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di Manuela Ronco
Sin dall'epoca in cui è nata la saga legata ai miti di Dedalo, di Teseo, di Arianna e
del Minotauro nella leggendaria Creta del re Minosse, questa immagine è stata
fonte di numerosissime citazioni letterarie e poetiche, nonché protagonista di
una vastissima iconografia che, iniziando dal periodo preistorico (dal Neolitico),
giunge fino al mondo contemporaneo.
La storia del labirinto è testimone di una notorietà che non è certamente dovuta
al caso. In effetti, la forza primigenia profondamente radicata in sé ha permesso a
questo segno iconografico di significare un'idea archetipa universale e assoluta. Il
labirinto evidenzia cioè, nella sua stessa forma figurale, quell'itinerario mentale
che ha accompagnato l'uomo nella storia e nel suo tortuoso cammino di
conoscenza.
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Se per vari aspetti il labirinto prefigura ancora un enigma dal punto di vista
strettamente etimologico, tentiamo ora un approccio relativo al suo percorso e
avvicendamento nella storia.
E' plausibile prendere l'avvio dall'ipotesi che la figura del labirinto sia stata
formulata da un'unica cultura che si sarebbe poi diffusa, durante il suo periodo di
massimo splendore, attraverso un'intensa rete di migrazioni e influssi culturali.
E' nell'area del bacino mediterraneo che si trova la maggior parte dei labirinti
antichi, ovvero nella Creta minoica del II millennio a.C. e forse già nel III. Le
documentazioni storiche non permettono di risalire a epoche più remote, al
massimo al Neolitico. La provenienza mediterranea e più specificatamente
cretese di questo antico simbolo sembra ormai accertata.
Nella sfera culturale della Grecia classica il labirinto era concepito come
planimetria o tracciato di un edificio (a forma quadrangolare), ma era
soprattutto il risultato dell'opera ingegnosa e straordinaria dell'architetto
Dedalo. Il percorso al suo interno diventa la materializzazione di una prova
iniziatica traducibile come viaggio che conduce al centro , ovvero al luogo sacro
per eccellenza che esprime la speranza di una rinascita.
Il Medioevo incarna la seconda delle tre grandi epoche di fioritura del labirinto,
in particolare fra il XII e il XIV secolo. La struttura mentale dell'epoca era
indirizzata verso una nuova interpretazione religiosa ma anche magica, accanto
all'amore per l'allegoria. Dai mosaici delle cattedrali ai manoscritti miniati queste
componenti confluiscono.
Dopo la trionfale esplosione labirintica del '600 - '700, l'interesse per il simbolo
decade rapidamente, retrocede pressoché in tutte le sue molteplici espressioni.
L'Ottocento fu, nel suo complesso, un secolo manifestatamente antilabirintico.
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Significativi fatti sociali, quali l'avvento al potere della nuova classe borghese e
l'esordio della civiltà industriale, stabilirono un mutamento della moda e del
gusto. In effetti, l'epoca, palesemente intrisa di positivismo e pragmatismo non
poteva che provare indifferenza e aperto disprezzo per un tema tacciato di
frivolezza e ambiguità.
La rivoluzione einsteiana, in seguito alla quale tempi e spazi non appaiono più
continui e uniformi come il senso comune era abituato a percepirli, ha aperto la
via ad un inedito modo di intendere la realtà. Altrettanto dicasi per Freud che,
realizzando la scoperta dell'inconscio ha denudato i mondi infiniti che esistono
dentro ciascuno di noi, complementari agli "infiniti spazi" dell'universo fuori di
noi.
L'alba del '900 ha annunciato ed inaugurato la fine della tradizione dei linguaggi
e, per tutti, si è materializzato il desiderio di liberarsi da qualsiasi centro
gravitazionale. E' come se all'ordine cartesiano che aveva caratterizzato fino a
quel momento la ragione occidentale si avvicendasse un disordine labirintico che
si rivelerà estremamente stimolante e fecondo dal punto di vista artistico.
