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arte contemporanea - di Manuela Ronco

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 L'archetipo del labirinto nell'arte contemporanea

di Manuela Ronco

" Noi preferiamo le vie tortuose per arrivare alla verità."


(F. Nietzsche, Ecce homo)

".Idee pure come pietre hanno accompagnato la via d'entrata,


apparendo dall'alto, i sentimenti disegnati di verde e bianco
mostrano una via d'uscita? E un'uscita da dove?."
(R. Morris, Il labirinto)

Un tema che accompagna da sempre la storia dell'uomo, apparso in varie culture,


epoche e luoghi della terra è rappresentato dall'emblema del labirinto: un
simbolo antichissimo che si manifesta attraverso una millenaria tradizione
figurativa.

Per Rosenstiehl si tratta di un "vero e proprio successo popolare"(Rosenstiehl,


1979, p. 3), come ad asserire l'universalità di questo modello, diffuso
praticamente ovunque. Lo dimostra l'attento studio mitologico di Kerènyi,[1] che
ne rintraccia le coordinate geografiche con dovizia di collegamenti, tesi a
dimostrare una sostanziale archetipicità del labirinto.

Sin dall'epoca in cui è nata la saga legata ai miti di Dedalo, di Teseo, di Arianna e
del Minotauro nella leggendaria Creta del re Minosse, questa immagine è stata
fonte di numerosissime citazioni letterarie e poetiche, nonché protagonista di
una vastissima iconografia che, iniziando dal periodo preistorico (dal Neolitico),
giunge fino al mondo contemporaneo.

La storia del labirinto è testimone di una notorietà che non è certamente dovuta
al caso. In effetti, la forza primigenia profondamente radicata in sé ha permesso a
questo segno iconografico di significare un'idea archetipa universale e assoluta. Il
labirinto evidenzia cioè, nella sua stessa forma figurale, quell'itinerario mentale
che ha accompagnato l'uomo nella storia e nel suo tortuoso cammino di
conoscenza.

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Se per vari aspetti il labirinto prefigura ancora un enigma dal punto di vista
strettamente etimologico, tentiamo ora un approccio relativo al suo percorso e
avvicendamento nella storia.

E' plausibile prendere l'avvio dall'ipotesi che la figura del labirinto sia stata
formulata da un'unica cultura che si sarebbe poi diffusa, durante il suo periodo di
massimo splendore, attraverso un'intensa rete di migrazioni e influssi culturali.
E' nell'area del bacino mediterraneo che si trova la maggior parte dei labirinti
antichi, ovvero nella Creta minoica del II millennio a.C. e forse già nel III. Le
documentazioni storiche non permettono di risalire a epoche più remote, al
massimo al Neolitico. La provenienza mediterranea e più specificatamente
cretese di questo antico simbolo sembra ormai accertata.

Nella sfera culturale della Grecia classica il labirinto era concepito come
planimetria o tracciato di un edificio (a forma quadrangolare), ma  era
soprattutto il risultato dell'opera ingegnosa e straordinaria dell'architetto
Dedalo.  Il percorso al suo interno diventa la materializzazione di una prova
iniziatica traducibile come viaggio che conduce al  centro , ovvero al luogo sacro
per eccellenza che esprime la speranza di una rinascita.

Tale substrato di pensiero, contrassegnato da un vivo sentimento mistico -


religioso, si conserva immutato anche nel Medioevo cristiano. E' solo l'oggetto
dell'iniziazione che muta; anziché Teseo è Cristo che libera l'anima dall'errore e
dalla perdizione.

Il Medioevo incarna la seconda delle tre grandi epoche di fioritura del labirinto,
in particolare fra il XII e il XIV secolo. La struttura mentale dell'epoca era
indirizzata verso una nuova interpretazione religiosa ma anche magica, accanto
all'amore per l'allegoria. Dai mosaici delle cattedrali ai manoscritti miniati queste
componenti confluiscono.

Dopo il Due - Trecento l'immagine del labirinto perde lentamente la carica


penitenziale e spirituale impressa dalla rilettura cristiana per volgere a significati
profani e ormai laici.

Scevra di qualsiasi connotazione mistica o religiosa, la forma del labirinto, per il


vigore del suo impatto visivo mantiene la sua tradizionale struttura, ma si apre
alle nuove realtà culturali della classe cavalleresca, alle tematiche mondane e
nobiliari del mondo cortese, sottolineandone valori e qualità. Ma sarà soprattutto
a partire dalla metà del Cinquecento che il labirinto troverà spazio nel clima
edonistico e gaudente della corte. In quella temperie culturale l'idea del labirinto
si decanta, appare "desacrata" diventando una moda culturale.

Un progressivo mutamento nell'essenza del segno, per cui il labirinto diventa un


luogo in cui ci si può smarrire, nasce dall'età manieristica e barocca, unitamente
alla coscienza tragica dell'uomo imprigionato in un sistema ineluttabile di
cammini intricati e fuorvianti, dove la via si frantuma, si biforca, nasconde
l'inganno e da cui solo la grazia divina o la sua intelligenza o perspicacia potranno
preservarlo dall'oblio. E' avvenuta la perdita del centro, il labirinto è erranza
senza direzioni. Una visione del mondo, perciò, tutta nuova, incerta, tormentata,
aggrovigliata che proiettò il suo sentire nella ricca iconografia di quel periodo.

Dopo la trionfale esplosione labirintica del '600 - '700, l'interesse per il simbolo
decade rapidamente, retrocede pressoché in tutte le sue molteplici espressioni.
L'Ottocento fu, nel suo complesso, un secolo manifestatamente antilabirintico.

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Significativi fatti sociali, quali l'avvento al potere della nuova classe borghese e
l'esordio della civiltà industriale, stabilirono un mutamento della moda e del
gusto. In effetti, l'epoca, palesemente intrisa di positivismo e pragmatismo non
poteva che provare indifferenza e aperto disprezzo per un tema tacciato di
frivolezza e ambiguità.

Un rinnovato interesse per il concetto di labirinto, tuttavia, venne


successivamente accolto dal Novecento; ma è principalmente l'epoca odierna il
territorio in cui, per molti frangenti, questo segno millenario celebra uno dei suoi
massimi fasti e appare più che mai presente in campo simbolico, filosofico e
artistico. La sua grandiosa eredità simbolica, che si è prolungata attraverso le
epoche modulando in cambiamenti sostanziali il suo potere iconico, si riscopre
dunque vigorosa e vitale nel panorama artistico del '900.

I grandi cambiamenti dei paradigmi scientifici avvenuti all'inizio del secolo


hanno prodotto un totale capovolgimento del punto di vista da cui osservare il
mondo e le esperienze che lo abitano. Cadute le ultime certezze positivistiche, si
rivela sempre più insufficiente una visione della realtà limitata agli aspetti
fenomenici, soprattutto dopo la teoria della relatività di Einstein e la teoria
dell'inconscio di Freud, nuovi labirinti ben più confusi ed intricati.

La rivoluzione einsteiana, in seguito alla quale tempi e spazi non appaiono più
continui e uniformi come il senso comune era abituato a percepirli, ha aperto la
via ad un inedito modo di intendere la realtà. Altrettanto dicasi per Freud che,
realizzando la scoperta dell'inconscio ha denudato i mondi infiniti che esistono
dentro ciascuno di noi, complementari agli "infiniti spazi" dell'universo fuori di
noi.

 Anche il linguaggio né è stato sconvolto, visto che non si sospettava l'esistenza di


questo nuovo "continente" interiore, che è stato decifrato e reso comprensibile.
Ad analoghe posizioni giungono gli scrittori del '900: paradigmatico è l'esempio
di Luigi Pirandello che, con le sue opere letterarie e teatrali, ha voluto dimostrare
come la verità sia solo un punto di vista che varia da individuo a individuo. 

In seguito a questo processo di trasformazione tramonta il tentativo di dare


ordine razionale al mondo e la realtà appare, di conseguenza, disgregata,
frantumata, molteplice. Nel corso del '900 si giunge ad una nuova concezione
delle vecchie coordinate spazio - temporali. Ciò che si registra è innanzitutto una
dissoluzione della realtà oggettiva che porterà a sacrificare e incrinare il concetto
di mimesi e di rappresentazione. Il che implicherà, per questa ragione, una
ristrutturazione del linguaggio pittorico e plastico, che passa attraverso lo
sconvolgimento  della visione naturalistica della realtà.

L'alba del '900 ha annunciato ed inaugurato la fine della tradizione dei linguaggi
e, per tutti, si è materializzato il desiderio di liberarsi da qualsiasi centro
gravitazionale. E' come se all'ordine cartesiano che aveva caratterizzato fino a
quel momento la ragione occidentale si avvicendasse un disordine labirintico che
si rivelerà estremamente stimolante e fecondo dal punto di vista artistico.

Un disordine che si palesa come inarrestabile scoperta dell'indicibile,


dell'instabile, dell'illogico. Proprio l'arte si mostra, infatti, come un luogo
privilegiato in cui convergono, concentrate ed estremizzate, le tendenze
rivoluzionarie generate dal clima della nuova stagione culturale che rinnova e
restaura scienza e filosofia. 

