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FASCICOLO II MAGGIO-AGOSTO 2018

GIORNALE CRITICO
DELLA

FILOSOFIA ITALIANA
FONDATO

DA

GIOVANNI GENTILE

SETTIMA SERIE VOLUME XIV


ANNO XCVII (XCIX), FASC. II

CASA EDITRICE LE LETTERE


FIRENZE

PUBBLICAZIONE QUADRIMESTRALE
Direzione
Giovanni Bonacina, Carlo Borghero, Aldo Brancacci,
Massimo Ferrari, Sebastiano Gentile,
Maurizio Torrini (coordinatore), Mauro Visentin

Comitato scientifico
Michele Ciliberto, Tullio Gregory, Helmut Holzhey,
Sir Geoffrey E.R. Lloyd, Denis O’Brien, Dominic O’Meara,
Gianni Paganini, Renzo Ragghianti, Gennaro Sasso,
Loris Sturlese, Giuseppe Tognon

Redattore
Alessandro Savorelli

Redazione
Davide Bondì, Olivia Catanorchi, Andrea Ceccarelli, Ascanio Ciriaci,
Valerio Del Nero, Eva Del Soldato, Faustino Fabbianelli, Nadia Moro,
Alfonso Musci, Diego Pirillo, Cesare Preti, Oreste Trabucco, Stefano Zappoli

I lavori pubblicati nel «Giornale Critico della Filosofia Italiana»


sono sottoposti a procedura di valutazione mediante blind referee.

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GIORNALE CRITICO
DELLA

FILOSOFIA ITALIANA
FONDATO

DA

GIOVANNI GENTILE

SETTIMA SERIE VOLUME XIV


ANNO XCVII (XCIX), FASC. II

CASA EDITRICE LE LETTERE

FIRENZE
SOMMARIO DEL FASCICOLO

FELICITA AUDISIO, Traduttori e traduzioni inglesi dell’«Estetica» di Benedetto


Croce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219

Studi e ricerche:
LEONARDO FRANCHI, Parmenide e l’origine della nozione di nulla . . . . . . . . . . . 247
ELEONORA ANDRIANI, The influence of the stars and the intervention of demons in
wars: an insight into the «Liber Introductorius» of Michael Scot . . . . . . 275
FRANCESCO TOTO, Hobbes e l’amicizia. Antropologia, morale, politica . . . . . . . 290
FAUSTINO FABBIANELLI, Karl Leonhard Reinhold and Otherness . . . . . . . . . . . . 311
PIERPAOLO CICCARELLI, Le glosse (1936) a «Dell’essenza del fondamento» (1929).
Sulla ‘critica immanente’ in Martin Heidegger . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325

Discussioni e postille:
IRENE ZAVATTERO, L’etica come scienza autonoma fra XII e XIII secolo. Un bilan-
cio storiografico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 340
GLAUCO SAFFI, Momenti della cultura italiana fra Otto e Novecento. Provinciale
e cittadino a confronto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 357
LUCA BASILE, Da Valentino Annibale Pastore a Giovanni Gentile. Ancora sull’am-
biente culturale del giovane Gramsci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 380
MAURIZIO TORRINI, Giovanni Gentile, Giovannino Gentile, la scienza, Francesco
Orestano e… troppo altro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394
STEFANO ZAPPOLI, Per Claudio Cesa. Una giornata di studi . . . . . . . . . . . . . . . . 405

Note e notizie:
Per studium et doctrinam. Fonti e testi di filosofia medievale dal XII al XIV seco-
lo (Francesca Bonini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 427
L’‘avarizia’ di Poggio Bracciolini (Valerio Del Nero) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 429
Early Modern Philosophy and the Renaissance Legacy (Andrea Suggi) . . . . . . . 432
La biblioteca del Museo pedagogico 1875-1935 (Alessandro Savorelli) . . . . . . . 437

Libri ricevuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 438


PARMENIDE E L’ORIGINE DELLA NOZIONE DI NULLA

La nozione di nulla, insieme con i problemi speculativi che essa reca con
sé, sorge nella riflessione filosofica dell’Antichità, ricevendo articolazioni con-
cettuali aggiuntive dapprima in età medioevale e moderna, poi nel periodo
contemporaneo1; e tuttavia, raramente è stata affrontata la questione della sua
genesi all’interno del pensiero filosofico. La sua origine è solitamente collo-
cata nell’ambito ontologico, con riferimento al pensiero di Parmenide, oppu-
re in connessione al principio per il quale «nulla deriva dal nulla» (οὐδὲν ἐξ
οὐδενός), principio considerato, almeno da una relativamente diffusa linea del-
l’esegesi storico-filosofica, come un’originaria premessa speculativa, anterio-
re sia a Parmenide sia al pensiero filosofico presocratico nel suo complesso,
perché presupposta dall’uno e dall’altro2.
Prescindendo per il momento dalla filosofia di Parmenide – a proposi-
to della quale ci si limiterà preliminarmente a segnalare l’esigenza di deter-
minare se tale nozione sia da essa fondata, e dunque se prima di Parmenide
essa sia sconosciuta al pensiero, oppure se Parmenide, in un certo qual mo-
do, già la possieda, e si limiti a una sua più rigorosa definizione, traendo poi
determinate conclusioni da tale operazione – prenderemo le mosse dalla con-

1 La nozione è indagata nei suoi sviluppi storici e concettuali dagli studi di G. KAHL-
FURTHMANN, Das Problem des Nichts. Kritisch-Historische und systematische Untersuchungen,
Meisenheim am Glam, Anton Hain 19682; E. FINK, Alles und Nichts. Ein Umweg zur Philo-
sophie, Den Haag, Martinus Nijhoff 1959; E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino,
Taylor 1967; G. SASSO, Essere e negazione, Napoli, Morano 1987; S. GIVONE, Storia del Nul-
la, Roma-Bari, Laterza 1998; G. COGGINS, Could There Have Been Nothing? Against Metaphy-
sical Nihilism, London, Palgrave Macmillan 2010; E. SEVERINO, Intorno al senso del nulla,
Milano, Adelphi 2013; M. PAQUEZ, Néant, Paris, Éditions du Panthéon 2015.
2 Definisce tale principio come «assiomatico» nel pensiero antico M. UNTERSTEINER, I
sofisti, Milano, Bruno Mondadori 20083, p. 241, rinviando poi a A. BAUMAN, Formen der Ar-
gumentation bei den Vorsokratischen Philosophen, Würzburg, C.J. Becker 1906, pp. 27-29 e
U. VON WILAMOWITZ, Der Glaube der Hellenen, I, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung
1931, pp. 212 e 349. Recentemente, e proprio in relazione al pensiero di Parmenide, G. CER-
RI, La fisica di Parmenide, in Ontologia scienza mito, per una nuova lettura di Parmenide, Mi-
lano-Udine, Mimesis 2011, pp. 1-21: cit. p. 3, ritiene il principio del nihil ex nihilo «alla ba-
se del pensiero presocratico sin dal suo nascere», e assimilabile a quello enunciato da Lavoi-
sier nel 1779 con la legge della conservazione della massa.
248 studi e ricerche

siderazione del principio dell’ex nihilo nihil, e segnatamente da quel suo pre-
sunto statuto di originaria premessa. Ci sembra infatti che esso necessiti di
un ripensamento, almeno nella misura in cui il principio stesso sembra pre-
supporre, a sua volta, l’anteriorità di due distinte nozioni: da una parte la no-
zione di ‘causa’ o ‘derivazione’, e poi del connesso principio che dota di po-
tere causale l’esistente; dall’altra la stessa nozione di ‘nulla’, che da quel prin-
cipio non può allora evidentemente derivare, se è piuttosto esso che per sor-
gere deve presupporla.
Nemmeno le due nozioni citate sono originarie. Relativamente a quella
di causa, è istruttivo quel che rileva Aldo Brancacci, ossia che tale concetto
non è «originario, né sul piano teoretico né su quello storico-filosofico», dac-
ché il suo darsi prevede «la già avvenuta determinazione, e quindi la chiara
consapevolezza da parte del pensiero, di una serie assai ampia di altri con-
cetti: quello di cosa, o ente; quello di nesso, connessione, e infine relazione;
quello di sostanza, o di ciò che una cosa è in sé»3. Non mi pare ci si allonta-
ni dal rilievo dello studioso se, muovendo dal versante empirico, si aggiunge
che, insieme al possesso di tale griglia concettuale, l’origine della nozione e
quella del principio a essa relativo prevedono anche un’attività di contempla-
zione dei fenomeni, e con essa un’abitudine a rapportarli in modo da confi-
gurarne alcuni come causanti e altri come causati, abitudine tale da genera-
re la convinzione della generalità della regola4.
Ma, sebbene necessaria, la genesi della nozione di causa non giunge a
spiegare quella del principio secondo cui «nulla deriva dal nulla». Quest’ul-
timo non è infatti una diretta implicazione del primo, oppure una sua espres-
sione in termini negativi, poiché impossibile è dedurlo dal primo mediante
la sola nozione di causa e la regola generale da essa desumibile. Per tale ope-
razione occorre il possesso dell’ulteriore nozione di ‘nulla’; non quella di ne-
gazione relativa a un determinato elemento o a una definita molteplicità di
elementi, la quale pure è presente nel principio dell’ ex nihilo nihil, ma quel-
la di assoluta negazione ontologica, rivolta all’esistente nel suo complesso.
Quel che affiora da tali relazioni concettuali riceve poi una conferma te-
stuale dall’esame di una delle più antiche presunte formulazioni del princi-
pio dell’ex nihilo nihil, poiché essa rileva come questa non sussista, né possa
ancora sussistere, non avendo il pensiero d’età arcaica ancora guadagnato la
nozione di nulla. La formulazione risulterebbe da un verso isolato di Alceo
che recita καὶ κ’οὐδὲν ἐκ δενὸς γένοιτο5, sovente tradotto come «e nulla po-
trebbe nascere dal nulla»6 e talvolta inteso proprio come l’esplicitazione del

3 Cit. in A. BRANCACCI, Il principio in Anassimandro, «Giornale Critico della Filosofia


Italiana», 2012, pp. 209-223: 209.
4 Cfr. G. CALOGERO, Storia della logica antica, vol I: L’età arcaica, Bari, Laterza 1967,
rist. Pisa, ETS 2012, pp. 128-131
5 Fr. 320 L. P.
6 La traduzione qui riportata è di G. CERRI, La fisica di Parmenide, cit., p. 3 n., il qua-
le tuttavia assegna al verso un significato etico più che speculativo. Precedentemente il tes-
studi e ricerche 249

principio dell’ex nihilo nihil. Questa traduzione, tuttavia, dipende dall’equi-


valenza semantica δέν = οὐδέν, equivalenza che non solo non è confermata,
ma è anzi contrastata da un’altra occorrenza del misterioso termine δέν, pre-
sente nella più celebre formula di Democrito µὴ µᾶλλον τὸ δὲν ἢ τὸ µηδὲν
εἶναι7, «non più del nulla è il δέν». L’equiparazione di Democrito, espressa
attraverso µὴ µᾶλλον, rende impossibile intendere δέν come assimilabile a
οὐδέν, perché li oppone. Ora, muovendo dal certo valore semantico di οὐδέν
come nihil, pur restando a tutt’oggi incerto l’autentico significato di δέν, in
virtù dell’opposizione democritea apparirà chiara la sua prossimità a quello
di τις e di aliquid, e dunque il suo indicare un «qualcosa»8. Trasferendo quel
che si ricava da Democrito sul frammento di Alceo, risulta che costui, inve-
ce che il nihil ex nihilo, sta affermando che da qualcosa (δέν) non potrebbe
derivare nulla (οὐδέν). Così, non solo la più antica presunta attestazione del
principio del nihil ex nihilo, e con essa la certezza della sua presenza in tut-
to l’orizzonte d’età arcaica, non si rivelano ben fondate, ma persino l’οὐδέν
di Alceo non appare coincidere con l’assoluta nozione ontologica di nulla, che
tale principio prevede, ma piuttosto con una negazione relativa a ‘qualcosa’.
Trasponendo la questione nella lingua francese, che meglio esemplifica quel
che qui si intende, l’οὐδέν di Alceo è traducibile con «rien», ma non con
«néant». In conclusione, l’espressione di Alceo contempla la nozione di cau-
sa o derivazione e la capacità di fornire di essa l’esistente, ma non il princi-
pio ontologico del nihil ex nihilo perché, più a monte, non contempla un’on-
tologica e assoluta nozione di nulla.
Rilevata l’ambiguità insita nel supporre la presenza del principio del ni-
hil ex nihilo in tutto il pensiero d’età arcaica e, insieme a essa e causante es-
sa, quella della stessa nozione di ‘nulla’, resta aperta la questione relativa al-
la sua origine. In questa sede si tenterà di prospettare una risposta attraver-
so l’esame di alcuni luoghi del poema di Parmenide, pensatore al quale è tra-
dizionalmente attribuita la sua chiara tematizzazione. Obbiettivo dell’indagi-
ne è dimostrare la necessità storica e teorica della riflessione parmenidea per
il guadagno della nozione ontologica di nulla e, per ciò stesso, l’assenza di ta-
le nozione all’interno di essa.

