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Guido Giglioni

Tra oro e ferro


Realtà e filosofia nel Rinascimento

1. Introduzione

L’espressione «età dell’oro» gode di illustri credenziali letterarie, artistiche, filosofiche e


teologiche, al punto da venire spesso assunta a significare una delle forme fondamentali della
percezione umana del tempo, vale a dire, il desiderio di riannodare il presente di una
determinata epoca al suo passato e al suo futuro attraverso il senso di una perduta perfezione
e la speranza di poterla un giorno recuperare. In questo senso, il tema in questione
rappresenta uno dei miti più potenti e persistenti nella storia dell’umanità, tale da andare alle
radici stesse del processo di civilizzazione. Ne risentono infatti la ragione, la memoria e
l’immaginazione – la prima attraverso l’idea di una giustizia originaria che si vuole abbia
definito all’inizio le coordinate della storia umana, la seconda attraverso il ricordo di un
momento particolare di perfezione in questa storia, e la terza, infine, attraverso la speranza
che una tale epoca di perfezione materiale e morale possa ritornare in un futuro non troppo
lontano, sentito come imminente e gravido di rivolgimenti. Con l’età dell’oro si intrecciano
poi i motivi del ciclo (l’alternarsi dei momenti della crescità, maturità, crisi e decadenza),
dell’unificazione globale del mondo (l’idea di impero universale), dell’armonia naturale e
sociale (la pace perpetua), della profezia (le tante attese messianiche) e della rigenerazione –
vitale e spirituale – di una natura che sembrava avesse perduto il senso delle cose.
Vale la pena sottolineare, fin dall’inizio, come, nella trama più riposta del mito, si
diano sempre una prima e una seconda età dell’oro, e come tutto si giochi in questa tensione
tra passato e futuro, tra ricordo e profezia. L’aspirazione umana alla pace e armonia
presuppone infatti che vi sia stata all’inizio una condizione di equilibrio inteso come
spontaneità assoluta e che all’umanità sia ancora data l’opportunità di continuare a sognare
riguardo alla possibilità di ripristinare questa condizione. Si capisce da quanto appena detto
che in realtà la memoria dell’età dell’oro è sempre accompagnata da un senso struggente di
perdita e nostalgia, perché è evidente fin da subito che una condizione di assoluta spontaneità
può solo darsi nella forma di un ideale regolativo, che aiuti a tollerare un processo in corso di
sfruttamento e abbrutimento reali (un po’ come l’ideale del moto perpetuo stimolò lo studio
della meccanica nella scienza della prima modernità). In quanto irreparabilmente scissa tra
perdita e attesa, l’età dell’oro è quindi inerentemente tragica.
Si tende inevitabilmente ad associare un elemento di evasione e disimpegno all’idea
di una favolosa età dell’oro. Ciò, tuttavia, non arriva mai ad ottundere la consapevolezza che
ogni momento aureo è essenzialmente un’elaborazione del pensiero mitologico volta a
giustificare e mantenere in vita la libertà dell’immaginazione, e questo perché, se
l’immaginazione non è libera, muore anche la ragione e il ricordo si spegne. Se il sogno
dell’età dell’oro può quindi indurre la mente a rifuggire dalla realtà, esso può anche fornire il
potenziale simbolico che è necessario per ogni autentico desiderio di migliorare lo stato delle
cose. Da Teocrito a Virgilio, da Sannazaro a Sidney, la storia dell’immaginario occidentale
dimostra come le pastorellerie si misurino spesso con complesse tematiche di natura
teologico-politica. Esse ci dicono del nostro rapporto con la natura, in termini economici e
vitali; ci dicono dei corpi, e del loro bisogno di essere in sintonia con la vita della mente. In
questo senso, l’età dell’oro non è mai il prodotto di un’epoca di appagamenti e conquiste
auree, ma presuppone il ferro e il piombo di oggettivi mutamenti storico-sociali, e direi oggi
l’uranio della minaccia atomica e delle fonti di energia poco controllabili – l’età dei metalli a
lungo decadimento radiottivo, in cui un’umanità privata dei suoi ancestrali sogni apocalittici
e fantasie chiliastiche sembra essere tutta tesa alla distruzione del mondo in cui si trova a
vivere e, ancor più paradossalmente, all’auto-distruzione.
Una consolazione, anche se forse magra, è tuttavia legata all’età del ferro: nelle cronologie
dell’immaginario, essa segna la fine di un ciclo, ovvero la fine del mondo e l’inizio di una
nuova era. E il mondo che finisce può essere un universo simbolico la cui capacità di
sprigionare senso è giunta al termine, ma che però nello stesso tempo annuncia un nuovo
inizio: dopo il ferro l’oro a venire, diverso dall’oro che fu. La tensione tra la Realpolitik dei
politici di mestiere e l’aspirazione ideale ad un mondo migliore reclamata dai profeti percorre
il filone letterario e filosofico del pensiero utopistico (autentica invenzione dell’umanesimo
rinascimentale) ed è un tema centrale della riflessione filosofica di Tommaso Campanella
(1568-1639), il quale apostrofava i sostenitori della ferrea età del cinismo politico come
«machiavellisti» e l’età del ferro come saeculum machiavellisticum1. In questo contesto,
machiavellismo viene a significare, come vedremo meglio più avanti, determinismo naturale,
lettura letterale della realtà e conseguente soppressione dell’immaginazione. A ben vedere, la
nozione machiavelliana di realtà effettuale è meno favorevole all’idea di cambiamento di
quanto non lo sia ogni forma di proiezione edenica, dal momento che il richiamo all’azione è
giustificato dal sogno (profetico-politico) piuttosto che dalla tendenza a soggiacere alla
tirannia e alla pesantezza plumbea dello stato attuale delle cose, l’attualità politica – attualità
nel senso di Hegel e non del Daily Mail. Quanto allo stesso Niccolò Machiavelli (1469-
1527), il vero tempo dell’oro è il presente in quanto tempo della libertà e condizione presente
– demitologizzata – di buon governo. Come notava nei suoi Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio (1513-1519), colui che avrà la buona ventura di vivere in stati amministrati da
buon governanti «vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione
che vuole»2.
In un autore come Campanella, diventa invece chiaro come occorra distinguere tra
un’età dell’oro all’origine della storia umana e un’età altrettanto aurea alla fine di detta storia,
quando il rinnovamento universale del mondo coinciderà con il ritorno alle origini. È dunque
naturale per Campanella connettere il mito dell’età dell’oro all’idea dell’intrinseca ciclicità
del tempo. Si veda, ad esempio, il Sonetto 52:

Se fu nel mondo l’aurea età felice


ben essere potrà più ch’una volta,
ché si ravviva ogni cosa sepolta,
tornando ’l giro ov’ebbe la radice3.