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E' proprio lungo questa direttrice che le avanguardie storiche, il Futurismo,


l'Astrattismo, il Dadaismo ed il Surrealismo, facendosi interpreti di un linguaggio
disarticolato e asintattico, attuano la più vasta e graffiante messa in discussione
dello statuto classico dell'opera d'arte, contribuendo a ridefinire la figura
dell'artista, del fruitore e dello stesso codice pittorico.

Una delle strade maestre percorse dalla ricerca avanguardistica comporterà, così,
il passaggio dal quadro inteso come finestra - quale spazio di imitazione della
realtà, fondato su un angolo di visione unico risalente al Rinascimento - a una
sua considerazione quale problema specificatamente pittorico.

In sostanza, l'arte contemporanea non ha più interesse a rappresentare la realtà.


Le avanguardie, attraverso un programma generale di dilatazione, oltre il
riconoscimento normativo del reale, "scoprono il valore dell'interferenza e della
discontinuità, dell'irruzione del caso che entra continuamente in gioco in ogni
attività, in ogni ambito della vita, a livello molecolare ed a quello della
formazione del quotidiano."(Bonito Oliva, 1981, p.14), violando, di fatto, le
proverbiali barriere che separavano lo spazio virtuale della sfera estetica da
quello reale della sfera fenomenologica. Il perseguimento di questa sintesi si
esprime adottando con atteggiamento propositivo "il principio d'espansione,
cercando attraverso le proprie pratiche di attivare processi di accrescimento della
sensibilità."(Ibid.).

Bonito Oliva ha dedicato al labirinto contemporaneo un saggio particolarmente


suggestivo imperniato sull'idea del labirinto come opera d'arte che l'artista -
Teseo, munito della spada, del gomitolo di filo, nonché del proprio coraggio, crea
percorrendo ed esplorando i meandri del linguaggio, uccidendo la bestia,
portatrice di una doppia natura così come è duale la natura del linguaggio ed
infine riemergendo alla luce.

"Il Minotauro è la mostruosità del linguaggio, la sua diversità rispetto alla lingua
comune. L'opera d'arte, il compimento dell'opera, dell'impresa da parte di Teseo
richiede l'abbattimento del mostro, la morte del nucleo del linguaggio. L'impresa
dell'eroe parte dunque dall'affermazione della morte e continua a dipanarsi
attraverso il filo d'Arianna. Il lutto è il tentativo di ricreare l'oggetto perduto,
l'organica dualità del linguaggio, il luogo abitato dalla Bestia. L'amata bestia, il
segno lampante di una mostruosità da affrontare, abbattere per poi averne
nostalgia."(Ibid., p.11).

L'artista è calato e abita di diritto la realtà del linguaggio; egli è il solo a possedere
l'astuzia e la tecnica necessarie per attraversare e sfidare tutti i suoi percorsi. Nel
gioco della caverna "non esiste la sicurezza della vittoria ma la necessità di
affrontare la prova, spinto da una pulsione che non consente deroghe od inganni,
pena la perdizione e la caduta fuori dall'esemplarità dell'opera d'arte."(Ibid.). In
questo luogo, che potremmo definire come silenzio imparziale, Teseo affronta
nel soliloquio iniziatico la vertigine della sfida, sollecitato da una missione da
portare a compimento. Questo impegno è assunto dall'artista e viene praticato
continuamente nel corso dell'opera al fine di giungere al centro, di accedere
all'ambiguità dell'inconscio.

Eloquente mi appare il concetto secondo il quale "il lavoro artistico deve avvenire
nella necessità di uno stato catacombale e clandestino, fuori dalla portata di tutti,
fuori dallo sguardo degli altri."(Ibid.).

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Nel labirinto l'artista non ha bisogno dello sguardo del mondo, l'oscurità non è
più assenza di luce bensì qualcosa di più tangibile, quasi palpabile, è una
continua sperimentazione, è consapevolezza, svelamento, è insomma la "verità
irresistibile" dell'arte. In questa condizione, l'opera che l'artista contemporaneo
crea è essa stessa un labirinto e, per analogia, costituisce l'irrazionale della
ragione, lo scarto che mette a nudo la verità delle cose.

L'aver individuato questo nuovo territorio ha aperto notevoli possibilità all'arte


contemporanea che è divenuta, per molti aspetti, il nuovo dominio del labirinto.
Nell'opera dell'artista contemporaneo questo simbolo ha espresso una profonda
significanza poiché è "la figura, la struttura adottata dal linguaggio per eludere la
necessità del significato, l'abitudine logocentrica della ragione occidentale di
trovare sempre una motivazione, una risposta, seppure travestita ed arricchita
dal decoro dell'immagine, alle urgenze dell'immaginario. L'artista
contemporaneo ha avvertito tale impossibilità ed ha adottato la strategia
dell'esitazione, in cui salta il valore del progetto, a favore di un puro errare della
fantasia." L'arte contemporanea, secondo Bonito Oliva, vive dunque tutta sotto il
segno del labirinto "in quanto portatrice di una coscienza metalinguistica del
proprio operare." In questo caso, l'arte, più che dare delle risposte propone delle
domande, opera sulla verità, non si abbandona al tempo ma lo precede. L'arte
pratica il labirinto "come metonimico movimento del linguaggio stesso"(Bonito
Oliva, 1985, pp.81-89), sentito come governato da un'erranza assoluta, un
nomadismo che l'artista assume come modalità, avendo egli abbandonato ogni
orientamento che potesse guidarne i passi.

L'arte destruttura la sua mentalità tradizionale per accedere al mito, fonda un


territorio magico, il luogo della totalità, diventa lo strumento che consente di
aprire il reale verso relazioni inedite ed imprevedibili.

L'opera d'arte vuole agire più che sulla superficie delle cose, sulla "sostanza
biologica" che le regge, pronta ad allargare il proprio influsso sviluppando una
tensione all'interrogare che diviene, per l'artista, una sorta di procedimento perpetuo,
nel tentativo di formulare una risposta alla domanda primaria.

Se l'arte, dunque, diventa una pratica di sconfinamento, ecco allora che il


Futurismo, accogliendo le istanze stabilite dall'ingente trasformazione
tecnologica che sta avendo luogo, assume le stesse come principi nella sua
poetica. Un concetto centrale nell'opera futurista sarà quello di ragionare in
termini globali, totalizzanti, al di là delle comuni concezioni dello spazio e del
tempo, nonché dei confini imposti dalle singole arti. La sintesi dinamica
teorizzata da Boccioni dischiude, così, una nuova epoca dell'estetico che gli artisti
cercarono di ritrarre.

In sintonia con questa dialettica, Balla sviluppa i suoi labirinti astratti attraverso
gli studi sulla luce - colore, che diventa la concreta protagonista dell'opera.
L'immagine sorge e prolifica dalla scomposizione della luce per schemi
geometrici. Il triangolo è, ad esempio, l'elemento generatore, presente in forma di
virgole acuminate, sprigionante dalla Lampada ad arco e, in modo particolare,
nelle architetture delle Compenetrazioni iridescenti. Ebbene, questa soluzione
formale, unitamente ai motivi del cerchio e della spirale, cui Balla sovente
ricorre, "nelle scienze occulte hanno funzione di forme simboliche vicine, o
equivalenti, a quella del labirinto."(Verzotti, 1981, p.59). La critica,[2] peraltro,
non ha mai escluso, anzi, ritiene plausibile l'eventualità di un interesse
spiritualista, teosofico, sotteso alla produzione dell'autore; in tal modo,

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all'atteggiamento scientifico - positivista aderisce quello magico - esoterico della


corrispondenza. Il triangolo, quindi, può trarre origine dalle simbologie cui è
associato. Ed è questo profondo vincolo che la serie delle Compenetrazioni
iridescenti, dipinte fra il 1912 e il 1914, intende esplorare. 

 Per quanto riguarda le figure del cerchio e della spirale, esse compaiono in opere
relative allo studio sulla velocità come nell'Automobile in corsa (1913), o tra i
guizzi delle rondini in Linee andamentali (1913). Gli stessi motivi servono a
rappresentare la meccanica dei cieli. In Mercurio passa davanti al sole (1914),
Balla introduce il tema dei fenomeni astronomici, suggerendo anche qui la
compenetrazione e il dinamismo delle forme geometriche. Una ricerca
compositiva, questa, che preannuncia l'immagine del labirinto. Va infatti notato
che la configurazione dell'archetipo evolve verosimilmente proprio dalla spirale e
dal cerchio, come giustamente spiega Santarcangeli, in quanto "con una leggera
modificazione di cerchi concentrici, si può trasformare la loro serie in un
labirinto di tipo cnossiano."(Santarcangeli, 2000, p.126).

Lo scopo della pittura di Balla prescinde dal rappresentare il simulacro visivo,


per passare invece attraverso la concreta possibilità di ampliare l'esperienza
sensibile. Ciò a cui l'artista aspira è dare sostanza all'invisibile, all'imponderabile,
all'essenza. Questo è il vero punto di approdo delle sue ricerche fondamentali.

Anche l'itinerario estetico di Klee incarna questa possibilità. Lungo tutto il suo
fare artistico il pittore appare proteso a reinventare il mondo, a rendere visibile, a
rivelare quanto di occulto e misterioso è racchiuso in esso. Klee è stato
certamente, dichiara Argan, il primo artista che si sia inoltrato in quella
sconfinata regione dell'inconscio che Freud e Yung avevano da poco scoperto. A
questo proposito "l'operazione artistica, per Klee, è simile a quella del ricercatore
che, ricorrendo a certi mezzi tecnici, rende visibili i microrganismi che
certamente ci sono, ma non sarebbero altrimenti visibili. Klee opera sui
microrganismi che popolano le regioni profonde della memoria inconscia (.)."
(Argan, 1970, p.299).