to era stato tradotto in modo analogo da M. TREU, Alkaios, München, griechisch und deutsch
1963, cit., p. 63: «aus nichts könnt nie etwas entstehen», e da T. REINACH -A. PUECH, Alcée.
Sapho. Fragments, Paris, Les Belles Lettres 1966, cit., p. 57: «rien, ne naîtrait de rien». Ma
già J.H HARTUNG, Die griechischen Lyriker; griechisch mit metrischer Uebersetzung und prü-
fenden und erklärenden Anmerkungen, Leipzig, W. Englemann 1856, p. 45, congettura κοὐδέν
κ’ἀ’οὐδένος γένοιτο e traduce «und nichts aus nichts entstehen kann». Che il δένος di Al-
ceo valga οὐδένος viene poi esplicitamente fissato da E. LOBE- D. PAGE, Poetarum lesbiorum
fragmenta, Oxford, Clarendon Press 1955. Diversamente G. CALOGERO, Storia della logica
antica, cit., pp. 232-233, che invece determina δέν come opposto a οὐδέν sulla base di dati
che saranno a breve presi in analisi, sebbene poi lo studioso proponga una sua personale tra-
duzione alla quale reagisce A. BRANCACCI, La filosofia del linguaggio di Democrito, «La Cul-
tura», XXV, 1987, 104-119: p. 108 n. 11.
7 Fr. 68 B 156 DK.
8 Per le proposte di traduzione del frammento di Democrito, e per la loro discussio-
ne, cfr. A. BRANCACCI, La filosofia del linguaggio di Democrito, cit., pp. 105-109.
250 studi e ricerche

Tra i numerosi problemi interpretativi che interessano l’opera di Parme-


nide ve ne è uno che, nonostante la sua evidenza, è sovente trascurato: la non
aderenza dello schema esplicativo generalmente adottato per la speculazione
presocratica alla sua dottrina.
Secondo tale schema, l’indagine dei presocratici volge, attraverso ragio-
namenti di tipo eziologico, analogico e associativo, alla ricerca e alla deter-
minazione dell’ἀρχή, la ragione originaria in grado di giustificare presenza e
fisionomia di quanto esiste, inteso come φύσις, ossia come inscritto in un
processo generativo9. Per notare la sua inappropriatezza alla filosofia di Par-
menide è sufficiente considerare la differenza che intercorre tra la posizione
occupata dall’ἐόν nella sua speculazione e, per esempio, quella occupata dal-
l’acqua in quella di Talete o dall’aria in quella di Anassimene10. Aristotele, dal
quale tale schema deriva – né potrebbe essere altrimenti, essendo alcuni pen-
satori presocratici sua scoperta storiografica diretta11 – sembra comprende-
re tale carattere del pensiero di Parmenide, se all’inizio della sua Fisica avver-
te l’esigenza di una sua confutazione. Le motivazioni di questa esigenza con-
sentono di cogliere, indirettamente, i motivi di tale inappropriatezza12.
Se nella concezione aristotelica la Fisica è la scienza che indaga il dive-
nire degli enti13, tale definizione richiede, agli occhi di Aristotele, di proce-
dere, nella fondazione di tale scienza, a una preliminare confutazione della
categorica negazione del divenire da parte di Parmenide. Cionondimeno, an-
cor più profonda è la ragione che conduce Aristotele a tale operazione. Per
Aristotele, infatti, conoscenza dell’oggetto significa conoscenza delle sue cau-
se e dei suoi principi14; ma la dottrina di Parmenide, negante divenire e mol-
teplicità, non lascia affatto posto alla nozione di causa. Questa, infatti, strut-
turalmente contempla sia la molteplicità, espressa nell’alterità di causante e
causato, sia il divenire, manifesto nel processo che dalla causa conduce all’ef-
fetto. Inoltre, la stessa struttura del conoscere, per il quale, s’è detto, la no-
zione di causa è centrale, si fonda sulla condizione del divenire: che si inten-
da questo come un dianoetico trarre conclusioni da premesse, o che lo si raf-
figuri come un noetico attingere un contenuto al reale da parte del pensiero,
entrambi i processi si svolgono necessariamente tra un ‘prima’ e un ‘poi’, che

9 Una descrizone, che mi pare paradigmatica, di questo tipo di ricerca detta ἱστορία 
ερὶ φυσεως, «indagine intorno alla natura», è già in PLATONE, Fedone, 96 a 8-10, dove Socra-
te la dichiara volta a εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, a «conoscere le cause di ciascuna cosa», de-
scrivendo tali cause come il διὰ τί γίγνεται ἔκαστον καὶ διὰ τί ἀόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι, il
«perché ciascuna cosa nasce, perisce ed è».
10 Il punto è ben illustrato da G. CALOGERO, Storia della logica antica, cit., p. 90.
11 Sulla ‘scoperta’ di pensatori presocratici da parte di Aristotele cfr. O. GIGON, Der
Ursprung der griechischen Philosophie, Basel, Schwabe 1945, p. 44, p. 60; A. BRANCACCI, Il
principio in Anassimandro, cit., p. 211.
12 Cfr. ARISTOTELE, Fisica I, 2-3.
13 W. WIELAND, La Fisica di Aristotele, Bologna, Il Mulino 1993, cit., p. 143, nota che
«il divenire non viene mai ipostatizzato, ma resta sempre inteso come determinazione di co-
se. Un divenire “in sé” non esiste per Aristotele».
14 ARISTOTELE, Physica I, 1, 184 a 12 e sgg.
studi e ricerche 251

pure codificano il divenire. L’intreccio di tali motivi, secondo Aristotele, con-


duce necessariamente alla confutazione di Parmenide, poiché se gli esiti del-
la sua dottrina restassero intatti, non solo l’indagine fisica, ma nessun tipo di
conoscenza risulterebbe possibile e giustificabile15.
Se, tuttavia, sia l’inadeguatezza dell’impianto esplicativo adottato per i
Presocratici al pensiero di Parmenide, sia il trattamento che a quest’ultimo
riserva il filosofo dal quale esso deriva, aprono alla possibilità che quella di
Parmenide, a differenza della maggior parte dei pensatori a lui coevi, non sia
un’indagine fondata sulla contemplazione della φύσις, e non abbia l’intento
di determinarne l’ἀρχή, tale possibilità è poi obliquamente suffragata dalla
correlazione che, prima di Aristotele, Platone instaura tra ricerca della cau-
sa e indagine sulla φύσις nel passo del Fedone ove è narrato il percorso intel-
lettuale di Socrate16, se solo lo si pone in rapporto con lo statuto di ‘pensa-
tore d’eccezione’, rispetto a quell’orizzonte culturale aperto da Omero e per-
manente nel suo tempo, che Platone conferisce a Parmenide nel Teeteto17.
La storiografia filosofica contemporanea, dal canto suo, determina il pen-
siero di Parmenide come fondante per tutta la successiva fase speculativa, alla
quale ha procurato le opposte nozioni di ἐόν e μὴ ἐόν, sovente rese, rispettiva-
mente, con «essere; ente; essente» e con «non essere; nulla; non ente; non es-
sente», ossia con termini che tendono a rinviare alle nozioni ontologiche fon-
damentali di essere e nulla, se non a coincidere con esse. Tale rilievo va tutta-
via considerato alla luce di un dato tutt’altro che trascurabile, considerando sia
l’orizzonte storico e speculativo di Parmenide18, sia quel che su di lui emerge
da Platone e Aristotele: l’essere o l’ente (non potendoli ancora immaginare co-
me criticamente distinti) e il non essere o non ente di Parmenide non sono con-
tenuti che si incontrano nella contemplazione della realtà oggetto di esperien-
za; pertanto, egli non può averli scorti all’interno della sua osservazione empi-
rica del reale, e di lì determinati come l’assolutamente esistente e l’assolutamen-
te non esistente. Inoltre, per come le due nozioni sono presentate da Parmeni-
de stesso, nemmeno è ipotizzabile che egli le abbia guadagnate attraverso ra-

15 Non mi è possibile fornire ulteriori indicazioni sulla confutazione aristotelica di Par-


menide, né sui motivi teorici che la determinano. Per ciò, rinvio a G. CALOGERO, Studi sull’e-
leatismo, Roma, Bardi 1932 (19772), pp. 3-5; S. MANSION, Le rôle de l’exposé et de la critique
des philosophies antérieures chez Aristote, in AA.VV., Aristote et les problèmes de méthode, Com-
munications présentées au Symposium Aristotelicum tenu à Louvain du 24 août au 1er sep-
tembre 1860, Louvain 1961, pp. 35-56.; W. WIELAND, La Fisica di Aristotele, cit.; G. GIARDI-
NA, I fondamenti della fisica. Analisi critica di Aristotele, Phys. I, Catania, Symbolon 2002; E.
VOLPE, La ricezione dell’Eleatismo in Aristotele come esempio di storiografia critica, «Scheg-
ge di filosofia antica», I. Pozzoni (ed.), Liminamentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 79-90. (2015).
I punti qui rilevati sono inoltre più ampiamente messi in luce e indagati da F. PAZZELLI, Il con-
fronto di Aristotele con l’eleatismo in Phys. I, 2-3, «Syzetesis», Dicembre 2011, pp. 1-21.
16 PLATONE, Fedone, 96 a- 99 a.
17 PLATONE, Teeteto, 151 e 1-7.
18 Cfr. A.D.P. MOURELATOS, The Route of Parmenides, with a new introduction, three
supplemental essays, and an essay by Gregory Vlastos, Las Vegas-Zurich-Athens, Parmenides
Publishing 2008, pp. 209-306.
252 studi e ricerche

gionamenti astrattivi consistenti in una sottrazione e in una negazione di tutte


le determinazioni degli elementi del reale, negazione infine arrestata di fronte
a quell’unico carattere per il quale di qualcosa si può affermare che essa è, an-
dando oltre il quale nulla sarebbe rimasto da sottrarre. Così procedendo, egli
sarebbe probabilmente giunto a determinare l’essere come l’unico carattere
onnipervasivo e definitorio del reale, comune a tutte le singole realtà che sot-
to tale rispetto si sarebbero configurate come identiche; non sarebbe invece ar-
rivato, come vi è invece giunto il Parmenide storico, a negare una variegata mol-
teplicità di elementi del reale sulla base della realtà del suo essente19.
A questa difficoltà di ricostruzione bene ha risposto quel paradigma in-
terpretativo, percorso fino in fondo per la prima volta da Guido Calogero20,
che pone come primario e privilegiato oggetto della meditazione di Parme-
nide non la realtà osservabile, ma la veste linguistico-semantica assunta da
quella stessa realtà, avvertita come parte integrante di essa. Altrimenti detto,
secondo tale paradigma, Parmenide, più che considerare gli elementi del rea-
le e i loro rapporti così «come essi si vedono», li ha concepiti e giudicati «per
come essi si dicono»21, poiché, come vedremo, la sua predisposizione specu-
lativa lo conduceva a conferire alla realtà manifesta mediante linguaggio22
una dignità ontologica non inferiore a quella manifesta mediante contempla-
zione. In effetti, riguardo alla genesi dell’ἐόν e del μὴ ἐόν di Parmenide, è
inoppugnabile che i primi «essente» e «non essente» dei quali a costui è da-
to fare esperienza immediata e diretta sono l’ἐόν e il μὴ ἐόν participi del ver-
bo εἶναι, «essere», presenti nella lingua da lui parlata. Anche Charles Kahn,
seppur con differenti modalità ed esiti esegetici, si è parzialmente allineato
all’impostazione interpretativa di Calogero nel sottolineare analiticamente
come il verbo εἶναι23 nella lingua di Parmenide sia un fondamentale segno si-

19 Per il momento, cfr. la condanna parmenidea di alcune situazioni di realtà, giudica-


te insussistenti rispetto al suo ente nel fr. 28 B 8. 38-41 DK, che sarà esaminato più oltre.
20 La prima comparsa di tale paradigma interpretativo è ben rintracciabile in G. CA-
LOGERO, Studi sull’Eleatismo, cit., 1932, pp. 4-10; una sua riproposizione, più ampia ed espli-
citante elementi che nella prima opera rimanevano impliciti, avviene invece in Storia della
logica antica, cit., pp. 85-94.
21 G. CALOGERO, Storia della logica antica, cit., p. 116, n. 35.
22 Tale disposizione mentale è infatti dovuta a quel tratto definitorio, tipico della spe-
culazione presofistica, definito da G. Calogero come la «coalescenza» delle tre sfere di real-
tà contemplata, pensiero, e linguaggio, per l’analisi del quale si rinvia alla sua Storia della lo-
gica antica, cit., pp. 42-57.
23 G. CALOGERO, Storia della logica antica, cit., p. 92, propone l’ipotesi di un linguag-
gio identico al greco ma privo del verbo εἶναι, per mostrare come esso possa facilmente tra-
dursi in altre formule. Per quanto concerne il significato di «esistere» riferito a un oggetto,
l’azione può esser portata al passato, ed esso può esser sostituito da verbi quali «nacque; si
generò»; per quanto riguarda la funzione predicativa, esso potrebbe tradurre in verbali i pre-
dicati nominali, come da Aristotele pare già proponesse il sofista Licofrone, e dunque usa-
re non ὁ ἄνθρωος λευκός ἔστιν «l’uomo è pallido», ma ὁ ἄνθρωος λελεύκωται «l’uomo
pallideggia», oppure λευκότητος μετέχει, «partecipa del pallore». Quanto alla sua funzione
veritativa, che io credo si possa ben aggiungere, in luogo di espressioni quali ἔστι μέν ταῦτα,
ὦ Σώκρατες, οὕτως ὡς σὺ λέγεις «è proprio così come dici tu, Socrate» (Ippia maggiore,
282a4), potrebbe dire φαίνεται μέν ταῦτα οὕτως ὡς σὺ λέγεις, «appare, si mostra proprio co-
studi e ricerche 253