Questa interpretazione si riconnette a precise convinzioni astrologiche e teologiche, ma anche


e soprattutto alla metafisica campanelliana delle primalità, ovvero le determinazioni
primordiali dell’essere: potere (posse), conoscenza (nosse) e desiderio (velle) – come dire che
il ritorno della vita, della luce e del bene è inscritto nelle fibre stesse della realtà, con la sua

1
T. Campanella, Articuli prophetales, a cura di G. Ernst, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 89. Si veda G. Ernst,
«L’aurea età felice». Profezia, natura e politica in Tommaso Campanella, in Tommaso Campanella e l’attesa
del secolo aureo, Firenze, Olschki, 1998, pp. 61-88. Così Ernst sintetizza la posizione di Campanella rispetto
alla futura età dell’oro preannunciata dalla decadenza irreparabile del mondo contemporaneo: «La meditazione
sul secolo d’oro, insieme con quella ad essa contigua sul ruolo e il destino del profeta, è uno dei grandi temi che,
emerso in primo piano ai tempi della congiura, attraversa poi tutto il pensiero campanelliano, venendo ad
assumere di volta in volta sfumature e accentuazioni diverse – ed è una meditazione che riguarda la sofferenza
dell’uomo, la sua possibilità di riscatto, il significato della sua storia» (p. 62).
2
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, a cura di Corrado Vivanti, 3 vols
(Turin: Einaudi, 1997-.....), I, p. 227.
3
T. Campanella, Le poesie, a cura di F. Giancotti, Torino, Einaudi, 1998, p. 236.
disposizione originaria alla potenza, alla conoscenza e all’amore. Ciò significa anche,
nell’interpretazione campanelliana dell’età dell’oro, che il ciclo aureo presuppone l’idea di
una riconciliazione finale di natura e ragione, religione e politica, legge e istinto, necessità e
libertà4. In questo tipo di analisi, il termine «mutazione» gioca un ruolo di primo piano. Posto
al centro di una costellazione di parole chiave come revolutio (astrale prima che politica),
renovatio (rinnovamento spirituale), translatio imperii (trasferimento del potere e dei suoi
arcani divini), reformatio (cambiamento in meglio della vita) e redemptio (salvezza), il
concetto di mutatio indica il rivolgimento epocale che preannuncia il ritorno all’età dell’oro.
L’età dell’oro si presenta quindi come caratterizzata da uno statuto anomalo – la
memoria del futuro – che è solo apparentemente ossimorico: si tratta di ricordare un momento
di perfezione nella storia dell’essere che, proprio in virtù della fondamentale unità di questo
essere, rivive incessantemente come aspirazione a ripristinare quell’ideale di perfezione. La
parola latina instauratio – ripresa e rivoluzione – racchiude in sé del resto questa oscillazione
dialettica, e non a caso è stata usata come tale da vari rappresentanti della prima età moderna,
da Campanella a Francis Bacon (1561-1626). Come ad esempio vedremo più avanti, il
filosofo platonico Francesco Patrizi (1529-1597) non esiterà a presentare i celebri corifei
della prisca sapientia come quei saggi che, prima di tutto, riuscirono a preservare la memoria
del futuro. L’età dell’oro diventa allora uno degli stadi archetipici nella preservazione del
senso dell’essere, il quale senso andrà a realizzarsi in un futuro più o meno prossimo. Qui
l’immagine di una perfezione originaria – primitiva appunto – persa nelle nebbie primordiali
del passato, agisce in realtà come mito costitutivo di futuro. Lo storico Harry Levin ha
definito questa oscillazione con i termini complementari di «retrospettiva arcadica» e
«prospettiva utopica».5 L’età dell’oro è il termine medio tra arcadia e utopia, le quali possono
venir considerate come ulteriori riproposizioni rispettivamente del passato e dell’avvenire
prima che le due dimensioni vengano dialetticamente mediate nell’aurea memoria del futuro.
Va qui ribadito come, per le ragioni fin qui enumerate, la categoria dell’età dell’oro
sia strutturalmente percorsa da tensioni che in gran parte non possono (e non devono) essere
risolte. La tensione non è solo quella tra l’oro degli inizi e l’oro della finale riconciliazione,
tra lo sguardo ‘retrospettivo’ dell’arcadia e l’impegno ‘prospettivo’ dell’utopia, tra
spontaneità innocente e desiderio di voler tornar ad essere liberi. La tensione, come già
accennato, è anche tra oro e ferro. In un articolo pubblicato nel 1974, dopo l’uscita nel 1971
dell’importante volume The Iron Century, lo storico Henry Kamen così riassumeva il
contrasto tra le due epoche mitiche, con le inevitabili implicazioni sul piano della storia e
storiografia:

Sembra esserci un sorprendente accumulo d’oro intorno al tempo del Rinascimento, e


con così numerosi illustri storici a guidarci potremmo facilmente cader preda del suo
luccichio. In questo breve articolo mi propongo di sostenere che questo oro è
illusorio, che gli storici non sono riusciti a differenziare adeguatamente l’oro che
brilla dalle scorie, e che in ogni caso i contemporanei erano più consapevoli [di

4
In una serie di contributi fondamentali, Germana Ernst ha esplorato il tema dell’età dell’oro in Campanella,
mostrandone i nessi con i concetti di natura e ragione. Si veda, tra gli altri, Religione, ragione e natura. Ricerche
su Tommaso Campanella e il tardo Rinascimento, Milano, Angeli, 1991, pp. 19-34, 73-104, 134-157; Ead.,
«“L’aurea età felice”. Profezia, natura e politica in Tommaso Campanella», in Tommaso Campanella e l’attesa
del secolo aureo, Firenze, Olschki, 1998, pp. 61-88; Ead., Tommaso Campanella: The Book and the Body of
Nature, Dordrecht, Springer, 2010, pp. 85-104.
5
H. Levin, The Myth of the Golden Age in the Renaissance, New York, Oxford University Press, 1969, p. 8.
quanto non siano non gli storici d’oggi] del fatto che la loro epoca era un’età del ferro
piuttosto che dell’oro6.

Kamen sa bene che «il mito dell’età dell’oro non era solo un motivo letterario» e che esso era
divenuto, soprattutto dopo la scoperta dell’America, «un veicolo per un serio discorso
filosofico». Nello stesso tempo, però, sottolinea come il complementare mito dell’età del
ferro venisse usato in epoca moderna per condurre «una seria analisi delle condizioni socio-
economiche nel XVI secolo»7. L’oro di cui parla qui Kamen denota in realtà un metallo vile,
il più vile di tutti: esso indica la crescita senza precedenti dell’usura, l’espansione di una
nuova economia basata su profitto e moneta, la creazione di strategie sempre più sofisticate
nella difesa della proprietà privata, per non dire dei progressi tecnologici associati all’arte
della guerra e alle prime forme di industrializzazione. Non c’è da meravigliarsi se Thomas
More (1578-1535) avesse immaginato che gli abitanti di Utopia usavano l’oro per forgiare i
loro pitali. E come malinconicamente osservato da Giusto Lipsio (1547-1606), sebbene i
tempi fossero ferrei, il ferro non veniva usato per il progresso delle arti, ma per promuovere
la guerra («etsi tempora apud nos ferrea, nec artibus istis sed Marti facta»)8.
Va detto che la significatività della posizione di Kamen risiede nelle sue ragioni
storiografiche più che in quelle storiche. L’obiettivo era quello di porre in rilievo il contrasto
tra la consapevolezza diffusa a livello delle masse popolari di star vivendo in un’età del ferro
e la percezione delle élite culturali di aver raggiunto delle conquiste intellettuali senza
precedenti9. In un certo senso, Kamen è stato profetico. Al momento, la categoria
storiografica di Rinascimento è infatti esposta a critiche severissime, che hanno a che fare più
con distrazioni ideologiche (conseguenza di un protratto astio anti-intellettuale che dura
ormai da più di trent’anni) che non con l’effettivo lavoro degli storici e della conoscenza
storica. Una delle ragioni per cui vale invece la pena di continuare a parlare di Rinascimento,
e forse di un Lungo Rinascimento, è proprio per il fattore catalizzante che l’idea di ‘rinascita’
innescò tra il XIV e il XVI secolo a vari livelli culturali, un’idea strettamente associata a
quella di età auree dell’umanità10.
Questo punto venne fatto valere in tutta la sua forza da Eugenio Garin (1909-2004), il
quale sottolineò come, data la sovrabbondanza del materiale che veniva di anno in anno
strappato all’oblio dei secoli precedenti per opera di editori, traduttori, artisti, amanuensi,
imprenditori, impresari, mercanti, committenti e mecenati, il Rinascimento poteva anche
essere percepito come un’età in cui si riscopriva l’oro della mente. Si aveva come il senso di
ritrovare volti familiari, di cui ci si era dimenticati poiché ci si era rassegnati troppo
facilmente all’idea di averli irrimediabilmente perduti. Cito qui un brano di Garin che ben
cattura lo spirito di questa tendenza:

6
H. Kamen, Golden Age, Iron Age: A Conflict of Concepts in the Renaissance, in «Journal of Medieval and
Renaissance Studies», IV, 1974, pp. 135-155 (135).
7
Kamen, Golden Age, Iron Age, cit., pp. 142-143.
8
Thomas More, Utopia, a cura di E. Surtz, S.J., e J. H. Hexter, in The Complete Works, New Haven-London, 15
voll., Yale University Press, 1963-1997, IV (1965), pp. 156-157; Justus Lipsius a Francisco de Quevedo (15
ottobre 1604), in Opera omnia, 4 voll., Wesel, Andreas van Hoogenhuisen, 1675, II, p. 487, citato in Kamen,
Golden Age, Iron Age, cit., p. 151. Sull’oro come simbolo dell’alienazione del lavoro, si veda anche Leon
Battista Alberti, Autobiografia, a cura di L. Chines e A. Severi, Milano, Rizzoli, 2012, p. 86: «Aurum [Alberti]
dicebat laboris dominum, laborem ipsum voluptatis servum esse».
9
Kamen, Golden Age, Iron Age, cit., p. 141.
10
Ho difeso l’idea di un «Long Renaissance» nella storia del pensiero occidentale nel saggio What’s Wrong with
Doing History of Renaissance Philosophy? Rudolph Goclenius and the Canon of Early Modern Philosophy, in
Early Modern Philosophers and the Renaissance Legacy, a cura di C. Muratori e G. Paganini, Dordrecht,
Springer, 2016, pp. 21-39.
Si trattò di riconquistare in una dimensione del tempo – l’antico – l’intera umanità
operante: poesia e teologia, scienza e filosofia, ed anche la grande prosa storica e il
diritto, i monumenti architettonici e le macchine, le statue e i quadri, le tecniche e i
costumi, fino agli oggetti domestici – le coppe e i gioielli. Non ritornano solo Platone
o Epicuro o Plotino e Ermete; ritornano, o almeno si rievocano, tutti, anche Aristotele
con i suoi tratti rimasti nell’ombra, o falsati, con i suoi antichi discepoli e
commentatori, con il suo Alessandro, con i suoi viaggi e le sue vicende umane11.

C’è un indubbio senso di gioia in questo brano di Garin, tratto dal suo Il ritorno dei filosofi
antichi. Per ogni studioso appassionato di filosofia, il Rinascimento è una delle età d’oro del
pensiero umano. Direi anzi che sia il paese della cuccagna filosofica, per la varietà di registri,
stili e toni, di lingue, sperimentazioni verbali e visive, e non importa che questa visione sia
ormai intaccata (e a volte derisa) da una visione ferrigna (direi, di nuovo, plumbea) di ciò che
si debba veramente – cioè professionalmente – considerare filosofico. Nella sua autorevole
opera di storico del Rinascimento, invece, Garin mise in luce (e poi difese contro una certa
interpretazione didattico-moraleggiante della filosofia rinascimentale), la tensione
ambivalente tra l’idea di rinascita (un vero e proprio «risuscitare i morti») e la
consapevolezza di star annunciando il delinearsi di una nuova realtà: «un rinnovamento
profondo all’insegna di un ritorno al passato»12. Il Rinascimento diventava allora l’epoca in
cui emergeva in piena consapevolezza il senso di una memoria storica in cui il passato veniva
trasformato in energia produttiva di grandi trasformazioni.
Kamen and Garin rappresentano i due poli storiografici di questo capitolo incentrato
sul contrasto tra i meccanismi inesorabili di una realtà naturale e sociale avvertita come
sempre più ferrea e, ad essi opposta, l’aspirazione ad un profondo cambiamento ispirato al
tema dell’età dell’oro. Questo contrasto venne analizzato in modi diversi (e partendo da
diverse prospettive filosofiche) da alcuni pensatori rappresentativi del tardo Rinascimento
come, tra gli altri, Giordano Bruno (1548-1600), Patrizi e Campanella. Un’esame delle loro
posizioni metterà in luce quanto ancora fosse vitale all’epoca il mito di un’età aurea da
riportare in vita nelle sue componenti simboliche e, per così dire, anagogiche. Da un punto
vista tematico-concettuale, mi soffermerò su quattro figure della mente che, per così dire,
contribuirono a perpetuare nel Rinascimento il mito dell’età dell’oro: Astrea, Arcadia,
monarchia universale e prisca sapientia.