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Una delle strade maestre percorse dalla ricerca avanguardistica comporterà, così,
il passaggio dal quadro inteso come finestra - quale spazio di imitazione della
realtà, fondato su un angolo di visione unico risalente al Rinascimento - a una
sua considerazione quale problema specificatamente pittorico.
"Il Minotauro è la mostruosità del linguaggio, la sua diversità rispetto alla lingua
comune. L'opera d'arte, il compimento dell'opera, dell'impresa da parte di Teseo
richiede l'abbattimento del mostro, la morte del nucleo del linguaggio. L'impresa
dell'eroe parte dunque dall'affermazione della morte e continua a dipanarsi
attraverso il filo d'Arianna. Il lutto è il tentativo di ricreare l'oggetto perduto,
l'organica dualità del linguaggio, il luogo abitato dalla Bestia. L'amata bestia, il
segno lampante di una mostruosità da affrontare, abbattere per poi averne
nostalgia."(Ibid., p.11).
L'artista è calato e abita di diritto la realtà del linguaggio; egli è il solo a possedere
l'astuzia e la tecnica necessarie per attraversare e sfidare tutti i suoi percorsi. Nel
gioco della caverna "non esiste la sicurezza della vittoria ma la necessità di
affrontare la prova, spinto da una pulsione che non consente deroghe od inganni,
pena la perdizione e la caduta fuori dall'esemplarità dell'opera d'arte."(Ibid.). In
questo luogo, che potremmo definire come silenzio imparziale, Teseo affronta
nel soliloquio iniziatico la vertigine della sfida, sollecitato da una missione da
portare a compimento. Questo impegno è assunto dall'artista e viene praticato
continuamente nel corso dell'opera al fine di giungere al centro, di accedere
all'ambiguità dell'inconscio.
Eloquente mi appare il concetto secondo il quale "il lavoro artistico deve avvenire
nella necessità di uno stato catacombale e clandestino, fuori dalla portata di tutti,
fuori dallo sguardo degli altri."(Ibid.).
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Nel labirinto l'artista non ha bisogno dello sguardo del mondo, l'oscurità non è
più assenza di luce bensì qualcosa di più tangibile, quasi palpabile, è una
continua sperimentazione, è consapevolezza, svelamento, è insomma la "verità
irresistibile" dell'arte. In questa condizione, l'opera che l'artista contemporaneo
crea è essa stessa un labirinto e, per analogia, costituisce l'irrazionale della
ragione, lo scarto che mette a nudo la verità delle cose.
L'opera d'arte vuole agire più che sulla superficie delle cose, sulla "sostanza
biologica" che le regge, pronta ad allargare il proprio influsso sviluppando una
tensione all'interrogare che diviene, per l'artista, una sorta di procedimento perpetuo,
nel tentativo di formulare una risposta alla domanda primaria.
In sintonia con questa dialettica, Balla sviluppa i suoi labirinti astratti attraverso
gli studi sulla luce - colore, che diventa la concreta protagonista dell'opera.
L'immagine sorge e prolifica dalla scomposizione della luce per schemi
geometrici. Il triangolo è, ad esempio, l'elemento generatore, presente in forma di
virgole acuminate, sprigionante dalla Lampada ad arco e, in modo particolare,
nelle architetture delle Compenetrazioni iridescenti. Ebbene, questa soluzione
formale, unitamente ai motivi del cerchio e della spirale, cui Balla sovente
ricorre, "nelle scienze occulte hanno funzione di forme simboliche vicine, o
equivalenti, a quella del labirinto."(Verzotti, 1981, p.59). La critica,[2] peraltro,
non ha mai escluso, anzi, ritiene plausibile l'eventualità di un interesse
spiritualista, teosofico, sotteso alla produzione dell'autore; in tal modo,
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Per quanto riguarda le figure del cerchio e della spirale, esse compaiono in opere
relative allo studio sulla velocità come nell'Automobile in corsa (1913), o tra i
guizzi delle rondini in Linee andamentali (1913). Gli stessi motivi servono a
rappresentare la meccanica dei cieli. In Mercurio passa davanti al sole (1914),
Balla introduce il tema dei fenomeni astronomici, suggerendo anche qui la
compenetrazione e il dinamismo delle forme geometriche. Una ricerca
compositiva, questa, che preannuncia l'immagine del labirinto. Va infatti notato
che la configurazione dell'archetipo evolve verosimilmente proprio dalla spirale e
dal cerchio, come giustamente spiega Santarcangeli, in quanto "con una leggera
modificazione di cerchi concentrici, si può trasformare la loro serie in un
labirinto di tipo cnossiano."(Santarcangeli, 2000, p.126).
