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Franco Ferrari

L'Iliade: qualche questione editoriale

1. Che cosa cercare


Se viene ormai generalmente riconosciuta la persistente fluidità, anche all'interno della tradizione
manoscritta medievale, del tessuto verbale con cui la dizione dell'Iliade ci è stata tramandata
occorre comunque decidere concretamente quali scelte si debbano operare nell'edizione del poema.
La questione di come ricostruire il miglior testo possibile del poema sia in termini di dettato (lezioni
alternative, corruttele) sia per quanto riguarda l'individuazione dei versi (o blocchi di versi) da
rigettare come interpolati si è infatti riaccesa con vivaci scambi dialettici negli ultimi decenni anche
se non sempre è stato esplicitato il problema di fondo, e cioè che cosa (quale testo) si voglia
effettivamente ricostruire.
Se infatti la critica del testo ha come ovvio obiettivo la ricostruzione di un assetto verbale il più
possibile vicino all'originale, di fatto non per ogni opera i documenti (testimoni) a nostra
disposizione ci permettono di risalire più indietro di un determinato momento storico. Di regola per
i libri antichi uno snodo essenziale è rappresentato da un archetipo medievale, legato alla
traslitterazione dalla maiuscola alla minuscola (un'operazione faticosa e complessa che non si era
inclini a ripetere), dal quale si suppongono derivare, per vie riproducibili in forma di albero
genealogico (stemma), tutti gli esemplari superstiti.1
Tuttavia la ricostruzione 'stemmatica' può essere applicata con successo solo se la tradizione è
chiusa, cioè impermeabile a fenomeni di trasmissione orizzontale (ricorso da parte degli scribi al
confronto con esemplari per noi perduti), e inoltre per un numero crescente di autori si è accertato
che la stessa ricostruzione di un archetipo medievale è impedita dal fatto che i nostri esemplari non
discendono da una ma da più traslitterazioni operate in diversi centri scrittori del mondo bizantino
(non sempre si sapeva quali iniziative si prendevano altrove).
Nel caso, poi, dell'epica omerica già osservava Giorgio Pasquali (1952, p. 218) che "l'Iliade e
l'Odissea furono sempre troppo lette e studiate, anche in età bizantina, perché la tradizione potesse
ricominciare da quel punto che per molti autori antichi è rappresentato da un archetipo medievale".
In questo caso infatti "la tradizione bizantina risale recta via a esemplari antichi" non essendovi
stato "un unico nodo stradale, un unico bacino di raccoglimento, nel quale le lezioni antiche siano
confluite, dal quale i codici medievali si siano di nuovo diramati".
D'altra parte i numerosi manoscritti medievali e umanistici dell'Iliade ci hanno consegnato un
1 Il concetto di archetipo medievale risale a Giuseppe Giusto Scaligero (1577), che studiando le corruttele del testo di
Catullo ipotizzò la derivazione di tutti i manoscritti di questo poeta da un modello in minuscola, ma in termini più
generici era già stato formulato da Erasmo di Rotterdam nel 1508 (Reynolds-Wilson 1987, p. 222). Sulla ricostruzione
dell'archetipo come obiettivo fondamentale della critica del testo ha insistito tutto un filone di studi, ma altri non hanno
rinunciato all'idea di una ricostruzione dell'originale perfino al di là delle eventuali sviste dell'autore.
complesso verbale che nonostante le divergenze sia di carattere testuale sia nel numero dei versi
mostra una forma che corrisponde con buona approssimazione al modo in cui Omero fu letto e
studiato dal 150 circa a.C. alla fine del mondo antico. Questa forma, data dalla concordia di tutti o
della maggior parte degli esemplari a noi noti, è quella che si usa chiamare 'vulgata' (per essa West
ha usato, sulla scia di Ludwich, la sigla Ω), e ad essa faremo spesso riferimento nelle note.
Accanto a questa vulgata disponiamo però di testimonianze frammentarie ma significative date dai
papiri di età tolemaica, da scrittori attici del IV secolo a.C. e da scolii (note testuali, esegetiche e di
commento) trascritti in margine ai manoscritti medievali e specialmente al Veneto A: una somma di
dati donde si ricavano indicazioni preziose su aspetti del testo anche anteriori all'età ellenistica.
Ecco allora che il nostro obiettivo può spostarsi più a ritroso nel tempo verso il punto a cui arriva la
nostra documentazione, insomma verso quel prototipo o 'capostipite' (da intender, più che come
oggetto fisico, come un 'paleotipo', cioè la forma standardizzata di un testo) che A. Dain (1949)
definiva come "il più antico testimone della tradizione a cui il testo di un autore si trova affidato".
Esiste per Omero un simile punto o almeno, per riprendere l'espressione di Pasquali, possiamo
individuare un bacino di raccoglimento in cui le acque della tradizione siano confluite per poi
tornare a ramificarsi in nuovi rivoli?
Per provare a rispondere a una tale questione dobbiamo ripercorrere brevemente la storia del testo
omerico nel corso dell'antichità.