gnificante, di cui il parlante si serve in modo immediato per organizzare ed


esprimere i suoi contenuti di esperienza, e come tale dato abbia grande im-
portanza ai fini della determinazione delle condizioni che hanno permesso l’o-
rigine della problematica dell’essere. Basti qui considerare, al riguardo, co-
me mediante εἶναι sia possibile assegnare attributi a determinati contenuti d’e-
sperienza, affermare la loro sussistenza o la loro verità, oppure ancora collo-
carli all’interno di un dato spazio o tempo. Attraverso il participio ὄν di εἶναι,
inoltre, si connotano come «esistenti; essenti; enti» tutti quegli oggetti d’e-
sperienza dei quali, per altro verso, pur si predica l’εἶναι negli altri sensi elen-
cati. Chiaramente ne risulterà come il verbo concerna l’espressione di tutti
quei concetti di profonda rilevanza filosofica.
Calogero ha tuttavia compiuto un ulteriore passo, riflettendo anche sul-
le conseguenze teoriche di un linguaggio provvisto delle negazioni linguisti-
che οὔ e μή, le quali consentono di esprimere contenuti in forma negativa e
non obbligano a porre una determinazione positiva per ogni contenuto espres-
so. Naturalmente, la connessione tra οὔ o μή e il verbo εἶναι consente di pri-
vare un contenuto di attributi, o di asserire la sua insussistenza o falsità, op-
pure l’assenza presso un dato spazio o in un certo tempo. Va ora seguita
un’ultima volta la riflessione di Calogero, ripercorrendo una significativa par-
te del suo ‘esperimento linguistico’: raffigurare un ipotetico ambiente parlan-
te un greco privo di ogni forma di negazione. Senza le negazioni tale lingua
sarebbe costretta a esprimere in forma affermativa anche le denotazioni su-
scettibili d’esser espresse negativamente: per esempio, in luogo di μὴ καλόν
(«non bello»), direbbe αἰσχρόν («brutto») oppure ἕτερον ἢ καλόν («altro dal
bello»); in luogo di οὐκ ἀληθές ἐστι («non è vero»), direbbe ψευδές ἐστι («è
falso»); invece che οὐδεὶς ἐθέλει θνῄσκειν («nessuno vuole morire») direbbe
άντες ζῆν ὀρέγονται («tutti desiderano vivere»)24.
Ora, un linguaggio privo di negazione obbliga l’espressione sempre in
termini positivi, ossia costringe a far corrispondere a ogni contenuto una po-
sitiva denominazione. Ma oltre alla limitazione che la privazione del «non»
costituisce sul piano della comunicazione, essa ha un’altra possibile conse-
guenza: parlando tale linguaggio ipotetico, è possibile approdare alla nozio-
ne di ‘nulla’ e a tutti quei problemi concettuali a essa relativi? Mancando la

sì come tu dici». Un parlante appartenente a tale immaginario contesto linguistico, chiede


Calogero, potrebbe mai giungere alla nozione di ἐόν, e a porsi il problema dell’‘essente’ co-
me vi giunse Parmenide? Una riflessione simile, seppur condotta seguendo modalità diffe-
renti e più ampie, per quanto concerne la nascita della metafisica antica, anima nel comples-
so il monumentale lavoro di C. KAHN, The verb ‘Be’ in ancient greek, Dordrecht, Reidel
1973, il quale tratta lo specifico caso parmenideo nel suo precedente articolo The thesis of
Parmenides, «Review of metaphysics», 22 (1968/1969), pp. 700-724; dello stesso autore, cfr.
anche la più recente raccolta Essays on Being, Oxford, Oxford University Press 2012. Infi-
ne, direzione interpretativa affine, seppur declinata secondo modalità ancora differenti, è pre-
sa da P. AUBENQUE, Syntaxe et semantique de l’être dans le poème de Parménide, in Etudes sur
Parménide, Vol. II: Problèmes d’interprétation, sous la direction de P. Aubenque, Paris, Vrin
1987, pp. 102-137.
24 Cfr. G. CALOGERO, Storia della logica antica, cit., pp. 92-93.
254 studi e ricerche

negatività nel linguaggio, può essa esser trovata in qualche luogo al di fuori
di esso? E in che modo si può approdare a essa, mai potendo dire che qual-
cosa non è, e apparendo tutti gli aspetti del reale come determinazioni posi-
tive? Vi è la possibilità che, predicandola esclusivamente in tal modo, la va-
riegata trama del reale appaia come luogo di reciproche e postitive differen-
ziazioni, ma mai come luogo di reciproche negazioni, e pure che positivamen-
te si configurino la falsità, l’insussistenza o l’assenza di ogni oggetto, perce-
pito o pensato.
Riguardo Parmenide, occorre domandarsi se con tale linguaggio ipote-
tico egli possa mai approdare alla nozione negativa di μὴ ἐόν e, inoltre, se la
realtà del suo ἐόν possa ancora costituire una valida ragione per negare una
molteplicità di aspetti del reale. Il dato storico, in proposito, mostra soltan-
to che Parmenide, tematizzatore di un μὴ ἐόν (di cui si tenterà di determina-
re il significato) e di un ἐόν la cui realtà è motivo di negazione di tante altre
realtà, parla un linguaggio provvisto di negazione, e di essa fa un uso di gran-
de rilevanza speculativa.
Per tentare una risposta ai quesiti posti, e per meglio chiarire la connes-
sa questione del ruolo del linguaggio nella speculazione parmenidea in fun-
zione di una migliore determinazione dell’origine della nozione di nulla, va-
le la pena di osservare alcuni luoghi dello stesso poema di Parmenide.
Si inizierà dalle premesse che sorreggono la dottrina parmenidea dell’ἐόν,
espresse attraverso le figure di due vie che alcuni convincenti argomenti di
Hermann Fränkel, sottolineando come il periodo arcaico ricorra spesso a
metafore motorie per esprimere le attività discorsive del pensare e del parla-
re, le determinano come rappresentazioni di tali attività25. Convincenti, ma
anche preliminarmente significativi, muovendo dall’ipotesi che il linguaggio
svolga un ruolo decisivo nella genesi della filosofia parmenidea.
I periodi costituenti le vie si trovano nei versi 3 e 5 del fr. 28 B 2 DK e
recitano:

fr. 2. 3: ὅως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; «che è e che non è pos-
sibile che non sia»;

fr. 2. 5: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι; «che non è e che è
necessario che non sia».

Le incongruenze sollevate dai numerosi tentativi di reperire un sogget-


to nei versi hanno progressivamente condotto gli interpreti a considerare più
aderente al loro contenuto non supporre affatto un soggetto26. Tenendo con-

25 Cfr. H. FRÄNKEL, Parmenidesstudien, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung 1930, pp.


154-157.
26 Non è qui possibile ripercorrere le discussioni esegetiche relative all’assenza di sog-
getto in queti versi; per ciò cfr. E. ZELLER-R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo svilup-
po storico, vol. III, Eleati, a c. di G. Reale, aggiornamenti bibliografici di G. Girgenti, Mila-
studi e ricerche 255

to di tali acquisizioni, riassumerei nel modo seguente la proposta che altro-


ve ho avuto modo di motivare più nel dettaglio27: considerare, all’interno dei
due periodi il poco analizzato τε καὶ (solitamente reso con la congiunzione
«e28») come l’elemento che, congiungendo i due enunciati, fa sì che in ogni
periodo il secondo chiarifichi il primo esplicitando quel significato che la so-
la lettura del primo non renderebbe pienamente comprensibile. In tal modo,
la prima operazione di Parmenide è l’attribuzione e la fissazione di un valo-
re semantico: premesssa per giungere alla verità è che che ἔστιν valga sempre
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, ossia che l’affermazione dell’«è» significhi sempre «impos-
sibilità di non essere», vale a dire, l’esclusione della sua negazione. Parallela-
mente, sempre in vista del guadagno della verità29, Parmenide pone che mai
si ammetta la negazione οὐκ ἔστιν, dacché la sua presenza comporta sempre
la necessità di questa, che è invece del tutto vietata dalla via veritiera; ogni
volta che si afferma «non è» (οὐκ ἔστιν), infatti, si afferma «è neccessario non
essere» (χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Naturalmente, tali operazioni linguistiche in Par-
menide non assumono questa forma, ma si costituiscono immediatamente
come aspetti dell’autentica struttura del reale, essendo il valore dell’ἔστιν e
dell’οὐκ ἔστιν non solo semantico, ma anche ontologico. Ora, quali sono i mo-
tivi e i significati di tale operazione?
Se con εἶναι sono espresse tante nozioni (sussistenza, verità e predica-
zione di qualità) centrali nel pensiero filosofico successivo30, e con la nega-
zione di εἶναι sono negate, è da osservare anche che il valore semantico di
εἶναι presuppone sempre la sua attribuzione a qualcosa, dacché senza tale re-
lazione esso nulla esprime31. Occorre poi ricordare nuovamente Aristotele, e

no, Bompiani 2011, pp. Per quanto mi riguarda, credo che la traduzione complessivamente
più aderente al fr. 2. 2-3, 5 DK (αἵερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι/ἡ μὲν ὅως ἔστιν τε
καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι [...] ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι» sia: «l’una, (che
dice) che è e che non è possibile che non sia; l’altra, (che dice) che non è e che è necessario
che non sia». Vorrei inoltre motivare la mia scelta adducendo un rilievo testuale che non mi
risulta sia stato colto e formulato dai tanti interpreti che pure hanno adottato tale traduzio-
ne: la prima occorrenza del termine ὁδός in Parmenide (fr. 1. 2 DK) è accompagnata dall’ag-
gettivo ολύφημος, «che molto enuncia; che dice molte cose». Sulla base di questo dato, tra-
durre il fr. 2. 3, 5 con un sottinteso λέγειν non sembra affatto congetturale, dacché l’agget-
tivo mostra che, su un piano figurato, le vie di Parmenide hanno facoltà di enunciazione.
27 Mi permetto, a tal proposito, di rinviare a L. FRANCHI, Alcune osservazioni sul pro-
cedimento logico di Parmenide, in Physiologia. Topics in Presocratic Philosophy and its Recep-
tion in Antiquity, AKAN, 12, C. Vassallo (ed.), Trier, Wissenschaftlicher Verlag Trier 2017, pp.
199-227: pp. 204- 209
28 Cfr. ad esempio, l’attenta e puntuale analisi condotta da B. CASSIN, Si Parménide. Le
traité anonyme De Melisso, Xenophane, Gorgia, Lille, Presses Universitaires de Lille 1980,
pp. 50-52.
29 Cfr. 28 B 2. 6-8 DK
30 Cfr. anche L. BROWN, The verb ‘to be’ in ancient Greek: some remarks, in S. Everson
(ed.), Companion to Ancient Thought, vol. III: Language, Cambridge, University Press 1994,
pp. 212–236: pp. 212-216.
31 In proposito G. CALOGERO Storia della logica antica, cit., p. 91, fa l’esempio di un
parlante che per comunicare si serve solo di sostantivi, senza il verbo essere, e di un altro
parlante che per comunicare si serve solo del verbo essere, senza sostantivi. Risulterà chia-
ro che sarà il primo dei due parlanti ad avere maggiori possibilità di farsi comprendere.
256 studi e ricerche

segnatamente la formula del μοναχῶς λέγεσθαι τὸ ὄν («quel che è si dice in


un solo modo») nella quale Aristotele stesso ed Eudemo fissano la premessa
della filosofia di Parmenide32: l’avverbio μοναχῶς informa che Parmenide, in-
vece che distinguere in seno all’unico segno εἶναι la varietà dei suoi significa-
ti, ha dedotto l’univocità del suo valore muovendo da quella del suo segno.
In altre parole Parmenide, nell’impiego di εἶναι, non avrebbe di volta in vol-
ta distinto i suoi differenti significati, ma avrebbe avvertito il verbo come
sempre, e contemporaneamente, indicante la ‘confusa’ totalità di essi.
L’intreccio di questi tre dati illumina la premessa di Parmenide, la cui
prima operazione è una netta separazione tra ἔστιν e οὐκ ἔστιν che a sua vol-
ta presuppone sia il riscontro di una mescolanza tra i due sia il rilievo di un
problema derivante da essa. Per determinare in cosa consistano tali mesco-
lanza e problema, è sufficiente prendere, tra le innumerevoli occorrenze di
εἶναι, un enunciato quale ὁ ἄνθρωος λευκός ἔστιν (l’uomo è bianco), nel qua-
le il soggetto «uomo», mediante εἶναι predicativo, riceve l’attribuzione di
«bianco». Per il soggetto di cui si predica εἶναι tale enunciato implica, come
sue ulteriori attribuzioni, anche molteplici negazioni di εἶναι, poiché se «l’uo-
mo è bianco», ne segue che esso non è (οὐκ ἔστιν) numerose altre possibili
determinazioni. Ora, se predicare in un certo modo l’è di qualcosa implica il
riferirgli molteplici non è, ciò individua quale possa essere la ‘mescolanza’ di
è e non è di cui si è parlato, ma non perché ciò comporti un problema: l’e-
ventuale verità dell’enunciato «l’uomo è bianco» prevede anche quella degli
enunciati da esso implicati ed esprimenti la negazione d’essere, la quale col-
labora all’espressione di contenuti veritieri al pari dell’affermazione.
Per comprendere la problematicità di tale mescolanza, problematicità
che conduce alla separazione parmenidea dell’ἔστιν dall’οὐκ ἔστιν e all’esclu-
sione del secondo, è essenziale la formula aristotelica del μοναχῶς λέγεσθαι
τὸ ὄν, indicante la fusione dei sensi di εἶναι all’interno del suo unico segno.
Tra i sensi espressi da εἶναι, infatti, oltre alla già osservata predicazione rien-
trano anche la sussistenza e la verità (la cui reciproca separazione presuppor-
rà ulteriori sviluppi speculativi). Tale fusione di significati in seno a un uni-
co segno significante si manifesta immediatamente come l’impiego della me-
desima parola per differenti significati, ma deve anche contemplare la con-
temporanea presenza di essi a ogni impiego verbo. Risulterà allora chiaro
che, se sul piano della predicazione l’implicazione dell’οὐκ ἔστιν da parte
dell’ἔστιν sembra un’ovvia conseguenza, sul piano dell’esistenza e della veri-
tà tale implicazione si traduce immediatamente nell’implicazione del falso e
dell’insussistente, espressi dall’οὐκ ἔστιν, da parte del vero e del sussistente,
espressi da ἔστιν. Sul tale piano la commistione di è e non è è inaccettabile,
poiché in esso i valori di ἔστιν e οὐκ ἔστιν, proprio come quello del ‘si’ e del
‘no’, impongono la loro netta separazione. L’indistinzione dei sensi di εἶναι