2. Figure rinascimentali dell’età dell’oro: Astrea, Arcadia, monarchia universale e prisca


sapientia

Ho iniziato questo capitolo presentando l’età dell’oro come una forma della percezione
storica. Tra i momenti che vorrei sottolineare in questo studio, vi sono quelli relativi
all’abbandono e ritorno, che a mio parere sono inscindibilmente legati al tema dell’età
dell’oro, con le sensazioni di ansia e nostalgia ad esso strettamente legate. I modi di
rappresentarsi la fine di un momento percepito come felice possono essere diversi: cacciata o
fuga, perdita di coscienza o risveglio, paura o speranza. Il senso della fine è tanto più
importante in tutti questi casi poiché il ritmo dell’assoluta spontaneità è regolato dal
monotono succedersi della vita. L’unico vero evento in quella realtà è precisamente
l’episodio che in qualche modo ne segna il termine in modo drammatico, in forma di gesto o
azione connessi ad una colpa o peccato. In Esiodo, che per primo sembra aver introdotto il
11
E. Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Napoli, Bibliopolis, 1983, p. 12.
12
E. Garin, Rinascite e rivoluzioni: Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 2007
[1975], p. XXII.
tema della successione e declino delle generazioni, la fine è per l’appunto rappresentata da
gradi di decadimento metallico13. Qui Aidos e Nemesis sono le divinità che abbandonano la
terra al suo destino di ingiustizia e violenza. Il poeta ellenistico Arato, nei Fenomeni, fa che
sia Astrea, dea della giustizia, a lasciare il mondo quando il male mette radici troppo
profonde tra gli uomini. Il mito ci ricorda che essa fu l’ultima ad abbandonare la terra (la
storia ha un interessante corrispettivo nel mito di Pandora, dove la Speranza è l’ultima a
fuoriuscire dal vaso nefasto)14. Alla storia di Astrea è associato il terribile senso d’abbandono
e disorientamento che è causato dalla perdita dell’innocenza. Il tema della fine della giustizia
terrena e del suo essere sopraffatta dal regno dell’ingiustizia è, a mio avviso, uno dei
momenti di maggiore tensione legati al mito dell’età dell’oro, ed esso ci dovrebbe sempre
trattenere dal liquidare con troppa facilità i drammi pastorali (cominciando con la quarta
ecloga di Virgilio) come meri fenomeni d’evasione. Campanella, per fare un esempio, chiama
il millennio aureo saeculum innocentiae proprio per ribadire che la più grande conquista
del’umanità rigenerata sarà la restaurazione della giustizia15.
Sarebbe impossibile ripercorrere qui tutti i luoghi di Astrea nella cultura
rinascimentale, dall’Orlando furioso di Ariosto (XV, XXV, 26) al «El siglo de oro» di Lope de
Vega (1637), dalla Faerie Queene di Edmund Spenser (V, I, 2) alla «vergognosa»
costellazione (la Bilancia) a cui Torquato Tasso, in un sonetto al duca Alfonso II, assimilò la
giustizia divina. Nel suo libro dedicato al mito di Astrea, Frances Yates ripercorse le tappe
principali che condussero nel Rinascimento alla formazione della «teoria di un’età dell’oro
imperiale predestinata da Dio perché nascesse Cristo» e mostrò come questa teoria venisse
connessa alla rinascita dell’idea di Impero nel Medioevo e Rinascimento16. Fu infatti
attraverso la riscoperta della tradizione del diritto romano nel XIII secolo, specie a Bologna,
che si avviò un vero e proprio «processo di santificazione della civitas terrena, implicito
nell’idea medievale di imperatore»17. Nell’interpretazione della Yates, Astrea ribadiva con
forza il potenziale rivoluzionario che poteva sprigionarsi dall’età dell’oro. Qui concordo con
la celebre studiosa del Warburg Institute: non vi può essere autentico cambiamento politico e
sociale senza Astrea e senza Utopia. Gli incubi totalizzanti derivano sempre da situazioni di
frammentazione empirica e da manipolazioni dell’immaginario su base crassamente
pragmatica. Contrariamente a quanto pensato da Karl Popper, i nemici della società aperta
sono solo e sempre gli efficienti burocrati del realismo politico, siano essi anche illuminati
dal ‘buon senso’, e per rimanere aperte le società richiedono quel tipo di afflato che può venir
offerto dalla visione di un futuro migliore18. Si tratta di un futuro che può essere immaginato;
non può e non deve essere pianificato con gli strumenti di una ragione strumentale e
computazionale.

Il potenziale di cambiamento e rigenerazione connesso ad Astrea dipende dal suo poter un


giorno ridiscendere sulla terra. Tra i segni che annunciano questo ritorno vi è il manifestarsi
di nuove armonie. Nelle sue visioni profetiche, Campanella assicura che gli uomini e gli
animali torneranno ad essere amici quando il secolo aureo arriverà a maturazione una
seconda volta (quando saeculum aureum efflorebit)19. Insieme ad Astrea, la cornice bucolica
e pastorale è un modo per ribadire che la fine dell’età dell’oro coincise con una dimensione di
13
Cfr. H. C. Baldry, Who Invented the Golden Age?, in «The Classical Quarterly», II, 1952, pp. 83-92.
14
Sul mito di Astrea e la sua ripresa in età moderna, si veda F. A. Yates, L’idea di Impero nel Cinquecento, tr.
E. Basaglia, Torino, Einaudi, 1990 [1978], pp. 39-49.
15
Campanella, Articuli prophetales, cit., p. 88.
16
Yates, L’idea di Impero, cit., p. 25.
17
Ivi, p. 13.
18
Karl R. Popper precisò la sua visione anti-utopica della comunità politica nel celebre testo The Open Society
and Its Enemies, London, Routledge, 1945.
19
Campanella, Articuli prophetales, cit., p. 88.
perduta innocenza. Francis Bacon definisce la filosofia di Bernardino Telesio (1509-1588)
‘pastorale’ in questo senso, come ancora prigioniera di un modo non corretto di interpretare i
contrasti in natura20. Arcadia può quindi essere presa a significare un’ulteriore figura dell’età
dell’oro che divenne particolarmente popolare durante il Rinascimento. Essa rappresenta il
luogo nell’immaginario collettivo in cui gli esseri umani continuarono a vivere come al
tempo dell’età dell’oro. Tra le due età auree, quindi, quella della memoria e quella
dell’immaginazione, si estende la condizione arcadica dell’essere. Non tutti però all’epoca
difesero il modello di innocenza primitiva della natura, rappresentato come uno stato
incontaminato di purezza bucolica. Per Giordano Bruno, ad esempio, età dell’oro significava
semplicemente stasi ed inerzia.
Nello Spaccio de la bestia trionfante (1584), in quello straordinario documento del
moderno ripensamento di ogni secolo aureo che voglia proporsi come progetto plausibile di
riforma umana e sociale, Bruno contrapponeva ironicamente all’«aurea etade», «una etade
ferrigna e lutosa ed argillosa»:

Chi è quello, o dei, che ha serbata la tanto lodata età dell’oro? chi l’ha istituita, chi
l’ha mantenuta, altro che la legge dell’Ocio, la legge della natura? Chi l’ha tolta via?
chi l’ha spinta quasi irrevocabilmente dal mondo, altro che l’ambiziosa Sollecitudine,
la curiosa Fatica? Non è questa quella ch’ha perturbato gli secoli, ha messo in scisma
il mondo e l’ha condotto a una etade ferrigna e lutosa ed argillosa, avendo posti gli
popoli in ruota e in certa vertigine e precipizio, dopo che l’ha sollevati in superbia ed
amor di novità, e libidine dell’onore e gloria d’un particolare?21

In questo quadro, la dipartita di Astrea significa il rigetto di ogni visione dogmatica e


ideologica della legge di natura e la sua sostituzione con costumi e convenzioni istituiti dagli
esseri umani. Lungi dal segnare l’inizio del regno dell’ingiustizia e cupidigia, la Sollecitudine
è per Bruno giustamente insignita della «potestà di evertere le leggi de la natura, di far legge
la sua libidine».22
Le presunte innocenza e spontaneità caratteristiche dell’età dell’oro rappresentano
allora una condizione narcotizzante, volta a tenere gli esseri umani in uno stato di indolenza
felice, ma stuporosa. Bruno riprende – e prende in realtà in giro – Ovidio e il suo più recente
epigono, il Tasso dell’Aminta:

Tutti lodano la bella età dell’oro, ne la quale facevo gli animi quieti e tranquilli,
absoluti da questa vostra virtuosa dea; a gli cui corpi bastava il condimento de la fame
a far più suave e lodevol pasto le ghiande, li pomi, le castagne, le persiche e le radici,
che la benigna natura administrava23.

