2 Sulla presumibile identificazione della koiné o delle koinaí utilizzate da Aristarco con la vulgata ateniese venutasi a
formare fra VI e IV secolo nel contesto degli agoni rapsodici panatenaici vedi Nagy 1996b, pp. 152-56.
3 Oltre all'obelo Aristarco fece infatti ricorso ad altri segni: la diplé (>) per indicare un passo particolarmente
interessante per motivi linguistici o di contenuto (una sorta di N.B.); la diplé puntata, cioè accompagnata da due punti
(:), per indicare un verso su cui da Zenodoto o da Cratete di Mallo; l'asterisco abbinato all'obelo per versi interpolati da
un altro passo.
Quando si trattava di omettere uno o più versi e non semplicemente di proporne l'atetesi Aristarco
dovette operare quasi esclusivamente su base documentaria, attento a snidare le interpolazioni
infiltratesi in una parte della tradizione ed effettivamente caratteristiche dei papiri tolemaici
cosiddetti 'selvaggi', dunque non dovette essere tanto la tradizione testuale ellenistica a subire
l'influsso delle scelte di Aristarco quanto Aristarco a seguire, all'interno degli esemplari a lui noti,
quelli meno gremiti di interpolazioni.
La rapida scomparsa di papiri eccentrici a partire dal 150 circa a.C. e la conseguente
standardizzazione del testo omerico si collegano al declino dell'attività dei rapsodi e a quello che
Nagy (1996a, p. 98) ha chiamato "il minimalismo pragmatico degli scriptoria" (la tendenza degli
scribi operanti nei centri di scrittura a produrre testi uniformi) piuttosto che all'autorità della scienza
alessandrina anche se gli esemplari di origine aristarchea, messi a disposizione per essere copiati o
fatti riprodurre da amanuensi in vista del mercato librario, dovettero contribuire in qualche misura a
emarginare e screditare le copie ricche di interpolazioni e funzionarono da modello per i lettori dotti
di tutto il mondo ellenizzato.
Non a caso anche i segni diacritici compaiono sia in vari papiri evidentemente fatti copiare da lettori
colti (ma si tratta di una netta minoranza nel panorama complessivo) sia più tardi nel Venetus A
(Venetus Graecus 822, già Marcianus 454) del secolo X, conservato nella Biblioteca Marciana di
Venezia, corredato di un formidabile apparato di scolii marginali pubblicati nel 1788 dal Villoison
(Jean-Baptiste Gaspard d'Ansse de Villoison), instancabile esploratore dei fondi manoscritti della
Marciana, sui quali si basano in larga misura le nostre conoscenze sul lavoro dei filologi di
Alessandria e in particolare di Aristarco.4
4 Conosciamo le notazioni di Aristarco attraverso Didimo (per la recensione del testo) e Aristonico (per i segni critici),
che sono due degli autori di quel Commento dei quattro a cui attinsero gli estensori degli scolii del Venetus A (gli altri
studiosi sono Erodiano per la prosodia e Nicanore per la punteggiatura) e a cui fa riferimento la subscriptio alla fine di
ogni canto. Altri codici, entrambi dell'XI secolo, forniti di scolii (si tratta di scolii denominati 'esegetici' e risalenti, oltre
che alla filologia alessandrina, a opere grammaticali e lessicografiche del periodo imperiale e della prima età bizantina)
sono il Townleianus (T), conservato al British Museum, e il Venetus Graecus 821 (B), già Marcianus 453. Altre
notazioni di Aristarco, raccolte e studiate da Schironi 2004 (in particolare, per i frammenti relativi all'Iliade, pp. 49-
464), si trovano disseminate negli etimologici bizantini.
generalizzata.
Pasquali (1952, p. 208) rimproverò ad Allen di aver lavorato "con metodi incredibilmente primitivi"
non avendo preliminarmente proceduto all'eliminazione dei codici che fossero copie di altri codici
superstiti e non essendosi curato di definire, nell'individuazione delle singole famiglie, la natura
delle coincidenze (in errore o in lezione giusta) fra i vari esemplari. D'altra parte proprio l'estrema
contaminazione della tradizione omerica fa sì che il risultato finale, quali che siano i manoscritti
utilizzati, sia invariabilmente molto simile purché si adotti una selezione non troppo ridotta di
codici: si ricostruisce in ogni caso quella vulgata tardo-ellenistica a cui già abbiamo accennato.