Anche l'itinerario estetico di Klee incarna questa possibilità. Lungo tutto il suo
fare artistico il pittore appare proteso a reinventare il mondo, a rendere visibile, a
rivelare quanto di occulto e misterioso è racchiuso in esso. Klee è stato
certamente, dichiara Argan, il primo artista che si sia inoltrato in quella
sconfinata regione dell'inconscio che Freud e Yung avevano da poco scoperto. A
questo proposito "l'operazione artistica, per Klee, è simile a quella del ricercatore
che, ricorrendo a certi mezzi tecnici, rende visibili i microrganismi che
certamente ci sono, ma non sarebbero altrimenti visibili. Klee opera sui
microrganismi che popolano le regioni profonde della memoria inconscia (.)."
(Argan, 1970, p.299).
L'artista, dunque, è uno scienziato che, sulla scorta della propria sensibilità e
capacità intuitiva, giunge a rivelare celate relazioni e a tradurle in immagini.
Immagini che prendono la forma di architetture, di città immaginarie, labirinti,
al cui interno approdano alla luce e si dipanano elementi organici, simboli,
ideogrammi. Un mondo disseminato e disorientato, dunque, che dichiara un
desiderio imperioso di libertà. Così sembrano suggerire tre tele del 1939 dal titolo
Labirinto distrutto, Paesaggio labirintico, Parco labirintico.
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Occorre avere coscienza delle proprie capacità ma anche dei propri limiti,
lavorare d'introspezione; il che, implica un necessario distacco, utile a elaborare
la soluzione più corretta. E' questo l'esercizio che elegge la virtù dell'artista il
quale, grazie a questa norma, offre un modello di comportamento. In questo caso
"il labirinto non è propriamente la perdita definitiva della direzione certa, è
piuttosto la privazione della visione prospettica, l'esatta percezione della
profondità."(Ibid., p.84).
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E' l'organismo de' La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (1915 - 1923).
L'opera, forse più nota con il titolo Il grande vetro, apre la possibilità, attraverso
un linguaggio criptato di interpretazioni in chiave alchemica e psicanalitica.
Come il capzioso apparato meccanico del Grande vetro, anche il labirinto è, tutto
sommato, la rappresentazione di un marchingegno carico di implicazioni
alchemiche.
Sul ponte gettato dal Dadaismo si colloca il Surrealismo, suo diretto successore
ed erede di una forte componente Dada. Infatti, il Surrealismo si proponeva come
un vero e proprio progetto di liberazione, sia sul piano creativo che su quello
sociale, ottemperando così alle stesse necessità del Dadaismo, fra le quali, la più
importante è l'assoluto automatismo linguistico, con il quale si rende esplicito il
reale funzionamento del pensiero.
