Sei sulla pagina 1di 7

Divinità del Mondo Infero, dell’Aldilà e dei

Misteri
Abbiamo già visto che il celtico Cernunno, oltre a essere dio della natura e del tempo, è
anche considerato una divinità infera, in particolar modo per quanto riguarda la sua
funzione psicopompa, di accompagnatore dei defunti nell’aldilà: un aspetto mercuriale che
nella tradizione nordica si ritrova pure, come abbiamo avuto modo di vedere, in
Odino/Wodan, da cui deriva infatti il giorno della settimana che latinamente spetta a
Mercurio (wednesday=“Wodan’s day”). Ugualmente, in molteplici tradizioni di ogni parte
del mondo si trovano figure numinose connesse sia con la fertilità che con il Mondo Infero
e l’Oltretomba, a partire dal mediterraneo Signore dell’Ade Plutone, tra i cui simboli vi è
la cornucopia (*krn), veicolante abbondanza, fecondità, ricchezza.

Tradizione turco-mongolica e siberiana: Erlik Khan


Iniziamo ad analizzare, in primo luogo, i culti di tipo sciamanico delle popolazioni turco-
mongoliche e ugro-finniche della Siberia e dell’Europa Nord-orientale, nel cui àmbito lo
sciamano, dopo essere disceso in estasi nel mondo infero, può sperimentare l’incontro
con la divinità cui ne è delegato il dominio: Erlik Khan, dio dalle corna cervine (e che
inoltre “usa corna come armi”) e per questo assimilato a Kernunnos. Si potrebbe supporre
che le origini di questo mitico dio cornuto, il quale si manifesta come Erlik Khan nell’àmbito
dello sciamanesimo finnico-siberiano e come Cernunno in quello europeo, siano da
ricercare in un passato remoto e dimenticato, in culti e riti di cui si è persa traccia, ma che
abbiamo dimostrato essere comuni a tutta l’area euroasiatica [cfr. Metamorfosi e battaglie
rituali nel mito e nel folklore delle popolazioni euroasiatiche] e le cui origini potrebbero
risalire addirittura—si ritiene—al Paleolitico superiore.

Erlik Khan è innanzitutto considerato l’Antenato clanico, il progenitore dell’umanità e


soprattutto il prototipo del primo morto, esattamente come, nella tradizione indiana, lo
Yama vedico, il quale—guarda caso—veniva anch’esso ritratto con corna di cervo, così
come il suo equivalente indo-iranico Yima [Lot-Falck, pp. 47-55]. Le caratteristiche
funzionali di Erlik, insomma, lasciano intendere la sua signoria sul regno sotterraneo dei
morti (cosa peraltro confermata ampiamente dalla tradizione sciamanica di queste
popolazioni), che per primo Erlik raggiunse. E nondimeno si ritiene che Erlik—oltre che
nume tutelare dei defunti—sia anche un vero e proprio ‘dio del potere germogliante’: si
contraddistingue infatti, miticamente, come colui che ha creato l’orzo e a cui—oltre ai
luoghi cupi, ai laghi fangosi come quello dai «nove vortici», alle buie contrade piene di
dirupi e sabbia nera—, sono pertinenti verdi vallate con giovani boschetti [Chiavarelli,
Diana Arlecchino e gli spiriti volanti, pp. 82-3], che ugualmente lo sciamano può
raggiungere durante la trance estatica e la cui descrizione ha delle somiglianze strabilianti
con il cosiddetto ‘prato di Josefat’ in cui, secondo le confessioni delle imputate di
stregoneria nei processi inquisitori medievali, esse giungevano in spirito, con una tecnica
dunque simile a quella propria alle pratiche sciamaniche dell’area siberiana [cfr. I
Benandanti friulani e gli antichi culti europei della fertilità].

