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Francesco Lamendola

Fu sulle antiche rive del Nilo


che gli Inferi diventarono lInferno
Quando accaduto che gli Inferi, soggiorno delle anime dei morti, si sono trasformati nell'Inferno,
luogo di eterna punizione delle anime di coloro che condussero, sulla Terra, un'esistenza malvagia e
che si macchiarono di colpe imperdonabili?
Entrambe le parole derivano dal latino, che conosce, anch'esso, due parole quasi identiche, infernus
ed inferus, per designare il medesimo concetto: ci che sta sotto, in basso. Per Cicerone, ad
esempio, Infernum (e anche Inferum) mare il Tirreno (contrapposto all'Adriatico, che superior);
mentre per Tacito infernas umbras carminibus elicere significa evocare, mediante incantesimi, le
anime dei morti; e, per lo stesso Cicerone, dii inferi sono gli dei dell'Averno.
Per gli storici delle religioni preferiscono adoperare la parola Inferno solo riferendosi all'ambito
cristiano e islamico (e, tutt'al pi, ebraico), mentre riservano la parola Inferi per tutte le altre culture
pagane, sia antiche che moderne.
In effetti, l'idea che le anime dei malvagi meritino una eterna punizione in un luogo apposito, ben
distinto da quello riservato a tutte le altre anime, non una "invenzione" del cristianesimo (o
dell'islamismo), ma si ritrova anche presso moltissime altre religioni e culture, comprese quelle
antiche. In genere esso era concepito come un luogo buio e sotterraneo (donde l'origine del nome),
il regno di una divinit apposita che, per, solo nel cristianesimo malvagia essa stessa e tutta
intesa ad indurre gli uomini verso il male ed il peccato; mentre l'Ade dei greci e il Plutone dei
romani non un dio malvagio in s, ma piuttosto il giudice e il custode di tutte le anime, comprese
quelle dei malvagi.
Invece, nella maggior parte delle antiche religioni (e, fra quelle moderne, nell'induismo e nel
taoismo) le divinit che hanno a che fare con il male e con la morte non sono interamente negative
n interamente positive, ma presentano caratteri duplici ed elusivi, potenzialmente minacciose, ma
suscettibili anche di dimostrarsi benefiche, se opportunamente pregate e invocate. E questo perch
la realt stessa, tutta la realt - morte compresa - non presenta caratteri antitetici e chiaramente
separabili di bene e di male, ma piuttosto una compresenza e una mescolanza di elementi che
possono essere letti dall'uomo come positivi o negativi, a seconda delle circostanze e della
prospettiva da cui ci si pone. Nell'induismo, ad esempio, il dio Shiva corrisponde, s, al principio
della distruzione; ma, appunto perch la distruzione necessaria, in natura, al ciclo della vita, egli
anche il rigeneratore e il dispensatore della vita; e, nello sivaismo, egli "il fausto" e la
personificazione dell'assoluto, del brahman.
Nelle culture occidentali, il principio negativo viene via via separandosi da quello negativo e si
configura come Kaos, principio del disordine, contrapposto al Kosmos, principio dell'ordine che da
quello ha origine ma che, poi, gli si contrappone, per contenerne l'opera distruttiva; in quest'ottica
bisogna leggere anche la contrapposizione, nella cultura greca antica, fra gli dei olimpici e le forze
primigenie del disordine, ivi compresi i Titani.
Secondo la cosmogonia dei babilonesi, al momento della creazione del mondo vi erano un principio
femminile, Tiamat ("mare", ossia acqua salata), la madre comune che circonda la terra, e un
principio maschile, Apsu (l'acqua dolce sotto terra). Quando gli dei vennero creati, si scaten un
conflitto tra la luce e l'oscurit, i cui il figlio del Sole, Marduk, ebbe l'incarico di affrontare e
uccidere Tiamat, spaccandone poi il corpo in due met, a guisa di conchiglia.
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L'Enuma Elish, il poema epico babilonese, narra in questi termini lo scontro mortale fra il dio
Marduk e la dea Tiamat, citato in Zecharia Sitchin, Il pianeta degli dei (titolo originale: The 12th
Planet, 1976, traduzione italiana di Maria Massarotti, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1998,
2002, pp. 215-216 e 218-219):
Tiamat e Marduk, il pi saggio tra gli dei,
avanzarono l'uno contro l'altro;
si preparavano a un duello,
si avvicinavano alla battaglia.
Il Signore distese la sua rete per avvilupparla:
il vento del male, che gli stava dietro, le scaten contro.