2. La vulgata e i grammatici alessandrini: Zenodoto di Efeso e Aristofane di Bisanzio


Sappiamo che maestri di scuola (Omero divenne ben presto il testo fondamentale per l'istruzione
elementare) e sofisti (a partire da Protagora, cf. A 25 e A 27-29 D.-K.), e poi soprattutto Aristotele e
i suoi discepoli del Liceo, si occuparono di esegesi omerica, come ricaviamo dai frammenti
superstiti (142-179 Rose) dei sei libri di Problemi omerici e dal cap. 25 della Poetica di Aristotele, e
dallo Ione platonico (e cf. anche Xenoph. Symp. 3.10) ricaviamo che i rapsodi del IV secolo non
solo recitavano ma anche spiegavano Omero. Tuttavia una sistematica attività filologica sul testo
omerico, connessa alla raccolta di esemplari dei poemi da tutto il mondo ellenofono, si avviò solo
con i grammatici della Biblioteca di Alessandria.
Zenodoto di Efeso, direttore della Biblioteca fra il 285 e il 270 circa, fu l'autore della prima
recensione critica (διόρθωσις "correzione") del testo omerico e introdusse il primo segno critico, e
cioè l'obelo ('spiedo'): un tratto orizzontale apposto sul margine di un verso per segnalare che a suo
giudizio non era autentico ma rappresentava un'aggiunta posteriore. Pertanto Zenodoto lasciava
quel certo verso nel testo-base da lui utilizzato quale copia di lavoro ma lo 'atetizzava' (calco di
ἀθετέω "rifiutare"), cioè lo considerava interpolato, come ancora farà nella prima metà del III
secolo d.C. Origine nella sua edizione a sei distinte versioni (hexapla) della Bibbia: era
l'espressione di un dubbio affidato al giudizio altrui, diverso dalla materiale cancellazione, a cui
pure Zenodoto faceva talora ricorso, di un verso considerato sicuramente superfluo. La sua
'edizione' (ekdosis in quanto copia messa a disposizione di dotti, scolari, intellettuali, cf. ἐκδίδωµι
"rendere pubblico", "pubblicare") risultava "dall'insieme rappresentato dal testo-base più le
indicazioni di modifica contenute nel 'contorno' paratestuale" (Montanari 2009, p. 145).
D'altra parte Zenodoto non redasse un commento che integrasse la sua recensione e pertanto non
conosciamo le ragioni delle sue scelte né sappiamo se e in che misura si basasse sulla collazione di
altri esemplari o agisse di propria iniziativa, per congettura, tanto più che gli scoliasti ci
ragguagliano sulle sue scelte solo quando esse non erano condivise da Aristarco (Pfeiffer 1973, p.
184 ss.). Forse si basò, come ha ipotizzato M. West, su un esemplare rapsodico portato con sé ad
Alessandria dalla nativa Efeso (o comunque dalla Ionia) a cui aggiunse, oltre alla segnalazione con
l'obelo dei versi ritenuti spuri, note marginali dense di varianti (forse in buona parte congetture sue
o altrui) e osservazioni.
Aristofane di Bisanzio, direttore della Biblioteca fra il 204 e il 189, offrì, partendo da un esemplare
diverso da quello usato da Zenodoto, un testo meno eccentrico, introdusse l'uso degli accenti per i
casi che dessero adito a confusioni e ideò nuovi segni critici in aggiunta all'obelo (l'asterisco per
contrassegnare i versi ripetuti altrove, il sigma e l'antisigma per marcare due versi consecutivi di
identico contenuto e pertanto interscambiabili), ma neppure lui redasse un commentario che
motivasse i suoi interventi.