Tradizione narto-osseta: Barastyr


Anche i Narti e gli Osseti, discendenti dagli Sciti e stanziati nell’Europa dell’Est e nel
Caucaso, hanno tradizioni di tal guisa. Si ritiene, per esempio, che post-mortem l’anima
“giunge a un crocicchio di tre strade: le due laterali conducono l’una al cielo, l’altra
all’inferno; si deve preferire quella di mezzo: il morto che la imbocca giunge al luogo dove,
fra i Narti assisi, troneggia Barastyr, re dei Morti”. Troviamo qui un tema importante ai fini
della nostra ricerca: tradizionalmente si ritiene che l’anima dopo il decesso debba
imboccare una via a discapito di altre e che solo chi conosce la via giusta può arrivare
nell’aldilà del dio. Questo è un punto di primaria importanza da tenere bene a mente. La
conoscenza delle vie celesti, sovente rappresentate sotto forma di fiumi (si pensi ad es. ai
quattro fiumi inferi della mitologia greca) è indispensabile per arrivare al cospetto del dio,
in uno stato post-mortem preferenziale rispetto alla massa indifferenziata di non-
iniziati. Kowalewski fa derivare la figura del sovrano dei morti Barastyr dal mazdeismo,
mettendolo in relazione con lo Yima indoiranico, equivalente allo Yama vedico. Tuttavia,
Dumézil che lo cita, è dell’opinione che Barastyr sia un dio specificamente osseto,
derivante, ad ogni modo, da una mitologia comune alla quale appartiene anche l’aldilà
dell’India vedica che, a parere dell’autore, è più vicino alla descrizione dell’Oltretomba
osseto [Dumézil, p. 254].

Tradizione dacia-geta: Zalmoxis


Passando ora alle credenze dei Daci/Geti, appartenenti alla famiglia etnica dei Traci, essi
credono che gli iniziati, dopo la morte, raggiungano Zalmoxis, che si configura come un
dio psicopompo dei misteri che per primo miticamente raggiunse l’Aldilà, e per questo
accoglie i suoi adepti quando ivi giungono dopo la morte. Similmente dunque all’Enki
accadico-sumero o allo Yama/Yima indiano e iranico, si potrebbe dire che egli per primo
ha tracciato la via che unisce questo mondo e l’altro, quello invisibile, l’aldilà o ‘regno dei
morti’, mondo infero che in realtà—come avremo modo di vedere—non va inteso come
meramente geologicamente “sotterraneo”, quanto piuttosto come abissale nel senso
cosmico-dimensionale, in quanto dimensione altra, quasi un ‘mondo alla rovescia’ del
mondo dei vivi. In tale prospettiva, si potrebbe dire che esiste una realtà superficiale
(exotericamente terrestre, sublunare: il ‘mondo dei vivi’) ed una occulta, nascosta sotto (o
dietro) quella superficiale (e quindi exotericamente definita ctonia, sotterranea, infera e
non di rado associata al dominio selenico: il ‘mondo dei morti’).

Ritornando alla figura di Zalmoxis, alcuni lo confrontano con Zameluks, dio lituano della
terra, altri con il nome Zamelo, trovato in alcune iscrizioni funerarie greco-frigie nell’Asia
minore, probabilmente connesso al tracio zemelen (“terra”) da cui anche Semele, dea
lunare-tellurica, madre di Dioniso, di cui abbiamo già parlato nel precedente articolo.
Devesi notare che tutti questi termini derivano dalla radice indoeuropea *g’hemel (“terra,
suolo, appartenente alla terra”) che ci riconduce perfettamente all’àmbito del nostro studio,
vale a dire la dicotomia terrestre/infero, tellurico/ctonio, generazione/morte, vivi/morti,
vegetazione/spiriti degli antenati. Essendo xais un termine scito per indicare “signore,
capo, re” possiamo tradurre Zalmo-xis come “Signore della Terra” [Eliade, Zalmoxis, p.
46], “Re del Suolo” (e, forse, anche del sottosuolo, inteso nel senso esoterico di realtà
sotto la realtà).

Nondimeno, anche a riguardo di questa figura misteriosa vi sono le solite, apparenti


contraddizioni, derivanti dal fatto che il suo àmbito funzionale non è mai stato individuato
con sicurezza. Alcuni studiosi, tra cui Clemen, vedevano chiaramente in Zalmoxis il
“Signore dei Morti”, ma a parere di altri, tra cui il celebre studiosi di storia tracia Russu, “il
valore semantico del tema zamol– è ‘la terra’, ‘il potere della terra’ e Zalmoxis non può
significare altro che il dio della terra’, personificazione di ogni forma di vita e del grembo
materno in cui ritornano tutti gli uomini” [Eliade, Zalmoxis, p. 47]. Ritorna anche qui, quindi,
la dicotomia che abbiamo già rintracciato per es. in Cernunno e in Dioniso, tra ‘dio della
terra e della vegetazione’ e ‘dio dei morti’ e del ‘mondo infero’.