Quando Tiamat apr la bocca per divorarlo
Egli la spinse contro il vento del male,
in modo che non potesse pi chiudere le labbra.
I feroci venti di tempesta quindi caricarono il suo ventre;
il suo corpo si gonfi, la bocca si spalanc.
Egli scagli una freccia che le dilani il ventre;
penetr nelle sue viscere e le si conficc nel grembo.
Dopo averla cos domata, egli spense il suo soffio vitale.
Il Signore si ferm a vedere il suo corpo senza vita.
Ingegnosamente concep un piano per dividere il mostro.
Quindi l'apr in due parti come si fa con un mitilo.
Il Signore calpest la parte posteriore di Tiamat;
con la sua arma le tagli di netto il cranio;
recise i canali del suo sangue;
e spinse il Vento del Nord a portare la parte ormai staccata
verso luoghi che nessuno ancora conosceva.
L'altra met di lei egli innalz come un paravento nei cieli:
schiacciatala, pieg la sua coda fino a formare la Grande Fascia,
simile a un bracciale posto a guardia dei cieli.
Dunque, con la met inferiore di Tiamat vennero formati la Terra e gli Inferi, con quella superiore,
la volta celeste e le stelle.
Significativo, comunque, il fatto che Tiamat , madre di una serie di creature mostruose e di
dragoni che giungono perfino ad oscurare il disco della Luna, viene raffigurata come un serpente
che abita il mare notturno (cosa che pu aver ispirato l'immagine del dragone del libro cristiano
dell'Apocalisse); eppure, al tempo stesso, vista come la Grande Madre, generatrice di tutte le cose
e degli stessi dei.
Quanto all'operazione compiuta da Marduk (altrimenti noto come Bel Merodach), di tagliarle il
capo e recidere le vene del suo corpo, il significato allegorico risiede nell'idea che il sangue della
Gran Madre, scorrendo sulla terra, dar origine alla stirpe degli animali e, pertanto, sar necessario
alla vittoria della vita sul disordine e sulla morte.
Gli Inferi, poi, sono il luogo delle tenebre , abitato da mostri, che si apre nelle viscere della Terra;
concezione che passer anche nello Zoroastrismo, ove le anime dei defunti devono transitare sul
ponte presso il sacro monte Alborz, ove il loro destino si compie: allargandosi per i buoni,
restringendosi per i malvagi, sino a farli precipitare nell'abisso. Qui li attende Ahriman, il malefico
dio dell'oscurit e della menzogna, che eternamente lotta contro Ahura Mazda, il dio del bene e
della luce.
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Ma, con lo Zoroastrismo, per la prima volta si entra nell'ambito di una cosmogonia e di una teologia
nettamente dualistiche, con un principio interamente buono che si oppone ad uno interamente
malvagio, nell'ambito di uno scontro cosmico ove essi non sono visti come complementari, ma
come opposti ed inconciliabili. Ed questa l'idea che si affermer nel cristianesimo: un'idea
persiana piuttosto che ebraica, a dispetto dalla comune credenza, secondo la quale il cristianesimo
non sarebbe che una forma aggiornata del giudaismo.
Nella religione degli antichi Egiziani, i morti venivano giudicati dal dio solare Ra e, in una fase pi
tarda (dalla XI dinastia), da Osiride. Il Libro dei Morti spiega come il cuore dei defunti venga
pesato sulla bilancia dal dio lunare Thot, mentre sull'altro piatto di essa sta una raffigurazione del
divino Maat. Un mostro pronto a divorare quanti risultino colpevoli; gli altri, invece, vengono
introdotti nel regno luminoso di Osiride, concepito come un prolungamento della vita terrena,
compresi i lavori agricoli da svolgere sulle rive del Nilo. I cattivi vengono sprofondati nel regno
sotterraneo chiamato duat (o Amenti) che il Sole illumina solo nel tratto del suo corso in cui
scompare sotto l'orizzonte terrestre; fame e sete li tormentano, e questi elementi sono probabilmente
passati nella concezione giudaica e, attraverso di essa, cristiana dell'Inferno (cfr. il regno dei morti
nella parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone, ove la pena delle anime malvagie consiste in
un fuoco eterno e in una inestinguibile arsura che le tormenta).
