero
dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non è» (p. 107), dunque in
una sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas rimarca la
connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν:
la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la
validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54-
9, così da aprire la possibilità di una nuova comprensione della relativa
incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente
l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa
divina (p. 65).
22
Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di
κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche in questo caso si pone il
problema del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero,
come crede Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la
decisione di dar nome a due forme» e «alcuni invece scelsero ... e segni
imposero»? Optiamo per la continuità di un soggetto indefinito.
23
Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non è tradotto o
gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la Dea, faccia
seguito al proprio rilievo critico del verso precedente.
24
Forzando l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente
«cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e
στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i
«segni» con cui sono connotate le due forme concorrano a definire la
nozione di «elemento», con cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine
«forma».
25
Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come
avverbio («in modo contrario», «oppositivamente») riferendolo alle due
forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di relazione).
Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono
l'avverbio in relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli
oggetti diretti e di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come neutro
plurale.
26
Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò
rivelerebbe che Parmenide considera le due forme come divinità. Conche
(pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di forma corporea non possa
funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un
certo modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali), egli individua
«struttura» come resa più sensata.
27
Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di
lingua», «parole». Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131)
183
separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma
etereo fuoco29,
che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione iden-
tico31,
184
rispetto all’altro, invece, non identico 32; dall’altra parte, anche
quello in se stesso 33,
le caratteristiche opposte34: notte oscura35, corpo denso e pe-
sante36.
185
[60] Questo ordinamento 37, del tutto 38 appropriato 39 , per te40
io espongo42,
41
186
38
Mourelatos e Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con
τόν διάκοσμον: «this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance
totale».
39
Il significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo
Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La
verosimiglianza è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due
forme, in analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per
connotare la doxa, Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione
positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). Reale-
Ruggiu scelgono comunque di rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo
Schwabl e il suo suggerimento di leggere l'aggettivo «sulla base del
linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323), piuttosto che con quello della
(posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il significato prevalente di
εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp. CLXXVII ss.), in questo
senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν),
marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis (Mythe et
Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività del
termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello
(appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria
intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo
conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos
(p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di
positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i
mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato,
probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p.
183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa
che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl
osserva (p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα
come «ordine (disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non
possa qui valere come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il
termine di paragone. Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un
richiamo al v. 52 (κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale
(omerico-esiodea) della falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere
(ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto
indirettamente: l'essere, concepito come la realtà genuina.
40
Si susseguono i due pronomi personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben
marcato nell'interlocutore diretto il destinatario dell'esposizione ancora
rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di interesse (Coxon p. 223).
41
Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea attribuisca la «decisione di
nominare due forme» e la scelta di luce e notte agli esseri umani,
considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana, ella invece
sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς) è
187
così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti 44.
188
Granger (op. cit., pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato quello di
fornire il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida nelle
cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado di
riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea
aveva approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto
sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in effetti, è quella più vicina
alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi finali del
frammento non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia che
esso è il migliore, ma solo che l’intero ordinamento è offerto perché nessuna
sapienza umana possa superare Parmenide.
189
DK B9
αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν.
190
Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate1,
e queste2, secondo le rispettive3 proprietà4, [sono state attribui-
te] a queste cose e a quelle5,
tutto6 è pieno ugualmente7 di luce e notte invisibile8,
1
Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che
in B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero
essere soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose» diventerebbe
predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di
enti fisici.
2
Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da
Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri
(per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon,
Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in
accordo con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a
quelle.
3
L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo
(«proprie») o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da
attribuire a τά.
4
Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un
valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso
giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate a luce e notte.
Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις.
In effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità
essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la
Doxa è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con
«meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un
carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος.
5
L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti
caratteri.
6
Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le cose», alla totalità
delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di luce e
tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare la seconda lettura,
così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon (p.
233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente
contesta questa lettura: come è possibile che la totalità delle cose sia ripiena
a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole cose? Guthrie
(vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa.
Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia costituita
insieme e ugualmente di Luce e Notte».
191
di entrambe alla pari9, perché insieme a nessuna delle due [è] il
nulla10.
7
L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come «insieme», «allo stesso tempo»,
«egualmente». Se il valore sia da intendere nel senso di una rigorosa misura
quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν.
8
L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché invisibile, la notte,
opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233).
9
All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come
fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale
Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere
quantitativamente equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163),
interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o
potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK 31, B17.27):
192
e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna
delle due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono
principi e che sono opposti.
193
DK B10
εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης
[5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα
ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.
194
Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti
i segni4 e della pura5 fiamma dello splendente6 Sole
le opere invisibili7 e donde ebbero origine8,
1
La forma del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare
il valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura
programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera.
2
Il termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come
«nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o
l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna,
analizzarne la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la
generazione dei costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp.
204-5). Non pare tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν
come «la nascita dell'etere», né necessario intendere «natura» come
«essenza»: il riferimento alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso
della cosmogonia della Doxa, illustrarne l'origine.
3
Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo intravedere come
Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura, rarefatta, nella quale
si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse all'atmosfera sublunare,
dislocata a ridosso della superficie terrestre, più densa, meno pura.
4
In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella lingua greca arcaica
(Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per l'orientamento.
5
Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni di
εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di «splendente»
(εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso religioso.
6
Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di «splendente», da
preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per ragioni metriche (Cerri,
p. 260).
7
L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in Omero, dove significa «azioni odiose»
(Iliade V, 897): in questo contesto si potrebbe rendere – come fanno molti
traduttori - come «operazioni distruttive». Ma l'aggettivo ἀΐδηλος –
costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di «vedere» - può indicare tanto la
capacità di far sparire, rendere invisibile (dunque «distruttivo»), quanto la
indisponibilità alla vista (quindi «oscuro», «ignoto»). Nell'insieme il
significato di «invisibile» appare più convincente. Ricordiamo, inoltre, come
fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva connotato il fuoco come
ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua traduzione «les
oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil» rinviando alle
funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica generazione
del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella misura in cui
il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla componente notturna,
195
e le opere apprenderai periodiche9 della Luna dall’occhio ro-
tondo10,
[5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che tutto intor-
no cinge12,
donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo vincolò15
a tenere16 i confini degli astri.
196
DK B11
πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη
αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος
ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν1 μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι2.
197
[...] come Terra e Sole e Luna,
l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo
estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5
a generarsi6.
1
L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli astri
sono immersi nello spazio etereo.
2
La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa letteralmente «latte celeste».
L'uso dell'aggettivo potrebbe autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per
Parmenide la Via Lattea fosse composta di stelle.
3
Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o «Olimpo
estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo trovato indicato
come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge». Esso
costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il corso
degli astri.
4
In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione analoga: αἰθέριον
μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale. L'impiego
dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea degli astri.
5
Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta,
l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo di costituzione delle
cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una
δαίμων.
6
Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del
frammento è comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico
del precedente.
198
DK B12
αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2,
αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα·
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·
<πάντων>3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει
[5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5
ἄρσεν θηλυτέρῳ.
199
Quelle1 più strette2, infatti, si riempirono3 di fuoco non mesco-
lato;
le successive4 [si riempirono] di notte, ma insieme si immette5
una porzione6 di fuoco;
1
L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si
riferiscono probabilmente a στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28
A37), il quale traduce il termine come corona e orbis. Coxon (p. 235)
osserva giustamente come i versi che precedevano le citazioni di Simplicio
dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere, evocate senza
dettagli o nomi qualificanti in apertura.
2
Simplicio, nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un
passo sui due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo
si riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι
qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le
corone più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che
Diels proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe
alle corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia
del sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una
esterna di pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro
costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno
infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla
solida (di pura Notte) parete esterna contenente (indicata anche come
ὄλυμπος ἔσχατος in B11, ovvero come «cielo che tiene tutto intorno»,
οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla corona di puro Fuoco, evocata in
B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς.
3
L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono
riempite»: Parmenide sta dunque alludendo alla formazione delle corone
(Coxon, p. 237).
4
L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero
dopo] queste»: per mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di
rendere con «le successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e
ταῖς) si intendono riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire
esattamente a quali «corone» si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente
rilanciata da Ferrari, si tratterebbe delle corone comprese tra la coppia
centrale e quella periferica (composte di "elemento puro", di Fuoco
all'interno, di Notte all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco.
5
Si passa dal passato (πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la
perduranza degli effetti cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia
cosmogonico sia cosmologico.
200
in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9.
6
Letteralmente αἶσα – termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte».
Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a
μέρος.
7
L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán
(p. 248): essa può riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone
miste». Nel contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più naturale.
8
Aëtius esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»:
facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e
cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e
Ἀνάγκη.
Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il
riferimento di ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al centro
dell'universo:
vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere razionale del
fuoco governa ogni cosa (DK 22B41).
10
Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione
della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere
quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è
principio di» ovvero «è all'origine di».
11
L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di
fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato
soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in
questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla
genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire
come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo
proprio in relazione al sostantivo τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro]
parto» (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio,
non ai suoi effetti.
12
Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale»,
«coito» (Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che
qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina,
ma in genere all'unione dei due principi.
13
Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il
femminile) alludono forse - come nella tradizione pitagorica (secondo
quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo elemento alla luce e del
secondo alla notte.
202
DK B13
πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων…
203
Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore.
1
La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12.
2
Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel contesto
garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto
il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e
Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella δαίμων di
B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del verbo
μητιάω è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque la
dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243).
204
DK B14
νυκτιφαὲς1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς…
205
di notte splendente1, vagando intorno alla Terra2, luce d'altri3
1
Il composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte
visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del
tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di
notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al
composto νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la poco convincente
resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta
in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci,
che si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta
analoga interessante costruzione in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di
notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea,
l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo
facciamo seguire come B14a.
2
L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di rivoluzione
intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε
κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere periodiche della luna dall'occhio
rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e quindi
all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la
sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio):
206
B14a
[...ἥλιος, ... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές
207
[... il Sole, ... colui che va intorno alla Terra o] il di notte na-
scosto 1
1
Secondo l'editore della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non
avrebbe citato Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia
con Parmenide (νυκτιφαὲς).
208
DK B15
αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο.
209
sempre volta e attenta1 ai raggi2 del sole.
1
Il participio παπταίνουσα dovrebbe letteralmente tradursi come «guardando
attentamente». Come segnala Cerri (p. 276), è qui molto probabile che
Parmenide giochi sulle implicazioni della relazione tra i due termini,
maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna innamorata volge il suo
sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in Empedocle (DK 31
B47):
210
DK B15a
[Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον [εἶπειν τὴν γῆν]
211
[Parmenide nei suoi versi dice che la Terra] ha radici nell'ac-
qua1
1
Secondo Conche (p. 242), che si sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di
Basilio, la Terra cui si allude è quella ricoperta di flora e fauna, la Terra
vivente, di cui l'acqua è effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe
dunque alcuna implicazione genetica: alla luce delle testimonianze, non è
l'acqua all'origine della Terra, semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7)
ritiene, invece, che il riferimento sia alla massa di terre emerse (forse per
spiegare fenomeni come i terremoti). Di diverso avviso, in passato Paula
Philippson (Origini e forme del mito greco, Torino 1949, pp. 269 ss.), che
riscontra in questo riferimento all'acqua una allusione al mito di Okeanos,
che avrebbe circondato la Terra.
212
DK B16
ὡς γὰρ ἑκάστοτ’1 ἔχῃ2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4,
τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5· τὸ γὰρ αὐτό
ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν
καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ6 νόημα.
213
Come, infatti, di volta in volta si ha1 temperamento2 di mem-
bra molto vaganti4,
3
214
ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9,
216
DK B17
δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ2 κούρας…
217
a destra1 i maschi, a sinistra le femmine.
1
Le due forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del
discorso di Galeno (che cita) alle parti dell'utero:
218
DK B18
Femina virque simul Veneris cum germina miscent,
Venis informans diverso ex sanguine virtus
Temperiem servans bene condita corpora fingit.
Nam1 si virtutes permixto semine pugnent
Nec faciant unam permixto in corpore, dirae
Nascentem gemino vexabunt semine sexum.
219
Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi1 di Ve-
nere,
la potenza2 formatrice nelle vene3, che [deriva] da sangue4 op-
posto5,
conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti.
Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono
[5] e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla
mescolanza, malefiche
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme 6.
1
Dalla parafrasi di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione
dossografica secondo cui Parmenide credeva che esistessero semi maschili e
femminili, e che giocassero entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale
convinzione risale probabilmente ad Alcmeone di Crotone, ma fu contestata
nell'antichità da Anassagora e Diogene di Apollonia.
2
Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza, qualità, proprietà»).
3
L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori o a quelle dell'embrione:
la costruzione, con l'uso di «diverso ex sanguine» suggerisce che la seconda
alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254).
4
Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente
maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la
posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme
dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora.
5
Come suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico,
ma, in relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto,
contrario».
6
Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del
seme maschile sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini
e donne separatemente (Coxon, p. 255).
220
DK B19
οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι
καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα·
τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ.
221
Ecco, in questo modo1, secondo opinione2, queste cose3 ebbero
origine4 e ora5 sono6,
1
La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi
una ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso precedente
(Conche, p. 265).
2
In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava
– come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ
δόξαν come «secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla
radice in δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza»,
«secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according
to belief» (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque
salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di
vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire
da τὰ δοκοῦντα («le cose che appaiono e sono assunte sulla base della
esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di
διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i
fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte
(tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega
una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ
γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare
Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose
che appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in
B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν.
3
Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare l'insieme dei
fenomeni cosmici oggetto della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel
linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce
alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il
discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino.