Zalmoxis come “iniziatore ai Misteri”

Purtroppo, i pochi frammenti giuntici non ci permettono una comprensione ottimale della
figura di Zalmoxis: si ritiene che il nome divino, come sovente accade, sia stato in tempi a
noi più prossimi usato in riferimento a figure storicamente esistite particolarmente influenti
nell’ambito della cultura sacra dei Geti; in altri termini, in varie epoche veniva
denominato Zalmoxis il sacerdote più saggio del tempio, oppure uno sciamano
particolarmente abile. Secondo Erodoto un tracio di nome Zalmoxis importò tra i Geti la
dottrina pitagorica sull’immortalità dell’anima, e per dimostrarlo “faceva costruire per sé
una dimora sotterranea e quando questa fu ultimata vi scese e visse colà per tre anni. I
Traci ne sentivano la mancanza e lo piangevano come morto, ma, al quarto anno, apparve
loro di nuovo e così fu provato quel che Zalmoxis predicava”.

Ci troviamo, dunque, nell’àmbito del topos mitico della katabasis (discesa agli Inferi), della
morte apparente e resurrezione che connette tra loro figure ora divine (Adone/Tammuz,
Odino/Wotan appeso all’Yggdrasil, Baldr e Freyr, Osiride fatto a pezzi da Seth che
governa nell’Amenti, Dioniso smembrato dai titani e poi rinato miracolosamente dalla
saetta di Zeus) ora umane ma in qualche modo considerate sovra-umane (Orfeo,
Zalmoxis, fino al motivo più recente che vede come protagonista nel mitologhema Gesù
Cristo che, in seguito alla morte in croce, discende agli inferi per poi risorgere dopo tre
giorni). Si potrebbe dire che come queste divinità in illo tempore hanno scoperto la via
verso l’aldilà—di ciò avremo modo di parlare diffusamente più avanti—, così ogni iniziato e
adepto deve operare la propria catabasi, discendendo personalmente negli abissi del suo
essere per cercarvi la soluzione al mistero che si nasconde dietro l’apparente duplicità
esistente tra Vita e Morte: lì solo potrà trovare la via che venne scoperta, in illo tempore,
dal dio, prototipo del primo morto e ri-nato. Dopo una morte rituale, equivalente a quella
miticamente riconosciuta al nume tutelare, l’iniziato torna in vita come un’altra persona: si
considera “rinato”, ed essendo già morto non morirà più al momento del decesso, ma
altresì raggiungerà il dio nell’aldilà. Sono di Walter Friedrich Otto [cit. in Kerényi, Dioniso,
p. 136], le seguenti parole:

Chi genera qualcosa di vitale deve sprofondare negli abissi primordiali, dove abitano le
potenze della vita. E quando egli riemerge, c’è un lampo di follia nei suoi occhi, perché
laggiù la morte convive con la vita.

Con diverse parole, Emanuela Chiavarelli [p.121] enuncia lo stesso principio di stretta
correlazione tra vita e morte:

Il dualismo all’interno della divinità è inevitabile e necessario come la vita che si alterna,
nel gioco del divenire, alla morte. Se le polarità cessassero di contrapporsi si
bloccherebbe la circolazione dello stesso flusso vitale. Ma l’una è complementare all’altra:
nell’inverno-inferi, dimora di Ade, re dei defunti, si cela, infatti, il mistero della vita vegetale.
Il «Bimbo di Luce» dei Misteri di Eleusi, simbolo dell’eterna Zoé, nascerà negli abissali
antri di Ade.
Divinità dei morti e divinità dei Misteri
Vi è da rilevare a questo riguardo che bene fa Eliade a sottolineare come il fatto che gli
adepti raggiungano Zalmoxis nell’aldilà non conduce necessariamente al riconoscimento
di Zalmoxis come ‘Sovrano dei Morti’. Bisogna infatti distinguere, a suo parere, le divinità
dei morti da quelle dei Misteri, governando le prime su tutti i morti indistintamente, mentre
le seconde ammettono presso di loro solo gli iniziati.