Mirò dimostrerà il suo interesse per il tema allestendo, per la rivista, una serie di
disegni raffiguranti La leggenda del Minotauro. Negli anni a seguire concepirà
addirittura un'opera, portata a termine nel 1968, ed intitolata Labirinto, decorata
con sculture, ceramiche e fontane popolate da svariate figure affini al tema.[3]
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Non può sfuggire, pertanto, il succedersi costante e ricorrente del simbolo nella
sua produzione, e in generale della simbologia dell'inconscio. Per esempio, è
facile scorgere la spirale come il modello periodicamente presente in ogni sua
opera, un motivo che prende vita, di volta in volta, con fogge e accezioni
differenti. Così come la linea vibrante che, creando tracciati e percorsi calati in
atmosfere sospese e incantate, quasi di sapore metafisico, segue quel filo
d'Arianna che non è altro se non il pensiero inconscio, quel movimento interiore
che trapela e si risolve nella superficie dell'immagine visiva. Il tutto è immerso
nei colori più accesi, quasi a testimoniare come un surrealista, indagando il
mistero e la profondità del proprio essere, possa anche trovarvi un universo
spensierato. Infatti, Mirò configura i suoi miti in un universo magico, intriso di
lirismo, mediante una scrittura elementare, esplicitamente ludica, libera. Il
pittore sembra scoprire, insomma, la spontaneità dei disegni infantili, il
disimpegno del gioco. E non può essere diversamente perché "il gioco in fondo
non è che una delle migliori definizioni di labirinto"(Grazioli, 1981, p.97).
Se Mirò "carica una forma insignificante, una macchia blu di tutte le sue
sfumature, di un'immaginazione fervida chiamandola mio sogno, Magritte
scarica al contrario del suo significato l'oggetto rappresentato privandolo del suo
nome."(Waldberg, 1968, p.78).
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Ed è proprio su questo postulato che la sua poetica conserva lati molto affini a
quelli di De Chirico, il quale, a ragione, è da considerarsi l'esponente
incontrastato di una pittura enigmatica, portatrice di un senso di abbandono, di
un velo di mistero che permea ogni sua opera e che distingue, altresì, la sua
dimensione labirintica. Ne deriva l'elaborazione di una pittura che aspira a
superare i limiti del visibile e del logico, rivelando il significato inquietante degli
oggetti attraverso il loro inconsueto e inusitato accostamento.
E così l'interesse si proietta allo studio degli antichi, al mondo della mitologia
greca. Le numerose statue che entrano a far parte della costruzione metafisica
perdono i loro significati più comuni diventando simboli o metafore celanti
misteri dietro la perfetta illusorietà del visibile e testimoniano la volontà di creare
scenari d'invenzione e di evocazione.
De Chirico scelse spesso come tema dei suoi dipinti il mito di Arianna che ricorre,
dal 1911 in poi, al centro delle celebri Piazze d'Italia.
Il suo intento è di fare della piazza deserta "un vero e proprio labirinto, che al
centro non ha mostri ma il premio stesso della lotta, la donna lunare, per il
vincitore, gladiatore, superuomo."(Grazioli, 1981, p.76). In base
all'interpretazione del mito di Nietzsche, la figura di Arianna e di altri
protagonisti della leggenda cretese - Le figlie di Minosse (1930), Il Minotauro
pentito (1969) - simboleggiano lo svelamento dell'ignoto, l'eterno viaggio nel
labirinto - Viaggio senza fine (1914) - che diventa la dimensione della memoria
ma anche della divinazione.
Come nel fratello, la visione labirintica entra a far parte anche dell'universo
pittorico di Alberto Savinio.
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Allora, in questo caso lo spostamento di senso che egli eredita e attua, riguarda
quel repertorio iconografico, sempre assai remoto, che abita le radici della nostra
cultura e della nostra immaginazione.
In questo modo "la logica del visibile si è messa al servizio dell'invisibile. Tutto
[1] Per la storia del mito:
considerato niente è più irreale dell'architettura: il labirinto, la torre di Babele KERĔNYI, K., Gli dei e gli eroi
(.)."(Sciascia, 1973, p.145). E' in questa dimensione di realismo magico che della Grecia, Milano, 1962;
Clerici rievoca il mito del Minotauro a topos tematico ricorrente nella sua
e La Mitologia dei Greci, Roma,
produzione artistica, culminante in un ciclo che si estende dal 1949 al 1967. 1952.
