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Appunti lezioni

Lezione del 3/02 – Miti e concetti dell’Umanesimo e del Rinascimento


Non possiamo trattare disgiuntamente l’Umanesimo dal Rinascimento. Il Rinascimento segue
l’Umanesimo: teoricamente nella manualistica l’umanesimo coincide con il ‘400, secolo della
riscoperta dei classici, e il Rinascimento con il ‘500, secolo del volgare in cui gli scrittori ripresero a
scrivere in volgare e a superare gli autori classici. La periodizzazione sui manuali è sempre di
natura convenzionale e questa problematica è complessa: possiamo stabilire che l’estremità
cronologiche del Rinascimento corrispondano al 1450 e il 1550.
Perché continua ad affascinarci il Rinascimento?
Il rinascimento non è solo un secolo di fulgore e luce, fu anzi un’età di grande trasformazione e
profonda crisi (da κρίνω separare e κρίσις scelta, decisione). Si avvicina molto alla nostra epoca
per molteplici aspetti: in un momento di crisi è necessario prendere delle decisioni; epoca di grandi
scoperte geografiche, di espansione, di conquista nel nuovo mondo, oggi invece si verifica il
fenomeno della globalizzazione; momento di grande innovazione tecnologica (stampa di
Gutemberg) che cambia profondamente il mondo, come anche oggi nella tecnologia di Internet.
Sotto, alla base del Rinascimento c’è una potente narrazione che è alla base della civiltà
occidentale: è un sogno di palingenesi, di rinascita, che riaffiora periodicamente nella nostra società
occidentale. Possiamo individuare le due matrici di questo fenomeno sicuramente nella religione,
ma anche nella politica e nell’astronomia, che irrorano questa speranza di rinascita e che
alimentavano la credenza della ciclicità del tempo (che oggi manca).
La contraddizione del Rinascimento
Si tratta di un secolo di profonde contraddizioni, anche interne, su cui ha insistito la critica
dell’ultimo mezzo secolo, in opposizione con l’interpretazione monolitica sviluppata nel
Novecento: come la corrente idealistica (Hegel), in cui il Rinascimento veniva interpretato come un
momento di massimo equilibrio, il cui acme veniva tradotto nell’Orlando Furioso di Ariosto (pace e
serenità della condizione umana). Invece il Rinascimento è anche dal punto di vista concettuale e
filosofico un momento di grandissime tensioni non risolte all’interno delle sue opere. Da un lato
l’esaltazione delle virtù umane e dell’uomo in quanto forza attiva che interviene e modifica la realtà
stessa. Emblematica è la cupola del Brunelleschi di Santa Maria del Fiore (fine dei lavori 1435),
rappresentazione icastica di questo concetto. Dall’altra la consapevolezza del limite e della
finitudine umana, che induce, orazianamente, a vivere il presente. Emblematico è il Giudizio
Universale di Michelangelo, che esprime la labilità della vita umana e del suo carattere transeunte.
Altrettanto paradigmatici sono i versi di Lorenzo il Magnifico, tratto dal canto carnascialesco di
Bacco e Arianna “chi vuol esser lieto sia del doman non c’è certezza”. Anche in un giovanile
componimento pastorale del Corinto
“Nostro solo è quel poco ch'è presente,
né il passato o il futuro è nostro tempo:
un non è più, e l'altro è ancor nïente.
Cogli la rosa, o ninfa, or ch'è 'l bel tempo! --”

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In cui esorta a godersi il presente e a non curarsi del futuro, dimensione che non viene contemplata
dall’uomo, in contraddizione con l’umanesimo dell’inizio del ‘400 in cui si tende a programmare il
futuro e la scienza.
Umanesimo e rinascimento sono due momenti distinti?
Le risposte si allineano con le interpretazioni storiografiche. Più che una netta suddivisione
cronologica, che sarebbe riduttiva, il prof vuole descrivere e delineare i confini delle due epoche in
base alle loro caratteristiche principali.
- Umanesimo (XV sec.?): inferiorità vs antichi secolo del recupero dei testi latini e greci,
vengono messi a punto gli studia humanitatis, o ancora meglio, gli studia humaniora, ovvero gli
studi che rendono più umani l’uomo, che fanno emergere l’umanità dell’uomo. Si focalizzano
molto sui verba, ovvero sulla lingua e credono fortemente che il progresso dell’uomo può
avvenire solo tramite il recupero del passato. Concezione logocentrica del sapere. Iniziano con
Petrarca e il termine è più difficile da identificare. Questo movimento è accompagnato da un
senso di epigonismo (= chi si sente arrivato in ritardo nella storia). Gli studiosi si sentono al
termine di una catena del sapere, i cui i primi anelli sono costituiti dai grandi saggi del passato,
Aristotele e soprattutto Platone, grandi maestri che hanno raggiunto l’apice nelle scienze e nelle
discipline, e che si possono solo cercare di raggiungere. La letteratura del ‘400 è una letteratura
di imitazione. Esemplare per l’atteggiamento dell’umanesimo nei confronti dell’antico è la
seguente citazione di Flavio Biondo, umanista e storico insieme a Lorenzo Valla per esempio:
“ricopia citazione tradotta dal latino”.
- Rinascimento (XVI sec.?): superiorità vs antichi non riguarda solo gli studi humaniora, ma
anche l’architettura, la pittura e non solo gli studi delle belle arti, ma anche la scienza. Con il
termine Rinascimento si designa una tappa fondamentale per lo sviluppo della civiltà verso
modernità. Vi è un dibattito per cui si discute se il Rinascimento è già modernità o se è solo il
preludio della modernità, che ha inizio definitivamente con l’epoca dei Lumi (‘700). È il
periodo in cui comincia la querelle sulla possibilità di sopravanzare gli antichi. Dal concetto di
imitatio si passa al concetto di emulatio, quindi superare gli antichi. Paul Oscar Kristeller fu uno
dei più grandi studiosi di rinascimento del ‘900, autore dell’Iter Italicum, repertorio di
manoscritti di autori dell’umanesimo e rinascimento, che va dal 1400 al 1700. Più importante
allo scopo di queste lezioni è il volume L’umanesimo italiano del Rinascimento e il suo
significato sostiene quindi che l’umanesimo non è un periodo che precede il Rinascimento, ma
all’interno del contesto più ampio del Rinascimento, agisce l’umanesimo (due periodi uno
dentro l’altro).
Una ferita in origine accomuna Umanesimo e Rinascimento
- Per l’umanismo si tratta della perdita dell’antichità  consapevolezza che il medioevo, epoca
che li separa dall’antichità, ha inghiottito la gran parte delle opere, quindi aumento di
epigonismo. Le date 1416- 17 rappresentano il biennio d’oro per la riscoperta dei classici, uno
fra tutti il De Rerum Natura, scoperto a San Gallo da Poggio Bracciolini. La data del 1453 è
emblematica perché, con la presa di Costantinopoli da parte della Sublime Porta, scatena la
diaspora degli abitanti della città che portano in Italia e in occidente tantissimi testi greci.
- Per il rinascimento si tratta della perdita della libertà (1494) la libertà intesa come libertà
d’Italia, all’interno di un fenomeno, di un’idea prettamente italiana. Nel 1494 con la morte di
Lorenzo il Magnifico e a causa di una politica dissennata, l’Italia perde la sua libertà, con la

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discesa di Carlo VIII (re di Francia) e in seguito con la discesa dell’Imperatore del Sacro
Romano Impero (Carlo V).
Cronologia: quando iniziano Umanesimo e Rinascimento
La questione della cronologia tra Umanesimo e Rinascimento è una questione antica, perché già
alcuni umanisti (coloro che hanno inventato la categoria del Medioevo) si ponevano il problema
di quando datare l’inizio di questo movimento. Flavio Biondo pone come estremità cronologica
di origine la data del 1410, particolarmente simbolica in quanto coincide con la ricorrenza, mille
anni prima, del sacco di Roma da parte di Alarico (in più qualche anno prima era nato lo stesso
umanista, quasi per dire l’umanesimo è iniziato da quando sono nato io). Leonardo Bruni, altro
umanista e segretario della repubblica fiorentina agli inizi del ‘400, parlava di un Medioevo
durato 700 anni.
Per il Rinascimento si individua la data del 1492 (ma anche 1494, sono date spartiacque).
Bontempelli nel 1940 riguardo al Rinascimento, in una lezione nell’Istituto del Rinascimento,
istituito in quegli anni a Firenze da gentile, sosteneva: “segna citazione”.
Manuzio, grammatica del Lascaris (1495) - lettera prefatoria
Se noi prendiamo il primo libro stampato nel 1495 di Aldo Manuzio, probabilmente del più
grande stampatore del Rinascimento. Aldo Manuzio ebbe una formazione di stampo umanistico,
fece il precettore in famiglie aristocratiche e a 40 anni decide di aprire questa officina
tipografica a Venezia e stamperà fino al 1515, anno della sua morte, tutti i più grandi classici.
Scrive nella grammatica del Lascaris (autore greco): “traduzione”. La reazione di Manuzio è
proprio quella di stampare i libri, una risposta culturale, di fronte ad un momento in cui l’Italia
era in difficoltà.
Alcuni testi esemplari incentrati sul concetto di rinascita
- Leon Battista Alberti, proemio al De pictura (1435)
Io solea maravigliarmi insieme e dolermi che tante ottime e divine arti e scienze, quali per
loro opere e per le istorie veggiamo copiose erano in que' vertuosissimi passati antiqui, ora
così siano mancate e quasi in tutto perdute: pittori, scultori, architetti, musici, ieometri,
retorici, auguri e simili nobilissimi e maravigliosi intelletti oggi si truovano rarissimi e poco
da lodarli. Onde stimai fusse, quanto da molti questo così essere udiva, che già la natura,
maestra delle cose, fatta antica e stracca, più non producea come né giuganti così né
ingegni, quali in que’ suoi quasi giovinili e più gloriosi tempi produsse, amplissimi e
maravigliosi. Ma poi che io dal lungo essilio in quale siamo noi Alberti invecchiati, qui fui
in questa nostra sopra l'altre ornatissima patria ridutto, compresi in molti ma prima in te,
Filippo, e in quel nostro amicissimo Donato scultore e in quegli altri Nencio [Lorenzo
Ghiberti] e Luca e Masaccio, essere a ogni lodata cosa ingegno da non posporli a qual si
sia stato antiquo e famoso in queste arti. […] Confessoti sì a quegli antiqui, avendo quale
aveano copia da chi imparare e imitarli, meno era difficile salire in cognizione di quelle
supreme arti quali oggi a noi sono faticosissime; ma quinci tanto più el nostro nome più
debba essere maggiore, se noi sanza precettori, senza essemplo alcuno, troviamo arti e
scienze non udite e mai vedute. Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto
vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e'
popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio

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certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli
antichi fu non saputo né conosciuto? […].
Punti chiave
• Rinascita delle arti figurative e plastiche, non ancora tutte le arti (per es. non la letteratura,
non ha ancora avuto la sua rinascita).
• Questa rinascita avviene a Firenze, non è un fenomeno italiano, ma per il momento solo
fiorentino.
• Simbolo di questa rinascita: la cupola di Santa Maria del Fiore.
• Questi artisti moderni superano gli antichi per l’impegno e la fatica nel dover costruire le
loro opere completamente da soli, mentre gli antichi avevano i loro modelli classici.
***
- Marsilio Ficino (rettore dell’accademia platonica per volere di Lorenzo de Medici), lettera
a Paolo di Middelburg (1472, in trad. italiana)
Quello che i poeti cantarono un giorno delle quattro età, di piombo, di ferro, d’argento e
d’oro, il nostro Platone nella Repubblica riferisce a quattro nature d’uomini, dicendo che
nell’indole degli uni è congenito il piombo, il ferro in quella di altri, in altri l’argento, in altri
l’oro. Se dunque c’è un’età che dobbiamo chiamar d’oro, essa è senza dubbio quella che
produce dovunque ingegni d’oro. E che tale sia questo nostro secolo non metterà in dubbio
chi vorrà prendere in considerazione i mirabili suoi ritrovati. Questo secolo, infatti, come
aureo, ha riportato alla luce le arti liberali già quasi scomparse, la grammatica, la poesia,
l’oratoria, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, e l’antico suono della lira Orfica. E
ciò a Firenze.
E, cosa che presso gli antichi era celebrata, ma ormai quasi scomparsa, ha congiunto la
sapienza con l’eloquenza, la prudenza con l’arte della guerra. Questo è particolarmente
mostrato, quasi come in Pallade, in Federigo duca d’Urbino, della cui virtù fece eredi il
figlio e il fratello. In te, o mio Paolo, sembra aver portato a perfezione l’astronomia; in
Firenze ha richiamato alla luce la sapienza platonica; in Germania, al tempo nostro, sono
stati trovati gli strumenti per stampare i libri…
Punti chiave
• Rinascita di tutte le arti
• Esaltazione della stampa, che inizialmente non era vista di buon occhio dagli scrittori
• Questa rinascita è avvenuta a Firenze: le altre città non vengono quasi considerate da questi
autori.
• Esempio di chi ha unito sapienza e virtù guerriere: Federico da Montefeltro
***
- C. Landino, Proemio al commento dantesco (Firenze, 1481)
Crebbono queste due spetie di scriptori crescendo lo 'mperio latino, et vennono al suo
colmo in Virgilio et in Cicerone gli scrittori di Roma furono grandi quanto i suoi
condottieri. Dipoi diminuendo quello anchora epse declinorono; et finalmente sobmersa
Italia da varie inondationi di barbariche nationi, al tutto perirono. Ma questo ad che
proposito? Meffè, acciochè buona gratia consequiti da tutta Italia el fiorentino popolo per
due cagioni. Prima perchè chome in una sua oratione scrive el Petrarca, l'ultimo poeta
laureato, che in prezo rimanessi in lingua latina fu el fiorentino Claudiano, et dipoi perchè el
primo che dopo la resurrexione della facultà poetica prendessi laurea corona fu el Petrarca,
perchè Danthe dinegò prendere tale honore se non lo prendessi nel baptisterio fiorentino. Fu
adunque la nostra città l'ultima, nella quale si spegnessi tale facultà, et la prima nella quale si
raccendessi. […lode di Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Ambrogio
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Traversari, Leonardo Dati, Matteo Palmieri, Leon Battista Alberti…] Restono molti de'
vivi, e quali per fuggire invidia non pongo. Ma certo è referta la nostra rep. d'huomini in
ogni spetie di lectere illustrati. Nè fu età alchuna dove più fussi congiunta la eloquentia colla
doctrina. Habbiamo copia di peripatetici. Ma anchora possiamo gloriarci havere chi ha
rivocato in luce la Platonica disciplina. Surgono poeti. Surgono historici, e quali per
l'advenire non saranno defraudati di convenienti honori. Ma credo veramente potere
concludere nell'ornato del dire Fiorenza sequitare le vestigie della greca Athene  topos di
Firenze che viene paragonata ad Atene. Conviensi nel nome, se è vero quello che non
ignobili scriptori greci referiscono che Athene non sia decta da Athena, i. Minerva, ma da
"anthos", i. fiore.
Piunti chiave
• Nel proemio, che fa al commento dantesco, ci dà una piccola storia del declino e della
rinascita (che coinvolge sempre Firenze), che probabilmente utilizzò Vasari.
• Il popolo fiorentino ha delle benemerenze presso tutti gli italiani perché furono fiorentini sia
l’ultimo poeta laureato dell’antichità, Claudiano (370-404), sia il primo dell’epoca moderna,
Petrarca (1341). Tradizione della critica: sarà difficile discostarsi da questo stereotipo. Il
rinascimento è una pluralità di voci che non si identificano solamente con Firenze.
• Dunque il Medioevo per Landino dura circa 1000 anni, tra la morte di Claudiano e la nascita
di Petrarca.
***
- Ariosto: Il Rinascimento è anche femminile (Orlando furioso, XX, 1-3)
Le donne antique hanno mirabil cose
fatto ne l'arme e ne le sacre muse;
e di lor opre belle e gloriose
gran lume in tutto il mondo si diffuse.
Arpalice (vincitrice di Neottolemo) e Camilla son famose,
perché in battaglia erano esperte et use;
Safo e Corinna, perché furon dotte,
splendono illustri, e mai non veggon notte.  binomio cultura e forza militare, guerra e
poesia (binomio, parallelismo complementare)

Le donne son venute in eccellenza


di ciascun'arte ove hanno posto cura;
e qualunque all'istorie abbia avvertenza,
ne sente ancor la fama non oscura.
Se 'l mondo n'è gran tempo stato senza,
non però sempre il mal influsso dura;
e forse ascosi han lor debiti onori
l'invidia (tema chiave del rinascimento) o il non saper degli scrittori.

Ben mi par di veder ch'al secol nostro


tanta virtù fra belle donne emerga,  definizione di rinascimento
che può dare opra a carte et ad inchiostro,
perché nei futuri anni si disperga,
e perché, odiose lingue, il mal dir vostro
con vostra eterna infamia si sommerga:
e le lor lode appariranno in guisa,
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che di gran lunga avanzeran Marfisa (gemella di Ruggero).
Punti Chiave:
 Focus sulle donne. I primi trenta- quarant’anni del ‘500 abbondano di personalità
femminili forti e carismatiche. Per esempio, oltre a Lucrezia Borgia, troviamo: Bona
Sforza a Milano, Ginevra Sforza a Bologna, Isabella d’Este- Gonzaca. Si tratta di
donne di grande culture, ma talvolta intraprendenti e spietate, che sanno come
amministrare lo stato nei momenti in cui i loro consorti sono a fare la guerra.
 Denuncia contro i detrattori
***

- N. Machiavelli. Il Rinascimento termina nel 1492


(Istorie fiorentine, VIII 36)
Ma i Fiorentini, finita la guerra di Serezana, vissono infino al 1492 che Lorenzo de' Medici
morì, in una felicità grandissima: perché Lorenzo, posate l'armi d'Italia, le quali per il
senno e autorità sua si erano ferme, volse l'animo a fare grande sé e la sua città […]
Volsesi, dopo questo, a fare più bella e maggiore la sua città; e per ciò, sendo in quella
molti spazi sanza abitazioni, in essi nuove strade, da empiersi di nuovi edifizi, ordinò, onde
che quella città ne divenne più bella e maggiore. […] Tenne ancora, in questi tempi pacifici,
sempre la patria sua in festa; dove spesso giostre e rappresentazioni di fatti e trionfi antichi
si vedevano; e il fine suo era tenere la città abbondante, unito il popolo, e la nobiltà onorata.
Amava maravigliosamente qualunque era in una arte eccellente; favoriva i litterati, di che
messer Agnolo da Montepulciano, messer Cristofano Landini e messer Demetrio greco ne
possono rendere ferma testimonianza, onde che il conte Giovanni della Mirandola, uomo
quasi che divino, lasciate tutte l'altre parti di Europa che egli aveva peragrate, mosso dalla
munificenzia di Lorenzo, pose la sua abitazione in Firenze. Della architettura, della musica e
della poesia maravigliosamente si dilettava; e molte composizioni poetiche, non solo
composte, ma comentate ancora da lui appariscono. E perché la gioventù fiorentina potesse
negli studi delle lettere esercitarsi, aperse nella città di Pisa uno studio, dove i più eccellenti
uomini che allora in Italia fussero condusse.
Visse, negli ultimi tempi, pieno di affanni, causati dalla malattia che lo teneva
maravigliosamente afflitto, perché era da intollerabili doglie di stomaco oppresso; le quali
tanto lo strinsono che di aprile, nel 1492, morì, l'anno quarantaquattro della sua età. Né morì
mai alcuno, non solamente in Firenze, ma in Italia, con tanta fama di prudenza, né che tanto
alla sua patria dolesse. E come dalla sua morte ne dovesse nascere grandissime rovine ne
mostrò il cielo molti evidentissimi segni: intra i quali, l'altissima sommità del tempio di
Santa Reparata fu da uno fulmine con tanta furia percossa, che gran parte di quel pinnacolo
rovinò, con stupore e maraviglia di ciascuno. Dolgonsi adunque della sua morte tutti i suoi
cittadini e tutti i principi di Italia: di che ne feciono manifesti segni, perché non ne rimase
alcuno che a Firenze, per suoi oratori, il dolore preso di tanto caso non significasse. Ma se
quelli avessero cagione giusta di dolersi, lo dimostrò poco di poi lo effetto; perché, restata
Italia priva del consiglio suo, non si trovò modo, per quegli che rimasono, né di empiere né
di frenare l'ambizione di Lodovico Sforza, governatore del duca di Milano. Per la quale,
subito morto Lorenzo cominciorono a nascere quegli cattivi semi i quali, non dopo molto
tempo, non sendo vivo chi gli sapesse spegnere, rovinorono, e ancora rovinano, la Italia.
- Rinascita non soltanto delle belle arti, ma anche delle edilizie, vi è una fioritura della città più
bella, ma anche più vivibile.
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- G. Vasari. Prima comparsa della parola «Rinascita»
(Proemio alle Vite, 1550)
«Sino a qui mi è parso discorrere da 'l principio della scultura e della pittura, e per adventura
più largamente che in questo luogo non bisognava. Il che ho io però fatto, non tanto
trasportato dalla affezzione della arte, quanto mosso dal benefizio et utile comune degli
artefici miei. I quali avendo veduto in che modo ella, da picco principio, si conducesse a la
somma altezza e come da grado sì nobile precipitasse in ruina estrema, e, per conseguente,
la natura di questa arte, simile a quella dell'altre, che, come i corpi umani, hanno il nascere,
il crescere, lo invecchiare et il morire, potranno ora più facilmente conoscere il progresso
della sua rinascita; e di quella stessa perfezzione, dove ella è risalita ne' tempi nostri»
- Giorgio Vasari capolavoro della trattatistica del ‘500. In Vasari abbiamo la prima definizione
di Rinascimento come rinascita, la cui accezione è il progresso delle discipline, ma anche per
definire un periodo storico secondo una visione di storia dell’arte (ciò che va da Giotto,
all’inizio del XIV secolo e conosce il suo massimo splendore con Michelangelo).