3. I grammatici alessandrini: Aristarco di Samotracia


Aristarco di Samotracia, direttore della Biblioteca fra il 175 circa e il 145, introdusse il commento
perpetuo (ὑπόµνηµα "ricordo", memorandum), e alla sua scuola, come abbiamo già ricordato, fu
attribuita quella divisione dei poemi in 24 canti o libri ciascuno che trova generalmente riscontro
nei papiri a partire dalla metà del I secolo a.C.
Aristarco, secondo il quale Omero sarebbe nato verso il 1000 in una colonia attica della Ionia, operò
su tempi lunghi dapprima redigendo due successivi commentari al testo stabilito da Aristofane (cf.
sch. A a Il. II 133a ἐν τοῖς κατ᾽ Ἀριστοφάνην ὑποµνήµσιν Ἀριστάρχου), poi una propria recensione
(διόρθωσις) costruita a partire da un testo diverso da quello utilizzato da Aristofane; infine, i suoi
allievi dovettero costituire un nuovo testo che incorporava le scelte più recenti del maestro.
Aristarco raccolse e collazionò numerosi esemplari ripartendoli in due grandi categorie:
a) le 'edizioni' più eleganti (χαριέστεραι ἐκδόσεις) di origine dotta: sia quelle dei grammatici
alessandrini suoi predecessori e del filologo di Pergamo Cratete (esemplari 'personali', αἱ κατ᾽
ἄνδρα ἐκδόσεις) sia quelle di poeti come Antimaco di Colofone, nato verso il 430, e, nel III secolo,
Riano di Ben(n)e sia infine le copie acquisite da determinate città ('edizioni cittadine', αἱ ἀπὸ τῶν
πόλεων o κατὰ πόλεις o πολιτικαί) come Argo, Chio, Creta, Cipro, Marsiglia, Sinope.
b) le 'edizioni' meno curate ο 'comuni' (είκαιότεραι o φαυλότεραι o δηµώδεις o κοιναί), fra cui
anche quella detta 'vulgata' (κοινή) per eccellenza (da non confondere con la nostra 'vulgata').2
Gli esemplari 'più eleganti', per quanto possiamo vedere dalle lezioni a noi note, abbondavano di
varianti deteriori, mentre le copie 'volgari', compresa la koiné, erano spesso di qualità superiore in
quanto conservavano peculiarità che oggi siamo in grado di spiegare su base linguistica.
Emerge d'altra parte dalla testimonianza dei papiri di età tolemaica che numerosi testi ellenistici
contenevano parecchi versi in più (generalmente importati da altre parti del poema) e frequenti
varianti. Di fronte a queste variazioni Aristarco dovette procedere rifiutando tutto ciò che si
divergess dalla generalità degli esemplari da lui consultati.
Gli scolii fanno riferimento a scelte di Aristarco basate sulla quantità e sulla qualità della
documentazione a sua disposizione, ma non di rado ci suggeriscono, alludendo a versi da lui
giudicati "superflui" (περιττοί) o "banali" (εὐτελεῖς) o "sconvenienti" (ἀπρεπεῖς), che operasse
anche in base a criteri interni (soggettivi).
Anche per lui, come per Zenodoto, la questione di fondo è appunto se e in che misura le sue lezioni
si basassero sulla tradizione manoscritta a sua disposizione o su congetture personali o altrui. Se
numerose lezioni di Aristarco erano, come sostenne con un'analisi capillare M. Van der Valk (1963-
1964), congetturali e non lezioni che, come voleva A. Ludwich (1898), ci rinviano quasi
immancabilmente a una più antica condizione del testo (una 'vulgata pre-alessandrina'), meglio si
comprende perché esse non influenzassero in misura decisiva la tradizione testuale successiva. Non
tutte le 874 lezioni attestate per Aristarco sono infatti passate, secondo i calcoli di Allen, nella
tradizione medievale (132 non compaiono in alcun esemplare) e fra quelle che vi sono passate solo
una modesta quantità (80) è concordemente riportata dai nostri manoscritti anche se ben 662 sono
attestate come varianti in una parte della nostra tradizione.
Invece la frequente coincidenza nel numero dei versi fra l'edizione di Aristarco e la vulgata
medievale si spiega immaginando che egli partisse da un testo-base scelto fra i meno eccentrici e si
limitasse a segnalare le sue opinioni mediante l'obelo e gli altri segni diacritici da lui utilizzati.3
La sua edizione doveva configurarsi come un esemplare standard decurtato dei versi ritenuti
sicuramente spuri (che venivano definitivamente cancellati) e corredato di segni diacritici e di
annotazioni marginali e interlineari che rimandavano alla discussione condotta nell'hypomenma,
considerato come parte integrante del medesimo lavoro critico (Erbse 1959).