[2] CALVESI, M., Penetrazione
e magia nella pittura di Balla, in
L'arte Moderna - Il Futurismo,
Milano, 1967; FAGIOLO, M.,
Omaggio a Balla, Roma, 1967.
[3] GRAZIOLI, E., Joan Mirò,
in BONITO OLIVA, A.,
Luoghi del silenzio imparziale,
Milano, 1981, p.97.
[4] Brion evidenzia "il senso
segreto, mistico, e la parentela
emblematica dei nodi, degli
intrecci e dei labirinti, la loro
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"La mitologia clericiana traduce così, con tormentata fedeltà, questa stessa
inquietudine degli uomini d'oggi, ospiti indecisi e insoddisfatti di un universo di
cui dubitano la solidità, e fors'anche la realtà, e che si chiedono come ci si possa
dare l'illusione della coerenza e della robustezza del reale."(Ibid., p.56). Per tali
motivi, l'artista abita pienamente la contemporaneità.
Brion prosegue muovendo dall'ipotesi che esistono tre vie d'evasione da questo
mondo disperato, fragile, oltre a quella che consiste nel trascendere questo
assurdo stesso dandogli forma corporea. La prima di queste strade è l'ironia, il
piacere preso all'assurdo, la scenografia dell'assurdo, affinché il mondo in cui
viviamo ci appaia divertente; quindi la fantasia, la stravaganza, la deliberata
incongruità.
Hocke fa giustamente osservare che il motivo, ideato nella seconda metà degli
anni Cinquanta, rinvia, attraverso il prototipo mitico primario dell'uovo, a quel
movimento originario della vita, all'esperienza ancestrale.(Hocke, 1965, p.78).
Questi paesaggi onirici intendono ulteriormente sottolineare, nella vertiginosa
prospettiva, la predilezione nutrita da Clerici verso visioni di remota solitudine in
una dimensione senza tempo. I grandi templi dell'Uovo sembrano rivelare
insomma la profonda solitudine dell'umanità, si fanno simbolo dell'essere
labirintico del mondo.
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Il mito greco, tuttavia, non riaffiora solo come mera reminiscenza archeologico -
onirica ma diviene metafora visiva delle relazioni tra uomo e cosmo: "nel nostro
secolo è la più evidente e tortuosa rappresentazione simbolica dell'angoscia e del
dubbio."(Clerici, 1989, p.47).
Negli anni seguenti, a partire dal 1947, la superficie della tela si fa sempre più
grande così da consentirgli una maggiore libertà espressiva. Adottando la tecnica
del dripping l'automatismo psichico dei surrealisti viene elevato da Pollock alla
sua massima potenza, per di più si possono cogliere gli aspetti rituali della danza,
una sorta di danza onirica che l'artista compie attorno alla tela e che richiama alla
mente, nel suo farsi, un rito alchemico. Nell'immagine che ne risulta non vi è
centro né direzione, è una sorta di enorme ragnatela di trame e segni pittorici, un
universo caotico, labirintico cui non è possibile porre alcun ordine razionale.
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In più occasioni, infatti, Pollock definirà la tela come la sua arena in cui, nel
libero flusso dell'anima, si sfoga la reazione violenta dell'artista. Ora, non sono
più i titoli a rivelare, ad alludere. Il labirinto, che si estende in un groviglio
arrovellato di segni, è reale, concreto. In questa giungla "la strada del ritorno è
infatti persa per sempre, l'uscita non esiste più perché in realtà nel labirinto ci si
è da sempre, gettati fin dall'inizio." Nemmeno il filo di Arianna può più sbrogliare
la matassa, anzi, esso stesso è "ormai perso tra le mille linee."(Grazioli, 1981,
p.123).
La sua opera nasce dalle infinite possibilità di ripetere costantemente sullo spazio
della tela un unico segno, in un gioco fra timbri e superfici. La matrice del quadro
è dunque semplice, un'eco che non ripete che se stessa. Eppure le sue opere non
hanno nulla di seriale poiché, pur partendo da un modulo fisso, lo stesso ha la
capacità di modificarsi continuamente.