Lezione del 4/02- La tradizione storiografica tra ‘700 e ‘900


Voltaire, Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756)
• Non dedica espressamente un’opera sul rinascimento Italiano, ma nel suo capolavoro dedica
alcuni capitoli al rinascimento italiano, ad alcuni protagonisti e snodi, punti chiave. Usa
l’espressione renaissance des letres et des beaux arts (rinascita delle lettere e delle belle
arti).
• Non vi scorge un periodo definito però, non dà limite cronologici (da fine XIII – inizio
XVI sec.): Da Dante ad Ariosto
• Ma è il primo a riproporre Firenze come la città italiana col più alto grado di civiltà. Medici
come despoti illuminati, promotori della pace, del benessere e della cultura
• Vede anche i contrasti: cultura raffinatissima vs disordine morale, individualismo avido e
talvolta criminoso. Eccessi di fanatismo (vd. Savonarola)
• L’assassinio di Galeazzo Sforza e la congiura de’ Pazzi, fallita o parzialmente riuscita
(muore Giuliano ma non Lorenzo, 1478) recano la prova del carattere ateo della società di
quei tempi.
Voltaire, Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756), cap. CV
(dopo aver parlato dell’assassinio, nella cattedrale di Milano, del signore di quella città,
Galeazzo Sforza, nel 1476)
Il veneficio e l’assassinio, uniti alla superstizione, caratterizzavano allora le popolazioni
dell’Italia: sapevano vendicarsi, ma non sapevano quasi battersi; si trovavano molti
avvelenatori e pochi soldati, e tale era il destino di quel paese dal tempo degli Ottoni. Tema che
ritornerà in Machiavelli (Italia paese di artisti e letterati, di sotterfugi, ma non di soldati).
Inventiva, superstizione, ateismo, mascherate, versi, tradimenti, devozioni, veleni, assassinii,
alcuni grandi uomini, un numero infinito di scellerati ingegnosi e tuttavia infelici: questa fu
l’Italia (…) Ora si riferisce alla congiura de’ Pazzi Quando si vedono un papa (Sisto IV), un
arcivescovo (Salviati) e un prete meditare un tale delitto e scegliere per l’esecuzione il
momento in cui il loro Dio si mostra nel tempio, non si può dubitare che l’ateismo regnasse
allora. Se avessero creduto che il loro Creatore appariva loro sotto il pane sacro, non
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avrebbero certamente osato insultarlo a tal punto. Il popolo adorava quel mistero; i grandi e
gli uomini di Stato se ne facevano beffe: tutta la storia di quei tempi lo dimostra. Pensavano
come si pensava a Roma al tempo di Cesare: dalle loro passioni concludevano che non vi è
alcuna religione.
Lorenzo, vendicato dai suoi concittadini, si fece amare da loro per il resto della vita. Fu
soprannominato «Padre delle muse», titolo che non vale quello di «Padre della Patria», ma che
dimostra che effettivamente lo era. Era cosa tanto mirabile quanto lontana dai nostri costumi il
vedere questo cittadino, che continuava a dedicarsi al commercio, vendere con una mano le
derrate del Levante e reggere con l’altra il fardello della repubblica; mantenere agenti e
ricevere ambasciatori; resistere al papa, fare la guerra e la pace, essere l’oracolo dei prìncipi,
coltivare le lettere, dare spettacoli per il popolo e accogliere tutti i dotti greci di
Costantinopoli. Uguagliò il grande Cosimo per i benefìci e lo superò in magnificenza. Da
allora Firenze fu paragonabile all’antica Atene.  torna il topos di Firenze con la nuova
Atene. Vi si videro insieme il principe Pico della Mirandola, Poliziano, Marsilio Ficino,
Landino, Lascaris e Calcondila, che Lorenzo riuniva intorno a sé e che erano forse superiori a
quei tanto celebrati saggi della Grecia.
(a cura di D. Felice, Torino, Einaudi, 2017, II, p. 60)
Cap. CVIII
Questa scena (domenicani pro Savonarola vs domenicani) si svolgeva presso il popolo più
perspicace della Terra, nella patria di Dante, di Ariosto, di Petrarca e di Machiavelli. Tra i
cristiani, quanto più un popolo è pieno d’ingegno, tanto più volge lo spirito a sostenere la
superstizione e a mascherarne l’assurdità (…)
Voi considerate con pietà tutte queste scene di assurdità e di orrore; non trovate niente di simile
né tra i Greci né tra i Romani né tra i Barbari. È questo il frutto della più infame superstizione
che abbia mai abbruttito gli uomini e del peggior governo. Ma voi sapete che non dà molto
siamo usciti da queste tenebre e che non tutto è ancora rischiarato.
(a cura di D. Felice, Torino, Einaudi, 2017, II, p. 70)
***
Condorcet, Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain [Abbozzo di un
quadro storico dei progressi dello spirito umano] (1793)
• Il sapere è motore della storia umana: divide la storia in 10 età, ognuna è una tappa del
sapere umano:
• L’invenzione della stampa ha un valore periodizzante, in quanto divide l’epoca 7 a («dal
primo progresso delle scienze dopo la loro restaurazione in Occidente [Crociate] fino
all’invenzione della stampa») dall’8a («Dall’invenzione della stampa fino al tempo in cui le
scienze e la filosofia scossero il gioco dell’autorità»). La stampa è stata la forza che ha
smascherato e detronizzato re e preti.
• Anche lui condivide con Voltaire che il Rinascimento fu irreligioso.
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William Roscoe
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• Life of Lorenzo de’ Medici Called the Magnificent (1794-1796) < A. Fabroni, Laurentii
Medicis Magnifici vita, Pisa, 1784
• Life and Pontificate of Leo the Tenth (1805). Figlio prediletto di Lorenzo de Medici, che
già a 13 anni divenne cardinale. Fu talmente influente, che Roma nel periodo di papato di
Leone X viene identificata come Roma Leonina.
• Non utilizza la parola “Renaissance”, ma parole come «improvement» e «restoration», «new
order of things».
• I vizi e le virtù li possiamo già identificare nei titoli di queste opere storiografiche, che non
sono altro che biografie. Roscoe ha quindi un’idea di Rinascimento come prodotto esclusivo
di figure di genio. Questo limite ci introduce a quella che è una delle caratteristiche della
storiografia Rinascimentale dell’ottocento, il cui apice si riscontra con Burckhardt, cioè il
concetto-chiave di individualismo, straordinaria individualità, o strapotente come viene
definita.
• L’asse Firenze-Roma è stato identificato come il fulcro del Rinascimento, tuttavia questa
visione ormai è superata dalle recenti teorie policentriche.
W. Roscoe, Vita di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico (tr. it. di G. Macherini, Pisa, 1816)
La fine del secolo XV e il principio del XVI comprendono uno di quei periodi d’istoria, che hanno
special diritto alle nostre considerazioni, ed alle nostre più minute ricerche. Quasi tutti i grandi
eventi, da cui l’Europa ripete i suoi presenti vantaggi, debbono a quest’epoca riferirsi. L’invenzione
della stampa, la scoperta del gran Continente occidentale, lo scisma della Chiesa Romana, che fu il
precursor della celebre riforma, il grado di perfezione a cui giunsero le belle arti, e l’introduzione in
fine dei veri principi della critica e del buon gusto, compongono un insieme di punti luminosi, che
non può a meno di richiamare in ogni tempo la curiosità e l’ammirazione degli uomini.
Una storia completa di questi tempi è stata lungamente desiderata dai dotti; ma chiunque facciasi a
considerar la grandezza dell’impresa, non ne crederà per avventura così agevole l’esecuzione.  si
necessitava di un manuale per lo studio del rinascimento. Imperocché tale è la natura dei fatti
che accaddero allora […] nei quali [tempi] ciascuna delle città dell’Italia era per così dire una
nuova Atene, avvegnaché questa fortunata contrada vantava storici, poeti, oratori ed artisti che
contrastar poterono la gloria ai più grandi uomini dell’antichità; allorquando Venezia, Milano,
Roma, Firenze, Bologna, Ferrara ed altre città rivaleggiavano fra loro non già nell’armi, ma nella
scienza e nel genio […] fino ad allora queste città, importantissime per il Rinascimento, non
erano state prese in considerazione
Egli è certo, che non fuvvi giammai uomo tanto ammirato, e venerato dai suoi contemporanei, e
d’altronde tanto defraudato della sua giusta fama dai posteri, quanto Lorenzo dei Medici. Dotato di
un genio originale e versatile forse più di qualunque altro dei suoi concittadini, percorse
francamente il sentiero dei più lodati generi di poesia, e vi riuscì per tal modo, che alcune delle sue
produzioni possono andar del pari colle più celebrate dei tempi presenti. […] Come politico fu egli
senza dubbio il personaggio più straordinario della sua, e forse ancora di ogni altra età. Sebbene
privato cittadino e mercante in Firenze, non solamente ottenne un’autorità assoluta in quello stato,
nel tempo che abbondava d’uomini di grandissimo talento ed ingegno, ma innalzossi per fino al
grado di solo arbitro dell’Italia, ed ebbe una considerabile influenza nella generale politica
dell’Europa.

9
***
Stendhal, Histoire de la peinture en Italie (1814-1816)
• Durata Rinascimento = vita di Michelangelo (1475-1563)
• Luoghi Rinascimento = Firenze e Roma (come già Roscoe)
• Usa il termine «renaissance» a proposito della pittura nell’Histoire (più volte) e alla fine
anche una «renaissance de la civilization»; ma più spesso «sedicesimo secolo».
• Vede Rinascimento italiano come secolo dell’energia individuale (grandi personaggi che
hanno avuto istinto, forza e amore di sé) vs Francia moderna, negatrice delle passioni e della
volontà individuale. Esaltazione dell’italiano come uomo rinascimentale.
• le grandi e vitali personalità (dotate di spontaneità, spirito, genio) furono prodotte dalla
repressione tirannica e dagli odi tra le fazioni (idea che tornerà in Burckhardt).
Stendhal, Promenades dans Rome (tr. it. di N. Gardini)
Lorenzo (il Magnifico) adorava l’antichità, di cui tutto gli sembrava affascinante, anche gli
errori e le colpe. Un temperamento di questo genere ebbero tutti gli uomini illustri
dell’Italia, da Petrarca e Dante fino all’epoca in cui ebbe inizio la dominazione spagnola nel
1530
***
Ètienne-Jean Delécluze, Firenze e le sue vicissitudini, (1837)
• «Fu Primo ad usare la parola Renaissance per descrivere l’impatto esercitato da una morta
civiltà ellenica sulla cristianità occidentale in un dato momento e in un dato luogo, cioè
l’Italia settentrionale e centrale, nel tardo medioevo» (Toynbee)
• Paragona il Medioevo a una città incendiata, i cui abitanti cercano riparo dove e come
capita; Rinascimento segue all’incendio, periodo in cui i cittadini sopravvissuti contemplano
le rovine fumanti e decidono il recupero di quello che può ancora servire. (questa metafora
non sarà ripresa: rimarrà un hapax). Rinascimento = culto antico + ripresa antico
• Il discrimine tra Medioevo e Rinascimento è Dante (è il primo traduttore francese della Vita
nova)
• Tre fasi del Rinascimento: 1) Dante; 2) Petrarca e Boccaccio; 3) Lorenzo il Magnifico.
• Limiti dell’interpretazione di D.: Rinascimento fiorentinocentrico e culto grandi personalità
***
J. P. Charpentier, Histoire de la renaissance des lettres en Europa au quinzième siècle (1843)
• Seguace imperterrito del classicismo (antesignano delle posizioni di Voigt);
• Riconosce che una prima rinascita avvenga già con Dante, Petrarca e Boccaccio, ma la vera
rinascita dell’antichità avviene solo nel XV secolo;
• Rivoluzione violenta sia nella lingua che nelle idee: separazione netta e totale tra Medioevo
e 400.

10
• A fronte di questo impianto teorico molto forte c’è una trattazione storica del movimento
umanista molto superficiale e deludente.
***
Jules Michelet, Histoire de France, (1855), parte VII: «la découverte du monde, la découverte de
l’homme»
• periodo iniziato con le guerre d’Italia (1494)
• Movimento onninclusivo e interdisciplinare
• riguarda tutta l’Europa del XVI secolo, non solo Firenze e Roma;
• significa secolarizzazione e spirito scientifico, cioè l’inizio del razionalismo illuministico;
• scoperte mediche e scientifiche e geografiche;
• riforme religiose,
• Leonardo è il «genio universale di ogni arte e di ogni scienza […] l’uomo completo,
equilibrato, onnipotente in ogni cosa, che riassumeva tutto il passato e anticipava
l’avvenire»;
• l’opera di Brunelleschi fu la prima pietra del Rinascimento.
• Rinascimento = modernità? Non proprio. È il prodromo della modernità, non ancora la
modernità (è un prodotto di poche menti eccelse, mentre il popolo continuò a restare
attaccato alle vecchie credenze. Il Medioevo non smette di finire)
Jules Michelet, Histoire de France, (1855), parte VII: ««la découverte du monde, la
découverte de l’homme». Introduzione e conclusione
Il XVI secolo, nella sua grande, legittima estensione va da Colombo a Copernico, da
Copernico a Galileo, dalla scoperta della terra alla scoperta del cielo. L’uomo ha ritrovato
se stesso. Mentre Vesalio e Serveto gli hanno rivelato la vita, per mezzo di Lutero e di
Calvino […] di Rabelais, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, egli è penetrato nel suo
mistero morale. Ha sondato le basi profonde della sua natura. Ha cominciato a insediarsi
nella Giustizia e nella Ragione.
Oh! Il Rinascimento è oscuro! L’umanità va lentamente, a scosse, e spesso sprofonda nella
pigrizia, nell’inerzia del passato. Portato dal movimento universale, lavora, fatica, ansima
e suda (…) Tale è il Rinascimento. Esso si cerca a tentoni, non si conosce, non sta ancora
in piedi.
***
Georg Voigt, Die Wiederbelebung des classischen Alterthums oder das erste Jahrhundert des
Humanismus («Il Risorgimento dell’antichità classica, ovvero il primo secolo
dell’Umanesimo»)
• 1859, 1a ed. in un volume; 1880-81 in 2 voll, ed. infarcita di citazioni, ed. più per gli eruditi
che per il grande pubblico; 1893 postuma;

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• Rinascimento nasce dalla riscoperta dell’antichità: grande affresco di ricostruzione
storiografica
• Umanesimo e Rinascimento per lui non sono due concetti separati, sono praticamente
sinonimi
• Respinge l’idea di «uomo universale» di Burckhardt: i potenti avevano bisogno di
legittimazione e quindi mantenevano poeti e artisti (visione più cinica e realistica di quella
titanico-romantica di B. del nesso oppressione: crescita individualità)
• Se Burckhardt è sintetico e ammaliante nella sua narrazione, Voigt è analitico nella sua
descrizione
• Il genio iniziatore di tutto è Petrarca (non lo “spirito italico” come per Burckhardt.; non
era il primo a dirlo: già il Tiraboschi);
• Modello cosmopolita: dalle piccole corti italiane nasce una nuova idea d’Europa e di civiltà
laica (cruccio gramsciano del carattere cosmopolita dell’intellettuale rinascimentale)
Georg Voigt, Valla e Alberti non sono emblematici delle loro epoche. La tirannia che
alimenta il genio creativo è un falso mito
Il Risorgimento dell’antichità classica, Sansoni, 1888, pp. 374, 463, 449
Forse aveva più stretti legami con gli artisti. Certo è che la sua vita e la sua attività sono
affatto fuori della cerchia degli Umanisti; egli se ne sta tutto solo nella sua fantastica
originalità (p. 374)
Il Valla superava senza alcun dubbio per forza d’ingegno e versatilità di cognizioni tutti i suoi
contemporanei (…) Era sì multilatere, ma si guardava bene dal voler essere uomo universale.
Egli concentrò le forze del suo ingegno intorno ad un punto, nel quale non temeva rivali: gli
studi grammaticali e critici (…) Ma si comprende altresì come egli nella sua vita e nelle sue
aspirazioni lottasse da solo. La vigorosa efficacia de’ suoi scritti presuppone un’età, nella
quale il desiderio delle lotte e delle riforme fosse generale e trascinasse le moltitudini. Ma fra’
suoi contemporanei nessuno sentiva un tale bisogno (p. 463)
Quei principi si cullarono nel sogno di una gloriosa immortalità, che, come una seconda vita
creata dalla fantasia, accompagnava la loro vita vera e reale. Da ciò gli onori esagerati, e i
premi eccessivi che si prodigavano a cotesti letterati di corte e che alla loro volta davano loro
la vertigine (…) E in ciò tornavano loro utilissime le rivalità e gelosie non mai assopite dei
principi fra loro, poiché per questi era un vero trionfo il potersi rubare le notabilità letterarie.
In una parola, i corifei del sapere furono elevati a rappresentanti della pubblica opinione, e
appunto per questo si pavoneggiavano come se fossero stati i padroni del mondo (p. 449)
Georg Voigt, Il Risorgimento dell’antichità classica… (introduzione)
La penisola è già matura alla dominazione straniera e non a quella di un padrone soltanto.
L’assenza della Curia da Roma e il dissidio ecclesiastico fomentano le religiose discordie degli
animi, e i sintomi precursori del grande Scisma accennano ad un totale divorzio tra le nazioni in
ciò che concerne la fede ed il culto. Come poteva Roma continuare ad essere il tempio dell’idea
cristiana universale?
Ma appunto allora si svolse in Italia il germe di una nuova civiltà, che dovea portare i suoi frutti
innanzi tutto nel campo letterario ed artistico e raccogliere poi sotto la bandiera delle lettere e
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delle scienze non l’Italia soltanto, ma tutto il mondo civile. A mano a mano che questo nuovo
indirizzo prevale, vanno perdendo importanza la politica della Chiesa, e le rivoluzioni.
Risuscitare lo spento mondo ellenico e romano per attirarli nella cerchia del mondo cristiano e
fonderli in esso, restaurare la scienza antica, infondere l’olezzo dell’arte pagana nei primi
germogli della vita romantica cristiana, congiungere il culto della forma e delle bellezza
materiale, quali le intesero gli antichi, con lo spirito delle nuove idee, - ecco la meta, cui
tendono d’ora in avanti le più nobili menti, ecco l’ideale, cui sono volti gli sforzi di un Ariosto,
di un Tasso, di un Bramante, di un Palladio, di un Leonardo, di un Raffaello.
***
Jacob Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien (1860)
• Fautore della tesi della «frattura» tra Medioevo e Rinascimento
• Libro diviso in sei parti: 1) Lo stato come opera d’arte; 2) Lo svolgimento
dell’individualità; 3) Il risveglio dell’antichità; 4) Scoperta del mondo esteriore e
dell’uomo; 5) La vita sociale e le feste; 6) La morale e la religione;
• affermazione dell’individualismo: Ariosto delle Satire, L.B. Alberti e Leonardo (ma
già Dante sembra entrare nella nuova epoca) viene fuori l’Ariosto in quanto tale,
in quanto uomo, con le sue problematiche, mentre Alberti e Leonardo uomini
universali; è la costrizione dei dispotismi, oltre ad un certo genio italico, a stimolare
l’ingegno e creatività;
• netta contrapposizione Rinascimento vs Medioevo (una stagione in cui l’uomo stava
come in sonno o in dormiveglia e contava come membro di un gruppo: ottica
collettivistica);
• Il ritorno agli antichi – pur affrontato – non ha parte primaria nella sua trattazione;
• Accuse: Rinascimento come fioritura improvvisa e isolata; inclinazioni estetizzanti e
psicologiche.
***
J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, tr. it. di D. Valbusa, Firenze, 2000, p. 125
(parte seconda: Lo svolgimento dell’individualità)
Nell’indole degli Stati, delle repubbliche e dei principati, di cui fin qui s’è tenuto discorso, sta, se
non l’unica, certo la più potente causa, per cui gl’Italiani, prima d’ogni altro popolo, si
trasformarono in uomini moderni e meritarono per questo di esser detti i figli primogeniti della
presente Europa.
Nel Medio-Evo i due lati della coscienza – quello che riflette in sé il mondo esterno e quello che
rende l’immagine della vita interna dell’uomo – se ne stavano come avvolti in un velo comune,
come in sogno o dormiveglia. Il velo era tessuto di fede, d’ignoranza infantile, di vane illusioni:
veduti attraverso di esso, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l’uomo non
aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione,
di una razza o di un’altra qualsiasi collettività. L’Italia è la prima a squarciar questo velo e a
considerare e a trattare lo Stato e, in genere, tutte le cose terrene, da un punto di vista oggettivo; ma
al tempo stesso si risveglia potente nell’Italiano il sentimento del soggettivo: l’uomo si trasforma
nell’individuo spirituale, e come tale si afferma.
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J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, tr. it. di D. Valbusa, Firenze, 2000, p. 125
(parte seconda: Lo svolgimento dell’individualità)
Così una volta il Greco si era emancipato di fronte ai Barbari, e così anche in altri tempi l’Arabo si
isolò dalle altre stirpi dell’Asia. Non sarà malagevole il dimostrare come soprattutto le condizioni
politiche hanno a questo contribuito […]
Col finire del secolo XIII l’Italia comincia a formicolare d’uomini indipendenti: l’anatema, che
prima aveva pesato sull’individualità, è tolto per sempre, e a migliaia sorgono le personalità dotate
di un carattere affatto proprio. Il gran poema di Dante sarebbe stato impossibile in qualunque altro
paese appunto per questo, che tutto il resto d’Europa sentiva ancora il peso di quell’anatema di
razza: per l’Italia dunque il divino poeta, proprio attraverso la pienezza della sua individualità, è
diventato l’araldo più fedele e nazionale del proprio tempo […] E se, per dare un esempio, è
assolutamente impossibile il fare una distinzione esatta di ciò che Lorenzo il Magnifico dovette alla
fortuna, da ciò che gli proveniva dalle proprie doti e dal proprio carattere, nell’Ariosto invece (e
specialmente nelle Satire) si ha il contrario, il caso cioè di una potente individualità, nella quale
cospirano mirabilmente la dignità dell’uomo e l’orgoglio del poeta, l’ironia di fronte ai propri
godimenti, il finissimo sarcasmo e la più profonda benevolenza.
***
Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo (1919)
• Fautore tesi continuista (tra Medioevo e Rinascimento). Contro tesi Burckhardt
• Focus sul ducato di Borgogna e la contea delle Fiandre del XV secolo (certe sue pagine
ricreano il mondo borgognone e sono splendide campiture; rilevanza dei miti cavallereschi e
dell’idillio pastorale)
• Svuota di senso la nozione di Rinascimento di Burckhardt (soprattutto critica concetto di
‘individualità’) e individua già nel Medioevo molte caratteristiche del Rinascimento
• Svalutazione del ruolo della filologia; rompe l’equazione Rinascimento = Modernità
• Del Rinascimento di Burckhardt Huizinga salva il sovramondo simbolico (riti, feste,
cerimonie), come ribadirà in Homo ludens (1938);
• Il suo campione è l’Ariosto del Furioso, visto come trionfo del gioco
• Con lui il Rinascimento perde i suoi connotati e si riduce a età di mezzo indistinta tra
Medioevo e Modernità
Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo, Firenze, Sansoni, 1978
La nuova forma e lo spirito nuovo non si compenetrano in un’unità vivente. Come le idee della
nuova epoca che sorge appaiono spesso in veste medioevale, così pure le idee più medioevali
furono esposte in metri saffici e con tutto un corteo di figure mitologiche. Il classicismo e lo
spirito moderno sono due cose assolutamente diverse. Il classicismo letterario è un bambino
nato vecchio. Per il rinnovamento delle lettere l’antichità non ha avuto quasi più importanza che
le frecce di Filottete. Ben altrimenti sono andate le cose per l’arte figurativa e pel pensiero
scientifico: qui la classica purezza dell’esposizione e dell’espressione, la classica universalità
dello spirito, il classico dominio della vita e l’intuito della natura umana, sono stati molto più
che un semplice punto di appoggio. Nell’arte figurativa il superamento del superfluo,
14
dell’esagerato, del contorto, del contraffatto e dell’ampolloso, è stata opera dell’antichità. E nel
dominio del pensiero il suo modello fu anche più indispensabile e più fecondo. Invece, nella
letteratura, il classicismo ha più ostacolato che favorito il trionfo del semplice e dell’armonioso.
Quei pochi che, nella Francia del secolo XV, adottano le forme umanistiche, non inaugurano
ancora il Rinascimento. Il loro animo, il loro tono è ancora medievale. Il Rinascimento giunge
soltanto quando il «tono di vita» cambia, quando alla mortificante negazione della vita subentra
un flusso nuovo e si leva una forte e fresca brezza; quando si va maturando negli spiriti la
gioconda certezza che gli splendori dell’antichità, in cui da così lungo tempo ci si era specchiati,
potevano esser riconquistati.
***
Eugenio Garin (si legge Garen), L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento
(1952)
• Sostenitore della tesi della frattura; è il Burck. Italiano
• Umanesimo (come studio dei classici) e Rinascimento (come studio della natura e
esperienza diretta della realtà) sono espressione della stessa cultura: sono pressoché
sinonimi
• La trasformazione
della mentalità
arriva sino a Bruno
e Galileo
• Al centro c’è la
filologia, non intesa
in mero senso
tecnico, ma come
abito di pensiero
che, storicizzando il
destino umano, aiuta
ad esaminare ogni
cosa iuxta propria
principia
• Eroe di Garin è Alberti: ma un Alberti molto diverso da quello di Burckhardt. Alberti
«Giano bifronte» produzione solare vs produzione pessimistica e non antropocentrica.
• Rinascimento come periodo contrastato e contraddittorio, tutt’altro che solo felicità e
lietezza (per dirla con Hegel).
Eugenio Garin, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Laterza, 2005 (1954 1a ed.), p. 99
L’umanesimo, che ama tanto Cicerone e Virgilio, non crede più a Virgilio profeta, o vi crede in
tutt’altro modo; a quel modo cioè in cui ogni uomo è partecipe della luce del vero; e a tal punto è
lontano dall’adorare gli antichi dèi, che talora può dar l’impressione di non credere neppure ai
nuovi. E il suo appassionamento per l’antico non è più barbara confusione di sé con l’antico, ma
critico distacco da quell’antico, e il suo collocamento nella dimensione della storia e nel tempio
augusto del passato. La favola del rinascimento pagano, giustificabile in sede polemica, e spiegabile
15
presso qualche scrittore decadente, ma che solo storici di poco senno potevano far propria, cade
nell’atto stesso in cui ci facciamo a studiare la profonda serietà della filologia dell’Umanesimo, che,
come già tanto acutamente vide il Gentile, è il lato essenziale di quella cultura: una filologia, si
badi, tanto ricca e complessa da accogliere in sé ogni posizione critica dell’uomo, e non già
pseudo-filosofia di non filosofi in lotta contro la filosofia, ma l’unica seria, vera, nuova filosofia.
La quale, proprio perché restaurazione dell’antico e scoperta dell’antico fu posizione dell’antico,
come altro da noi, amorosamente ricostruito, ma proprio per questo non più confuso con noi:
definizione di quello e di noi, scoperta dell’oggetto e del verace rapporto di noi con esso, con quel
mondo storico che l’uomo pone ed a cui si oppone, e in rapporto al quale si viene scoprendo e
formando. Proprio qui si opera quel consapevole distacco di cui tanto erano orgogliosi gli umanisti:
il distacco del critico, che alla scuola dei classici non va per confondersi con essi, ma per definirsi
in rapporto con essi.
Eugenio Garin, L’Umanesimo italiano, Laterza 1993 (ma 19521), pp. 21-22
Gli umanisti scoprono i classici perché li distaccano da sé, tentando di definirli senza confondere
col proprio il loro latino. Perciò l’umanesimo ha veramente scoperto gli antichi, siano essi Virgilio
o Aristotele pur notissimi nel Medioevo: perché ha restituito Virgilio al suo tempo e al suo mondo,
e ha cercato di spiegare Aristotele nell’ambito dei problemi e delle conoscenze dell’Atene del
quarto secolo avanti Cristo. Onde non può né deve distinguersi, nell’umanesimo, la scoperta del
mondo antico e la scoperta dell’uomo, perché furon tutt’uno; perché scoprir l’antico come tale fu
commisurare sé ad esso, e staccarsene, e porsi in rapporto con esso. (…)
Ma il punto in cui si concretò quella presa di coscienza fu l’accendersi di una discussione critica
innanzi ai documenti del passato che, indipendentemente da ogni resultato specifico, permise di
stabilire una nostra distanza rispetto a quel passato: quei settecento anni di tenebre – tanti ne
contava Leonardo Bruni – in cui ottenebrato era lo spirito di critica, in cui sembrava affievolita la
consapevolezza della storia come farsi umano. Quel punto di crisi si concretò e prese dimensioni
precise appunto nella «filologia» umanistica, che è consapevolezza del passato come tale, e visione
mondana della realtà e umana spiegazione della storia degli uomini.