2 Sulla presumibile identificazione della koiné o delle koinaí utilizzate da Aristarco con la vulgata ateniese venutasi a
formare fra VI e IV secolo nel contesto degli agoni rapsodici panatenaici vedi Nagy 1996b, pp. 152-56.
3 Oltre all'obelo Aristarco fece infatti ricorso ad altri segni: la diplé (>) per indicare un passo particolarmente
interessante per motivi linguistici o di contenuto (una sorta di N.B.); la diplé puntata, cioè accompagnata da due punti
(:), per indicare un verso su cui da Zenodoto o da Cratete di Mallo; l'asterisco abbinato all'obelo per versi interpolati da
un altro passo.
Quando si trattava di omettere uno o più versi e non semplicemente di proporne l'atetesi Aristarco
dovette operare quasi esclusivamente su base documentaria, attento a snidare le interpolazioni
infiltratesi in una parte della tradizione ed effettivamente caratteristiche dei papiri tolemaici
cosiddetti 'selvaggi', dunque non dovette essere tanto la tradizione testuale ellenistica a subire
l'influsso delle scelte di Aristarco quanto Aristarco a seguire, all'interno degli esemplari a lui noti,
quelli meno gremiti di interpolazioni.
La rapida scomparsa di papiri eccentrici a partire dal 150 circa a.C. e la conseguente
standardizzazione del testo omerico si collegano al declino dell'attività dei rapsodi e a quello che
Nagy (1996a, p. 98) ha chiamato "il minimalismo pragmatico degli scriptoria" (la tendenza degli
scribi operanti nei centri di scrittura a produrre testi uniformi) piuttosto che all'autorità della scienza
alessandrina anche se gli esemplari di origine aristarchea, messi a disposizione per essere copiati o
fatti riprodurre da amanuensi in vista del mercato librario, dovettero contribuire in qualche misura a
emarginare e screditare le copie ricche di interpolazioni e funzionarono da modello per i lettori dotti
di tutto il mondo ellenizzato.
Non a caso anche i segni diacritici compaiono sia in vari papiri evidentemente fatti copiare da lettori
colti (ma si tratta di una netta minoranza nel panorama complessivo) sia più tardi nel Venetus A
(Venetus Graecus 822, già Marcianus 454) del secolo X, conservato nella Biblioteca Marciana di
Venezia, corredato di un formidabile apparato di scolii marginali pubblicati nel 1788 dal Villoison
(Jean-Baptiste Gaspard d'Ansse de Villoison), instancabile esploratore dei fondi manoscritti della
Marciana, sui quali si basano in larga misura le nostre conoscenze sul lavoro dei filologi di
Alessandria e in particolare di Aristarco.4

4. Modelli editoriali: Allen


Il testo dell'Iliade che è stato di gran lungo più usato per molti decenni è quello stabilito da T.W.
Allen. L'editio minor, prodotta in collaborazione con D.B. Monro, è del 1902 (Oxford 19253), la
maior del 1931, preceduta da un saggio sulla tradizione testuale (Allen 1924).
Poiché il poema è stato trasmesso da un largo numero di manoscritti bizantini e umanistici Allen
divise i suoi 188 manoscritti, databili fra il 900 e il 1550 circa, in 24 famiglie (oltre a sette esemplari
considerati 'indipendenti') i cui contorni restano però alquanto imprecisi anche perché, come egli
stesso notava, la costante tendenza alla correzione ha prodotto una contaminazione pressoché

4 Conosciamo le notazioni di Aristarco attraverso Didimo (per la recensione del testo) e Aristonico (per i segni critici),
che sono due degli autori di quel Commento dei quattro a cui attinsero gli estensori degli scolii del Venetus A (gli altri
studiosi sono Erodiano per la prosodia e Nicanore per la punteggiatura) e a cui fa riferimento la subscriptio alla fine di
ogni canto. Altri codici, entrambi dell'XI secolo, forniti di scolii (si tratta di scolii denominati 'esegetici' e risalenti, oltre
che alla filologia alessandrina, a opere grammaticali e lessicografiche del periodo imperiale e della prima età bizantina)
sono il Townleianus (T), conservato al British Museum, e il Venetus Graecus 821 (B), già Marcianus 453. Altre
notazioni di Aristarco, raccolte e studiate da Schironi 2004 (in particolare, per i frammenti relativi all'Iliade, pp. 49-
464), si trovano disseminate negli etimologici bizantini.
generalizzata.
Pasquali (1952, p. 208) rimproverò ad Allen di aver lavorato "con metodi incredibilmente primitivi"
non avendo preliminarmente proceduto all'eliminazione dei codici che fossero copie di altri codici
superstiti e non essendosi curato di definire, nell'individuazione delle singole famiglie, la natura
delle coincidenze (in errore o in lezione giusta) fra i vari esemplari. D'altra parte proprio l'estrema
contaminazione della tradizione omerica fa sì che il risultato finale, quali che siano i manoscritti
utilizzati, sia invariabilmente molto simile purché si adotti una selezione non troppo ridotta di
codici: si ricostruisce in ogni caso quella vulgata tardo-ellenistica a cui già abbiamo accennato.
I limiti del testo ricostruito da Allen risiedono piuttosto altrove: nella conservazione di molti versi
debolmente attestati e chiaramente importati da altri passi (concordance interpolations: 76 casi
secondo Apthorp 1980, pp. XVII-XIX) e in un credito eccessivo concesso alle lezioni aristarchee
pur nella consapevolezza della discrepanza fra il testo di Aristarco e una vulgata pre-aristarchea
spesso convergente con la nostra tradizione manoscritta (secondo la dichiarazione programmatica di
Monro nella praefatio all'editio minor, p. X, "non c'è dubbio che la recensione di Aristarco deve
avere per noi di massimo peso, anzi deve essere anteposta anche a tutti i nostri codici").

