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MEMORIA E TEMPO

Le riflessioni sul rapporto dell’uomo con il tempo e sul concetto stesso di


tempo hanno occupato un ruolo centrale nella nostra cultura sin dalle
epoche più arcaiche. I Greci percepivano il tempo in tre modi diversi e
aveva altrettanti nomi. Il tempo cronologico era chiamato “χρόνος”, il
periodo che indicava un’annualità era denominato “ἐνιαυτός”, l’eterno era
indicato col termine “αἰών” e, infine, vi era “καιρός”. Questa era la forma
di tempo più importante, come anche il suo significato. Kαιρός è
traducibile come “il momento opportuno” o “l’attimo supremo”, è il tempo
che ha significato. Sono quegli istanti che si differenziano dagli altri
perché pregni di avvenimenti, perché sono vissuti a pieno: in questo caso il
tempo sembra vivere solo come presente, ma diventa fondamentale per il
futuro in quanto l’attenzione costante permette di leggere gli eventi con
una consapevolezza diversa. Nella letteratura greca chi ha affrontato il
topos del tempo è lo storiografo Polibio (Megalopoli, intorno al 206 a.C.
circa- Grecia, 118 a.C.). Egli è stato autore di diversi trattati, ma l’opera
più importante è rappresentata dalle “Storie”, nella quale sostiene che il
tempo sia assimilabile alla figura di un cerchio, in cui si confondono
l’inizio e la fine, annullandosi in un costante ripetersi di eventi, per cui la
storia è formata da “corsi e ricorsi storici”. Riconducendo ad ogni causa
un determinato effetto in un inesauribile ciclo di avvenimenti che si
ripropone in forme diverse ma del tutto coerenti. In quest’opera egli rende
chiaro che il nesso

tra storia e politica è indissolubile infatti nel VI libro dice: “prevedere il


futuro con congetture fondate su quanto è già accaduto è […] semplice”.
Nel VI libro, dunque, Polibio approfondisce l’evoluzione ciclica del tempo
e della storia, in relazione alla stabilità e potenza dell’Impero Romano. In
concordanza con la circolarità del tempo, l’eterno ritorno di fatti ed
avvenimenti simili tra di loro, porta a sviluppare il concetto di historia
magistra vitae, per cui, dal momento che in un tempo infinito si verificano
situazioni finite con un movimento circolare, è possibile prevederne la
modalità in cui si presentano all’uomo e gli esiti che portano. A tal
proposito, in virtù della prevedibilità degli eventi storici, Polibio elabora la
teoria dell’anakύklosiς, infinitamente utile all’uomo politico, in quanto la
stessa storia, in base dei corsi e ricorsi storici, insegna come bisogna agire
in relazione ad un determinato evento.
Dunque, il politico si serve della conoscenza del passato per formulare
previsioni attendibili sul futuro. Secondo lo storico per capire la dinamica
degli avvenimenti che determinano l’ascesa e la crisi di uno Stato, bisogna
comprendere la complessità della sua organizzazione politica, come
afferma nel libro III,3 «Invece per quanto riguarda i Romani, non è per
nulla facile né spiegare la condizione attuale, per la complessità della loro
costituzione, né fare previsioni sul futuro». Polibio analizza la costituzione
romana distinguendo tre forme di governo, monarchia, aristocrazia,
democrazia («Ebbene la maggior parte di coloro che vogliono informarci
didascalicamente su tali argomenti citano tre tipi di costituzioni: chiamano
il primo di questi regalità, il secondo aristocrazia, il terzo democrazia»). A
ciascuna forma di governo lo storico contrappone un modello degenerato

(rispettivamente tirannide, oligarchia, oclocrazia). Secondo lo storico


queste forme di governo si alternerebbero in un ciclo ininterrotto
di ἀνακύκλωσις. Inoltre ribadendo quanto sia importante avere
consapevolezza del passato e mantenere salda la memoria, nel passo
III,4,12 afferma: «solo chi ha compreso, infatti, come ciascuno di essi
nasce, potrà comprendere anche quando, come e dove ciascuno di nuovo si
svilupperà, conoscerà il culmine, muterà e finirà». Lo storiografo credeva
che fosse proprio questa forte memoria del passato a rendere i Romani così
forti nelle azioni militari: durante le battaglie pensavano ai loro antenati
per cercare di eguagliare la loro virtus (VI, 52-53).
Assimila il tempo della vita a un viaggio, il poeta latino Quinto Orazio
Flacco (Venosa, 65 a.C.- Roma, 8 a.C.), un viaggio da un punto di
partenza diverso per ognuno a un punto di arrivo uguale per tutti. Il tempo
della vita segue sempre un suo ideale percorso, che è destinato
inevitabilmente ad interrompersi quando l’uomo si imbatte nella morte. Al
tempo breve delle stagioni di vita dell’uomo si contrappone il tempo della
natura, un tempo costituito dall’alternarsi delle stagioni, che muoiono, sì,
ma per rinascere (Ode I, 4 «all’inverno tien dietro la primavera, che
produce il rinnovamento della natura […]»). Sorge proprio da questa
riflessione sulla brevità del tempo il celeberrimo invito a carpere diem (I,
11), a cogliere cioè il momento fuggente prima che sia troppo tardi. Il
carpe diem appare qui come altrove nella poetica oraziana connesso con il
divieto: non pensare al domani. Un domani che per Orazio è incertezza
d’ogni cosa tranne che della morte. Il pensiero della morte è inscindibile
da quello del tempo che fugge ed egli cerca di rimuoverlo contraendosi nel
pensiero dell’oggi.

Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi

finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios

temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati!

Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,

quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare

Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi

spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida

aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

Tu non cercare, non è dato saperlo, quale a me, quale a te termine ultimo
gli dei abbiano dato, Leucono, e non tentare i calcoli babilonesi. Quant’è
meglio sopportare tutto ciò che accadrà, quale che esso sia! Sia che Giove
abbia assegnato molti inverni, sia che (abbia assegnato) come ultimo
(inverno) questo che ora fiacca contro le opposte scogliere il mar Tirreno:
sii saggia, filtra i vini e, poiché il Tempo è breve, riduci la luna speranza.
Mentre parliamo, il Tempo invidioso sarà già fuggito: cogli l’attimo il
meno possibile fiduciosa nel domani.

Con essa (Ode I, 11), in un dialogo con Leucono, invita la ragazza a non
confidare nel domani, a non cercare di capire ciò che va al di là delle sue
possibilità, vivendo invece a pieno il presente. Il poeta insiste sull’oscurità
e l’incertezza del domani, sulla precarietà dell’esistenza, riassumendo nella
sua locuzione i dettami della filosofia epicurea e della “teoria edonistica”,
ovvero esplica la necessità di vivere il presente dando importanza ad ogni

attimo senza interrogarsi sul futuro. Ed è forse questo tutto quello che si
può fare, si può vivere il tempo dando ad ogni attimo un significato, in
modo tale da renderlo imperituro. Ciò è però possibile solo se si accettano
quelle che sono le tappe fondamentali a cui ogni uomo deve
necessariamente andare incontro, come il momento della morte.

Secondo Seneca, filosofo e letterato dell’età neroniana (Cordova 4 a.C.


circa – Roma 65 d.C.) la natura ha concesso all’uomo un’esistenza per la
ricerca della verità e della saggezza. Infatti è molto importante l’utilizzo
del tempo assegnato: soltanto un uso appropriato del tempo permetterà
all’uomo di raggiungere tale obiettivo e di dare un senso alla sua esistenza
senza temere la morte.

Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quo
d in 
exiguum aevi gignimur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis t
emporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in i
pso vitae apparatu vita destituat.

La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lamenta dell’avarizia della


natura, poiché nasciamo per una vita breve e poiché questi spazi di tempo,
concessi a noi, trascorrono così tanto velocemente così precipitosamente,
che, fatta eccezione per pochissimi la vita abbandona tutti gli altri nei
preparativi stessi della vita.

De brevitatae vitae I, 1

Nel dialogo egli spiega quale deve essere il retto rapporto dell’uomo con le
tre parti in cui tradizionalmente viene suddiviso il tempo, ovvero il
presente, il passato e il futuro. Egli afferma che il passato, rispetto
all’incerto futuro e al fuggevole presente, costituisce qualcosa di definitivo
ed immutabile. Tuttavia, osserva Seneca, solo il sapiente può rapportarsi
rettamente al passato dal momento che, avendo sempre impegnato il suo
tempo alla ricerca della verità e della saggezza, rievoca volentieri le azioni
virtuose che ha compiuto. Gli occupati, invece, ossia gli uomini
affaccendati nel perseguimento di azioni futili ed insensate, non hanno né
il tempo né la voglia di rievocare il passato e qualora si fermassero per un
istante a riflettere, si accorgerebbero con terrore di essersi affannati tanto
per non concludere nulla. Ma più che sul passato, Seneca si concentra
soprattutto sulla dimensione del presente, in sintonia con il pensiero stoico.
Al proposito il filosofo ribadisce:

«Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus. Satis longa vita 
et in maximarum rerum consumationem large data est, si tota bene conl
ocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei 
inpenditur, ultimā demum necessitate cogente quam ire non intelleximus 
transisse sentimus. Ita est: non accipimus brevem vitam sed facimus»,
ossia «Non abbiamo poco tempo, ma molto ne perdiamo. È stata data una
vita abbastanza lunga per delle grandissime imprese, a patto che sia
investita tutta bene; ma quando scorre via tra il lusso e la trascuratezza,
quando la vita non è spesa in nessuna cosa buona, alla fine sotto la spinta
di una necessità, ci rendiamo conto che è trascorsa quella (vita) che non
capimmo

che stesse passando. È così: non è breve quella vita che riceviamo, ma noi
l’abbiamo resa breve (!,1)».

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