4
Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε
regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e
τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa
frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29).
5
La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e
Omero).
6
Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose»
siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ
ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi (νυν, μετέπειτα),
le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la determinazione
dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5.
222
e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8.
A queste cose, invece9, un nome gli uomini10 imposero11, di-
stintivo12 per ciascuna.
7
La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da
ora») contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε
collegato al participio τραφέντα.
8
La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente diverse soluzioni
nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di futuro medio e
participio aoristo può intendersi nel senso del compimento dell'azione
indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria crescita»;
ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi: «cesseranno
di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii) subordinando
l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio: «una volta
cresciuti/sviluppati, avranno fine».
9
Sottolineiamo il valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò
contribusce a conferire senso critico al rilievo successivo.
10
Anche in questo caso, come in B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre
insomma a una designazione diversa rispetto alla diminutiva βροτοί.
Sintomo, forse, del fatto che in questo contesto la polemica è stata
abbandonata per lasciare il posto a una ricostruzione oggettiva.
11
L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama puntualmente B8.38b-39a:
e B8.53:
secondo quella che Cerri (p. 289) definisce «la più tipica movenza della
"composizione ad anello"».
12
L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a
ὄνομα) di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del
nascere, crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome.
223
COMMENTO
224
IL VIAGGIO [B1]
Introduzione
Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi trenta versi del
poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio in
questi termini:
225
λέγειν ‘δοιοῖς ... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν
ὤτων, τὴν φωνὴν δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις
Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς
ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ
χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν
‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας
ἀμοιβούς’ [14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς
τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη
[22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης
εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’ [29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς
ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν
δόξας ... ἀληθής’ [30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον
πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον.
In questi versi Parmenide dice che le cavalle lo
portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri irrazionali
dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di
canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la
ragione filosofica; la quale ragione guida a guisa di
divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le
fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse
accenna all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8),
cioè i cerchi delle orecchie, attraverso cui esse ricevono il
suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9), che avendo
abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la
luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi.
Dice che procedono verso la Giustizia «che molto
punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14),
[intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa
delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare
queste due cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva»
(29), che è il fondamento immutabile della scienza, e
l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale
credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione,
che non è saldo.
1
H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen
und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidier-
ten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin
20032 (edizione originale 1897), pp. 12 ss.
227
In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla tradi-
zione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epi-
menide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espres-
sione nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma poetica
(«rivestimento poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da
Epimenide per la propria «rivelazione» (Offenbarung), ritrove-
remmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in prima per-
sona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferi-
ta da Alessandro di Tiro:
228
Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί, in particolare) sarebbe
figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle credenze re-
ligiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a
livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, ri-
spetto al più generale tema della purificazione e della relativa ini-
ziazione, decisivo diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del
contatto con una realtà trascendente: in questa direzione la poesia
genericamente orfica avrebbe incrociato l’elemento “estatico”, di
cui appunto il «viaggio celeste» (Himmelreise) costituirebbe
frammento.
All’interno di tale orizzonte culturale, il Περὶ φύσεως si propo-
ne in una luce diversa, tale da suggerire maggiore cautela erme-
neutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito
contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammen-
ti). Nel caso del suo proemio, in particolare, si rischia il frainten-
dimento proponendolo come mera introduzione d’occasione o tri-
buto formale, in cui il sapiente (un filosofo!), per opportunità let-
teraria e compiacenza verso il proprio pubblico, avrebbe optato
per un mascheramento allegorico della propria concettualità (as-
sumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece
conservare al testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa
teorica di Parmenide uno spessore originale 2.
2
Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si intrattengono su questo
nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo dibattito si può leggere in
L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si tratta delle terza edizione di
Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia, Bruxelles 2008, cap. II "Le
«Proème» comme producteur de chemins". Molto utile anche l’introduzione
(“Parmenides and His Predecessors”) di M.J. Henn al suo Parmenides of
Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the
Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la propria introduzione
sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in the Homeric
Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura dell’esametro
parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ
φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconside-
ring Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New
York 2009: le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio.
Un’ampia e sostenuta lettura del proemio come chiave per l’interpretazione
del poema è oggi proposta in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, O-
rizons, Paris 2011.
229
Come di recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano 3,
il proemio parmenideo non è inutile orpello o artificio letterario:
esso è invece fondamentale per comprendere carattere, metodo e
finalità del poema. Nel contesto storico-geografico, sociale e reli-
gioso in cui si muoveva Parmenide, cantare un’esperienza ecce-
zionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie delle
forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio
iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita eserci-
tazione che l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si
rivolgeva a un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le
parole di una dea e partecipare all’esperienza evocata in versi. È
significativo, per la comprensione storica del poema, che del pro-
emio non resti traccia nelle citazioni antiche, che esso sia stato
ignorato da coloro (Platone e Aristotele) che hanno contribuito a
fissare i contorni della figura di Parmenide per la tradizione suc-
cessiva.
Perché la poesia?
Il problema della natura e portata del proemio è strettamente
connesso a quello, più generale, della scelta di fondo – da parte di
Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcu-
ni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoreti-
co anche nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in
particolare all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certa-
mente una chiave per decifrare l’impianto creativo del Περὶ
φύσεως, in cui si intrecciano racconto, comunicazione divina della
«parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη).
4
Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito, a cura di G.
Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44.
5
W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60.
231
attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un «maestro di verità»
(Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che suggerire: per
questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro
la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata ri-
spetto a quella dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico
della filosofia antica 6.
Parmenide e la poesia
Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come si a-
vrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale,
soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della
comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti
nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la forma del manifestarsi di
ciò che è originario, di quanto viene altrimenti designato come il
divino (τό θεῖον).
Significativamente, la θεά introdurrà (B2) l’assiomatica della
sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla formula
«e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ
μῦθον ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato
a «prendersi cura» (κόμισαι) del μῦθος divino, che dischiude la
comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola»
ritroviamo dunque nel poema:
(i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò
che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà notizia
del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole;
(ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato pondera-
to, che serve a convincere (donde il valore di «ragione»)7, della
parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea innominata
inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica
con il ragionamento») l’argomento proposto.
6
L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29.
7
W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32.
232
Già nel registro verbale è possibile intravedere l’intervento
creativo di Parmenide sulla tradizione.
Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di Par-
menide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello
stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico
una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il
contenuto dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono,
quelle che sono state e quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’
ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le
Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento
che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà),
attribuire a una divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sa-
rebbe dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione
sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manife-
stazione del divino stesso 9. È questo, allora, il motivo che induce
all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora
persuaso che il discorso cantato come pratica comunicativa garan-
tisca la possibilità di una “comunicazione vera”, di un «autentico
contatto» (Vernant) con il divino 10?
Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di
Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i)
l’inno alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel campo
della poesia epica), ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di
protasi; (ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e Aristea
(nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura
poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio
che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della for-
ma poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente
8
Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette,
presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e
commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155-
156.
9
Ivi, p. 160.
10
Wilkinson, op. cit., p. 67.
11
Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note
di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110.
233
funzionale all’istruzione 12 ; ma è anche vero che la scelta
dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato quel me-
dium (almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta
di due prospettive distinte e complementari, che potremmo così
schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea
l’orizzonte della verità in cui si iscrivono i contenuti del poema,
che la divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza;
la seconda richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un
aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande ri-
lievo nella letteratura critica13.
12
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L.
Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31.
13
Mi riferisco, in particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina
Stemich (2008).
234
un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumen-
to culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo al-
lora considerare tale opzione come un facilitatore per la comuni-
cazione del sapiente: come i poemi epici di Omero ed Esiodo, il
poema di Parmenide tratta della verità e offre educazione. Chiara
Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi fosse la
soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una
materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche
familiari al pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova
prospettiva filosofica14. Nel caso di Parmenide si trattava di susci-
tare aspettative, soprattutto se - ammettendo la circolazione di i-
dee nel complesso del mondo greco, orientale e occidentale - in-
terpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in prosa
provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico po-
teva aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di
un modello di comportamento 15 . A conferma, è significativo il
fatto che, nella cultura tra VI e IV secolo a.C., a più riprese, Seno-
fane, Eraclito e Platone abbiano attaccato Omero ed Esiodo, così
denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica arcaica su men-
talità e costumi.
Non va trascurata la possibilità che Parmenide abbia valutato
l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza comuni-
cativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto cul-
turale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in
questo senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che
garantiva il richiamo alla sapienza del canto poetico omerico ed
esiodeo (facilitare diffusione e memorizzazione della propria
scrittura, attingere a un repertorio di immagini e analogie di sicu-
ro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena autono-
mia – a nuovi concetti e formule astratte16.
14
C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy,
International Pre-Platonic Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006,
p. 42.
15
Ibidem.
16
M. Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag,
Frankfurt 2008, pp. 30-31.
235
Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio,
conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come
memoria per recuperare creativamente temi e motivi della tradi-
zione in funzione didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione
divina (donde l’istituto stesso del proemio, cioè l’abitudine di far
cominciare il canto - epico o lirico - con l’invocazione alle Muse
o ad altre divinità) e alla (probabile) destinazione performativa
pubblica, collegata alla scelta della forma metrica (esametro), se-
condo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica (l’aedo
Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come
alla fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il
primo a «recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non
remota dalla Magna Grecia di Elea: pare che Parmenide soggior-
nasse presso la corte di Ierone, che aveva richiamato artisti e in-
tellettuali da tutta la Grecia 19 ), inserendo nell’ordito dei poemi
omerici originali versi epici.
Non va dimenticato come, in un sistema culturale – quale
quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente sull’oralità
della comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse
destinato a trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del
sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso
dell’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era venu-
ta organizzando) la società ellenica 20. Per la comprensione del te-
sto di Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la
contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma anche per
quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle arcaiche forme en-
ciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella concre-
tezza della narrazione - di apprezzarne la specifica natura, l'origi-
nalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e sistema-
tici).
17
Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B.
Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo,
Feltrinelli, Milano 2006.
18
Ivi, p. 22.
19
Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato»,
XLIII, 1988, pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53.
20
Gentili, op. cit., p. 69.
236
Non va comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva –
probabilmente condizionata da esigenze di diffusione e trasmis-
sione (non ultima la stessa memorizzazione) – implicava, in quel-
lo sfondo culturale, la dimensione “spettacolare” (recitazione e
canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare.
Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a
comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e
l’insieme drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro
con la divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il
pubblico destinatario, non solo a livello intellettuale, ma anche
emozionale, incoraggiandolo a seguire l’esperienza «trasformati-
va» del poeta, convertito dal contatto con la verità 22.
In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare
come il poema suggerisca:
(i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia
omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso
la Musa e i versi originavano dalla «memoria divina»23; nel poe-
ma in generale, e nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostitui-
ta da un incontro divinamente garantito e da una diretta comuni-
cazione divina, che fanno del poeta qualcosa di più di un semplice
tramite ispirato;
(ii) una probabile integrazione della dimensione performativa:
l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ) fa pensare a
una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico
(237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione,
per bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parme-
nide ai discepoli potrebbe essere indicativa – oltre che dello stes-
so modello pedagogico dell'Accademia – di un'originale impronta
dell'Eleate:
21
Ivi, p. 49.
22
Robbiano, op. cit., p. 49.
23
Wilkinson, op. cit., p. 32.
24
E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni
Quasar, Roma 2009, p. 25.
237
μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ
τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε
λέγων καὶ μετὰ μέτρων
Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα·
ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα
[B7.1-2]
Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è
sia; il falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il
grande Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo
ancora bambini, cominciando e fino alla fine testimoniava
contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue
parole e i suoi versi che:
«Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che
non sono;
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero».
Parmenide poeta
È significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica
allusione a Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»:
25
Cerri, op. cit., p. 94.
26
Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocra-
tiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-
ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?,
Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp.
89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito.
238
ἆρα ἔχει ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς
ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν ἀεὶ
θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε
ὁρῶμεν;
Mi chiedo se vista e udito abbiano una qualche verità
per gli uomini, oppure se queste cose stiano proprio come
sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo
alcunché di preciso. (Fedone 65b),
εἰ δ’ ‘ε ὐ κ ύ κ λ ο υ σ φ α ί ρ η ς ἐ ν α λ ί γ κ ι ο ν
ὄ γ κ ω ι ’ τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ
τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος.
τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern]
εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’;
Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a
massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve
meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli ricorre
anche a qualche finzione mitica. Che differenza c’è
dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo:
«uovo d’argento»? (Simplicio; DK 28 A20).
27
A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht
1986, pp. 9-13.
28
H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur Formung des parmenideischen
Prooimions (28 B1)”, «Reinisches Museum», 106 (1963), pp. 134-142.
29
M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5.
241
del verso nel campo d’indagine della natura: i modelli epici po-
trebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e com-
prendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la
produzione orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica 30, attribui-
ta a Museo, Epimenide e Onomacrito 31.
La rivelazione di Parmenide
La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il
desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo 32:
se l’esito della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come
la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista,
l’opinione di un mortale in concorrenza con le opinioni degli altri
(mortali) 33. Secondo il modulo epico, invece, il poeta-pensatore
non è che portavoce della Dea e della Verità: come il contempo-
raneo Eraclito rimarcava che:
30
Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi contenuti in
A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un
reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A.
Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero,
Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278.
31
Per questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a
Orfeo, ivi, pp. 549-576.
32
Tarán, op. cit., p. 31.
33
Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et
commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p.
66.
34
Ivi, p. 65.
242
Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può
tuttavia non tenere conto proprio della natura argomentativa della
prima sezione del poema - indicata dalla Dea come «discorso af-
fidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα
ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος
(disamina, prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente
(κρῖναι δὲ λόγῳ): consapevolezza che sembrerebbe contraddire
l’urgenza di un pegno divino per il logos proferito.
