GIORNALE CRITICO
DELLA
FILOSOFIA ITALIANA
FONDATO
DA
GIOVANNI GENTILE
PUBBLICAZIONE QUADRIMESTRALE
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Redattore
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GIORNALE CRITICO
DELLA
FILOSOFIA ITALIANA
FONDATO
DA
GIOVANNI GENTILE
FIRENZE
SOMMARIO DEL FASCICOLO
Studi e ricerche:
LEONARDO FRANCHI, Parmenide e l’origine della nozione di nulla . . . . . . . . . . . 247
ELEONORA ANDRIANI, The influence of the stars and the intervention of demons in
wars: an insight into the «Liber Introductorius» of Michael Scot . . . . . . 275
FRANCESCO TOTO, Hobbes e l’amicizia. Antropologia, morale, politica . . . . . . . 290
FAUSTINO FABBIANELLI, Karl Leonhard Reinhold and Otherness . . . . . . . . . . . . 311
PIERPAOLO CICCARELLI, Le glosse (1936) a «Dell’essenza del fondamento» (1929).
Sulla ‘critica immanente’ in Martin Heidegger . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325
Discussioni e postille:
IRENE ZAVATTERO, L’etica come scienza autonoma fra XII e XIII secolo. Un bilan-
cio storiografico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 340
GLAUCO SAFFI, Momenti della cultura italiana fra Otto e Novecento. Provinciale
e cittadino a confronto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 357
LUCA BASILE, Da Valentino Annibale Pastore a Giovanni Gentile. Ancora sull’am-
biente culturale del giovane Gramsci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 380
MAURIZIO TORRINI, Giovanni Gentile, Giovannino Gentile, la scienza, Francesco
Orestano e… troppo altro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394
STEFANO ZAPPOLI, Per Claudio Cesa. Una giornata di studi . . . . . . . . . . . . . . . . 405
Note e notizie:
Per studium et doctrinam. Fonti e testi di filosofia medievale dal XII al XIV seco-
lo (Francesca Bonini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 427
L’‘avarizia’ di Poggio Bracciolini (Valerio Del Nero) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 429
Early Modern Philosophy and the Renaissance Legacy (Andrea Suggi) . . . . . . . 432
La biblioteca del Museo pedagogico 1875-1935 (Alessandro Savorelli) . . . . . . . 437
La nozione di nulla, insieme con i problemi speculativi che essa reca con
sé, sorge nella riflessione filosofica dell’Antichità, ricevendo articolazioni con-
cettuali aggiuntive dapprima in età medioevale e moderna, poi nel periodo
contemporaneo1; e tuttavia, raramente è stata affrontata la questione della sua
genesi all’interno del pensiero filosofico. La sua origine è solitamente collo-
cata nell’ambito ontologico, con riferimento al pensiero di Parmenide, oppu-
re in connessione al principio per il quale «nulla deriva dal nulla» (οὐδὲν ἐξ
οὐδενός), principio considerato, almeno da una relativamente diffusa linea del-
l’esegesi storico-filosofica, come un’originaria premessa speculativa, anterio-
re sia a Parmenide sia al pensiero filosofico presocratico nel suo complesso,
perché presupposta dall’uno e dall’altro2.
Prescindendo per il momento dalla filosofia di Parmenide – a proposi-
to della quale ci si limiterà preliminarmente a segnalare l’esigenza di deter-
minare se tale nozione sia da essa fondata, e dunque se prima di Parmenide
essa sia sconosciuta al pensiero, oppure se Parmenide, in un certo qual mo-
do, già la possieda, e si limiti a una sua più rigorosa definizione, traendo poi
determinate conclusioni da tale operazione – prenderemo le mosse dalla con-
1 La nozione è indagata nei suoi sviluppi storici e concettuali dagli studi di G. KAHL-
FURTHMANN, Das Problem des Nichts. Kritisch-Historische und systematische Untersuchungen,
Meisenheim am Glam, Anton Hain 19682; E. FINK, Alles und Nichts. Ein Umweg zur Philo-
sophie, Den Haag, Martinus Nijhoff 1959; E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino,
Taylor 1967; G. SASSO, Essere e negazione, Napoli, Morano 1987; S. GIVONE, Storia del Nul-
la, Roma-Bari, Laterza 1998; G. COGGINS, Could There Have Been Nothing? Against Metaphy-
sical Nihilism, London, Palgrave Macmillan 2010; E. SEVERINO, Intorno al senso del nulla,
Milano, Adelphi 2013; M. PAQUEZ, Néant, Paris, Éditions du Panthéon 2015.
2 Definisce tale principio come «assiomatico» nel pensiero antico M. UNTERSTEINER, I
sofisti, Milano, Bruno Mondadori 20083, p. 241, rinviando poi a A. BAUMAN, Formen der Ar-
gumentation bei den Vorsokratischen Philosophen, Würzburg, C.J. Becker 1906, pp. 27-29 e
U. VON WILAMOWITZ, Der Glaube der Hellenen, I, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung
1931, pp. 212 e 349. Recentemente, e proprio in relazione al pensiero di Parmenide, G. CER-
RI, La fisica di Parmenide, in Ontologia scienza mito, per una nuova lettura di Parmenide, Mi-
lano-Udine, Mimesis 2011, pp. 1-21: cit. p. 3, ritiene il principio del nihil ex nihilo «alla ba-
se del pensiero presocratico sin dal suo nascere», e assimilabile a quello enunciato da Lavoi-
sier nel 1779 con la legge della conservazione della massa.
248 studi e ricerche
siderazione del principio dell’ex nihilo nihil, e segnatamente da quel suo pre-
sunto statuto di originaria premessa. Ci sembra infatti che esso necessiti di
un ripensamento, almeno nella misura in cui il principio stesso sembra pre-
supporre, a sua volta, l’anteriorità di due distinte nozioni: da una parte la no-
zione di ‘causa’ o ‘derivazione’, e poi del connesso principio che dota di po-
tere causale l’esistente; dall’altra la stessa nozione di ‘nulla’, che da quel prin-
cipio non può allora evidentemente derivare, se è piuttosto esso che per sor-
gere deve presupporla.