Nondimeno, sovente la distinzione tra i due àmbiti appare labile, come ad es. per quanto
riguarda Odino, che nella tradizione nordica è al tempo stesso dio dei misteri (in quanto
dio della profezia e della magia) e dio dei morti, epperò non della massa indifferenziata di
morti, bensì solo di quelli trapassati sul campo di battaglia, invocando il suo nome. Eppure,
una ‘selezione’ di tal guisa non impedì agli anglosassoni di rappresentare Odino in epoca
medievale come conduttore della già menzionata ‘caccia selvaggia’, vale a dire a capo di
una processione fantasma di spiriti di defunti, animali fantasma e dèmoni: ormai perduta,
in seguito alla conversione al cristianesimo delle popolazioni nordiche, la sua valenza di
dio misterico, il suo dominio viene ormai riconosciuto su un generico gruppo di morti,
talvolta visti persino come dannati, e financo di animali e dèmoni, facendo così deragliare
l’immagine di colui che fu l’antico ‘Padre degli Æsir’ verso binari dèmoniaci impensabili
solo qualche secolo prima.

Ma il punto, qui, è soprattutto un altro: le testimonianze antiche e gli studi recenti ci


consentono di individuare un gruppo di antichissime divinità ritenute essere Signori
dell’Aldilà, che per primi hanno scoperto la via per l’Altro Mondo. Spesso, come abbiamo
visto parlando di Zalmoxis, questa conoscenza permetteva all’iniziato di giungere alla
corte del dio, post-mortem, in un regno fuori dal tempo, in cui non si invecchia e non si
muore più (si tenga bene a mente questo per il proseguimento del discorso). Queste
divinità (Osiride, Enki, Yama/Yima) che per prime hanno scoperto la via, costituiscono
un’antichissimo nucleo comune alle più grandi tra le civiltà arcaiche, ovvero quella egizia,
quella sumero-mesopotamica e quella degli Indo-Arî, autori dei Veda.

Osiride, Enki, Yama: “coloro che scoprirono la via”


Non si può qui riportare l’intera tradizione osiridea, ampiamente trattata da molti autori e
non di particolare rilevanza in questa sede; ci limitiamo a mettere in rilievo qualche
attributo del dio, a partire dal fatto che veniva considerato “re in eterno nei «Campi di
Yalu», nella «terra del sacro Amenti» oltre le «acque della morte», localizzata nel «lontano
Occidente»” [Evola, p. 247]. Similmente a Zalmoxis, dunque, Osiride per primo raggiunse i
“Campi di Yalu” e la “terra del sacro Amenti”, vale a dire l’aldilà, l’altro mondo. Osiride vi
giunse a bordo della “Nave dei Morti” e, si può dire, batté la via per tutti coloro destinati a
percorrerla in seguito. Per questo, dopo la morte ad opera di Seth, Osiride cessa di
rappresentare la funzione divina generatrice per diventare dio dell’Amenti, vale a dire
dell’oltretomba, il Giudice delle anime dei morti. Durante il viaggio post-mortem, l’anima
percorre la strada battuta in illo tempore da Osiride, rispondendo alle potenze divine che
incontra durante il tragitto con le formule contenute nel Libro dei Morti Egizio.

Lo stesso che è Osiride per gli Egizi, per gli Indiani arî era Yama, che Charles Malamoud
[Il gemello solare, p. 12] definisce “dio della morte, re dei morti, ma anche divinità tutelare
dell’ordine che regola i rapporti fra i vivi e fra le generazioni”. Nel Rg-Veda (X, 14, 1-2) egli
viene definito “colui che seguì il corso dei grandi fiumi [cosmici], che per primo scoperse il
cammino (…) il raccoglitore delle genti”. Nell’Atharva-Veda (XVIII, I, 50) si dice:

Yama per primo trovò per noi un sentiero; quello non è un pascolo che si possa portar via;
dove si avviarono i nostri primi Padri, colà (vanno) quelli che sono nati (da loro), ciascuno
lungo la sua via.