Labirinto distrutto, 1939

L'artista, dunque, è uno scienziato che, sulla scorta della propria sensibilità e
capacità intuitiva, giunge a rivelare celate relazioni e a tradurle in immagini.
Immagini che prendono la forma di architetture, di città immaginarie, labirinti,
al cui interno approdano alla luce e si dipanano elementi organici, simboli,
ideogrammi. Un mondo disseminato e disorientato, dunque, che dichiara un
desiderio imperioso di libertà. Così sembrano suggerire tre tele del 1939 dal titolo
Labirinto distrutto, Paesaggio labirintico, Parco labirintico.

"Una direzione c'è nell'opera di Klee, cui è risparmiata la perdita irrimediabile


dell'orientamento, ma è una strada principale costantemente intersecata da

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infinite strade secondarie che formano un intrico vertiginoso. Per orientarsi


occorre possedere il dono del distacco e del calcolo, l'astuzia di Teseo, il sapere di
Arianna."(Verzotti, 1981, p.81).

Occorre avere coscienza delle proprie capacità ma anche dei propri limiti,
lavorare d'introspezione; il che, implica un necessario distacco, utile a elaborare
la soluzione più corretta. E' questo l'esercizio che elegge  la virtù dell'artista il
quale, grazie a questa norma, offre un modello di comportamento. In questo caso
"il labirinto non è propriamente la perdita definitiva della direzione certa, è
piuttosto la privazione della visione prospettica, l'esatta percezione della
profondità."(Ibid., p.84).

I punti di fuga sono molteplici, è una spazialità ambigua che ci attrae e ci


respinge in un tempo. In questo intrico, però, non è tanto importante riconoscere
e ricostruire il mondo visibile, quanto piuttosto, grazie al filo di Arianna,
avvicinarci all'immagine originaria delle cose, ricercare l'essenza più intima.

Una forte componente mistica di derivazione teosofica si affaccia anche nella


cultura labirintica di Mondrian. Egli vede nella pittura un atto sostanzialmente
spirituale; l'artista è impegnato nella costante ricerca dell'universale, che consiste
in quella che lui chiama realtà pura. L'unico metodo per accedere a questo piano
di pura crescita si realizza attraverso un processo di astrazione che contempla
un'operazione di riduzione e sintesi degli elementi del reale. A questa
elaborazione Mondrian perviene in modo graduale.

Questa progressiva evoluzione è testimoniata dalla serie dedicata all'albero, una


figura che dichiara, altresì, valenze e riferimenti simbolici: l'albero, da intendersi
come albero della vita, indica Santarcangeli, simboleggia infatti una delle
componenti più importanti tra quelle che concorrono a costituire la sfera del
labirinto, cioè il centro. (Santarcangeli, 2000, pp.145-146).

Il labirinto di Mondrian "è verticale, come il segno dell'albero che si sviluppa


verso l'alto, seppure con tensioni laterali."(Bonito Oliva, 1981, p.18). Un passo
ulteriore è compiuto nel 1916, quando egli si orienta verso l'astrazione,
proponendo la serie delle cosiddette Composizioni Più e meno che, non a caso,
tendono a creare l'assetto a percorsi di un ideale labirinto "secondo il ritmo
quieto della ripetizione"(Ibid., p.19), che sempre regge la struttura del simbolo.
L'artista ha utilizzato pochissimi elementi del linguaggio visivo: brevi linee
orizzontali e  verticali che si incrociano fino a creare una griglia labirintica.

"Mondrian si fa campione dell'analisi metonimica del linguaggio e attraverso


questa egli offre la sua reale rivoluzione labirintica."(Grazioli, 1981, p.104). La
ripetizione del tema, nell'opera dell'artista, ne diventa l'occasione principale.

Se l'arte passa attraverso una volontà di conoscere e di interpretare la realtà, ecco


allora il Dadaismo professare un credo antiestetico e antiartistico per eccellenza.
I celebri ready made sono l'espressione più dissacrante della radicale operazione
semantica compiuta da Duchamp in cui, negando l'intenzionalità e le tecniche
tradizionali dell'opera, si giunge ad una presentazione tout court dell'oggetto
reale che viene decontestualizzato e rinominato. L'originalità del passo di
Duchamp si palesa, dunque, attraverso la valorizzazione del caso, dell'ironia e del
gioco. L'arte, come il gioco, va considerata un'attività disinteressata, aliena da
ogni fine utilitario, incapace di produrre valori. L'arte è libertà da ogni
costrizione, è svincolata da regole.

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"Così prevale la struttura della macchina - labirinto che produce puro


movimento, un ingranaggio che nel suo movimento automatico realizza una serie
di spostamenti che non dipendono più dalla volontà del suo artefice."(Bonito
Oliva, 1981, p.15).

E' l'organismo de' La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (1915 - 1923).
L'opera, forse più nota con il titolo Il grande vetro, apre la possibilità, attraverso
un linguaggio criptato di interpretazioni in chiave alchemica e psicanalitica.

In questo lavoro, delineato da un complesso insieme di elementi simbolici


espressi per lo più da un labirintico circuito "macchinico" (come l'improbabile
macinatrice di cioccolato, il mulino ad acqua, o la slitta mobile), si snoda un
percorso artistico che diviene percorso iniziatico, scandito da una serie di
sequenze che generano un ciclo continuo di funzioni biologiche e tecnologiche.

E non è plausibilmente riconducibile ad una ascesa iniziatica la vicenda


travagliata di Teseo che, dopo aver affrontato le peripezie della dura prova,
riemerge alla luce ?

Nel sostrato alchimico il Grande Vetro è metafora mitizzante la congiunzione


erotica. Questo dato ne sottintende un altro, ovvero la stretta relazione con il
grembo materno. Ebbene, nel labirinto si ravvisa una matrice spaziale che è
quella simbolica del grembo materno, "il luogo sicuro da cui si è partiti e verso
cui ci spinge una semicosciente nostalgia di annichilimento." Inoltre, gli studiosi
"sono concordi nel considerare come assodato il significato, se non principale,
almeno accessorio dei labirinti preistorici in quanto rappresentazione dell'utero:
l'ingresso dai labbri arrotondati, il centro profondo, la difficile uscita che ricorda
il travaglio del parto."(Santarcangeli, 2000, p.143).

Come il capzioso apparato meccanico del Grande vetro, anche il labirinto è, tutto
sommato, la rappresentazione di un marchingegno carico di implicazioni
alchemiche.

Sul ponte gettato dal Dadaismo si colloca il Surrealismo, suo diretto successore
ed erede di una forte componente Dada. Infatti, il Surrealismo si proponeva come
un vero e proprio progetto di liberazione, sia sul piano creativo che su quello
sociale, ottemperando così alle stesse necessità del Dadaismo, fra le quali, la più
importante è l'assoluto automatismo linguistico, con il quale si rende esplicito il
reale funzionamento del pensiero.

Caratteristica e obiettivo del movimento è l'attenzione a quella dimensione


dell'uomo che oltrepassa la sua realtà ordinaria per obbedire esclusivamente al
dettato della psiche, che diventa, in tal senso, rivelatrice di una realtà autentica.

Grazie alle ricerche psicoanalitiche di Freud, il sogno e l'onirico entrano


nell'universo costitutivo dell'arte come diretta espressione dell'inconscio. Si
assiste, allora, alla creazione di forme atte a rappresentare la parte oscura della
coscienza. La vocazione alla sfera dell'irrazionale fa sì che il Surrealismo si sia
impadronito dell'intera cultura del labirinto, facendo proprio ogni dettaglio
pertinente al mito, tanto da intitolare una sua rivista Minotaure.

Mirò dimostrerà il suo interesse per il tema allestendo, per la rivista, una serie di
disegni raffiguranti La leggenda del Minotauro. Negli anni a seguire concepirà
addirittura un'opera, portata a termine nel 1968, ed intitolata Labirinto, decorata
con sculture, ceramiche e fontane popolate da svariate figure affini al tema.[3]

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Non può sfuggire, pertanto, il succedersi costante e ricorrente del simbolo nella
sua produzione, e in generale della simbologia dell'inconscio. Per esempio, è
facile scorgere la spirale come il modello periodicamente presente in ogni sua
opera, un motivo che prende vita, di volta in volta, con fogge e accezioni
differenti. Così come la linea vibrante che, creando tracciati e percorsi calati in
atmosfere sospese e incantate, quasi di sapore metafisico, segue quel filo
d'Arianna che non è altro se non il pensiero inconscio, quel movimento interiore
che trapela e si risolve nella superficie dell'immagine visiva. Il tutto è immerso
nei colori più accesi, quasi a testimoniare come un surrealista, indagando il
mistero e la profondità del proprio essere, possa anche trovarvi un universo
spensierato. Infatti, Mirò configura i suoi miti in un universo magico, intriso di
lirismo, mediante una scrittura elementare, esplicitamente ludica, libera. Il
pittore sembra scoprire, insomma, la spontaneità dei disegni infantili, il
disimpegno del gioco. E non può essere diversamente perché "il gioco in fondo
non è che una delle migliori definizioni di labirinto"(Grazioli, 1981, p.97).