Si tenga presente, comunque, che per gli antichi Egiziani erano tre le forze spirituali che
costituivano quella che noi chiamiamo "anima": ka, ba e akh. La prima il nucleo centrale, ricevuta
dagli antenati e trasmessa ai discendenti: per essa venivano deposti cibi e altri oggetti nelle
sepolture; la seconda ne il principio primordiale e ci che garantisce l'individualit di ogni
singolo essere umano; la terza, invece, raggiunge il suo pieno sviluppo solo dopo la morte, ed per
questo che, nel corso del tempo, essa ha finito per essere identificata totalmente (ma un po'
impropriamente) con il defunto tout court.
L'importanza svolta dalla concezione egiziana antica del regno dei morti nella formazione di quella
greca (e, per altra via, di quella ebraico-cristiana) dell'Inferno, stata evidenziata da quella
eccentrica figura di studioso di ermetismo del XVIII secolo, che fu Don Antoine-Joseph de Pernety
(1716-1796), fondatore del Rito Swedemborghiano in Francia (ispirato alle dottrine del mistico
svedese Emanuel Swedenborg), poi bibliotecario personale di Federico il Grande di Prussia ed
infine, nel 1786, fondatore ad Avignone della Societ degli Illuminati.
Scrive dunque Dom Antonio Pernety nella sua opera classica Le favol mme principe, avec une
explication des hyeroglyphes, Parigi, 1758; traduzione italiana di Giacomo Catinella, Genova,
Fratelli Melita Editori, 1987, pp. 191-193):
Lidea dellInferno nata in Egitto, e ci sulla testimonianza di Diodoro Siculo, che nel L. I, cl. 36,
scrisse: Orfeo port dallEgitto in Grecia la completa favola dellInferno. I supplizi dei cattivi nel
Tartaro, il soggiorno dei beati nei Campi Elisi, ed altre simili idee, sono evidentemente attinte dai
funerali degli Egiziani. Mercurio, conduttore delle anime presso i Greci, certo la riproduzione
dun uomo al quale, anticamente, si consegnava il corpo dun Api morto, perch lo si consegnasse
a sua volta , ad altro individuo che lo riceveva avendo una maschera con tre teste come quella di
Cerbero. Orfeo avendo propalato questa pratica in Grecia, Omero ne us nella sua Odissea
dicendo:
Con il suo caduceo, alle riceve dei mesti fiumi,
Mercurio aveva condotto le ombre degli eroi.
Il termine anticamente che Diodoro adopera, potrebbe far supporre con ragione che non era un uso
del suo tempo, ma che egli avesse appreso e raccontato tutto ci che ne dice, sulla fede duna
tradizione popolare, ed alla quale non bisogna annettere molta importanza. Ma, come sempre,
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dobbiamo attingere lidea del favoloso Inferno dai Padri elle Favole. Pu darsi che Orfeo abbia
preso lo spunto dai funerali degli Egiziani, per formare la sua allegoria dellInferno, e comporre la
sua favola secondo il gusto dei Filosofi i quali, come lui, hanno composto le loro sui sepolcri e
sulle tombe; testimoni Nicola Flamel, Basilio Valentino , e tanti altri; ma questo labbia concepito
senza lo scopo d riferirsi a funerali veri, sebbene ai finti ed allegorici quali quelli della grande
Opera. Dato chegli aveva attinto in Egitto il concetto della immortalit dellanima, pu darsi che
abbia voluto dare sfogo alla propria immaginativa sullo stato nel quale l stessa sarebbe venuta a
trovarsi dopo la morte. Ma nulla ci vieta di ammettere che lidea che Omero e la maggior parte dei
Poti ci danno del soggiorno di Plutone, non si adatti benissimo a ci che si verifica nelle
operazioni della Grande Opera. Vi si riscontra perfettamente la differenza degli stati della materia,
come vedremo quando si spiegher la discesa dEnea allInferno.
Non bisogna separare lidea del regno di Plutone da quella dellInferno, del Tartaro e dei Campi
Elisi. Le tenebre tristi e nere toccarono in sorte nella divisione che i tre fratelli fecero
dellUniverso. Ma quali erano queste tenebre? Ce lo fa conoscere lo steso Omero nella sua Iliade,
L. VIII, v. 13 e seguenti; ed anche nella sua Odissea. un luogo tenebroso, un abisso profondo,
nascosto sotto terra, circondato dalle paludi limacciose del Cocito e del fiume Flegetonte. La
descrizione che ce ne fanno i Poeti, presenta ai nostri occhi spettacoli tristi, orribili e spaventevoli.
E bisogna attraversare tutto ci per arrivare al Regno di Plutone, ove non si perviene se non vi si
condotti da una Sibilla.