Egli, continua Malamoud [p. 29] ha scelto di morire e tale decisione ha fatto di lui “il primo
essere che muore, il primo dei mortali”: egli “perlustra il cammino che conduce all’aldilà”,
da cui il suo titolo di “sovrano degli antenati”. La sua morte avvenuta in illo tempore “non è
una scomparsa, ma un’inaugurazione”. Lo studioso francese distingue Yama dagli altri dèi
vedici, in quanto lui solo [p. 32] “si è collocato spontaneamente, insieme alle generazioni
umane, nella non-immortalità, distinguendosi dagli (altri) dèi. Nondimeno egli è un dio,
costantemente designato come tale nella prosa vedica, e gli uomini aspirano a una forma
di sopravvivenza che deve venir loro da Yama”. Abbiamo sottolineato quest’ultima frase in
quanto estremamente significativa se collegata a quanto Erodoto scrisse di Zalmoxis: così
come i suoi adepti anelavano a raggiungere una forma di immortalità post-mortem, che il
dio aveva raggiunto per primo, così gli indiani del periodo vedico confidavano in Yama per
conquistare lo stesso tipo di sopravvivenza, perché fu proprio Yama a scoprire per primo
la via.

Canopo e il Polo Sud Celeste

Abbiamo visto come Osiride governa sull’Amenti, allo stesso modo in cui Yama comanda
sulla omologa “sede del Rta”. A questi due luoghi del mito, ne equivale un terzo, in un’altra
tradizione arcaica: la Eridu dei Sumeri in cui dominava Enki/Ea. Sappiamo che i sumero-
mesopotamici chiamavano con questo nome la stella Canopo, vale a dire il cd. “Polo Sud
Celeste”. Orbene, il fatto è particolarmente curioso, in quanto Plutarco [Iside e Osiride,
XXII] ci rende noto che Osiride veniva chiamato “timoniere Canopo”, perché si tramandava
che si fosse trasformato, dopo la morte, nella stella omonima. Abbiamo già detto che
questa era chiamata dagli antichi Sumeri Eridu e considerata la dimora del dio
Enki/Ea/Enmešarra, variamente nominato “Signore dell’Ordine del Mondo”, “Signore
dell’Universo”, ma soprattutto “Sovrano del Mondo Infero” nonché “colui che ha peso nel
mondo infero” [Santillana e Dechend, Il mulino di Amleto, p. 314] (si cfr. tali epiteti con
quello, attribuito dalla tradizione cristiana a Satana di Princeps huius mundi).

Effettivamente, devesi notare come nell’antica sapienza astro-cosmogonica il regno dei


morti era posto sempre a meridione, in contrapposizione con le regioni uraniche, le vetero-
testamentarie “Acque Superiori”. La stella Canopo, in particolare, veniva ritenuta il Polo
Sud Celeste, vale a dire la porzione dello spazio cosmico più in basso: simbolicamente, si
può ben dire che questa porzione di cielo rappresentasse per gli Antichi l’Abisso, tanto è
vero che in Mesopotamia essa aveva nome “Stella-giogo del mare”, laddove la “Stella-
giogo del cielo” era alpha-drakonis, primordiale stella polare [Ibidem, p. 331].

Questa tradizione di considerare il Polo Sud Celeste come l’Abisso cosmico o punto più
basso degli Inferi (e quindi dell’Oltretomba), governato da un dio primordiale detronizzato
(Enki, Osiride, Lucifero) è ampiamente diffusa: persino in Cina, ci sono numerose
leggende sull’ “Antico Immortale del Polo Sud Celeste” (ovvero Huang Di, l’Imperatore
Giallo associato nella tradizione astrologica cinese a Saturno), nonché sui varî “Imperatori
dormienti in grotte montane” [Ibidem, p.349]. Con quest’ultimo accenno ci connettiamo alle
leggende che pretendono che Saturno/Kronos, dopo essere spodestato da Zeus, fu da
quest’ultimo scagliato nel Tartaro (l’Abisso della mitologia greca) o, in alternativa, sia stato
posto in una regione al di fuori del tempo (ovvero in una dimensione extratemporale, da lì
governando appunto sulle ronde del cronos) all’estremo Nord sull’Isola Ogigia o
all’estremo occidente sull’Isola delle Esperidi o ancora—secondo i Celti—sull’Isola Bianca
settentrionale di Avallon, dove giace in uno stato di sonno comatoso, aspettando il ritorno
dell’età aurea [cfr. Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”].