Non sembra cosa particolarmente problematica a Giove e agli altri dei che la Sollecitudine
«ed industriosa Fatica» abbiano anche diffuso e legittimato uno spirito rapace di conquista e
competizione, diffuso non solo sulla terra, «la quale è data a tutti gli animanti suoi», ma
anche sul mare, «e forse l’aria ancora». Così facendo Sollecitudine e Fatica, con il
20
F. Bacon, De principiis atque originibus secundum fabulas Cupidinis et Coeli, sive Parmenidis et Telesii et
praecipue Democriti philosophia, tractata in fabula de Cupidine, in Philosophical Studies c. 1611-c. 1619, a
cura di G. Rees, Oxford, Clarendon, 1996 (Oxford Francis Bacon, VI), pp. 196-267 (250-251). Sul contesto del
secolo aureo nella filosofia di Bacon, si veda il classico studio di Enrico De Mas, L’attesa del secolo aureo
(1603-1625): Saggio di storia delle idee nel secolo XVII, Firenze, Olschki, 1982.
21
G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Dialoghi italiani, a cura di G. Gentile e G. Aquilecchia, 2 voll.,
Firenze, Sansoni, 1985 [1958], II, p. 726.
22
Ivi, p. 727.
23
Ibid.
beneplacito di Giove, hanno creato vaste diseguaglianze economiche: «questi, a suo mal
grado, crapulano, quelli altri si muiono di fame»24. Non importa nemmeno che la
Sollecitudine sembri impersonare lo spirito di controllo e organizzazione che ha portato a
rovesciare i valori caratteristici di una visione aurea della realtà, tale per cui un’arcigna
disposizione punitiva e disciplinare ha posto legge «al coito, al cibo, al dormire». Agli
argomenti dell’Ocio, Giove e Momo rispondono con un’aperta difesa della Sollecitudine, la
quale ha risvegliato gli umani dal’aureo torpore e ha così dato inizio alla civiltà e al progresso
tecnologico. Dio creò l’uomo dotato di intelletto e di mani, precisa Giove, proprio per
renderlo capace di replicare in terra la sua attività creativa, «formando o possendo formar
altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade, senza la quale non
arrebe detta similitudine, venesse ad serbarsi dio de la terra»25. Virtù e ingegno, secondo
Bruno, scaturiscono proprio dalla condizione di «egestade» conseguente alla fine dell’età
dell’oro: «sempre più e più per le sollecite ed urgenti occupazioni allontanandosi dall’esser
bestiale, [gli umani] più altamente si approssimano a l’esser divino»26. Se dunque la fine delle
armonie naturali coincide da un lato con l’inizio delle disarmonie civili e disparità
economiche, dall’altro suscita un movimento irresistibile di progresso intellettuale e
innalzamento spirituale.

È quindi evidente, da quanto fin qui detto, come il tema della legge (strettamente associato a
quello della giustizia) occupi un ruolo centrale nella rifrazione dei vari significati creata dal
prisma mitologico dell’età dell’oro. La transizione dall’oro al ferro nella storia mitica
dell’umanità può essere letta come un modo di significare lo sforzo umano di sottoporre a
legge la spontaneità naturale delle pulsioni vitali. Il ristabilimento dell’età aurea avrà luogo
quando natura, legge e desiderio torneranno a collimare in un senso di rinnovata innocenza.
Nella tradizione cristiana questa riconciliazione finale si identifica con la venuta di Cristo, e
soprattutto con la sua seconda venuta prima del giudizio universale, prefigurazione dell’idea
di monarchia universale.
Già Dante aveva argomentato nel Convivio come Cristo si fosse fatto uomo quando la
terra aveva raggiunto la sua «ottima disposizione», cioè la monarchia universale27. A Dante
fa eco Campanella nel XVII secolo: «tutti i migliori principi hanno prefigurato Cristo»28. Non
a caso, Campanella pone Dante tra i profeti che cantarono la venuta della monarchia
universale e il secolo aureo: «Dante poeta sacro, teologo eccellente, che parla della Chiesa
corrotta, dell’Impero depravato e del principe a venire»29. Il nesso tra rivoluzioni celesti,
rivolgimenti politici e attese messianiche è particolarmente evidente negli Articuli
prophetales, in cui Campanella richiamandosi a testi come l’Expositio in Apocalypsim (1182-
1200) di Gioachino da Fiore, gli Astronomiae restauratae progymnasmata (1610) di Tycho
Brahe e i Coniectura de novissimis diebus (1417) di Cusano prevede il ritorno dell’armonia
perduta dopo la «morte del mondo». Come dimostrato da Germana Ernst, gli Articuli
prophetales vennero composti con l’intenzione di raccogliere una serie di testimonianze
autorevoli che avrebbero provato l’arrivo imminente di un rinnovamento universale. Il
rivolgimento doveva essere accompagnato da una trasformazione radicale della realtà politica

24
Ivi, p. 728.
25
Ivi, p. 732.
26
Ivi, p. 733. Su questo punto, si veda S. Ricci, Giordano Bruno, Critico dell’età dell’oro, in Millenarismo ed
età dell’oro nel Rinascimento, a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 2003, pp. 609-628; M. Ciliberto,
Pensare per contrari. Disincanto e utopia nel Rinascimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, in
particolare, pp. 235-237.
27
Dante, Convivio, IV, 5, cit. in Yates, L’idea di Impero, cit., p. 15.
28
Campanella, Articuli prophetales, cit., p. 20.
29
Ivi, p. 114.
(una «republica nova universale»)30. Alla fine del XVI secolo, quando Campanella si era
effettivamente messo a capo di un movimento insurrezionale in Calabria contro l’Impero
spagnolo, egli si era presentato come «lo primo uomo del mondo, legislatore e messia», il cui
fine primario era quello di ricondurre ogni essere umano a «libertà naturale»31. Il 1600
sarebbe stato l’anno in cui «la fine del mondo» avrebbe finalmente portato a compimento «li
desideri umani del secolo d’oro» e si sarebbe realizzata la repubblica ideale di Platone
(«s’averà da trovare questa republica»)32. Da quanto possiamo giudicare in base a un certo
numero di scritti composti intorno agli anni della fallita insurrezione e da numerosi tentativi
di riscrittura della propria vicenda biografica messi in atto in quel periodo, Campanella aveva
indicato il 1600 come il punto di partenza per un generale movimento di rinnovamento
riguardante tanto la natura quanto il mondo umano, un movimento che veniva annunciato in
ogni parte del cosmo da evidenti segni di declino33.
Negli Articuli prophetales, composti nei primi anni di prigionia, Campanella faceva
convergere tutti i temi caratteristici dell’età dell’oro. La condizione aurea culminata nel sesto
giorno della creazione sarebbe stata ripristinata dall’arrivo del sesto millennio:

Infatti, come Dio il sesto giorno creò un solo uomo, padre, principe e sacerdote di
tutto il mondo nello stato della natura innocente, un’unica legge evidente nei cuori di
tutti gli uomini, non soggetta alle oscurità e frodi umane, e un secolo aureo e felice in
luogo del piacere; allo stesso modo, prima di finire, l’universo umano nel sesto
millennio, nella sesta età e nel sesto sigillo deve ritornare allo stesso stato, legge e
modi in cui esso venne creato. Tutti i più antichi teologi insegnano che il Messia
venne a ristabilire lo stato di innocenza e il secolo aureo34.

Questo, insiste Campanella, è lo status optimae republicae, espressione carica di risonanze


platoniche e moreane. Soprattutto, è uno stato di innocentia, secondo quanto vaticinato dai
«poeti, filosofi e profeti di tutte le nazioni» e seguendo «il desiderio naturale del genere
umano»35. Campanella pone particolarmente l’accento sull’esistenza in tutte le nazioni di una
tendenza naturale (appetitus naturalis) e ritiene che questa tendenza naturale «non è stata
data da Dio invano». Tutti i popoli desiderano l’istaurazione di questo saeculum, quando
verranno a cessare «guerre, pestilenze, povertà, inganni, fazioni, amor proprio e tutti gli altri
mali che son stati disseminati tra i figli d’Adamo per via del peccato (ob peccatum) e non
dalla natura (non a natura)»36. Per Campanella, il segno più evidente dell’approssimarsi della
fine del mondo era precisamente una tendenza irresistibile a convergere verso un’unione
sempre più vasta:

prima della fine del mondo e del giudizio universale, si realizzerà nel mondo il più
fausto stato monarchico (felicissima respublica monarchica), sotto un’unica fede e un
unico principe a capo di tutte le nazioni allo stesso tempo37.