6. La vulgata di van Thiel e l'originale di West


Solo in tempi relativamente recenti sono apparse edizioni del poema in grado di rivaleggiare con
quella di Allen e per vari aspetti di superarla.
Helmut van Thiel si è proposto, con la sua edizione dell'Iliade apparsa nel 1996 (20102) a Zurigo
(Olms-Weidmann) dopo quella dell'Odissea del 1991, un obiettivo minimalista: ricostruire la
vulgata medievale nella convinzione che tale vulgata fosse una prosecuzione (e riproduzione) di una
vulgata più antica (pre-alessandrina). A questo scopo van Thiel ha utilizzato 19 codici fra quelli più
antichi e meno contaminati (ma solo di 10 vengono ricordate sistematicamente le lezioni)
registrando invece selettivamente le lezioni dei papiri, e in genere non per le loro lezioni peculiari
ma in quanto confermano lezioni già presenti nei manoscritti medievali. Estremamente diffidente
verso i contributi della filologia alessandrina, che pure erano stati valorizzati da molti a partire dal
De Aristachi studiis Homericis di K. Lehrs del 1833 (18823), van Thiel opta sistematicamente a
favore della vulgata medievale, tanto più che a suo giudizio le note dei filologi di Alessandria non
erano lezioni in concorrenza ma passi paralleli, congetture e osservazioni facenti parte di un
apparato esegetico marginale e interlineare ma fraintese più tardi come varianti editoriali, e le loro
'edizioni' non erano edizioni di testi bensì di "apparati critici di commento ai testi" (1992, p. 27).
Caratterizzata da un'analoga, seppur meno radicale, diffidenza verso la filologia alessandrina e da
un'analoga, seppur non identica, selezione di manoscritti (13 esemplari citati costantemente più 6
occasionalmente) ma di segno opposto quanto allo scopo da perseguire è la di poco successiva
edizione teubneriana (I-II, 1998-2000) curata da Martin West, che ha sfruttato la più vasta
documentazione a noi accessibile, compreso un larghissimo numero di papiri inediti (840!) e un
regesto più ampio che in passato (e più largo nella sua estensione temporale: fino al IX secolo) della
tradizione indiretta: un'impresa formidabile, integrata da un volume di studi critico-testuali (West
2001), che si merita tutta la nostra gratitudine anche se non possiamo tacere di alcuni aspetti
opinabili della sua edizione.
West, innanzi tutto, una volta stabilito che l'Iliade fu scritta da 'Omero' nel VII a.C. attraverso vari
decenni in cui dilatò considerevolmente il suo poema e ne cambiò completamente il finale (funerali
di Ettore in luogo della morte di Achille), nutre l'ambizione di ricostruire l'originale dell'autore, più
precisamente "l'ultima versione del poeta", come se l'impresa fosse realmente praticabile pur
nell'assenza di testimonianze relative alla più antica trasmissione del testo e come se si potesse
distinguere fra attività creativa degli aedi e tradizione riproduttiva dei rapsodi, che si sarebbero
limitati a eseguire excerpta di poemi già fissati una volta per sempre aggiungendovi le loro quasi
sempre banali interpolazioni.
Queste interpolazioni West presumeva di poter individuare, insieme con innumerevoli corruttele,
anche in assenza di testimonianze ricavabili dalla tradizione manoscritta medievale o dai papiri o
dagli scolii, e dunque solo sulla base della sua conoscenza della dizione e della logica narrativa del
grande poeta originario. E con lo stesso orientamento West si avventura a restituire in ambito
ortografico forme inattestate affidandosi ai progressi della dialettologia greca senza tenere in debito
conto, come hanno osservato Graziosi e Haubold in un lavoro in corso di stampa(The Homeric
Text), la peculiare natura della dizione epica orale.5
Una costituzione del testo, quella di West, basata su una solida fiducia nella propria capacità critica
a cui si accompagna, per contro, una marcata seppur non assoluta diffidenza nei confronti del lavoro
degli studiosi alessandrini. Il testo di Zenodoto appare a West così eccentrico da risultare privo di
ogni logica interna e Aristarco a suo giudizio non utilizzò la molte edizioni che si ritiene avesse
tenuto sotto mano: sarebbe stato invece un altro grammatico alessandrino, Didimo detto Calcentero,
attivo nella seconda metà del I secolo a.C., a utilizzare i numerosi esemplari menzionati negli scolii.
Un'ipotesi, per altro, smentita da sch. A a Il. I 122, dove proprio Didimo dice che Aristarco nel
verso in questione "... non alterò nulla per eccessiva cautela avendo trovato questa lezione riportata
così in molti esemplari" (ὑπὸ περιττῆς εὐλαβείας οὐδὲν µετέθηκεν ἐν πολλαῖς οὕτως εὑρὼν
φεροµένην τὴν γραφήν).