Il “Re del Mondo”

Sarebbe interessante dire qualcosa anche sulle tradizioni di provenienza asiatica


riguardanti il mitico regno sotterraneo ed extra-terreno variamente denominato Shambhala
o Agarttha, ugualmente governato da un sovrano infero, il “Re del Mondo”, che lo
amministra con la massima saggezza, così come ugualmente è sottoposto al suo dominio
l’intero mondo dei vivi. Proponendoci di approfondire in futuro temi di tal guisa che ora ci
condurrebbero troppo oltre, vi rimandiamo per il momento all’opera guénoniana Il Re del
Mondo o all’estratto di F. Ossendowski precedemente pubblicato [cfr. Il Regno Sotterraneo
(F. Ossendowski, «Bestie, Uomini, Dèi»)], altro testo fondamentale per l’approfondimento
della questione in esame.

Nicholas Roerich, The Dead City.

L’Abisso del Cosmo


Partiti dal sottosuolo infero, siamo ascesi ai cieli. Epperò non ai cieli uranici, della pura
luce olimpica (Polo Nord Celeste; regione cosmica settentrionale; Carro dell’Orsa
Maggiore, tradizionalmente legato ai Sette Rishi), bensì a quelli abissali, nel regno in cui
Osiride, Enki e Yama giudicano e governano le anime dei morti. Si potrebbe dunque dire,
a ragione, che lungi dall’ascendere siamo scesi ancora più in profondità: dietro a un’idea di
profondità meramente tellurico-ctonia sembra nascondersi, nella saggezza del Mito e della
Tradizione, una dimensione molto più profonda, decisamente più abissale, epperò non in
senso fisico-materiale (il sottosuolo), non su questa terra: bensì nei cieli, nell’Abisso
cosmico. Nella mitologia ellenica, questo abisso è denominato Tartaro: nel Fedone (111e-
112b) Platone parla di questo luogo come di una dimensione abissale, non sotterranea al
nostro mondo bensì piuttosto sovrapposta, alludendo probabilmente alla sua dimensione
extra-temporale (Avallon, l’Isola delle Esperidi, Ogigia):

Una delle voragini della terra è particolarmente grande e trapassa la terra intera da una
parte all’altra. Omero parla di essa, quando dice “molto lontano, dove sotto la terra è il più
profondo abisso”. È essa che egli altrove e molti altri poeti hanno chiamato Tartaro. In
questa voragine confluiscono tutti i fiumi e da essa di nuovo defluiscono: ciascuno diventa
tale quale è reso dalla qualità della terra attraverso la quale scorre. La causa del defluirvi e
del confluirvi di tutte le correnti è che quest’acqua non ha né fondo né base.

Platone è abilissimo a utilizzare metafore di carattere geologico per descrivere verità


esoteriche più alte [cfr. Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica], che solo gli iniziati
avrebbero saputo cogliere. È chiaro infatti che non si possono intendere i fiumi inferi della
mitologia ellenica come corsi d’acqua fisici sotterranei, né si più considerare il Tartaro una
voragine particolarmente grande che si apre fisicamente nel sottosuolo. Si può piuttosto
dire che ambienti di tal guisa (i sotterranei nelle piramidi egizie, gli xenote messicani, i vari
“antri della Sibilla” e le innumerevoli “Porte degli Inferi” del folklore antico) vennero scelti
consapevolmente dalle confraternite misteriche come luoghi ideali ove svolgere rituali di
carattere ctonio-iniziatico e ove adorare le divinità infere. Si tendeva, per così dire, a
vedere nell’immagine del sottosuolo un archetipo cosmico, più alto e pre-umano: l’abisso
cosmico da cui tutte le anime provenivano, e a cui tutte sarebbero state destinate a
tornare.

Si pensi, ancora una volta, alle immagini mitiche della discesa in luoghi sotterranei da
Zalmoxis a Cristo et similia; si ponga ora quanto detto in relazione a quella regione
cosmica abissale (Amenti, Sede di Rta, Eridu, Tartaro) che era considerata unanimamente
sede del dio dei morti, dell’antenato clanico che, morto per primo, aveva scoperto la via da
percorrere, sia che esso si chiamasse Osiride o Yama/Yima o Enki/Ea. Non vi è più
dubbio, a questo punto, che tale dimensione vada intesa in senso cosmico ed extra-
terreno, e se dobbiamo fidarci dei classici possiamo star certi di andare sul sicuro, citando
la nota frase omerica (Iliade, 8.13-16) che pone il Tartaro “tanto al di sotto dell’Ade,
quanto il cielo dista dalla terra”.

Potrebbero piacerti anche