Rivelazione e verità
In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più aderire
alla concezione pessimistica della condizione umana espressa tra-
dizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il con-
temporaneo Teognide (vv. 139-41):
36
Ivi, pp. 163-4.
37
Ivi, p. 166.
38
Su questo ancora Leszl, op. cit., p. 168.
39
Conche, op. cit., p. 66.
244
Il problema della verità
Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale
problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella lo-
ro impotenza, sono soggetti a illusoni, come può il sapiente rico-
noscere la verità, sottrarsi a quella condizione di diffusa deficien-
za (cognitiva) e pretendere di sapere? Nella cultura greca arcaica,
solo un dio poteva essere fonte di verità, e il linguaggio della co-
municazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo valida-
vano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la veri-
tà, la cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epi-
ca41. In questo senso, il motivo poetico della comunicazione divi-
na è in Parmenide pervasivo, abbracciando entrambe le sezioni
del poema42: l’intero campo del sapere è esplicitamente ricondotto
alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno all’essere, quanto
l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza alcuno
spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta.
Se consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusio-
ne del proemio, e i passi superstiti della prima sezione, risulta e-
vidente, nella narrazione, come il rilievo della lezione divina sia
funzionale alla focalizzazione del problema dell'accesso alla veri-
40
Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W. Most, "The poetics of
early Greek philosophy", in The Cambridge Companion to Early Greek Phi-
losophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, pp. 332-362. Nello
specifico rinvio a p. 353.
41
Ivi, p. 343.
42
Sulla scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52):
43
Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del
Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206.
44
Most, op. cit., p. 343.
45
K. Algra, "The beginnings of cosmology", in The Cambridge Companion to
Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49.
46
Most, op. cit., p. 343.
47
La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a
Senofane: tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX
secolo, nel corso del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni
argomenti ha di recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore
di Colofone John Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon
Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit.,
pp. 324 ss.).
246
quanto presso gli uomini è cosa riprovevole e
censurabile:
rubare, commettere adulterio e vicendevolmente
imbrogliarsi (DK 21 B11)
48
L'espressione è di Most, op. cit., p. 339.
49
Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit..
247
καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων·
εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών,
αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται
davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né
mai ci sarà
sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su
tutte:
se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità
compiuta in sommo grado,
lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le
cose (DK 21 B34).
50
J.H. Lesher, "Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to
Early Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229.
51
Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν
θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo
quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i
mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocra-
tiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19).
248
«la ripresa e la soluzione parmenidea del problema della verità» 52.
Non va quindi trascurata la possibilità di cogliere, negli echi della
poesia religiosa e della stessa poesia esiodea (con la ripresa di e-
lementi cosmologici della Teogonia), la specificità dell'esperienza
narrata nel proemio come prefigurazione del complesso dei con-
tenuti dell’opera.
Viaggio ed erramento
Dei cinque aspetti rilevati 55 nella struttura di questo «motivo»
(motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii) regresso
ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v) ri-
cerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i
52
Germani, op. cit., p. 187.
53
A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and
Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London
1970, pp. 12-14.
54
Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo studioso, tra «tema» o
«concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da veicolo (oggetto della
«iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo», «valore simbolico»
(oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12.
55
Ivi, p. 18.
249
primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La
compiuta circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano
il ritorno a casa (νόστος), per cui esiste una specifica impresa di
ricerca (νόστον διζήμενος): nel proemio si alluderebbe esplicita-
mente o implicitamente – a seconda delle interpretazioni – alla
stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In o-
gni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la con-
duzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e –
per contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente,
l’eroe omerico - accorto e istruito dalle divinità - sa di dover os-
servare un certo comportamento, mentre i suoi compagni, privi di
lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili,
d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non man-
ca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta
(B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle insidie
della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος
πολύπειρον); alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo,
si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν), connotati come «uomini a due teste» (δίκρανοι).
Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma
omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poe-
sia apocalittica 57 , diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai
Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo
Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie 58, per
esempio, coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che tuttavia
non dimostrerebbero altro che il radicamento nella tradizione del-
la poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchili-
de, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una
influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti
di Epimenide e altri (Aristea, Abari, Ermotimo).
56
Ivi, pp. 18-21.
57
Uso l’aggettivo – come Diels – nel suo significato etimologico da
ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare appunto).
58
W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition
from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss..
250
Esperienze dell'altro mondo
Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune scelte e-
spressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui
la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprat-
tutto la formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il
poeta) – hanno fatto pensare a un esplicito richiamo a modelli mi-
sterici, destinati a fortunate riprese in particolare da parte di Pla-
tone59.
Rivestono in questo senso un notevole interesse le laminette
funerarie classificate come "orfiche" (le più antiche risalenti al V-
IV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a quell'ambiente
religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade: non
agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa
esperienza che propongono (il giudizio della anime a opera di Di-
ke), sia per specifici elementi che presuppongono (l'iniziazione) e
impongono (la necessità di operare una scelta di fronte a un bi-
vio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come l'itinerario del
poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia «molto in
comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano
nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni 60.
Non si tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnalia-
mo in nota) che Parmenide avrebbe recuperato per garantire so-
lennità alla propria composizione, ma di suggestioni che l'avreb-
bero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del pro-
emio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla
fondazione logica del sistema» 61.
Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio
parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle Elia-
Eliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato" (εἰδὼς
φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba ( ὁδός
59
Per questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per
un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396.
60
F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle
lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 115.
61
Sassi, op. cit., p. 386.
251
πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale non
solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testi-
moniarne), ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguen-
temente, la sua istruzione. Un tragitto che, a suo tempo, in uno
studio pionieristico, Morrison aveva connotato come quello del
«poeta-sciamano in cerca di conoscenza» 63, accostandolo all'espe-
rienza del platonico Er.
In modo sorprendentemente simile, le istruzioni (incise su la-
minetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro di Ipponio
(circa 400 a.C.) prevedono:
62
La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito oltremondano del Fedone (107d
ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino verso l'Ade, abbiano
bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες.
63
J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955,
pp. 59-68. La citazione è a p. 59.
64
G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3.
65
Colli, op. cit., pp. 172-3.
66
Sassi, op. cit., pp. 390-1.
252
Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben attestato
nelle laminette (e nei testi platonici):
253
dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa
330 a.C.)67.
67
Colli, op. cit., pp. 172-7.
68
Sassi, op. cit., pp. 392-3.
69
Il tentativo più sistematico è quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci.
Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et
fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005, p. 13. di ciò dà conto
Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 115-6.
254
importanti e complesse» 70. In ogni caso, un elemento risulta nel
nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur re-
cuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla
Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la
terza, alla Sicilia per l'ultima) si faccia «ripetuta menzione di
Mnemosine come divinità che dispensa il dono di ricordare» 71, e
che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli pitagorici, a
quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria asse-
gnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamen-
to della persona» 72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore
delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifi-
co richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemo-
sine come la δαίμων innominata di Parmenide.
Esperienze sciamaniche
Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento del
viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura
dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era
stato notato, qualche anno prima del contributo di Morrison, da
Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca 73 - è
quella di un mediatore tra uomini e dei, che ha la capacità di la-
sciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in cielo o
nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istru-
zioni mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o
cantore e tipicamente narra in prima persona dei suoi viaggi cele-
sti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di trasporto è
talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti
di erramento prima del desiderato confronto con la divinità.
70
Ivi, p. 119.
71
Ivi, p. 124.
72
Ibidem.
73
E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione
originale 1951), capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo).
255
Anche Mourelatos 74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario
del kouros e il complesso di elementi focalizzati da Dodds e ri-
presi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la
presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferi-
mento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta
divina (Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») a-
vrebbe allora potuto immediatamente evocare,
nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali pratiche, i
segni dell’esperienza sciamanica. In questo senso appare ancor
più significativo l’accostamento a Odisseo. In particolare, Moure-
latos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si pos-
sa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di
poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in
proposito è la mancanza di esemplari per valutarne la reale inci-
denza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È probabi-
le, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga
misura da motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene
impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova contestualiz-
zazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio
sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo.
Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a
parlare di un “motivo” letterario, allusioni al paradigma dell'espe-
rienza sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75 ,
proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva dottrina in
una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese,
infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa»,
εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico
per indicare l’«iniziato»76, colui che, in virtù delle proprie cono-
scenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente
l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denotereb-
be una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino 77:
l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale
74
Op. cit., pp. 44-5.
75
P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999.
76
Ivi, p. 62.
77
Ivi, p. 72.
256
κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo infe-
ro78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli lettera-
ri, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo
della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmo-
logico (Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati,
come l’eroe Eracle79 o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso
da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano).
A conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tra-
dizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte
vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono
l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da
Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la
presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe attestato,
se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra cultura-
le, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri ri-
ferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il
ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è sugge-
rito dalla stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non
una sorte infausta (la morte?) lo ha allontanato dal mondo degli
uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida della giustizia
divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare il
poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti.
D’altra parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a nor-
me compositive, ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e
per lo più funzionali a un determinato obiettivo. Kingsley richia-
ma esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo
φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tolle-
rabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto “perfor-
mativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e traspor-
to. L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parme-
nide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così in-
quadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile ai
78
Ivi, pp. 62-3.
79
Ivi, p. 61.
80
Op. cit., pp. 186-7.
81
Op. cit., p. 94.
82
Ivi, p. 97.
257
propri ascoltatori (iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il
particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) e-
messo dall’«asse del carro nei mozzi […] incandescente», dal
momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei papiri
magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e
al viaggio cosmico83.
Maria Laura Gemelli Marciano 84 ha inoltre richiamato l'atten-
zione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che conside-
riamo conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e
sull’acribia con cui ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica
e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra
escludere il mero impiego simbolico, tanto più considerando 85 la
stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ), movimenti rotatori (i
«cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) – segnali di alte-
razione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle figure di-
vine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come
resoconto di un viaggio estatico.
Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti a collegare
Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a
Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che reci-
ta87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio
di Pireto, è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios
(venerato nell’area anatolica, da cui provenivano i profughi focesi
che fondarono nel VI secolo a.C. Elea), e physikos, a un tempo
ricercatore della natura e medico: dal momento che ad Apollo Ou-
lios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile che la
figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla iatromantica
(di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco dello
sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale.
Nella stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica:
83
Ivi, pp. 129-130.
84
Die Vorsokratiker, II, p. 54.
85
Sulla scia dello stesso Kingsley.
86
Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55.
87
Kingsley, op. cit., pp. 139 ss..
258
ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι
δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ
ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων
λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ
Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη.
Parmenide, come affermò Sozione, ebbe familiarità
anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo
povero, ma nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì
l’influenza. Quando questi morì, Parmenide, che era di
famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento
funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla
tranquillità di una vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28
A1).
88
Kingsley, op. cit., pp. 179-181.
89
Op. cit., II, p. 45-6.
259
caso delle Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe
essersi ispirato (viaggio, incontro con Giustizia e Verità ecc.), e-
vocando situazioni e particolari significativi in una società ancora
legata a quelle pratiche (importate, come crede Kingsley, dalla
patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore).
90
Op. cit., p. 33.
91
Su questo, tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmolo-
gies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974.
260
Quasi Parmenide volesse sovrapporre o contrapporre la propria
verità a quella del poeta di Ascra.
A livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare
creativamente il precedente esiodeo appare evidente. Egli si muo-
ve in effetti all’interno delle novità da questi introdotte nella tra-
dizione aedica: il riferimento dell’autore a se stesso nell’esordio
dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al poema. In rela-
zione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto,
nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il
doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto,
del «distacco critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92 :
l’investitura poetica e il dono divino della verità, come proposti in
apertura della Teogonia, giustificano la pretesa di una poesia di-
versa dalla tradizionale, in cui l’autore fondatamente rivendica
una visione unitaria del cosmo.
D’altra parte, anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata
in modo peculiare, nella misura in cui essa non si riduce ad artifi-
cio estrinseco rispetto al canto poetico vero e proprio, a inno pro-
piziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul
tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e
poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il coin-
volgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia,
in particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza com-
plessiva dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania
delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di veridicità del
contenuto del poema»93.
A richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente esio-
deo sono tuttavia soprattutto alcuni elementi di contenuto, in pri-
mo luogo lo scenario complessivo del proemio parmenideo, con
un viaggio che conduce, lungo la direttrice del sentiero di Notte e
Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un imponente
portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi, ri-
vela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte» (πύλαι)
che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo:
92
Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8.
93
Ivi, pp. 129-130.
261
ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος
πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν,
ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ·
χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν
οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο,
ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης
ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.
τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ
ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι.
τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν
ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν
ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι
ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν
χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε
ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει,
ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα
μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται·
ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα,
ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο,
Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ.
ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν,
Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς
Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν
οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων.
τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης
ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι,
τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ
νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν
ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν
Là della terra nera e del Tartaro oscuro,
del mare infecondo e del cielo stellato,
di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini,
luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio,
voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe
per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte,
262
ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per dèi immortali
è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile
s'inalza, da nuvole livide avvolta.
Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio
reggendolo con la testa e con infaticabili braccia,
saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini
si salutano passando alterni il gran limitare
di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro attraverso
la porta
esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro
trattiene,
ma sempre l'uno fuori della casa
la terra percorre e l'altro dentro la casa
aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga;
l'uno tenendo per i terrestri la luce che molto vede,
l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte,
la Notte funesta, coperta di nube caliginosa.