32 Cfr. ARISTOTELE; Fisica. I, 2, 185 a 21; ma anche Eudemo in SIMPLICIO, Fisica 115. 1
(= 28 A 28 DK).
studi e ricerche 257

fa allora sì che tale inconciliabilità sia del tutto e immediatamente proiettata


dal piano semantico dell’esistenza e della verità su tutti gli altri, e dunque an-
che su quello della predicazione.
A tali condizioni Parmenide reagisce elaborando una separazione tra
«è» e «non è», e dal metodo derivante da essa giunge alla determinazione del
suo ἐὸν, il quale mostra numerosi tratti definitori in grado di confermare ta-
le ricostruzione, a cominciare dal suo stesso nome di ἐὸν33.
Guardando al valore intrinsecamente relazionale del verbo εἶναι, che
impone a esso di legarsi a nomi-determinazioni per avere valore semantico,
è infatti osservabile come sia proprio tale sua caratteristica a dare luogo al-
l’omnis determinatio est negatio. Le modalità attraverso le quali il verbo rice-
ve il suo valore sono le stesse che lo portano a implicare la sua negazione, dac-
ché la problematica mescolanza di «è» e «non è» altro non è che la conse-
guenza dell’aggiunta di determinazioni all’ἔστιν, o meglio l’attribuzione del-
l’ἔστιν a una qualsiasi determinazione. Questo orienta la ricerca di Parmeni-
de verso la posizione di quell’unica realtà nei confronti della quale l’attribu-
zione dell’ἔστιν non implichi quella dell’οὐκ ἔστιν e delle sue conseguenze nul-
lificanti. Il che significa trovare quella realtà massimamente esprimente la sua
sussistenza-verità, di cui non si possa mai dire che «non è». Ma l’unica real-
tà che può sostenere l’attribuzione dell’ἔστιν, universale indicatore di positi-
vità, senza diventare, per ciò stesso, contraddittoria, implicando l’universale
indicatore di negatività, sarà quella che trae la sua origine dalla stessa verba-
lità dell’ἔστιν e sostanzializza il suo valore semantico nell’ἐόν, ontologizzan-
dolo34.
Non solo la denominazione, ma anche la determinazione dei tratti di ta-
le realtà, si fonda sull’esigenza semantica della separazione del «non è»
dall’«è», come risulta da diversi luoghi del testo. Breve ma indicativo esem-
pio, valevole preliminarmente, è il fr. 8. 15-16, dove, dopo aver deciso, per
l’ἐόν, l’esclusione di origine e dissoluzione (fr. 8. 14-15: οὔτε γενέσθαι
οὔτ’ὄλλυσθαι), è riassunta nel modo seguente la premessa che fonda tale esi-

33 M. PULPITO, I tre livelli dell’ontologia parmenidea, «Giornale di Filosofia» 2012, 1-


45: 9, n. 11, indagando la natura materiale o immateriale dell’ente parmenideo, nota che l’as-
senza di una chiara e definita nozione di materia conducesse pensatori come Platone o Ari-
stotele a denominare questa con nomi tratti dal lessico ordinario (rispettivamente chora e
hylé). Pertanto, lo studioso ritiene non escludibile che eon sia il nome che Parmenide accor-
da alla materia, ponendo indirettamente l’interessante questione del nome con il quale Par-
menide connota la sua realtà. Da parte mia, credo che la posizione del nome di eon «ciò che
è; l’essente» trovi le sue ragioni più profonde all’interno di esigenze di natura semantica dal-
le quali derivano conseguenze ontologiche. Come cercherò di dimostrare, la determinazio-
ne parmenidea di tanti tratti definitori dell’eon risulta possibile proprio a partire dal suo chia-
marsi eon; dal suo essere per definizione «ciò che è» e , per ciò stesso (si rammenti il fr. 2. 3
DK), ciò che «non può non essere».
34 Così anche B. CASSIN, Si Parménide, cit., p. 55, affermando che il verbo non può ave-
re che sé stesso come soggetto, ossia non può che «costringere» se stesso a diventare suo
soggetto; dello stesso avviso della studiosa è anche N.L. CORDERO, By being, it is: the thesis
of Parmenides, Las Vegas, Parmenides Publishing 2004, p. 52.
258 studi e ricerche

to: ἡ δὲ κρίσις ερὶ τούτων ἐν τῷ δ’ἔστιν: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, «la decisione, ri-
guardo a queste cose (riguardo alle determinazioni dell’ente) si basa su que-
sto: “è” o “non è”» seguita da un rinnovato invito all’esclusione dell’οὐκ
ἔστιν. Ora, senza riferimento alla dimensione linguistica, e segnatamente al
valore semantico di ἔστιν e οὐκ ἔστιν sancito dal μοναχῶς λέγεσθαι τὸ ὄν, ta-
le passo non risulterebbe comprensibile. L’esclusivo piano ontologico non pre-
senta infatti, nell’orizzonte concettuale e culturale di Parmenide, stringenti
motivi per privare senz’altro l’ἐόν di nascita e termine: cosa impedirebbe a
Parmenide di affermare che l’ente è per tutto il tempo in cui esso è, e che non
è prima di essere e dopo essere stato, senza che questo infici il suo atto di es-
sere pienamente nell’intervallo di tempo in cui è? E perché, invece di tale sce-
nario, viene qui affermata quella norma, che conoscerà notevoli fortune nel
pensiero occidentale, che impone alla realtà autenticamente essente di esse-
re realtà sempre essente, pena la perdita, o la svalutazione, del suo rango di
essente? L’unica spiegazione risiede nella reciproca intolleranza semantica di
ἔστιν e οὐκ ἔστιν decretata dal valore assoluto e univoco (μοναχῶς) con il qua-
le essi sono da Parmenide avvertiti. Muovendo da essa, ammettere che l’es-
sente sia in alcuni punti della linea temporale e non sia in altri significa do-
ver predicargli sia l’ «è» che il «non è». Questo, che se fosse diluito lungo il
corso del tempo e inteso in termini unicamente ontologici non solleverebbe
incongruenze, non può essere invece accettato se con «è» e «non è» si espri-
messe anche, e contemporaneamente, la verità e la falsità dell’oggetto, che non
possono coesistere insieme. L’esigenza di escludere dall’ente ogni forma di οὐκ
ἔστιν, il cui potere di rendere insussistente l’oggetto è decretato dal μοναχῶς
λέγεσθαι τὸ ὄν, e non una norma di natura eminentemente ontologica, con-
duce Parmenide a escludere origine e termine dall’ente, e a cristallizzare quel-
la norma di notevole incisività nella seriore storia della metafisica.
La deduzione della fisionomia dell’oggetto a partire dai valori semanti-
ci delle sue espressioni verbali, del resto, si palesa con ancor più vigore nel
precedente fr. 8. 5 DK, ove il rapporto tra ente e tempo è espresso in modo
del tutto singolare, poiché sembra venir addirittura messa in questione l’idea
di eternità come eterna durata, e dove, ancora una volta, senza ricorso al lin-
guaggio, le ragioni di tale espressione resterebbero incomprensibili.
Nel fr. 8. 5 DK infatti, in riferimento al suo ente, Parmenide afferma:

οὐδέ οτ’ἦν οὐδ’ἔσται, ἐεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ ᾶν


«né una volta era né sarà, perché è tutto insieme adesso»

La singolare enunciazione del verso riportato da Simplicio35, del quale


esiste anche una lezione differente tramandata da Asclepio e accolta da Ma-
rio Untersteiner36, ha sollevato numerose discussioni e tentativi di correzio-

35 SIMPLICIO, Phys. 30. 1-3.


36 M. UNTERSTEINER, L’essere di Parmenide è οὖλον non ἔν, «Rivista Critica di Storia del-
studi e ricerche 259

ne del verso, nessuno dei quali, a mio vedere, del tutto convincente37, dac-
ché né la differente lezione né le congetture di volta in volta proposte sopi-
scono una questione qui fondamentale. Essa consiste nella comprensione del
motivo per il quale Parmenide si distacca notevolmente dalla tradizionale
raffigurazione dell’eternità, affermando che il suo ente eterno mai era o sarà
perché è adesso laddove è notevolmente attestato come la coeva rappresen-
tazione di essa sia quella di un’eterna durata nel tempo38, e lo sia al punto
che persino l’allievo Melisso, distaccandosi significativamente dal maestro39,
la riadotta40. Bisognerà infatti attendere il Timeo platonico per incontrare di
nuovo – e in un luogo del testo dove, non a caso, probabile è l’influsso par-
menideo41 – una raffigurazione dell’eternità differente da quella dell’eterna
durata. Perché, allora, Parmenide sostituisce l’eternità del ‘sempre’(ἁεὶ) con
quella dell’’adesso’ (νῦν)? Anche tale questione trova una sua risposta nella
considerazione della differenza semantica che intercorre tra ἔστιν, verbo-nu-

la Filosofia», 10 (1925), pp. 5-23, poi divenuto il cap. I del suo Parmenide, Testimonianze e
frammenti, Firenze, La Nuova Italia 1958, adotta tale lezione non in funzione temporale, ma
per sostenere la sua nota tesi dell’assenza di una dottrina dell’ἔν in Parmenide, dacché l’ἔν
συνεχές di Simplicio nella varia lectio di Asclepio è sostituito da μοῦνον οὐλοφυές. Sulla que-
stione cfr. le osservazioni di F. TRABATTONI, Mario Untersteiner interprete di Parmenide, in Le
vie della ragione. Ricordo di Mario Untersteiner, A. Battegazzore - F. Decleva Caizzi (edd.),
Milano 1989, pp. 125-152, poi ripreso in F. TRABATTONI, Parmenide, Untersteiner e il fr. 8. 5-
6, «Elenchos» 12 (1991), 313-318.
37 La correzione più interessante è proposta da P.B. MANCHESTER, Parmenides and the
Need for Eternity, «The Monist», 62 (1979), pp. 81-106, e poi da G. CERRI, Parmenide. Poe-
ma sulla natura, Milano, BUR 1999, pp. 220-223 (nessuno dei due, mi pare, rendendosi tut-
tavia pienamente conto del fatto che la loro proposta ridefinisca il rapporto tra ente e tem-
po), per essere recentemente adottata e rimeditata da M. PULPITO, Parmenide e la negazione
del tempo pp. 167-172. Essa riprende il fr. 8. 4-5: ἀτρεμὲς ἠδ’ἀτέλεστον:/οὐδέ οτ’ἦν
οὐδ’ἔσται, ἐεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ ᾶν, sopprimendo i due punti dopo ἀτέλεστον. Ne risulta:
«immobile e infinito mai era e mai sarà, perché è adesso tutto insieme». Ora, se essa sembra
risolvere il problematico ἀτέλεστον nell’ὁμοῦ ᾶν, da un lato non spiega il motivo del νῦν
(che in tale enunciazione non ha chiara utilità, come ben sottolinea Pulpito, op. cit., p. 173),
e dall’altro trascina nella negazione del problematico ἀτέλεστον anche il ben più chiaro ἀτρε-
μές, che è invece caratteristica indiscutibilmente appartenente all’ente (cfr. fr. 28 B 1. 29 DK).
38 Cfr. fra i tanti casi della rappresentazione dell’eternità possibili, cfr. l. I. 70 oppure
ERACLITO, fr. 22. B 2 DK. Sul tema del tempo nel pensiero greco, cfr . P. PHILIPPSON, Il con-
cetto greco di tempo nelle parole aion, chronos, kairos, eniautos, «Rivista di Storia della Filo-
sofia», 4 (1949), pp. 81-97; E. DEGANI, ΑΙΩΝ, Bologna, Patron 2001; N. D’ANNA, Il gioco co-
smico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Roma, Edizioni Mediterranee 2006.
39 Sui motivi di tale differenza tra Melisso e Parmenide, cfr. G. CALOGERO, Storia del-
la logica antica, cit, pp. 128-131.
40 Fr. 30 B 1 DK: ἁεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἁεὶ ἔσται; «sempre era, quel che era, e sempre sa-
rà».
41 Cfr. PLATONE, Timeo, 37e-38 a per quanto concerne il probabile influsso parmeni-
deo circa la temporalità; inoltre, poco prima (ibid. 33 b), Platone ricorre alla figura della sfe-
ra, che Parmenide utilizza nel fr. 8.42-49 DK. Sulla questione, e sui rilievi testuali di tale re-
lazione, cfr. gli ormai classici H. CHERNISS, Aristotle’s Criticism of Plato and the Academy, New
York 1962, p. 211; F.M. CORNFORD, Plato’s Cosmology: the Timaeus of Plato Translated with
a Running Commentary, London 1937, cit., p. 98 n. 1, e J. WHITTAKER, The Eternity of the
Platonic Forms «Phronesis», 13 (1968), pp. 131-144. Cfr. anche C. LUCHETTI, Tempo ed eter-
nità in Platone, Milano, Mimesis 2014.
260 studi e ricerche