Si ammette, ormai, che queste descrizioni sono delle pure finzioni e quindi si riconosce che anche
il regno di Plutone favoloso. Vediamo intanto quale rapporto pu avere Plutone con la Filosofia
Ermetica.
Un antico poeta lasci scritti che per Giove, sintendeva anche Plutone, , il Sole e Dioniso:
Jupiter est idem, Pluto, Sol et Dyonisus.
Se Plutone una stessa cosa con Giove, la storia di questi essendo unallegoria chimica, pure
quella di Plutone non pu mancare dallessere simile; ma la differenza consister che quella che
riflette Plutone fa allusione a qualchaltra parte dellOpera, e perci s finto che Plutone era
figlio di Saturno e di Rea.
Stradone dice che Plutone era il dio delle ricchezze. Giunone, sua sorella, ne era la Dea; e Giove
stesso ne era considerato il distributore,. Ma tutto ci mette in evidenza lintimo rapporto che
avevano insieme, Fra tutti gli dei, Plutone il solo che rimasto celibe, poich la sua grande
deformit lo faceva schivare da tutte le dee. Nullameno egli rap Proserpina, e la fug nel suo caro
al quale erano attaccati dei cavalli neri, sino al fiume Chemaro, e di l nel suo Regno, cos come si
pu leggere nellopera che Claudiano scrisse su tale ratto. Il toro era la sua vittima; e
generalmente tutte le vittime che simmolarono alle Divinit Infernali erano neri, e gli stessi
Sacerdoti che compivano il sacrificio, durante la cerimonia vestivano di nero, come ce ne informa
Apollonio di Rodi. Stradone riferisce che sulle rive del fiume Coralo, dove si celebravano le feste
dette Panbeozie, selevava un altare comune a Plutone e a Pallade, e ci per una ragione
misteriosa e segreta, che non volevasi punto divulgare al popolo. Questo Dio spesso, in luogo dello
scettro, portava delle chiavi.
Questo attributo distintivo che trovasi nei monumenti che rappresentano Plutone, dato lidea che ci
si d del tenebroso Impero, non poteva certo meglio simboleggiarci la terra filosofica nascosta
sotto il color nero, e chiamata: La Chiave dellOpera, poich esso si manifesta sin dal
cominciamento. Questa terra che si che si trova al fondo del vaso, quella che tocc in sorte nella
divisione dellUniverso, ma Plutone, il quale in conseguenza fu chiamato il Dio delle ricchezze,
perch detta terra la miniera dellOro Filosofico, del fuoco della Natura, e del fuoco celeste. Ci
ha fatto dire che Plutone soggiornava sui monti Pirenei che gli antichi ritenevano fertili di miniere
doro e dargento. Inoltre, lo stesso nome Pirenei esprimeva perfettamente lidea del fuoco prezioso
della terra filosofica, poich parrebbe derivare da = ignis, e da , laudo. Detta qualit
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ignea di Plutone gli fece innalzare un altare comune con Pallade per la stessa ragione che questa
Dea ne aveva uno comune con Vulcano e Prometeo.
Stabilito nell'Inferno, cio la parte inferiore del vaso, Plutone era disprezzato quasi dalle Dee le
quali soggiornavano in compagnia di Giove nella parte superiore del vaso. Si vide quindi la
necessit di rapire Proserpina, nel modo che spiegher nel libro seguente. Il sito del Regno di
questo Dio fece fingere che Egli si precipit con Proserpina in fondo ad un lago, e ci perch detta
terra filosofica dopo essersi sublimata alla superficie dell'acqua mercuriale, in effetti si precipita
al fondo donde s'era elevata, ed allorquando pervenuta al calor bianco indicato dal nome di
Persefone o Proserpina. Il toro era consacrato a Plutone per la stessa ragione che il toro Api lo era
ad Osiride, poich il nome di questi significa: un fuoco ascoso, e Plutone ne la miniera. Si vedr
cosa bisogna intendere per Cerbero e per gli altri mostri dell'Inferno, nel capitolo della discesa
d'Ercole in questo soggiorno tenebroso, e nelle spiegazioni che forniremo di quella d'Enea alla fine
del sesto libro.
Non possiamo, peraltro, concordare interamente con le tesi dell'Autore, il quale, tutto preso dal
desiderio di interpretare le credenze egiziane (e greche) alla luce della filosofia ermetica, della quale
egli era un ardente seguace, ha finito per perdere di vista alcuni dati di fatto che risultano, invece, di
per s abbastanza chiari ed evidenti.