Là hanno dimora i figli di Notte oscura,
Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro
Sole splendente guarda coi raggi,
sia che il cielo ascenda o il cielo discenda.
Di essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare
Tranquillo percorre e dolce per gli uomini,
dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo,
spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei
prende
degli uomini, nemica anche agli dèi immortali. 94 (vv.
736-766).
96
Ivi, p. 449.
97
Ivi, p. 453.
98
Ibidem.
99
Si vedano, per esempio la discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit.,
capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2).
264
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν,
ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ.
ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός,
ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς,
αὐτοφυής· πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων
Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο.
Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso,
del mare infecondo e del cielo stellato,
di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini,
luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in
odio.
Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia,
inconcussa, su radici infinite commessa,
nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi,
i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos
tenebroso100 (vv. 807-814).
100
Teogonia, cit., p. 115.
101
Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II.
265
tiva verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della
sfera celeste avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa con-
fusione (stridente in qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secon-
do quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e not-
turni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro
che possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occi-
dentale della Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la
sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla superfi-
cie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e
danno il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discen-
dono verso il mondo infero per soggiornare nella «casa della Not-
te», e ascendere poi, quando giunge il loro turno, verso il mondo
terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a quel-
lo notturno).
A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del pro-
emio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la fun-
zione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i
passaggi delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infe-
ro, in cui sarebbe locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός).
Ad accentuare tale prospettiva "verticale" la possibile associazio-
ne tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio come nella poesia esio-
dea:
102
Ivi, p. 38.
103
Teogonia, cit., p. 113.
266
direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizional-
mente privilegiato per le rivelazioni.
267
rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi
contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era
l’oggetto di analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato
dalla titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente
seconda sezione.
È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefi-
guri le tesi del filosofo e che queste non siano estranee a un inten-
to trasformativo (Robbiano), indistricabilmente connesso alle e-
sperienze evocate. In questo senso, si può condividere il suggeri-
mento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunica-
ta nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante
l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Ha-
dot104) nel socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dis-
senso da Mourelatos, per il quale, invece, gli imperativi della dea
sono tutti rivolti a un’attività di tipo cognitivo, non al bios o al
prattein105.
D'altra parte, contestualizzando la lettura del proemio, è pru-
dente rigettare un approccio meramente allegorico, rintracciando-
vi piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare fonda-
ta l’osservazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione alle-
gorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il
fatto che la pratica dell’allegoresi era, al tempo (fine VI secolo
a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parme-
nide, legato all’ambiente pitagorica 107. Possiamo supporre108, allo-
ra, che, nella narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano
confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina espe-
rienza visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche:
il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla
sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo ade-
guati a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co-
104
P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris
20022.
105
Op. cit., p. 45.
106
Op. cit., p. 144.
107
Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli,
Bompiani, Milano 2007, p. XII.
108
Come fanno lo stesso Leszl, op. cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156.
268
involgere (emotivamente e intellettualmente) il pubblico destina-
tario (plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli109). Ciò com-
portava, naturalmente, anche consapevoli opzioni simboliche, per
le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e, proba-
bilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effet-
ti concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cogniti-
va e la correlata trasformazione dell’attitudine personale)
dell’impatto con la verità, della scoperta del reale assetto del tutto
cosmico.
109
Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le
contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks
et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90.
269
Nel segno dell’eccezione
Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione
d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e
della apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto
oltre la porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestua-
lizzazione del viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da
due momenti ben evidenziati nei versi parmenidei:
(i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso Dike, au-
stera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale, per
persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poe-
ta: le fanciulle devono placarla «con parole compiacenti»
(μαλακοῖσι λόγοισιν) e «sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla
a concedere una possibilità evidentemente non garantita ad altri
mortali;
(ii) la formula di accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a)
non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ, destino infausto) a
spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός) per
cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄
ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου).
Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è prota-
gonista il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade se-
condo un disegno cui concorrono le aspirazioni (θυμός) del filoso-
fo (v. 1):
110
Leszl, op. cit., p. 141.
270
L’eccezione coinvolge in particolare due aspetti. Il poeta ha
chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i confini stabiliti
per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere non sem-
plicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una
lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà
(vv. 28b-29):
271
(iii) la comunicazione della θεά senza nome - che può offrire
la chiave per giungere alla Verità - meta del viaggio cui viene fi-
nalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo.
Il quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico
tradizionale: sotto protezione divina al poeta è permesso accostar-
si a una condizione sovrumana111, che descriveremmo in termini
di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre parole, il privi-
legio della conoscenza superiore costituisce una sorta di trascen-
dimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia,
dell’indiscutibile primato del divino.
Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al
testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano disloca-
re tale trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può inter-
pretare il riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «desti-
no infausto») e, soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso
del Tartaro descritto meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736-
745)112, con la prossimità della «dimora della Notte» (scortata nel
suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della
terribile Persefoneia» (vv. 758-778).
In analoga direzione concorrono vari elementi esteriori (rilievi
archeologici113, dati storici114), cui abbiamo sopra accennato, che
confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile relazio-
ne con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la θεά,
innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio
nel regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento
sulle credenze sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava
cruciale per la conoscenza della verità. La stessa figura di Δίκη
πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un altro testo,
un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca
111
Leszl, op. cit., p. 167.
112
Cerri, op. cit., p. 173.
113
Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che
accoglie nell’Ade Eracle e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio
come la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100.
114
Elea era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p.
108).
272
Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro 115 - troverebbe in ta-
le scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i morti subi-
scono il giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la puni-
zione delle colpe commesse in vita.
La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta
avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto
nella prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama
la visione mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i
confini del mondo coincidono con quelli della terra (la cui super-
ficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116: in
questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis non è intesa tan-
to come discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come rag-
giungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre117.
La nozione del limite (e del suo superamento) è poi significati-
vamente evocata dal vettore e dalla scorta, che richiamano
l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte 118.
In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole
appunto) e il tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Gior-
no» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων, v. 11), che comples-
sivamente tracciano i contorni celesti, se da un lato sembrano in-
sistere sul punto di vista privilegiato garantito al poeta, dall’altro,
indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di Fetonte (fra-
tello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro, sottratto di
nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus),
suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica,
rafforzata dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri
pensatori arcaici (Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la
processualità della natura – l’alternanza di notte e giorno ai confi-
ni del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della
giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore
115
Cerri, op. cit., pp. 104-5.
116
Leszl, op. cit., p. 149.
117
Ivi, p. 144.
118
Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare
particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl (p. 147).
119
Ibidem.
273
di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico
l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo.
Al di là dell'esperienza quotidiana
L’eccezionalità dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo
indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile semplicemente a
una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa
(ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è
la distanza della via seguita nel corso del viaggio «dal percorso
degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La
porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade (Iliade VIII, 13-
16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757;
811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo,
lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie
terrestre, al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i
suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa
l’abisso, il mondo dei morti, il regno di Ade e Persefone 120. Come
ricorda Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia in quanto di-
scrimina il percorso del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto
separa il mondo dei vivi e quello dei morti 121.
Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo
non è l’allontanamento dalla terra per pervenire alla porta del cie-
lo, superare i confini del mondo e incontrare, nell’etere celeste, la
dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio
nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo (Pelli-
kaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, per-
viene presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dun-
que, il punto privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al
cielo (con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazio-
ne). In ogni caso, la tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la
meta del viaggio, più giustificata nel contesto rispetto alla luce
120
Cerri, op. cit., p. 98.
121
Ivi, p. 99.
274
celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muo-
vendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno soggiornato duran-
te la pausa notturna: il loro viaggio comincia, dunque, presumi-
bilmente all’alba), a cui ritornano, con la compagnia del poeta,
percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al
tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria
dimora per dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo
la convinzione che a Parmenide prema soprattutto evidenziare
l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la distanza
dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazio-
ni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma in-
fluente.
Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei
suoi tempi. Il poema si apre con il presente:
122
Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit..
123
Guthrie, op. cit., p. 7.
275
essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande telaio.
Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso
alterno (vv. 11-14).
124
Martina Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des
Weisen, Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione
filosofica analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà
trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio».
125
In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die
Seinserkenntnis, cit., pp. 39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio:
sebbene il percorso verso la Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto
motivo connesso a una trasformazione comprensibile solo come sviluppo
sistematico – diventerebbe emblematico della graduale approssimazione alla
conoscenza ricercata dal filosofo.
126
Coxon, op. cit., p. 14.
276
τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον
[Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi,
mi ebbero avviato sulla via ricca di canti
della divinità che porta † ... † l’uomo sapiente.
Su questa via ero portato, perché su questa via mi
portavano molto avvedute cavalle,
trainando il carro: fanciulle mostravano la via (vv. 2-
5).
127
Conche, op. cit., p. 44..
128
J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt,
Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229.
129
F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del
«kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei
Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno".
277
sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva)
narrata in quelli successivi 130 , può essere messa in discussione
partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto,
nella ritualità misterica, per indicare l’«iniziato» (analogamente,
come sappiamo, potrebbe intendersi anche il ricorso a κοῦρος al v.
24), e che potrebbe dunque designare una minoranza predisposta,
per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità 131. Il termine
εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di Par-
menide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe
un senso anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta
verso il contatto con la verità.
Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie
per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato
con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizio-
ne di essa, disponibile – all’interno del tradizionale modello op-
positivo tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù
dell’eccezionale prerogativa di una rivelazione divina. In tal caso
la condizione che consente al poeta di annunciare la verità (pre-
sente) è conseguita grazie alla comunicazione divina (passato), in
cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione. Accen-
tuando (arbitrariamente) la significazione e composizione simbo-
lica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quel-
lo del poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che
intervengono a scortarlo presso le divinità – come rievocazione
della tensione religiosa del κοῦρος verso l’esperienza della rivela-
zione ovvero figurazione della ricerca di un accesso alla piena co-
noscenza della realtà.
130
Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp. 226-7.
131
Cerri, op. cit., pp. 169-170.
278
rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi – sul ruolo
delle figure divine proposte nel proemio:
(i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi;
(ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike;
(iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima, rispetto a cui, glo-
balmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano subordinati.
In un contesto già popolato da molte altre potenziali 132 entità
divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non
può essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza
che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente celare
anche una valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la que-
stione.
Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere
all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è evo-
cata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come
«ipostasi mitica della legge della physis»133, che vincola elementi
e fenomeni nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in
Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento solare e in ge-
nere alla regolare alternanza di giorno e notte (che tanto rilievo
cosmologico hanno nel proemio):
132
Se se ne accetta la personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e
del tono religioso del poema.
133
Cerri, op. cit., pp. 104-5.
134
Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173.
135
Capizzi, op. cit, p. 52.
279
questa circostanza, che i versi dell’esordio poetico possono ri-
chiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo Fe-
tonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio pro-
ceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono
convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria
solare. Se accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei
vv. 2-3 potrebbe essere proprio il Sole: il carro su cui viaggia il
poeta potrebbe essere allora il suo, così come la via quella che il
Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo.
Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in
un’altra direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mi-
tica esiodea ricostruita puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la
«dimora della Notte» sia collocata nelle profondità del Tartaro (il
mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade (il mondo dei
morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il mare,
il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli
dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Gior-
no: da essa muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite
dalla porta cosmica del Giorno e della Notte (su questo punto in
Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero essere due, collocate alle
estremità orientali e occidentali), prelevano Parmenide (all’alba:
si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra la
terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al
di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della superfi-
cie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si
spalanca il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come i-
niziato, εἰδὼς φώς) di varcarne, ancora vivo, la soglia, per attinge-
re la conoscenza: Dike è al suo posto, nella misura in cui deve
giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta viaggiatore in qua-
lità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per ammansire la
inflessibile sorvegliante dei confini) 138.
Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono che
l’eccezionalità dell’impresa cantata coincida con il massimo pri-
136
Leszl, op. cit., p. 146.
137
Ivi, p. 147.
138
Cerri, op. cit., pp. 106-7.
280
vilegio previsto per un mortale nell’universo mitico: come Odis-
seo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non forse
propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che
vi è regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide
insiste inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del
passato: per marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la
cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i
vivi, al presente della condizione umana.
Prima di concludere su questo punto, è ancora necessario chia-
rire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in
un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto
di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando,
quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo
stesso Sesto Empirico. Questo non comporta trascurare il valore
simbolico delle scelte espressive di Parmenide, evitare di attende-
re alle implicazioni che certe immagini o situazioni concrete do-
vevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca di Par-
menide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi,
ma è possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pi-
tagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la forma-
zione di Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, per esempio, nella
Olimpica VI, faceva ricorso al motivo del viaggio con intento ma-
nifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a Parmenide ri-
sulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In
ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rende-
re plausibile un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza
liminare (un viaggio oltre i confini del mondo) compiuta dall'a-
nima del poeta (spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento
della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero potuto
fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli con-
creti della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "o-
dissea", delineato un modello per le avventure dell’anima nel
grande mito del Fedro platonico 140.
139
Coxon, op. cit., p. 14.
140
Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti.
281
La sequenza del racconto e il progressivo (non casuale) coin-
volgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco con-
vincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione
allegorica di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione,
in chiave di illuminazione superiore, di una proposta filosofica.
L’autore, invece, proprio attraverso la narrazione in prima perso-
na del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in
un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che ri-
chiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione del-
la prospettiva del viaggiatore) 141. È la futura condotta di vita il ve-
ro obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sa-
rebbe rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamane-
simo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non
traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma assun-
zione della pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente
esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di profondo rio-
rientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana.
Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciama-
nica), forse radicato nell’ambiente eleatico 143, Parmenide associa
un percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri udi-
tori, in cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni della
quotidianità è funzionale a un processo di trasformazione spiritua-
le e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo,
la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono eviden-
temente una ricerca destinata a modificare l’intera personalità: in
un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazio-
ni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini
simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni
141
La Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando
due elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e
viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine
mentale: (i) la focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie
dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu.
142
Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di katharsis pitagorica.
143
Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le osservazioni della Gemelli
Marciano.
282
dettagli riconducibili, secondo Kingsley, all'esperienza dello
sciamano) di una forma di ascesi estatico-religiosa.
283
ogni caso una strada principale, come chiarisce l'indicazione κατ΄
ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida della
giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι
ἡνιόχοισιν). Le scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε
(«giovane») e il nominativo in funzione vocativa συνάορος
(«compagno») – apparentemente descrittive della condizione gio-
vanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in realtà,
alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque
legittimarne il privilegio.
Imparare tutto
L’eccezionalità della situazione si riflette anche nella completa
disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e nell’informazione
successiva: rilevando didascalicamente - secondo il tradizionale
paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divi-
na - l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα
πυθέσθαι), ella propone un programma articolato in due momenti,
chiaramente scanditi in greco (vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν
…. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione ulteriormente precisati (v.
31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης (congiunzione avversati-
va + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure» «anche
così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa,
ma anche decisiva, dal momento che all'articolazione programma-
tica presumibilmente corrisponde poi la struttura del poema (cioè
la successiva esplicitazione dei contenuti della rivelazione), e
dunque dall'interpretazione di quella dipende la comprensione di
questo.
Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato su tutto:
144
Secondo Cerri (p. 182) la fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea
riprende tipicamente quella delle scene di incontro tra dei e mortali in
Omero.
284
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής
sia di Verità ben rotonda il cuore fermo,
sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità
(vv. 29-30).
285
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα
Eppure anche queste cose imparerai: come le cose
accolte nelle opinioni
era necessario fossero effettivamente, tutte insieme
davvero esistenti (vv. 31-32).
145
Ruggiu, op. cit., p. 196.
286
(b) una seconda sezione (secondo logos, considerevolmente
più consistente), convenzionalmente nota come “Opinione”
(Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας
(«opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del pro-
gramma, naturalmente più composito (riferendosi al complesso
dell'esperienza).
Variante di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146,
secondo cui, invece, Parmenide, in conclusione di B1, rievoche-
rebbe le posizione espresse da Senofane e Alcmeone nei passi so-
pra citati:
καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων·
εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών,
αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται
davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né
mai ci sarà
sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su
tutte:
se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità
compiuta in sommo grado,
lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le
cose (DK 21 B 34).
146
Op. cit., p. 169.
147
Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ
τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo
quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i
mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19).
287
Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incer-
te convinzioni umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Al-
cmeone) e conoscenza divina: Parmenide si limiterebbe sempli-
cemente a riformularla nel senso di un contrasto tra forme cogni-
tive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale, l’altra
opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo
riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini
hanno la possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe
tentato nella seconda parte del poema è appunto una ridefinizione
del campo delle doxai in termini non contraddittori.
Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga tradi-
zione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo
più assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della
verità (i), Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica)
dell’opinare umano (ii), di cui offrirebbe comunque, a scopo e-
semplificativo e\o critico, esposizione (o ricostruzione) coerente
(iii).
Leszl 148 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni,
che chiude la comunicazione della dea nel proemio, corrisponda
alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e falsità:
in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo
dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo con-
siderato tale perché simile al vero), sebbene, a differenza delle
Muse che si limitano a esporre il vero, la dea di Parmenide espone
anche ciò che non è vero, nell’intento di coprire «tutto», di offrire
un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo.
Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della Teogonia è
sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto
prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e
menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferi-
sce all’ambito della doxa è stigmatizzato come ingannevole, con
il risultato paradossale di ridurre proprio la sezione cosmogonica
e teogonica, più vicina al modello divinamente ispirato del poema
148
Op. cit., pp. 153-4.
149
Op. cit., p. 33.
288
esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali (sottoline-
ando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero essere ma non sono150).
Non è da escludere, invece, che proprio il secondo logos rap-
presentasse il nucleo centrale e originario del progetto di Parme-
nide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως
(donde la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa
riprodurrebbe anche la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle
«cose accettate nelle opinioni», a principi, «forme» (μορφαί) nel
lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di originalità (da
cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle testimo-
nianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel
primo logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coe-
rente enciclopedia del mondo naturale, denunciando a un tempo le
debolezze delle ricostruzioni alternative151.
150
Ivi, p. 210.
151
Il dibattito sulla natura della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio
aggiornamento di G. Reale a E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci
nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, cit., la questione è stata
sistematicamente ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond
the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill
Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere, "Parménide et
l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur Parménide, sous la direc-
tion de P. Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp.
192-212; R. Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)",
ivi, pp. 44-68; A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Pre-
socratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Al-
dershot 2002, pp. 45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi, pp.
101-116; P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later
Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, cap. III:
"Doxa and Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the Cosmos.
The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P., Princeton
2006 dedicate all'argomento (pp. 169-184).
289
Opinioni: credibili e non
Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori contempo-
ranei di Parmenide - Cordero152 - la Dea prospetterebbe, introdut-
tivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia» nell’ambizioso
riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti com-
plementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei morta-
li». A completamento del suo programma, ella avrebbe poi illu-
strato anche un possibile modello per le «opinioni»: la verità è as-
sente dalle opinioni, ma «riconoscere che le opinioni non sono ve-
re è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile questa
proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che
supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come
poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enci-
clopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul
valore delle opinioni155.
Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori
antichi: Aristotele, per esempio, osserva:
152
N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Pub-
lishing, Las Vegas 2004, p. 30.
153
Ivi, p. 32.
154
G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza parmenidea», in Parmenide
scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt
Augustin 2008, p. 80.
155
Torneremo sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti
del "secondo logos".
290
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare
con maggiore perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista
affatto, oltre all’essere, il non-essere, egli crede che, di
necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che
l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo
sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi
dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Aristotele, Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24).
Il problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra
due forme diverse di esplorazione della realtà, che potremmo
sbrigativamente indicare come razionale ed empirica: la seconda
parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis,
dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima
291
parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco
le implicazioni ontologiche a priori dell’indagine156.
Certamente il programma della Dea prevede un momento cri-
tico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in
cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di verità
comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee con-
vinzioni circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia
la possibilità che la stessa materia sia passibile di una trattazione
diversa, rigorosa e plausibile. Questo il senso della precisazione
introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza della Verità
(illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la (contradditto-
ria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convin-
zioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto
coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione
dei fenomeni. Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la
norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente),
l’impianto educativo del poema, la scelta del kouros e la solleci-
tazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare un'in-
terpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio.
Ciò che colpisce, nell’articolazione della lezione divina, è, in
ogni caso, soprattutto il punto (iii) del programma, che risulta nel
contesto meno scontato: comunque si intenda, infatti, la direzione
del viaggio cantato nei versi parmenidei, indiscutibilmente la sua
meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che presuppone, con
l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può mani-
festare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la
compiuta (εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza
(ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore fermo») di Verità è (naturalmente e tradi-
zionalmente) contrapposta alla debole (οὐκ ἀληθής, «non reale
156
Si tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro
nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei cui
frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide
chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis.
157
Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante
εὐπειθέος («ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto
Empirico e Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni,
di cui diamo notizia in nota al testo greco.
292
[genuina]») «credibilità» (πίστις) riconosciuta alle βροτῶν δόξαι:
«nondimeno», a proposito di queste opinioni, il poeta apprenderà,
dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle opi-
nioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano
da intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamen-
te), considerandole «tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς
πάντα περ ὄντα), in altre parole riconducendole rigorosamente alla
«via di ricerca» lungo la quale è effettivamente possibile procede-
re (B2.3).
Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al
kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ) che lo introduce
sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una
nuova consapevolezza della realtà 158. A tale scopo non è sufficien-
te (almeno non per la formazione del kouros) conoscerne
l’essenza e dunque prendere coscienza della genesi delle opinioni
erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli uomini e a rivaleg-
giare con altri presunti sapienti, è necessario saper affrontare i
contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come invece molti
sostengono 159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata
dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e
la verità e le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie
dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in con-
seguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità. Ciò che, in-
vece, risulta originale nella rivelazione della Dea del poema, a di-
spetto della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere divino,
è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una
realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e ar-
ticolata esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος,
B8.60) dei fenomeni naturali. La comunicazione dell’anonima di-
vinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto tradizionalmente
considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia
l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in
questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il qua-
dro cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea.
158
Robbiano, op. cit., p. 77.
159
Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2.
293
Verità e opinione
Sul programma introdotto dalla dea innominata in conclusione
del proemio (vv. 28-32), possiamo ancora osservare come, a livel-
lo espressivo, l’articolazione su cui abbiamo insistito emerga
chiaramente nelle scelte verbali:
294
li»160 e soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato
dalla comune radice (δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως.
Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo
δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare», «supporre»,
sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di
«apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an object-
oriented sense. Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al
primo valore e alla sua «funzione criteriologica», il ricorso al
termine δοκοῦντα rivela piuttosto le implicazioni oggettive di (b),
nonostante la derivazione da δοκέω lo renda irriducibile a una
«funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι). In
δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio co-
me «plausibilmente») troveremmo allora coinvolta l’idea di valu-
tazione e accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ
δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio) «le cose ritenute ac-
cettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma l’avverbio
δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di
«realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare
all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno
effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra tradu-
zione). In ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate
come non fededegne - non rappresentano mere impressioni ma
punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha evidentemen-
te senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di
vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea.
Gli ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di
quelle confuse assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in
questo caso Parmenide impiega non il termine δόξαι ma τὰ
δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in essi sono accolte.
A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente controversa)
espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo
reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non
160
In funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare
τάδε, non ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede.
161
Op. cit., pp. 195 ss..
295
quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quel-
la di proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mo-
strare come «le cose accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto
(«era necessario\opportuno», con possibile valore di irrealtà) es-
sere intese nella loro totalità come ὄντα (esistenti), in altre parole
considerate alla luce della Verità, ovvero come genuina realtà.
La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali
(δοκοῦντα, ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos
di natura enciclopedica, suggeriscono di considerare positivamen-
te il terzo punto del programma della dea, ben distinto dal secon-
do (che riceve indiscutibilmente una connotazione negativa), di
cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali:
(i) il contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose
che accogliamo sulla base della esperienza;
(ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle forme in δοκ),
il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa attraver-
so l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato i-
naffidabile.
La Dea procederà quindi:
(i) in primo luogo, a introdurre quella verità di cui è esplicita-
mente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta delle premesse
(B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la strut-
tura della realtà (B8);
(ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla scorta della
forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e impos-
sibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le
cose e il loro divenire;
(iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione coerente
con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo»
(διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera.
In questo modo, il poema contiene, complessivamente, la rive-
lazione di tutta la Verità: della sua natura intrinseca («cuore fer-
mo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e della sua
adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmeni-
de si riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella ri-
velazione si sovrappongono: la meditazione della «parola»
(μῦθος) della Dea, che segnala la traccia che conduce ad Ἀληθείη,
296
assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli errori comuni tra gli
uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della sua e-
sperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione)
hanno lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la
logica del poema): la realtà, manifestata nella sua unitotalità es-
senziale dall'intelligenza, e nella pluralità dei processi naturali
dall’esperienza.
La scansione di tale programma nei moduli della tradizionale
istruzione poetica è significativa: lo scarto tra sapere umano e sa-
pere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto ai li-
miti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi
e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazio-
ne didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità
dei loro due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivol-
ge impassibile (logicamente coerente e inattaccabile) all’essere,
alla totalità razionalmente afferrata nella sua omogeneità e identi-
tà ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e per lo
più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condan-
nare le distorsioni e produrre – con la lezione divina – una consa-
pevole mediazione.
Per via
Prima di concludere l’esame del proemio e dopo averne consi-
derato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno
ritornare riassumere i nostri risultati.
Parmenide compone nei moduli della tradizione epica, evo-
candone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in parti-
colare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica
ma anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcai-
ca (sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste
sull’eccezionalità della propria esperienza, sia per gli auspici che
ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana, sia,
infine, per l’incontro con la dea rivelatrice: ciò comporta, da parte
sua, valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag-
297
gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la dea innominata ci
informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire tale
percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Di-
ke e Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque,
non è casuale, accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il
poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio, θυμός),
forse di una iniziazione (come rivelerebbe, in particolare, l’uso
della espressione εἰδὼς φώς).
La lezione della Dea non si limita a manifestare la Verità (di
cui rileva la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un
mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche a dar conto del
mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per de-
nunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione ade-
guata, coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annun-
ciata (l'essere). I modelli e i temi interessati suggeriscono che la
comunicazione di verità, certamente centrale nei frammenti di-
sponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse l’elemento in-
torno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della esperien-
za umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra sog-
getto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e
B8) 162 . La formazione alla verità porterà il kouros a vedere il
mondo in una prospettiva lontana dalla quotidianità, ma soprattut-
to a scegliere diversamente dalla società163.
162
Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op. cit.,
pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente la
prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di fuori
dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero, fare
vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva
comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda,
ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune
quotidiano.