Lezione del 4/02- Rinascimento Rinascimenti: 1990-2020, Trent’anni di


interpretazioni
Francisco Rico, Il sogno dell’Umanesimo (1993, 1998)
• Qual è il sogno umanesimo? ricostruire società completamente nuova sulla base di quella
degli antichi
• Chi sono i protagonisti di questo «sogno»? Petrarca, Valla, Alberti, Poliziano, Erasmo da
Rotterdam
• Perché il sogno non si realizzò? Fino a Poliziano la spinta propulsiva fu centrifuga perché
andava dai libri al mondo (la cultura si traduce «in actum», si dirige «ad vitam» in ogni
campo dello scibile); poi la direzione della forza si inverte e la spinta diventa centripeta, dal
mondo ai libri (si scade nello specialismo. Esempio: il vero nome di Virgilio era
«Vergilio»).
• Parabola intellettuale: da avanguardia a sapere tradizionale (semplice erudizione).

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Francisco Rico, Il sogno dell’Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Einaudi, 1998, p. 59
I più grandi umanisti dell’epoca precedente [a quella di Poliziano] erano stati eccellenti filologi,
consumati specialisti in tutto quanto avesse a che fare con l’antichità; ma allo stesso tempo,
partendo dal classicismo erano approdati ad altri campi, dalla filosofia alla politica, dalla geografia
alla religione, con l’intenzione di trasformarli in modo profondo e addirittura radicale. L’autentica
«eruditio» - proclamava Leonardo Bruni – unisce le parole alle cose: «litterarum peritiam cum
rerum scientia coniungit». Tutti aderivano a questa convinzione, in qualunque direzione la si
applicasse, al servizio di qualunque interesse la si mettesse, e tutti disprezzavano una dottrina che
non germogliasse in opere. Per loro il sapere era necessariamente attivo, permeava la vita privata e
si ripercuoteva su quella pubblica. Per un verso, questo atteggiamento era l’espressione dell’ideale
retorico che stava alla base dell’umanesimo fin dai suoi fondamenti, perché l’eloquentia dei retori è
soprattutto arte di persuasione, forma di dialogare e presenza nella polis. Per un altro verso
rispondeva alle circostanze in cui era nato l’ambizioso progetto di restaurazione totale
dell’antichità, e in ogni caso, la fede professata dai pionieri li stimolava e persino li obbligava a
dimostrare le potenzialità delle lettere classiche in quanto fattore di rinnovamento anche in campi
non strettamente letterari. È proprio quell’impulso a uscire dal guscio della filologia, quella volontà
di conquistare il mondo, ciò che si perde mano a mano che il Quattrocento si avvia verso la fin de
siècle. Non è cosa da sorprenderci troppo. Il destino delle avanguardie è di bruciarsi o di diluirsi
nella cultura dominante.
***
R. Witt, Sulle tracce degli antichi (2000, 2005)
• Dove parte l’Umanesimo? A Padova, con Lovato Lovati (nato nel 1240) e il suo allievo
Albertino Mussato (contemporaneo di Dante): sarebbero stati i primi a seguire le tracce
degli antichi e a inaugurare una visione mondana e secolare dell’uomo; poi prosegue a
Firenze con Leonardo Bruni e l’introduzione del ciceronianesimo nell’arte oratoria.
• Discipline coinvolte: prima grammatica e poi retorica (e poesia)
• Petrarca apparterebbe solo alla III generazione di umanisti
Ronald Witt, L’eccezione italiana (2012, 2017) The Two Latin Cultures and the Foundation of
Renaissance Humanism in Medieval Italy
• Come mai l’umanesimo è nato in Italia? Perché il filone della cultura documentaria dal IX-X
secolo non fu più esclusivo appannaggio degli uomini di Chiesa. Educazione laica produce
senso di discontinuità nel modo di vedere il passato
• Quali sono le due «Latin cultures»?
1. Cultura libraria dominata dalla grammatica (letteratura latina e letteratura patristica)
2. cultura documentaria giuridica (notai, fino alla metà XI sec.). Nessun’altra società europea
possiede questa distinzione.
• Molte discipline coinvolte da Witt nella sua ricerca (codicologia, filologia, paleografia,
storia del latino, teologia, diritto, retorica)
Ronald Witt, Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’Umanesimo, Donzelli,
2005 (ma 1a ed. 2000). Conclusione, p. 507

17
Questo libro insiste sul fatto che l’umanesimo italiano costituisce un serio problema storico.
Nonostante la grande massa di studi sull’umanesimo rinascimentale in Italia, quasi nulla è stato
scritto sulla sua origine. Trovare la spiegazione per questo non è difficile. Finché Petrarca, che
visitò per la prima volta l’Italia nel 1337, quando era ormai adulto, verrà considerato il progenitore
del movimento, gli studiosi faranno risalire le origini dell’umanesimo nella penisola italiana ai
contatti da lui avuti con vari personaggi in numerose città dell’Italia centro-settentrionale a partire
dagli anni quaranta del Trecento. Le origini dell’umanesimo italiano, di conseguenza, non
appariranno problematiche. Lovato e Mussato potranno essere definiti «preumanisti», ma la loro
carriera servirà essenzialmente da prefazione alla storia principale che ha inizio ad Avignone. Una
volta che il primo impulso sia fatto risalire, invece, a un fenomeno italiano che comincia a metà del
XIII secolo, la questione delle origini si pone in modo pressante. […] Questo libro ha offerto
un’analisi alternativa a quella oggi corrente circa lo sviluppo dell’umanesimo italiano nelle sue
fasi iniziali. Considerare Petrarca un umanista di terza generazione significa rendersi conto della
sterzata da lui impressa all’umanesimo rispetto all’orientamento laico e civile delle prime due
generazioni di umanisti […] Il riconoscimento del ruolo rivoluzionario svolto da Petrarca in un
movimento già esistente accresce in noi la consapevolezza della sua originalità, mentre ci permette
di valutare in modo più completo le difficoltà di coloro che, come Salutati, cercarono di adattare
l’umanesimo cristiano di Petrarca ai bisogni degli abitanti delle città-stato repubblicane. Il carattere
secolare che contraddistingue l’umanesimo dei discepoli di Salutati non necessita di molte
spiegazioni. L’umanesimo italiano non fu all’inizio, come alcuni studiosi vorrebbero, un
movimento di profonda ispirazione cristiana ancora strettamente legato alle tradizione del
cristianesimo medievale, in seguito secolarizzato da Bruni e dai suoi seguaci. Conscia o no dei suoi
antenati, la quinta generazione degli umanisti restituì l’umanesimo al contesto laico delle sue
origini, da cui era stato strappato da Petrarca.
***
Ch. S. Celenza, Il Rinascimento perduto. La letteratura latina nella cultura italiana del
Quattrocento (2004, 2014)
• Pto di partenza: come mai in una collana filosofica uscita per il Sole 24 ore c’è un buco di 3
secoli da Tommaso d’Aquino a Montaigne?
• L’autore vuole guardare alla produzione 400esca con criteri interni, non con l’ottica 800esca
che ha prodotto il canone odierno. Storiografia si è concentrata sulla metafisica e
sull’epistemologia piuttosto che sulle caratteristiche proprie della filosofia del 400: etica
attraverso il dialogo (con posizioni talora ambigue).
• Analizza il lungo XV secolo (da Petrarca a Bembo) e la sua letteratura perduta, cioè quella
latina degli umanisti, di Bruni, Valla, Alberti, Ficino, Filelfo. Perché è scomparsa? Perché
quello che gli umanisti consideravano filosofia non lo è per i curricula di studi moderni.
• Etica, dialogo e unione di ideali letterari con la pratica sociale: questo fu il contributo
principale dell’umanesimo letterario.
***
G.M. Anselmi, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell’Europa
moderna, Roma, Carocci, 2008
• Il suo libro comprende 15 saggi, da Dante a Tasso, fino alle soglie del Barocco

18
• Invita a declinare al plurale Umanesimo e Rinascimento (per il loro articolarsi nelle varie
città italiane): Umanesimi e Rinascimenti
• Sulla scorta di Braudel, invita a considerare un “secolo lungo” che va dalla metà dal 1450
ca al 1630 ca
• Non c’è una sola modernità, quella che si attesta canonicamente sullo spartiacque
settecentesco della nuova economia industriale e delle rivoluzioni ma più percorsi spezzano
legami antichi e classici, su lunghe durate antropologiche. Basti pensare a Machiavelli e
Guicciardini per il pensiero politico o a Galilei per la scienza o a Shakespeare per il cuore
drammatico della letteratura o alla Ratio Studiorum dei Gesuiti per il grande aspetto della
storia della formazione delle classi dirigenti nonché dei saperi pedagogici tout court.
***
U. Dotti, La rivoluzione incompiuta. Società, politica e cultura da Dante a Machiavelli (2010)
cfr. Henry de Lubac, L’alba incompiuta del Rinascimento. Pico della Mirandola, 1977
• Periodo esaminato: da Dante a Machiavelli (1250-1550);
• 11 capp. divisi in due parti: L’Italia all’avanguardia e La corte e la crisi;
• Umanesimo: consiste nella sua lotta di liberazione dal trascendente religioso per la conquista
dell’umano e dell’immanente
• Sulla scorta gramsciana, Dotti denuncia il progressivo divario tra mondo del sapere e masse
popolari
• Fa di Machiavelli (soprattutto), Bruno e Galileo i campioni del pensiero laico, che portano
avanti il testimone dell’umanesimo (dal trascendente all’immanente) in un secolo in cui la
maggior parte dei letterati si fa complice dell’atmosfera di ristagno e di pesante
conservazione dell’Italia spagnola
Ugo Dotti, La rivoluzione incompiuta. Società politica e cultura in Italia da Dante a Machiavelli,
Aragno, 2010, p. 320 (epilogo)
Tra la stesura del Principe (1513) e il processo e la condanna di Galilei (1633) corrono un secolo e
due decenni, e sono anni che portarono allo scoperto, qui in Italia, le profonde contraddizioni di una
società (quella rinascimentale) che pure a molti, ancor oggi, continua ad apparire fulgida di
splendori. Ma la verità è che la cultura umanistica, pur ricca di tante energie e tanta vitalità,
pagava con la sconfitta il suo essersi progressivamente distaccata da quello che anche
Machiavelli chiamava il popolo-nazione e il suo essersi, altrettanto progressivamente, chiusa in
un’aristocrazia intellettuale incapace di affrontare e risolvere i gravi problemi che il generale
sviluppo borghese veniva sempre più imponendo all’Europa: la fondazione dello Stato unitario. Da
noi avvenne anzi l’esatto contrario e dopo cinquant’anni di fluttuazioni, con la conclusione dello
scontro tra Francia e Spagna [pace di Cateau Cambresis, 1559] per il possesso della penisola e con
il ritorno in forze della Chiesa controriformata, la partita, per quasi due secoli, poté ritenersi risolta:
due monarchie, come ebbe a esprimersi Paolo Sarpi nel 1617, stabilirono le loro forze su di noi: una
sopra i corpi, la Spagna, e l’altra sopra le anime, la Chiesa cattolica. […]
Il Cinquecento, con Bembo e tanti altri teorici, sancisce sicuramente la vittoria del volgare sul
latino; ma quale volgare? Non quello di Dante, il «sole nuovo» che doveva accompagnare e
irradiarsi.
19
***
E. Crouzet-Pavan, Rinascimenti 1380-1500 (2012) (cfr. anche R. Rinaldi, Rinascimenti.
Immagini e modelli dall’Arcadia a Tassoni, FrancoAngeli, 2010)
• «Terza via» rispetto alla ricerca specialistica o alla compilazione divulgativa
• Varie narrazioni-saggistiche che diano una riflessione d’insieme. Si parte da situazioni
concrete, soffermandosi su una figura, scena, breve periodo.
• Consapevolezza che la materia rinascimentale sfugge da tutte le parti, è piena di
contraddizioni come tutte quelle epoche che sono un «intreccio di stratificazioni culturali e
temporali», in cui il passato è ancora vivo e il futuro sta nascendo, in cui la congiuntura
politica innovativa s’incrocia con i tempi lunghi dell’economia e le costanti immutabili del
paesaggio
1) “Le tems revient”;
2) Le ombre del passato;
3) Governare il tempo;
4) Alla ricerca del potere;
5) Le molte vite del primato economico;
6) Il teatro degli esseri: drammaturgia dell’io e degli altri;
7) La rappresentazione delle apparenze;
8) Presenze di Dio, testimonianze degli uomini
Elisabeth Crouzet-Pavan, Rinascimenti 1380-1500, Viella 2012 (20071)
Firenze, 1469: il torneo ha inizio. Il corteo dei concorrenti percorre la città in festa prima di entrare
in piazza Santa Croce dove ha luogo la competizione. Giovani gentiluomini, uomini d’arme, paggi e
musici scortano i campioni: 180 cavalieri sfilano precedendo i pedoni. Squillano le trombe,
riecheggia il calpestio degli zoccoli dei cavalli, si dispiegano gli stendardi, i costumi splendono
perché in questa occasione bisogna dare di piglio alla magnificenza, anche nella Firenze
ufficialmente ancora repubblicana: per l’abbigliamento di Lorenzo de’ Medici, vestito di velluto
bianco e viola scuro, si sono spesi ben 10.000 fiorini (cap. 1, p. 18)
“Per accedere agli appartamenti ducali posti al primo piano del palazzo di Urbino si passava
attraverso “la porta della guerra”. Questa porta non era solo un punto di passaggio: soglia e limite
tra due spazi, era parte integrante delle cerimonie che mettevano in scena la presenza e il potere del
principe (cap. 4, p. 156)
***
M. Pellegrini, Religione e Umanesimo nel primo Rinascimento. Da Petrarca ad Alberti (2012)
• Umanesimo come cultura della discontinuità, concorrenziale rispetto alla cultura clericale
ma non irreligioso o addirittura ateo
• Convinzione: uno dei motivi principali dell’umanesimo italiano, in quanto “primizia” della
modernità sta nell’aver riconfigurato i termini del rapporto tra fede religiosa e cultura.
Mettendo fine alla subordinazione della seconda alla prima, istituita dal Medioevo cristiano,
l’umanesimo italiano introdusse tra questi due elementi un principio di tensione distintiva
nel quale sono ravvisabili le premesse della moderna laicità.
20
• La ragione umanistica puntò a rinnovare, e non certo a distruggere né a superare, il
cristianesimo storico a cui sempre si ricollegò
• Ci furono diverse Rinascite nel Medioevo, sì, ma tutto il Medioevo può essere considerato
una lunga incubazione di quelle dirompenti novità che l’umanesimo rinascimentale portò
alla luce. (cfr. Le Goff, Il tempo continuo della storia, il Rinascimento è solo l’ultima fase di
un lungo Medioevo che ha conosciuto diversi momenti di rinascita)
***
A. Quondam, Rinascimento e classicismi. Forme e metamorfosi della modernità, 2013
• Tesi radicale: il Rinascimento è la «prima discontinuità» e va da Lovati (1240-1309) a
Petrarca
• Compromesso: è disposto ad estenderlo a gran parte del 400 latino
• Classicismi (con le loro metamorfosi): «discontinuità secondaria»
• Rico sbaglia a parlare di fine del ‘sogno dell’Umanesimo’ con la morte di Erasmo:
l’umanesimo non si esaurisce affatto ma trasfonde la sua energia nel classicismo volgare.
A. Quondam, Rinascimento e classicismi. Forme e metamorfosi della modernità, 2013, il
Mulino, conclusioni
Se tutti, da Lovati in poi, sono d’accordo nel registrare per le lettere e le arti (e i mores) una ri-
nascita della morte, una resurrezione dal sepolcro in cui erano sprofondate per secoli, questa ri-
nascita/re-surrezione non può certo durare all’infinito, perché, dopo essere ri-nate/ri-sorte, possono
solo crescere e maturare (e morire di nuovo), sempre che la ri-nascita non sia cosa effimera.
Per un dato logico e di buon senso, che è pure un solido luogo comune che appartiene alla cultura di
allora (come si è visto, Vasari lo ricorda esplicitamente): la storia delle lettere e delle arti (e dei
costumi) è una historia naturalis, e dunque non può che essere narrata per analogia con il corso
della natura che regola e governa le canoniche età dell’uomo. E la natura è molto chiara: i suoi corpi
nascono (e muoiono) una sola volta, e tra questi limiti biologici è necessariamente compresa la loro
vita, nelle diverse fasi che ne scandiscono le età […] Sulla base di queste considerazioni ritengo che
sarebbe opportuno usare la categoria di Rinascimento (& Co.) in modo molto ristretto e mirato. E
solo nei campi (strepitosamente ampi e ricchi) dei modelli e delle pratiche culturali, proprio per
enfatizzare la fase originaria e fondativa: quel secolo tra Lovati e Petrarca, insomma, che sogna di
tornare a scrivere nella «prìstina forma» degli Antichi. Abbandonando quelle curiose marcature in
bilico tra periodizzazione e valutazione qualitativa: ‘primo’, ‘pieno’, ‘maturo’, ‘tardo’… […]
Conosco però troppo bene l’illustre tradizione di studi che ha generosamente configurato la
staffetta, più o meno continua, tra le generazioni di umanisti, per pensare che possa essere
tranquillamente ricompresa sotto questa etichetta, anche per i motivi che poco più avanti esporrò,
oltre che per la forza inerziale delle consuetudini e delle pigrizie. E dunque tanto vale trovare subito
una soluzione di compromesso, estendendo la copertura dell’etichetta ‘Rinascimento’ fino a
comprendere gran parte del Quattrocento, quello che insiste nel latino come lingua del presente e
del futuro: cioè, includendo la fase di elaborazione e definizione delle forme della modernità nei
diversi campi, compreso il recupero del «vir bonus dicendi peritus», e la messa a punto delle
istituzioni fondamentali della nuova cultura (scuola e accademia).
La fondazione di un Rinascimento umanistico: latino.
21
***
M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, 2019
• Prosegue Garin e lo supera: la filologia degli umanisti è intimamente filosofia e teologia
• Riflessione sul passato è complementare alla riflessione sul futuro.
• Nucleo tragico del pensiero umanistico, fortemente anti dialettico, in cui cioè le polarità
opposte non si armonizzano né vengono ricomposte: la vita per gli umanisti è una
vicissitudo perenne che non si riesce ad arrestare e a definire
• La sua è una antologia umanistica filosofica nel segno prevalente del tragico (Petrarca,
Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla, Alberti, Ficino, Landino, Pico,
Poliziano, Savonarola, Leonardo, Machiavelli).
Tema dell’inquietudine come chiave interpretativa del Rinascimento negli ultimi anni. Altri saggi
furono:
• Ezio Raimondi, Rinascimento inquieto, Manfredi 1965 (Einaudi 1994)
• Lorenzo Lotto: il genio inquieto del Rinascimento, Skira 1998
• F. Petrarca, Le lettere dell’inquietudine, a cura di L. Chines, Carocci 2004
• Matteo Residori, Classicisme inquiete. Pratiques de l’imitation, singularitè des voix,
expériences de la crise dans la culture italianne es 15e-17e siécles, Littératures, Université
de la Sorbonne Nouvelle Paris, Paris, 2016
***
N. Gardini, Rinascere. Storie e maestri di un’idea italiana (2019)