In particolare, ci sembra notevole il fatto che Seth, comunemente ritenuto il dio malvagio per
eccellenza, fosse in origine semplicemente il dio della siccit, del deserto, delle tempeste e, in
genere, del cattivo tempo. Il suo regno non era affatto l'Amenti, o regno sotterraneo delle creature
mostruose delle anime malvagie, bens i luoghi aridi e desertici posti agli estremi confini del mondo
ordinato.
Pu darsi che questa caratteristica abbia influenzato la credenza ebraica, secondo la quale il deserto
il luogo dei demoni per eccellenza: ci che si vede sia nel Libro del Levitico (16, 6-10), ove si
descrive la cerimonia con la quale un capro veniva offerto in sacrificio a Yahv mentre un altro,
simbolicamente caricato di tutti i peccati del popolo, veniva mandato nel deserto, appunto al
demone Azazel; sia nel Libro di Tobia (8, 1-3), ove si narra come il demone Asmodeo (il
distruttore), che tormentava Sara uccidendole i mariti uno dopo l'altro, venne incatenato dall'angelo
Rafael nel deserto dell'Alto Egitto. Ne abbiamo gi parlato nel precedente saggio La terra come
dominio da sfruttare un retaggio della demonologia? (sempre consultabile sul sito di Arianna
Editrice); pertanto non ci dilungheremo oltre su questo aspetto.
In ogni caso, Seth non affatto, come Plutone, il custode del regno dei morti; e la sua stessa
"demonizzazione" si pu considerare come il risultato di vicende storico-culturali, ma anche
politiche, legate al prevalere del Basso Egitto, ove Osiride era particolarmente venerato, rispetto
all'Alto Egitto, in cui era pi diffuso il culto di suo fratello Seth. In quanto assassino di Osiride, Seth
finir per simboleggiare, ma solo in tarda epoca, le forze del male, pur continuando a godere di un
culto assai diffuso. Seth, pertanto, simboleggia il male, ma non interamente un dio malvagio,
come Ahriman: lo prova il fatto che, a differenza di questi, il suo culto non collegato alla credenza
nell'Amenti e ai supplizi riservati alle anime malvagie dopo la morte.
Nell'antico ebraismo si pu gi parlare di Inferno nel senso che la parola ha assunto nella cultura
cristiana. Sia pure gradualmente, infatti, e con l'apporto di numerosi elementi dalle religioni dei
popoli vicini, lo Sheol, dimora sotterranea dei morti, finisce per distinguersi dallo Hinnom, luogo
(sempre meno fisico e sempre pi spirituale) in cui bruciano le anime dei malvagi. Il nome deriva
dal luogo ove era posto l'idolo bronzeo di Molek o Moloch (idolo detestabile), al quale i Fenici
offrivano in olocausto vittime umane, che venivano gettate in una fornace ardente. Questa
demonizzazione degli dei delle culture cananea e fenicia un elemento tipico dell'antico ebraismo;
basti pensare a Beelzebub, il principe degli dei venerato nella citt palestinese di Accaron, che
nell'Antico testamento viene retrocesso al rango di demone con l'appellativo di "Signore delle
mosche" (cfr. II Re, 1, 2-16).
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Satana il tentatore degli uomini e il tenebroso signore del regno di Hinnom (altrimenti noto come
Gehenna); non per un dio - ci sarebbe stato inconcepibile nell'ambito del rigoroso monoteismo
ebraico -, ma un servitore di Dio.
Satana, tuttavia, non solo l'esecutore dell'ira di Jahv, ma finisce per assumere i connotati di un
essere malvagio in s stesso, che deliberatamente cerca di provocare il male degli uomini, gode
nell'indurli in peccato e, dopo la morte, nel sottoporli ad atroci tormenti in uno stagno di fuoco.
Nello Hinnon, sotto la sorveglianza dell'angelo Dumah, esistono sette diversi livelli di peccati, in
ciascuno dei quali punito un particolare tipo di peccatori; possibile, quindi, che tale credenza sia
passata sia nella cultura islamica (cfr. il Libro della Scala), sia nella concezione dantesca
dell'Inferno e anche in quella del Purgatorio.
Ed eccoci ai Greci e ai Romani.
Fino ai tempi dell'Iliade, nella cultura ellenica non era ben chiara la distinzione fra il destino delle
anime virtuose e quello delle anime scellerate; il regno dell'Ade era concepito come un luogo
sotterraneo e tenebroso, ove le anime vagano malinconicamente, tormentate dal rimpianto per la
vita terrena.