30
T. Campanella, Narratione della historia, pp. 128, 135, cit. in Germana Ernst, Nota introduttiva, in
Campanella, Articuli prophetales, cit., pp. XLII-XLIII.
31
Riassunto degl’indizii contro il Campanella, in Luigi Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i
suoi processi e la sua pazzia, 3 voll, Napoli, Morano, 1882, III, pp. 140-141, cit. in Ernst, «L’aurea età felice»,
p. 65.
32
Amabile, Fra Tommaso Campanella, cit., III, pp. 163-164.
33
Campanella, Articuli prophetales, cit., pp. 67-79.
34
Ivi, p. 80.
35
Ibid., p. 80.
36
Ivi, p. 81.
37
Ivi, p. 80.
Campanella leggeva quindi la venuta di Cristo in chiave fortemente teologico-politica, come
«figura delle figure». La liberazione dell’umanità attuata dal Messia rappresentava «il fiore e
la radice della liberazione universale nei domini spirituali e temporali»38. Anche in questo
caso, il ritorno del millennio aureo era segnato dal raggiungimento di uno stato di pace, ma
Campanella sottolineava con forza il momento della liberazione: «Questa ultima completa
libertà e tranquillità è il preludio della futura tranquillità in cielo in totale libertà»39. Se per
Machiavelli il raggiungimento dell’autentica libertà presupponeva un presente aureo di buon
governo e per Bruno richiedeva inoltre una ferrea determinazione ad agire e muoversi, per
Campanella non si poteva dare libertà senza una condizione di aurea tranquillità in
permanente quiete e cessione dei conflitti.
Si comprendono allora le ragioni per cui l’età dell’oro campanelliana è radicalmente
proiettata nel futuro: il seculum aureum rappresenta il millennio in cui Cristo regnerà di
nuovo sull’umanità dopo la sconfitta dell’Anticristo e prima del giudizio universale.
L’interpretazione campanelliana della venuta del millennio è un sottile esercizio esegetico tra
senso letterale e senso spirituale: la «prima resurrezione» di cui parlano i profeti biblici e il
libro dell’Apocalisse coincide con «la riforma e il rinnovamento della Chiesa al tempo
dell’età dell’oro (sub aetate aurea)». Questa rinascita della Chiesa cominciò sotto
l’imperatore Costantino e giungerà a perfezione con la disfatta dell’Anticristo, quando «la
terra si riempirà della conoscenza di Dio (scientia Domini)», e Cristo e gli Apostoli
regneranno invisibiliter su un’umanità finalmente riformata40.

Nell’interpretazione campanelliana del secolo aureo, il ruolo della conoscenza è


fondamentale. Quella da lui chiamata scientia Domini è anche la sapienza originaria che,
insieme alla potenza e amore divini, strutturano ogni aspetto della realtà creata. Non è allora
un caso che l’oro della conoscenza filosofica e teologica faccia anch’esso parte dello
splendore cognitivo e morale attribuito all’idea del secolo aureo. Nelle numerose riprese
rinascimentali dell’età dell’oro, i filosofi riconoscono un ruolo cruciale agli antichi poeti. Essi
furono infatti profeti, teologi e legislatori. Campanella segue questa tradizione mettendo a
confronto le posizioni di Virgilio e Cicerone rispetto alle profezie sibilline del secolo aureo:

Sotto il nome di età dell’oro, i poeti, non c’è dubbio, previdero e cantarono quello
stato di perfezione e sperarono nella sua realizzazione. Di qui Virgilio, istruito dalle
Sibille, canta nella quarta ecloga che al tempo di Ottaviano Augusto, quando nacque il
Messia, sarebbe cominciata l’età dell’oro. Egli divinò il tempo, ma non la persona,
perché intese Augusto o Salonino. Cicerone, tuttavia, nel II libro del De divinatione e
nel De legibus rigetta con disprezzo questo tipo di monarchia. Egli ritiene che i versi
di una’altra Sibilla, nei quali le iniziali rappresentano il Salvatore attraverso una
croce, siano fittizi, poiché sono stati composti con arte mirabile, e non per un qualche
impulso sibillino. E Dio non vuole, dice Cicerone, che la repubblica romana venga
trasformata in un regno. Ma Cicerone si sbaglia, poiché non vede nei profeti la
bellezza del pacifico regno del Messia41.

38
Ivi, p. 84.
39
Ibid. Ho esaminato questo aspetto della concezione campanelliana del secolo aureo in L’Anticristo e i suoi
emissari. Cosmologia, escatologia e storia nel De gentilismo non retinendo di Campanella, in corso di stampa
in «Bruniana et Campanelliana».
40
Campanella, Articuli prophetales, cit., pp. 95-97.
41
Ivi, p. 82. Cfr. ivi, p. 114: «Lactantius Firmianus allegat Sibyllas et poetas multos idem canentes saeculum
aureum, quos longum esset recensere».
Il recupero (iniziato già in alcuni momenti chiave del Medioevo) della saggezza originaria dei
filosofi – la cosiddetta prisca sapientia – è fondamentalmente la riscoperta della teologia
poetica degli antichi. Pitagora, Parmenide e Platone sono anche Orfeo, Esiodo e Omero, e
sono anche Zoroastro, Mosé ed Ermete Trismegisto. Tutti costoro, in diverse maniere, hanno
cantato l’età dell’oro, hanno pensato a modi per richiamarla in vita e hanno infine cercato di
predirne l’arrivo attraverso l’interpretazione di segni cosmici. In questo, oltre ad essere
filosofi, profeti e poeti, sono stati anche degli storici; anzi, in un certo senso sono stati i primi
storici dell’umanità, creando miti pregni di futuro che potevano essere usati come riserve
inesauribili di conoscenza simbolica. Su questo punto specifico, riguardante l’intreccio di
passato, presente e futuro, Francesco Patrizi ha scritto pagine particolarmente illuminanti.
Nel terzo dei dieci dialoghi dedicati al significato di storia in tutti i suoi aspetti, Della
historia (1560), Patrizi immagina di discutere sul significato del passare del tempo e
dell’eternità insieme agli amici Giorgio e Paolo Contarini, venuti a trovarlo dopo lunga
malattia. Stimolato dalle domande dei due fratelli, Patrizi si interroga sulla natura della storia
leggendo «il libro dell’anima», il quale, «donatole dal suo padre Iddio, porta ella sempre a
cintola, et non ’l si lascia mai da lato». Si tratta di un libro che, continua Patrizi, «perciò che
egli è scritto per la mano di Dio», «parla di tutte le cose»42. È attraverso la conoscenza
interiore e il recupero della memoria originaria delle cose che l’anima dell’uomo può allora
gettare uno sguardo su ciò che avverrà. In questo senso, il filosofo è anche un profeta, ma il
profeta è per Patrizi lo storico del futuro: «Perciò che historia è quasi Isoria, e un rimiramento
che altri fa con gli occhi propri. Et il profeta senza dubbio vede in visione quelle cose che egli
predice. E quale è più vera, et men fallibil vista, che quella dell’anima da Dio illuminata?»43.
Qui Patrizi teorizza l’essenza della storia come «isoria», ovvero, come visualizzazione
della conoscenza nelle sue strutture fondamentali a prescindere dalle dimensioni contingenti
del tempo. «Non solamente adunque... l’historia si scrive, ma et si scolpisce ella, et si
dipinge, et saranno queste più propriamente Isorie, per essere elleno oggetti della vista»44.
Anzi, l’essenza della storia è per Patrizi a tal punto visione che «la prima historia, che al
mondo scritta fosse, non delle passate cose fu, ma delle future»45. Per meglio chiarire questo
punto cruciale, Patrizi espone la «lunga historia» «de’ corrompimenti del mondo et de’ suoi
rinascimenti». Per far ciò, riporta una storia narrata da un suo prozio, Antonio Patrizi
Marcello, al quale accadde, mentre andava in pellegrinaggio a Gerusalemme per nave, di
naufragare in Egitto e qui incontrare un asceta «di età molto antico, et di vita santissima, et di
profondissima scienza, chiamato Hammun», il quale mise il prozio al corrente di molte cose,
tra cui la ragione per cui l’Egitto è sempre stato l’Arcadia ideale della cultura europea:

Sappi, disse il Romito, figliuol mio, che il nostro paese ha dal Cielo molti privilegi
sopra a tutti gli altri dell’universo havuto. Perciò che oltre che egli è ferace d’ogni
maniera frutti, et salubre, et d’ottima aria; egli ha gli huomini suoi d’ingegno
elevatissimo. I quali per lo passato, sono stati ritrovatori di tutte le più necessarie et
più pregiate arti che habbia il mondo e di tutte le scienze. Sì che sono venuti huomini
d’alta mente della vostra Europa, et d’altre parti, ad apparare le scienze nostre. Et

42
Francesco Patrizi, Della historia diece dialoghi, ne’ quali si ragiona di tutte le cose appartenenti all’historia,
e allo scriverla, e all’osservarla, Venezia, Andrea Arrivabene, 1560, f. 12 r.
43
Ivi, f. 13v.
44
Ivi, f. 14r.
45
Ivi, f. 15r. All’obiezione sollevata nel dialogo da Giorgio Contarini – che se «la memoria è delle passate cose
solamente», come può allora essere «etiandio delle future» – Patrizi risponde riconfermando la natura «visiva»
della memoria: «La memoria, la quale è potenza dell’anima, è ella altro che un conservamento delle fantasie?...
Ora mi dite, queste imagini e queste fantasie, non possono elleno essere delle future cose? possendo essere
all’anima appresentate da sogni, da auguri, da visioni et da ispirationi di Dio, et da altri così fatti modi? Secondo
cotesta ragione, disse egli, mostra che possa essere memoria anco delle future» (f. 18 v).
sono stati quei d’Egitto sempre antichissimi di tutti gli altri; sì come quelli che hanno
avuto memoria di due universali correzioni e di due universali rinascimenti di tutta la
machina mondana. Et in somma, è stato l’Egitto per le rarissime doti sue et per le
divine cose che egli ha sempre avuto in sé, tempio di tutto il mondo et imagine del
cielo46.

La sublimità degli ingegni egizi dipende, oltre che dalla fertilità dell’ambiente, dall’aver
conservato memoria di grandi cataclismi e altrettanto grandi rinascite. La distruzione avviene
nel mondo per «la guerra, la fame, la pestilenza et i terremoti, che gli annullano. Et più di
queste, sono grandi et horribili i diluvii et gli incendii; et massimamente, s’essi sono a tutta la
terra universali»47. Questo, continua l’asceta, è quanto è accaduto ai paesi d’Europa, che ogni
volta, dopo la ciclica distruzione, devono impegnarsi a ricostruire «l’arti et le scienze et le
maniere del vivere civile». È questa un’occasione per ripetere il celebre luogo del Timeo
(22B-23A): «Et per ciò è necessario che gli huomini d’Europa e dell’altri parti paiono
huomini rinovati et sempre fanciulli, et non abbiano memoria più vecchia che di quattro o
cinque mila anni a dietro». La conclusione è che solo all’Egitto è stato risparmiato il ciclo
delle distruzioni e rinascite, dal momento che, grazie alla sua posizione, all’influenza del
deserto e alla potenza del Nilo, ha resistito a tutte le calamità, comprese le più grandi
alluvioni e gli incendi più distruttivi: «Et di qui è che noi soli siamo antichissimi di tutti gli
huomini del mondo; et habbiamo le memorie d’infinite migliaia d’anni»48.
Ma Hammun continua nel suo racconto e – vertiginosamente, per così dire – procede
ancor più a ritroso nel tempo. Riporta infatti un’altra storia, questa volta attribuita a un suo
avo, un certo Sonche, il quale riferì di come il sacerdote Bitis trovasse una colonna quadrata,
mentre costruiva un tempio. Sui suoi lati erano incisi ogni sorta di misteri relativi alle
«corrotioni» e «rinascimenti» del mondo, e da essi apprese che la vita dell’universo è
scandita da cicli eterni di vasti periodi di tempo, ognuno dei quali si compone di 36.000 anni.
La «corrotion di tutte le cose» si ripresenta ogni volta di nuovo al termine di questo «anno
maggiore». Dopodiché, passati mille anni di «chaos», il mondo riprende a formarsi attraverso
cicli di 9.000 anni l’uno, corrispondenti alle lunghe stagioni dell’universo: la primavera,
l’estate, l’autunno e l’inverno. «E questo fa infinite volte il mondo, nella infinita eternità del
suo fattore»49. È evidente come gli echi platonici in questo passo non si limitino solo al
Timeo, ma includano anche il Politico (268D-274E).
L’eterno ritorno della medesima compagine cosmica è per Patrizi la prova che il senso
della storia va ricercato nella profezia come forma di conoscenza basata su una memoria
visiva di durata eterna. Dal punto di vista cognitivo, l’età dell’oro è l’eterna permanenza del
senso dell’essere – l’Arcadia della mente, per così dire – che persiste immutata dietro
l’apparente succedersi dei fenomeni corporei e degli eventi storici. Come abbiamo già visto
nel caso di Campanella, la chiave interpretativa della storia è che il passato venga letto come
presagio del futuro (praeterita sunt praesagia futurorum)50. Negli Articuli prophetales, il
filosofo distingue tra il senso storico e quello anagogico. Il ritorno del secolo aureo è
l’elemento che unisce le due letture, la storico-letterale e la morale:

Isaia parla della morte e del modo della generazione come io ho descritto nella Città
del Sole, sotto stelle felici, quando i genitori purgati del delitto si uniscono nel nome
di Dio, e questo non avverrà nel paradiso, se non nel senso di Maometto. Quindi il

46
Ivi, f. 15rv.
47
Ibid., f. 15v.
48
Ivi, f. 16v.
49
Ibid.
50
Campanella, Articuli prophetales, cit., p. 84.
senso del profeta è storico, e pone questi eventi sulla terra, e non in cielo; il che vuol
dire che il senso in questo caso non è anagogico. Ma poiché un po’ prima Isaia parla
del nuovo cielo e della nuova terra, la comprensione è allo stesso tempo storica e
anagogica, tale da abbracciare l’una e l’altra felicità, quella in terra come preludio, e
quella in cielo, come perfezione finale51.

Campanella spiega che chi «non è consapevole di una tale mescolanza (mixtura) dei due
sensi», non comprenderà mai le Scritture: «E così si ingannano sia i miseri Ebrei, quando
riconoscono solamente un unico senso, sia il secolo machiavellico (machiavellisticum
saeculum), poiché ritiene esserci contraddizione in uno stesso senso»52. La duplicità
anagogica significa invece che vi è un secolo aureo in terra e uno in cielo, il primo
anticipatore del secondo53. Visti nell’ottica della prisca sapientia, i miti della più antica
saggezza sono dunque memorie del futuro, profezie originarie che articolano la storia a venire
nelle sue dimensioni essenziali.