Questo tridente di matrice arcaica, che dal 1950 sarà la cifra riconoscibile e
indelebile dell'arte di Capogrossi fino alla sua morte, organizza, nella sua
ossessiva reiterazione, un alfabeto misterioso in grado di costruire una nuova
struttura del linguaggio pittorico. Come una struttura molecolare, questa
crittografia di segni primordiali rimanda ad un codice genetico segreto, alle sue
possibilità di accedere ed esprimere il pensiero dell'interiorità, l'essenza più
intima del pittore, in una continua dialettica tra uno e molteplice, ordine e
disordine.
Gli ideogrammi non sono mai integrati in una dimensione tridimensionale, essi
stessi sono i segnali di uno spazio costruito non più sulle leggi prospettiche, il che
rende il tutto ancor più enigmatico. E' uno spazio privo di sfondo e di entralità
nel quale si intravedono suggestivi percorsi labirintici sempre differenti a se
stessi, una visione capace di suggestionare che ci conduce nella dimensione del
mito facendoci intravedere l'ambivalenza dell'essere, mai colto in maniera
univoca.
Le grandi Strutture primarie che Morris elabora sono dei grandi poliedri
realizzati con materiali industriali, semilavorati e prefabbricati in metallo e
compensato disposti secondo varie inclinazioni. Queste opere, prive di elementi
connotativi, elementari nella forma e nel colore si impongono nello spazio
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Nel corso degli anni Settanta, portando avanti la sua indagine concernente le
relazioni esistenti tra scultura ed architettura tradizionalmente concepite, egli
realizzò una serie di disegni e di proposte di labirinti, "una forma che lo
interessava grazie alla sua dimensione mitica ed al suo uso del senso della
repressione e del controllo."(Krens, 1984, p.16). La peculiarità del suo
Philadelphia Labyrinth nasceva dal fatto che in esso vi era un unico sentiero che
dal perimetro conduceva al centro. Al progetto Morris aveva attinto rifacendosi al
disegno del labirinto pavimentale presente nella navata principale della
Cattedrale di Chartres. Il Philadelphia Labyrinth, una versione modificata del
disegno originale di Morris, fu costruito ed installato nel 1974 presso l'Institute of
Contemporary Art di Philadelphia, come parte di una mostra intitolata "I progetti
di Robert Morris". Questo dedalo circolare, concepito in compensato e masonite
dipinti in grigio, ha un diametro di nove metri, le pareti sono alte due metri e
mezzo e per raggiungere il centro è necessario percorrere il medesimo tragitto
che si snoda lungo un sinuoso passaggio di centocinquanta metri, senza
possibilità di scelta.
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Labirinto, 1982.
Più recente è il labirinto che l'artista crea per il parco di Celle, vicino Pistoia,
quando, nel 1982 vengono inaugurati gli "spazi d'arte": sessanta installazioni di
arte ambientale che costituiscono una collezione molto prestigiosa. Le opere sono
state concepite e realizzate all'aperto e fra gli artisti figura appunto Morris il
quale ha realizzato un labirinto a forma di triangolo equilatero rivestito a fasce
alterne di marmo bianco e verde, naturale riferimento all'architettura delle chiese
romaniche toscane. Il sito è caratterizzato da un piccolo prato in pendenza al
centro del quale si estende l'opera. Il disegno del labirinto si può distinguere solo
salendo su un piccolo pulpito predisposto per questa funzione poiché stando
all'interno si perde ogni forma d'orientamento. L'opera, che si colloca in un
contesto che è automaticamente rivolto alla
fruizione pubblica, è dotata di un varco stretto
ottanta centimetri e introduce il visitatore in
un corridoio formato da pareti alte due metri;
avanzando lungo un unico cammino
percorribile si avverte il disagio per quelle
righe che, prima così comprensibili, si
deformano lungo il pendio creando forti
illusioni ottiche e una sorta di vertigine. Il
risultato è un labirinto che sfida la percezione
e l'orientamento.