163
È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche Chiara
Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo punto: la
ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea, sarebbe il
risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e dunque
soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo stesso
tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una trasformazione
298
Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che conduce
alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza gior-
no-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di
itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come
vuole Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il vi-
aggio verso la divinità è comunque destinato a un impatto che sa-
rebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto il profilo cono-
scitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è de-
cisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per
come consentirà di condursi nell’esistenza: questa è forse la ra-
gione della scelta comunicativa di Parmenide, con le sue poten-
zialità performative (la recitazione) e le allusioni a esperienze (ri-
velazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per la loro inciden-
za esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con riferi-
menti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di
scorta, e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere
all’incontro con una dea (che potrebbe essere Persefone) la quale
introdurrà la propria rivelazione (B2) con l’evocazione
dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato
a scegliere.
del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della comprensione, ma
anche - alla fine del viaggio - il soggetto ( p. 37).
299
LE VIE E LA VERITÀ [B2]
Dire, ascoltare
La continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva
della comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano
lo scarto tra il ruolo della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione
(l’ascolto attento) del poeta (κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura
1
Ricordiamo che, nella cesura di B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede
come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla
stessa materia con l'espressione Πειθοῦς κέλευθος.
2
Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa
da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7.
3
Per esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch,
herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung
Tusculum, Artemis & Winkler, Zürich 19953.
4
Per esempio Leszl, op. cit., p. 85.
300
della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il
canto, nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu»)
impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto
da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu a-
scolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta del viaggio (infero),
non sono riservate privilegiate visioni o rivelazioni immediate; lo
attendono, invece, parole, di cui si raccomanda l'ascolto5. La sua
ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole con cui
la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in
cui risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto 6. Un
solo impegno è stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola:
«è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι).
Come sarà sottolineato in altro luogo (B7.5), l’espressione
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola una
volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del
messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la
sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta
del termine μῦθος, la «parola» divinamente ispirata del poeta, la
parola che veicola, attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dun-
que sancisce, a un tempo, il vincolo di dipendenza del mortale
dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del poeta, la sua
peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7.
5
L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90.
6
Ivi, p. 79.
7
Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama
Senofane, DK 21 B2.11-14:
e:
9
Ivi, p. 86.
10
Conche, op. cit., pp. 79-80.
11
La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a
dare ragioni a supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente
303
più sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con
la costrizione del logos.
Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che compone-
va all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni
sapere era radicato nella sfera della comunicazione divina 12, era
scontato rispettare la convenzione e fondare le premesse dei pro-
pri argomenti sulla parola della Dea.
ἐδιζησάμην ἐμεωυτό
ho indagato me stesso (DK 22 B101),
14
Mourelatos, op. cit., p. 68.
305
Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ
di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si
accompagna.
15
Leszl, op. cit., p. 124.
16
Robbiano, op. cit., pp. 81-2.
306
Ma il testo pone anche il problema della resa di νοῆσαι: gene-
rico «pensare», o, secondo l’uso arcaico, «apprendere, conosce-
re»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpreta-
tiva: «pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'u-
nicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammet-
tere, oltre alle razionalmente legittime, anche «le vie
dell’irrazionale» (illuminazioni, rivelazioni, ispirazioni ecc.), ille-
gittime agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti
del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire.
D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte
νοεῖν con «apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla
conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la com-
prensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente):
17
Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta
per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp.
69 ss..
18
Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77.
19
Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Ox-
ford 2009, pp. 146-147.
307
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è
una via genuina).
20
Germani, op. cit., p. 189.
21
Op. cit., pp. 72-3.
308
in quanto (b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di
B6 preciserà (letteralmente):
309
Per pensare
Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è opportu-
no, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle im-
plicazioni dell’annuncio della Dea:
22
Come ricordato in nota al testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmeni-
des”, cit., p. 147) ha sostenuto che δίζησις costituirebbe «equivalente
poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»).
310
all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella sua diffusa distor-
sione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane, in ef-
fetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottoli-
neato a proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione
dall’omerico δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore parados-
so. Secondo una corrente interpretazione dei primi versi del pro-
emio, la Dea è stata raggiunta a conclusione di un viaggio lungo
la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον) che conduce
«l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui
attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuo-
vo) percorso per conseguirla 23. È questo decentramento della veri-
tà dalla Dea che giustifica, per esempio, la lezione di Unterstei-
ner, il quale fa coincidere la verità con la via stessa.
In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il riferi-
mento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale
per coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a
partire dalla comprensione delle implicazioni di due enunciati di-
vini, insistendo sulla centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι:
tale comprensione risulterà ugualmente vincolante per la Dea e
per i «mortali» (manifestando un decisivo, comune denominatore
razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio argomentativo di
alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8, par-
zialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per
istruire il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare
l’oggetto intorno a cui verte il discorso, indicato dallo stesso Par-
menide (nella formula più astratta) come τὸ ἐόν.
23
Ruggiu, op. cit., p. 211.
311
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3)
L'una - l’altra
Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due op-
posizioni, cariche di significato in forza delle reciproche introdu-
zioni (nel primo caso - B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo implicito in αἵπερ ὁδοὶ
μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente collegate,
312
anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una puntua-
le correlazione.
Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano e-
spressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), ma
soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli e-
nunciati, che possiamo rispettivamente articolare nei due emisti-
chi dei versi 3 e 5, quindi:
24
In modo coerente per esempio Cordero.
25
Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato.
26
Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in
realtà con valore interrogativo: «come una esista e che non è possibile che
non esista» (p. LXXXVI).
313
quanto quella proposta da Ferrari 27, almeno per quel che con-
cerne la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce
l'idea delle diverse prospettive di ricerca.
Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato se – co-
me è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ
ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo co-
sì:
27
Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss..
28
Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43.
29
Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente vero,
l’altro necessariamente falso.
30
Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi, ma potrebbero essere entrambi
falsi.
314
Heitsch) l’intenzione di Parmenide di esprimersi attraverso alter-
native esclusive (quindi in termini di espressioni incompatibili)31.
In questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco con su-
bordinate implicite:
È - non è
Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in
greco, di un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le
principali lingue moderne richiedono che esso sia in qualche mo-
do esplicitato, la traduzione del testo ha sopportato svariati tenta-
tivi di completamento: dalla scelta dell'assoluta indeterminatez-
za33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35
31
Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71.
32
Heitsch rende ancora più esplicitamente questa situazione:
Der eine, (der da lautet) «es ist, und Sein ist notwendig»
Der andere, (der da lautet) «es ist nicht, und Nicht-Sein ist
notwendig».
33
Tipicamente Calogero.
34
Fränkel.
35
Si tratta della soluzione più frequente.
315
(it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la Verità38, il mondo rea-
le39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese - «whatever can
be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il
primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire into» 42.
Da un punto di vista filologico l’ipotesi di una lacuna relativa
al soggetto - azzardata per esempio da Cornford 43 e Loenen44, i
quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι (qualcosa) –
appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio, infatti,
presentano lo stesso identico testo 45 e l’operazione sul verso ri-
sponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Par-
menide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in
questo passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può esse-
re in questo senso provocatorio il suggerimento della Wilkinson,
la quale, in considerazione della naturale destinazione recitativa
del poema, considera l’assenza di un soggetto definito per ἔστιν
come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la
formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per
l’audience di Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o
come soggetto esso stesso) fosse una novità46.
D’altra parte, l’esame del frammento consente di individuare
un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie»
comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottoline-
a:
36
Tipicamente Cornford.
37
Untesteiner.
38
Verdenius.
39
Casertano.
40
Burnet.
41
Russell, Owen.
42
Barnes.
43
F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan Paul, London
1939.
44
J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A Reinterpretation of
Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959.
45
Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni
di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un
millennio.
46
Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss..
316
οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν -
οὔτε φράσαις
non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile),
né potresti indicarlo (B2.7-8),
47
Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5-
6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda
anche Coxon, op. cit., p. 177.
48
Op. cit., p. 175.
317
soggetto sottinteso 49 in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si
passerebbe, in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio
ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come
vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50.
La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito
soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moder-
no, spesso costretto a ricorrere al pronome neutro come mero
soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in risalto nei versi
(per il lettore), ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore)
l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν)52, una ricorrenza insistente nel
poema53. L'«impertinenza linguistica» di Parmenide 54 si sarebbe
concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta
all’ambiguità, per la rottura dello schema sintattico soggetto-
predicato verbale, e l’uso (di conseguenza incondizionato) della
terza persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto di richia-
mare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita nel linguag-
gio ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo as-
soluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato),
ἔστιν esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57 della realtà,
49
Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis,
Cassin, Aubenque, Ruggiu.
50
O’Brien, op. cit., p. 164.
51
Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79.
52
Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ
εἶναι.
53
Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94.
54
P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpreta-
tion, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35:
l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe
in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del
verbo «essere».
55
R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89.
56
Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit., pp.
61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν»
con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire
dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un
soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι).
57
R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93.
318
presupposto in ogni affermazione 58. Per questo l’aggiunta di un
pronome indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuando-
la) la radicalità dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto
essere intesa come veicolo dell’originario stupore per, della pri-
mitiva attenzione al «fatto d’essere». Nella lettura che proponia-
mo, infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe se-
guire, con una sequenza verbale ad effetto 59, οὐκ ἔστι μὴ εἶναι,
cioè l’estrazione e l’affermazione (attraverso la doppia negazione)
di εἶναι.
Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come
segnalato da Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il
contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque quello
della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di
percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà:
Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sot-
tesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è
possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente):
58
In questa prospettiva, è forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata
da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del
Passato», cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento
logico e verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La
Nuova Italia, Firenze 19772, pp. 20-2).
59
L’effetto musicale in greco della sequenza verbale in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ
ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile in traduzione,
mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι.
60
Riflessione intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op.
cit., p. 60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato
essenziale di un soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la
realtà della cosa: Mourelatos, op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in
greco, il linguaggio quotidiano indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit.,
p. 60.).
319
che è», ἐόν/ὄν), ma richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν,
εἶναι) di quegli enti61.
61
Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo cui l’ἐόν di
Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla
espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν.
62
Seguendo l’esempio di O’Brien, op. cit., pp. 170 ss..
320
[…] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν
che senza nascita è ciò che è e senza morte (B8.3),
63
Che certamente comporta valore esistenziale.
64
In realtà per B8.3 la situazione è più complicata, in quanto il testo greco
potrebbe rendersi diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»;
«essendo ingenerato, l’essere è anche indistruttibile».
65
O’Brien, op. cit., p. 177.
321
di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile
(poiché non è
via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale
(B8.15-18).
La via (ὁδός) che pensa che «non-è [e che è necessario non es-
sere]» è abbandonata, in quanto «impensabile [e] inesprimibile»,
perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di «sentiero
del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovve-
ro «indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece
«deciso» (κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia rea-
le\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι). Se in B2, nell’economia della
lezione divina, è essenziale soprattutto focalizzare l’attenzione sul
valore decisivo della espressione verbale ἔστιν, preparando il ter-
reno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione del-
le «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistema-
tica applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica e-
sclusione della seconda.
La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la se-
conda lo nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza
l’affermazione con la negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι), ovvero della possibilità del non-essere. La seconda via as-
solutizza la negazione affermando la necessità del non-essere (ὡς
χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito (e in-
condizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, vie-
ne implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della
ricerca (ἐόν, εἶναι); con la seconda, che nega quanto la prima af-
ferma, viene, di conseguenza, delineato l’oggetto alternativo, ra-
dicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν, dichiarato al v. 7
come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla manifestazione.
In B6.1-2a:
322
è necessario il dire e il pensare che ciò che è è: poiché
è possibile essere,
il nulla, invece, non è.
323
Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si debba attribui-
re la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle «opinioni
dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da
Mansfeld 66 . L’identificazione della seconda via con quella del
mondo dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è
ancora connotata in B8.17-18:
66
Op. cit., p. 55.
324
spetto dell’alternativa concettuale prodottasi, la consistenza dei
punti di vista umani.
D’altra parte, il motivo dell’intransitabilità della seconda via è
non il suo carattere contraddittorio - come accade appunto nel ca-
so della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che nulla sanno»
(βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si fingono
-, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è,
né potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata
(con la negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che
pensa «che non è e che è necessario non essere» è «percorso»
(ἀταρπός) assolutamente privo di contenuti, e quindi indicato
come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena consistenza dei suoi con-
tenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per pensare»
(cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui
soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32),
ma già implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di
B2, come formula contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν.
Si è detto67 che l’unico modo per rispettare il valore oppositivo
delle vie che la Dea propone è di mantenere lo stesso soggetto per
entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di pensiero di
Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia intrave-
dere.
Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura e-
spressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con
la contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile
non essere», ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per
l'estrazione della nozione positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovvia-
mente ciò che è in senso pieno e necessario, il soggetto ontologi-
co di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in
questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος).
Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ
ἔστιν) di quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa
formula modale («è necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ
εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν, marcandone subito l'in-
67
Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221).
325
disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza:
non è «cosa fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il non-
essere» (τό μὴ ἐὸν).
Il percorso di Persuasione
La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è accompagnata da
due rilievi.
Relativamente alla via «che è e che non è possibile non esse-
re», la Dea osserva che:
326
L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante per-
ché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzial-
mente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razio-
nale del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva)
scoperta della realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da
un lato conferma l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e dis-
velamento (non-nascondimento), dall’altro accentua gli aspetti di
attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo della “co-
gnizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ
λόγῳ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν.
La realtà (Verità) è obiettivo del percorso di Persuasione (che
a Verità, osserva la Dea, «si accompagna», ovvero «tien dietro»,
ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento, conoscenza e
discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui svela
la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con
intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è
[possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo
più volte rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza
l'alternativa, seconda via (B2.6-8):
Poche righe sotto (532 d-e), Glaucone invita Socrate a determinare la natura
della dialettica:
Ciò-che-non-è
È in questo contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν
(participio sostantivato). Nella cornice di un processo di indagine
che evoca il tradizionale motivo omerico del viaggio 71, la precisa-
zione è netta: il ricercatore che pretendesse lasciarsi guidare
dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe
propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensa-
re «che non è e che è necessario non essere» non porta da nessuna
parte: nemmeno la guida divina può tracciare concretamente tale
via, portando a casa un risultato conoscitivo:
71
Mourelatos, op. cit., p. 76.