Nelle Costellazioni (1940-1941) il labirinto trova la sua più piena e significativa


ragion d'essere. Infatti, con il consueto estro poetico, Mirò allestisce una
superficie brulicante di segni spiraliformi, punti e linee arabescate fino a creare
una sorta di struttura labirintica assimilabile quasi ad una ragnatela.

Se Mirò "carica una forma insignificante, una macchia blu di tutte le sue
sfumature, di un'immaginazione fervida chiamandola mio sogno, Magritte
scarica al contrario del suo significato l'oggetto rappresentato privandolo del suo
nome."(Waldberg, 1968, p.78).

Magritte, infatti, è l'artista


surrealista che, più di ogni altro,
gioca (con un atteggiamento
nettamente opposto da Mirò)
con gli spostamenti del senso
mediante lo strumento dello
spaesamento, utilizzando sia gli
accostamenti incongrui,
stridenti, sia le deformazioni
irreali. E' dunque un artista sui
generis la cui prerogativa risiede
proprio nell'esplicitare
visivamente il meccanismo concettuale del linguaggio; un gergo di parole e
immagini che trova il suo esito pittorico in criteri volontariamente tradizionali,
secondo il principio della riconoscibilità, sebbene, apparentemente oggettiva.

E' in questo impianto, estremamente e volutamente ambiguo, che si inscrive il


microcosmo labirintico di Magritte. Ebbene, in tale direzione va considerato e
interpretato un nutrito gruppo di simboli che sono costantemente ripetuti
nell'opera di Magritte, ossia "il grembo, il vaso, la casa, la grotta, l'uovo, cui si
affiancano le immagini archetipe della terra, del mare e del cielo." (Sinisi, 1977,
p.479).

A proposito della grotta, ad esempio, Santarcangeli evidenzia che la caverna, e


con essa il labirinto, rappresentano il grembo materno, in tal modo "la caverna
appare anche come l'uscita verso la vita, come ciò che è nascosto e sconosciuto."
Il labirinto e la caverna sono "legati ambedue alla stessa idea di un viaggio
sotterraneo"(Santarcangeli, 2000, pp.142-143), a cui è sotteso poi un significato

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iniziatico. Il rito dell'iniziazione è, inoltre, strettamente congiunto all'alchimia


che, dai surrealisti, è tenuta in gran conto. Anche il motivo dell'albero, presente
in alcune opere di Magritte, come ad esempio La condizione umana (1934) o La
vie heureuse (1944), rinvia ermeticamente all'albero della vita che, secondo
Santarcangeli, si collocherebbe al centro del labirinto. Il disegno labirintico è
ulteriormente connesso con "la raffigurazione dei nodi e degli intrecci.",[4] una
struttura che si può riscontrare in Alfabeto delle rivelazioni (1935), dove nel
primo dei due pannelli accostati compare un aggrovigliato intreccio, che si rivela
essere quasi una trappola, un enigma. "Il labirinto è gioco anche e soprattutto nel
senso che è un indovinello."(Santarcangeli, 2000, p.159). L'unico desiderio che
la pittura di Magritte manifesta consiste, in effetti, nella capacità di far emergere
il mistero, l'enigma.

Ed è proprio su questo postulato che la sua poetica conserva lati molto affini a
quelli di De Chirico, il quale, a ragione, è da considerarsi l'esponente
incontrastato di una pittura enigmatica, portatrice di un senso di abbandono, di
un velo di mistero che permea ogni sua opera e che distingue, altresì, la sua
dimensione labirintica. Ne deriva l'elaborazione di una pittura che aspira a
superare i limiti del visibile e del logico, rivelando il significato inquietante degli
oggetti attraverso il loro inconsueto e inusitato accostamento.

L'enigma si fa rivelazione nel momento in cui si attua il processo di sostituzione


dell'uomo con la sua riduzione a statua o manichino. La rivelazione nasce,
dunque, dallo stupore nell'immobilità, nella fossilizzazione dello spazio e del
tempo, ma soprattutto è suscitato dagli "oggetti che si vedono all'improvviso e
come per la prima volta"(Barilli, 1997, p.209).

E così l'interesse si proietta allo studio degli antichi, al mondo della mitologia
greca. Le numerose statue che entrano a far parte della costruzione metafisica
perdono i loro significati più comuni diventando simboli o metafore celanti
misteri dietro la perfetta illusorietà del visibile e testimoniano la volontà di creare
scenari d'invenzione e di evocazione.

De Chirico scelse spesso come tema dei suoi dipinti il mito di Arianna che ricorre,
dal 1911 in poi, al centro delle celebri Piazze d'Italia.

Il suo intento è di fare della piazza deserta "un vero e proprio labirinto, che al
centro non ha mostri ma il premio stesso della lotta, la donna lunare, per il
vincitore, gladiatore, superuomo."(Grazioli, 1981, p.76). In base
all'interpretazione del mito di Nietzsche, la figura di Arianna e di altri
protagonisti della leggenda cretese - Le figlie di Minosse (1930), Il Minotauro
pentito (1969) - simboleggiano lo svelamento dell'ignoto, l'eterno viaggio nel
labirinto - Viaggio senza fine (1914) - che diventa la dimensione della memoria
ma anche della divinazione.

Come nel fratello, la visione labirintica entra a far parte anche dell'universo
pittorico di Alberto Savinio.

Fleurs ètranges (1929), Oggetti nella foresta (1928), Souvenir di un mondo


perduto (1928), I migratori (1929), La nave perduta (1930) sono dipinti
emblematici da questo punto di vista.

Tuttavia, muta il criterio d'approccio, perché se in Giorgio De Chirico il labirinto


è il ritratto dell'enigma, in Savinio è la rappresentazione incontrastata del puro
errare, un ritorno allo stato primordiale della fantasia e della memoria culturale.

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Allora, in questo caso lo spostamento di senso che egli eredita e attua, riguarda
quel repertorio iconografico, sempre assai remoto, che abita le radici della nostra
cultura e della nostra immaginazione.

Il mito greco riveste un ruolo principale anche e soprattutto nelle riflessioni e


nell'opera di Fabrizio Clerici, scaturendo prodigiosamente dai meandri di un
pensiero che si riallaccia alle sorgenti originali.

Il carattere fondamentale dell'opera di questo artista è l'illimitata capacità di


abbandonarsi agli strati più profondi dell'inconscio, evocato in immagini oniriche
e sogni allucinati. L'incontro con Alberto Savinio, nel 1936, fu certo determinante
per la sua ricerca e lo predisporrà naturalmente al Surrealismo. Ma alla matrice
surreale Clerici abbina gli incauti territori della pittura metafisica, il vero
movente del suo lavoro, risultando così una figura del tutto singolare di artista
surrealista - metafisico. Nella pittura intravede non solo lo strumento che gli
consente di dare libero sfogo ai fantasmi che affollano la sua mente, ma anche
quello che gli permette di indagare ed evocare il "cuore misterioso che le
trascorse epoche e le antiche civiltà hanno lasciato sepolto sotto le rovine del
tempo; la sua opera è il luogo dove si trovano a coincidere una archeologia del
presente, individuale, con un'archeologia del passato, collettiva; (.)."(Tassi, 1976,
p.140). L'opera, nella sua limpida chiarezza, nel rigore del suo spazio e nelle sue
magiche prospettive riflette la maestria dell'artista - architetto ed è un "punto di
partenza favorevole al volo verticale del suo sogno costruttore (.)." L'abilità del
pittore emerge anche dalle scenografie teatrali "che rivendicano la doppia
spazialità dell'illusione e della costruzione, ed egli è un grande scenografo proprio
perché i suoi sogni non edificano sulle nuvole ma su solide sostanze. Il suo
universo non è privo di sostanza, e la sua predilezione per le prospettive illusorie
dei grandi scenografi del XVII e del XVIII secolo gli ha insegnato che una cupola
angusta è quanto basta per contenere vertiginosi infiniti. Così, Clerici si occupa
più di chiunque altro di queste strutture dell'illusione che sono i miraggi dello
spazio, i trompe - l'oeil, le anamorfosi. La fantasia vi riversa il suo virtuosismo, il
fantastico vi trova il suo alimento. Giocare con lo spazio, significa riconoscere
ancora, e stimare, la realtà dello spazio, ma pure attestare la soggettività di
questo spazio e il diritto per tutti di costruirvi a piacere la casa della propria
immaginazione."(Brion, 1955, p.47 ).

In questo modo "la logica del visibile si è messa al servizio dell'invisibile. Tutto  
[1]  Per la storia del mito:
considerato niente è più irreale dell'architettura: il labirinto, la torre di Babele KERĔNYI, K., Gli dei e gli eroi
(.)."(Sciascia, 1973, p.145). E' in questa dimensione di realismo magico che della Grecia, Milano, 1962;       
Clerici rievoca il mito del Minotauro a topos tematico ricorrente nella sua
e La Mitologia dei Greci, Roma,
produzione artistica, culminante in un ciclo che si estende dal 1949 al 1967. 1952.
[2]  CALVESI, M., Penetrazione
e magia nella pittura di Balla, in
L'arte Moderna - Il Futurismo,
Milano, 1967; FAGIOLO, M.,
Omaggio a Balla, Roma, 1967.
[3]  GRAZIOLI, E., Joan Mirò,
in BONITO OLIVA, A.,
Luoghi del silenzio imparziale,
Milano, 1981, p.97.
[4]  Brion evidenzia "il senso
segreto, mistico, e la parentela
emblematica dei nodi, degli
intrecci e dei labirinti, la loro

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stretta relazione concettuale."