cleo della via veritiera, e i verbi ἦν o ἔσται: se i due «era» e «sarà» sono av-
vertiti non come modificazioni del verbo εἶναι, ma, nell’assolutezza e nell’u-
nivocità del loro valore semantico, come differenti dall’«è», segno della po-
sitività del reale, essi si costituiranno inevitabilmente come due mascherate
forme di quel «non è» (οὐκ ἔστιν) che Parmenide tenta di escludere dall’en-
te. Ne segue che, se «quel che è» (ἐόν) mai deve esser il soggetto di un «non
è» (οὐκ ἔστιν), esso «non era e non sarà», perché se «era» allora «non è» e se
«sarà» allora «non è».
Che l’esclusione del «non è» da «quel che è» sia l’effettivo modus ope-
randi di Parmenide, inoltre, credo si possa evincere dal fr. 7. 5 DK, dove ta-
le procedura è a mio vedere direttamente esplicitata. Qui la Dea esorta Par-
menide a procedere sulla via veritiera affermando κρῖναι δὲ λόγῳ ολύδηριν
ἔλεγχον, solitamente tradotto con un generico: «giudica con la ragione la mol-
to controversa prova/confutazione42». Tuttavia, come altrove ho tentato di di-
mostrare43, sia la posizione del verso, sia la terminologia adottata da Parme-
nide, inducono a ritenere che esso esprima qualcosa di ben più preciso e fun-
zionale al procedimento speculativo del filosofo. Infatti, se secondo alcuni in-
terpreti il fr. 7. 5-6 DK coincide con l’inizio del fr. 8 DK44, nel quale Parme-
nide procede alla determinazione dell’ἐόν, è lecito aspettarsi che immediata-
mente prima di realizzare questa egli enunci la regola per eseguirla, e che dun-
que κρῖναι, anticipando la sua concreta applicazione realizzata dalla κρίσις del
fr. 8. 15, più che «giudicare; valutare», significhi qui «separare; disgiungere»,
mentre la ολύδηρις ἔλεγχος, più che la «prova molto dibattuta», significhi
la «molto discorde controversia», ovvero sia il nome con il quale Parmenide
si riferisce alla verbale negazione d’essere οὐκ ἔστιν.
Così intendendo, prima della deduzione dell’ἐόν si dichiara la modalità
con la quale essa deve avvenire: «separa, con il λόγος, la molto discorde con-
troversia (la negazione d’essere)». La separazione di questa, detta «discorde»
poiché in grado di rendere contraddittoria ogni realtà, è naturalmente del tut-
to funzionale alla sua esclusione.
Va inoltre rammentata di nuovo la formula aristotelica attribuita a Par-
menide del μοναχῶς λέγεσθαι τὸ ὄν, della quale sovente è evidenziato l’av-
verbio μοναχῶς, ma raramente il verbo λέγεσθαι, che invece chiaramente af-

42 W.J. VERDENIUS, Parmenides. Some Comments on his Poem, Groningen, Wolters


1942, cit., p. 64 propone di tradurre ολύδηριν ἔλεγχον attivamente, ossia come la prova «whit
much contest» piuttosto che «much disputed». La formula è invece tradotta con «refuta-
tion», pur mantenendo il senso attivo dell’aggettivo, da D. O’BRIEN-J. FRÈRE, Études sur Par-
ménide, vol. I: Le Poème de Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Paris, Vrin 1987,
cit., p. 33.
43 Cfr. L. FRANCHI, Alcune osservazioni sul procedimento logico di Parmenide, cit., pp.
218-220.
44 Cfr. E. ZELLER-R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III,
Eleati, cit., p. 194; J. MANSFELD, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt,
Utrecht, Van Gorcum 1964, p. 92 n. 1; D. O’BRIEN-J. FRÈRE, Le Poème de Parménide, cit.,
pp. 33-34, 46-47.
studi e ricerche 261

ferma l’origine linguistica della dottrina parmenidea. Rapportando il λέγεσθαι


della formula aristotelica con il λόγος del κρῖναι λόγῳ parmenideo, emergo-
no infatti ulteriori prove della centralità del ruolo svolto dal linguaggio per
la realizzazione della dottrina di Parmenide. L’Eleate informa che lo stru-
mento per compiere la separazione e l’esclusione dell’οὐκ ἔστιν, a partire dal-
la quale sarà possibile approdare all’ἐόν, è il λόγος. Ora, se l’interprete tiene
in considerazione la formula aristotelica, leggendo il verso parmenideo trae
l’ulteriore conclusione che il λόγος è strumento adatto a compiere tale esclu-
sione perché esso è, ancor prima, il luogo ove essa viene a costituirsi. Infatti,
dove potrebbe Parmenide incontrare tale negazione falsificante e nullifican-
te, se non nel linguaggio?
Se l’ἐόν parmenideo risulta essere l’esito di un processo che inizia dal-
l’esclusione οὐκ ἔστιν, e per ciò stesso si configura come ciò che di esso mai
può esser soggetto, va ora determinato come viene a costituirsi il μὴ ἐόν, so-
vente assimilato all’ontologico nulla come la sua prima espressione in termi-
ni speculativi. A riguardo va notato che già le modalità definitorie dell’ἐόν e
dei suoi tratti essenziali sollevano la possibilità che l’antitetico μὴ ἐόν non co-
incida con il nulla assoluto, poiché se il primo è ciò che mai può esser sog-
getto οὐκ ἔστιν, il secondo potrebbe ben coincidere, di riflesso, con ciò che
invece si presta a esserlo, e dunque, al contrario di quel che tradizionalmen-
te si intende con «nulla», con tutta una serie di realtà provviste di concrete
determinazioni. In effetti, interpretare il μὴ ἐόν di Parmenide come l’assolu-
to nulla ontologico contrasta immediatamente con alcuni luoghi del poema.
Basti qui leggere il fr. 7. 1-2, il cui messaggio è sufficiente a mettere in dis-
cussione sedimentati clichés interpretativi del testo parmenideo. Questa cop-
pia di versi afferma:

οὐ γὰρ μήότε τοῦτο δαμῆι εἶναι μὴ ἐόντα;


ἀλλὰ σὺ τῆσδ’αφ’ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα

«questo mai si imponga: che siano le cose che non sono,


ma tu da tale via di ricerca trattieni il pensiero».

Primo ostacolo per l’identificazione di μὴ ἐόν e nulla è il plurale μὴ


ἐόντα: sulla base di questa espressione esso andrebbe tradotto con «i nulli45»,

45 Del resto, talmente sedimentata è la convinzione che Parmenide proceda ricaccian-


do il nulla, nozione presupposta dalla sua speculazione, nel dominio dell’inesistente e del-
l’inconoscibile che, per esempio, A. PASQUINELLI, I Presocratici. Testimonianze e frammenti,
Torino, Einaudi 1981, cit., p. 47, pur non adottando il temine «nulla; non essere», rende il
plurale μὴ ἐόντα del fr. 7. 1 con il singolare «ciò che non è», non cogliendo le implicazioni
di sussitenza, e con esse la differenza dal suo’ciò che non è’ che il plurale del testo compor-
ta (ed è pure da notare, a margine, che la fallace via di quel che non è del fr. 2. 5 DK è det-
ta nel fr. 2. 6 αναευθέα «del tutto inconoscibile» o «ignota», e dunque pertinente a qual-
cosa di assolutamente insussistente, solo nel testo tramandato da SIMPLICIO, Physica, 166.28-
117.1, mentre PROCLO, Parmenidem, 1078.1-5 riporta αναειθέα «del tutto priva di fidu-
262 studi e ricerche

e ciò sarebbe stravagante perché il plurale sancirebbe che il nulla, per defi-
nizione privo di proprietà che ne esplicano positivamente la fisionomia, avreb-
be tuttavia una consistenza tale da rendere positivamente determinabile la sua
quantità discreta, e da renderla determinabile come plurale. L’altro cliché
messo a dura prova dal testo, sebbene resti sostanzialmente ignorato, è la pre-
sunta impossibilità oggettiva di pensare il non essente, poiché qui, a rigore,
viene ordinato di trattenere il pensiero (σὺ εἶργε νόημα) dall’intraprendere la
via propria dei μὴ ἐόντα; se il μὴ ἐόν fosse davvero impossibile a pensarsi46
(e la via a cui esso pertiene è impercorribile), che senso avrebbe vietare al pen-
siero di assumerlo come suo oggetto e di percorrere la sua via? Basterebbe
tale impossibilità a impedire l’operazione, ed è pleonasmo evitabile quello di
vietare qualcosa che è già di per sé impossibile a compiersi.
In aggiunta, qui non si prescrive di trattenere il pensiero dall’assumere
«ciò che non è» come suo oggetto, ma, all’interno di tale assunzione, di trat-
tenerlo dal determinare «ciò che non è» come essente. Stando al testo, l’as-
sunzione di ciò che non è come oggetto di pensiero è possibile e addirittura
consentita, purché il pensiero la realizzi rispettando la fisionomia del suo og-
getto, e assumendolo lo determini come non essente.
Sembra dunque che la sovente affermata impensabilità parmenidea del
non-essere, che pure sembrebbe emergere da alcuni luoghi del suo dettato,
in realtà non significhi esattamente quel che poi verrà inteso dalla specula-
zione filosofica successiva47, ossia che al pensiero è dato assumere come suo
oggetto unicamente l’essente, configurandosi sempre come pensiero di qual-
cosa e contenitore di un contenuto positivo. Per tale concezione occorre l’as-

cia» mentre Timaeum, VI 50 αραειθέα «di persuasività ingannevole»; questi diversi agget-
tivi riferiti alla via implicano che quel che è a essa pertinente possiede una qualche sussisten-
za sua propria, seppur fallace e ingannatoria).
46 Tale convinzione deriva soprattutto da quel problematico emistichio isolato consi-
stente nel fr. 3 DK: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἔστιν τε καὶ εἶναι. Esso, la cui traduzione più letterale
e immediata è «infatti è lo stesso pensare ed essere», ha condotto gli interpreti a due oppo-
ste tendenze: l’una, che pone Parmenide come assolutamente realista e risolutore del pen-
siero nell’essere; l’altra, che lo pone come idealista nel senso di risolutore dell’essere nel pen-
siero. Tuttavia, la congruenza di pensiero ed essere che sembrerebbe qui affermata (comun-
que la si voglia poi intendere), è tramutata in un diverso rapporto, composto non più di due
ma di tre elementi nel fr. 8. 34-36 DK, terzo dei quali, non a caso, è il linguaggio (per l’ana-
lisi di tale passo cfr. L. FRANCHI, Alcune osservazioni sul procedimento logico di Parmenide,
cit., pp. 221-223). Per una ricognizione delle interpretazioni del fr. 3 DK, cfr. E. ZELLER-R.
MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III, Eleati, cit., pp. 219-227.
Va comunque considerato il rischio insito nel considerare l’isolato fr. 3 come contenente «the
essence of Parmenides’ philosophy» (cit. in L. TARÀN, Parmenides. A text with Translation,
Commentary and Critical Essays, Princeton, Princeton University Press 1965, p. 87) poiché
è molto probabile che esso traesse e donasse senso in virtù di un contesto di riferimento più
ampio. Circa il suo isolamento dall’insieme, avvenuto attraverso la citazione che ne fa PLO-
TINO, Enn. V. 1. 8, interessanti le osservazioni di G. CALOGERO, Studi sull’Eleatismo, Firen-
ze, La Nuova Italia 1977, pp. 17-20, n. 18.
47 Cfr. De MXG 980 a 9-14; inoltre, la confutazione della presunta netta impossibilità
parmenidea di pensare il non essente, è uno dei cardini sui quali poggia il «parricidio» di
Parmenide da parte dello Straniero di Elea nel Sofista di PLATONE (cfr. 237 a-241 b).
studi e ricerche 263

sunzione del non-essente come assolutamente negativo e indeterminabile, e


questa in Parmenide è già smentita dal fatto che egli parla non di un assolu-
to μὴ ἐόν, ma di molteplici μὴ ἐόντα, determinabili positivamente quanto al-
la loro quantità discreta. La differenza tra i μὴ ἐόντα parmenidei e il nulla as-
soluto, allora, deve condurre a ripensare il problematico rapporto tra νοεῖν e
μὴ ἐόν48 e, anche attraverso di questo, l’autentica fisionomia del secondo.
Inoltre, notando come la presunta impossibilità parmenidea di pensare
il μὴ ἐόν non sia qui espressa come una constatazione di uno stato di cose,
ma come una proibizione, la quale non vieta in assoluto di pensare il μὴ ἐόν,
ma esclusivamente di pensarlo come ἐόν, sembra che non solo il μὴ ἐόν pos-
sa esser oggetto di pensiero, ma anche che possa esser da esso determinato
come essente, e che tale possibilità sia talmente suscettibile di verificarsi da
configurarsi come un rischio del quale occorre essere avvertiti.
È allora possibile che il celebre dogma parmenideo dell’impensabilità del
non essente, più che dallo stesso Parmenide, derivi dalla polemica antipar-
menidea di quella linea del pensiero sofistico che trova in Gorgia la sua mas-
sima espressione, e che fonda parte della confutazione di Parmenide proprio
sul rovesciamento della presunta sua tesi dell’impensabilità del non essente
mediante la dimostrazione della sua pensabilità49. Sembrerebbe infatti che,
rendendo di fatto la tesi dell’Eleate idonea a tale confutazione, siano state
fraintese, o sfruttate, le ambiguità dello statuto dei valori modali impiegati da
Parmenide (la cui speculazione, è ovvio, precede la tematizzazione della lo-
gica modale aristotelica50), trasformando il divieto parmenideo in constata-
zione, il «non è possibile» prescrittivo nel «non è possibile» constatativo.
Se Parmenide vieta di pensare il μὴ ἐόν, e di pensarlo come essente, en-
trambe le possibilità devono esser ammesse dalla sua speculazione, e tali am-
missioni sono ulteriore indizio della differenza che intercorre tra quel che Par-
menide intende con μὴ ἐόν e la seriore assoluta e indefinibile nozione onto-
logica di nulla.
Riguardo al μὴ ἐόν, dalla coppia di versi letta emerge che questo consta
di una pluralità di elementi (μὴ ἐόντα) che possono essere oggetto di νοεῖν,
il quale può erroneamente determinarli come essenti. Ulteriori informazioni
deducibili dai versi in questione e dal loro confronto con altri luoghi del poe-
ma sono che la non validità di tale operazione del νοεῖν è data dalla sua vio-
lazione della κρίσις tra è e non è che esso compie, ma anche che, per essere
possibile tale erronea determinazione, i μὴ ἐόντα devono possedere una na-