Scrive Omero nell'Iliade (VIII, 10-16), l dove Zeus ammonisce gli dei a non intervenire nella
battaglia fra Greci e Troiani (traduzione di Mario Giammarco):
() E chiunque io vedr dei numi disposto ad andare
furtivo a dar aiuto ai Teucri o agli Achei,
sconciamente ferito ritorner nell'Olimpo;
o, atterrandolo, lui getter nel Tartaro tetro
assai lontano, dove pi fondo sotterra l'abisso,
l dove sono di ferro le porte e di bronzo la soglia,
tanto sotto dall'Ade quant'alto il cielo dalla terra
L'Odissea fornisce alcune informazioni pi dettagliate, in relazione al fatto che Ulisse scende
agl'Inferi ad interrogare i defunti; ma non vi si nota una concezione complessiva molto diversa per
quel che riguarda il destino delle anime. In ogni caso, non sembra affatto che gli Inferi siano un
luogo simbolico, bens fisico, con degli accessi ben precisi che, per quanto ardui, possono essere
individuati e percorsi - in circostanze eccezionali - dagli esseri umani.
Scrive Mario Zoli (Il tempo e la parola, Firenze, Editore Bulgarini, 1994, p.654-656):
"Che sorte attenda il morto nell'aldil, Omero non dice esattamente Si immagina per che essa
debba essere assai triste. Il fuoco segna il distacco definitivo tra morti e vivi; spente le fiamme,
come dice Patroclo, nessun morto potr pi tornare sulla terra.
() Mai pi
verr fuori dall'Ade, quando del fuoco m'avrete fatto partecipe. (Iliade, XXIII, 75-76)
() insomma gi presente in Omero la divisione netta, l'opposizione inconciliabile tra mondo
superiore e mondo infero, Vita e Morte, Sole e Notte. Positivi sono la luce, il cielo, la dimensione
dell'altezza, il sole; negativi, il sottosuolo, il buio,, la notte. Ma il negativo veduto solo come
assenza del positivo (la notte la mancanza della luce solare) e non ancora come la fase d'un
processo organico in cui anche il negativo sia necessario (ad esempio, la notte come fase
preparatoria d'un giorno nuovo) e dunque avente gi in s qualche intrinseco valore proprio (il
riposo, la quiete, il ristoro cale fatiche del giorno).
L'occhio del poeta guarda solo alla vita e a ci che le d valore; poich essa brevissima, e
segnata da un destino tanto misterioso quanto inflessibile, il suo valore sta nella forza, nella
conquista, nella generale considerazione; essa deve, in un certo senso, essere piena di luce - o farsi
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luce essa stessa - per compensare l'ombra che la assedia da ogni parte e che alla fine prevarr.
()
A Odisseo che gli ha detto, forse per rincuorarlo, tu signoreggi tra i morti, il Pelide, infatti,
risponde:
Non lodarmi la morte, splendido Odisseo.
Vorrei esser bifolco, servire un padrone,
un diseredato, che non avesse ricchezza
piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte. (Odissea, XI, 488-491).
() La giustizia, che non si compie dopo la morte, quando la vita spenta, negl'Inferi, deve perci
compiersi tutta sulla terra: essere cio chiara, assoluta, perfetta, esemplare.
Se paragonata a quella dell'Iliade, questa certamente una morale pi alta, ma essa resta pur
sempre legata al concreto, al visibile, al verificabile, al breve arco di una esistenza umana. Non
affronta, Omero, il tremendo problema che sconvolger l'anima di Virgilio, cio il possibile trionfo
dei malvagi, con la conseguente rovina dei buoni, o la crudele beffa degli dei che possono favorire
il male e la colpa e calpestare il bene e la virt.
Appunto: Virgilio.
Con Virgilio assistiamo veramente a una soluzione di continuit rispetto alla concezione classica
dell'aldil, con una netta evoluzione spirituale in senso etico e spirituale; vorremmo quasi dire: con
una autentica rivoluzione.
Nel celebre VI libro dell'Eneide, in cui Virgilio narra la discesa di Enea - guidato dalla Sibilla
Cumana - nei regni dell'Averno, noi vediamo non solo una netta differenziazione fra il destino dei
buoni, destinati a una vita felice nei Campi Elisi, e quello dei malvagi, precipitati nell'abisso
infuocato del Tartaro; non solo una dottrina della trasmigrazione delle anime di chiara derivazione
orfico-pitagorica; ma anche - ed quel che pi conta - un radicale mutamento di atteggiamento
complessivo nei confronti della vita e della morte.