Nemmeno le due nozioni citate sono originarie. Relativamente a quella
di causa, è istruttivo quel che rileva Aldo Brancacci, ossia che tale concetto
non è «originario, né sul piano teoretico né su quello storico-filosofico», dac-
ché il suo darsi prevede «la già avvenuta determinazione, e quindi la chiara
consapevolezza da parte del pensiero, di una serie assai ampia di altri con-
cetti: quello di cosa, o ente; quello di nesso, connessione, e infine relazione;
quello di sostanza, o di ciò che una cosa è in sé»3. Non mi pare ci si allonta-
ni dal rilievo dello studioso se, muovendo dal versante empirico, si aggiunge
che, insieme al possesso di tale griglia concettuale, l’origine della nozione e
quella del principio a essa relativo prevedono anche un’attività di contempla-
zione dei fenomeni, e con essa un’abitudine a rapportarli in modo da confi-
gurarne alcuni come causanti e altri come causati, abitudine tale da genera-
re la convinzione della generalità della regola4.
Ma, sebbene necessaria, la genesi della nozione di causa non giunge a
spiegare quella del principio secondo cui «nulla deriva dal nulla». Quest’ul-
timo non è infatti una diretta implicazione del primo, oppure una sua espres-
sione in termini negativi, poiché impossibile è dedurlo dal primo mediante
la sola nozione di causa e la regola generale da essa desumibile. Per tale ope-
razione occorre il possesso dell’ulteriore nozione di ‘nulla’; non quella di ne-
gazione relativa a un determinato elemento o a una definita molteplicità di
elementi, la quale pure è presente nel principio dell’ ex nihilo nihil, ma quel-
la di assoluta negazione ontologica, rivolta all’esistente nel suo complesso.
Quel che affiora da tali relazioni concettuali riceve poi una conferma te-
stuale dall’esame di una delle più antiche presunte formulazioni del princi-
pio dell’ex nihilo nihil, poiché essa rileva come questa non sussista, né possa
ancora sussistere, non avendo il pensiero d’età arcaica ancora guadagnato la
nozione di nulla. La formulazione risulterebbe da un verso isolato di Alceo
che recita καὶ κ’οὐδὲν ἐκ δενὸς γένοιτο5, sovente tradotto come «e nulla po-
trebbe nascere dal nulla»6 e talvolta inteso proprio come l’esplicitazione del
to era stato tradotto in modo analogo da M. TREU, Alkaios, München, griechisch und deutsch
1963, cit., p. 63: «aus nichts könnt nie etwas entstehen», e da T. REINACH -A. PUECH, Alcée.
Sapho. Fragments, Paris, Les Belles Lettres 1966, cit., p. 57: «rien, ne naîtrait de rien». Ma
già J.H HARTUNG, Die griechischen Lyriker; griechisch mit metrischer Uebersetzung und prü-
fenden und erklärenden Anmerkungen, Leipzig, W. Englemann 1856, p. 45, congettura κοὐδέν
κ’ἀ’οὐδένος γένοιτο e traduce «und nichts aus nichts entstehen kann». Che il δένος di Al-
ceo valga οὐδένος viene poi esplicitamente fissato da E. LOBE- D. PAGE, Poetarum lesbiorum
fragmenta, Oxford, Clarendon Press 1955. Diversamente G. CALOGERO, Storia della logica
antica, cit., pp. 232-233, che invece determina δέν come opposto a οὐδέν sulla base di dati
che saranno a breve presi in analisi, sebbene poi lo studioso proponga una sua personale tra-
duzione alla quale reagisce A. BRANCACCI, La filosofia del linguaggio di Democrito, «La Cul-
tura», XXV, 1987, 104-119: p. 108 n. 11.
7 Fr. 68 B 156 DK.
8 Per le proposte di traduzione del frammento di Democrito, e per la loro discussio-
ne, cfr. A. BRANCACCI, La filosofia del linguaggio di Democrito, cit., pp. 105-109.
250 studi e ricerche
9 Una descrizone, che mi pare paradigmatica, di questo tipo di ricerca detta ἱστορία
ερὶ φυσεως, «indagine intorno alla natura», è già in PLATONE, Fedone, 96 a 8-10, dove Socra-
te la dichiara volta a εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, a «conoscere le cause di ciascuna cosa», de-
scrivendo tali cause come il διὰ τί γίγνεται ἔκαστον καὶ διὰ τί ἀόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι, il
«perché ciascuna cosa nasce, perisce ed è».
10 Il punto è ben illustrato da G. CALOGERO, Storia della logica antica, cit., p. 90.
11 Sulla ‘scoperta’ di pensatori presocratici da parte di Aristotele cfr. O. GIGON, Der
Ursprung der griechischen Philosophie, Basel, Schwabe 1945, p. 44, p. 60; A. BRANCACCI, Il
principio in Anassimandro, cit., p. 211.
12 Cfr. ARISTOTELE, Fisica I, 2-3.
13 W. WIELAND, La Fisica di Aristotele, Bologna, Il Mulino 1993, cit., p. 143, nota che
«il divenire non viene mai ipostatizzato, ma resta sempre inteso come determinazione di co-
se. Un divenire “in sé” non esiste per Aristotele».
14 ARISTOTELE, Physica I, 1, 184 a 12 e sgg.
studi e ricerche 251
negatività nel linguaggio, può essa esser trovata in qualche luogo al di fuori
di esso? E in che modo si può approdare a essa, mai potendo dire che qual-
cosa non è, e apparendo tutti gli aspetti del reale come determinazioni posi-
tive? Vi è la possibilità che, predicandola esclusivamente in tal modo, la va-
riegata trama del reale appaia come luogo di reciproche e postitive differen-
ziazioni, ma mai come luogo di reciproche negazioni, e pure che positivamen-
te si configurino la falsità, l’insussistenza o l’assenza di ogni oggetto, perce-
pito o pensato.