La citazione è tratta da
SANTARCANGELI, 2000,
p.127.

Il Minotauro accusa pubblicamente sua madre, 1952.

Paradigmatica appare la versione del Minotauro che accusa pubblicamente sua


madre (1952): questa rappresentazione del processo di Pasifae, che è stata
l'oggetto di più versioni, è un'opera "complessa non soltanto dal punto di vista
compositivo - costruzione, impiego delle masse, larghezza e profondità - ma per
gli elementi epici e drammatici. Un'aria carica di eventi pesa sulla pista
dell'accusa.  Un tribunale,  un anfiteatro,  un antico  stadio in rovina?", si
domanda  Carrieri.(Carrieri, 1955, p.38). Al centro di un palcoscenico circolare si
erge con tutta la sua imponenza la figura del Minotauro. Tutto attorno, nei palchi
e nelle terrazze di un'alta tribuna in rovina, si accalca una folla indistinta e stipata
che si allontana verso un orizzonte alto. "I corridoi, gli scomparti, i ballatoi sono
così stipati e rigurgitanti da far pensare a un immenso arsenale di formiche. Il
grande vuoto che circonda l'accusatore", ai cui piedi si spalanca un rovinoso
labirinto, "lo isola più che in una scena, in una idea fissa di condanna."(Ibid.,
pp.38,40). A questo proposito una domanda di Savinio del 1938 può introdurci
fra le recondite idee che hanno ispirato e dato vita a questa scena: "che cosa
affascina nel processo? La punizione della colpa o il trionfo dell'innocenza? Non
lo crediamo, ma piuttosto lo spettacolo dell'individuo soggiogato dalla società,
dell'uomo ridotto a morto vivo, e soprattutto l'idea che il tribunale, come la sala
anatomica e gli archivi della questura, rivela certi segreti e certe vergogne, che
fuori di lì sono taciuti e nascosti."(Savinio, 1982, p.272).

Nel tema del processo, Clerici ci mostra il dramma, la sofferenza dell'essere


ibrido, incrocio fra bestia e uomo, il sentimento di colpevolezza e il
presentimento di una prossima accusa. L'opera racchiude, evocando la catastrofe
interiore del Minotauro, l'angoscia contemporanea, l'inquietudine odierna. E'
questo il messaggio significativo che Clerici vuole trasmettere e sul quale,
attraverso le allegorie della distruzione e della disperazione, si fonda gran parte
della sua arte. Il senso di precarietà che colpisce questo mondo condannato viene
ulteriormente esplicitato dalle rovine, da ciò che è incompiuto, "così che le
creazioni dell'uomo non hanno nemmeno avuto il tempo di giungere a forma
completa, chè una malattia della volontà ordinatrice e della volontà
organizzatrice ha gettato la sua maledizione sull'oggetto abbandonato."
(Brion,1955, p.51).

Allora l'edificio in rovina, questa sorta di Torre di Babele in legno, gremita di


esseri che la occupano, nel suo equilibrio è messa in serio pericolo visto che 
l'impalcatura di legno potrebbe sgretolarsi da un momento all'altro. E

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contemporaneamente gli sforzi umani sono inutili perché la distruzione ha avuto


inizio nel momento stesso in cui si è avviato il processo di costruzione.

"La mitologia clericiana traduce così, con tormentata fedeltà, questa stessa
inquietudine degli uomini d'oggi, ospiti indecisi e insoddisfatti di un universo di
cui dubitano la solidità, e fors'anche la realtà, e che si chiedono come ci si possa
dare l'illusione della coerenza e della robustezza del reale."(Ibid., p.56). Per tali
motivi, l'artista abita pienamente la contemporaneità.

 Brion prosegue muovendo dall'ipotesi che esistono tre vie d'evasione da questo
mondo disperato, fragile, oltre a quella che consiste nel trascendere questo
assurdo stesso dandogli forma corporea. La prima di queste strade è l'ironia, il
piacere preso all'assurdo, la scenografia dell'assurdo, affinché il mondo in cui
viviamo ci appaia divertente; quindi la fantasia, la stravaganza, la deliberata
incongruità.

Un'altra via consiste nell'abbandonarsi completamente e passivamente al sogno


per ammirare tutte le sue fantasmagorie.

Alla via della stravaganza e del miraggio si aggiunge in ultimo un amore


vivissimo, da parte di Clerici, per gli oggetti, i materiali, il gusto di sperimentare
ogni particolarità tattile delle sostanze, la curiosità per le vestigia megalitiche di
popoli remoti nel tempo. Di tutti i posti del mondo, l'artista sembra affascinato
da quei luoghi magici che riflettono l'ombra di antiche divinità, e che sollecitano
l'immaginazione.

La sua fervida fantasia lo porta a creare allora alcune composizioni di sapore


mitico come i labirintici templi dell'Uovo, utopistiche architetture spiraliformi
rinvenute in un paesaggio desertico da una ipotetica missione archeologica.

Tempio dell'Uovo al tramonto, 1971.

Hocke fa giustamente osservare che il motivo, ideato nella seconda metà degli
anni Cinquanta, rinvia, attraverso il prototipo mitico primario dell'uovo, a quel
movimento originario della vita, all'esperienza ancestrale.(Hocke, 1965, p.78).
Questi paesaggi onirici intendono ulteriormente sottolineare, nella vertiginosa
prospettiva, la predilezione nutrita da Clerici verso visioni di remota solitudine in
una dimensione senza tempo. I grandi templi dell'Uovo sembrano rivelare
insomma la profonda solitudine dell'umanità, si fanno simbolo dell'essere
labirintico del mondo.

"E' dalla nostalgica memoria dell'Oriente che è nato il recentissimo Tempio


dell'Uovo: multanime e ossessivo si dispiega ancor più quel sentimento di
solitudine nei vortici di un labirinto, dentro il quale viaggia l'anima di Clerici,
cercando la geometrica perfezione che sola può salvarlo dagli eccessi della
fantasia e ricondurlo all'immaginazione, (.)."(de Libero, 1956, p.179).

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Costruzioni dedaliche compaiono anche in un gruppo di opere più recenti che si


collocano negli anni Ottanta. Come la trama di un sogno Clerici concepisce
enigmatiche architetture che si estendono in spazi e orizzonti illimitati entro i
quali fa lievitare la propria immaginazione. Ci si sente attratti dalla lontananza,
dal vuoto e la sensazione di disorientamento è intensa.

  "E' stata la tela del ragno a


suggerire all'architetto dei
labirinti lo schema dei corridoi
e delle trappole, così che
l'artista, che avanza lungo
queste vie con le mani oberate
dai fili di Arianna l'operosa, si
lascia dietro le spalle la
sorpresa che gli riserva, al
termine della sua inquieta
passeggiata, la grandiosa festa dell'immaginazione."(Brion, 1955, p.47).

Il mito greco, tuttavia, non riaffiora solo come mera reminiscenza archeologico -
onirica ma diviene metafora visiva delle relazioni tra uomo e cosmo: "nel nostro
secolo è la più evidente e tortuosa rappresentazione simbolica dell'angoscia e del
dubbio."(Clerici, 1989, p.47).

Nella necessità della ripetizione, che diventa domanda primaria, Pollock


dispone il suo segno come eterno presente, configurando letteralmente
l'immagine del labirinto e dei suoi percorsi aggrovigliati.

I tratti che hanno caratterizzato la sua personalità, l'inquietudine, la ribellione, la


dipendenza dall'alcol, la sua stessa fine drammatica, ma anche l'interesse e
l'attrazione per le filosofie orientali e la psicologia junghiana, danno la misura
della sua impresa, fortemente calata in un labirinto senza via d'uscita. La
fascinazione per l'analisi junghiana insieme al misticismo, al simbolismo
esoterico e alla mitologia, lo spinge alla ricerca di archetipi, di geroglifici
alchemici, di forme primarie, simboliche saldamente legate all'inconscio
collettivo. Questa possibilità creativa di accedere all'inconscio è esplicitata dai
titoli stessi delle sue opere - La donna lunare (1942), Maschio e femmina (1942),
La lupa (1943), Ricerca di un simbolo (1943), La donna lunare spezza il cerchio
(1943), Custodi del segreto (1943) - che celebrano, nella libertà dell'animo e del
gesto, una co - incidenza fra immaginario e simbolico. Ma un unico dipinto
richiama in modo diretto il mito del labirinto ed è intitolato Pasifae (1943). Con
l'opera, il cui titolo originario era Moby Dick, Pollock mette in scena una
complessa e poetica pittura dedicata al mare - il mare profondo dell'essere - che
non è altro se non un labirinto nel quale il mostro - balena viene inseguito e
arpionato.