I limiti del testo ricostruito da Allen risiedono piuttosto altrove: nella conservazione di molti versi
debolmente attestati e chiaramente importati da altri passi (concordance interpolations: 76 casi
secondo Apthorp 1980, pp. XVII-XIX) e in un credito eccessivo concesso alle lezioni aristarchee
pur nella consapevolezza della discrepanza fra il testo di Aristarco e una vulgata pre-aristarchea
spesso convergente con la nostra tradizione manoscritta (secondo la dichiarazione programmatica di
Monro nella praefatio all'editio minor, p. X, "non c'è dubbio che la recensione di Aristarco deve
avere per noi di massimo peso, anzi deve essere anteposta anche a tutti i nostri codici").
5 Ad es. West scrive, con R. Payne Knight, κακοµηχάνοο κρυοέσσης in VI 344 e ἐπιδηµίοο κρυόεντος in IX 64 invece
di κακοµηχάνου ὀκρυοέσσης e ἐπιδηµίου ὀκρυόεντος della vulgata, ma se è vero che l'altrimenti inattestato aggettivo
ὀκρυόεις in luogo di κρυόεις "raggelante" è il risultato di un'errata divisione di parole risalente al tempo in cui il
genitivo singolare della seconda declinazione aveva ancora la forma non contratta -οο (> ου), nulla ci assicura che tale
innovazione, con la creazione della forma ὀκρυόεις (favorita dall'affinità fonica con l'aggettivo ὀκριόεις "scabro") sia
stata posteriore alla prima registrazione scritta del poema (o al 'grande poeta' di West).
7. Il multitext di Nagy
Tanto lontana dal massimalismo ricostruttivo di West quanto dal minimalismo di van Thiel è la
posizione di Gregory Nagy, promotore dell'Homer Multitext Project del Center of Hellenic Studies
dell'Università di Harvard (http://chs.harvard.edu/chs/homer_multitext).
In vari scritti (ad es. 1996a, pp. 65-112 e 2001) Nagy prende le mosse, sulle orme di Lord, dalla
considerazione che di un'opera di creazione orale non è possibile né sensato, data la sua fluidità e
multiformità, cercare di ricostruire un 'originale': questo originale semplicemente non esiste in
quanto ogni esecuzione è di per sé un 'originale' (una posizione che pet altro esclude una precoce
fissazione scritta dell'epica omerica quale viene invece ipotizzata, come abbiamo visto, dallo stesso
Lord con la sua teoria del 'testo orale dettato').
Più precisamente, Nagy considera la tradizione orale come "un processo di ricomposizione nel
contesto di ogni nuova esecuzione" (2001, p. 110) entro un continuum evolutivo che procede da
sistemi relativamente più fluidi a sistemi relativamente più rigidi. Coerentemente con questo
modello Nagy rifiuta ogni ipotesi di ricostruzione di un determinato testo e osserva che lo stesso
Aristarco faceva riferimento a koinai in quanto versioni comuni, correnti, standard, senza assegnare
ad alcun esemplare determinato un ruolo di 'archetipo'. Di qui il progetto di Nagy di recuperare il
sistema globale (il repertorio) della poesia omerica come testimonianza di una tradizione orale in
continua evoluzione.
Oltre a comportare l'impraticabilità di una qualsivoglia edizione o traduzione da offrire al lettore
questa posizione implica la rinuncia a discriminare e a scegliere fra varianti in concorrenza e fra
versioni più ampie e meno ampie essendo per Nagy ogni variante e ogni versione la realizzazione di
un multitext in evoluzione in cui va considerato 'autentico' tutto ciò che risulti conforme al sistema
complessivo della dizione epica tradizionale.
Come caso emblematico Nagy ricorda Il. V 808, un verso che era stato omesso (non semplicemente
atetizzato) da Aristarco per la buona ragione che Atena, mentre avverte il bisogno di incitare
Diomede, dichiara che un tempo aveva dovuto frenare il di lui padre Tideo. Inoltre, pur facendo
parte della vulgata, questo verso non compare in tre papiri e la sua natura posticcia si spiega come
una concordance interpolation realizzata sulla base dell'identico IV 390 (Apthorp 1980, pp. 4-6 e
2000).
Lo stesso Nagy ammette che qui il narratore vuole che Atena indichi a Diomede un preciso
contrasto: mentre ora è presente e pronta ad aiutarlo, in occasione della missione di Tideo presso i
Tebani ella stessa era assente e non aveva aiutato Tideo, anzi aveva precedentemente tentato di
dissuaderlo da ogni comportamento aggressivo. E tuttavia, pur ammettendo che il v. 808 fa a pugni
con il contesto in cui si trova inserito, Nagy sostiene che il verso rappresenta, in una prospettiva
diacronica, una traccia preziosa di una fase molto antica della poesia omerica nel senso che Atena
poteva assistere di persona anche Tideo, come leggiamo in IV 390 (racconto di Agamennone a
Diomede), sì che troveremmo qui riuniti, nel passo del canto V, "i blocchi di costruzione dei due
diversi modi tradizionali di articolare il discorso di Atena" (Nagy 2001, p. 118).