Osservando, infatti, le anime che bevono l'acqua del fiume Lete e si accingono a riprendere, con un
nuovo corpo, la vita sulla terra, Enea chiede a suo padre Anchise, fra lo stupito e lo scandalizzato
(Eneide. VI, 719-721):
O pater, anne aliquas ad caelum hinc ire putandumst
sublimis animas iterumque ad tarda reverti
corpora? Quae lucis miseris tam dira cupido?
Ossia (traduzione dell'Eneide di Enzio Cetrangolo, Firenze, Sansoni Editore, 1966, 1989, p. 274275):
Padre, devo credere allora che alcune di queste
anime al mondo dei vivi risalgano e tornino
sotto il peso del corpo? Infelici,
cos' mai questa brama funesta del giorno?
Che esattamente il capovolgimento del concetto espresso da Omero, per bocca di Achille, nei
versi sopra citati, e altrettanto famosi, dell'Odissea. L, la morte era vista come l'inconsolabile
separazione dalla luce della vita terrena; qui, la morte appare come la liberazione dalla catena
insopportabile della vita stessa.
la concezione cristiana che ormai batte alle porte, insieme a quella di altre religioni di salvezza di
origine orientale, diffuse nel tardo Impero Romano in misura direttamente proporzionale al
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pessimismo dilagante nei confronti della vita terrena; e, probabilmente, influenzate, a loro volta,
tanto dal dualismo zoroastriano, quanto da dottrine ancor pi orientali, come il buddhismo, con i
quali la cultura occidentale era venuta direttamente a contatto fin dai tempi di Alessandro Magno e
della sua spedizione nel Turkestan e in India.
Pi in generale, si pu dire che, accanto a un diffuso indifferentismo delle classi colte e a una sorta
di agnosticismo o di ateismo pratico, tipico della tarda et repubblicana (di cui parla ampiamente
Cicerone nel De natura deorum), gli ultimi secoli del paganesimo sono attraversati da un
estesissimo movimento spirituale di rigenerazione e di attesa messianica, frutto di una crescente
stanchezza dovuta alle guerre (anche civili) e alle violenze d'ogni sorta.
Strati sempre pi ampi di popolazione, in tutto il mondo occidentale, aspiravano a una vera e
propria rinascita spirituale; rinascita della quale vi una chiara eco nella famosa IV Ecloga di
Virgilio, in cui si profetizza una renovatio saeculi che sar annunziata dalla nascita di un puer, di un
misterioso bambino; che, lungo tutti i secoli del Medioevo, verr interpretata come una profezia
della nascita di Ges Cristo (cfr. il nostro ampio saggio Il culto di Virgilio nel Medioe Evo,
pubblicato a cura della Societ Dante Alighieri di Treviso e consultabile anche sul sito di Arianna
Editrice).
Scrive ancora Mario Zoli (Op. cit., pp. 657-658):
L'oltretomba era in Omero un tema, diciamo cos, periferico, per comprendere il quale dobbiamo
raccogliere e confrontare passi e testimonianze diverse, non sempre concordanti, Odisseo deve
scendere agl'Inferi perch Tiresia, l'indovino tebano, gli dica quale futuro lo aspetta. ()
In Virgilio tutto l'opposto. La collocazione della discesa agl'Inferi al canto sesto, cio al mezzo
esatto dell'opera, risponde a una precisa intenzione dell'autore: la conoscenza del passato, del
futuro, della vita e della morte, dl dramma della storia e del suo fine misterioso, divide nettamente
l'azione in un 'prima' e in un 'poi'. E muta l'anima dell'eroe:; di qua un uomo esitante, disorientato;
di l un Enea che, reso pi certo del proprio futuro, si fa per questo pi sicuro e deciso. ()
E anche il problema del Male della storia che, non toccato da Omero, ossessiona Virgilio, trova,
nell'aldil, una sorta di superamento,. Il disegno del Fato, infatti, supera le alterne vicende delle
fortune umane, i trionfi e i meriti, come le rovine e le colpe dei singoli uomini, ed anche degli eroi.