Negli anni seguenti, a partire dal 1947, la superficie della tela si fa sempre più
grande così da consentirgli una maggiore libertà espressiva. Adottando la tecnica
del dripping l'automatismo psichico dei surrealisti viene elevato da Pollock alla
sua massima potenza, per di più si possono cogliere gli aspetti rituali della danza,
una sorta di danza onirica che l'artista compie attorno alla tela e che richiama alla
mente, nel suo farsi, un rito alchemico. Nell'immagine che ne risulta non vi è
centro né direzione, è una sorta di enorme ragnatela di trame e segni pittorici, un
universo caotico, labirintico cui non è possibile porre alcun ordine razionale.

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  In più occasioni, infatti, Pollock definirà la tela come la sua arena in cui, nel
libero flusso dell'anima, si sfoga la reazione violenta dell'artista. Ora, non sono
più i titoli a rivelare, ad alludere. Il labirinto, che si estende in un groviglio
arrovellato di segni, è reale, concreto. In questa giungla "la strada del ritorno è
infatti persa per sempre, l'uscita non esiste più perché in realtà nel labirinto ci si
è da sempre, gettati fin dall'inizio." Nemmeno il filo di Arianna può più sbrogliare
la matassa, anzi, esso stesso è "ormai perso tra le mille linee."(Grazioli, 1981,
p.123).

Ma la tela può contenere anche un intrico di segni, spesso di straordinaria


semplicità come nel caso di Capogrossi.

La sua opera nasce dalle infinite possibilità di ripetere costantemente sullo spazio
della tela un unico segno, in un gioco fra timbri e superfici. La matrice del quadro
è dunque semplice, un'eco che non ripete che se stessa. Eppure le sue opere non
hanno nulla di seriale poiché, pur partendo da un modulo fisso, lo stesso ha la
capacità di modificarsi continuamente.

Questo tridente di matrice arcaica, che dal 1950 sarà la cifra riconoscibile e
indelebile dell'arte di Capogrossi fino alla sua morte, organizza, nella sua
ossessiva reiterazione, un alfabeto misterioso in grado di costruire una nuova
struttura del linguaggio pittorico. Come una struttura molecolare, questa
crittografia di segni primordiali rimanda ad un codice genetico segreto, alle sue
possibilità di accedere ed esprimere il pensiero dell'interiorità, l'essenza più
intima del pittore, in una continua dialettica tra uno e molteplice, ordine e
disordine.

 Come si è detto, questa tessitura linguistica è però impossibile da decodificare,


nell'equivalenza di ogni sintagma si attua un apparente annullamento di senso,
l'informazione o il significato vengono sospesi: "la cifra disposta sulla tela è un
mitoma, un'unità segnica tracciata dall'artista senza assolvere alla spiegazione
del significato, perché l'unico significato è stato l'atto del tracciare, come atto
dell'esistere."(Bonito Oliva, 1981, p.21).

Gli ideogrammi non sono mai integrati in una dimensione tridimensionale, essi
stessi sono i segnali di uno spazio costruito non più sulle leggi prospettiche, il che
rende il tutto ancor più enigmatico. E' uno spazio privo di sfondo e di entralità
nel quale si intravedono suggestivi percorsi labirintici sempre differenti a se
stessi, una visione capace di suggestionare che ci conduce nella dimensione del
mito facendoci intravedere l'ambivalenza dell'essere, mai colto in maniera
univoca.

L'inclinazione alla riduzione dei mezzi espressivi ad essenziali forme geometriche


solide è il presupposto dal quale si sviluppa l'attività artistica di Robert Morris,
autore, a partire dalla metà degli anni Sessanta, di strutture che sfruttano forme
geometriche elementari e primarie allo scopo di creare opere pure, il cui valore è
dato dalle relazioni che le varie parti hanno tra loro escludendo tutti gli aspetti
simbolici o interpretativi dell'esperienza estetica. L'attenzione si doveva spostare
all'esterno, ovvero alle caratteristiche e alle qualità reali, dello spazio, della
plasticità, che insieme concorrono a sancire la nozione unitaria dell'opera.

Le grandi Strutture primarie che Morris elabora sono dei grandi poliedri
realizzati con materiali industriali, semilavorati e prefabbricati in metallo e
compensato disposti secondo varie inclinazioni. Queste opere, prive di elementi
connotativi, elementari nella forma e nel colore si impongono nello spazio
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contraendo e dilatando l'ambiente in cui sono collocate inoltre la tipologia


d'installazione delle strutture offre la possibilità per lo spettatore di divenire
elemento attivo nella sua percezione spaziale. Il fruitore instaura con l'opera
intorno alla quale si muove un rapporto di osservazione che non è di tipo
contemplativo. La condizione di movimento, di circolazione costringe lo sguardo
alla ricerca di punti fissi, scardinati dal sistema di relazioni dei materiali
installati. Ciò consente di intraprendere un vero e proprio percorso labirintico.

In effetti, il labirinto in rete metallica realizzato nel 1968 è il risultato di tali


elaborazioni, sostenute dalle caratteristiche di consistenza, di trasparenza, di
piegabilità dello stesso materiale utilizzato. "I corridoi sono formati
dall'allineamento variamente sfalsato di lunghe strisce di rete piegata a greca. (.)
lo spettatore si trovava a muoversi tra inequivocabili barriere e in una situazione
percettiva sempre variabile, che andava dalla trasparenza fino - con la
sovrapposizione di più strati, quindi di più filtri visivi - alla diminuzione,
confusione o addirittura impedimento della visibilità."(Ferrari, 1981, p.106).

Nel corso degli anni Settanta, portando avanti la sua indagine concernente le
relazioni esistenti tra scultura ed architettura tradizionalmente concepite, egli
realizzò una serie di disegni e di proposte di labirinti, "una forma che lo
interessava grazie alla sua dimensione mitica ed al suo uso del senso della
repressione e del controllo."(Krens, 1984, p.16). La peculiarità del suo
Philadelphia Labyrinth nasceva dal fatto che in esso vi era un unico sentiero che
dal perimetro conduceva al centro. Al progetto Morris aveva attinto rifacendosi al
disegno del labirinto pavimentale presente nella navata principale della
Cattedrale di Chartres. Il Philadelphia Labyrinth, una versione modificata del
disegno originale di Morris, fu costruito ed installato nel 1974 presso l'Institute of
Contemporary Art di Philadelphia, come parte di una mostra intitolata "I progetti
di Robert Morris". Questo dedalo circolare, concepito in compensato e masonite
dipinti in grigio, ha un diametro di nove metri, le pareti sono alte due metri e
mezzo e per raggiungere il centro è necessario percorrere il medesimo tragitto
che si snoda lungo un sinuoso passaggio di centocinquanta metri, senza
possibilità di scelta.

Philadelphia  Labyrinth, 1974.

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Labirinto, 1982.

Più recente è il labirinto che l'artista crea per il parco di Celle, vicino Pistoia,
quando, nel 1982 vengono inaugurati gli "spazi d'arte": sessanta installazioni di
arte ambientale che costituiscono una collezione molto prestigiosa. Le opere sono
state concepite e realizzate all'aperto e fra gli artisti figura appunto Morris il
quale ha realizzato un labirinto a forma di triangolo equilatero rivestito a fasce
alterne di marmo bianco e verde, naturale riferimento all'architettura delle chiese
romaniche toscane. Il sito è caratterizzato da un piccolo prato in pendenza al
centro del quale si estende l'opera. Il disegno del labirinto si può distinguere solo
salendo su un piccolo pulpito predisposto per questa funzione poiché stando
all'interno si perde ogni forma d'orientamento. L'opera, che si colloca in un
contesto che è automaticamente rivolto alla
fruizione pubblica, è dotata di un varco stretto
ottanta centimetri e introduce il visitatore in
un corridoio formato da pareti alte due metri;
avanzando lungo un unico cammino
percorribile si avverte il disagio per quelle
righe che, prima così comprensibili, si
deformano lungo il pendio creando forti
illusioni ottiche e una sorta di vertigine. Il
risultato è un labirinto che sfida la percezione
e l'orientamento.

Di fatto Morris ha posto la sua l'attenzione a come viviamo e ci muoviamo nello


spazio, spazio che egli non vede come mezzo neutro ma che invece desidera
rendere problematico, interrogativo. Una delle sue preoccupazioni primarie è
stata, in effetti, il rapporto forte fra oggetto e spazio. Questo legame ha generato
molto rapidamente una sorta di movimento che sottintende le sue installazioni,
stimolando un'esercitazione nella percezione e nel comportamento del visitatore.
Accentuare le proprietà fisiche dell'opera è, per questo artista versatile, molto più
importante del relativo effetto ottico ed estetico che il lavoro comporta.

Alleviata da questo ruolo simbolico, svincolata dalla base tradizionale ed


introdotta nello spazio reale dello spettatore, la scultura ha intrapreso un nuovo
rapporto con esso. L'iterazione intellettuale e viscerale con l'installazione
consente per il visitatore che si muove attorno ad essa di intraprendere una vera
e propria esperienza fenomenologica, cruciale al relativo significato dell'opera.
Corpo, oggetto, spazio: questi tre elementi secondo Morris devono convergere.

