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Misteri
Abbiamo già visto che il celtico Cernunno, oltre a essere dio della natura e del tempo, è
anche considerato una divinità infera, in particolar modo per quanto riguarda la sua
funzione psicopompa, di accompagnatore dei defunti nell’aldilà: un aspetto mercuriale che
nella tradizione nordica si ritrova pure, come abbiamo avuto modo di vedere, in
Odino/Wodan, da cui deriva infatti il giorno della settimana che latinamente spetta a
Mercurio (wednesday=“Wodan’s day”). Ugualmente, in molteplici tradizioni di ogni parte
del mondo si trovano figure numinose connesse sia con la fertilità che con il Mondo Infero
e l’Oltretomba, a partire dal mediterraneo Signore dell’Ade Plutone, tra i cui simboli vi è
la cornucopia (*krn), veicolante abbondanza, fecondità, ricchezza.
Ritornando alla figura di Zalmoxis, alcuni lo confrontano con Zameluks, dio lituano della
terra, altri con il nome Zamelo, trovato in alcune iscrizioni funerarie greco-frigie nell’Asia
minore, probabilmente connesso al tracio zemelen (“terra”) da cui anche Semele, dea
lunare-tellurica, madre di Dioniso, di cui abbiamo già parlato nel precedente articolo.
Devesi notare che tutti questi termini derivano dalla radice indoeuropea *g’hemel (“terra,
suolo, appartenente alla terra”) che ci riconduce perfettamente all’àmbito del nostro studio,
vale a dire la dicotomia terrestre/infero, tellurico/ctonio, generazione/morte, vivi/morti,
vegetazione/spiriti degli antenati. Essendo xais un termine scito per indicare “signore,
capo, re” possiamo tradurre Zalmo-xis come “Signore della Terra” [Eliade, Zalmoxis, p.
46], “Re del Suolo” (e, forse, anche del sottosuolo, inteso nel senso esoterico di realtà
sotto la realtà).
Purtroppo, i pochi frammenti giuntici non ci permettono una comprensione ottimale della
figura di Zalmoxis: si ritiene che il nome divino, come sovente accade, sia stato in tempi a
noi più prossimi usato in riferimento a figure storicamente esistite particolarmente influenti
nell’ambito della cultura sacra dei Geti; in altri termini, in varie epoche veniva
denominato Zalmoxis il sacerdote più saggio del tempio, oppure uno sciamano
particolarmente abile. Secondo Erodoto un tracio di nome Zalmoxis importò tra i Geti la
dottrina pitagorica sull’immortalità dell’anima, e per dimostrarlo “faceva costruire per sé
una dimora sotterranea e quando questa fu ultimata vi scese e visse colà per tre anni. I
Traci ne sentivano la mancanza e lo piangevano come morto, ma, al quarto anno, apparve
loro di nuovo e così fu provato quel che Zalmoxis predicava”.
Ci troviamo, dunque, nell’àmbito del topos mitico della katabasis (discesa agli Inferi), della
morte apparente e resurrezione che connette tra loro figure ora divine (Adone/Tammuz,
Odino/Wotan appeso all’Yggdrasil, Baldr e Freyr, Osiride fatto a pezzi da Seth che
governa nell’Amenti, Dioniso smembrato dai titani e poi rinato miracolosamente dalla
saetta di Zeus) ora umane ma in qualche modo considerate sovra-umane (Orfeo,
Zalmoxis, fino al motivo più recente che vede come protagonista nel mitologhema Gesù
Cristo che, in seguito alla morte in croce, discende agli inferi per poi risorgere dopo tre
giorni). Si potrebbe dire che come queste divinità in illo tempore hanno scoperto la via
verso l’aldilà—di ciò avremo modo di parlare diffusamente più avanti—, così ogni iniziato e
adepto deve operare la propria catabasi, discendendo personalmente negli abissi del suo
essere per cercarvi la soluzione al mistero che si nasconde dietro l’apparente duplicità
esistente tra Vita e Morte: lì solo potrà trovare la via che venne scoperta, in illo tempore,
dal dio, prototipo del primo morto e ri-nato. Dopo una morte rituale, equivalente a quella
miticamente riconosciuta al nume tutelare, l’iniziato torna in vita come un’altra persona: si
considera “rinato”, ed essendo già morto non morirà più al momento del decesso, ma
altresì raggiungerà il dio nell’aldilà. Sono di Walter Friedrich Otto [cit. in Kerényi, Dioniso,
p. 136], le seguenti parole:
Chi genera qualcosa di vitale deve sprofondare negli abissi primordiali, dove abitano le
potenze della vita. E quando egli riemerge, c’è un lampo di follia nei suoi occhi, perché
laggiù la morte convive con la vita.