48 Ancor più considerando che, quando nel poema viene per la prima volta affermato
il problematico rapporto tra pensiero e μὴ ἐόν, l’impossibilità del secondo di essere oggetto
del primo è espressa con οὐ γὰρ ἀνυστόν (fr. 2. 7 DK) che può significare, oltre che «non è
infatti possibile», un meno netto «non è infatti pienamente realizzabile».
49 Cfr. De MXG 980 a 9-14; SESTO EMPIRICO, Adv. math. VII. 77-82.
50 ARISTOTELE, De int. XII 21 a 34 e sgg. Sull’utilizzazione della logica modale in Par-
menide, cfr. G.E.L. OWEN, Eleatic questions, «Classical Quarterly» 10, 1960, pp. 84-102: 91
n. 1, e poi la reazione all’esegesi dello studioso da parte di O’Brien in D. O’BRIEN-J. FRÈRE,
Le Poème de Parménide, cit., pp. 188-193.
264 studi e ricerche

tura in grado di ingannare circa la loro fisionomia il pensiero che si accinge


a determinarli. Tale natura, come vedremo, in ultima analisi dipenderà dal lo-
ro sembrare, a tutta prima, suscettibili della predicazione positiva dell’ἔστιν.
In proposito delle entità che si celano dietro la denominazione μὴ ἐόντα,
e della loro ingannevolezza, è illuminante uno dei luoghi del poema in cui so-
no condannate le credenze dei mortali. Nel fr. 8. 38-41 viene infatti afferma-
to che rispetto alla natura veritiera dell’ἐόν:

άντ’ὄνομα ἔσται,
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο εοιθότες εἶναι ἀληθῆ:
γίγνεσταί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναι τε καὶ οὐχί
καὶ τόον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἁμείβειν,

saranno nomi
tutte le cose che gli uomini hanno posto, convinti che fossero vere:
nascere e perire; essere e non;
e spostarsi di luogo e mutare il luminoso colore

Tre eterogenee situazioni di realtà sono qui menzionate e giudicate non


come appartenenti di diritto al reale, ma come meri nomi stabiliti dai morta-
li e, per ciò stesso, privi di una loro autentica sussistenza: la presunta realtà
di tali eventi dipende del tutto dalla fallacia della convinzione umana (ε
οιθότες εἶναι ἀληθῆ). Anche in questi versi, tuttavia, è il richiamo alla dimen-
sione verbale e all’imperativo della κρίσις di ἔστιν e οὐκ ἔστιν a esplicare l’in-
sussistenza di tali situazioni. Infatti, tutte e tre sembrano asseribili mediante
ἔστιν, ma in modo tale da implicare tutte, contemporaneamente, l’οὐκ ἔστιν.
La prima situazione è composta dalla coppia γίγνεσταί «nascere»/
ὄλλυσθαι «perire», dei quali già si è mostrata la fallacia sottolineando la loro
implicazione dell’οὐκ ἔστιν. A ciò va aggiunto che, a cagione della loro in-
gannevolezza, tanto γίγνεσταί quanto ὄλλυσθαι verbalmente si esprimono,
nel loro modo più immediato, attraverso quella forma di εἶναι, ora afferma-
ta e ora negata, che sarà successivamente definita come il suo senso esisten-
ziale51.
La seconda situazione è il χρόα φανὸν ἁμείβειν, il «mutar di colore»: il
colore è una delle qualità visibilmente constatabili che un oggetto può pos-
sedere, e restanto sul piano della conteplazione non si capirebbe bene il mo-
tivo dell’insussitenza del suo cambiamento. Se invece ci si trasferisce sul pia-
no linguistico, si può notare come la qualità trovi la sua più diretta espressio-

51 È da notare come, a rigore, nella coppia dei due verbi, la negazione di εἶναι sia im-
plicata assai più direttamente dall’ὄλλυσθαι «perire» che non dal γίγνεσταί «generarsi», e che,
di conseguenza, anche nei passi che saranno a breve esaminati, Parmenide dedicherà molta
più attenzione a dimostrare la negazione implicata dalla nascita che non quella implicata dal-
la morte, morte che viene invece dichiarata ἄυστος (fr. 8. 21 DK), ossia troppo contraddit-
toria per poter concedere una sua positiva apprensione.
studi e ricerche 265

ne attraverso quella forma di εἶναι poi classificata come predicativa, e che il


cambiare colore la trovi nella sua negazione, dacché, se qualcosa cambia co-
lore, si dirà che essa non è più del colore di prima.
Lo stesso accade con il τόον ἀλλάσσειν (spostarsi di luogo): lo stato in
luogo di un oggetto, infatti, è immediatamente espresso dall’εἶναι locativo,
mentre la locomozione dell’oggetto, qui espressa dall’ἀλλάσσειν, trova espres-
sione nella sua negazione, e si dirà, pertanto, che l’oggetto è ora in un posto
e non è più in un altro.
Tutti gli esempi addotti da Parmenide, sul piano della loro dicibilità,
realizzano quella crasi di ἔστιν e οὐκ ἔστιν a cui egli oppone la sua κρίσις. Inol-
tre, la formula attribuita da Aristotele a Parmenide del μοναχῶς λέγεσθαι τὸ
ὄν, a mio vedere, non potrebbe trovare nel poema una più solida conferma
della sua correttezza: i tre diversi sensi di εἶναι, invece di venir criticamente
distinti, sono posti su di uno stesso piano ed evidentemente considerati di me-
desimo valore, valendo le loro rispettive negazioni tutte come la medesima
negazione decretante la loro l’insussistenza. Il passo rivela inoltre la fisiono-
mia della molteplicità eterogenea soggiacente al nome μὴ ἐόν: così si chiama-
no tutte quelle entità e situazioni determinate suscettibili di predicazione tan-
to mediante ἔστιν quanto mediante οὐκ ἔστιν. Pertanto, se da una parte, sot-
to il rispetto della loro espressione attraverso οὐκ ἔστιν, si configureranno co-
me molteplici μὴ ἐόντα, dall’altra, sotto quello della loro dizione mediante
ἔστιν, presenteranno quell’ingannevolezza in grado di condurre il pensiero a
determinarle erroneamente come ἐόντα. Si comprende allora ancor di più il
problema della mescolanza di ἔστιν e οὐκ ἔστιν, e con esso il motivo risolu-
torio animante la tematizzazione delle due vie e della κρίσις tra i due. In ul-
timo, e più a monte, è ancora una volta ribadita la centralità del ruolo svolto
dal linguaggio nella formazione e nell’articolazione della dottrina parmeni-
dea, dacché senza riferimento alla sua dimensione e al significato con il qua-
le il verbo εἶναι e la sua negazione sono compresi da Parmenide, e alla con-
seguente inaccettabilità di una loro contemporanea attribuzione all’oggetto,
tale passo non troverebbe intellezione.
Trattenendo tali acquisizioni sarà più agevole affrontare la lettura di
quella parte di poema dove Parmenide sembra alludere per ben due volte,
negandola, alla possibilità di una genesi dal nulla e, con ciò, all’assoluta no-
zione ontologica di nulla, che secondo il precedente esame egli non mostra
invece di possedere. Come spiegare tali allusioni se egli non dispone di tale
nozione? Il brano, nel fr. 8. 6-11, afferma:

τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ,


ῇ όθεν αὐξηθέν, οὔδ’ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσσω
φάσθαι σ’οὐδὲ νοεῖν. Οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν
ἔστιν ὅως οὐκ ἔστιν. Τί δ’ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν
ὕστερον ἢ ρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν,
οὕτως ἢ άμαν ελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί.
266 studi e ricerche

«quale nascita cercherai per lui (scil. per quel che è),
quale accrescimento? Da quel che non è ti proibisco
di dirlo e di pensarlo. Non è infatti da dire e da pensare
che non è52. Quale necessità potrebbe far sorgere,
nel passato o nel futuro 53, un suo crescere che inizi dal nulla,
così, è necessario o che sia del tutto o che non sia affatto»

I vv. 6-9 seguono il già osservato fr. 8. 5, nel quale Parmenide vieta che
all’ἐόν siano predicati l’«era» e il «sarà», avvertiti come forme di «non è», e
pone l’eternità dell’‘adesso’ (νῦν), e non quella del ‘sempre’, come dimensio-
ne temporale sua propria. In questi seguenti versi, la relazione dell’ἐόν con il
tempo viene ampliata aggiungendo l’esclusione, per esso, di nascita (γέννα)
e accrescimento (αὔξη). La prima delle due esclusioni quadra tanto con la con-
cezione dell’eternità come eterno presente, quanto con quella dell’eternità co-
me infinita durata nel tempo; la seconda, invece, solo con la prima delle due:
infatti niente impedirebbe all’ente di cui è garantita l’eterna esistenza nel tem-
po, di poter esser soggetto ad accrescimento e modificazioni, fintanto che que-
ste non implichino, per esso, la cessazione della sua esistenza. Ma un’eterni-
tà elaborata ed espressa nella forma dell’eterno presente non possono essere
ammessi accrescimento e modificazioni che presuppongono un ‘prima’ e un
‘dopo’, perché in nessun modo compatibili con l’unica ed esclusiva dimen-
sione dell’‘adesso’. Ciò, a mio vedere, conferma ulteriormente l’inusuale ela-
borazione parmenidea della temporalità dell’ente, inusuale poiché derivante

52 Traduco oὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν con «non è da dire e da pensare», piuttosto che
con «è impensabile e indicibile» poiché, in linea con quanto sostenuto, si sottolinei che «di-
re e pensare non è» non sia ritenuto impossibile, ma sia vietato, e per ciò stesso considera-
to possibile. È vero che il suffisso -τος assieme alla negazione οὐ può esprimere l’ impossi-
bilità, e che nella fattispecie, attraverso un γὰρ esplicativo, il divieto dell’azione sembra fon-
darsi proprio sulla negazione della possibilità di compierla. Ma è pur vero che -τος è suscet-
tibile di differenti traduzioni (e. g. lo stesso fr. 8. 22 DK di Parmenide, dove un analogo οὐ
διαιρετόν può intendersi come un potenziale negativo «non divisibile», ma anche con un rea-
le negativo «non diviso»), e che in Parmenide l’impossibilità prescrittiva o assertiva (divie-
to) può ben esprimersi, almeno grammaticalmente e sintatticamente, come un’impossibilità
constatativa. Inoltre, seguendo MOURELATOS, op. cit., p. 5, molti degli aggettivi parmenidei
uscenti in -τος sembrano essere, con grande probabilità, «Parmenides’ own coinage» per i
quali il senso del testo può aiutare più della regola grammaticale a determinare statuto mo-
dale e valore semantico. Infine, come pure ribadirò più avanti, a tal proposito va anche con-
siderato che il presente divieto di dire e pensare (οὐκ ἐάσσω φάσθαι σ’οὐδὲ νοεῖν) non avreb-
be ragione d’esser pronunciato qualora si desse un’impossibilità assoluta di compiere tali ope-
razioni, dacché basterebbe questa a impedirle.
53 Traduzioni alternative di ὕστερον ἢ ρόσθεν sono «dopo o prima» oppure «dopo
piuttosto che prima». Scelgo di rendere con «nel passato o nel futuro» perché, conforme-
mente con l’interpretazione dell’eternità escludente il ‘prima’ e il ‘poi’ in funzione dell’‘ades-
so’, che credo in un certo modo Parmenide affermi, penso che nell’argomentazione parme-
nidea l’esclusione della genesi, oltre che esser valida di per sé, serva anche per ribadire nuo-
vamente, seppur obliquamente, le dimensioni temporali che tale processo presuppone: a
causa delle ragioni logico-verbali che sorreggono la mia interpretazione, nell’ottica parme-
nidea genesi, passato, futuro sono già inammissibili in sé stessi; a maggior ragione lo sarà uno
scenario che le contempli tutti.
studi e ricerche 267