Riguardo Parmenide, occorre domandarsi se con tale linguaggio ipote-
tico egli possa mai approdare alla nozione negativa di μὴ ἐόν e, inoltre, se la
realtà del suo ἐόν possa ancora costituire una valida ragione per negare una
molteplicità di aspetti del reale. Il dato storico, in proposito, mostra soltan-
to che Parmenide, tematizzatore di un μὴ ἐόν (di cui si tenterà di determina-
re il significato) e di un ἐόν la cui realtà è motivo di negazione di tante altre
realtà, parla un linguaggio provvisto di negazione, e di essa fa un uso di gran-
de rilevanza speculativa.
Per tentare una risposta ai quesiti posti, e per meglio chiarire la connes-
sa questione del ruolo del linguaggio nella speculazione parmenidea in fun-
zione di una migliore determinazione dell’origine della nozione di nulla, va-
le la pena di osservare alcuni luoghi dello stesso poema di Parmenide.
Si inizierà dalle premesse che sorreggono la dottrina parmenidea dell’ἐόν,
espresse attraverso le figure di due vie che alcuni convincenti argomenti di
Hermann Fränkel, sottolineando come il periodo arcaico ricorra spesso a
metafore motorie per esprimere le attività discorsive del pensare e del parla-
re, le determinano come rappresentazioni di tali attività25. Convincenti, ma
anche preliminarmente significativi, muovendo dall’ipotesi che il linguaggio
svolga un ruolo decisivo nella genesi della filosofia parmenidea.
I periodi costituenti le vie si trovano nei versi 3 e 5 del fr. 28 B 2 DK e
recitano:
fr. 2. 3: ὅως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; «che è e che non è pos-
sibile che non sia»;
fr. 2. 5: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι; «che non è e che è
necessario che non sia».
no, Bompiani 2011, pp. Per quanto mi riguarda, credo che la traduzione complessivamente
più aderente al fr. 2. 2-3, 5 DK (αἵερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι/ἡ μὲν ὅως ἔστιν τε
καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι [...] ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι» sia: «l’una, (che
dice) che è e che non è possibile che non sia; l’altra, (che dice) che non è e che è necessario
che non sia». Vorrei inoltre motivare la mia scelta adducendo un rilievo testuale che non mi
risulta sia stato colto e formulato dai tanti interpreti che pure hanno adottato tale traduzio-
ne: la prima occorrenza del termine ὁδός in Parmenide (fr. 1. 2 DK) è accompagnata dall’ag-
gettivo ολύφημος, «che molto enuncia; che dice molte cose». Sulla base di questo dato, tra-
durre il fr. 2. 3, 5 con un sottinteso λέγειν non sembra affatto congetturale, dacché l’agget-
tivo mostra che, su un piano figurato, le vie di Parmenide hanno facoltà di enunciazione.
27 Mi permetto, a tal proposito, di rinviare a L. FRANCHI, Alcune osservazioni sul pro-
cedimento logico di Parmenide, in Physiologia. Topics in Presocratic Philosophy and its Recep-
tion in Antiquity, AKAN, 12, C. Vassallo (ed.), Trier, Wissenschaftlicher Verlag Trier 2017, pp.
199-227: pp. 204- 209
28 Cfr. ad esempio, l’attenta e puntuale analisi condotta da B. CASSIN, Si Parménide. Le
traité anonyme De Melisso, Xenophane, Gorgia, Lille, Presses Universitaires de Lille 1980,
pp. 50-52.
29 Cfr. 28 B 2. 6-8 DK
30 Cfr. anche L. BROWN, The verb ‘to be’ in ancient Greek: some remarks, in S. Everson
(ed.), Companion to Ancient Thought, vol. III: Language, Cambridge, University Press 1994,
pp. 212–236: pp. 212-216.
31 In proposito G. CALOGERO Storia della logica antica, cit., p. 91, fa l’esempio di un
parlante che per comunicare si serve solo di sostantivi, senza il verbo essere, e di un altro
parlante che per comunicare si serve solo del verbo essere, senza sostantivi. Risulterà chia-
ro che sarà il primo dei due parlanti ad avere maggiori possibilità di farsi comprendere.
256 studi e ricerche
32 Cfr. ARISTOTELE; Fisica. I, 2, 185 a 21; ma anche Eudemo in SIMPLICIO, Fisica 115. 1
(= 28 A 28 DK).
studi e ricerche 257
to: ἡ δὲ κρίσις ερὶ τούτων ἐν τῷ δ’ἔστιν: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, «la decisione, ri-
guardo a queste cose (riguardo alle determinazioni dell’ente) si basa su que-
sto: “è” o “non è”» seguita da un rinnovato invito all’esclusione dell’οὐκ
ἔστιν. Ora, senza riferimento alla dimensione linguistica, e segnatamente al
valore semantico di ἔστιν e οὐκ ἔστιν sancito dal μοναχῶς λέγεσθαι τὸ ὄν, ta-
le passo non risulterebbe comprensibile. L’esclusivo piano ontologico non pre-
senta infatti, nell’orizzonte concettuale e culturale di Parmenide, stringenti
motivi per privare senz’altro l’ἐόν di nascita e termine: cosa impedirebbe a
Parmenide di affermare che l’ente è per tutto il tempo in cui esso è, e che non
è prima di essere e dopo essere stato, senza che questo infici il suo atto di es-
sere pienamente nell’intervallo di tempo in cui è? E perché, invece di tale sce-
nario, viene qui affermata quella norma, che conoscerà notevoli fortune nel
pensiero occidentale, che impone alla realtà autenticamente essente di esse-
re realtà sempre essente, pena la perdita, o la svalutazione, del suo rango di
essente? L’unica spiegazione risiede nella reciproca intolleranza semantica di
ἔστιν e οὐκ ἔστιν decretata dal valore assoluto e univoco (μοναχῶς) con il qua-
le essi sono da Parmenide avvertiti. Muovendo da essa, ammettere che l’es-
sente sia in alcuni punti della linea temporale e non sia in altri significa do-
ver predicargli sia l’ «è» che il «non è». Questo, che se fosse diluito lungo il
corso del tempo e inteso in termini unicamente ontologici non solleverebbe
incongruenze, non può essere invece accettato se con «è» e «non è» si espri-
messe anche, e contemporaneamente, la verità e la falsità dell’oggetto, che non
possono coesistere insieme. L’esigenza di escludere dall’ente ogni forma di οὐκ
ἔστιν, il cui potere di rendere insussistente l’oggetto è decretato dal μοναχῶς
λέγεσθαι τὸ ὄν, e non una norma di natura eminentemente ontologica, con-
duce Parmenide a escludere origine e termine dall’ente, e a cristallizzare quel-
la norma di notevole incisività nella seriore storia della metafisica.