Il lavoro di Mario Merz, uno degli esponenti di maggior spicco dell'Arte Povera,
intende realizzare, mediante l'associazione di vari materiali, opere che siano

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contemporaneamente strutture di espansione fisica e mentale. Merz svolge un


ruolo emblematico attraverso la sua profonda ricerca sulle leggi del mondo
naturale, che lo porta a ribellarsi contro l'ordine costruito che l'uomo ha cercato
di imporre. Il mondo organico diviene territorio da cui attingere nuove forme
estetiche già costituite, per ritrovare l'esperienza originale dell'arte e quindi il
massimo di libertà. Questo coincide con la ricerca di forme o immagini
universali, favorendo le forme aperte e in espansione. Nel suo lavoro "il labirinto
non può essere un sito concluso"(Ferrari, 1981, p.93) e la spirale è la forma che
privilegia e segnala il senso di un accrescimento legato al ritmo biologico della
natura.

Nel 1968, anno di profonda critica sociale e politica, l'artista indaga sulla
struttura dell'igloo e propone il primo esemplare di una lunga serie: una
semisfera, una costruzione archetipa, primaria, nata dallo sviluppo in tre
dimensioni di una spirale. In questa forma, che rappresenta il prototipo di un
habitat originale e primordiale, Merz riconosce l'energia strutturale della natura.
L'igloo, concepito negli anni con materiali diversi - vetro, legno, lastre di pietra,
tele di juta, neon ecc. - è assunto come simbolo del luogo ideale, rappresentativo
dell'anima dell'artista ed è dominato energicamente dalla spirale, che trova nello
spazio curvo un possibile centro; "nel senso che non è il punto statico e
privilegiato di una forma circolare chiusa perfettamente in se stessa, ma soltanto
il punto di partenza che presiede l'inevitabile espansione, il movimento di un
labirinto che apre i suoi cerchi sempre più ampi e capienti."(Bonito Oliva, 1981,
p.23). L'opera riunisce in sè una serie di riflessioni che Merz svilupperà in
seguito: dal 1970, infatti, egli applica al suo lavoro la legge della proliferazione
numerica, nota come serie di Fibonacci, formulata agli inizi del 1200 dal monaco
matematico Leonardo Pisano, in cui ogni cifra è la somma dei due numeri
precedenti. Questa legge numerica viene assorbita nell'opera di Merz come
rappresentazione dell'evoluzione progressiva del mondo organico, nella sua
traduzione in sistema aritmetico: ad esempio lo stelo di un albero che si ramifica
in due e in seguito in tre, in cinque, in otto ramificazioni e così via, fino a
descrivere una linea elicoidale, riconoscibile anche sui dorsi delle chiocciole.

Il merito dell'artista consiste proprio nell'aver prodotto una figura concettuale,


in cui il numero diventa forma attraverso la spirale, un simbolo che ci permette di
costruire un modello mentale dello straordinario flusso evolutivo presente in
natura. L'opera di Merz, frutto di incessanti proliferazioni è indubbiamente un
cosmo, un mondo senza confini e senza tempo, è la vertigine dell'arte
perfettamente espressa dall'immagine della spirale e della serie numerica di
Fibonacci.

Quello del labirinto è uno dei temi che più entusiasmano Jannis Kounellis,
rappresentante indiscusso dell'Arte Povera negli anni Sessanta che ha focalizzato
nella sua esperienza artistica il territorio idoneo e fertile sul quale poter indagare
temi quali lo spazio, il valore intrinseco delle cose, e anche oggi capace di
suscitare intense emozioni  con opere come Atto Unico, un lavoro che non
consente repliche: un imponente labirinto di mille metri quadri che invade
prepotentemente l'intero piano terreno della Galleria Nazionale d'Arte Moderna
di Roma.

Anche a Parigi ha realizzato un labirinto per una mostra alla Galerie Lelong e
questa è l'ultima grande installazione che, nel maggio di quest'anno, ha celebrato
gli oltre quarant'anni di attività dell'artista greco - italiano.

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 L'entrata nel labirinto è allo stesso tempo la sua uscita. Perciò, il viaggio a cui è
invitato lo spettatore, è un percorso che si snoda in uno spazio diviso e
frammentato, che lo porta ad un centro, da cui poi è obbligato a tornare indietro
intraprendendo lo stesso cammino.

Atto Unico, 2002.

La monumentale struttura, capace di riassumere e contenere il lavoro degli ultimi


anni di Kounellis, si compone di 143 moduli di ferro che ne costituiscono la
grande muraglia. Ogni modulo è alto quasi due metri e mezzo ed è riempito
interamente da un materiale a lui caro, il carbone. Le pareti variano in un
cromatismo modulato sui toni del marrone, del blu e del grigio e, al sommo di tali
monoliti, lungo tutti i corridoi si scorgono gli accumuli di carbone.

Ogni tanto il visitatore è premiato dall'incontro inatteso con opere storiche


dell'artista: subito si incontra una branda da campo, sacchi di juta cuciti o ricolmi
di carbone, ammassati, ganci da macellaio, una lampada ad olio, e poi caffè in
piccoli mucchi su un sistema di mensoline metalliche, che irrompe con un forte
odore: materie ruvide, grezze, polverose. E intanto il percorso prosegue in un
ambiente avvolgente, plumbeo, enigmatico. Lo spettatore vaga lungo gli spazi
della memoria che si restringono, si allargano, lungo corridoi serrati o
improvvisamente sbarrati. Addentrarsi in quest'opera ha un che di inquietante.

E' facile intuire che il labirinto, per Kounellis, è il paradigma del viaggio, un tema
fondamentale nel suo lavoro sin dall'inizio. E' del 1969 appunto Il viaggio, una
delle sue opere più celebri. Come il sacco e la nave, il labirinto appartiene al
territorio "dove ha regnato la Magna Mater", un contenitore protettivo che ha
una diretta relazione con il grembo materno, in cui l'uomo trova rifugio. Quello di
Kounellis è un viaggio nei tortuosi percorsi dell'interiorità, cercando di
avvicinarsi sempre di più al centro: "la centralità è quel profondo pozzo da qui
uno prende il perché di un percorso"(Kounellis, 1990, p.11). Il suo labirinto
sembra indagare i meandri della coscienza individuale in un viaggio tutto
mentale, linguistico che, secondo Briganti, è da intendersi come Ritorno.

"Ma non come ritorno alle origini oscure, organiche, istintuali della vita, non
come viaggio verso l'abisso del profondo, dell'indistinto ma come ritorno verso la
luce della coscienza reintegrata, verso la perduta misura, l'unità, la totalità
dell'uomo. E' questo il tema centrale di Kounellis, il movente del suo particolare
sentimento del Ritorno."(Briganti, 1990, p.181). C'è, da parte di Kounellis, la
consapevolezza di una totalità dispersa e il dramma della frammentazione.
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Da qui nasce l'urgenza di fondare, mediante la creazione del labirinto, un sistema


d'ordine linguistico da opporre al caos crescente della civiltà urbana e della sua
cultura massificante. "Non esiste scelta di frammento senza una volontà; niente è
casuale; nell'espugnare il labirinto appena fai un gesto casuale sei perduto.
Bisogna arrivare al centro.
Nessuna scorciatoia risolve il
problema, il viaggio all'interno
del labirinto deve essere reale fino
al cuore del problema e questo ti
dà anche la misura del tuo
destino."(Kounellis, 1993, p.16).
Ogni traccia disseminata nella
peripezia labirintica viene
riconosciuta, ritrovata, e sollecita
un nuovo passaggio: "le cose
incontrate e ritenute significative vengono ri - presentate in una complicazione
drammatica e il gesto è ripetuto mille volte"(Corà, 1993, p.16), nell'intento di
ricomporre i frammenti di un'unità perduta per riconquistare il centro, "unica
polarità liberatrice che coniuga la meta all'origine."(Ibid., p.21). Ecco quindi il
perché di un "ritmo ripetuto mille volte nei quadri di Pollock e la sua cosmicità:
mobilità dunque fino a che c'è una mossa che mi porti vicino agli antichi"
(Kounellis, 1993, p.16).

Nella peregrinazione dell'artista, Briganti individua un itinerario in parallela


continuità con la storia, intesa come realtà dominante. In tale prospettiva, anche
il forte sentimento e richiamo al primitivo, o al primario, che si coglie da tante
sue opere, si colloca in questa direzione.(Briganti, 1990, p.184).

Anche nella ricerca di Vettor Pisani il labirinto è assunto ad emblema


intellettuale. Lo spazio dell'opera d'arte è, per l'artista, la piattaforma sulla quale
l'enigma dell'esistenza può venire svelato, punto di arrivo di un procedere
artistico - iniziatico che conduce alla verità, alla conoscenza, ma non banale ed
ovvia di una realtà scontata, bensì indicibile, occulta a cui è possibile giungere
con formule esoteriche. La sua arte è dunque caratterizzata da richiami
all'esoterismo, alla simbologia dei Rosacroce e della Massoneria. Il Rosacroce
Theatrum è il primo momento di una ricerca che Pisani elaborerà nel corso degli
anni Ottanta, incentrata sul tema del teatro inteso come luogo iniziatico e come
metafora, dove convergono archetipi dell'immaginario collettivo, rimandi
simbolici e mitologici.

Questo luogo paradigmatico, costituito dalle opere di Pisani, "è architettura sacra
e al tempo stesso labirinto, flusso e misura, caos e ordine, tenebra e luce solare."
(Cherubini, 1981, p.114).