La giustizia umana, legata a una conoscenza relativa, non pu affrontare questo mistero che,
assoluto, affonda le sue radici nel pi remoto leggendario passato e si proietta verso il pi lontano
futuro. Il male, forse, non pu essere cancellato del tutto, ma pu essere contenuto, arginato,
trasformato: con le peripezie dolorose di Enea, le guerre laziali, la gloria dei sette re e della futura
storia di Roma fino a Ottaviano, cio fino all'et contemporanea al poeta, il fato (cio la necessit
stessa della storia) tende a realizzare sulla erra un impero che renda ordinata e civile la societ
umana e che possa trionfare di ogni tendenza dissolutrice, con la forza della legge e della spada.
Anche se una tale convinzione reca tracce di un profondo pessimismo (giacch sembra che sia il
male a dettar le regole del gioco e ad imporre al Bene di usare le sue stesse armi e a costringerlo
cos alla dipendenza), si deve riconoscere che solo qui, nel panorama della cultura occidentale, si
tenta di interpretare la Storia - e non pi solo alcune vicende individuali o di un clan - alla luce di
valori che superino la Storia stessa e in cui l'onore soggettivo non stia pi nella considerazione che
gli altri tributano all'eroe per le sue imprese guerresche, bens nel servizio che egli rende, con
l'azione e l'esempio, a una sorta di volont superiore che lo sovrasta e che gli impone di essere,
vola a volta, paziente, forte, deciso, misericordioso: ora esule affranto, ora potente re; ora mendico
miserabile, ora giudice autorevole.
La libert non sta pi nell'arbitrio personale, e neanche nella legge del gruppo sociale, bens
nell'accogliere la necessit.
Immortalit dell'anima; premio assegnato ai giusti e castighi imposti ai malvagi; una Provvidenza
che governa le vicende umane guidandole misteriosamente, pur attraverso la sofferenza, il male, la
violenza, il sangue e la morte, verso un fine di Bene; necessit per l'uomo di accettare tale

Provvidenza prima di averne compreso i disegni e anche con profonda umilt, senza averli
compresi o sperare di poterli comprendere mai: questi i valori nuovi che Virgilio addita.
Nella concezione della morte e della vita il mondo antico non era mai salito a una tale altezza, n
aveva mai compiuto un tale sforzo per giungere a una sistemazione unitaria, non elusiva e non
contraddittoria.
Era il presagio questo, della filosofia cristiana che non avrebbe ripudiato quella precedente, ma,
trasformandone lo spirito, l'avrebbe esaltata e coronata.
Quanto all'Inferno vero e proprio, Virgilio lo rappresenta come un luogo nettamente separato dal
resto dell'oltretomba e ne fa una descrizione piuttosto minuziosa (versi 548-627).
Si tratta di una citt circondata da un triplice muro e dalle acque infuocate del fiume Flegetonte. La
custodisce una immensa porta di ferro, che nessuna forza umana potrebbe mai forzare, sopra la
quale sta di vedetta la terribile Tisifone; orribili suoni di percosse e di catene trascinate si spandono
intorno. Vi sono punite le anime che il giudice infernale Radamanto ha ritenuto colpevoli, e che
Tisifone scaglia in basso: il Tartaro, un abisso profondo due volte quanto l'Olimpo s'innalza sul
mondo dei vivi. Vi imperversa l'Idra, feroce e immensa, con quaranta bocche spalancate; e, fra gli
altri, vi sono eternamente straziati i Titani, i Lapiti e alcuni personaggi famosi, come Salmoneo,
Tizio, Issione, Piritoo e Teseo.
l demone Flegias (ripreso da Dante nella sua Divina Commedia) ammonisce le anime con le
tremende parole:
Discite iustitiam moniti et non temnere divos,
imparate, ammoniti, cosa sia la giustizia e a non disprezzare gli dei, che si pu considerare come
l'enunciazione sintetica dell' alto livello raggiunto dall'etica virgiliana: il rispetto per la giustizia e la
pietas verso la divinit.
Ma ormai, come si detto, il cristianesimo batte alle porte: tanto che molti teologi cristiani
definirono il sommo poeta latino come naturaliter christianus.
E, con il cristianesimo, si andr affermando quella concezione dell'Inferno come luogo fisico di
pena dei malvagi, che culminer, nel Medio Evo, con la Commedia dantesca; e che solo la teologia
pi recente ha sottoposto a profonda revisione, riportandolo in ambito spirituale e pensandolo non
pi come un luogo, ma come uno stato dell'anima; e non pi come un castigo eterodiretto, ma
essenzialmente come una conseguenza del rifiuto della chiamata divina, compiuto dalla persona
umana nell'esercizio della propria libert morale.

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