La deduzione della fisionomia dell’oggetto a partire dai valori semanti-
ci delle sue espressioni verbali, del resto, si palesa con ancor più vigore nel
precedente fr. 8. 5 DK, ove il rapporto tra ente e tempo è espresso in modo
del tutto singolare, poiché sembra venir addirittura messa in questione l’idea
di eternità come eterna durata, e dove, ancora una volta, senza ricorso al lin-
guaggio, le ragioni di tale espressione resterebbero incomprensibili.
Nel fr. 8. 5 DK infatti, in riferimento al suo ente, Parmenide afferma:
ne del verso, nessuno dei quali, a mio vedere, del tutto convincente37, dac-
ché né la differente lezione né le congetture di volta in volta proposte sopi-
scono una questione qui fondamentale. Essa consiste nella comprensione del
motivo per il quale Parmenide si distacca notevolmente dalla tradizionale
raffigurazione dell’eternità, affermando che il suo ente eterno mai era o sarà
perché è adesso laddove è notevolmente attestato come la coeva rappresen-
tazione di essa sia quella di un’eterna durata nel tempo38, e lo sia al punto
che persino l’allievo Melisso, distaccandosi significativamente dal maestro39,
la riadotta40. Bisognerà infatti attendere il Timeo platonico per incontrare di
nuovo – e in un luogo del testo dove, non a caso, probabile è l’influsso par-
menideo41 – una raffigurazione dell’eternità differente da quella dell’eterna
durata. Perché, allora, Parmenide sostituisce l’eternità del ‘sempre’(ἁεὶ) con
quella dell’’adesso’ (νῦν)? Anche tale questione trova una sua risposta nella
considerazione della differenza semantica che intercorre tra ἔστιν, verbo-nu-
la Filosofia», 10 (1925), pp. 5-23, poi divenuto il cap. I del suo Parmenide, Testimonianze e
frammenti, Firenze, La Nuova Italia 1958, adotta tale lezione non in funzione temporale, ma
per sostenere la sua nota tesi dell’assenza di una dottrina dell’ἔν in Parmenide, dacché l’ἔν
συνεχές di Simplicio nella varia lectio di Asclepio è sostituito da μοῦνον οὐλοφυές. Sulla que-
stione cfr. le osservazioni di F. TRABATTONI, Mario Untersteiner interprete di Parmenide, in Le
vie della ragione. Ricordo di Mario Untersteiner, A. Battegazzore - F. Decleva Caizzi (edd.),
Milano 1989, pp. 125-152, poi ripreso in F. TRABATTONI, Parmenide, Untersteiner e il fr. 8. 5-
6, «Elenchos» 12 (1991), 313-318.
37 La correzione più interessante è proposta da P.B. MANCHESTER, Parmenides and the
Need for Eternity, «The Monist», 62 (1979), pp. 81-106, e poi da G. CERRI, Parmenide. Poe-
ma sulla natura, Milano, BUR 1999, pp. 220-223 (nessuno dei due, mi pare, rendendosi tut-
tavia pienamente conto del fatto che la loro proposta ridefinisca il rapporto tra ente e tem-
po), per essere recentemente adottata e rimeditata da M. PULPITO, Parmenide e la negazione
del tempo pp. 167-172. Essa riprende il fr. 8. 4-5: ἀτρεμὲς ἠδ’ἀτέλεστον:/οὐδέ οτ’ἦν
οὐδ’ἔσται, ἐεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ ᾶν, sopprimendo i due punti dopo ἀτέλεστον. Ne risulta:
«immobile e infinito mai era e mai sarà, perché è adesso tutto insieme». Ora, se essa sembra
risolvere il problematico ἀτέλεστον nell’ὁμοῦ ᾶν, da un lato non spiega il motivo del νῦν
(che in tale enunciazione non ha chiara utilità, come ben sottolinea Pulpito, op. cit., p. 173),
e dall’altro trascina nella negazione del problematico ἀτέλεστον anche il ben più chiaro ἀτρε-
μές, che è invece caratteristica indiscutibilmente appartenente all’ente (cfr. fr. 28 B 1. 29 DK).
38 Cfr. fra i tanti casi della rappresentazione dell’eternità possibili, cfr. l. I. 70 oppure
ERACLITO, fr. 22. B 2 DK. Sul tema del tempo nel pensiero greco, cfr . P. PHILIPPSON, Il con-
cetto greco di tempo nelle parole aion, chronos, kairos, eniautos, «Rivista di Storia della Filo-
sofia», 4 (1949), pp. 81-97; E. DEGANI, ΑΙΩΝ, Bologna, Patron 2001; N. D’ANNA, Il gioco co-
smico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Roma, Edizioni Mediterranee 2006.
39 Sui motivi di tale differenza tra Melisso e Parmenide, cfr. G. CALOGERO, Storia del-
la logica antica, cit, pp. 128-131.
40 Fr. 30 B 1 DK: ἁεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἁεὶ ἔσται; «sempre era, quel che era, e sempre sa-
rà».