L'attenzione dell'artista si è sovente concentrata sui riferimenti simbolici presenti


nel mito di Edipo e della Sfinge. L'enigma della Sfinge è metafora del labirinto;
l'accecamento di Edipo per aver troppo visto, per aver realizzato "l'aspirazione
dell'inconscio collettivo al regressus in uterum, compatibile con l'illusione
dell'eternità per non esservi coscienza del tempo"(Bonicatti, 1977, p.46), è il
passaggio dalla luce alle tenebre e viceversa. La stessa Sfinge allude alla madre;
da Gea, infatti, nasce Echidna e da questa la Sfinge, terribile animale derivato
dalla madre.

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Il tema del regressus in


uterum ci conduce ancora al
tema del labirinto. In
un'opera, una struttura di
metallo e specchio montata
a croce può essere smontata
e rovesciata nel suo
contrario formando una
sorta di H, immagine di un
labirinto che ci confonde -
anche grazie agli inganni
degli specchi - mentre la croce ci orientava. In un altro lavoro, Pisani rende
omaggio all'architetto Dedalo che oltre ad essere l'artefice del labirinto fu anche
l'inventore della doppia ascia, il simbolo posto sul labirinto di Cnosso. Pisani
realizza la scure bipenne con due asce fissate alla parete che si sostengono a
vicenda. Il risultato dell'operazione non è privo di ironia. E l'ironia, il gioco, sono
gli strumenti attraverso i quali Pisani si abbandona alla ritualità magica.

L'artista "vede nel labirinto un analogon del reale, secondo una cultura ermetica
ed esoterica" pertinente anche ai tre artisti ai quali dedica la propria opera e che
diventano i suoi interlocutori virtuali - Duchamp, Klein, Beuys - in quanto
formano con lui "un sistema basato sull'ermetico numero 4."(Cherubini, 1981,
p.114.). Il suo lavoro consiste nell'appropriarsi di elementi desunti da altri artisti
e dalla storia dell'arte, reinventandoli.

La citazione è assunta da Pisani come canale di ricerca privilegiato che agisce sul
linguaggio. Un itinerario che svolge la propria funzione percorrendo i passaggi
vertiginosi di un labirinto simbolico, immaginifico.

Il lavoro di Claudio Parmiggiani, che può essere considerata una delle figure
centrali del movimento postmoderno a partire dagli anni Sessanta, occupa "il
nodo di confluenza e di scambio in cui vengono oggi a muoversi l'ormai
consolidata riappropriazione di tutta la storia dell'arte, o meglio della totalità, e la
recente e non meno diffusa ripresa dell'esercizio della metafora."(Trini, 1985,
p.76).

Anch'egli mette in atto una fenomenologia della visione in cui vi sono chiari
riferimenti alla cultura ermetica - esoterica. La natura del rapporto tra l'artista e
l'alchimia fonda il suo principio sul desiderio, attraverso l'archetipicità dell'opera,
"di trasformare l'individuo per ricreare il mondo a misura dei propri sogni."
(Schwarz, 1985, p.152).

E' una ricerca che induce nell'osservatore un atteggiamento di profonda


riflessione: l'opera vuole essere rivelazione, illuminazione, e in quanto tale
presuppone l'unità del tutto. Calvesi sottolinea come Parmiggiani valuti da artista
"soprattutto le strutture interne, e nel chiuso di questo protettivo interno, così
simile ad un ideale grembo materno, è conseguente che i valori costanti
assurgano a suggestiva immagine di una essenzialità metastorica, convergendo
nel circolo dell'Identità assoluta."(Calvesi, 1985, p.106). La complessità della sua
arte deriva da una materia espressiva che assume in sé una forte concentrazione
di significati, fermentando dalla sede concettuale (l'idea) a quella spaziale (la
pittura). L'opera assurge dunque a itinerario mentale e Parmiggiani "è tra gli
artisti contemporanei uno dei più decisi alle partenze, uno dei più pronti a

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doppiare la funzione di costruttore


di forme in quella di viaggiatore
mentale."(Diacono, 1978, p.3).

La sua opera, tuttavia, è l'immagine


plastica e astratta di un pensiero, di
una figura mentale che non dà
immediatamente un responso, che
"non traduce subito la propria
presenza in risposta."(Fossati, 1985,
p.73). Essa mostra "ciò che ogni cosa
virtualmente è: un enigma."
(Guidieri, 1985, p.92).

Al mistero e al silenzio
corrispondente è però sottesa la
possibilità di svelamento
dell'ineffabile attraverso "quel
sospetto che nell'occhio si carica di
una puntigliosa quantità di
riferimenti, di addizioni e sottrazioni, di spessori e densità."(Fossati, 1985, p.73).
E' come entrare in un labirinto di continui rimandi, contraddizioni, e conferire
loro un assetto ordinato.

Ecco allora l'emblematico lavoro denominato Daedalus (1977) collocarsi in quel


progetto nel quale l'idea si fa tangibile, reale, ed il mito la possibilità di una
pratica quotidiana. Si tratta di una porta in legno sopra la quale sono tracciati
due labirinti in rilievo. Ai piedi della porta, simbolo di una soglia da varcare al
fine di superare la prova del labirinto, la messa in posa di una grossa sfera, di
marmo nera. E' come se all'ordine disorientante del labirinto fosse "da poco
uscita la perfezione opaca della sfera", la ricomposizione di una totalità perduta,
autentica: "immagino che dalla caverna e dal caos si sia appena formato il cosmo,
con un evento che ha sì un'aria tragica, ma è anche un gioco, una probabilità, un
divertimento d'abilità."(Trini, 1985, p.79).

In ultima analisi c'è chi, come Schwarz, vede nella porta anche l'allegoria della
solitudine dell'artista in generale e qui in particolare quella di Parmiggiani che ha
sempre vissuto appartato. Solitudine che rimanderebbe a quella distanza tra
l'artista e la società.

  La porta, che non è né aperta né chiusa, "ha anche un valore simbolico


androgino, così come ce l'hanno tutti gli altri elementi della composizione. Il
labirinto superiore rimanda al principio maschile uranico, ma l'apertura per
raggiungere il cuore è situata in basso, come a dire che la via per arrivare passa
dal principio ctonio femminile. Identica situazione, ma ovviamente rovesciata,
nel labirinto inferiore, dove l'apertura è situata in alto. La sfera sta per la
perfezione della totalità androgina, e, nella tradizione alchemica, per la Pietra
filosofica, il Rebis. Coerentemente con il suo valore simbolico, e dato che la Pietra
è raggiungibile uscendo dal labirinto, la sfera qui è posta proprio davanti e fuori
dei due labirinti, mentre nell'iconografia esoterica tradizionale la sfera (o più
frequentemente l'albero, il cui simbolismo si sovrappone a quello della sfera) è
situata nel cuore del labirinto. Questo allontanamento dall'iconografia
tradizionale", prosegue Schwarz, "ci permette di verificare come Parmiggiani,

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anche se si accosta a un tema archetipo, riesca a reinventare il mito."(Schwarz,


1985, pp.154-155).

Con Duccio Berti la pittura si fa


autenticamente labirintica. Nel senso
che egli "coltiva una pittura del
labirinto", ovvero l'occasione propizia
di "una perdita effettuata attraverso la
pratica pittorica, la pulsione di una
manualità che perde volutamente la
decisione progettuale.

Dipingere significa accrescere la


distanza dal centro, praticare un
distanziamento dalla perversa
vertigine del logocentrismo."(Bonito
Oliva, 1981, p.24).

Alla luce di questi enunciati sembra esordire una prima opera intitolata
Confusione senza disegno ai margini della pittura (1976), dove l'immagine del
labirinto è esibita come viaggio estraniante. Nelle sue opere la rappresentazione
labirintica oltrepassa i confini del puro intento visuale, per eccedere alla
conoscenza dell'ignoto, che distingue anche l'interno lavoro della pittura, a cui
solo l'artista non è estraneo. Per Duccio Berti il labirinto è proprio il luogo
dell'arte: l'ambito che gli permette di praticare la fantasia, il mistero, la perdita
d'orientamento. "Qui sono disseminate non evidenze lampanti, bensì tracce,
sconnessioni e tagli, che costituiscono le falle della seduzione, i punti di
inabissamento che portano l'occhio dentro i giardini vertiginosi del labirinto."
(Ibid.). La pittura diventa, così, l'ambito di un disputa dello sguardo e dell'eterno
smarrimento.

A chiusura di questa indagine, che


ha messo in evidenza come nel
labirinto si possa ravvisare la
struttura portante del pensiero
moderno, vorrei menzionare il
labirinto, intitolato Arianna
(1990), dello scultore Italo
Lanfredini: un grande progetto
scultoreo - architettonico dallo
sviluppo a spirale, edificato in
cima ad una collina nei pressi di Messina.

Il cammino nel labirinto si svolge per un chilometro su mille e trecento metri


quadri di estensione, tra alte pareti. E' un'opera concepita come oggetto
praticabile, poiché si porge all'uso e all'esplorazione fisica, ma invita anche ad
una ricerca interiore stimolando i percorsi sotterranei di memorie profonde e
primigenie.

E per concludere, il labirinto in rete metallica (1978) di Richard Fleischner e il


modello plastico di un labirinto unicursale (1969) di John Willenbecher, al cui
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Labirinto, 1978.

Labirinto, 1969.

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