N. Gardini, Rinascere. Storie e maestri di un’idea italiana, Garzanti, 2019, Congedo, pp. 266-
267
Il Rinascimento fu la cultura di un tempo di diffusa crisi, quando molti stati concorrenti e infiniti
particolarismi locali faticavano ad assicurare stabilità a qualunque livello e i disaccordi spianavano
la strada agli invasori. Ne derivarono guerre, distruzioni, perdite incalcolabili, una generale
umiliazione, di cui il Sacco di Roma del 1527 fu solo il simbolo più clamoroso. Invitando a tornare
al Rinascimento, intendo semplicemente che certi suoi discorsi, certi suoi sogni possono fornirci i

22
concetti per agire oggi: armonia, esperienza, fede nel sapere, volontà di comprensione e di
interpretazione, immaginazione enciclopedica, attenzione alla natura (…)
Il Rinascimento è un’immaginazione utopica, anche quando sembri celebrare trionfalisticamente
l’attualità; è un sistema di ipotesi e immagini sul miglioramento di sé e della società,
sull’educazione dell’essere umano, sulla rinascita, appunto. Si tende a presentare il Rinascimento
come cultura classicistica e retrospettiva. La riscoperta degli antichi è senza dubbio un aspetto
fondamentale del Rinascimento, dal quale sono discese una moderna filologia e tutta una nuova –
influentissima – letteratura. Dobbiamo però considerare, come ho fatto qui di capitolo in capitolo, la
vocazione riformatrice del Rinascimento e subordinare a questa anche il recupero degli antichi. Per
tale ragione ho molto insistito, oltre che sulle fonti latine e greche, anche sulla volontà di futuro e
sull’aspetto profetico, di cui taluni dei nostri nove autori sono esemplificazioni eminenti
***
Per concludere In quali forme si sedimenta la nuova conoscenza storica? Non tutti gli studiosi
seguono un’unica strada – e le preferenze dei singoli obbediscono spesso a segrete inclinazioni
individuali. C’è il ricercatore che punta a ridefinire un campo di studi attraverso una nuova
narrazione complessiva. C’è lo specialista che procede accumulando un numero di contributi
particolari e che a poco a poco riesce a sovvertire l’intero quadro senza prodursi mai in un racconto
alternativo. C’è l’esperto che si concentra solo sulle figure e sugli snodi principali – quelli che sono
entrati persino nell’immaginario dei non addetti ai lavori. E c’è lo storico che sonda il terreno a
caccia di oggetti di ricerca solo apparentemente minori che, una volta indagati a dovere, gli
consentono di gettare nuova luce sulle questioni decisive: e lì rivolge tutte le proprie attenzioni.
Gabriele Pedullà, recensione a A. Brown, Piero di Lorenzo de’ Medici and the crisis of Italian
Renaissance, Cambridge, 2020, «Il Sole 24 Ore», 7 febbraio 2021, p. VI

Nuovi luoghi e istituzioni, imitazione, teorie linguistiche, rinascita del


teatro e Petrarchismo

I. Gli antichi e i moderni. Il concetto di imitazione, la questione della lingua, la


rinascita del teatro classico
Tutto ha origine con Petrarca
- Familiare I 8 a Tommaso Caloiro («De inventione et ingenio») si debbono, nelle invenzioni,
imitare le api, che non rendono i fiori quali li hanno ricevuti, ma con le loro manipolazioni li
trasformano mirabilmente in cera e miele.
- Fam. XXIII 19 indirizzata a Boccaccio nel 1366  l’imitatore deve cercare di essere simile,
non uguale, e la somiglianza deve essere tale, non qual è quella tra l’originale e la copia,
che quanto più è simile tanto più è lodevole, ma quale è tra il padre e il figliuolo.
Una lunga contesa tra ciceroniani e anticiceroniani
- Poliziano vs A. Cortesi (1492).

23
- Giovan Francesco Pico (De imitatione) vs P. Bembo (1512-1513). Pico sostiene che bisogna
essere aemulatores, non imitatores; seguire l’idea della perfetta eloquenza; ogni uomo ha in sé
un simulacrum pulchritudinis, e questo deve esprimere.
- Giulio Camillo Delminio: Della imitazione (1530, ma ed. 1544): reazione al Ciceronianus di
Erasmo (1528). Valore imitazione del modello unico: «colui che imita un perfetto imita la
perfezione di mille raunata in uno»; la corretta imitazione è assunzione dell'"artificio", dello
schema compositivo e, in via subordinata, delle parole.
- 1532-1537: ciceroniano Giovan Battista Giraldi Cinzio (1532, Super imitatione epistola) vs
suo maestro eclettico Celio Calcagnini (1537: commento alla lettera del Giraldi: propone una
prosa d'arte includente i modelli di Livio, Cesare, Celso, il prediletto Plinio: imitazione
multipla: imitare l’eccellenza specifica di tutti i migliori.
- Veronese Girolamo Fracastoro, Naugerius sive de poetica (in Opera omnia postumi del 1555).
Tentativo di conciliazione. Dialogo sul poeta, aristotelicamente definito ‘imitatore’: tentativo
di conciliare dottrina imitazione di Aristotele e del carattere universale e filosofico della poesia
con quella del ‘bello’ di Platone. Parla Navagero per l’autore: imitazione è strumento per dare
rappresentazione non della realtà in sé, ma del bello – anche in senso morale – in essa presente.
- Angelo Poliziano, lettera a Paolo Cortese [1492]
Quelli che compongono solamente imitando mi sembrano simili ai pappagalli che dicono
cose che non intendono. Quanti scrivono in tal modo mancano di forza e di vita; mancano di
energia, di affetto, di indole; sono sdraiati, dormono, russano. Non dicono niente di vero,
niente di solido, niente di efficace. Tu non ti esprimi come Cicerone, dice qualcuno.
Ebbene? Io non sono Cicerone; io esprimo me stesso […] io vorrei che tu non ti lasciassi
avvincere da codesta superstizione che ti impedisce di compiacerti di qualcosa che sia
completamente tuo, che non ti permette di staccare mai gli occhi da Cicerone. Quando
invece Cicerone ed altri buoni autori avrai letto abbondantemente, ed a lungo, e li avrai
studiati, imparati, digeriti; quando avrai empito il tuo petto con la cognizione di molte cose,
e ti deciderai finalmente a comporre qualcosa di tuo, vorrei che tu procedessi con le tue
stesse forze, vorrei che tu fossi una buona volta te stesso, vorrei che tu abbandonassi codesta
troppo ansiosa preoccupazione di riprodurre esclusivamente Cicerone, vorrei che tu
rischiassi mettendo in gioco tutte le tue capacità.
- Paolo Cortese, risposta a A. Poliziano [1492]
Non hai motivo, caro Poliziano, di distogliermi dall’imitazione di Cicerone. Rimproverami
piuttosto l’incapacità di imitarlo bene, ancorché io preferisca essere seguace e scimmia di
Cicerone piuttosto che alunno e figlio di altri. C’è tuttavia una grande differenza fra il
metodo dell’imitazione e chi non intende imitare nessuno. Secondo me non solo
nell’eloquenza, ma in tutte quante le altre arti è necessaria l’imitazione. Ogni sapere si
fonda su una precedente cognizione […] considera adesso quanti si sono scelti come
modello Marco Tullio, come ne siano lontani, come siano fra loro diversi. Livio raggiunse
una certa scorrevole ricchezza senza misura, Quintiliano un suo acume, una particolare
sonorità Lattanzio, Curzio una certa leggerezza, Columella una singolare eleganza. Tutti si
proposero lo stesso modello da imitare, eppure essi sono tra loro grandemente dissimili e
tutti sommamente distanti da Cicerone. Si comprende così che l’imitazione è cosa che va
gravemente meditata, e che fu degno di somma ammirazione l’uomo da cui, come da una
fonte perenne, derivarono ingegni tanto diversi.
Questione della lingua
- Grande questione culturale, non solo tecnica.
24
- Pressione degli editori, che avevano bisogno di un medium culturale il più possibile omogeneo
per vendere i loro prodotti fuori dalle mura cittadine.
- Problema per alcuni solo di favella (lingua parlata), per altri di lingua scritta
- Ipotesi in campo 1. Opzione cortigiana; 2. Opzione toscana; 3. Opzione trecentista, 4.
Opzione conciliante (trecentista + toscana).
1. Opzione cortigiana:
a. Proposta di una lingua mista, mélange delle lingue parlate nelle corti italiane del
tempo. Lingua come favella, come elemento centrale di un codice cortigiano.
b. Non perseguono un’unità linguistica nazionale: il loro è un problema stilistico, di
raffinatezza cortigiana. Modello legato alla vitalità politica e culturale delle corti del
’400. Va in crisi con le guerre d’Italia.
c. Principali esponenti: mantovani Mario Equicola e Baldessar Castiglione, Vincenzo
Colli detto il Calmeta, vicentino Gian Giorgio Trissino,
Vincenzo Colli, il Calmeta (1460-1508) Vocazione eclettica della tradizione
migliore, quella di chi «si sforzò el mirabile instinto datoli dà la natura nel suo grado
con l'artifizio adornare». Nove libri della volgar poesia (oggi perduti: fonte: Bembo
e Castelvetro), dove il C. proponeva come lingua nazionale la lingua della corte
pontificia perché attirava letterati da ogni parte d’Italia, ed era un crogiuolo
linguistico («per la varietà delle genti che sì come fiumi al mare vi corrono»).
Gian Giorgio Trissino (1478-1550)  Il Castellano (1529), «dialogo nel quale si
parla della lingua italiana», ambientato a Roma nel 1524: parla al posto dell’autore
Giovanni Rucellai (il «castellano» di Castel S. Angelo), in dialogo con Filippo
Strozzi, proponendo un "volgare illustre o cortigiano", mobile e aperto, fondato in
parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli autori della tradizione
letteraria; Sannazaro sta ad ascoltare e interviene solo alla fine schierandosi con
Rucellai; pubblica la princeps del De vulgari eloquentia e lo traduce anche in
italiano (1530): fraintende il termine latino discretio (“capacità di distinzione”)
traducendolo con “mescolanza” (delle lingue). Trissino scrive anche una
Grammatichetta, a struttura non dialogica come Giovan Francesco Fortunio, Regole
grammaticali della volgar lingua (1516): prima grammatica sistematica dell’italiano
2. Opzione toscana
Niccolò Machiavelli (?), Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua: carattere
fiorentino, non toscano o italiano, della lingua delle Tre Corone.
Claudio Tolomei, senese, dialogo Cesano (1528, ma ed. 1555) dichiara che la lingua
italiana «in Fiorenza è nata, ivi ha fatto il nido suo, ivi è nutrita, ivi cresciuta, ivi si parla,
ivi s’usa perfettamente».
Giovambattista Gelli, Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra
lingua (1551), prefazione al manuale di grammatica del Giambullari, Regole: i tempi
non sono maturi per grammaticalizzare la lingua toscana in quanto questa sta vivendo
una fase prorompente impossibile da fissare in regole precise («è viva, e va all’insù»).
Bembo vedeva una corruzione laddove il Gelli vedeva una progressione dalle Tre
Corone.
3. Opzione trecentista
1525: Prose di P. Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua (3 libri)
Ambientazione: Venezia, 1502, casa di Carlo Bembo
Interlocutori: Carlo, Giuliano de’ Medici, Federico Fregoso e poeta latino Ercole Strozzi.
Dialogo parte dalla volontà di convincere Ercole sulla dignità della scrittura volgare
25
Contenuti: I libro: storia della lingua volgare; II libro: taglio retorico-stilistico
(«gravità», «piacevolezza», «variatio»); III libro: grammatica del volgare letterario, con
amplia esemplificazione
Bersaglio polemico: l’opzione cortigiana, in particolare nella declinazione ‘romana’
avanzata dal Calmeta: impossibilità di fissare una lingua legata ai mutevoli pontificati
transnazionali
Modelli: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa (soprattutto quello della cornice)
Dante «grande e magnifico poeta» ma… «ha in maniera operato, che si può la sua
Commedia giustamente rassomigliare ad un bello e spazioso campo di grano, che sia
tutto d’avene e di logli e d’erbe sterili e dannose mescolato, o ad alcuna non potata vite
al suo tempo, la quale si vede essere poscia la state sì di foglie e di pampini e di viticci
ripiena, che se ne offendono le belle uve» (Bembo, Prose, II, 20)
In difesa di Dante. Contro Bembo Niuno fia di voi, che abbandoni la eleganza di
Dante, et specialmente dove egli più luce. Però che Dante Alighieri a tempo e luogo si
sappia dimostrar nel comporre giunture con splendor intercise, et membra
leggiadramente intiere. Egli veramente vi donerà numeri politi et lucenti tra groppi aurei
de grandi e notabili sentenze. Istretto partorir è Dante, e di sottili, e poetici argomenti
maraviglioso testore, e di storie candido ricercatore; nel cui poema nulla cosa è impedita,
nulla arida, et in fine nulla vota. Questi, e mostralo a dito, in voce istesa, non interrotta,
ma tonante ogn’hora se va cantando. Costui nel cercoito di tutte l’arti honeste hor fa col
stile nascostamente giuocare, et hor gli affetti humani dinanzi a gli occhi
apertissimamente pone; e con gravità sommamente dilettare. Oltre a questo, con ogni
intento e benigno lettore, quando è di mestiero, esso Dante ride, esso piange, esso geme,
esso grida, esso insegna; e gli intelletti mal sani de’ mortali per artificio di compiuta
eloquenza ispaventa, et ha sempre in pugno, onde possa da morte a lieta vita
mirabilmente comportargli.
Nicolò Liburnio, Tre fontane, Venezia, Gregorio de’ Gregori, 1526
Petrarca realizza il perfetto equilibrio tra «gravità» e «piacevolezza»
(Prose, II, 9) «sotto la gravità ripongo l’onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza,
la grandezza, e le loro somiglianti; sotto la piacevolezza ristringo la grazia, la soavità, la
vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i giuochi, e se altro è di questa maniera» (II, 9).
4. Opzione conciliante (Bembo-fiorentino) Benedetto Varchi, Ercolano (1560-65, ed.
postuma 1570). Dialogo tra Varchi e il conte Ercolani sulla natura del volgare. La lingua
in cui hanno scritto Dante, Petrarca, Boccaccio e gli altri grandi scrittori non è «né
cortigiana, né italiana, né toscana ma fiorentina». Proposta di conciliare il rispetto del
classicismo volgare del Bembo e la rivendicazione dei diritti dell’uso, mediante un
accordo fra i modelli della lingua scritta (le Tre Corone) e il parlato colto della Firenze
moderna.
P. Bembo, Prose…I 18 E perciò che non si può per noi compiutamente sapere quale
abbia ad essere l'usanza delle favelle di quegli uomini, che nel secolo nasceranno che
appresso il nostro verrà, e molto meno di quegli altri, i quali appresso noi alquanti secoli
nasceranno; è da vedere che alle nostre composizioni tale forma e tale stato si dia, che
elle piacer possano in ciascuna età, e ad ogni secolo, ad ogni stagione esser care; sì come
diedero nella latina lingua a' loro componimenti Virgilio, Cicerone e degli altri, e nella
greca Omero, Demostene e di molt'altri ai loro; i quali tutti, non mica secondo il
parlare, che era in uso e in bocca del volgo della loro età, scriveano, ma secondo che
parea loro che bene lor mettesse a poter piacere più lungamente. Credete voi che se il
26
Petrarca avesse le sue canzoni con la favella composte de' suoi popolani, che elle così
vaghe, così belle fossero come sono, così care, così gentili? Male credete, se ciò credete.
Né il Boccaccio altresì con la bocca del popolo ragionò; quantunque alle prose ella
molto meno si disconvenga, che al verso. Che come che egli alcuna volta,
massimamente nelle novelle, secondo le proposte materie, persone di volgo a ragionare
traponendo, s'ingegnasse di farle parlare con le voci con le quali il volgo parlava,
nondimeno egli si vede che in tutto 'l corpo delle composizioni sue esso è così di belle
figure, di vaghi modi e dal popolo non usati, ripieno, che meraviglia non è se egli ancora
vive, e lunghissimi secoli viverà.
Trionfo dell’opzione trecentesca-bembiana
- Il Cortegiano viene rivisto linguisticamente in base alle norme bembiane da Giovan Francesco
Valier;
- le Rime di Sannazaro vengono corrette in senso bembiano nell’ed. 1530 (postuma);
- Ariosto riscrive il suo Furioso dopo la pubblicazione delle Prose (Ferrara, 1532);
- l’Innamorato del Boiardo è «rifatto tutto di nuovo» da Francesco Berni (anni 1532-1535 ca) in
fiorentino, anche corrente, con aggiunte di taglio morale e autobiografico, ma,
significativamente, la rassettatura linguistica più fortunata è quella trecentesca operata da
Lodovico Domenichi (1545), che avrà lunga fortuna fino all’800
- La rinascita del teatro classico
- La sfida dei moderni agli antichi
- Commedia
- Genere nel quale è più difficile allontanarsi dai modelli antichi
- Ma la commedia è molto più libera dalle teorizzazioni della tragedia
- Si sviluppa nelle corti padane: “corti gemelle” di Ferrara e Mantova
- Ferrara, 1486: prima rappresentazione plautina; tra 1486 e 1500 viene scritto da Pellegrino
Prisciani il primo trattato sugli edifici adibiti a rappresentazioni drammatiche e ludico-
agonistiche, ma anche edifici pubblici e spazi urbani: Spectacula
- 1503 Mantova. Formicone (nome servo protagonista) di Publio Filippo Mantovano: prima
commedia in volgare ‘originale’ (la trama non dipendente da Plauto e Terenzio, ma dall’Asino
d’oro di Apuleio). 5 atti preceduti da un Argumento, secondo modello plautino. È in prosa
Tappe rinascita commedia nel primo ’500
- 1508, Ferrara. Ariosto, Cassaria (< Cistellaria plautina). Allestimenti scenici straordinari, che
coinvolgono gli spettatori, calati nel mondo fittizio di Metellino (fittizia città greca) ma piena di
allusioni al mondo ferrarese. È in prosa, ma negli anni ’20 verrà riscritta in endecasillabi
sdruccioli.
- 1509, Ferrara, Ariosto, Suppositi. Prologo: «Terenzio [dell’Eunuco] e Plauto [dei Captivi]
medesimi, risapendolo, non l’arebbono a male, e poetica imitazione, più presto che di furto, li
darebbono nome»
- 1513, Urbino, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Calandria (regia di Castiglione). «In prosa, non
in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina». Prologo: ci si difende dalle accuse di furto
verso Plauto [schema dei gemelli separati dall’infanzia desunto dai Menaechmi]. Il Bibbiena
‘sfida’ l’antico modello con molti ammicchi e allusioni al Decameron, trasposto in una Roma
prosaica e demonumentalizzata. Calandro, il protagonista, deriva dall’antieroe del Decam.
Calandrino.
- La Mandragola di Machiavelli
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1515-1520: «respiro compositivo lungo» (Stoppelli);
M. aveva già tradotto in volgare l’Andria di Terenzio (palestra linguistica), ma va in
direzione diverse rispetto ad Ariosto e Bibiena;
commedia svincolata dalla tradizione classica
M. non avverte il bisogno di anteporre nel Prologo liminari dichiarazioni di poetica.
La competizione tra giovani e vecchi è uno schema di larga attestazione nella commedia
antica, ma la trama è originale: il giovane Callimaco che, grazie all’aiuto del «piacevol
uomo» Ligurio e del servo Siro, riesce a giacere con la moglie di messer Nicia, Lucrezia.
- Ariosto, Cassaria, prologo (1508)
Nova comedia v'appresento, piena
di vari giochi, che né mai latine
né greche lingue recitarno in scena.

Parmi veder che la più parte incline


a riprenderla, subito c'ho detto
nova, senza ascoltarne mezo o fine:

ché tale impresa non li par suggetto


de li moderni ingegni, e solo estima
quel che li antiqui han detto esser perfetto.