328
ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale
percorso può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a dif-
ferenza dell'altro): la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni
o i criteri della via72.
Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in
assoluto possibile («cosa fattibile») conoscere, ovvero determina-
re «ciò che (necessariamente) non è», solo la prima via, che pensa
e afferma «che è e che non è possibile non essere», che muove
dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di estrarre
dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà
(donde il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ
ἐὸν). I dati fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere so-
no dunque:
(i) l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprende-
re]» (in questo senso esse sono appunto designate come ὁδοὶ
μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per pensare» ne specifica la na-
tura);
(ii) la loro reciproca incompatibilità (sottolineata dal ricorso
combinato alla negazione e alle formule modali - su cui ancora tra
breve);
(iii) l’impercorribilità della seconda via: non è possibile cono-
scere o indicare «ciò che non è»;
(iv) la loro (conseguente) natura ontologica, ovvero, propria-
mente, il loro annunciare opposti modi d'essere: la modalità
dell'essere necessario e quella del necessario non-essere73.
B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per «non-
essere», probabilmente dandone per scontata l’immediata eviden-
za per il lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò
induce ad anticipare le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo
senso, l’argomentazione di Parmenide appare sollecitata dalla
preoccupazione di istituire e fondare la contrapposizione tra τὸ ἐὸν
(«essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando (a) la loro reci-
proca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere, così da
72
Ivi., p. 78.
73
Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive Palmer, op. cit., pp. 83 ss..
74
Leszl, op. cit., p. 105.
329
concludere (letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta ricono-
scere, con Cordero75, che l'assolutizzazione del concetto di «esse-
re» è ottenuta da Parmenide attraverso la negazione della con-
traddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico del poe-
ma (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄
οὐκ ἔστιν: «è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è
così proposto contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul
non-essere: «non è [possibile] non essere».
ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
l’altra [che pensa] che non è;
75
Op. cit., pp. 64-5.
76
O’Brien, op. cit., p. 182.
330
la seconda coppia (b):
79
Ivi., p. 220.
332
PENSARE ED ESSERE [B3]
1
Tarán, op. cit., p. 41.
2
Il contesto di Clemente riporta:
333
so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più tormentate dal
punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il rischio di
fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4.
La collocazione
Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per
lo più operato in due direzioni, che appaiono legittime:
(i) ricondurlo a complemento di B2.7-85 e quindi proporlo a
sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo cui il non-essere non può
essere né indicato né conosciuto 6;
(ii) proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare
oggi propone Cordero7, con argomenti convincenti.
B3 e B2
Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metri-
ca e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e
εἶναι – sono chiaramente correlati nella prospettazione delle due
vie («le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza
l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a
vertere la seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e
indicato. B3, dunque, non farebbe che esplicitare il nesso identita-
4
O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra parte il senso della citazione di Proclo (Theol.
plat. I, 66) appare indiscutibile:
9
Heitsch, op. cit., p. 144.
10
Conche, op. cit., p. 87.
11
Guthrie, op. cit., pp. 17-8.
12
Leszl, op. cit., p. 67.
13
Cerri.
335
«conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente fun-
zioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto
con «conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il ricono-
scimento, la capacità di penetrazione intellettuale 17.
14
Heitsch.
15
Sellmer.
16
Coxon.
17
Leszl, op. cit., p. 68.
18
Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83.
19
Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero.
20
Come si vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso.
21
Cordero utilizza la versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei
manoscritti di Proclo.
336
non troverai il pensare22.
Da B2 a B3
Mantenendo aperte le due prospettive e dunque collocando B3
concettualmente tra B2, B6 e B8, il frammento andrebbe temati-
camente inquadrato tra l’esclusione della concreta possibilità di
riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via «che
non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla
precedente («che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per
il pensiero e il linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabi-
lire se B3 fosse effettivamente parte di un argomento ovvero, co-
me sopra abbiamo prospettato, semplice precisazione a sostegno
della tesi di B2. Certamente in B8 l’implicazione tra pensiero
22
Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero.
23
Cordero, By Being, It Is, cit., p. 85.
24
Ivi, pp. 88-9.
337
(νοεῖν, con il suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita
in una cornice argomentativa.
Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente,
Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225.
In altre parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione
dell’identità di pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemen-
te dalla discussione sulle «vie di ricerca» 26. Plotino, in particolare,
mostra di intendere B3 chiaramente nell’orizzonte di B8, insi-
stendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere e sulla posi-
zione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva
l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal
senso proprio B8.
Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos
di Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito la te-
stimonianza di Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere
il nesso tra B2 e B3:
Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi conten-
gono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide:
25
Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73.
26
Coxon, op. cit., p. 179.
338
Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide
stesso queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre
l’essere non è ed è nulla, che è la stessa di quella che dice
che l’essere si dice in un modo solo, le troverà in questi
versi [B2.3-8].
27
Mansfeld, op. cit., pp. 78-9.
28
Ivi, p. 73.
29
Ivi, pp. 82-4.
339
Solo l’essere può essere oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Par-
menide avrebbe introdotto qualcosa che manca nella enunciazione
della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la cui
conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via –
che è e che non è possibile non essere – è per pensare»).
L’introduzione del soggetto τὸ ἐόν sarebbe giustificata proprio da
B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a rilevare l’impossibilità
(«non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la seconda via,
designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare im-
mediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in
cui essere e pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La
Dea allora sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista
è una evidenza: l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in
B8.34 ss. con una più articolata riflessione).
Essere e pensare
Nella nostra traduzione abbiamo scelto di mantenere la struttu-
ra sintattica più naturale del verso greco, cercando, allo stesso
tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide didascali-
camente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammen-
ti) risultato dell’argomento delineato in B2:
(i) da un lato per marcare il nesso tra νοεῖν e εἶναι e la sua na-
tura intellettuale - così preparando la nota discriminante rispetto
all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte esperienze» (B7.3);
(ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul conte-
nuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν).
Il pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri
empirici; un’attività in cui si è semplicemente chiamati a ricono-
scere un'evidenza: che – pur considerando la possibile alternativa
– per pensare e conoscere la verità c’è una sola via da percorrere.
Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3 sottolinea lo stretto
rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che effettivamente
è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo impo-
340
sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι). La
via (o il metodo) è concepita come la via del discorso ( λόγος) che
ha l’essere (ovvero la realtà) come contenuto 30.
Quale identità?
Nel suo commento Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione
dei due verbi, «stranezza apparente» e «sinteticità paradossale»:
νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che viene reso come
«capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo sarebbe
dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse
sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’
identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo.
Ruggiu sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità,
32
30
Leszl, op. cit., p. 64.
31
Op. cit., p.193.
32
Op. cit., pp. 233 ss..
33
Thanassas, op. cit., p. 39.
341
tica è un’evidenza basilare, implicita nella impostazione di B2,
espressa in termini astratti, generali, con due infiniti. Il verbo
νοεῖν non è più assunto a designare genericamente un'operazione
intellettuale, ma connotato specificamente per veicolare un atto di
riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro degli al-
tri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare
quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un
pensare che sia riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere.
Ma nell’identità accennata da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce
semplicemente alla connessione tra pensare e essere, ma soprat-
tutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve avere
come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manife-
stato nel pensiero. In apertura di una comunicazione di verità,
questa osservazione è capitale: pur prospettato (più avanti, in
B8.34) come «causa del pensiero» (Cordero), l’essere deve svol-
gersi completamente davanti al pensiero 34, deve essere pensabile
(il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di vista
della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere
che la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto
ai propri discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere
assoluto35.
34
Conche, op. cit., p. 90.
35
Ibidem
342
tendendolo come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι ab-
biamo individuato la forma verbale con cui Parmenide esprime
l’evidenza presupposta per ogni attività di pensiero: quanto pos-
siamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere.
Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di
νοεῖν. Mentre in apertura della propria comunicazione la Dea sal-
da l’alternativa delle «vie di ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo,
sono «le uniche per pensare»), dunque collegando al verbo non
solo la via positiva, ma anche quella negativa - non solo quella
che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che
(non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del
nostro frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirit-
tura si afferma che pensare ed essere sono la stessa cosa. In che
senso, allora, è possibile sostenere la relazione tra νοεῖν e la via:
«che non è»?
Abbiamo già osservato in sede di traduzione come i curatori
delle edizioni dei frammenti abbiano spesso optato per determina-
re νοεῖν in modo da evitare di renderlo genericamente come «pen-
sare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di non deci-
dere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno spe-
cifico (comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un
po’ forzata. Secondo Leszl 36 , invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν
come atto puramente intellettuale (implicitamente da contrapporre
all’immediatezza del riscontro sensibile), che coglie l’alternativa
delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale atto, tuttavia,
sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di intellezione
immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento
(intuitivo) della validità del principio del terzo escluso.
In attesa di trovar sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale
carattere della facoltà indicata come νοεῖν - la capacità di rendere
presente qualcosa che può essere lontano nello spazio e nel tempo
-, possiamo provvisoriamente concludere che:
36
Op. cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι)
come «quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi
attribuendo a noēsai valore passivo.
343
(i) νοεῖν è inizialmente introdotto in relazione alle «due vie di
ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per pensare») - evi-
dentemente designando un atto di comprensione che dà senso
all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco,
come loro condizione di possibilità («le uniche da pensa-
re\pensabili»), quindi accentuandone il significato logico;
(ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente contrapposto ai sensi
– riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per pensa-
re», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in
grado di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione;
(iii) νοεῖν è dunque attività che si spinge oltre l’immediato sen-
sibile, nel nostro contesto probabilmente oltre la complessità dei
dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro comune deno-
minatore (fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto
d’essere (condizione del pensare stesso) e la nozione (opposta) di
τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto designarne la facoltà come
«penetrazione intellettuale»37.
D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato su εἶναι o ter-
mini connessi: le vie sono determinate come «l’una che è (e che
non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e che è necessario
non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso co-
me «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è
sovrapposto a εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν
corrispondono dunque la profondità e comprensione della nozione
di εἶναι, che appare designare, nel contesto, analogamente al ter-
mine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo come «la re-
altà», ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano
«essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre pre-
supposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce
come proprio oggetto specifico e condizione appunto questo pre-
supposto, questa realtà.
37
Ivi, p. 68.
344
ENTI ED ESSERE [B4]
1
P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an Implication”,
«Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6.
2
U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt
a.M. 1969.
3
In questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie
chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima
edizione della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008),
ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42).
4
Op. cit., p. 245.
345
(i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del
frammento;
(ii) il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e
l’ulteriore implicazione tra gnoseologia e ontologia;
(iii) i possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi po-
lemici (vv. 3-4).
346
lontani 5 . La prospettiva appare certamente gnoseologica, inve-
stendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente caratte-
rizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il
pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere
«con gli occhi» (τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione
troviamo anche l’indicazione di oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per
l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento a τὰ μέλλοντα,
«le cose a venire») da quelli immediatamente colti sensibilmente:
si osserva, infatti:
5
Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il
contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie: Réflexions sur le
sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur Parménide, cit., t. II,
pp. 69-101.
347
È chiaro come la possibilità di pensare (rappresentare) cose as-
senti o lontane come presenti o prossime passi attraverso la con-
sapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e supera,
nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul pi-
ano empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguar-
do altro rispetto a quello dei sensi, in grado di superarne le di-
scriminazioni alla luce di una realtà che solo l’intelligenza stessa
dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga un verbo –
λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio ome-
rico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di chia-
rezza, luminosità, trasparenza 6. Un verbo che può essere diretta-
mente messo in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di
«chiarire con il pensiero [l'intelligenza]».
I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla curvatura gno-
seologica che il contesto della citazione di Clemente implica, sen-
za tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza
imporre, in particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visio-
ni, sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato la Ste-
mich, sottolineando come in λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coin-
volti entrambi gli elementi 7 . Possiamo inoltre marcare come il
frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria dei
due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma
semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla real-
tà: l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione
dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato
(che traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospet-
tive, una soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia
del poema sono accentuate come «opinioni dei mortali» e «Veri-
tà»).
È nostra convinzione (che presuppone una complessiva inter-
pretazione del pensiero di Parmenide) che proprio da questo
frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo alla
capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato
6
Viola, op. cit., p. 80.
7
Stemich, op. cit., p. 178.
348
empirico, raccogliendone pluralità e differenze nella unità e com-
pattezza dell’Essere. L’uso del plurale ἀπεόντα-παρεόντα, quindi
del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόντα-
παρεόντα siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la
compattezza (nell’Essere) di tutti i suoi momenti 8. Elementi che
puntano in direzione della seconda sezione del poema.
I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad associare a νόος (e
νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni:
(i) superare i vincoli spazio-temporali “presentificando” la plu-
ralità dispersa (spazio-temporalmente), rappresentando presenti
«cose assenti»;
(ii) cogliere la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι)
in τὸ ἐόν (ovvero il fatto che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν).
La seconda operazione è propriamente “ontologica”, nel senso
che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la molteplicità espres-
sa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si è vo-
luta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla
presenza dell’essere9. Lo spessore gnoseologico (ed epistemologi-
co) del passaggio consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il
νόος è riferito, direttamente 10 o indirettamente 11 , è diverso dagli
oggetti molteplici ai sensi (senza tuttavia trasformarsi in una enti-
tà che neghi la molteplicità del mondo 12): li abbraccia e li racco-
glie interamente, senza dislocarsi su un piano di realtà altro.
Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che
si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente,
senza la sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto
intellettuale, che ha per oggetto qualcosa che si impone
8
Ruggiu, op. cit., p. 241.
9
Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336.
10
Se accettiamo che ἀποτμήξει sia terza persona singolare dell’indicativo
futuro, con νόος appunto soggetto sottinteso del verbo.
11
Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente anche Palmer e Tonelli)
lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro indicativo medio, e la
Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non ostacolare la connessione di
τὸ ἐόν.
12
Thanassas, op. cit., p. 43.
349
all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del
passaggio: il movimento dalla assenza alla presenza rivela che
l’uomo è comunque radicato nel mondo, legato allo spa-
zio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che verte sulle «vie
di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» ( Πειθοῦς
κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato di-
namicamente, attraverso quel movimento, che porta con sé anche
la potenzialità del suo errare 15: la sua conoscenza è esposta alla
distorsione.
È possibile che l’operare del νόος riceva ulteriore significazio-
ne dall’accostamento a λεῦσσω, che Omero utilizzava per indicare
la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per
comprendere il presente 16 . Una capacità associata alla maturità
dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei
giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella rela-
zione didascalica tra θεά e κοῦρος.
«…saldamente presenti»
13
Op. cit., p. 68.
14
Couloubaritsis, op. cit., p. 340.
15
Viola, op. cit., pp. 94-5.
16
Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7.
350
Effetto dell’operare del νόος è la solidità della connessione de-
gli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate spazio-temporali, e
il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere ( τὸ
ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte,
illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta
di introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν17. Alla
luce di B3, esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio
βεϐαίως veicolerebbe allora l’idea di stabilità, costanza, caratteri-
stica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto), ma suggerirebbe pure qualco-
sa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della verità: la cer-
tezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un modo
di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e
pieno di fiducia18.
Dal momento che manca una specifica argomentazione a so-
stegno della affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven,
West, Gallop) hanno messo in relazione B4 con B8.22-5:
17
Viola, op. cit., p. 100.
18
Robbiano, op. cit., p. 130.
351
cazioni cosmologiche, la funzione di B4 potrebbe essere stata
prolettica, nella introduzione del discorso della Dea, che poi B8
avrebbe articolato e precisato. È significativo che nella sua prima
edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato, Diels
proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzial-
mente della prolusione divina. Rimane comunque l'impressione
che il frammento possa aver svolto, nell'economia dell'esposizio-
ne divina, un ufficio di raccordo, tra le due sezioni, analogamente
a B9.
In alternativa, valutando soprattutto il contesto della citazione
di Clemente e la sua intenzione di marcare la differenza tra visio-
ne percettiva e visione spirituale, e convenendo con Coxon 19 che
Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura
dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in
B8.22-5), ma alla natura del νόος come capacità intellettuale, po-
tremmo ipotizzare il posizionamento di B4 in relazione ai rilievi
di B6 e B7 sui rischi della «abitudine alle molte esperienze» ( ἔθος
πολύπειρον).
19
Op. cit., p. 187.
352
non impedirai, infatti, che l'essere sia connesso
all'essere,
né disperdendosi completamente in ogni direzione per
il cosmo,
né concentrandosi (B4.2-4).
Il noos e il cosmo
Che egli possa aver imboccato – tra i primi - questa seconda
direzione, è suggerito dai passi paralleli - segnalati dagli editori -
in Empedocle (B17.18-21; riferimento già in Clemente) e Anas-
sagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è indiscutibilmente
centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide:
353
Nel suo commento a B4, Cerri ha invece richiamato
l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per Ales-
sandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore
genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembra-
no effettivamente riecheggiare i versi parmenidei:
20
Rivendica la paternità aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul
cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996.
354
più belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose
fosse in sommo grado congenere alla propria natura e
massimamente conveniente. Infatti, poiché non era
possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la
terra e contemplare quelle sacre regioni, come follemente
tentarono gli Aloadi, l'anima, mediante la filosofia, preso
l'intelletto come conduttore, varcò il confine e abbandonò
l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che
non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa
riunì insieme nel pensiero, con facilità, credo, perché
riconobbe le cose che le sono congeneri e con il divino
occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli
uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella
misura in cui era possibile, far partecipi senza restrizione
tutti gli uomini dei suoi tesori21.
21
Ivi, p. 175.
355
συνεφόρησε) richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως
ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione è che i versi del
Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e vicine, as-
senti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero chiaramente signi-
ficativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo (Empedocle,
Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché e-
strapolati dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in
quel senso andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo
(come si evincerebbe in particolare dalla ripresa peripatetica, che
risente tuttavia della lezione aristotelica).
La possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla
dinamica di concentrazione-dispersione (eco plausibile della co-
smogonia di Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della
funzione omogeneizzante del νόος potrebbero suggerire ancora
una posizione introduttiva del frammento rispetto alla revisione
cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di
B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisico-
cosmologica della seconda sezione.
Disperdendosi, concentrandosi
I versi 3-4 alludono a qualche specifico precedente cosmologi-
co-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un riferimento ge-
nerico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto: qualcu-
no, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teo-
ria di una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione
(Anassimene23, pur non escludendo il coinvolgimento polemico di
Eraclito DK 22 B9124); altri, come Guthrie25, ritengono Parmenide
22
Op. cit., p. 189.
23
Su questo concordano Reinhardt, Gigon, Albertelli.
24
Il frammento recita:
29
Ivi, pp. 8-9.
30
Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo del “terzo” milesio è uno degli
aspetti più interessanti dell’opera.
31
Ivi, pp. 113-147.
32
Ivi, pp. 148-162.
33
Ivi, pp. 182-5.
358
sensata e potrebbe aiutare a leggere correttamente anche il nostro
frammento. Da un lato, infatti, i versi attestano un ruolo del νόος
chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ
ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente im-
plicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano
(ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere,
per rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano compor-
tare, di fatto, accanto all’essere del principio\natura, l’implicita
ammissione del non-essere.
Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espo-
ne Plutarco, avrebbe sostenuto:
359
(i) come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8
e dunque degli effetti paradossali di una coerente riflessione onto-
logica rispetto ai dati del senso comune;
(ii) come trait d'union tra la sezione ontologica e quella co-
smologica, a sottolinearne la continuità, cioè nell’ambito di una
positiva interpretazione della φύσις sulla scorta della Verità, come
vuole Ruggiu34.
34
Op. cit., p. 251.
360
UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5]
1
È il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche.
2
Ovvero, ipotizzando una (improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe
essere accettato il suo inserimento tra i due riferimenti di Proclo.
3
Op. cit., p. 253.
361
sapere divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo
rivolto al κοῦρος e la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di
chi lo propone.
Conche4 ha giustamente messo in relazione il frammento con
il programma di insegnamento annunciato dalla Dea:
4
Op. cit., p. 98.
5
Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo coinvolgimento
all’interno di una (in vero implausibile) specifica argomentazione
geometrica.
6
Il frammento recita:
1
By Being, It Is, cit., p. 90.
2
Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8.
3
In questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide
da parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35):
364
che lo stesso Simplicio salda esplicitamente all’argomento onto-
logico successivo (B8). In effetti, il primo verso e il primo emisti-
chio del secondo sono richiamati dal commentatore, in altro con-
testo, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere:
365
ἐὸν (Simplicio: τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di
ricerca» di B2, che evidentemente aveva costituito il preliminare
oggetto di discussione nella parte mancante del primo logos della
Dea.
Come rivela l’ampio dibattito intorno alla traduzione del testo
greco e alla sua intellezione, il frammento è decisivo per determi-
nare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»; (ii) il numero
di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea.
In particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento
oggetto di contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ
εἰδότες οὐδέν («mortali che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a
due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere scriteriate»), che molti hanno
inteso come allusioni a Eraclito e seguaci, trovando nelle espres-
sioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale (come ab-
biamo segnalato in nota):
366
È necessario il dire e il pensare che ciò che è è; poiché
è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è possibile
infatti essere],
il nulla, invece, non è».
L’essere dell’ente
Il primo emistichio è costituito da tre blocchi testuali:
(i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo reso come «è neces-
sario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un passaggio
significativo della propria comunicazione, proposto come conclu-
sione di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ);
(ii) le due forme verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedu-
te da τό, con valore di articolo sostantivante («il [fatto di] dire»,
«il [fatto di] pensare»), ovvero, come crede qualcuno, di dimo-
strativo in funzione prolettica («dire questo e pensare questo:
….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge
due verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivela-
zione: νοεῖν richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre
λέγειν può collegarsi a φράζω (B2.6-8);
(iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio pre-
sente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovve-
ro «ente» o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e
dall’infinito dello stesso verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che
4
Per le costruzioni e traduzioni alternative rinviamo alle note testuali al
frammento.
367
abbiamo reso, come appare naturale, come proposizione infinitiva
(dichiarativa) retta da λέγειν e νοεῖν: si tratta della prima formula-
zione ambigua (per la multivocità del verbo essere) della tautolo-
gia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in negativo: da
una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il «ni-ente»
di cui si nega lo stesso essere).
Nel contesto la traduzione proposta appare plausibile, ed evi-
denzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo blocco: la scelta
di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità semanti-
ca della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per mar-
care l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe es-
sere quello – su cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di
Beaufret 5 e Conche 6 - di richiamare l’attenzione sull’εἶναι
(ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che è; ovvero, più semplice-
mente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza. È da tener
presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come:
7
Thanassas, op. cit. p. 45.
8
Ivi, p. 44. B4.1-2, B8.25, B8.47-8.
9
Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere di necessità logica che
Cordero attribuisce a χρή.
369
il nulla, invece, non è.
Essere, non-essere
Traducendo letteralmente:
370
(iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e
μηδὲν del secondo:
10
Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due codici (BC) di
Simplicio riportano τò εἶναι.
11
In questo senso la lettura della Germani, op. cit., p. 191.
371
Colli 12 , la via enunciata in B2.5 non era stata rifiutata con di-
sprezzo, perché volgare, come accade invece con quella formulata
a partire da B6.4.
Le altre due soluzioni, in fondo, non si allontanano concet-
tualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto dei
frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poi-
ché è essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'es-
sere di «ciò che è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del
nulla, del "ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno na-
turale) la Dea otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò
che è» è «essere» e non è «nulla».
Il faut dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est pos-
sible d’être,
il n’est pas possible que <soit> ce qui n’est rien.
12
Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E.
Berti, Adelphi, Milano 2003, p. 175.
13
O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I, p. 214.
372
non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν <
εἶναι >). Anche Mansfeld 14 opta per una (diversa15) resa potenzia-
le in entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur
riconoscendo ininfluente la traduzione con valore esistenziale di
B6.2a (come abbiamo scelto di fare). Parmenide potrebbe dunque
aver derivato, dall’affermazione della possibilità dell’essere e dal-
la negazione del nulla, la necessità che l'essere sia 16. Resta co-
munque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17 , per cui, attri-
buendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la
simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo.
Le due vie di B2 in B6
In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa de-
lineata in B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza)
del riconoscimento dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, esclu-
dendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di B2.7), teorico contenuto della via di
ricerca «non è ed è necessario non essere», esista. In pratica ci
troviamo di fronte a una riproposizione in positivo della conclu-
sione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie di ricer-
ca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς
οὐκ ἔστιν si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν
ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dun-
que, di adeguati soggetti logici.
14
Op. cit., p. 90.
15
Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann
nicht sein».
16
Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha osservato come l'affermazione
iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione della prima via di B2,
mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe, secondo Colli, i
soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa lettura fa
cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione
delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità che il nulla non
sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe a sua volta
necessità.
17
Op. cit., p. 133.
373
In B2 la Dea aveva prospettato due potenziali percorsi di inda-
gine – gli unici «per pensare»:
(i) l'uno, ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι, in pratica sviluppando le implicazioni dell'affermazione di
esistenza - «è» - e negando possibilità al non-essere: valorizzando
il significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che coglie imme-
diatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo
questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi asso-
lutamente sull'essere;
(ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca imboccando la dire-
zione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ
εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione
«non è» rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda
«via di ricerca per pensare» tracciava un percorso verso il nulla,
subito inibito in quanto in tale direzione non vi era «ni-ente»
(μηδὲν) da vedere e riferire.
La seconda via poteva essere delineata solo come radicale al-
ternativa alla prima e sostanzialmente per confermarne la necessi-
tà: non è possibile νοεῖν, nel senso originario di percezione menta-
le, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva immediatamente
connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace
di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente
chiarimento in merito era giunto però solo nei versi successivi,
quando, a proposito della via alternativa, ella aveva ammonito che
τό μὴ ἐὸν è indisponibile all’effettiva conoscenza ed espressione.
In B2.7 la Dea aveva dunque estratto l'oggetto della seconda via,
implicitamente ponendo quello della prima. In B6.1-2a, abbiamo
l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca:
374
quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel com-
plesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima
via18: «il nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformu-
lazione di 2.3b: «non è possibile non essere», riferendosi quindi
alla prima via19. In questo senso si è orientato di recente anche
Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea alluderebbe
invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di
essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo
stesso tempo, come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esista-
no cose che non sono»).
La struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è
necessario» riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la com-
piuta, esplicita espressione della formula per la prima via; a sua
giustificazione sono addotte la possibilità dell'essere e l'inesisten-
za del nulla. È decisivo soprattutto questo rilievo. In B2.6-8 la
Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la seconda via e τό γε μὴ
ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e
indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia
μηδὲν οὐκ ἔστιν, come elemento dimostrativo per richiamare
l’attenzione s