da esigenze semantiche. Queste esigenze, del resto, permangono anche pre-


scindendo dalla determinazione del tipo di eternità a cui è soggetto l’ente, dac-
ché tanto la nascita quanto la modificazione dell’accrescimento implicano, sul
piano dell’enunciazione, il ricorso alla predicazione negativa οὐκ ἔστιν la cui
esclusione fonda il procedimento di Parmenide.
A questo riguardo, è immediatamente constatabile come l’esclusione di
una nascita per l’ente non sia qui sancita da osservazioni di provenienza em-
pirica, o da norme ontologiche quale l’inammissibilità della generatio ex ni-
hilo. Essa è invece fondata dal divieto di rendere quel che è soggetto a una
negativa predicazione d’essere54, divieto al quale è del tutto ricondotta anche
la stessa esclusione dell’apparente ipotesi di generatio ex nihilo, sul cui più
preciso significato si tornerà a breve.
È il segmento dell’argomentazione compresa tra i vv. 6-9 che fa infatti
emergere il suo fondamento: ci si interroga circa una possibile nascita e un
possibile accrescimento per l’ente, (vv. 6-7); si esclude che essi possano rea-
lizzarsi da «quel che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος, v. 7); si motiva asserendo che non
va pensato e detto, dell’ente, «che non è». Ora, se Parmenide applicasse la
regola dell’ex nihilo nihil potrebbe forse giungere a negare la nascita, postu-
lando che essa avviene sempre ex nihilo, ma non l’accrescimento, che essen-
do relativo all’ente, potrebbe iniziare anche a partire da qualcosa di già esi-
stente, e dunque non ex nihilo. Inoltre, tale impossibilità che l’ente nasca o
accresca ex nihilo dovrebbe, a rigore, esser fondata sul fatto che «nulla vie-
ne dal nulla», e non sul non dire e non pensare che l’ente «non è». Ma la com-
plessiva spiegazione degli enunciati, risiedendo ancora una volta nell’assolu-
to divieto, qui peraltro esplicito, di dire e pensare l’ente non sia (οὔδ’ἐκ μὴ
ἐόντος ἐάσσω φάσθαι σ’οὐδὲ νοεῖν; οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅως οὐκ
ἔστιν), è da ricondurre ancora una volta all’esclusione della negazione οὐκ
ἔστιν, fondata sul suo assoluto valore semantico avvertito come ontologico.
Inoltre, la questione concernente impensabilità e indicibilità di quel che
non è, che nel fr. 7. 1-2 sembra assumere un differente significato comples-
sivo, è di nuovo espressa nel fr. 8. 7-9, e di nuovo formalmente posta in rela-
zione a un divieto, senza che il suo oggetto sia il non essente. Infatti, il divie-
to concerne il dire e pensare che quel che è derivi da quel che non è, e tali
atti sembrano a loro volta fondarsi sull’impossibilità oggettiva di dire e pen-
sare che non è. Ora, la stretta congruenza tra le due operazioni è indicata sia
da un γάρ che stabilisce una loro connessione argomentativa, sia dalla ripe-
tizione della medesima coppia di verbi (φάσθαι; νοεῖν; φατόν; νοητόν) in en-
trambi i periodi; essi configurano una reciproca dipendenza tra l’asserire che
quel che è derivi da quel che non è e l’asserire che quel che è non è. Di fron-
te a tali dati, a mio vedere, è possibile dedurre elementi in grado di chiarire

54 Dove è da notare come tale strategia ricalchi ad unguem l’affermazione dell’ «è» e,
per ciò stesso, l’esclusione di ogni foma di «non essere» enunciata dalla via veritiera del fon-
dante fr. 2. 3 DK.
268 studi e ricerche

ulteriormente il rapporto che intercorre tra impossibilità oggettiva e divieto


di tali atti e, più ampiamente, la relazione posta da Parmenide tra pensabili-
tà, dicibilità, e μὴ ἐόν. Infatti, se le due azioni dipendono l’una dall’altra,
un’analoga correlazione concernerà le modalità del divieto e dell’impossibi-
lità che le scandiscono. Ma, se un’azione si costituisce come impossibile, co-
me potrebbe essere vietata un’altra, dipendente da essa? Più lineare sarebbe
dichiarare l’impossibilità di entrambe. Ma anche ammesso, oltre le difficoltà
testuali, che Parmenide ritenga davvero impossibili una serie di atti conosci-
tivi ed espressivi concernenti tutto quel che non è, che senso avrebbe vietar-
li, o vietarne altri che su di essi si fondano? Tale divieto risulterebbe pleona-
stico e, in ultima analisi, privo di ragione, dacché basterebbe la loro impos-
sibilità oggettiva a impedirne la realizzazione. Molto più comprensibile e ar-
gomentativamente lineare è invece che, in primo luogo, venga posto un di-
vieto su di un’azione, e che a partire dalla posizione di tale divieto si confi-
guri come impossibile a compiersi tutta una serie di azioni correlate a quella
vietata. Ovviamente, sulla base di tale ricostruzione, l’impossibilità di tali
azioni è da intendersi come prescrittiva e assertiva, e non come constatativa,
poiché del tutto dipendente dal divieto. Pertanto, se in Parmenide tutta una
serie di atti conoscitivi relativi a ‘quel che non è’ sono vietati più che dichia-
rati impossibili, essi sono constatativamente possibili, e allora il ‘quel che non
è’ parmenideo non può coincidere con l’assolutamente indeterminabile e in-
conoscibile nozione di nulla che si affermerà dopo la sua speculazione.
Tornando ai versi in questione, la congruenza delle due operazioni per-
mette di procedere nella determinazione del significato del problematico ἐκ
μὴ ἐόντος del v. 7. Infatti, se asserire che l’ἐόν si generi ἐκ μὴ ἐόντος equiva-
le in certo modo ad asserire che esso non sia (v. 7: οὐκ ἔστιν), ne segue che
per affermare che l’ἐόν si generi ἐκ μὴ ἐόντος occorre prima ammettere che
l’ἐόν possa esser soggetto alla predicazione negativa οὐκ ἔστιν, nei confronti
della quale la sua derivazione ἐκ μὴ ἐόντος è una delle possibili conseguen-
ze. Inoltre, poter predicare l’οὐκ ἔστιν dell’ἐόν è a sua volta possibile solo ac-
cogliendo la negazione οὐκ ἔστιν come leggittima. L’esclusione di questo ter-
zo punto, dalla quale dipendono poi quelle degli altri due, è esattamente la
prima operazione di Parmenide nelle vie del fr. 2. 3, 5, la quale precede la
stessa tematizzazione dell’ἐόν, che di questa ne è un prodotto.
La derivazione dell’ente ἐκ μὴ ἐόντος, allora, non può significare, onto-
logicamente, derivazione «dal nulla». Se così fosse, l’argomento di Parmeni-
de suonerebbe come: «che l’ente nasca e cresca a partire dal nulla ti vieto di
dirlo e pensarlo, infatti non è da dire e da pensare che non è»; e il discorso
non avrebbe consequenzialità, dacché, data la coimplicanza delle due espres-
sioni, non si comprenderebbe perché la derivazione dell’ente dal nulla impli-
chi il suo «non essere» e non, al limite il suo «non essere stato». Piuttosto,
considerando il problema della negazione verbale οὐκ ἔστιν e come qui, co-
erentemente, si sottolinei l’inaccettabilità del riferirla all’ἐόν, il lineare colle-
gamento delle due frasi si ottiene intendendo il μὴ ἐόν dell’espressione ἐκ μὴ
ἐόντος proprio come una situazione nella quale l’ente verbalmente non è, ov-
studi e ricerche 269

verosia una situazione nella quale esso è soggetto all’οὐκ ἔστιν. In tal modo,
l’οὔδ’ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσσω φάσθαι σ’οὐδὲ νοεῖν non significherà «(che nasca
e cresca) a partire dal nulla non ti consento né di dirlo né di pensarlo», ma
«(che nasca e cresca) a partire da una situazione in cui non è ti proibisco di
dirlo e pensarlo», situazione che, adottando il punto di vista dell’interprete,
è ancora parafrasabile in «a partire da una situazione nella quale esso è sog-
getto alla predicazione “non è”, ti proibisco di dirlo e pensarlo». Evidente ri-
prova della preferibilità della lettura qui proposta, a mio vedere, è la coeren-
za argomentativa con la quale la prima affermazione si lega alla seconda, fa-
cendo sì che quest’ultima assolva davvero alla sua funzione esplicativa: «che
esso nasca e cresca a partire da una situzione in cui si deve dire che esso non
è, ti proibisco di dirlo e pensarlo; non è infatti da dire e da pensare che non
è», soprattutto se tale coerenza è paragonata al non sequitur a cui dà luogo
la lettura tradizionale, che intende: «che esso nasca e cresca a partire dal nul-
la ti proibisco di dirlo e di pensarlo; non è infatti possibile dire e pensare che
non è55».
Se il μὴ ἐόν del fr. 8. 7 indica una possibile situazione nella quale del-
l’ente si può predicare il «non è», esso non può coincidere con la ben più as-
soluta nozione di nulla ontologico, la quale si rivela con sempre maggiore evi-
denza non solo non presupposta dall’Eleate, ma nemmeno completamente
guadagnata dalla sua dottrina.
Con ciò, tuttavia, non si vuole in assoluto concludere che Parmenide non
giunga a intravedere e prefigurare la nozione, perché nel suo dettato tale pre-
figurazione è direttamente osservabile in ciò che segue la sezione appena esa-
minata. Se, infatti l’apparente nozione di nulla nel fr. 8. 7 non si è rivelata ta-
le, essa sembra riaffacciarsi di nuovo, e con maggior evidenza, due versi do-
po. Nel fr. 8. 9-11 si legge:

Τί δ’ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν


ὕστερον ἢ ρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν,
οὕτως ἢ άμαν ελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί

«quale necessità potrebbe sollecitare,


nel futuro o nel passato, un suo nascere e crescere che inizi dal nulla?
Dunque, è necessario o che sia del tutto o che non sia affatto»

Va innanzitutto notato come qui l’argomentazione parmenidea allarghi


la sua portata, slittando parzialmente dalla dimensione logico-verbale a quel-
la ontologica. Lo slittamento è solo parziale, poiché essa dipende ancora da
esigenze logico-verbali. Nella precedente sezione, infatti, la non ammissione,
per l’ente, dell’οὐκ ἔστιν (οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅως οὐκ ἔστιν),

55 Cfr. E. ZELLER-R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III:
Gli Eleati, cit., pp. 203-205.
270 studi e ricerche

reggeva l’intero discorso; in questa seconda parte tale fondamento è ribadi-


to dalla chiusa introdotta da οὕτως (v. 11), che si appella a un’ irrevocabile
alternativa polare: «bisogna o che sia del tutto, o che non sia affatto». Il si-
gnificato dell’«essere del tutto» (άμαν ελέναι), anticipato dall’«essere tut-
to insieme» (ὁμοῦ ᾶν) del fr. 8. 5, e poi riformulato nel logico μοναχῶς
λέγεσθαι τὸ ὄν e nell’ontologico ἁλῶς ὂν aristotelici56, non può che signifi-
care, per coerenza argomentativa, totale immunità da ogni forma di οὐκ ἔστιν,
perché l’unica alternativa a questo è l’insussistenza (espressa dalla negazione
enfatica οὐχί di fine verso). Tale alternativa, ribadendo l’esclusione della pos-
sibilità dell’οὐκ ἔστιν contro la sua necessaria e totale affermazione, corrispon-
de ad unguem al quadro teorico realizzato dalle due vie (fr. 2. 3: ἔστιν e im-
possibilità di οὐκ ἔστιν; fr. 2. 5: οὐκ ἔστιν e sua necessaria implicazione), le
quali, non a caso, sono richiamate in causa quattro versi dopo dalla celebre
κρίσις tra ἔστιν e οὐκ ἔστιν affermante la necessità di escludere il secondo,
κρίσις che massimamente prova come l’ontologia di Parmenide si costruisca
escludendo non l’ontologico ‘non essere’ ma il valore semantico della predi-
cazione «non è», inteso come ontologico. Allora, «essere del tutto» vuol di-
re «essere in ogni senso», ossia non presentare alcun tratto che consenta, per
esso, la predicazione negativa οὐκ ἔστιν. Se essa fosse ammessa, anche solo
in un’occasione, l’ente degraderebbe al rango di quelle realtà contradditto-
rie e dunque insussistenti delle quali si predica tanto «è» quanto «non è».
Tuttavia, se è dato rilevare il permanere delle direttrici logico-semanti-
che reggenti il discorso, è pure dato constatare una sua più marcata conno-
tazione ontologica.
Primo elemento rilevante tale nuova connotazione è la trattazione dei
processi dell’origine e dell’accrescimento: nei precedenti vv. 7-9 essi sono po-
sti come distinti, sebbene la negazione di entrambi riposi sulle medesime esi-
genze verbali; in questi versi, invece, essi sembrano fusi all’interno di un uni-
co processo complessivo, attraverso l’espressione ἀρξάμενον, φῦν, indicante
un «crescere che inizia (si orgina)». Con ancor più evidenza, tale fusione è ri-
levata dall’impiego, assai raro in Parmenide, dello stesso verbo φύω, che da
solo contempla entrambi i significati di «nascere» (γένναν) e «crescere» (αὐξη-
θέν), distinti nei vv. 6-7. Ora, a mio vedere possono scorgersi due modi, non
autoescludentisi, per giustificare tale fusione: essa potrebbe dipendere dalla
loro reciproca coimplicanza, poiché la nascita implica un processo di accre-
scimento, del quale essa è momento, e parimenti l’accrescimento, in quanto
processo, prevede un suo inizio, una nascita; ma potrebbe anche fondarsi sul-
l’implicanza, da parte di entrambi i processi, dell’ούκ ἔστιν verbale. Come det-
to, i due motivi possono ben agire in concomitanza nella realizzazione di ta-
le fusione; tuttavia, vi è un aspetto che rende problematico addurre questa al
secondo di essi: se fosse l’implicazione della predicazione negativa da parte
di entrambi il motivo della loro unione, perché non fonderli già nella prece-