È ver che né volgar prosa né rima


ha paragon con prose antique o versi,
né pari è l'eloquenzia a quella prima;

ma l'ingegni non son però diversi


da quel che fur, che ancor per quello Artista
fansi, per cui nel tempo indietro fersi.
La vulgar lingua, di latino mista,
è barbara e mal culta; ma con giochi
si può far una fabula men trista.

- Ariosto, Suppositi, prologo (1509)


Qui siamo per farvi spettatori d'una nuova comedia del medesimo autore di cui l'anno
passato vedeste la Cassaria ancora. El nome è li Suppositi [= sostituiti], perché di
supposizioni [=sostituzioni] è tutta piena. Che li fanciulli per l’adrieto sieno stati suppositi
[=sottoposti ad amori contro natura] e sieno qualche volta oggidì, so che non pur ne le
comedie, ma letto avete ne le istorie ancora; e forse è qui tra voi chi l'ha in esperienzia auto
o almeno udito referire. Ma che li vecchi sieno da li gioveni suppositi, vi debbe per certo
parere novo e strano; e pur li vecchi alcuna volta si suppongono similmente (…) E vi
confessa l'autore avere in questo e Plauto e Terenzio seguitato, de li quali l'un fece Cherea
per Doro, e l'altro Filocrate per Tindaro, e Tindaro per Filocrate, l'uno ne lo Eunuco, l'altro
ne li Captivi, supponersi: perché non solo ne li costumi, ma ne li argumenti ancora de le
fabule vuole essere de li antichi e celebrati poeti, a tutta sua possanza, imitatore; e come
essi Menandro e Apollodoro e li altri Greci ne le lor latine comedie seguitoro, egli così ne le
sue vulgari i modi e processi de' latini scrittori schifar non vuole. Come io vi dico, da lo
Eunuco di Terenzio e da li Captivi di Plauto ha parte de lo argumento de li suoi Suppositi
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transunto, ma sì modestamente però che Terenzio e Plauto medesimo, risapendolo, non
l'arebbono a male, e di poetica imitazione, che di furto più tosto, li darebbono nome. Se
per questo è da esser condennato o no, al discretissimo iudicio vostro se ne rimette.
Tragedia
- Genere legato al recupero della Poetica di Aristotele, per cui la tragedia era il genere letterario
supremo.
- La discussione teorica e la traduzioni dei classici vanno di pari passo con le realizzazioni.
- Seneca tragico tradotto a Ferrara da G.B. Giraldi Cinzio, G. A. Anguillara e Orsatto Giustinian;
Euripide tradotto da Ludovico Dolce.
- Città principali: Roma e Firenze (Orti Oricellari).
- 1570: Vicenza, teatro Olimpico di Andrea Palladio: primo teatro «stabile»
Tappe rinascita tragedia nel ’500
- 1514-1515, Roma, Trissino, Sofonisba, «prima tragedia di espressa imitazione classica, in
idioma volgare, delle letterature moderne» (Cremante)
- 1524-1533: Sodali degli Orti Oricellari che imitano il Trissino: Antigone di L. Alamanni,
Oreste di Giovanni Rucellai, Dido in Cartagine di Alessandro de’ Pazzi. uso modelli anche
greci (Sofocle e Euripide) + figure femminili al centro del dramma.
- 1541: Ferrara, Orbecche di G.B. Giraldo Cinzio. Necessità di un compromesso tra teatro
antico e modernità, per cui si auspica una lett. didattica e morale; modello cupo senecano, cui
solo la Provvidenza cristiana offre un barlume di speranza; dimensione macabra e orrorosa.
Funzione moralistica della catarsi.
- 1542: Padova, Speroni, Canace (incompiuta). Catarsi patetica e passionale, non morale:
privilegia compartecipazione affettiva rispetto alla tensione morale. Canace e Macareo, figli di
Eolo, il cui amore incestuoso viene punito dal padre con la morte (cfr. Ov., Her. XI; Aen. I).
- La Sωfhωnisba di Trissino 1514-1515: composizione; 1518: offerta a Leone X; 1524:
stampa. Soggetto: II guerra punica, dramma della regina cartaginese Sofonisba, figlia di
Asdrubale, costretta a sposare Siface ma innamorata di Massinissa. Da donna istintuale e
pericolosa, S. diventa figura tragica di eroina vittima del cinismo del padre. Fonti: Tito Livio,
Petrarca (Africa V e Trionfi) e Appiano (Storia romana). Modelli: Sofocle, Antigone; Euripide,
Alcesti, Ifigenia in Aulide. Metri: endecasillabo sciolto (non è divisa in atti) + canzoni nei cori
(sul modello di Dante e Petrarca).
- L’Orbecche. L’argomento Orbecche figliuola di Sulmone Re di Persia, essendo fanciulla,
fanciullescamente diede indizio al padre che Selina sua mogliera e madre di lei si giacca col
suo primogenito. Sulmone, trovatigli 'nsieme, gli uccise. Dopo alcuni anni Orbecche, senza che
'l padre ne sapesse nulla, prese per marito un giovane d'Armenia, detto Oronte. Intanto
volendola maritare Sulmone a un Re de' Parti, si scuopre l'occulto maritaggio e che sono nati
d'essi due figli. Sulmone finge essere di ciò contento e dopo uccide Oronte et i figliuoli. Poi
colla testa e colle mani del marito ne fa dono alla figliuola la quale, vinta dallo sdegno e dal
dolore, uccide il padre e dopo sé stessa. La Scena è in città real di Persia.
- La Sωfhωnisba di Trissino E sapendo eziandio che la Tragedia, secondo Aristotele, è
preposta a tutti li altri poemi, per imitare con suave sermone una virtuosa e perfetta azione, la
quale abbia grandeza (cfr. Arist. Poet. 1449b); la Tragedia muove compassione e tema [=
catarsi], con le quali e con altri ammaestramenti arreca diletto a li ascoltatori e utilitate al
vivere humano (dedica a Leone X, 1518).

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Tragicommedia o «terzo genere»
- Genere misto, a metà tra tragedia e commedia, di ambientazione pastorale
- Aristotele nella sua Poetica non ne parla molto
- Archetipo classico: Ciclope di Euripide (unico integrale)
- Topoi narrativi: grotta, pastori, satiri e ninfe; cane da caccia, scena di sacrificio, dialogo di un
personaggio con l’eco, etc…
- 1479-1480: a Mantova Poliziano compone in due giorni per Francesco Gonzaga l’Orfeo,
antesignano di questo genere ibrido che diventerà dramma pastorale e poi melodramma
- 1508: Baldassar Castiglione & Cesare Gonzaga, Tirsi
- 1545: Ferrara, Giraldi Cinzio, Egle (recupera Ciclope euripideo)
- 1554: Ferrara, Agostino Beccari, Sacrificio
- 1563: Ferrara, Alberto Lollio, Aretusa
- 1573: Ferrara, isole di Belvedere sul Po, Rappresentazione dell’Aminta di Tasso (amore del
pastore Aminta per la ninfa Silvia, inizialmente ritrosa, poi accondiscende a sposare Aminta).
Riscrittura con «happy ending» della storia d’amore di Piramo e Tisbe (cfr. Ovidio,
Metamorfosi)
- 1579-80: Ferrara, Battista Guarini, Pastor fido. In competizione con l’Aminta, ambisce ad
essere la sintesi della pastorale scenica ferrarese.

II. Nuovi ambienti, istituzioni, protagonisti. Corti, Accademie, tipografie, censura


LA CORTE Luogo del potere, del dialogo, della conversazione, del divertimento, del gioco MA
ANCHE luogo della simulazione e dissimulazione, degli intrighi, talvolta delle congiure; corte e
palazzo (simbolo della corte): labirinto dorato, uno spazio sempre più ambito e al tempo stesso
difficile da interpretare e da vivere: cfr. castello di Atlante (Furioso XII): irresistibile luogo di
attrazione, ma anche uno spazio infernale. La corte ha una dimensione di teatralità, in senso
proprio (ancora non ci sono teatri stabili) e figurato. Grande querelle: meglio vivere in corte o fuori?
Meglio vivere da cortigiani o liberi?
 Baldassar Castiglione (1478-1529): a corte
 Pietro Aretino (1492-1557): liberi

- Libro del Cortegiano (1528)


Ambientato alla corte di Urbino nel 1506: tre serate, dove sotto la guida di Elisabetta
Gonzaga e di sua cognata Emilia Pio (il signore Guidubaldo è a letto malato), si discute sul
cortigiano perfetto;
«è un quadro nel quale i letterati e i diplomatici appaiono in primo piano, e sono invece
rispettosamente situati sullo sfondo i principi e i puri politici» (Dionisotti): Francesco Fregoso,
Giuliano de’ Medici (protagonisti anche delle Prose del Bembo) e Ludovico di Canossa
diventeranno vescovi; Castiglione nunzio apostolico; Bembo e Bibbiena cardinali;
Ebbe 60 edizioni in lingue diverse dall’italiano nei successivi 90 anni dalla princeps

- Meglio vivere liberi

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Già nel ’400 si sviluppa un filone anticortigiano: Poggio, De infelicitate principum (1440),
Enea Silvio Piccolomini, De curialium miseriis (1443): la corruzione del potere ricade su chi sta
intorno al signore: meglio una vita appartata e oscura
1538: Aretino, Ragionamento delle corti (Luogo del dialogo: giardino dello stampatore
Marcolini). Dedica a Luigi d’Avila, segretario di Carlo V: sono introdotti come interlocutori
Pietro Piccardo e Giovanni Giustiniano. Pietro Piccardo è un vecchio prelato, conoscitore della
Corte romana, Giustiniano un valente cultore di studi umanistici. Essi distolgono un giovane
poeta, Francesco Coccio, dall’ abbandonare gli studi e andare a fare il cortigiano.

- Pietro Aretino sulle corti


in queste maladette corti non c’è se non invidia e tradimenti (Marescalco, i viii)
è pure una dotta scuola la corte! Quanti vari uomini, di quanti diversi costumi, di che strani
umori e di che bestiali spiriti ci viveno (Marescalco, III, viii, parla lo sconsolato Ambrogio).

- Condizione intellettuali tra I e II metà XVI sec.


Dopo Concilio Trento (1447-1563) le carriere dei chierici e laici si separano: non è più
possibile, come era avvenuto a Bembo nel 1539, diventare cardinale per meriti letterari;
esemplare l’aspettativa frustrata de Aretino e del Della Casa). Si assiste alla
professionalizzazione del lavoro intellettuale: da storiografi, precettori dei figli, consiglieri
(come nel XV sec.) gli intellettuali a libro paga del signore diventano meri segretari e funzionari

LE ACCADEMIE
- L’accademiaSpazio di libertà e indipendenza culturale che riscatta il servizio di corte: no
gerarchia come nella corte (anche se partecipa il principe, partecipa da pari);
Le accademie si danno delle regole, messe per iscritto negli statuti. A volte sono divise in
classi. Le cariche ruotano democraticamente.
Opere: progettazione e realizzazione della scrittura come prodotto collettivi (cfr. Wu-Ming).
Accademia aldina.
Fondazione: Venezia 1495 ca
Dal 1502 (editio princeps di Sofocle) i volumi recano la scritta In Aldi Romani Academia
Tra i membri: Alberto Pio di Carpi, Andrea Navagero, Pietro Bembo, Marin Sanudo, Scipione
Carteromaco (Fortiguerri), Erasmo da Rotterdam, G.B. Egnazio, Marco Musuro, G.B.
Ramusio, Demetrio Calcondila, Giovanni Lascaris, fra’ Giovanni Giocondo (che nel 1506
erano tornati da Parigi)

- Michele Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, 1926-1930 Regole della
Neoaccademia (Lex Neacademiae) aldina basata sulle seguenti regole dettate da Scipione
Forteguerri ‘Carteromaco’ (stesa tra 1499 e 1503 e stampata da Aldo su un foglio volante):
Siccome a coloro che s’affaticano per conseguire la coltura superiore riesce di grande vantaggio
l’intrattenersi nelle greche discipline, così noi tre: Aldo Manuzio, Giovanni Cretese [Giovanni
Gregoropulo] ed io Scipione Carteromaco, abbiamo stabilito di emanare una legge in forza della
quale non sia permesso d’intrattenersi che usando la lingua greca. Che se qualcuno di noi si
servisse d’altro idioma sia con premeditazione, sia per distrazione ovvero senza pensare alla
legge, o anche per qualsiasi altro motivo, il contravventore verrà punito come se egli avesse
agito con premeditazione. Epperò ognuno dovrà depositare la multa tantosto, né sarà permesso
di procrastinare l’adempimento di questo obbligo da domani a posdomani. Chi poi non pagherà
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andrà debitore del doppio, non venendo soddisfatto il doppio verrà ripetuto il quadruplo, e così
avanti in proporzione della mora. Chi non rispetti la legge e si rifiuti recisamente di pagare la
multa, verrà espulso dal circolo degli Ellenisti ed oltre ciò dichiarato indegno di far parte della
loro comunanza ed ogni incontro se colui verrà considerato siccome giorno nefasto. La moneta
d’argento pagata a titolo di pena dovrà versarsi in una borsa ovvero, sì per Giove, in un apposito
cofanetto ornato d’intagli per la di cui custodia verrà provveduto, previa chiusura a lucchetto e
siggillazione, da uno di noi ovvero da colui che sarà da noi all’uopo prescelto e ritenuto degno
di fiducia.
- Michele Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, 1926-1930 Presa analoga
determinazione si passerà all’apertura del cofanetto ed alla numerazione del denaro, e qualora vi
si troverà moneta sufficiente per allestire un banchetto, la si consegnerà ad Aldo affinché egli
provveda per il nostro trattamento in modo corrispondente non a stampatori, ma a soggetti che
sognano della nuova Accademia e che la hanno costituita alla maniera Platonica. Che se il
denaro non fosse peranco sufficiente, lo si riporrà e lascerà nel cofanetto fino a che verrà
raggiunta la somma necessaria a sopperire alle spese del simposio. Saranno ammessi quali ospiti
soltanto i filelleni, purché sieno degni del nostro circolo, coloro cioè che amano le scienze,
comprendano il greco e, quello che più conta, si confacciano alla nostra Neoaccademia e siano a
giorno dei suoi intendimenti. Siavi qui o v’arrivi – come di spesso avviene – un ospite o
forestiero e si trattenga per qualche affare e sia egli bene istruito e parli il greco, in tal caso gli
incomberà di sottoporsi alla nostra legge. Ove poi egli si rifiuti di obbedirvi e vi si opponga
senza addurre validi motivi di scusa e di difesa, sia senz’altro condannato e per titolo
d’indegnità bandito dalla Neoaccademia; né gli si accordi la riammissione se non avrà fatto
precedentemente ammenda del suo fallo, promesso di rispettare le nostre decisioni ed offerto in
proposito de’ fidejussori. Presentandosi persona che non comprenda la lingua greca per non
averla peranco studiato o studiato non tanto da parlarla, che però tuttora se ne occupi ovvero
abbia intenzione di apprenderla, la si potrà ammettere fra noi, ma bisognerà che pian piano si
abitui a parlare, come noi, il greco. Che se non ubbidisse ovvero ardisse di beffarsi delle nostre
pratiche, verrà definitivamente esclusa e dichiarata indegna della nostra società anche se
posteriormente avesse a supplicare venia.
- Erasmo da Rotterdam, Adagi, a cura di E. Lelli, Bompiani, 2013, pp. 927, 933 (adagio
1001, festina lente) Quando in Italia io, olandese, pubblicavo un’opera sui proverbi, tutti gli
eruditi che erano lì presenti spontaneamente fornivano in abbondanza autori non ancora dati alle
stampe, autori che ritenevano sarebbero stati a me utili. Aldo non aveva nulla nel suo tesoro che
non mettesse in comune, e lo stesso fece Giovanni Lascaris, Battista Egnazio, Marco Musuro e
il frate Urbano. Ho sentito l’impegno di alcuni che non conoscevo né di vista né di nome. A
Venezia portavo con me nient’altro che l’indistinta e confusa materia dell’opera futura, e da
autori pubblicati solo una volta. Con la mia grande temerarietà ci siamo lanciati insieme in
entrambe le imprese: io nello scrivere, Aldo nello stampare
Accademia degli Intronati
- Fondazione: Siena 1525
- Intenti: dotti aristocratici senesi che vogliono trovar ristoro al trambusto del mondo. Spiccata
tendenza edonistica, predilige rappresentazioni teatrali e intrattenimento mondano.
- Partecipanti: Alessandro Piccolomini (autore commento Poetica di Aristotele), Girolamo e
Scipione Bargagli, Fausto Sozzini (diventerà uno dei più famosi riformatori del 500).
- 1531: commedia collettiva Gli ingannati > Shakespeare, Twelfth Night, or What You Will

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Accademia degli Umidi
- Firenze, 1540
- Fondatori: Giovanni Mazzuoli (lo Stradino) e Anton Francesco Grazzini (il Lasca)
- Intenti: valorizzazione della letteratura municipale fiorentina, soprattutto il versante comico e
salace, vd. Burchiello e Pulci (motti, beffe, burle). Antesignani di «Amici miei»!
- Ideatore: Giovanni Mazzuoli, detto Lo Stradino, Padre Stradino, ma anche Bacheca,
Balestraccio, Colombella, Consagrata, Crocchia, Cronaca scorretta, Pagamorta, Pandragone. Ex
mercenario di Giovanni dalle Bande Nere.
- Chiama provocatoriamente la sua raccolta di libri l’“Armadiaccio”. Una parte è andata perduta,
ma una parte si conserva oggi presso la Biblioteca Medicea Laurenziana.

Accademia degli Umidi > Accademia fiorentina


- Processo di normalizzazione: Umidi > organo culturale della corte medicea;
- 1547: espulsione del Lasca: si proclama contrario alla politica cosimea appoggiata dallo
Stradino;
- Lorenzo Benivieni come primo «consolo». Dal 1553 «consolo» non più eletto, bensì magistrato
alle dipendenze del signore.
- Alcuni dei protagonisti: Benedetto Varchi promotore letture pubbliche di Dante, Petrarca,
Platone e Aristotele; Vincenzio Borghini monaco benedettino e grande erudito, vicino al
Vasari, collezionista di mss. e lettore di Erasmo; Piero Vettori grande filologo continuatore del
metodo di Poliziano; Cosimo Bartoli, traduttore del De re aedificatoria e di altri scritti latini
dell’Alberti.
- Uno dei princìpi fondanti dell’Accademia Fiorentina era di non parlare o leggere latino senza
tradurlo per favorire una più vasta diffusione del buon volgare e della buona cultura

Accademia vitruviana (o delle Virtù)


- Anno fondazione: 1542 (Roma)
- Promotore: umanista senese Claudio Tolomei, grazie all’illuminato mecenatismo del card.
Ippolito dei Medici
- Tra i consoli illustri: Marcello Cervini (poi papa Marcello II).
- Membri illutri: Jacopo Vignola, Scipione Maffei, Annibal Caro, Francesco Molza; Guillaume
Philandrier.
- Attività principale: lettura di Vitruvio 2 volte la settimana.

Accademia della Crusca


- Fondazione: Firenze 1582-1583 (ufficialmente: 25 marzo 1585)
- Fondatori: Leonardo Salviati, Anton Francesco Grazzini, Giovan Battista Deti, Bernardo
Zanchini.
- Intenti: gruppo di amici (la «brigata dei crusconi») dediti, in contrapposizione alla pedanteria
dell'Accademia fiorentina, a discorsi giocosi (le «cruscate»).
- L'istituzione assunse come proprio motto un verso del Petrarca - «il più bel fior ne coglie» - e
adottò una ricca simbologia tutta riferita al grano e al pane.
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- La Crusca è la più antica accademia linguistica del mondo. Nei suoi oltre 4 secoli di attività si è
sempre distinta per l’impegno a mantenere "pura" la lingua italiana originale, pubblicando, già
nel 1612, la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, che servì da
esempio lessicografico anche per le lingue francese, tedesca e inglese.

LE UNIVERSITA’
Università (gli Studi) Nel ’500 non sono più centri propulsori e innovatori del sapere come nei
secoli precedenti: Cattedrali un po’ asfittiche di un sapere spesso in ritardo rispetto ai nuovi sviluppi
della cultura rinascimentale. Divulgano saperi ormai arretrati (aristotelismo in filosofia; galenismo
in medicina; sistema tolemaico in astronomia). Dopo Concilio Trento situazione peggiora: nel 1564
Pio IV prescrisse giuramento fedeltà cattolica per i laureandi: esodo studenti stranieri, specie
tedeschi: provincializzazione atenei. Ribellione Padova e Bologna (37 nationes studentesche
protestano).