41 Cfr. PLATONE, Timeo, 37e-38 a per quanto concerne il probabile influsso parmeni-
deo circa la temporalità; inoltre, poco prima (ibid. 33 b), Platone ricorre alla figura della sfe-
ra, che Parmenide utilizza nel fr. 8.42-49 DK. Sulla questione, e sui rilievi testuali di tale re-
lazione, cfr. gli ormai classici H. CHERNISS, Aristotle’s Criticism of Plato and the Academy, New
York 1962, p. 211; F.M. CORNFORD, Plato’s Cosmology: the Timaeus of Plato Translated with
a Running Commentary, London 1937, cit., p. 98 n. 1, e J. WHITTAKER, The Eternity of the
Platonic Forms «Phronesis», 13 (1968), pp. 131-144. Cfr. anche C. LUCHETTI, Tempo ed eter-
nità in Platone, Milano, Mimesis 2014.
260 studi e ricerche
cleo della via veritiera, e i verbi ἦν o ἔσται: se i due «era» e «sarà» sono av-
vertiti non come modificazioni del verbo εἶναι, ma, nell’assolutezza e nell’u-
nivocità del loro valore semantico, come differenti dall’«è», segno della po-
sitività del reale, essi si costituiranno inevitabilmente come due mascherate
forme di quel «non è» (οὐκ ἔστιν) che Parmenide tenta di escludere dall’en-
te. Ne segue che, se «quel che è» (ἐόν) mai deve esser il soggetto di un «non
è» (οὐκ ἔστιν), esso «non era e non sarà», perché se «era» allora «non è» e se
«sarà» allora «non è».
Che l’esclusione del «non è» da «quel che è» sia l’effettivo modus ope-
randi di Parmenide, inoltre, credo si possa evincere dal fr. 7. 5 DK, dove ta-
le procedura è a mio vedere direttamente esplicitata. Qui la Dea esorta Par-
menide a procedere sulla via veritiera affermando κρῖναι δὲ λόγῳ ολύδηριν
ἔλεγχον, solitamente tradotto con un generico: «giudica con la ragione la mol-
to controversa prova/confutazione42». Tuttavia, come altrove ho tentato di di-
mostrare43, sia la posizione del verso, sia la terminologia adottata da Parme-
nide, inducono a ritenere che esso esprima qualcosa di ben più preciso e fun-
zionale al procedimento speculativo del filosofo. Infatti, se secondo alcuni in-
terpreti il fr. 7. 5-6 DK coincide con l’inizio del fr. 8 DK44, nel quale Parme-
nide procede alla determinazione dell’ἐόν, è lecito aspettarsi che immediata-
mente prima di realizzare questa egli enunci la regola per eseguirla, e che dun-
que κρῖναι, anticipando la sua concreta applicazione realizzata dalla κρίσις del
fr. 8. 15, più che «giudicare; valutare», significhi qui «separare; disgiungere»,
mentre la ολύδηρις ἔλεγχος, più che la «prova molto dibattuta», significhi
la «molto discorde controversia», ovvero sia il nome con il quale Parmenide
si riferisce alla verbale negazione d’essere οὐκ ἔστιν.
Così intendendo, prima della deduzione dell’ἐόν si dichiara la modalità
con la quale essa deve avvenire: «separa, con il λόγος, la molto discorde con-
troversia (la negazione d’essere)». La separazione di questa, detta «discorde»
poiché in grado di rendere contraddittoria ogni realtà, è naturalmente del tut-
to funzionale alla sua esclusione.
Va inoltre rammentata di nuovo la formula aristotelica attribuita a Par-
menide del μοναχῶς λέγεσθαι τὸ ὄν, della quale sovente è evidenziato l’av-
verbio μοναχῶς, ma raramente il verbo λέγεσθαι, che invece chiaramente af-
e ciò sarebbe stravagante perché il plurale sancirebbe che il nulla, per defi-
nizione privo di proprietà che ne esplicano positivamente la fisionomia, avreb-
be tuttavia una consistenza tale da rendere positivamente determinabile la sua
quantità discreta, e da renderla determinabile come plurale. L’altro cliché
messo a dura prova dal testo, sebbene resti sostanzialmente ignorato, è la pre-
sunta impossibilità oggettiva di pensare il non essente, poiché qui, a rigore,
viene ordinato di trattenere il pensiero (σὺ εἶργε νόημα) dall’intraprendere la
via propria dei μὴ ἐόντα; se il μὴ ἐόν fosse davvero impossibile a pensarsi46
(e la via a cui esso pertiene è impercorribile), che senso avrebbe vietare al pen-
siero di assumerlo come suo oggetto e di percorrere la sua via? Basterebbe
tale impossibilità a impedire l’operazione, ed è pleonasmo evitabile quello di
vietare qualcosa che è già di per sé impossibile a compiersi.
In aggiunta, qui non si prescrive di trattenere il pensiero dall’assumere
«ciò che non è» come suo oggetto, ma, all’interno di tale assunzione, di trat-
tenerlo dal determinare «ciò che non è» come essente. Stando al testo, l’as-
sunzione di ciò che non è come oggetto di pensiero è possibile e addirittura
consentita, purché il pensiero la realizzi rispettando la fisionomia del suo og-
getto, e assumendolo lo determini come non essente.
Sembra dunque che la sovente affermata impensabilità parmenidea del
non-essere, che pure sembrebbe emergere da alcuni luoghi del suo dettato,
in realtà non significhi esattamente quel che poi verrà inteso dalla specula-
zione filosofica successiva47, ossia che al pensiero è dato assumere come suo
oggetto unicamente l’essente, configurandosi sempre come pensiero di qual-
cosa e contenitore di un contenuto positivo. Per tale concezione occorre l’as-
cia» mentre Timaeum, VI 50 αραειθέα «di persuasività ingannevole»; questi diversi agget-
tivi riferiti alla via implicano che quel che è a essa pertinente possiede una qualche sussisten-
za sua propria, seppur fallace e ingannatoria).