5 Ad es. West scrive, con R. Payne Knight, κακοµηχάνοο κρυοέσσης in VI 344 e ἐπιδηµίοο κρυόεντος in IX 64 invece
di κακοµηχάνου ὀκρυοέσσης e ἐπιδηµίου ὀκρυόεντος della vulgata, ma se è vero che l'altrimenti inattestato aggettivo
ὀκρυόεις in luogo di κρυόεις "raggelante" è il risultato di un'errata divisione di parole risalente al tempo in cui il
genitivo singolare della seconda declinazione aveva ancora la forma non contratta -οο (> ου), nulla ci assicura che tale
innovazione, con la creazione della forma ὀκρυόεις (favorita dall'affinità fonica con l'aggettivo ὀκριόεις "scabro") sia
stata posteriore alla prima registrazione scritta del poema (o al 'grande poeta' di West).
7. Il multitext di Nagy
Tanto lontana dal massimalismo ricostruttivo di West quanto dal minimalismo di van Thiel è la
posizione di Gregory Nagy, promotore dell'Homer Multitext Project del Center of Hellenic Studies
dell'Università di Harvard (http://chs.harvard.edu/chs/homer_multitext).
In vari scritti (ad es. 1996a, pp. 65-112 e 2001) Nagy prende le mosse, sulle orme di Lord, dalla
considerazione che di un'opera di creazione orale non è possibile né sensato, data la sua fluidità e
multiformità, cercare di ricostruire un 'originale': questo originale semplicemente non esiste in
quanto ogni esecuzione è di per sé un 'originale' (una posizione che pet altro esclude una precoce
fissazione scritta dell'epica omerica quale viene invece ipotizzata, come abbiamo visto, dallo stesso
Lord con la sua teoria del 'testo orale dettato').
Più precisamente, Nagy considera la tradizione orale come "un processo di ricomposizione nel
contesto di ogni nuova esecuzione" (2001, p. 110) entro un continuum evolutivo che procede da
sistemi relativamente più fluidi a sistemi relativamente più rigidi. Coerentemente con questo
modello Nagy rifiuta ogni ipotesi di ricostruzione di un determinato testo e osserva che lo stesso
Aristarco faceva riferimento a koinai in quanto versioni comuni, correnti, standard, senza assegnare
ad alcun esemplare determinato un ruolo di 'archetipo'. Di qui il progetto di Nagy di recuperare il
sistema globale (il repertorio) della poesia omerica come testimonianza di una tradizione orale in
continua evoluzione.
Oltre a comportare l'impraticabilità di una qualsivoglia edizione o traduzione da offrire al lettore
questa posizione implica la rinuncia a discriminare e a scegliere fra varianti in concorrenza e fra
versioni più ampie e meno ampie essendo per Nagy ogni variante e ogni versione la realizzazione di
un multitext in evoluzione in cui va considerato 'autentico' tutto ciò che risulti conforme al sistema
complessivo della dizione epica tradizionale.
Come caso emblematico Nagy ricorda Il. V 808, un verso che era stato omesso (non semplicemente
atetizzato) da Aristarco per la buona ragione che Atena, mentre avverte il bisogno di incitare
Diomede, dichiara che un tempo aveva dovuto frenare il di lui padre Tideo. Inoltre, pur facendo
parte della vulgata, questo verso non compare in tre papiri e la sua natura posticcia si spiega come
una concordance interpolation realizzata sulla base dell'identico IV 390 (Apthorp 1980, pp. 4-6 e
2000).
Lo stesso Nagy ammette che qui il narratore vuole che Atena indichi a Diomede un preciso
contrasto: mentre ora è presente e pronta ad aiutarlo, in occasione della missione di Tideo presso i
Tebani ella stessa era assente e non aveva aiutato Tideo, anzi aveva precedentemente tentato di
dissuaderlo da ogni comportamento aggressivo. E tuttavia, pur ammettendo che il v. 808 fa a pugni
con il contesto in cui si trova inserito, Nagy sostiene che il verso rappresenta, in una prospettiva
diacronica, una traccia preziosa di una fase molto antica della poesia omerica nel senso che Atena
poteva assistere di persona anche Tideo, come leggiamo in IV 390 (racconto di Agamennone a
Diomede), sì che troveremmo qui riuniti, nel passo del canto V, "i blocchi di costruzione dei due
diversi modi tradizionali di articolare il discorso di Atena" (Nagy 2001, p. 118).
Senonché il contributo di V 808 alla diacronia del poema appare inesistente visto che del
potenzialmente duplice atteggiamento della dea nei confronti di Tideo veniamo a conoscenza già in
IV 390, di cui V 808 ci appare come una replica inopportuna che, come ben annotava Leaf,
"distrugge l'effetto del verso seguente".6