Il lavoro di Mario Merz, uno degli esponenti di maggior spicco dell'Arte Povera,
intende realizzare, mediante l'associazione di vari materiali, opere che siano
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Nel 1968, anno di profonda critica sociale e politica, l'artista indaga sulla
struttura dell'igloo e propone il primo esemplare di una lunga serie: una
semisfera, una costruzione archetipa, primaria, nata dallo sviluppo in tre
dimensioni di una spirale. In questa forma, che rappresenta il prototipo di un
habitat originale e primordiale, Merz riconosce l'energia strutturale della natura.
L'igloo, concepito negli anni con materiali diversi - vetro, legno, lastre di pietra,
tele di juta, neon ecc. - è assunto come simbolo del luogo ideale, rappresentativo
dell'anima dell'artista ed è dominato energicamente dalla spirale, che trova nello
spazio curvo un possibile centro; "nel senso che non è il punto statico e
privilegiato di una forma circolare chiusa perfettamente in se stessa, ma soltanto
il punto di partenza che presiede l'inevitabile espansione, il movimento di un
labirinto che apre i suoi cerchi sempre più ampi e capienti."(Bonito Oliva, 1981,
p.23). L'opera riunisce in sè una serie di riflessioni che Merz svilupperà in
seguito: dal 1970, infatti, egli applica al suo lavoro la legge della proliferazione
numerica, nota come serie di Fibonacci, formulata agli inizi del 1200 dal monaco
matematico Leonardo Pisano, in cui ogni cifra è la somma dei due numeri
precedenti. Questa legge numerica viene assorbita nell'opera di Merz come
rappresentazione dell'evoluzione progressiva del mondo organico, nella sua
traduzione in sistema aritmetico: ad esempio lo stelo di un albero che si ramifica
in due e in seguito in tre, in cinque, in otto ramificazioni e così via, fino a
descrivere una linea elicoidale, riconoscibile anche sui dorsi delle chiocciole.
Quello del labirinto è uno dei temi che più entusiasmano Jannis Kounellis,
rappresentante indiscusso dell'Arte Povera negli anni Sessanta che ha focalizzato
nella sua esperienza artistica il territorio idoneo e fertile sul quale poter indagare
temi quali lo spazio, il valore intrinseco delle cose, e anche oggi capace di
suscitare intense emozioni con opere come Atto Unico, un lavoro che non
consente repliche: un imponente labirinto di mille metri quadri che invade
prepotentemente l'intero piano terreno della Galleria Nazionale d'Arte Moderna
di Roma.
Anche a Parigi ha realizzato un labirinto per una mostra alla Galerie Lelong e
questa è l'ultima grande installazione che, nel maggio di quest'anno, ha celebrato
gli oltre quarant'anni di attività dell'artista greco - italiano.
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L'entrata nel labirinto è allo stesso tempo la sua uscita. Perciò, il viaggio a cui è
invitato lo spettatore, è un percorso che si snoda in uno spazio diviso e
frammentato, che lo porta ad un centro, da cui poi è obbligato a tornare indietro
intraprendendo lo stesso cammino.
E' facile intuire che il labirinto, per Kounellis, è il paradigma del viaggio, un tema
fondamentale nel suo lavoro sin dall'inizio. E' del 1969 appunto Il viaggio, una
delle sue opere più celebri. Come il sacco e la nave, il labirinto appartiene al
territorio "dove ha regnato la Magna Mater", un contenitore protettivo che ha
una diretta relazione con il grembo materno, in cui l'uomo trova rifugio. Quello di
Kounellis è un viaggio nei tortuosi percorsi dell'interiorità, cercando di
avvicinarsi sempre di più al centro: "la centralità è quel profondo pozzo da qui
uno prende il perché di un percorso"(Kounellis, 1990, p.11). Il suo labirinto
sembra indagare i meandri della coscienza individuale in un viaggio tutto
mentale, linguistico che, secondo Briganti, è da intendersi come Ritorno.