46 Tale convinzione deriva soprattutto da quel problematico emistichio isolato consi-
stente nel fr. 3 DK: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἔστιν τε καὶ εἶναι. Esso, la cui traduzione più letterale
e immediata è «infatti è lo stesso pensare ed essere», ha condotto gli interpreti a due oppo-
ste tendenze: l’una, che pone Parmenide come assolutamente realista e risolutore del pen-
siero nell’essere; l’altra, che lo pone come idealista nel senso di risolutore dell’essere nel pen-
siero. Tuttavia, la congruenza di pensiero ed essere che sembrerebbe qui affermata (comun-
que la si voglia poi intendere), è tramutata in un diverso rapporto, composto non più di due
ma di tre elementi nel fr. 8. 34-36 DK, terzo dei quali, non a caso, è il linguaggio (per l’ana-
lisi di tale passo cfr. L. FRANCHI, Alcune osservazioni sul procedimento logico di Parmenide,
cit., pp. 221-223). Per una ricognizione delle interpretazioni del fr. 3 DK, cfr. E. ZELLER-R.
MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III, Eleati, cit., pp. 219-227.
Va comunque considerato il rischio insito nel considerare l’isolato fr. 3 come contenente «the
essence of Parmenides’ philosophy» (cit. in L. TARÀN, Parmenides. A text with Translation,
Commentary and Critical Essays, Princeton, Princeton University Press 1965, p. 87) poiché
è molto probabile che esso traesse e donasse senso in virtù di un contesto di riferimento più
ampio. Circa il suo isolamento dall’insieme, avvenuto attraverso la citazione che ne fa PLO-
TINO, Enn. V. 1. 8, interessanti le osservazioni di G. CALOGERO, Studi sull’Eleatismo, Firen-
ze, La Nuova Italia 1977, pp. 17-20, n. 18.
47 Cfr. De MXG 980 a 9-14; inoltre, la confutazione della presunta netta impossibilità
parmenidea di pensare il non essente, è uno dei cardini sui quali poggia il «parricidio» di
Parmenide da parte dello Straniero di Elea nel Sofista di PLATONE (cfr. 237 a-241 b).
studi e ricerche 263
48 Ancor più considerando che, quando nel poema viene per la prima volta affermato
il problematico rapporto tra pensiero e μὴ ἐόν, l’impossibilità del secondo di essere oggetto
del primo è espressa con οὐ γὰρ ἀνυστόν (fr. 2. 7 DK) che può significare, oltre che «non è
infatti possibile», un meno netto «non è infatti pienamente realizzabile».
49 Cfr. De MXG 980 a 9-14; SESTO EMPIRICO, Adv. math. VII. 77-82.
50 ARISTOTELE, De int. XII 21 a 34 e sgg. Sull’utilizzazione della logica modale in Par-
menide, cfr. G.E.L. OWEN, Eleatic questions, «Classical Quarterly» 10, 1960, pp. 84-102: 91
n. 1, e poi la reazione all’esegesi dello studioso da parte di O’Brien in D. O’BRIEN-J. FRÈRE,
Le Poème de Parménide, cit., pp. 188-193.
264 studi e ricerche
άντ’ὄνομα ἔσται,
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο εοιθότες εἶναι ἀληθῆ:
γίγνεσταί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναι τε καὶ οὐχί
καὶ τόον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἁμείβειν,
saranno nomi
tutte le cose che gli uomini hanno posto, convinti che fossero vere:
nascere e perire; essere e non;
e spostarsi di luogo e mutare il luminoso colore
51 È da notare come, a rigore, nella coppia dei due verbi, la negazione di εἶναι sia im-
plicata assai più direttamente dall’ὄλλυσθαι «perire» che non dal γίγνεσταί «generarsi», e che,
di conseguenza, anche nei passi che saranno a breve esaminati, Parmenide dedicherà molta
più attenzione a dimostrare la negazione implicata dalla nascita che non quella implicata dal-
la morte, morte che viene invece dichiarata ἄυστος (fr. 8. 21 DK), ossia troppo contraddit-
toria per poter concedere una sua positiva apprensione.
studi e ricerche 265
«quale nascita cercherai per lui (scil. per quel che è),
quale accrescimento? Da quel che non è ti proibisco
di dirlo e di pensarlo. Non è infatti da dire e da pensare
che non è52. Quale necessità potrebbe far sorgere,
nel passato o nel futuro 53, un suo crescere che inizi dal nulla,
così, è necessario o che sia del tutto o che non sia affatto»
I vv. 6-9 seguono il già osservato fr. 8. 5, nel quale Parmenide vieta che
all’ἐόν siano predicati l’«era» e il «sarà», avvertiti come forme di «non è», e
pone l’eternità dell’‘adesso’ (νῦν), e non quella del ‘sempre’, come dimensio-
ne temporale sua propria. In questi seguenti versi, la relazione dell’ἐόν con il
tempo viene ampliata aggiungendo l’esclusione, per esso, di nascita (γέννα)
e accrescimento (αὔξη). La prima delle due esclusioni quadra tanto con la con-
cezione dell’eternità come eterno presente, quanto con quella dell’eternità co-
me infinita durata nel tempo; la seconda, invece, solo con la prima delle due:
infatti niente impedirebbe all’ente di cui è garantita l’eterna esistenza nel tem-
po, di poter esser soggetto ad accrescimento e modificazioni, fintanto che que-
ste non implichino, per esso, la cessazione della sua esistenza. Ma un’eterni-
tà elaborata ed espressa nella forma dell’eterno presente non possono essere
ammessi accrescimento e modificazioni che presuppongono un ‘prima’ e un
‘dopo’, perché in nessun modo compatibili con l’unica ed esclusiva dimen-
sione dell’‘adesso’. Ciò, a mio vedere, conferma ulteriormente l’inusuale ela-
borazione parmenidea della temporalità dell’ente, inusuale poiché derivante
52 Traduco oὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν con «non è da dire e da pensare», piuttosto che
con «è impensabile e indicibile» poiché, in linea con quanto sostenuto, si sottolinei che «di-
re e pensare non è» non sia ritenuto impossibile, ma sia vietato, e per ciò stesso considera-
to possibile. È vero che il suffisso -τος assieme alla negazione οὐ può esprimere l’ impossi-
bilità, e che nella fattispecie, attraverso un γὰρ esplicativo, il divieto dell’azione sembra fon-
darsi proprio sulla negazione della possibilità di compierla. Ma è pur vero che -τος è suscet-
tibile di differenti traduzioni (e. g. lo stesso fr. 8. 22 DK di Parmenide, dove un analogo οὐ
διαιρετόν può intendersi come un potenziale negativo «non divisibile», ma anche con un rea-
le negativo «non diviso»), e che in Parmenide l’impossibilità prescrittiva o assertiva (divie-
to) può ben esprimersi, almeno grammaticalmente e sintatticamente, come un’impossibilità
constatativa. Inoltre, seguendo MOURELATOS, op. cit., p. 5, molti degli aggettivi parmenidei
uscenti in -τος sembrano essere, con grande probabilità, «Parmenides’ own coinage» per i
quali il senso del testo può aiutare più della regola grammaticale a determinare statuto mo-
dale e valore semantico. Infine, come pure ribadirò più avanti, a tal proposito va anche con-
siderato che il presente divieto di dire e pensare (οὐκ ἐάσσω φάσθαι σ’οὐδὲ νοεῖν) non avreb-
be ragione d’esser pronunciato qualora si desse un’impossibilità assoluta di compiere tali ope-
razioni, dacché basterebbe questa a impedirle.