LE TIPOGRAFIE (la “terza via”)


- Gutemberg: stampa a caratteri mobili Ars artificialiter scribendi.
- Stampa a caratteri mobili + inchiostro (miscela di olio vegetale e sostanze minerali cotte
insieme)
- 1453: Bibbia a 42 linee realizzata da Gutenberg col socio Johann Fust.
I primordi della stampa in Italia
- 1464-67: i giovani chierici tedeschi Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz impiantano una
tipografia presso l’abbazia di Santa Scolastica a Subiaco. I primi tre prodotti sono un
Donato (tutte copie oggi perdute), GRAMMATICA.
Cicerone (De oratore) RETORICA.
Agostino, De civitate Dei, TEOLOGIA.
Perché Subiaco e non una grande città? Presenza di mss. pregiati per allestire stampe; ambiente
colto, dove trovare persone che sanno confezionare un libro in maniera corretta; riservatezza
luogo, per mantenere segreta la nuova tecnologia.
- Tipologie di libro
 Libro «da banco», in pergamena e formato grande (in folio), scritto su due colonne con
ampi margini PUBBLICO UNIVERSITARIO (qui in alto a destra).
 Libro umanistico, formato e materiale vario (a seconda delle finalità), scritto su un’unica
colonna, con margini ristretti e in grafia antiqua; TESTI CLASSICI E UMANISTICI (in
alto a sinistra).
 Terza tipologia libraria (ripresa da Aldo Manuzio). Libro «da bisaccia», di formato
piccolo, per lo più di carta, d’aspetto trascurato, senza margini e su due colonne
PUBBLICO POPOLARE (MERCANTI, PELLEGRINI, GIROVAGHI, ARTIGIANI)
Gli entusiasti della stampa
- Sperone Speroni: Discorso in lode della stampa: superiorità dei moderni sugli antichi nella
«artiglieria, nella stampa, nell’arte che si usa del navicare».
- Tommaso Garzoni, Piazza universale di tutte le professioni del mondo (1589): tipografia come
«arte veramente rara, stupenda e miracolosa», la quale «ha fatto conoscere l’oro dal piombo, la
rosa dalle spine, il frumento dalla paglia, e dato notizia del bene e del male»
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I detrattori della stampa
- Antonio da Canal (Venezia, tra 1509 e 1516 prepara per uso personale un suo commento al
Canzoniere): la selva dei segni diacritici introdotti dalla stampa deturpa il testo e ne
compromette la buona leggibilità.
- Lodovico Domenichi, Dialogo della stampa (1562): la stampa ha fatto guadagnare alcune
categorie sociali (produttori e venditori di libri), ma non aumenta la fama dei letterati, né
emancipa quelli di loro di estrazione più umile.
- Argomenti contro la stampa di L. Domenichi.
Dopo aver esaltato Aldo e Paolo Manuzio e, in generale, l’editoria veneziana:
- «molti begli ingegni n’hanno però riportato grandissimo danno, tanto che chi ben misurasse
l’uno et l’altro, la bilancia starebbe pari».
- «Hora [metà 500] che la stampa è venuta al colmo della sua grandezza, e ’l numero de stampati
è cresciuto in infinito, non è così facile, che altri arricchisca, come per avventura fu all’hora in
quei bonissimi tempi».
LA CENSURA
Prima dell’Indice dei Libri proibiti…
1487, Sotto Innocenzo VIII, Inter multiplices: censura preventiva sulle opere a stampa; necessità
dell’approvazione del vescovo per stampare un libro
1515, sotto Leone X: bolla pontificia Inter Sollicitudines: viene istituito l’imprimatur;
1541-1542: viene istituito a Roma il Tribunale centrale dell’Inquisizione, con il compito di
coordinare e di dirigere il lavoro dei vari tribunali vescovili e di avocare a sé le cause più gravi e
delicate (cfr. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, 1996)
1549: primo indice di 149 libri proibiti stampato a Venezia dalla Congregazione cardinalizia per
l’Inquisizione (alla sua stesura partecipa anche il nunzio pontificio Giovanni Della Casa)
1554: indice attenuato uscito sotto papa Giulio III del Monte. Compito di redigere e aggiornare
l’indice affidato alla Congregazione dell’Indice
Indici libri proibiti 1559-1596
1559: primo Indice dei libri proibiti emanato da papa Paolo IV Carafa (inclusi Boccaccio e
Machiavelli, molte edizioni in latino della Bibbia e tutte quelle in volgare), oltre 1000 condanne
(Aretino, Machiavelli, Boccaccio, Poggio Bracciolini, Pulci, Luigi Tansillo, fino al Della Casa,
autore di alcuni capitoli burleschi)
1564: Indice tridentino, di Pio IV, che mitiga l’«indiscriminato furore distruttivo» del precedente
(Rotondò)
1587: Indice di Sisto V, nuovo atteggiamento intollerante (proibiti: sonetti babilonesi del Petrarca,
opere del Doni, del Berni, rime Della Casa e novelle del Bandello). Persino i Dialogi dello Speroni
vengono proibiti
1596: Indice di Clemente VIII più mite e comprensivo (indice clementino)
Come alcuni classici si salvarono per caso…

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Giovanbattista Busini scrive a Benedetto Varchi (1549)
Qui sono state vietate e proibite a vendersi tutte le opere del nostro Machiavello, e voglion fare una
scomunica a chi le tiene in casa; […] Dio aiuti il Boccaccio, Dante e Morgante e Burchiello.
Voleveno vietare Lucrezio, ma il reverendissimo santa Croce [cardinale Marcello Cervini, poi
papa Marcello II] non ha voluto»
Michele Ghislieri (futuro papa Pio V) all’inquisitore di Genova (1557) – a proposito dei lavori della
commissione per l’Indice nominata da Paolo IV
Col prohibire Orlando, Orlandino, Cento novelle et simili altri libri più presto daressemo da ridere
ch’altrimente, perché simili libri non si leggono come cose a qual si habbi da credere, ma come
fabule, et come si leggono ancor molti libri de gentili come Luciano, Lucretio et altri simili

Forma più raffinata di censura: rassettatura delle grandi opere


1536, Girolamo Malipiero, Il Petrarca spirituale, Venezia, Marcolini, 1536.
1573: “rassettatura” filologico-linguistica del Decameron da parte di Vincenzo Borghini, con tagli
‘suggeriti’ dal Vaticano.
1582: nuova «rassettatura» di Lionardo Salviati: modificate ben 48 novelle: le monache della
novella di Masetto da Lamporecchio, III, 1, diventano «molte pulzelle» di un harem di Alessandria
d’Egitto; frate Cipolla, VI 10, rimane un frate ma finto, in realtà è un ribaldo che se ne va in giro
«fingendosi de’ frati di Santo Antonio»). Un esempio di censura romana sulle Lagrime di san
Pietro di Luigi Tansillo (1585).
BNCF, Palatino 337

III.Il petrarchismo. Moda, stile, costume del Rinascimento


Un grande fenomeno culturale e di società
- «Epidemia sonettistica»: fenomeno di costume letterario e di alta socialità letteraria (specola
sociologica). Fenomeno «democratico» (tutti potevano scrivere un sonetto, anche donne e
artisti):
- Poesia petrarchista è uno strumento fondamentale per la socialità cortigiana;
- È un codice di identificazione e di scambio tra individui che sentivano di appartenere ad una
comune cultura;
- Centri propulsori del petrarchismo: Venezia e Napoli
Il petrarchino
- Bembo regala un petrarchino alla donna amata, cfr. son. 39 Quanto alma è più gentile.
- Aretino, Cortigiana, IV 1 «ecco qui in la manica el Petrarca che lo conferma». (un personaggio
della commedia, Messer Maco, chiama a testimonio il Canzoniere petrarchesco per rafforzare
quanto ha appena affermato)
Petrarchismo
- Fenomeno imitativo

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- Fenomeno esegetico
- Fenomeno spirituale
- Fenomeno di emancipazione dei «subalterni» (donne e artisti)
- 1530: data inizio petrarchismo bembiano
- Bembo, Rime, Venezia, Giouan Antonio et fratelli da Sabbio (165 testi)
- Sannazaro, Canzoni et sonetti, Napoli (101 testi)
Morte di Bembo (1547)
- alla sua morte Niccolò Franco scrisse un sonetto: «Tanto ch’a le mie spese io giurarei / che se
non eri tu mastron di tutti / tutti sariemo stati Tebaldei».
- Ariosto lo celebra come colui che con il suo «esempio» ha sottratto il «puro e dolce idioma
nostro» al «volgar uso tetro» (XLVI, 15); cfr. anche la Satira VI: «Bembo, io vorrei, come è il
commun disio / de’ solliciti padri, veder l’arti / che essaltan l’uom, tutte in Virginio mio»
- È grazie a lui se abbiamo imparato a distinguere cittade da città; imago da immagine.

P. Bembo, Rime, 5 (a Lucrezia Borgia?)


Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, Rvf 160, 14: «oro terso e crespo»
ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole
occhi soavi e più chiari che ’l sole, Rvf, 352, 2 «volgei quelli occhi più chiari
che’l sole»
da far giorno seren la notte oscura, Rvf 265, 6 «quando è ’l dì chiaro e quando
è notte oscura»

riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,


rubini e perle, ond’escono parole Rvf 157, 12-13 «perle e rose vermiglie…»
sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle,
man d’avorio, che i cor distringe e fura,
cantar, che sembra d’armonia divina,
senno maturo a la più verde etade, Rvf 215, 3 «frutto senile in sul giovenil
fiore»
leggiadria non veduta unqua fra noi,
giunta a somma beltà somma onestade,
fur l’esca del mio foco, e sono in voi
grazie, ch’a poche il ciel largo destina. Rvf 213, 1 «gratie ch’a pochi il ciel largo
destina»

Fenomeno dei libri collettivi o miscellanei di poesie. Per Provenienza geografica degli autori
- Giuntina di rime antiche (= Sonetti e Canzoni di diversi antichi autori toscani in X libri
raccolte), Firenze 1527.
- Versi e maniere de la nuova poesia toscana (Roma, 1539), con trad. in volgare di testi latini
antichi e moderni.
- Rime di diversi poeti toscani (1561): 13 sonetti tassiani.
- Rime di diversi illustri signori napoletani, e d’altri nobilissimi ingegni (Venezia, Giolito, 1552):
si apre con alcune poesie di Luigi Tansillo, poi Ferrante Carafa, Bernardino Rota, Angelo Di
Costanzo, Antonio Minturno, Bernardo Tasso, Isabella Di Morra.
- Rime degli accademici eterei (1567): 42 testi tassiani.

37
Fenomeno dei libri collettivi o miscellanei di poesie. Per eccellenza ed esemplarità
- Rime diverse di molti eccellentissimi autori nuovamente raccolte, a cura di Ludovico
Domenichi, Venezia, Giolito, 1545. 9 libri di rime.
- Fiori delle rime de’ poeti illustri, a cura di Girolamo Ruscelli (edizioni dal 1558 al 1586),
volumi antologici di rime dedicati alle varie città italiane.
- Rime di diverse eccellentissime donne, a cura di L. Domenichi, Lucca 1559.
- Fenomeno dei libri collettivi o miscellanei di poesie. D’occasione  Rime per la vittoria
sacra [Lepanto], a cura di Luigi Groto, 1572, poesie in toscano, latino e dialetto.
- I volumi di rime mai pubblicati in vita:
il caso di Tasso «Perpetuo dossier»: ben 1708 componimenti conservati mai pubblicati
dall’autore organicamente (1623 1° ed.); solo negli ultimi anni T. pensò di raccoglierli in un
canzoniere organico con una visione retrospettiva filosofica (Ardissino). Sin da fine Ottocento
sono state distinte in
 Rime per Lucrezia Bendidio
 Rime per Laura Peperara
 Rime amorose extravaganti
 Rime amorose composte ad istanza d’altri
 Rime d’occasione o d’encomio
 Casi simili: Ariosto, Michelangelo, Della Casa
- Il valore d’uso del sonetto nel ’500 fa sì che molti autori non lo vedano come prodotti d’ingegno
atto a consacrare la fama.
- I volumi di rime mai pubblicati in vita:
il caso di Della Casa (1503-1556).
- Rime postume (1558): 64 + 25 estravaganti.
- I suoi versi hanno una gravitas che si allontana dalla suavitas di Bembo, di cui per certi aspetti è
l’erede.
- Tasso lo esalta nel dialogo La Cavalletta e ne Lezione sopra un sonetto di Monsignor Della
Casa: ne fa un modello di poesia ‘grande’, di stile magnifico e sublime;

Giovanni Della Casa, Rime, LIV


O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio; o de' mortali
egri conforto, oblio dolce de' mali
sì gravi ond'è la vita aspra e noiosa; Rvf 37, 48 «m’insegni la presente aspra
et noiosa»
soccorri al core omai che langue e posa
non have, e queste membra stanche e Rvf 354, 2 «a lo stile stanco e frale»
frali
solleva: a me ten vola o sonno, e l'ali
tue brune sovra me distendi e posa.
Ov'è 'l silenzio che 'l dì fugge e 'l lume?
e i lievi sogni, che con non secure
vestigia di seguirti han per costume?
Lasso, che 'nvan te chiamo, e queste
oscure
38
e gelide ombre invan lusingo. O piume Rvf 7, 1 «la gola ’l sonno e l’ozïose
piume»

d'asprezza colme! o notti acerbe e Rvf 360, 57 «morte acerba e dura»


dure!

Esperimenti lirici tra Petrarca e gli antichi


- G.G. Trissino, Rime (1529): integra nella tradizione letteraria italiana (Dante e Petrarca) forme
della poesia antica (ode pindariche e oraziane, egloga, epigramma).
- L. Alamanni, Opere toscane (Francia, 1532-1533): Petrarca + modelli greci e latini: elegie (IV
libri), satire, egloghe, poemetti mitologici.
- B. Tasso, Libro primo degli Amori (1531), Libro secondo (1534), Libro terzo (1537); ed. def.
1560 (V libri). Libro primo, 2 sezioni:
 1: sonetti «composti ad imitazione de’ moderni provenzali e di messer Francesco
Petrarca.
 2: odi e sonetti pastorali, ispirati ad una imitazione più libera «degli antiqui boni
poeti greci e latini».
Petrarchismo meridionale
- 1519: Girolamo Britonio, La gelosia del Sole. Primo libro che esibisce un petrarchismo
regolato
• Libro 1: liriche amorose dedicate a Vittoria Colonna
• Libro 2: argomenti vari (ma la chiusa è un’invocazione a Dio e alla Vergine)
• 1552: Rime di diversi illustri signori napoletani: Antonio Minturno, Angelo di
Costanzo, Isabella Morra, Bernardino Rota, Ferrante Carafa. Cifra: misura classica
e spinta verso l’artificio
Petrarchismo come fenomeno esegetico
- Fenomeno che comincia già nel ’400: Francesco Filelfo (Rvf 1-128), Bernardo Ilicino
(Triumphi).
- 1525: Le volgari opere del Petrarcha con la espositione di A. Vellutello da Lucca. Compone
una Vita e costumi del poeta; Origine di M. Laura e fornisce una mappa di Avignone e
Valchiusa. Senso di una vicenda terrena e diaristica. Scelta ecdotica: pubblica i Rvf secondo la
cronologia interna (Trattato de l’ordine de’ sonetti e canzoni mutato). Il suo commento è molto
attento all’interpretazione letterale.
- 1532: I luoghi difficili del Petrarca nuovamente dichiarati del fiorentino Giovambattista da
Castiglione: si dà spazio a riflessioni di tipo linguistico-grammaticale, relative alla fonologia,
alla morfologia e al lessico. Propone spesso loci paralleli tratti da Dante (Commedia) e
Boccaccio (Decameron).
- 1532: Il Petrarcha col commento di Sebastiano Fausto da Longiano, Venezia, Bindoni &
Pasini. Scorpora per ragioni metriche i sonetti dal resto delle rime, rubricate sotto l'etichetta
generica di «canzoni» ed edite separatamente alla fine, prima dei Trionfi
Petrarchismo come fenomeno esegetico

39
- 1533: Il Petrarcha col commento di M. Sylvano da Venaphro (Napoli). Si distingue per
l’utilizzo del Secretum e di altre opere latine del P. (il De remediis utriusque fortune e le
epistole Sine nomine), già utilissimo per il primo sonetto: laddove per commentare al «popol
tutto favola fui gran tempo» è richiamato il passo «pudeat senem amatorem esse tam diu vulgi
fabulam».
- 1533: Il Petrarcha colla spositione di misser Giov. Andrea Gesualdo (Venezia). Rivendica
l’ordinamento aldino, anche se non crede che P. abbia raccolto in un corpus le sue liriche; è
considerato come uno dei più ricchi e utili commenti cinquecenteschi al Canzoniere; ipertrofia e
prolissità ("parto d'elephante" lo definì, ma con orgoglio di maestro, il Minturno), mentre
frequenti sono i riferimenti a problemi filosofici e la tendenza didattica nell'esposizione.
- Altri commentatori di P.: B. Daniello (1541); A. Brucioli (1548); L. Castelvetro (1582) …
Petrarchismo spirituale poesia come strumento di un personale percorso di meditazione
sulla fede
- Girolamo Malipiero, Petrarca spirituale (= Sonetti e canzoni di messer Francesco Petrarca
divenuto teologo e spirituale per grazia di Dio e studio di frate Ieronimo Malipetro
minoritano). Esce nel 1536. Riscrivere il Petrarca sotto il segno della devozione. Lavoro di
‘cosmesi’ sui testi del P.
- Vittoria Colonna, Rime spirituali, 1546, senza volontà autrice. Fa parte degli «spirituali» (card.
Reginald Pole). Rifunzionalizza lessico e forme di P. per scavo interiore e meditazione sui
misteri teologici della cristianità.
- Gabriele Fiamma, Rime spirituali (1570). Predicatore e vescovo di Chioggia, ha in V. Colonna
il suo modello. Stile insieme leggiadro («vaghezza») e alto. Correda il suo libro di un auto
commento-apologia preventiva (in cui legava i versi alle fonti bibliche), ma non basta: viene
inserito nell’Indice dei Libri proibiti
- Petrarchismo spirituale versificazione di contenuti biblici.
- Laura Battiferri, I sette salmi penitenziali: versione italiana dei Psalmi con propri testi
originali (1564).
- Luigi Tansillo, Le lagrime di san Pietro (13, poi 15 pianti), 1585: poema in ottava di grande
impegno.
- Erasmo da Valvasone, Le lagrime di Santa Maria Maddalena, 1586;
- T. Tasso, Lagrime di Maria Vergine (25 ottave) e le Lagrime di Giesù Cristo (20 ottave), 1593.
- Angelo Grillo, monaco benedettino, Lagrime del penitente e Pietrosi affetti: sono gallerie di
liriche penitenziali

Il lifting spirituale di Petrarca


Petrarca, Rvf, 1 Malipiero, Petrarca spirituale, 1
Voi ch' ascoltate in rime sparse il suono Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond' io nutriva 'l core de' miei novi sospir, ch'escon dal core
in sul mio primo giovenile errore per la memoria di quel cieco errore,
quand'era in parte altr' uom da quel ch' i' che mi fe' in parte altr'uom da quel ch'i' sono:
sono, poi che del vario stil più non ragiono,
del vario stile in ch' io piango et ragiono ma piango il fallo mio pien di dolore,
fra le vane speranze e 'l van dolore, il van desir, e 'l fuggitivo amore,
ove sia chi per prova intenda amore, pietà, prego, vi mova a mio perdono.
40
spero trovar pietà, nonché perdono. Conosco ben sì come al popol tutto
Ma ben veggio or sí come al popol tutto materia fui d'error, onde sovente
favola fui gran tempo, onde sovente di me medesmo meco mi vergogno.
di me medesmo meco mi vergogno; Ora, drizzato al ciel, spero far frutto
et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto, di vero ben, ch'io veggio chiaramente,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno.
che quanto piace al mondo è breve sogno.

Petrarca, Rvf 3 Malipiero, Petrarca spirituale


Era il giorno ch' al sol si scoloraro Era 'l giorno ch'al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai, per la pietà del suo fattore i rai,
quando i' fui preso, et non me ne guardai, quando in croce Iesu fiso guardai
ché i be' vostr' occhi, donna, mi legaro. sì che suoi dolci lacci mi legaro.
Tempo non mi parea da far riparo Tempo non mi parea da far riparo
contra colpi d'Amor: però m'andai contra colpi del ciel, però m'andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai pregion del sommo Amor, onde i miei guai
nel commune dolor s' incomminciaro. allor, per vecchi errori, incominciaro.
Trovommi Amor del tutto disarmato Trovommi Dio del senso disarmato,
et aperta la via per gli occhi al core, e sol la via per gli occhi aperta al core,
che di lagrime son fatti uscio et varco: ch'eran fatti di lagrime uscio e varco.
però al mio parer non li fu honore Sia adunque a te Signor gloria e onore,
ferir me de saetta in quello stato, che m'hai condotto a sì felice stato,
a voi armata non mostrar pur l'arco. ch'io gusti il dolce stral del tuo fort'arco.

Le petrarchiste
- Allargamento della società letteraria (anche se quasi tutte queste donne sono aristocratiche).
- «Solo nella letteratura di medio Cinquecento le donne fanno gruppo. Non prima né poi»
(Dionisotti).
- Lettere di molte valorose donne nelle quali chiaramente appare non essere né di eloquentia né
di dottrina alli huomini inferiori, Venezia, Giolito, 1548.
- Vittoria Colonna (1490-1547) (sposa del capitano Francesco Ferrante d’Avalos, marchese di
Pescara). Guida un cenacolo molto vivace nella Napoli di primo ’500. Nel 1525 muore suo
marito: inizia la poesia in morte dell’amato marito («bel Sole»). Poi entra in rapporto con
Michelangelo e con i protagonisti dell’evangelismo italiano (J. de Valdés, B. Ochino, R. Pole).
Raccolta mss. sin dal 1531, poi a stampa nel 1538: Rime de la divina Vittoria Colonna
marchesa di Pescara. Nel 1548 escono le Rime spirituali.
- Veronica Gambara (1485-1550), bresciana, moglie e poi vedova del conte Gilberto X da
Correggio: a Correggio la Gambara aveva creato un attivo centro culturale. Plausi alla sua
poesia da parte di Bembo e Trissino, Ariosto la celebra già nel primo Furioso (1516); amore per
Gilberto spezzato dalla morte narrato con nobile compostezza. Stanze bellissime della s. V.
Gambara, Genova, 1537.
- Tullia d’Aragona (1510-1556) cortigiana, forse figlia di un cardinale. Vive tra Roma, Ferrara,
Venezia, Siena e Firenze. È sostenuta da molti letterati invaghiti di lei (Varchi, il suo
ghostwriter, B. Tasso, F.M. Molza, Fracastoro, il Lasca, G. Muzio). Canzoniere esiguo edito a
Venezia nel 1547, dedicato al duca di Firenze Cosimo I, come ringraziamento per il permesso a
lei concesso eccezionalmente di poter non portare il velo giallo obbligatorio per le cortigiane:
Rime della signora Tullia d’Aragona e di diversi a lei. Storia di un’emancipazione sociale
attraverso la poesia
41
- Gaspara Stampa (1523-1554). Vive tra Padova e Venezia. Poesia femminile dai toni più
dimessi: si rappresenta remissiva e sconfitta nel confronto impari con l’uomo che ama: il conte
Collaltino di Collalto, libero, guerriero, intraprendente, lontano. Rime pubblicate postume dalla
sorella (1554), dedicato al Della Casa. Tonalità intima e quotidiana, antiaccademica, momenti
di giocosa ironia. Per il D’Annunzio del Fuoco è la «Saffo veneziana»; la Foscarina (= Eleonora
Duse) cita il sonetto cxxi del suo Canzoniere: «Signore, io so che in me non son più viva, | E
veggo omai ch'ancor in voi son morta».