"Ma non come ritorno alle origini oscure, organiche, istintuali della vita, non
come viaggio verso l'abisso del profondo, dell'indistinto ma come ritorno verso la
luce della coscienza reintegrata, verso la perduta misura, l'unità, la totalità
dell'uomo. E' questo il tema centrale di Kounellis, il movente del suo particolare
sentimento del Ritorno."(Briganti, 1990, p.181). C'è, da parte di Kounellis, la
consapevolezza di una totalità dispersa e il dramma della frammentazione.
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Questo luogo paradigmatico, costituito dalle opere di Pisani, "è architettura sacra
e al tempo stesso labirinto, flusso e misura, caos e ordine, tenebra e luce solare."
(Cherubini, 1981, p.114).
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L'artista "vede nel labirinto un analogon del reale, secondo una cultura ermetica
ed esoterica" pertinente anche ai tre artisti ai quali dedica la propria opera e che
diventano i suoi interlocutori virtuali - Duchamp, Klein, Beuys - in quanto
formano con lui "un sistema basato sull'ermetico numero 4."(Cherubini, 1981,
p.114.). Il suo lavoro consiste nell'appropriarsi di elementi desunti da altri artisti
e dalla storia dell'arte, reinventandoli.
La citazione è assunta da Pisani come canale di ricerca privilegiato che agisce sul
linguaggio. Un itinerario che svolge la propria funzione percorrendo i passaggi
vertiginosi di un labirinto simbolico, immaginifico.
Il lavoro di Claudio Parmiggiani, che può essere considerata una delle figure
centrali del movimento postmoderno a partire dagli anni Sessanta, occupa "il
nodo di confluenza e di scambio in cui vengono oggi a muoversi l'ormai
consolidata riappropriazione di tutta la storia dell'arte, o meglio della totalità, e la
recente e non meno diffusa ripresa dell'esercizio della metafora."(Trini, 1985,
p.76).
Anch'egli mette in atto una fenomenologia della visione in cui vi sono chiari
riferimenti alla cultura ermetica - esoterica. La natura del rapporto tra l'artista e
l'alchimia fonda il suo principio sul desiderio, attraverso l'archetipicità dell'opera,
"di trasformare l'individuo per ricreare il mondo a misura dei propri sogni."
(Schwarz, 1985, p.152).
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Al mistero e al silenzio
corrispondente è però sottesa la
possibilità di svelamento
dell'ineffabile attraverso "quel
sospetto che nell'occhio si carica di
una puntigliosa quantità di
riferimenti, di addizioni e sottrazioni, di spessori e densità."(Fossati, 1985, p.73).
E' come entrare in un labirinto di continui rimandi, contraddizioni, e conferire
loro un assetto ordinato.
In ultima analisi c'è chi, come Schwarz, vede nella porta anche l'allegoria della
solitudine dell'artista in generale e qui in particolare quella di Parmiggiani che ha
sempre vissuto appartato. Solitudine che rimanderebbe a quella distanza tra
l'artista e la società.
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Alla luce di questi enunciati sembra esordire una prima opera intitolata
Confusione senza disegno ai margini della pittura (1976), dove l'immagine del
labirinto è esibita come viaggio estraniante. Nelle sue opere la rappresentazione
labirintica oltrepassa i confini del puro intento visuale, per eccedere alla
conoscenza dell'ignoto, che distingue anche l'interno lavoro della pittura, a cui
solo l'artista non è estraneo. Per Duccio Berti il labirinto è proprio il luogo
dell'arte: l'ambito che gli permette di praticare la fantasia, il mistero, la perdita
d'orientamento. "Qui sono disseminate non evidenze lampanti, bensì tracce,
sconnessioni e tagli, che costituiscono le falle della seduzione, i punti di
inabissamento che portano l'occhio dentro i giardini vertiginosi del labirinto."
(Ibid.). La pittura diventa, così, l'ambito di un disputa dello sguardo e dell'eterno
smarrimento.
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Labirinto, 1978.
Labirinto, 1969.
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