53 Traduzioni alternative di ὕστερον ἢ ρόσθεν sono «dopo o prima» oppure «dopo
piuttosto che prima». Scelgo di rendere con «nel passato o nel futuro» perché, conforme-
mente con l’interpretazione dell’eternità escludente il ‘prima’ e il ‘poi’ in funzione dell’‘ades-
so’, che credo in un certo modo Parmenide affermi, penso che nell’argomentazione parme-
nidea l’esclusione della genesi, oltre che esser valida di per sé, serva anche per ribadire nuo-
vamente, seppur obliquamente, le dimensioni temporali che tale processo presuppone: a
causa delle ragioni logico-verbali che sorreggono la mia interpretazione, nell’ottica parme-
nidea genesi, passato, futuro sono già inammissibili in sé stessi; a maggior ragione lo sarà uno
scenario che le contempli tutti.
studi e ricerche 267
54 Dove è da notare come tale strategia ricalchi ad unguem l’affermazione dell’ «è» e,
per ciò stesso, l’esclusione di ogni foma di «non essere» enunciata dalla via veritiera del fon-
dante fr. 2. 3 DK.
268 studi e ricerche
verosia una situazione nella quale esso è soggetto all’οὐκ ἔστιν. In tal modo,
l’οὔδ’ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσσω φάσθαι σ’οὐδὲ νοεῖν non significherà «(che nasca
e cresca) a partire dal nulla non ti consento né di dirlo né di pensarlo», ma
«(che nasca e cresca) a partire da una situazione in cui non è ti proibisco di
dirlo e pensarlo», situazione che, adottando il punto di vista dell’interprete,
è ancora parafrasabile in «a partire da una situazione nella quale esso è sog-
getto alla predicazione “non è”, ti proibisco di dirlo e pensarlo». Evidente ri-
prova della preferibilità della lettura qui proposta, a mio vedere, è la coeren-
za argomentativa con la quale la prima affermazione si lega alla seconda, fa-
cendo sì che quest’ultima assolva davvero alla sua funzione esplicativa: «che
esso nasca e cresca a partire da una situzione in cui si deve dire che esso non
è, ti proibisco di dirlo e pensarlo; non è infatti da dire e da pensare che non
è», soprattutto se tale coerenza è paragonata al non sequitur a cui dà luogo
la lettura tradizionale, che intende: «che esso nasca e cresca a partire dal nul-
la ti proibisco di dirlo e di pensarlo; non è infatti possibile dire e pensare che
non è55».
Se il μὴ ἐόν del fr. 8. 7 indica una possibile situazione nella quale del-
l’ente si può predicare il «non è», esso non può coincidere con la ben più as-
soluta nozione di nulla ontologico, la quale si rivela con sempre maggiore evi-
denza non solo non presupposta dall’Eleate, ma nemmeno completamente
guadagnata dalla sua dottrina.
Con ciò, tuttavia, non si vuole in assoluto concludere che Parmenide non
giunga a intravedere e prefigurare la nozione, perché nel suo dettato tale pre-
figurazione è direttamente osservabile in ciò che segue la sezione appena esa-
minata. Se, infatti l’apparente nozione di nulla nel fr. 8. 7 non si è rivelata ta-
le, essa sembra riaffacciarsi di nuovo, e con maggior evidenza, due versi do-
po. Nel fr. 8. 9-11 si legge:
55 Cfr. E. ZELLER-R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III:
Gli Eleati, cit., pp. 203-205.
270 studi e ricerche
dente sezione, del tutto dipendente dalla sfera della predicazione? Pertanto,
sembra che essa non sia dovuta, o non sia esclusivamente dovuta, al dominio
della dicibilità, e che dunque, per giustificare la sua posizione, debba consi-
derarsi con maggior attenzione il primo dei due motivi addotti. Ora, perché
si possa supporre la coimplicanza dei due processi secondo le modalità espres-
se all’interno di esso, è necessaria, sul piano mentale, una loro proiezione vi-
siva. Se questo accade, Parmenide qui affianca un procedimento raffigurati-
vo accanto a quello logico verbale. Tale accostamento di visivo e semantico
consente di cogliere sia, in generale, la più marcata connotazione ontologica
di tali versi, sia, nel particolare, la ragione e il significato del µηδέν del v. 10.