Gaspara Stampa, Rime, I


Voi, ch'ascoltate in queste meste rime Rvf, 1,1 «Voi ch’ascoltate in rime sparse
il suono»
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l'altre prime,
ove fia chi valor apprezzi e stime, Rvf, 1, 7 «Ove sia chi per prova intenda
amore»
gloria, non che perdon, de' miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti, Rvf, 1, 8 «spero trovar pietà, nonché
perdono»
poi che la lor cagione è sì sublime.
E spero ancor che debba dir qualcuna:
– Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!
Deh, perché tant'amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch'anch'io n'andrei con tanta donna a Tr. Cup. 4, 25-26 «Una giovane greca a
paro? paro a paro…»

Gli artisti-poeti: il caso di Michelangelo


- Considera le sue poesie una «cosa sciocca» e non le pubblica.
- 1546: silloge di 89 componimenti forse per la stampa
- 1623: 1° editio da parte del nipote (ma solo 137 componimenti, molto rivisti).
- Ed. critica Girardi 1960 = 302 pezzi, tra finiti e non finiti (1503-1560) + 41 frammenti. Sonetti,
madrigali, epitaffi, suddivisibili in: 1) Poesie per Tommaso Cavalieri; 2) per Vittoria Colonna;
3) per la «donna bella e crudele; 4) confessioni personali
- «Dante fornisce molti ed essenziali elementi costruttivi e verbali, alla poesia di Michelangelo,
ma non la base per la costruzione; fornisce termini e concetti, ma non il metodo per organizzarli.
Il suggerimento costruttivo Michelangelo lo deve invece unicamente al Petrarca» (Girardi).
- Un petrarschismo «aperto» (Schiavone) ad altre sollecitazioni, soprattutto dantesche (ma anche
Pulci, Lorenzo, etc…).

Michelangelo Buonarroti, Rime, 87 [1533-1534]


Vorrei voler, Signor, quel ch’io non Rvf 118, 10 «et vorrei più volere, et più
voglio: non voglio»
tra 'l foco e 'l cor di iaccia un vel ghiaccia: cfr. Inf. XXXI, 35; XXXIII
s'asconde 117; XXXIV, 29
42
che 'l foco ammorza, onde non Rvf 361, 7 «com’acqua ’l foco
corrisponde ammorza»
la penna all'opre, e fa bugiardo 'l foglio.
I' t'amo con la lingua, e poi mi doglio
c'amor non giunge al cor; né so ben onde
apra l'uscio alla grazia che s'infonde
nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio.
Squarcia 'l vel tu, Signor, rompi quel Pg. 32, 71-72 «un clamor mi squarciò il
muro velo / del sonno»; ma anche Rvf 28, 63-
64 «squarciare il velo / c’è stato avolto
intorno agli occhi nostri»
che con la suo durezza ne ritarda
il sol della tua luce, al mondo spenta!
Manda 'l preditto lume a noi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò ch'io arda
il cor senz'alcun dubbio, e te sol senta.

La novella nel '500. Il ritorno della 'Poetica' di Aristotele. Dal


romanzo di Ariosto al poema eroico di Tasso

I. La lunga riscoperta della Poetica- Il testo dirimente tra Ariosto e Tasso


Bernardo Tasso, Ragionamento della poesia pronunciato l’8 giugno 1559 all’Accademia della
Fama
Pochi sono, per quello che oggidì si vede, gli antichi autori e nella greca e nella latina favella che
della poesia abbiano scritto e ragionato, e di que’ pochi niuno n’ha con più bell’ordine né più
copiosamente parlato di ciò che ha fatto Aristotele. Platone in molti luoghi ne fa menzione;
Plutarco in quel libretto dove a’ giovinetti insegna al modo col quale debbiamo studiare i poeti ne
dice alcune parole; Strabone nel primo libro della sua Geografia confutando l’opinion
d’Eratostene; Cicerone dove difenda Archia; Orazio, e Massimo Tirio in una sua orazione, alcune
cose dicono in laude della poesia
Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Laterza, Bari, 1970-74, vol. II, pp. 572-573
Le tappe di una lenta riacquisizione
- Già studiata da Poliziano e tradotta (frettolosamente) da Giorgio Valla (1498);
- Editio princeps greca: 1508 (Aldo), all’interno dei Rhetores Graeci;
- 1527: De arte poetica di Girolamo Vida: pto di riferimento è ancora l’Orazio dell’Ars
- Nuova traduzione latina (con testo greco a fronte) di Alessandro de’ Pazzi (1536).
- Nonostante questo, nel 1541 a Giovan Battista Giraldi Cinzio pareva ancora un testo “oscuro e
pieno di tante tenebre” (lettera dedicatoria alla sua tragedia Orbecche).
- 1549: Volgarizzamento dello storico fiorentino Bernardino Segni: Poetica e Retorica.
Moltissimi errori e fraintendimenti
43
- Ancora nel 1554 Alessandro Lianori riteneva nel suo Dialoghi dell’invenzione poetica che
imitazione, ritmo e armonia fossero da mettere sullo stesso piano, sulla scorta di Arist. Poet. §
1 (dove però si dice semplicemente che l’imitazione è il principio basilare di ogni forma
artistica, mentre ritmo e armonia, assieme al linguaggio, sono i mezzi di cui l’arte si avvale per
imitare). Trissino nella sua Divisione terrà invece nettamente distinti il principio dell’imitare da
una parte e rime e canto dall’altra quali mezzi dell’imitazione.
- Aristotele parla di una sola unità (§ 8) per la tragedia, quella d’azione, mentre l’esegesi
cinquecentesca ricava le alte due unità (tempo e luogo) dalla lettura della Poetica
Della poetica di Bernardino Daniello (Venezia 1536)
- dialogo in due libri che si svolge a Bassano tra Benedetto Lampridio, Domenico Moresini e
Trifon Gabriele (venerato maestro del D.).
- Primo trattato dove si avverte forte la presenza della Poetica.
- Trifon Gabriele: la poesia ha funzione pedagogico-morale e si distingue dalla storia (cfr.
Aristotele, Poet. § 9) non nella forma (se anche Tito Livio fosse messo in versi, rimarrebbe uno
storico; Arist. faceva esempio di Erodoto) ma nel contenuto (storico deve attenersi a ciò che è
accaduto; poeta può fingere “a sua voglia” ma senza allontanarsi troppo dal verosimile). Lo
storico si occupa dunque del particolare, il poeta dell’universale.
1548: Francesco Robortello (1516-1567): primo commento alla Poetica
In librum Aristotelis de Arte poetica Explicationes + parafrasi Ars poetica Orazio +
Explicationes de satyra, de epigrammate, de comoedia, de salibus, de elegia
- Condensato dei suoi corsi tenuti a Pisa. Dedica a Cosimo de’ Medici
- Testo greco, trad. latina di A. Pazzi (corretta) e commento puntuale in cui si ricorre a un gran
numero di citazioni latine e greche;
- bisogna seguire non Orazio, ma Aristotele, che «ha descritto tutta questa facoltà dei poeti in
modo appropriato, distinto, ordinato»; la Poetica trasmette un messaggio universalmente valido:
poesia non come riproduzione ma come rappresentazione della realtà: verisimile quale limite
all’invenzione.
- Catarsi: diletto di natura spirituale: Per gli uomini nessun piacere, di quanti almeno siano degni
di un uomo, è più grande di quello che viene percepito dalla mente e dal pensiero; anzi spesso
avviene che quelle cose che infondono agli uomini orrore e terrore, quando si verificano dentro
la loro natura, poste fuori dalla loro natura, se posseggono qualche rassomiglianza, dilettano
nell’atto in cui vengono rappresentate
1550: commento di V. Maggi + B. Lombardi
Explanationes in Aristotelem de poetica
- Aggiunge al commento un trattato sulla commedia (De ridiculis), seguendo gli insegnamenti di
Cicerone (De oratore II), Quintiliano (Inst. or. VI), Pontano (De sermone): vuole colmare le
lacune di Aristotele sulla commedia.
- La tragedia, ma in gen. la poesia, ha una funzione moralizzatrice (unisce Orazio con Aristotele:
scontro con Robortello): orrore e compassione purgano gli animi dalle cattive inclinazioni
1570: Ludovico Castelvetro: Poetica d’Aristotele volgarizzata e sposta
- Esce a Vienna perché C. e in esilio (Chiavenna, Ginevra, Lione) dopo la condanna di eresia.

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- Poetica non è un coerente sistema normativo ma un repertorio frammentario di categorie
interpretative.
- l’imitazione narrativa (= poema) non necessita di unità, la mimesi teatrale (per un pubblico)
sì. Unità d’azione: per lui non è un obbligo, ma la massima prova di abilità per un poeta
(=riuscire a non annoiare il pubblico narrando una sola vicenda).
- Introduce 3 unità di luogo per le tragedie, non menzionata da Aristotele (azione + tempo e
luogo).
- Come il Maggi, e contro il Robortello, vuole la tragedia diretta al popolo: Ora perché la poesia
è stata trovata, come dico per dilettare e ricreare il popolo commune, dee avere per soggetto
quelle cose che possono essere intese dal popolo commune, e intese il possono rendere lieto, le
quali sono quelle che tutti dì avvengono, e delle quali tra il popolo si favella, quali sono quelle,
che sono simili alle novelle del mondo e alle istorie.
L’elaborazione della Poetica nel dibattito sul romanzo/poema tra Ariosto e Tasso
Il Furioso è un romanzo cavalleresco di grande successo ma non corrisponde a molti dei precetti
aristotelici:
- Manca unità d’azione;
- Manca il rispetto del verosimile;
- Manca la grandezza eroica dei personaggi;
- Manca la priorità dell’esempio morale sui piaceri della fantasia (cruccio dei contemporanei).
Lodovico Dolce, Apologia contro ai detrattori dell’Ariosto agli studiosi della volgar poesia,
in L. Ariosto, Orlando furioso, Venezia, Pasini e Bindoni, 1535
Percioché sì come molti son quelli che riprendono l’Ariosto, così ancora non poco sono le calunnie
che gli vengono opposte (…) Sono adunque, com’io odo, alcuni i quali dal titolo dell’opera
incominciando hanno in quello trovato errore, secondo che essi dicono, di non poco momento,
perché considerata l’intenzione dell’autore e discorsa appresso con qualche diligenzia la materia del
libro, non è sì grosso ingegno che non comprenda che esso devea con ogni ragione intitolarsi
Ruggiero, a cui si veggiono servir tutte le parti, e non Orlando, sì come il principe de’ poeti latini
Virgilio battezzò i suoi dodici libri dell’arme da Enea, come da principale, e non da Turno o dal re
Latino perché in essi di questi due ne avesse trattato alcuna cosa. Saldo veramente e fortissimo
argomento d’uomo intendente! Altri discorrendo, per tutta l’opera dicono lui non aver ben intesa
né osservata la buona e regolata lingua volgare, consiosiacosaché egli pecca in molti vocaboli,
anzi nella maggior parte, dei quali alcuni sono lombardi e non pochi contrari alle leggi dagli antichi
Toscani osservate. (...) Alcuni altri, i quali hanno molto schivo e delicato il gusto, biasimano il
verso come troppo gonfio et aspero. (…) Infiniti si trovano finalmente che dannano i nuovi canti
da lui aggiunti, dicendo che niuna necessità lo strigneva ad aggiungerli: et essi canti sono men
buoni, e di stilo e di soggetto, degli altri. Queste sono l’opposizioni e le calunnie che comunemente
sento darsi all’Ariosto, le quali quanto siano lontane dal vero m’affaticherò di farvi chiaro.
G.G. Trissino, Divisioni della Poetica 1529: libri I-IV; 1562: libri V-VI (ma composti nel 1549 ca.)
- Primi 4 libri: lessico e teoria delle forme metriche italiane (anche utilizzando il DVE
dantesco)
- Libri 5 e 6: trattato di poetica
- Vengono stabilite le nette differenze fra il romanzo cavalleresco e il poema epico.
Romanzo cavalleresco: vicenda fantastica costituita dall'intreccio di molte storie

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diverse (che possono anche non chiudersi). Il fine è solo il diletto poema epico: la
vicenda storica, unitaria e conclusa: i pochi protagonisti dovranno ruotare tutti
attorno ad essa. Il genere epico, viene investito di un alto valore morale e politico,
profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che lo trasforma in un percorso
di formazione morale e culturale.
G.G. Trissino, Divisioni della Poetica libri V-VI: trattato di poetica
- Unità azione: azione principale (spina dorsale) con episodi secondari ad essa legati (non
significa narrare le azioni di un solo eroe o «diverse azioni di alcuno»).
- Presa di distanza dall’interventismo narrativo ariostesco (cfr. Poet. 1460a 6-8): il poeta
«dee dire poche parole da sé» e lasciare la scena ai personaggi.
- Verisimile: commentando Poet. 1451a 36-38, critica la tradizione del romanzo (Pulci,
Boiardo, Ariosto) per le «molte cose non ragionevoli et impossibili». Per il meraviglioso è
accettabile solo quanto rientra nell’orizzonte d’attesa di credulità degli uomini, altrimenti
non si devono proporre episodi implausibili.
- Simon(e) Fòrnari, La sposizione sopra l’Orlando furioso (1549).
- Commento aperto da una Vita di Ariosto (per cui attinge da testimonianza familiari a
Ferrara) e da una Apologia brieve sopra tutto l’Orlando furioso in cui si sforza di trovare
punti di contatto tra Furioso e Poetica: sostiene che il Furioso somiglia a Iliade e Eneide e
non viola unità d’azione (= guerra tra cristiani vs Saraceni).
- Strumenti esegetici vari, che vanno dal recupero dell'allusione aneddotica alla lettura
allegorizzante (per lui il Furioso ha anche un valore morale).
Ariosto maestro di morale? R. Contarino, voce Fornari, Simone, DBI, 49 (1997)
(Dalla sua Sposizione) vien fuori un Ariosto esperto delle discipline occulte, che "dintorno le
finzioni morali avanza tutti gli altri", un Ariosto che avrebbe "nascosto la dottrina sotto il
velame", per sottrarla agli ignoranti. Il poema così sacralizzato viene infatti offerto alla competenza
di "studiosi lettori", per i quali possono valere i chiarimenti del testo che il F. fornisce. In questa
ricerca di una semantica morale emergeva la familiarità del critico con l'opera di Dante e con i
metodi di lettura umanistici della Commedia. Interpretando le favole come una cifrata verità, il F.
si diffuse nell'ermeneutica di alcuni canti (VI-VIII, X, XV, XXXIII, XXXIV, XLI)
particolarmente adatti alla sua prospettiva allegorizzante. Con questo procedimento egli trovò modo
di ridurre a edificante didascalia tutte le invenzioni, come si può, ad esempio, vedere nel
lunghissimo commento all'episodio di Alcina o nell'interpretazione dei due mostri (quello scolpito
nella fonte di Merlino e l'altro che assale Rinaldo nella selva Ardenna).
Simone Fòrnari, Apologia brieve sopra tutto l’Orlando furioso (1549)
Sono costretto, umanissimo lettore, subitamente in sul principio, prima che io ponga mano
all’esporre de’ canti e delle stanze, di diffendere l’ingenioso e dottissimo nostro poeta d’alcune
riprensioni, e per dir più veramente false calunnie, che se gli traversano innanzi per la gloriosa
strada del nome poetico. Né sarebbe a noi questa impresa di poca fatica quando sì fatti riprensori
prender si veggano per lor fautore Aristotile, se già l’eccellenza del nostro non fosse tale che senza
arroganza dir si possa che sì come Aristotile a’ suoi filosofi termine e legge costituì per sempre, così
il nostro poeta a’ poeti tutti che in questa volgar lingua a scriver si mettano per lo innanzi porga una
perpetua norma che romper senza notabile biasimo non si possa (…) se gli aversari del nostro
dottissimo poeta mi chiederanno qual sarà questa unica azione che nell’Orlando furioso
massimamente appaia, io per ora risponderò essere l’impresa d’Agramante contra Carlo Magno
46
(…) essendo del poema la prencipal azion questa, cioè l’ire e i giovanil furori d’Agramante, dove
espressamente si vede imitare Omero: percioché sì come colui dimostra sul principio della Iliade di
voler cantare l’ira di Achille, così il nostro poeta l’ire di Agramante fatte poi vane dalla matura
prudenza di Carlo imperator di Roma si vede che egli propone e canta.
G.B. Giraldi Cinzio, Discorso intorno al comporre de’ romanzi (1554)
- È un classicista (vd. tragedia Orbecche, dramma satiresco Egle) ma «illuminato», cioè
ammette che il romanzo è un genere moderno che non ha l’obbligo di soggiacere alle
norme aristoteliche.
- Il romanzo discende dai romans courtois e in Italia ha come «duci» Boiardo (notevole per
l’invenzione) e Ariosto (rimarchevole anche per la forma): di quest’ultimo apprezza l’arte
narrativa basata su sospensioni e riprese, mescolanza di registri come nell’epica romanza).
- Ma trae da Aristotele la concezione del verosimile, cui le azioni devono comunque
sottostare; così come da Aristotele è tratto il principio per cui gli episodi secondari devono
avere vincolo narrativo di necessità rispetto ad asse centrale fabula.
G.B. Pigna (Nicolucci), I romanzi, ne’ quali della poesia e della vita dell’Ariosto si tratta
(1554)
- III libri: libro II e III sono dedicati alla vita e alle opere di Ariosto;
- Orlando furioso: miglior romanzo mai scritto; Cassaria: miglior commedia mai scritta.
- Nell’intro accusa di plagio Giraldi (a lui va la priorità) e si proclama allievo solo di
Vincenzo Maggi
- è d’accordo col maestro Giraldi sul fatto che i romanzi siano altra cosa dai poemi epici:
genere nuovo e sconosciuto agli antichi (per pluralità di azioni e per libertà nei confronti
del vero: «una bugia d’un buon poeta ogni verità seppellisce»).
- Il loro fine è la meraviglia: contrapposizione tra concezione edonistica e moralistica
dell’arte… (segue)
G.B. Pigna (Nicolucci), I romanzi, ne’ quali della poesia e della vita dell’Ariosto si tratta
(1554)
«L’epico sopra una cosa vera fonda una verisimile, e vera intendo o per istorie o per favole, cioè o
in effetto vera o vera sopposta, questi altri [i romanzi] alla verità risguardo alcuno non hanno»
- Il romanzo appare dunque complementare e non in opposizione al poema epico/eroico.
- III libro: prima dettagliata analisi delle varianti ariostesche dalla II (1521) alla III edizione
(1532) del poema
Antonio Minturno, L’arte poetica (1564)
- Opera in IV libri, che tratta dell’arte poetica «thoscana»
- Libro I tratta del poema. Accezione molto ampia di poema: tutto ciò che racconta la
vicenda di un solo “eroe”. Esempi dei Trionfi di Petrarca e delle Terze rime dantesche, per
lui poemi epici come Eneide virgiliana; il Furioso non può essere considerato poema epico
perché tratta di due personaggi (pazzia Orlando e conversione Ruggiero).
- Libro II: Scenica: tragedia (Sofocle), commedia (Terenzio), satira (genere minore); Libro
III: «Melica poesia» = lirica. Canzone genere massimo della lirica; Libro IV: «Sentenze»
- Profonda influenza su Tasso, che gli dedicò il dialogo Il Minturno, overo de la bellezza
- T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica e in particolare del poema eroico (1587)

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- Primo nucle: 1561-62; pubblicati nel 1587 senza consenso autore
- Rompe sia con la tradizione del romanzo cavalleresco che con i trattati di Pigna e Giraldi.
Nega infatti che ci sia distinzione tra «romanzo» ed «epopeia»: imitano entrambi azioni
illustri, eroiche, generose e magnanime. Quindi le regole devono essere le stesse (cfr. idee
S. Speroni, che forse qui T. riporta per come le aveva sentite nel circolo padovano)
- Scelta argomento: verisimile e meraviglioso. Soggetto che sia storico e cristiano. La
dimensione storica (=fatti non troppo lontani) consente di stringere patto di credibilità. Fine
poeta: diletto ed edificazione.
- Il meraviglioso cristiano è giustificato con il ricorso ad un passo della Poetica: l’opinione
comune rende verosimile ciò che sarebbe impossibile. Dosaggio tra realtà e invenzione. Il
diletto ci deve essere (ha sbagliato Trissino a comporre un poema non destinato al «vulgo»).
T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica e in particolare del poema eroico (1587)
Unità d’azione: sorta di compromesso. Poema come «picciol mondo»: (dunque sono ammesse varie
storie ma collegate ad una unica azione principale). Su questo e sul verosimile però la posizione
di T. evolve con gli anni:
1. l’unità d’azione intesa singolarmente (Rinaldo) a unità d’azione intesa
collettivamente (Gerusalemme liberata);
2. il verosimile, da un concetto che dà spazio all’invenzione (Liberata) a concetto
schiacciato sul vero (Conquistata = riscrittura fedele alle fonti)
T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica
[come nel mondo] e ’l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle, e, discendendo poi
giuso di mano in mano, l’aria e ’l mare pieni d’uccelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti
animali […], nella quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti si trovano, e
qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudini e orrori; con tutto ciò uno è il
mondo […], uno il nodo dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e
collegate; e non mancando nulla in lui, nulla però vi è di soverchio o di non necessario; così
parimente giudico che da eccellente poeta […] un poema formar si possa nel quale, quasi in un
picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d’esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui
espugnazioni di città […]; là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là
discordie, là errori, là ventue, là incanti […]; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà
di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera
composte che l’una l’altra riguardi, l’una l’altra corrisponda, l’una dall’altra o necessariamente o
verisimilmente dependa, sì che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini.
Gli ossimori della poetica tassiana
Dinanzi al problema cruciale della varietà e della unità rinasce dunque nel Tasso l’idea
neoplatonica del poema che si configura come cosmo, come ‘discorde concordia’ di elementi, ma
solo in quanto ora essa è tutelata da un ordine, per così dire, aristotelico, da una struttura
razionale che sostiene la trama dei «grandi e meravigliosi accidenti e grandemente patetici» e vi
scandisce il ritmo di un’ansia tragica con un segreto respiro eroico (E. Raimondi, Rinascimento
inquieto)
Il concetto di meraviglioso verisimile posa sull’armonizzazione della verità cristiana e delle
finzioni romanzesche, la cui legge interna è l’inclusione del meraviglioso. Si tratta dunque di unire

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due principi contraddittorii: il verisimile, che definisce la natura stessa della poesia allo stesso
modo che l’unità del tutto, e il meraviglioso, che perturba la verosimiglianza come la varietà
perturba il principio d’unità. Ma la risoluzione de la contraddizione è la stessa nei due casi: non si
possono conciliare le contraddizioni se non associandole. (F. Graziani, Introduzione a T. Tasso,
Discours de l’art poétique, Paris, 1997)