Con diverse parole, Emanuela Chiavarelli [p.121] enuncia lo stesso principio di stretta
correlazione tra vita e morte:
Il dualismo all’interno della divinità è inevitabile e necessario come la vita che si alterna,
nel gioco del divenire, alla morte. Se le polarità cessassero di contrapporsi si
bloccherebbe la circolazione dello stesso flusso vitale. Ma l’una è complementare all’altra:
nell’inverno-inferi, dimora di Ade, re dei defunti, si cela, infatti, il mistero della vita vegetale.
Il «Bimbo di Luce» dei Misteri di Eleusi, simbolo dell’eterna Zoé, nascerà negli abissali
antri di Ade.
Divinità dei morti e divinità dei Misteri
Vi è da rilevare a questo riguardo che bene fa Eliade a sottolineare come il fatto che gli
adepti raggiungano Zalmoxis nell’aldilà non conduce necessariamente al riconoscimento
di Zalmoxis come ‘Sovrano dei Morti’. Bisogna infatti distinguere, a suo parere, le divinità
dei morti da quelle dei Misteri, governando le prime su tutti i morti indistintamente, mentre
le seconde ammettono presso di loro solo gli iniziati.
Nondimeno, sovente la distinzione tra i due àmbiti appare labile, come ad es. per quanto
riguarda Odino, che nella tradizione nordica è al tempo stesso dio dei misteri (in quanto
dio della profezia e della magia) e dio dei morti, epperò non della massa indifferenziata di
morti, bensì solo di quelli trapassati sul campo di battaglia, invocando il suo nome. Eppure,
una ‘selezione’ di tal guisa non impedì agli anglosassoni di rappresentare Odino in epoca
medievale come conduttore della già menzionata ‘caccia selvaggia’, vale a dire a capo di
una processione fantasma di spiriti di defunti, animali fantasma e dèmoni: ormai perduta,
in seguito alla conversione al cristianesimo delle popolazioni nordiche, la sua valenza di
dio misterico, il suo dominio viene ormai riconosciuto su un generico gruppo di morti,
talvolta visti persino come dannati, e financo di animali e dèmoni, facendo così deragliare
l’immagine di colui che fu l’antico ‘Padre degli Æsir’ verso binari dèmoniaci impensabili
solo qualche secolo prima.
Lo stesso che è Osiride per gli Egizi, per gli Indiani arî era Yama, che Charles Malamoud
[Il gemello solare, p. 12] definisce “dio della morte, re dei morti, ma anche divinità tutelare
dell’ordine che regola i rapporti fra i vivi e fra le generazioni”. Nel Rg-Veda (X, 14, 1-2) egli
viene definito “colui che seguì il corso dei grandi fiumi [cosmici], che per primo scoperse il
cammino (…) il raccoglitore delle genti”. Nell’Atharva-Veda (XVIII, I, 50) si dice:
Yama per primo trovò per noi un sentiero; quello non è un pascolo che si possa portar via;
dove si avviarono i nostri primi Padri, colà (vanno) quelli che sono nati (da loro), ciascuno
lungo la sua via.
Egli, continua Malamoud [p. 29] ha scelto di morire e tale decisione ha fatto di lui “il primo
essere che muore, il primo dei mortali”: egli “perlustra il cammino che conduce all’aldilà”,
da cui il suo titolo di “sovrano degli antenati”. La sua morte avvenuta in illo tempore “non è
una scomparsa, ma un’inaugurazione”. Lo studioso francese distingue Yama dagli altri dèi
vedici, in quanto lui solo [p. 32] “si è collocato spontaneamente, insieme alle generazioni
umane, nella non-immortalità, distinguendosi dagli (altri) dèi. Nondimeno egli è un dio,
costantemente designato come tale nella prosa vedica, e gli uomini aspirano a una forma
di sopravvivenza che deve venir loro da Yama”. Abbiamo sottolineato quest’ultima frase in
quanto estremamente significativa se collegata a quanto Erodoto scrisse di Zalmoxis: così
come i suoi adepti anelavano a raggiungere una forma di immortalità post-mortem, che il
dio aveva raggiunto per primo, così gli indiani del periodo vedico confidavano in Yama per
conquistare lo stesso tipo di sopravvivenza, perché fu proprio Yama a scoprire per primo
la via.