Leggendo il testo, a tutta prima sembrebbe che l’esclusione di origine e
accrescimento riposi sul loro esser concepiti come inizianti a partite dall’on-
tologico nulla (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) e dunque, di riflesso, che la dimostra-
zione qui si fondi sul principio del nihil ex nihilo e che, più a monte, Parme-
nide impieghi la nozione di nulla, espressa attraverso τὸ µηδὲν nel v. 10. Ciò,
tuttavia, non si rivela né aderente al testo, né scevro da problemi ermeneuti-
ci. La base di tutta l’argomentazione resta infatti, come detto, l’esclusione ver-
bale dell’ούκ ἔστιν, ribadita energicamente dalla κρίσις del fr. 8. 14-16: se qui
Parmenide giungesse all’ex nihilo nihil (che comunque si rivelerebbe una sua
conquista, e non un suo presupposto), perché, in luogo di procedere median-
te esclusione dell’οὐκ ἔστιν, non affidare a esso la dimostrazione, motivando
la negazione da lui operata attraverso l’impossibilità del γίνεσθαι ἐκ τοῦ μη-
δενός? Nemmeno è però possibile procedere con il τοῦ μηδενός del v. 9 co-
me con l’ἐκ μὴ ἐόντος del v. 7, ossia decretando la sua ultima natura nella sfe-
ra del verbale: a differenza del secondo, il primo presenta l’articolo determi-
nativo τοῦ, che indica un’entificazione del termine rivelante una sua cifra on-
tologica tale da distinguerlo dalla genericità dell’altro.
Un’opportuna considerazione di quell’affiancamento, emerso in questi
versi, del motivo della rappresentazione visiva a quello del criterio semanti-
co e verbale, consente una risoluzione di tali difficoltà; infatti, l’oscillazione
tra ambiti speculativi eterogenei che esso determina permette di accordare la
procedura semantica che fonda la deduzione parmenidea con alcune sue con-
notazioni visive e ontologiche.
Se il cardine della deduzione parmenidea è costituito dal valore seman-
tico del verbo εἶναι e dal corrispondente valore della sua negazione (da egli
percepiti come valori di realtà), i quali conducono alla reificazione del primo
nell’ἐόν e alla deduzione dei suoi tratti essenziali mediante l’esclusione della
secondo, rimettendo sempre la prova della validità del procedimento a quei
valori a partire dai quali essa muove, nel v. 9 invece, pur non tradendo tale
modus operandi, Parmenide avverte la possibilità di fornire un ricorso con-
fermativo a esso attraverso una raffigurazione visiva di ciò che la sua dedu-
zione determina sul piano semantico, deduzione che, con ciò, allarga la sua
portata e, riguardo all’esclusione del γίνεσθαι, non propone più, al lettore, uni-
camente la contraddittorietà del rendere l’ἐόν soggetto all’ὄυκ εστιν, ma ne
mostra l’assurdità figurando tale processo anche in termini visivi, rappresen-
272 studi e ricerche
58 In questa sede non sarà trattata l’occorrenza di μὴ ἐόν forse presente nel succcessi-
vo fr. 8. 12-13 (οὐδέ οτ’ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει ίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι αρ’αὐτό κτλ.). Mo-
tiva tale omissione innanzitutto il dubbio circa l’effettività di tale occorrenza; infatti, secon-
do molti studiosi, (quali K. REINHARDT, Parmenides und die Geschichte die griechischen Phi-
losophie, Bonn, Cohen 1916, p. 42; P. ALBERTELLI Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Ba-
ri, Laterza 1939, p. 144 n. 16; K. Riezler Parmenides, Frankfurt am Main, Klostermann1934,
p. 32; O. GIGON, Der Ursprung der griechischen Philosophie, cit, p. 263 n. 105; L. TARÀN, Par-
menides, cit., pp. 95-102, ma l’elenco potrebbe prolungarsi) esso andrebbe corretto con ἐκ
τοῦ ἐόντος. In tal modo, ‘quel che non è’ diventerebbe ‘quel che è’, conferendo tutto un al-
tro senso al discorso. Tale correzione si fonda complessivamente sull’idea che Parmenide,
avendo già trattato il γίγνεσθαί ἐκ μὴ ἐόντος nel fr. 8. 6-11, qualora ritornasse su tale argo-
mento darebbe luogo a una superflua ripetizione, laddove non vi sarebbe invece nessuna ri-
petizione, ma anzi un completamento della trattazione, se Parmenide, dopo aver discusso la
genesi da ‘quel che non è’, affrontasse anche l’opposta opzione della genesi da ‘quel che è’.
Ma motiva tale omissione anche la speranza di aver chiarito, sulla base dell’esame dei passi
scelti, come l’interpretazione qui proposta andrebbe a determinare tanto la natura dell’ἐκ
μὴ ἐόντος del v. 12 (qualora essa fosse la lezione corretta) tanto il motivo per il quale nean-
che la genesi da ‘quel che è’ può essere da Parmenide accettata (qualora fosse invece ἐκ τοῦ
ἐόντος la lezione corretta). Nel primo caso, la formula ἐκ μὴ ἐόντος del v. 12, non avendo
nemmeno un evidente articolo, corrisponderebbe a quella del v. 7 DK, a proposito della qua-
le abbiamo decretato la natura linguistico-semantica e non ontologica del μὴ ἐόν muovendo
dalle inconguernze che una lettura ontologica del termine andava a sollevare, e dal fatto che
non ontologici, ma logici e linguistico-semantici sono i motivi che determinano la sua esclu-
sione. Invece, qualora Parmenide dichiarasse l’esclusione dell’origine dell’ente dall’ente (ἐκ
τοῦ ἐόντος), anche in tal caso le ragioni più comprensibili di tale esclusione deriverebbero
dal divieto linguistico-semantico di rendere l’ente soggetto della predicazione οὐκ ἔστιν, che
tale genesi dell’ente dall’ente potrebbe implicare in modi diversi. Ad esempio, qualora un
essente derivasse da un altro essente, il derivato non sarebbe prima di originarsi, e di esso
dovrebbe dirsi οὐκ ἔστιν. Analogamente, se l’essente si generasse da un altro essente, avrem-
mo due essenti, ognuno dei quali non sarebbe l’altro; pertanto, predicandoli nel senso del-
la loro reciproca alterità, di entrambi andrebbe di nuovo detto che «non sono» (e tale argo-
mento contro il molteplice potrebbe anche mostrare, sebbene solo in filigrana, i motivi del-
la negazione della molteplicità e dell’affermazione parmenidea dell’ἔν nel fr. 8. 6 DK).
274 studi e ricerche
LEONARDO FRANCHI
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