Senonché il contributo di V 808 alla diacronia del poema appare inesistente visto che del
potenzialmente duplice atteggiamento della dea nei confronti di Tideo veniamo a conoscenza già in
IV 390, di cui V 808 ci appare come una replica inopportuna che, come ben annotava Leaf,
"distrugge l'effetto del verso seguente".6
8. La strettoia ateniese
C'è però uno snodo nello schema evolutivo disegnato da Nagy dall'oralità pura alla 'testualizzazione'
che merita di essere riconsiderato anche se dobbiamo rifiutare, come si è visto, l'idea anacronistica
di una 'redazione' pisistratica. si tratta di quel "Panathenaic bottleneck", di quella strettoia che il
testo omerico d'età arcaica dovette attraversare in concomitanza con i prolungati agoni rapsodici
delle Panatenee e del ruolo politicamente e culturalmente egemone assunto da Atene in età classica
come fulcro del mondo ionico.
Una spia di questo passaggio sembra offerto dalla pur controversa7 (ma già nota ai grammatici
antichi) traslitterazione (µεταχαρακτηρισµός) del testo dei poemi dal vecchio alfabeto attico, in cui
Ε rappresentava ε, ει e ed η e Ο rappresentava ο, ου e ω (e inoltre le consonanti doppie non
venivano marcate), all'alfabeto ionico recente di 24 lettere, gradualmente introdotto in Attica nel
corso del V secolo e ufficialmente adottato nel 404/403. Un riscontro è offerto dai vasi attici recanti
versi epici, ad es. da una lekythos del 470 circa a.C. appartenente a una collezione privata (Beazley
1948), dove l'incipit dell'inno omerico XVIII Ἑρµῆν ἀείδω "canto Ermes" s\i legge nella forma
ΗΕΡΜΕ<Ν>ΑΕΙΔΟ.
Secondo quanto già sospettavano Aristofane di Bisanzio (p. 190 Slater) alludendo all'"antica grafia"
(παλαιᾶς γραµµατικῆς) e lo scolio A a XIV 241 menzionando "coloro che operarono la
traslitterazione" (τῶν µεταχαρακτηρισάντων), alcuni errori infiltratisi nella vulgata dei poema
sembrano appunto dovuti a fraintendimenti fonetici verificatisi al momento dalla traslitterazione.8
L'argomento è controverso e l'intera procedura è stata talora negata alla radice (Goold 1960), ma per
alcune corruttele che hanno invaso tutta la nostra tradizione questa resta la spiegazione più
plausibile (West, praef., p. VI).9
6 Ancor più discutibilmente Kirk trascura che σοὶ δ᾽ "ma a te" (col ricorso alla forma tonica del pronome personale) a
principio di V 809 introduce una contrapposizione tra figlio e padre e conserva V 808 appellandosi a una presunta
'complessità' dell'argomentazione di Atena.
7 Su alcuni aspetti problematici del fenomeno vedi Janko 1992, pp. 34-7 e Cassio 2002.
8 A questo tipo di spiegazione fanno ricorso, non sempre a proposito, altri cinque scolii al poema: sch. TV a VII 238,
sch. A a XI 104, sch. A a XIV 241, sch. a XXI 127, sch. Gen. a XXI 363.
9 In particolare, a principio di I 67 βούλεται ha sostituito βούλητ᾽, in VI 291 ἐπιπλούς ha estromesso ἐπιπλώς, in VI 353
Un'altra circostanza testimonia poi l'importanza del passaggio dei poemi da Atene: i passi
atenocentrici. Aristotele (Rhet. 1.15, 1375b30, cf. Plut. Sol. 10.2-3 e Dieuchida di Megara, FGrHist
485 F 6 attraverso Diog.Laert. 1.48 e 57) raccontano ad esempio che nel corso della contesa fra
Atene e Megara per il possesso di Salamina nel VI secolo a.C. i Megaresi accusarono gli Ateniesi
(Solone in particolare, secondo Dieuchida) di aver inserito nel testo omerico II 558
rivendicando al posto di essi un'altra coppia di versi infarcita di toponimi megaresi (la cui
attendibilità è del resto non meno dubbia anche per la mancata indicazione del numero delle navi):
Poi Aiace conduceva navi da Salamina
e da Policna e da Egirussa e da Nisea e da Tripodi.
Effettivamente II 558 sembra essere stato promosso dall'intento di far dire al grande poeta che
l'isola di Salamina era stata ab antiquo sotto la giurisdizione di Atene. La stessa eccezionale brevità
della menzione dedicata a una figura di spicco come Aiace Telamonio (si può richiamare a
contrasto l'ampia presentazione di questo eroe in quanto pretendente di Elena in [Hes.] fr. 204.44-
51) mostra che questa è la rielaborazione di una più antica e perduta versione.