Abbiamo visto come Osiride governa sull’Amenti, allo stesso modo in cui Yama comanda
sulla omologa “sede del Rta”. A questi due luoghi del mito, ne equivale un terzo, in un’altra
tradizione arcaica: la Eridu dei Sumeri in cui dominava Enki/Ea. Sappiamo che i sumero-
mesopotamici chiamavano con questo nome la stella Canopo, vale a dire il cd. “Polo Sud
Celeste”. Orbene, il fatto è particolarmente curioso, in quanto Plutarco [Iside e Osiride,
XXII] ci rende noto che Osiride veniva chiamato “timoniere Canopo”, perché si tramandava
che si fosse trasformato, dopo la morte, nella stella omonima. Abbiamo già detto che
questa era chiamata dagli antichi Sumeri Eridu e considerata la dimora del dio
Enki/Ea/Enmešarra, variamente nominato “Signore dell’Ordine del Mondo”, “Signore
dell’Universo”, ma soprattutto “Sovrano del Mondo Infero” nonché “colui che ha peso nel
mondo infero” [Santillana e Dechend, Il mulino di Amleto, p. 314] (si cfr. tali epiteti con
quello, attribuito dalla tradizione cristiana a Satana di Princeps huius mundi).
Questa tradizione di considerare il Polo Sud Celeste come l’Abisso cosmico o punto più
basso degli Inferi (e quindi dell’Oltretomba), governato da un dio primordiale detronizzato
(Enki, Osiride, Lucifero) è ampiamente diffusa: persino in Cina, ci sono numerose
leggende sull’ “Antico Immortale del Polo Sud Celeste” (ovvero Huang Di, l’Imperatore
Giallo associato nella tradizione astrologica cinese a Saturno), nonché sui varî “Imperatori
dormienti in grotte montane” [Ibidem, p.349]. Con quest’ultimo accenno ci connettiamo alle
leggende che pretendono che Saturno/Kronos, dopo essere spodestato da Zeus, fu da
quest’ultimo scagliato nel Tartaro (l’Abisso della mitologia greca) o, in alternativa, sia stato
posto in una regione al di fuori del tempo (ovvero in una dimensione extratemporale, da lì
governando appunto sulle ronde del cronos) all’estremo Nord sull’Isola Ogigia o
all’estremo occidente sull’Isola delle Esperidi o ancora—secondo i Celti—sull’Isola Bianca
settentrionale di Avallon, dove giace in uno stato di sonno comatoso, aspettando il ritorno
dell’età aurea [cfr. Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”].
Una delle voragini della terra è particolarmente grande e trapassa la terra intera da una
parte all’altra. Omero parla di essa, quando dice “molto lontano, dove sotto la terra è il più
profondo abisso”. È essa che egli altrove e molti altri poeti hanno chiamato Tartaro. In
questa voragine confluiscono tutti i fiumi e da essa di nuovo defluiscono: ciascuno diventa
tale quale è reso dalla qualità della terra attraverso la quale scorre. La causa del defluirvi e
del confluirvi di tutte le correnti è che quest’acqua non ha né fondo né base.
Si pensi, ancora una volta, alle immagini mitiche della discesa in luoghi sotterranei da
Zalmoxis a Cristo et similia; si ponga ora quanto detto in relazione a quella regione
cosmica abissale (Amenti, Sede di Rta, Eridu, Tartaro) che era considerata unanimamente
sede del dio dei morti, dell’antenato clanico che, morto per primo, aveva scoperto la via da
percorrere, sia che esso si chiamasse Osiride o Yama/Yima o Enki/Ea. Non vi è più
dubbio, a questo punto, che tale dimensione vada intesa in senso cosmico ed extra-
terreno, e se dobbiamo fidarci dei classici possiamo star certi di andare sul sicuro, citando
la nota frase omerica (Iliade, 8.13-16) che pone il Tartaro “tanto al di sotto dell’Ade,
quanto il cielo dista dalla terra”.