3. Conclusioni

Da quanto discusso in questo capitolo, l’età dell’oro, com’essa venne ripresa nei suoi aspetti
più propriamente filosofici durante il Rinascimento, va strettamente e rigorosamente
riguardata come un mito, nel senso tecnico del termine, come un luogo creato
dall’immaginazione collettiva in particolari momenti e circostanze della storia dell’umanità.
Suoi tratti fondamentali sono un’oscillazione dialettica tra passato e futuro, tra oro e ferro.
Essa si riferisce al passato tanto quanto al futuro (il futuro, anzi, è forse più importante del
passato). È un’età che in realtà non è d’oro, né dorata: non è d’oro, poiché non conosce il
pungolo dello stimolo economico, né la consapevolezza di essere al culmine della perfezione;
e non è dorata, poiché i suoi riferimenti all’innocenza non hanno nulla di sentimentale. In
questo senso, il mito dell’età dell’oro è sempre accompagnato come un’ombra dal suo ‘altro’,
il mito dell’età del ferro.
Paradossalmente, l’età dell’oro vive nella beata ignoranza dell’esistenza dell’oro, il
quale oro è invece il germe che corrompe l’età del ferro dal suo interno tramite le forze
dell’appetito e della cupidigia. Fin dalle sue origini cantate da Esiodo, il rapporto tra senso
letterale e senso metaforico dei metalli è una parte integrante del mito. L’oro come simbolo di
purezza e innocenza non ha nulla a che vedere con il suo referente reale, il quale viene invece
usato come immagine di potere e a volte segno di pacchiana sovrabbondanza e cattivo gusto.
Si pensi alle parole di Ovidio in Ars amatoria: «Aurea sunt vere nunc saecula: plurimus auro
/ Venit honos: auro conciliatur amor» (II, 277-278). D’altro lato, il ferro come simbolo della
decadenza non intacca il ferro in natura, che è invece usato per significare la durezza della
realtà effettuale, da conquistare attraverso virtù e lavoro. E però è proprio questa dialettica di
sensi letterari e metaforici a creare la dinamica dei significati associati al mito dell’età
dell’oro.
Sembra anche, da quanto discusso in questo capitolo, che il vero paradiso lo si possa
ritrovare solo dopo averlo perduto. Il mito dell’età dell’oro è fin dai suoi inizi un dispositivo
narrativo capace di produrre un surplus di significati storici e simbolici. Riesce in questo
grazie ad una tensione che è da subito costitutivamente teleologica. Si tratta infatti di un
movimento che va da un tipo all’altro di libertà, dalla libertà come assoluta spontaneità
dell’innocenza alla libertà come emancipazione dalle costrizioni della necessità attraverso il
51
Ivi, p. 89.
52
Ibid. Si veda anche ivi, p. 94.
53
Ivi, p. 91.
lavoro e le innumerevoli risorse dell’ingegno. È anche un movimento in cui le dimensioni del
tempo e dello spazio sembrano fondersi nella primigenia energia dell’immaginazione
creatrice, a livello delle comunità tanto quanto degli individui. Questo fa sì che la storia
sembri essere particolarmente permeabile all’altrimenti inesorabile astoricità del mito: che si
chiami fine del millennio, apocalisse o utopia, la possibilità storica del ritorno, che tiene in
vita la speranza, non è mai estinta del tutto, perfino nell’età dell’uranio e del carbon fossile.
Vi sono infine i movimenti di ascesa (Astraea) e discesa (la virgo virgiliana), la cui dinamica
è ben rappresentata nello Spaccio della bestia trionfante di Bruno.
Si può quindi concludere questo capitolo dicendo che il mito dell’età dell’oro è
sempre accompagnato dal mito complementare dell’età del ferro. Anche l’età del ferro è un
mito, dal momento che il ferro non sta a l’oro come la realtà sta alla fantasia. Questo è un
punto che a volte sfugge anche ai cantori più appassionati dell’età ferrea, per i quali il
realismo dei metalli meno nobili ha il potere di dissolvere tutte le costruzioni ideologiche
elaborate a partire da visioni ritenute essere fittiziamente dorate. Nel corso del XVII secolo,
per ritornare alla posizione di Kamen, «scrittori, artisti e scienziati furono assorbiti nella loro
ricerca di conquiste intellettuali e divennero generalmente indifferenti alle questioni sociali
che avevano tormentato i loro predecessori nel XVI secolo. Il compiacersi della cultura
dell’epoca divenne ancora una volta “cortigiano”, e gli intellettuali persero contatto con le
loro coscienze sociali»54. Più tollerante verso i sogni dei visionari rinascimentali è stato
Garin, il quale, nell’Avvertenza premessa al suo volume Rinascite e rivoluzioni, accennava al
«senso di una tragedia incombente» che molte volte accompagnava l’opera di «artisti,
pensatori e poeti» impegnati, tra il XIV e XVIII secolo, a recuperare una dimensione che, al
di là di miti e fantasie collettive, era ritenuta vitale e produttiva: «il disperato appello alla
“renovatio”», scriveva appunto Garin, «è l’altra faccia di un senso di morte», e «la ricerca di
una misura suprema non è che il tentativo di arginare la follia»55. La ripresa del mito dell’età
dell’oro nel Rinascimento portava quindi con sé la consapevolezza inconsolabile della
scissione e dell’alienazione – «se solo potessi essere uno di voi!», aveva esclamato il poeta
nell’ecloga virgiliana (utinam ex vobis unus fuissem, Ecl., X, 35). Il lamento si fece ancor più
struggente tra Quattrocento e Seicento, quando la percezione di non esser più parte dell’unità
originaria venne tematizzata in innumerevoli forme in tutti gli aspetti della cultura.
In questa storia di riprese e ritorni, Astrea rimane uno dei punti fondamentali di tutta
la vicenda. La fine dell’età dell’oro è la fine della giustizia. Si era innocentemente
inconsapevoli di vivere nella giustizia, il bene più grande. La sua perdita equivale alla più
dolorosa apertura d’occhi che sia mai potuta capitare all’umanità, una ferita che solamente la
fine stessa della storia, come esplosione accecante di luce e oro, può davvero rimarginare.
Come notato a suo tempo da Frances Yates, il ritorno di Astrea avviene solo a patto di
riscattare il passato in un futuro di giustizia ritrovata:

Forse non è mai del tutto vero che Astrea abbandona completamente il mondo; essa
deve piuttosto ricorrere alla clandestinità durante le età ferree, mentre nelle
privilegiate età dell’oro non ha bisogno di nascondersi. Il ritorno di Astrea deve
sempre essere una renovatio, un rinnovamento, una rinascita, una riscoperta del
passato che consente di creare un nuovo futuro56.

54
Kamen, Golden Age, Iron Age, cit., p. 155. Cfr. ivi, p. 139: «The “iam redit et virgo” of Virgil became in
1588 a phrase to launch a thousand flatterers... The so-called golden age to which the poets looked forward was
a gross fiction, one that has unfortunately been perpetuated by modern historians seeking to idealize a particular
period in their past, whether it be the time of Lorenzo or of Elizabeth Tudor».
55
Garin, Rinascite e rivoluzioni, cit., pp. XXVI-XXVII.
56
Yates, L’idea di Impero, cit., p. 248.

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