8. La strettoia ateniese
C'è però uno snodo nello schema evolutivo disegnato da Nagy dall'oralità pura alla 'testualizzazione'
che merita di essere riconsiderato anche se dobbiamo rifiutare, come si è visto, l'idea anacronistica
di una 'redazione' pisistratica. si tratta di quel "Panathenaic bottleneck", di quella strettoia che il
testo omerico d'età arcaica dovette attraversare in concomitanza con i prolungati agoni rapsodici
delle Panatenee e del ruolo politicamente e culturalmente egemone assunto da Atene in età classica
come fulcro del mondo ionico.
Una spia di questo passaggio sembra offerto dalla pur controversa7 (ma già nota ai grammatici
antichi) traslitterazione (µεταχαρακτηρισµός) del testo dei poemi dal vecchio alfabeto attico, in cui
Ε rappresentava ε, ει e ed η e Ο rappresentava ο, ου e ω (e inoltre le consonanti doppie non
venivano marcate), all'alfabeto ionico recente di 24 lettere, gradualmente introdotto in Attica nel
corso del V secolo e ufficialmente adottato nel 404/403. Un riscontro è offerto dai vasi attici recanti
versi epici, ad es. da una lekythos del 470 circa a.C. appartenente a una collezione privata (Beazley
1948), dove l'incipit dell'inno omerico XVIII Ἑρµῆν ἀείδω "canto Ermes" s\i legge nella forma
ΗΕΡΜΕ<Ν>ΑΕΙΔΟ.
Secondo quanto già sospettavano Aristofane di Bisanzio (p. 190 Slater) alludendo all'"antica grafia"
(παλαιᾶς γραµµατικῆς) e lo scolio A a XIV 241 menzionando "coloro che operarono la
traslitterazione" (τῶν µεταχαρακτηρισάντων), alcuni errori infiltratisi nella vulgata dei poema
sembrano appunto dovuti a fraintendimenti fonetici verificatisi al momento dalla traslitterazione.8
L'argomento è controverso e l'intera procedura è stata talora negata alla radice (Goold 1960), ma per
alcune corruttele che hanno invaso tutta la nostra tradizione questa resta la spiegazione più
plausibile (West, praef., p. VI).9

6 Ancor più discutibilmente Kirk trascura che σοὶ δ᾽ "ma a te" (col ricorso alla forma tonica del pronome personale) a
principio di V 809 introduce una contrapposizione tra figlio e padre e conserva V 808 appellandosi a una presunta
'complessità' dell'argomentazione di Atena.
7 Su alcuni aspetti problematici del fenomeno vedi Janko 1992, pp. 34-7 e Cassio 2002.
8 A questo tipo di spiegazione fanno ricorso, non sempre a proposito, altri cinque scolii al poema: sch. TV a VII 238,
sch. A a XI 104, sch. A a XIV 241, sch. a XXI 127, sch. Gen. a XXI 363.
9 In particolare, a principio di I 67 βούλεται ha sostituito βούλητ᾽, in VI 291 ἐπιπλούς ha estromesso ἐπιπλώς, in VI 353
Un'altra circostanza testimonia poi l'importanza del passaggio dei poemi da Atene: i passi
atenocentrici. Aristotele (Rhet. 1.15, 1375b30, cf. Plut. Sol. 10.2-3 e Dieuchida di Megara, FGrHist
485 F 6 attraverso Diog.Laert. 1.48 e 57) raccontano ad esempio che nel corso della contesa fra
Atene e Megara per il possesso di Salamina nel VI secolo a.C. i Megaresi accusarono gli Ateniesi
(Solone in particolare, secondo Dieuchida) di aver inserito nel testo omerico II 558

e dispose i suoi dov'erano le file ateniesi

subito dopo il v. 557


Da Salamina Aiace guidava dodici navi

rivendicando al posto di essi un'altra coppia di versi infarcita di toponimi megaresi (la cui
attendibilità è del resto non meno dubbia anche per la mancata indicazione del numero delle navi):
Poi Aiace conduceva navi da Salamina
e da Policna e da Egirussa e da Nisea e da Tripodi.