Anche gli sporadici atticismi dialettali rimasti impigliati nel tessuto espressivo dei poemi - forme
come κεῖντο per κέατο "giacevano" (XXI 426) e ἧντο per ἕατο "sedevano" (III 153) -. dovettero
prodursi nel corso del passaggio dell'epica omerica in Attica. Questo non significa che i passi
suddetti fossero composti in Attica e fossero più recenti rispetto alla dizione generale dei poemi:
significa solo che la nostra tradizione dipende da una trascrizione effettuata in Atene che ha
sostituito le forme ioniche (con -εα- pronunciato come un monosillabo per sinizesi) con quelle
corrispondenti in attico.10
Se dunque solo fino a una tipologia testuale susseguente all'arrivo dei poemi in Attica e alla
traslitterazione nell'alfabeto ionico fra V e IV secolo a.C. ci conducono a ritroso le nostre fonti, è
appunto questa redazione di età attica che possiamo in qualche modo prefiggerci di ricostruire,
consapevoli che la ricerca di un incontaminato 'originale' è un obiettivo chimerico.
Al pari della più antica registrazione scritta dei poemi neppure questo 'paleotipo' attico poté
arrestare completamente la proliferazione di varianti e interpolazioni quali emergono nelle citazioni
di autori del IV secolo (Platone, Eschine, Licurgo, Aristotele) e nei più antichi papiri del III e del II
τῶ è subentrato a τοῦ, in VII 434 e XXIV 789 un improprio ἔγρετο "si destò" ha soppiantato ἤγρετο "si radunò".
10 Diverso però il caso di Ἐωσφόρος per Ἠοσφόρος "stella del mattino" in XXIII 226 (e anche in Hes. Th. 381), dove
l'ipotesi di un atticismo è incerta data la presenza anche in ionico di forme in ἑω- come ἑωθινός "mattutino" in Herodot.
3.104.
secolo a.C. (su cui vedi S. West 1967). Non sappiamo in quale misura queste alterazioni dipendano
dalle recite rapsodiche o da quella che la stessa West ha definito "una creatività fuori luogo da parte
dei copisti" (1981, p. XLIX), ma in questo ambito il quadro prospettato dalla nostra
documentazione ci aiuta, grazie al confronto con le scelte editoriali di Aristarco, a orientarci di
fronte ai singoli casi.
9. Regole di viaggio
Come ha chiarito M.J. Apthorp (1980) e come sempre più emerge dai papiri che vengono via via
pubblicati, la stragrande maggioranza dei versi debolmente attestati nei manoscritti medievali di
Omero erano assenti nel testo di Aristarco e si sono infiltrati nella tradizione medievale in epoca
post-aristarchea; d'altra parte una serie di versi attestati dai papiri e dai testimoni indiretti (citazioni)
in età pre-aristarchea non fu accolta da Aristarco perché, come ripetutamente appendiamo dagli
scolii, quei versi erano debolmente attestati.
La tesi di Apthorp secondo cui Aristarco non omise alcun verso genuino e dunque tutti quelli da lui
omessi erano 'versi in più' (plus verses) è troppo radicale in quanto presuppone da parte dello
studioso alessandrino un lavoro sistematico di collazione su cui non abbiamo alcuna certezza e
perché dà per scontato che aggiunte occasionali non si fossero diffuse 'orizzontalmente' nella
maggior parte della tradizione pre-alessandrina a lui nota e che oltre alle interpolazioni si
verificassero anche omissioni e rielaborazioni (vedi West 1982), ma ci indica quella che dovette
essere la tendenza generale. Ciò significa che il primo passo verso una ricostituzione di una vulgata
pre-alessandrina, attica e di età classica, quale limite estremo verso cui possiamo risalire a ritroso in
base alla nostra documentazione sta nel diffidare dei versi omessi da Aristarco perché debolmente
attestati pur senza rinunciare a valutare le cose caso per caso.
Un altro passo è quello di tornare a usare criteri interni (esame del contesto da un lato, della dizione
dall'altro) per decidere di tutti i casi in cui le lezioni dei filologi alessandrini, e di Aristarco in
particolare, divergono da quella vulgata tardo-ellenistica che siamo quasi sempre in grado di
ricostruire, come ha fatto in particolare van Thiel, sulla base della tradizione manoscritta medievale.
Infine, delimitato in questi termini il nostro obiettivo, sarà inevitabile rinunciare a tutti quegli
adeguamenti ortografici che West si è impegnato a introdurre sulla base della comparazione
linguistica e della ricerca dialettologica per ripristinare l''originale' del 'grande poeta'.
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