56 Cfr. Aristotele, Fisica. I, 2-8.


studi e ricerche 271

dente sezione, del tutto dipendente dalla sfera della predicazione? Pertanto,
sembra che essa non sia dovuta, o non sia esclusivamente dovuta, al dominio
della dicibilità, e che dunque, per giustificare la sua posizione, debba consi-
derarsi con maggior attenzione il primo dei due motivi addotti. Ora, perché
si possa supporre la coimplicanza dei due processi secondo le modalità espres-
se all’interno di esso, è necessaria, sul piano mentale, una loro proiezione vi-
siva. Se questo accade, Parmenide qui affianca un procedimento raffigurati-
vo accanto a quello logico verbale. Tale accostamento di visivo e semantico
consente di cogliere sia, in generale, la più marcata connotazione ontologica
di tali versi, sia, nel particolare, la ragione e il significato del µηδέν del v. 10.
Leggendo il testo, a tutta prima sembrebbe che l’esclusione di origine e
accrescimento riposi sul loro esser concepiti come inizianti a partite dall’on-
tologico nulla (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) e dunque, di riflesso, che la dimostra-
zione qui si fondi sul principio del nihil ex nihilo e che, più a monte, Parme-
nide impieghi la nozione di nulla, espressa attraverso τὸ µηδὲν nel v. 10. Ciò,
tuttavia, non si rivela né aderente al testo, né scevro da problemi ermeneuti-
ci. La base di tutta l’argomentazione resta infatti, come detto, l’esclusione ver-
bale dell’ούκ ἔστιν, ribadita energicamente dalla κρίσις del fr. 8. 14-16: se qui
Parmenide giungesse all’ex nihilo nihil (che comunque si rivelerebbe una sua
conquista, e non un suo presupposto), perché, in luogo di procedere median-
te esclusione dell’οὐκ ἔστιν, non affidare a esso la dimostrazione, motivando
la negazione da lui operata attraverso l’impossibilità del γίνεσθαι ἐκ τοῦ μη-
δενός? Nemmeno è però possibile procedere con il τοῦ μηδενός del v. 9 co-
me con l’ἐκ μὴ ἐόντος del v. 7, ossia decretando la sua ultima natura nella sfe-
ra del verbale: a differenza del secondo, il primo presenta l’articolo determi-
nativo τοῦ, che indica un’entificazione del termine rivelante una sua cifra on-
tologica tale da distinguerlo dalla genericità dell’altro.
Un’opportuna considerazione di quell’affiancamento, emerso in questi
versi, del motivo della rappresentazione visiva a quello del criterio semanti-
co e verbale, consente una risoluzione di tali difficoltà; infatti, l’oscillazione
tra ambiti speculativi eterogenei che esso determina permette di accordare la
procedura semantica che fonda la deduzione parmenidea con alcune sue con-
notazioni visive e ontologiche.
Se il cardine della deduzione parmenidea è costituito dal valore seman-
tico del verbo εἶναι e dal corrispondente valore della sua negazione (da egli
percepiti come valori di realtà), i quali conducono alla reificazione del primo
nell’ἐόν e alla deduzione dei suoi tratti essenziali mediante l’esclusione della
secondo, rimettendo sempre la prova della validità del procedimento a quei
valori a partire dai quali essa muove, nel v. 9 invece, pur non tradendo tale
modus operandi, Parmenide avverte la possibilità di fornire un ricorso con-
fermativo a esso attraverso una raffigurazione visiva di ciò che la sua dedu-
zione determina sul piano semantico, deduzione che, con ciò, allarga la sua
portata e, riguardo all’esclusione del γίνεσθαι, non propone più, al lettore, uni-
camente la contraddittorietà del rendere l’ἐόν soggetto all’ὄυκ εστιν, ma ne
mostra l’assurdità figurando tale processo anche in termini visivi, rappresen-
272 studi e ricerche

tandolo come un passaggio dall’assenza alla presenza, senza tuttavia partico-


larmente badare al fatto che tale sua rappresentazione non sia l’unica possi-
bile, dacché la validità ultima di tutto il procedimento rimane sotto il con-
trollo dall dimensione linguistica.
La proiezione visiva del processo presuppone quella dei due termini en-
tro i quali esso si inscrive, e la raffigurazione del suo termine iniziale deve es-
ser quella, negativa, della vuota assenza dell’oggetto. Ne segue che τὸ µηδὲν
del v. 10 è il nome assegnato a tale assenza, ossia al punto iniziale della linea
rappresentante il processo della nascita, che non potrà che esser raffigurato
come privo e vuoto della presenza dell’oggetto. In tal modo, approfondendo
il v. 10 sul piano della raffigurazione quel motivo già espresso nel v. 7, si com-
prende anche quale può essere il corrispettivo visivo quella situazione lingui-
stica nella quale l’essente è soggetto al «non è», dalla quale l’essente non può
derivare, che nel v. 7 è espressa dalla formula ἐκ μὴ ἐόντος: in tale situazione
l’oggetto è predicabile mediante «non è» poiché è negato il suo carattere del-
la presenza.
La raffigurazione mentale del momento iniziale del processo della nasci-
ta, e con essa quella più ampia, ma corrispondente, nella quale l’oggetto è as-
sente nello spazio della visione mentale, insieme alla determinazione di tale
raffigurazione attraverso l’assegnazione di un nome, sono ciò che conduce
Parmenide alla preparazione dell’ontologica nozione di nulla per la specula-
zione successiva. Naturalmente, essa resta soltanto una preparazione, e non
già un raggiungimento, non godendo ancora l’assenza della rappresentazio-
ne parmenidea dell’assolutezza del nulla ontologico, ma restando una nega-
zione relativa all’oggetto e, nella fattispecie, al suo carattere della presenza.
Del resto, a riprova di quanto affermato è interessante sottolineare co-
me nel proseguimento del fr. 8 sempre più marcata diventi la tendenza a
proiettare visivamente l’ente e le condizioni nelle quali esso deve trovarsi e
non deve trovarsi, dalla sua indivisione alla sua pienezza e assoluta stasi, si-
no alla sua celebre immagine nella figura di una sfera57. Ma anche come, non-
ostante questo, nessuno di questi predicati dell’ente che presuppongono una
sua proiezione visiva si affranchi da quella regola che trae origine dalla di-
mensione linguistica e che, giungendo talvolta ad esiti tra loro contrastanti,
sempre impone di escludere dall’ente l’οὐκ ἔστιν. Visibilità e visione menta-
le dell’ente, allora, saranno sempre costruite sulla base di premesse, criteri e
valori tratti dall’eterogeneo ambito del linguaggio, e ciò è in parte ravvisabi-
le anche all’interno dell’ultima delle sezioni considerate, ove l’esclusione del-
l’origine dell’ente ἐκ τοῦ μηδενὸς non riposa sulla problematicità di un pas-
saggio dall’assenza alla presenza, ma sulla κρίσις semantica tra ἔστιν e οὐκ
ἔστιν, che ribadisce l’esclusione del secondo.
La fisionomia del μὴ ἐόν parmenideo deve allora esser colta nella più ge-
nerale comprensione di quel movimento speculativo, oscillante tra differen-

57 Per tali attributi dell’ente cfr. 28 B 8. 22-49 DK


studi e ricerche 273

ti ed eterogenei ambiti, che la determina, poiché insieme a tale oscillazione il


μὴ ἐόν compare nella speculazione filosofica, e sarà poi assolutizzato e cri-
stallizzato nella nozione di nulla, estremizzando nella sfera semantica il sen-
so esistenziale del participio ἐόν della formula μὴ ἐόν, e in quella visiva l’as-
senza di oggetto nello spazio della contemplazione mentale.
Dislocata nel corso del dettato parmenideo, tale oscillazione è palesata
dal volto che di volta in volta il μὴ ἐόν58 in esso assume: μὴ ἐόντα sono tutte
quelle concrete realtà e situazioni verbalmente predicabili negativamente e per
ciò stesso fallaci; ma μὴ ἐόν è anche, oltre che il singolo oggetto predicabile
mediante οὐκ ἔστιν, la figurazione visiva di ogni assenza, minorazione e pri-
vazione dell’ἐόν, tutte situazioni da escludere in esso perché in ultima anali-
si violanti l’inconciliabilità semantica, posta da Parmenide, tra ἔστιν e οὐκ
ἔστιν.
Pertanto, sia l’ontologica nozione di nulla, sia il derivato principio on-
tologico e fisico dell’ex nihilo nihil, lungi dall’essere mezzi speculativi da sem-
pre presenti al pensiero filosofico e da sempre da esso posseduti, sono un gua-
dagno teorico avvenuto in un certo periodo storico, essendo la loro conqui-

58 In questa sede non sarà trattata l’occorrenza di μὴ ἐόν forse presente nel succcessi-
vo fr. 8. 12-13 (οὐδέ οτ’ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει ίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι αρ’αὐτό κτλ.). Mo-
tiva tale omissione innanzitutto il dubbio circa l’effettività di tale occorrenza; infatti, secon-
do molti studiosi, (quali K. REINHARDT, Parmenides und die Geschichte die griechischen Phi-
losophie, Bonn, Cohen 1916, p. 42; P. ALBERTELLI Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Ba-
ri, Laterza 1939, p. 144 n. 16; K. Riezler Parmenides, Frankfurt am Main, Klostermann1934,
p. 32; O. GIGON, Der Ursprung der griechischen Philosophie, cit, p. 263 n. 105; L. TARÀN, Par-
menides, cit., pp. 95-102, ma l’elenco potrebbe prolungarsi) esso andrebbe corretto con ἐκ
τοῦ ἐόντος. In tal modo, ‘quel che non è’ diventerebbe ‘quel che è’, conferendo tutto un al-
tro senso al discorso. Tale correzione si fonda complessivamente sull’idea che Parmenide,
avendo già trattato il γίγνεσθαί ἐκ μὴ ἐόντος nel fr. 8. 6-11, qualora ritornasse su tale argo-
mento darebbe luogo a una superflua ripetizione, laddove non vi sarebbe invece nessuna ri-
petizione, ma anzi un completamento della trattazione, se Parmenide, dopo aver discusso la
genesi da ‘quel che non è’, affrontasse anche l’opposta opzione della genesi da ‘quel che è’.
Ma motiva tale omissione anche la speranza di aver chiarito, sulla base dell’esame dei passi
scelti, come l’interpretazione qui proposta andrebbe a determinare tanto la natura dell’ἐκ
μὴ ἐόντος del v. 12 (qualora essa fosse la lezione corretta) tanto il motivo per il quale nean-
che la genesi da ‘quel che è’ può essere da Parmenide accettata (qualora fosse invece ἐκ τοῦ
ἐόντος la lezione corretta). Nel primo caso, la formula ἐκ μὴ ἐόντος del v. 12, non avendo
nemmeno un evidente articolo, corrisponderebbe a quella del v. 7 DK, a proposito della qua-
le abbiamo decretato la natura linguistico-semantica e non ontologica del μὴ ἐόν muovendo
dalle inconguernze che una lettura ontologica del termine andava a sollevare, e dal fatto che
non ontologici, ma logici e linguistico-semantici sono i motivi che determinano la sua esclu-
sione. Invece, qualora Parmenide dichiarasse l’esclusione dell’origine dell’ente dall’ente (ἐκ
τοῦ ἐόντος), anche in tal caso le ragioni più comprensibili di tale esclusione deriverebbero
dal divieto linguistico-semantico di rendere l’ente soggetto della predicazione οὐκ ἔστιν, che
tale genesi dell’ente dall’ente potrebbe implicare in modi diversi. Ad esempio, qualora un
essente derivasse da un altro essente, il derivato non sarebbe prima di originarsi, e di esso
dovrebbe dirsi οὐκ ἔστιν. Analogamente, se l’essente si generasse da un altro essente, avrem-
mo due essenti, ognuno dei quali non sarebbe l’altro; pertanto, predicandoli nel senso del-
la loro reciproca alterità, di entrambi andrebbe di nuovo detto che «non sono» (e tale argo-
mento contro il molteplice potrebbe anche mostrare, sebbene solo in filigrana, i motivi del-
la negazione della molteplicità e dell’affermazione parmenidea dell’ἔν nel fr. 8. 6 DK).
274 studi e ricerche

sta possibile a partire da determinate condizioni storiche, culturali e teoreti-


che. Momento iniziale di tale acquisizione è la dottrina di Parmenide che, per
questi motivi, non può né presupporre la nozione, né infine guadagnarla nel-
la forma compiuta con la quale essa, malgrado la sua ineliminabile proble-
maticità e ambiguità, sarà poi ipostatizzata come nozione ontologica di rife-
rimento. Un ruolo decisivo, nel momento iniziale della sua elaborazione, è
svolto dall’ambiente linguistico nel quale essa sorge, dai valori semantici di
quel verbo εἶναι di cui tale ambiente diffusamente e intensamente si serve e,
più a monte, dalla convinzione che tali valori, oltre che semantici, siano pu-
re ontologici.

LEONARDO FRANCHI
FINITO DI STAMPARE
NEL MESE DI SETTEMBRE 2018
PER CONTO DI
EDITORIALE LE LETTERE
DALLA TIPOGRAFIA
BANDECCHI & VIVALDI
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Art. 2 comma 20/B LEGGE 662/96 filiale di Firenze ISSN 0017-0089

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