Effettivamente II 558 sembra essere stato promosso dall'intento di far dire al grande poeta che
l'isola di Salamina era stata ab antiquo sotto la giurisdizione di Atene. La stessa eccezionale brevità
della menzione dedicata a una figura di spicco come Aiace Telamonio (si può richiamare a
contrasto l'ampia presentazione di questo eroe in quanto pretendente di Elena in [Hes.] fr. 204.44-
51) mostra che questa è la rielaborazione di una più antica e perduta versione.
Anche gli sporadici atticismi dialettali rimasti impigliati nel tessuto espressivo dei poemi - forme
come κεῖντο per κέατο "giacevano" (XXI 426) e ἧντο per ἕατο "sedevano" (III 153) -. dovettero
prodursi nel corso del passaggio dell'epica omerica in Attica. Questo non significa che i passi
suddetti fossero composti in Attica e fossero più recenti rispetto alla dizione generale dei poemi:
significa solo che la nostra tradizione dipende da una trascrizione effettuata in Atene che ha
sostituito le forme ioniche (con -εα- pronunciato come un monosillabo per sinizesi) con quelle
corrispondenti in attico.10
Se dunque solo fino a una tipologia testuale susseguente all'arrivo dei poemi in Attica e alla
traslitterazione nell'alfabeto ionico fra V e IV secolo a.C. ci conducono a ritroso le nostre fonti, è
appunto questa redazione di età attica che possiamo in qualche modo prefiggerci di ricostruire,
consapevoli che la ricerca di un incontaminato 'originale' è un obiettivo chimerico.
Al pari della più antica registrazione scritta dei poemi neppure questo 'paleotipo' attico poté
arrestare completamente la proliferazione di varianti e interpolazioni quali emergono nelle citazioni
di autori del IV secolo (Platone, Eschine, Licurgo, Aristotele) e nei più antichi papiri del III e del II
τῶ è subentrato a τοῦ, in VII 434 e XXIV 789 un improprio ἔγρετο "si destò" ha soppiantato ἤγρετο "si radunò".
10 Diverso però il caso di Ἐωσφόρος per Ἠοσφόρος "stella del mattino" in XXIII 226 (e anche in Hes. Th. 381), dove
l'ipotesi di un atticismo è incerta data la presenza anche in ionico di forme in ἑω- come ἑωθινός "mattutino" in Herodot.
3.104.
secolo a.C. (su cui vedi S. West 1967). Non sappiamo in quale misura queste alterazioni dipendano
dalle recite rapsodiche o da quella che la stessa West ha definito "una creatività fuori luogo da parte
dei copisti" (1981, p. XLIX), ma in questo ambito il quadro prospettato dalla nostra
documentazione ci aiuta, grazie al confronto con le scelte editoriali di Aristarco, a orientarci di
fronte ai singoli casi.

9. Regole di viaggio
Come ha chiarito M.J. Apthorp (1980) e come sempre più emerge dai papiri che vengono via via
pubblicati, la stragrande maggioranza dei versi debolmente attestati nei manoscritti medievali di
Omero erano assenti nel testo di Aristarco e si sono infiltrati nella tradizione medievale in epoca
post-aristarchea; d'altra parte una serie di versi attestati dai papiri e dai testimoni indiretti (citazioni)
in età pre-aristarchea non fu accolta da Aristarco perché, come ripetutamente appendiamo dagli
scolii, quei versi erano debolmente attestati.
La tesi di Apthorp secondo cui Aristarco non omise alcun verso genuino e dunque tutti quelli da lui
omessi erano 'versi in più' (plus verses) è troppo radicale in quanto presuppone da parte dello
studioso alessandrino un lavoro sistematico di collazione su cui non abbiamo alcuna certezza e
perché dà per scontato che aggiunte occasionali non si fossero diffuse 'orizzontalmente' nella
maggior parte della tradizione pre-alessandrina a lui nota e che oltre alle interpolazioni si
verificassero anche omissioni e rielaborazioni (vedi West 1982), ma ci indica quella che dovette
essere la tendenza generale. Ciò significa che il primo passo verso una ricostituzione di una vulgata
pre-alessandrina, attica e di età classica, quale limite estremo verso cui possiamo risalire a ritroso in
base alla nostra documentazione sta nel diffidare dei versi omessi da Aristarco perché debolmente
attestati pur senza rinunciare a valutare le cose caso per caso.
Un altro passo è quello di tornare a usare criteri interni (esame del contesto da un lato, della dizione
dall'altro) per decidere di tutti i casi in cui le lezioni dei filologi alessandrini, e di Aristarco in
particolare, divergono da quella vulgata tardo-ellenistica che siamo quasi sempre in grado di
ricostruire, come ha fatto in particolare van Thiel, sulla base della tradizione manoscritta medievale.
Infine, delimitato in questi termini il nostro obiettivo, sarà inevitabile rinunciare a tutti quegli
adeguamenti ortografici che West si è impegnato a introdurre sulla base della comparazione
linguistica e della ricerca dialettologica per ripristinare l''originale' del 'grande poeta'.

Riferimenti bibliografici
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