II. La novella nel ’500- Boccaccio e i suoi eredi


Il Decameron: un modello problematico
- Giovanni Boccaccio: Giovanni «Boccadoro» (Salernitano, Grazzini, etc..), ma ogni tanto ci sono
cadute di tono e stile, oltre che di contenuto…
- Come inquadrare la novella nella tassonomia (‘griglia’) dei generi classici?
- Che fare della cornice? Eliminarla o conservarla?
Gianni Celati, Lo spirito della novella
https://site.unibo.it/griseldaonline/it/gianni-celati/gianni-celati-spirito-novella
Due cose adunano lo sparso mondo delle novelle, facendone una narrativa senza precedenti: il
Decamerone, lettura di riferimento per più di tre secoli, e la passione del dialogo e dello scambio,
propria d’una classe dedita agli scambi, quella dei mercanti. Protagonisti di centinaia di novelle, i
mercanti sono una razza di gente pratica, pronta a tutti gli incontri, che sa aderire all’eterogenea
sostanza del mondo. “Conviene nella moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi”, dice
Boccaccio a conclusione del Decamerone. È il principio dell’ibridismo novellistico, e va assieme a
un’idea della vita terrena come variabilità e mutevolezza, che richiede perpetui adattamenti,
negoziati e scambi. Questo si applica alle trame novellistiche, dove la sorpresa viene
dall’eterogeneità degli incontri e casi, che producono continui ribaltamenti delle situazioni. Lo
schema elementare nelle favole e novelle consiste nel porre una situazione e ribaltarla. Poi possono
esserci due ribaltamenti, in andata e in ritorno, come nella novella di Andreuccio, che va a Napoli
per affari; è truffato dalla Siciliana, perde i soldi; ma nell’avventura notturna trova l’anello
dell’arcivescovo, recupera i soldi e torna a casa ricco
Gianni Celati, Lo spirito della novella
https://site.unibo.it/griseldaonline/it/gianni-celati/gianni-celati-spirito-novella
Questa concezione è la molla di tutti gli alti e bassi che animano le trame novellistiche. La minaccia
del mutevole incombe sulle ricchezze, sugli amori, sugli affari, ed è personificata dalla figura
mitologica della Fortuna: “Ma la fortuna, nemica de’ beni umani, disturbatrice dei piaceri terreni,
contraria alle voglie dei mortali…” (Grazzini, Cene, II, 6). Al centro di questo universo sempre in
altalena, c’è il simbolo della Ruota del Tempo, dove ciò che è in alto è destinato a cadere in basso, e
viceversa: “Mirabile certamente è la instabil varietà del corso della nostra vita [… ] Vedrai oggi uno
nel colmo innalzato d’ogni buona ventura, che dimane troverai caduto con rovina ne l’abisso delle
estreme miserie” (Bandello, Novelle, III 68). Questo è un mondo dove, nell’eterogeneo flusso di
situazioni e casi disparati (“l’instabil varietà”, dice Bandello), niente è mai del tutto in salvo;
dunque un mondo con un alto tasso di imprevedibile. Il che ha una conseguenza sulle trame:
quella degli effetti di meraviglia, prodotti dai prodigi, dalla violenza o dalle stranezze del fato.
La novella nel ’400
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- Raccolte organiche: Novellino di Masuccio Salernitano e Porretane di Sabadino degli Arienti;
- Novella spicciolata (Novella del grasso legnaiuolo, 3 versioni, quella d’autore è di Antonio
Manetti).
- Facezia: Facetiae di Poggio Bracciolini, Motti e facezie del Piovano Arlotto (beffe e facezie di
un parroco della campagna del Mugello, Arlotto Mainardi); Poliziano, Detti piacevoli .
- Traduzioni latine delle novelle di Boccaccio (da Petrarca a Bandello, passando per Leonardo
Bruni e Filippo Beroaldo)
Uomini di chiesa: atteggiamento ambiguo verso la novella. Due domenicani con posizioni
opposte
- Michele Ghislieri (poi Pio V, papa dal 1566 al 1572), censore della novella, autore di una bolla
che espurga i testi lascivi novellistici (si vanta in una lettera di non aver mai letto una novella)
Versus
- Matteo Bandello: è forse il più grande novelliere del 500
Compromesso
Lezione sopra il comporre delle novelle del fiorentino Francesco Bonciani (1574): sottomette il
comico della novella a norme di decoro
Novella come genere infiltrante- La novella si infiltra in altri generi letterari: trattati, poemi,
resoconti di viaggi
- Nei poemi/romanzi cavallereschi: cfr. Furioso: novella di Iocondo (XXVIII, 4-74), di Lidia
(XXXIV, 11-43), del nappo incantato (XLIII, 9-46), dell’avvocato Anselmo (XLIII, 69-143)
- Nei trattati: Presenza di facezie, aneddoti, esempi con funzione probatoria (cfr. Cortegiano:
ornamento necessario del conversare piacevole: storia di Giulia di Gazuolo in III, 47); inserti su
come e cosa raccontare in società (Pontano, De sermone) 
- Nei dialoghi: cfr. Ragionamento di Pietro Aretino (Decameron come termine di confronto)
Antonia. Perdonimi il Centonovelle; egli si può andare a riporre.
NANNA. Questo non dico io; ma voglio che egli confessi almeno che le mie son cose
vive, e le sue dipinte. […]
Novelle spicciolate nel primo ’500
- Niccolò Machiavelli, Favola di Belfagor arcidiavolo (Il demonio che prese moglie) (1517-
1518). Filone misogino: Belfagor sale sulla terra per dimostrare che la donna è la rovina
dell’uomo. Già attribuita a Giovanni Brevio, perché pubblicata per la prima volta nelle sue Rime
e prose volgari (1545).
- Luigi Da Porto (1485-1529, vicentino, amico di Bembo), Historia novellamente ritrovata di
due nobili amanti (1535, postuma), ma La Giulietta già nel 1539.
Archetipo forse in M. Salernitano, assunta da Bandello nella sua raccolta (II, 9) ed elevata a
successo internazionale da Shakespeare con Romeo e Giulietta
I novellieri del ’500
I. I Ragionamenti di Agnolo Firenzuola (1525, ed. 1548)
- Michelangelo Giovannini, monaco vallombrosano (1493-1543). Vive tra Firenze, Roma,
Perugia e Prato. Amico di Pietro Aretino, aveva, come lui, una grande passione per le donne,
tanto che nel 1540 scrisse un Dialogo delle bellezze delle donne. Volgarizzò anche l’Asino
d’oro

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- Ragionamenti: Libro I già dedicato nel 1525 alla duchessa di Camerino M. Caterina Cybo.
Cornice? Sì. Villa a Pozzolatico: 3 dame e 3 uomini. Locus amoenus senza peste intorno.
Dovevano essere 6 giornate (ma finì solo la 1a e parte della 2a). Ideale di libero intrattenimento,
misti di dibattiti filosofici, liriche e novelle recitate da sei narratori. Sa unire stile elaborato e
linguaggio realistico e faceto.
- La prima veste dei discorsi degli animali (1541, ma ed. 1548): rielaborazione raccolta favole di
origine indiana (Panciatantra): volontà di uscire dal repertorio boccacciano.

II. Le Cene di A.F. Grazzini, il Lasca (1549, incompiute) 22 novelle pubblicate solo nel
1756
- Tre successivi giovedì di Carnevale (tra 1540 e 1547), novelle di beffe narrate da 5 ragazzi e 5
ragazze. Novelle «piccole» la prima sera (10); «mezzane» la seconda (10); «grandi» la terza (2)
- Cornice? Sì, ma esile (battaglia a palle di neve iniziale)
- Spesso le novelle di beffe finiscono con la morte ridicola o lo strazio del beffato (humor nero).
Lato stralunato o sadico in racconti presentati come divertenti: esemplare il buffo Falananna.
- Una ripresa di Boccaccio meno raffinata, più legata al gusto popolareggiante.
- Lingua: cadenze idiomatiche e proverbiali del fiorentino; gusto per il dettaglio corporeo e
triviale.

III. Straparola, Le piacevoli notti ovvero libro delle favole ed enimmi (Venezia, 1550, 1553).
25 + 48 novelle
- Bergamasco (Caravaggio), ma veneziano d’adozione.
- Cornice? Sì. Il vescovo di Lodi, Ottaviano Maria Sforza, è costretto a rifugiarsi nell’isola di
Murano, dove invita dame e gentiluomini (tra cui P. Bembo) a trascorrere un periodo di riposo.
- 10 donne e 2 giovani raccontano, durante 13 notti di Carnevale, 73 «favole con i loro enimmi»
in ottava rima. Nella cornice sono inserite 13 fiabe.
- Ambientazione onirica, atemporale, dove compaiono misteriosi animali umanizzati: Re Porco
(notte II fav. 1), fiaba del povero pescatore e del tonno parlante (III 1), del gatto con gli stivali
(XI 1). Antesignano di Perrault e dei fratelli Grimm. la fiaba è una sorta di theatrum animi che
già annuncia quella psicologizzazione del soprannaturale tipica della narrazione fantastica
dell’800 e ‘900.
- Nel libro II molte novelle sono traduzioni delle novelle latine di Girolamo Morlini; le novelle V
3 e V 4 sono in dialetto bergamasco e pavano.
- Grande best-seller: tra il 1550 e 1606 si contano 20 edizioni nella sola Venezia. Tradotto in
francese già nel 1560. Entrò nell’indice dei libri proibiti nel 1590, 1596 e 1600.

IV. Le Novelle di Matteo Bandello. 214 novelle


1554 (Lucca, primi 3 libri); 1573 (Lione, libro 4, postumo)
- Frate domenicano, dalla solida formazione umanistica, fece l’uomo di corte e il diplomatico.
Nel 1526 abbandonò la tonaca e divenne segretario di un gentiluomo genovese; poi divenne
vescovo della città di Agen.
- Cornice? No. «Struttura aperta». Ogni novella introdotta da una lettera a una nobildonna o
nobiluomo che spiega in quale corte la novella è stata ascoltata: microcornici epistolari (>
Masuccio Salernitano > Petrarca). B. mette in evidenza l’argomento della novella (cortesia,
castità, clemenza; oppure critica comportamenti sbagliati: eccessi di gelosia e matrimoni
d’interesse).

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- Rivendica la veridicità del proprio materiale narrativo: «non sono favole, ma vere istorie»;
pretende che siano delle “cronache”, ma in realtà dietro ci stanno fonti antiche (Valerio
Massimo e Plinio), medievali (Villani) e moderne (Machiavelli, Sacchetti, Straparola, Da Porto,
…).
- Sullo sfondo della guerra, si raccontano casi abnormi, violenti, mirabili più spesso nel male
che nel bene; questo accanto ai consueti intrighi amorosi, satira di preti e frati.
- Opzione linguistica antitoscana (padania occidentale dialoga più facilmente con la Francia che
con la Toscana): respinge inoltre il canone stilistico boccacciano: «ogni istoria, ancor che scritta
fosse nella più rozza e zotica lingua che sia, sempre diletterà il suo lettore». Lingua dimessa e
antiletteraria.
- Fortuna dell’opera: le sue novelle sono tradotte in francese da Pierre Boaistuau e Francois de
Belleforest. Appassionarono generazioni di lettori del calibro di Shakespeare (Romeo e
Giulietta; Molto rumore per nulla; La XII notte), Cervantes, Shelley, Stendhal, Byron
- Il Bandello ai «candidi e umani lettori» Io, né invito né sforzo persona chi si sia a leggerle,
che con quell’animo degnino di leggerle, con il quale sono state da me scritte: affermo bene che
per giovar altrui e dilettare le ho scritte. Se io mò a questo ho sodisfatto, al benevolo e sincero
giudicio vostro, benigni lettori miei, rimetto. Io non voglio dire come disse il gentile ed
eloquentissimo Boccaccio, che queste mie novelle siano scritte in fiorentin volgare, perché direi
manifesta bugia, non essendo io né fiorentino né toscano, ma lombardo. E se bene io non ho
stile, che il confesso, mi sono assicurato a scriver esse novelle, dandomi a credere che l’istoria e
cotesta sorte di novelle possa dilettare in qualunque lingua ella sia scritta. State sani
- Bandello, Novelle, II 11. Il Bandello al magnifico e vertuoso messer Emilio degli Emilii
Ora avendo io ricuperati alcuni fragmenti cosí de le mie rime come de le novelle, mi son messo
a trascrivere esse novelle ed anco, – secondo che di nuovo alcuna n'intendo, – scriver e come a
le mani mi vengono a metterle insieme, non mi curando dar loro ordine alcuno. Onde avendone
alquante scritte che sono state da molti lette, m'è stato detto che in due cose sono biasimate.
Dicono per la prima che non avendo io stile non mi deveva metter a far questa fatica. Io
rispondo loro che dicono il vero che io non ho stile, e lo conosco pur troppo. E per questo non
faccio profession di prosatore. Ché se solamente quelli devessero scrivere che hanno buon stile,
io porto ferma openione che molto pochi scrittori averemmo. Ma al mio proposito dico che ogni
istoria, ancor che scritta fosse ne la piú rozza e zotica lingua che si sia, sempre diletterá il suo
lettore. E queste mie novelle, s'ingannato non sono da chi le recita, non sono favole ma vere
istorie. Dicono poi che non sono oneste. In questo io son con loro, se sanamente intenderanno
questa onestá. Io non nego che non ce ne siano alcune che non solamente non sono oneste, ma
dico e senza dubio confesso che sono disonestissime, perciò che se io scrivo ch'una vergine
compiaccia del suo corpo a l'amante, io non posso se non dire che il caso sia disonestissimo.
La ripresa dell’apologia del Decameron
- Bandello, Novelle, II 11 Ed in effetto io credo che non si trova nessuno di sana mente che
non biasimi gli incesti, i ladronecci, i micidiali ed altri vizii. Confesso io adunque molte de le
mie novelle contener di questi e simili enormi e vituperosi peccati, secondo che gli uomini e le
donne gli commettono; ma non confesso giá che io meriti d'esser biasimato. Biasimar si deveno
e mostrar col dito infame coloro che fanno questi errori, non chi gli scrive. Le novelle che da
me scritte sono e che si scriveranno, sono e saranno scritte de la maniera che i narratori
l'hanno raccontate. Affermo bene averle scritte e volerne de l'altre scrivere piú modestamente
che sia possibile, con parole oneste e non sporche né da far arrossire chi le sente o legge.
Affermo anco che non si troverá che 'l vizio si lodi né che i buoni costumi e la vertú si
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condannino, anzi tutte le cose mal fatte sono biasimate e l'opere vertuose si commendano e si
lodano (…) egli diceva (il buffone Proto da Lucca) che lo scriver le cose mal fatte non è male
mentre non si lodino, e che ne la Sacra Scrittura sono adulterii descritti, incesti ed omicidii,
come chiaramente si sa.
- Boccaccio, Decameron, Conclusione 11-14 Niuna corrotta mente intese mai sanamente
parola; e così come le oneste a quella non giovano, così quelle che tanto oneste non sono la
ben disposta non posson contaminare, se non come il loto i solari raggi o le terrene brutture le
bellezze del cielo. Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più degne, più
reverende, che quelle della divina Scrittura? E sì sono egli stati assai che, quelle perversamente
intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad
alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle. Chi
vorrà da quelle malvagio consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno,
se forse in sé l’hanno, e torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol
negheranno, né sarà mai che altro che utili e oneste sian dette o tenute, se a que’ tempi o a
quelle persone si leggeranno, per cui e pe’ quali state sono raccontate

Narrare in età controriformistica


G.B. Giraldi Cinzio, Ecatommiti [> hekatòn mythoi = 100 racconti, ma in realtà 113] (1565)
- 10 deche concluse da 10 canzoni Cornice: sì. Una brigata di dame e gentiluomini fuggiti in nave
dalla peste dopo il Sacco di Roma (1527): orrori della guerra: fine morale.
- si narra di gesti nobili e generosi, passioni violente, avventure erotiche e sfondo tragico, scene
macabre e orribili, inganni perfidi e fatali come nel caso del Moro di Venezia (cfr. Otello,
Misura per misura).
- Ripropongono atmosfere gaie e cortesi della brigata decameroniana con toni di rigido
moralismo controriformistico: casi infausti o favorevoli, ma che «sempre giovino agli
uomini», con insegnamenti civile e morali in conformità con la Controriforma, anche le
vicende più comiche e boccaccesche sono infarcite con pedanti commenti morali (ma finisce
comunque all’Indice nel 1580).
- G.B. Giraldi Cinzio, Ecatommiti, Principio
Mi credo io che non per altro la maestra natura facesse noi atti al parlare e allo scrivere se non
perché noi, fra questa incostanza degli umani avenimenti, con quello giovassimo a coloro che
ci erano presenti, e con questo, spiegando in carte quello che avenisse, ponessimo avanti agli
occhi di coloro che ci fossero lontani, e perciò non potessero udir le voci nostre, e di coloro
altresì che doppo noi venissero in questa vita, una perpetua imagine de’ successi accorsi, acciò
che essi, fatti per gli altrui accidenti più cauti e più desti a conoscere il meglio, sapessero come
reggersi nell’una e nell’altra fortuna, e come uscire de’ laberinti che intricatissimi ci sono
proposti mentre che qui viviamo, onde sovente smarriamo la diritta strada e ci andiamo,
come ciechi, aggirando per la torta
Le Sei giornate di Sebastiano Ėrizzo, (Venezia, 1567)
- Sei studenti padovani raccontano ognuno un «esemplare avvenimento» (Proemio) della storia
antica, attraverso orazioni o monologhi: esempi morali tratti da Valerio Massimo.
- Lingua: stile aderente al modello boccacciano, anche se c’è un livellamento di ogni carattere
plurilinguistico (segue Bembo).

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- Contenuti: ben altro moralistico intento rispetto alle piacevoli narrazioni: «ammaestramenti
nobili e utili di morale filosofia». Si elimina ogni interferenza comica e ‘drammatica’ (=
mancanza di dialoghi).
- Erizzo, Sei giornate, Proemio
Rivolgendo più volte fra me medesimo quale nella vita presente dovesse essere lo studio
principale dell’uomo, e quello infra tutte l’altre cose è debito di lui sapere, sempre mi son meco
fermato che il conoscimento delle virtù e la cura de’ buoni costumi deggia essere a tutti gli
altri studi preposta (…) Ai quali ragionamenti essendo io, tutte le volte che essi si raunarono
insieme, mercé della cortesia loro, introdotto, mi parvero quei soggetti e quegli essempli tali,
sentendogli, che meritassero poi di giorno in giorno scritti. Nei quali, oltre la varietà degli
accidenti che in essi si contengono, di che quegli che leggeranno diletto potranno pigliare, altri
essemplari avenimenti si vedranno negli antichi e nei moderni tempi seguiti, dai quali ciascuno
utile consiglio prendendo, avrà, come in uno specchio, davanti agli occhi quello che da fuggir
sia e da dover parimenti imitare
Il debito di Shakespeare verso la novella italiana
- Dodicesima notte < Bandello, II 36 < Gl’Ingannati (1532)
- Misura per misura < George Whetstone, Promos e Cassandra < Ecatommiti, VIII 5 di Giraldi
Cinzio 
- Otello < Ecatommiti III 7 di Giraldi Cinzio
- Romeo e Giulietta < A. Brooke, The Tragical History of Romeus and Juliet (1562) < Bandello,
II 9 < Luigi da Porto, La Giulietta

III. Una cavalcata da Ariosto a Tasso- Dal romanzo cavalleresco al poema eroico
Ariosto concepisce la sua opera come una gionta dell’Innamoramento de Orlando, lasciate interrotte
le prima ottave del libro terzo (1494) con la morte di Boiardo, che coincide con la discesa in Italia
di Carlo VIII e l’inizio delle horribili guerre.
Ariosto non è l’unico a continuare le avventure dell’Orlando innamorato…
- 1509: Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara (filone di Rinaldo), noto solamente per questo
dettaglio fisico.
- 1514: Quinto libro dell’Innamoramento de Orlando di Nicolò degli Agostini (Venezia,
Rusconi)
Ariosto si inserisce in una grande moda, sicuramente la sua versione fu la più originale e geniale.
Verso l’ultima volontà dell’autore
- Obizzeide (primi anni XVI sec.): in terzine, poema in onore del marchese Obizzo d’Este, mitico
antenato degli Este, morto nel 1193. Rimane interrotto (211 vv.).  primo tentativo di scrivere
delle terzine epiche, forse composte nel 1502/03, in ogni caso nei primissimi anni del ‘500.
Doveva scrivere le gesta di Obizzo d’Este.
- Prima testimonianza Abbiamo una lettera del 1507 di Isabella d’Este, in cui lei apprezza un
canto dell’Orlando Furioso.
- Orlando furioso, Ferrara, G. Mazocco, 1516 (40 canti)
- Orlando furioso, Ferrara, G.B. de la Pigna 1521 (40 canti; +121 vv.) seconda stesura (non
redazione, in quanto prevede un lavoro meno complesso). Leggera revisione linguistica.
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- Orlando furioso, Ferrara, 1532, F. Rosso, (46 canti; + 6 canti) si fissa il testo critico con
questa edizione, anche perché è stata composta due anni prima dalla morte di Ariosto.
Celio Calcagnini, Equitatio Una palinodia?
Abbandonando la propria carriera umanistica, si dedica alla stesura del suo capolavoro. Tra l’altro
anche Petrarca critica i poemi che trattano la materia e la letteratura dei cavalieri erranti. Il clima
umanistico, pertanto, non era dei migliori, i colleghi latinisti di Ariosto lo videro prendere un’altra
strada.
Celio Calcagnini, amico di Ariosto che morì negli anni ’40 del ‘500. Calcagnini ci dà una bella
testimonianza su Ariosto, quasi una palinodia, una sorta di “rifiuto” verso la poesia latina e
umanistiche. Il testo originario sarebbe latino.
(Ariosto): Basta con quel famoso mio libro che mi ha risucchiato quasi tutto il senno! Mentre infatti
mi sforzavo di ottenere i favori di Ippolito, nostro sommo principe, ho sacrificato a quest’opera ogni
notte e ogni giornata: ho malamente consumato il mio tempo migliore! E, cosa più grave di tutto, ho
sciupato delle bellissime e – se tu e gli altri amici non mi ingannate – molto ben congegnate
ideazioni letterarie fra girovaghe [ambubaia] francesi (non mi dispiace di chiamarle così) e
argomenti buoni per le piazze [circumforeneis argumentis]: quanto avrei fatto meglio se avessi
preparato per voi queste vivande! […] Stai pur certo che, uscendo dalla città per questi svaghi, ho
accantonato quelle sciocchezze transpadane [nugis illis transpadanis].
Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori…
- 3 filoni: amore (Orlando-Angelica), guerra (cristiani vs infedeli) e tema encomiastico (Ruggero
e Bradamante).
- Personaggi principali: Carlo Magno; Agramante: re d’Africa che guida esercito di saraceni
(Rodomonte e Mandricardo) per vendicare morte del padre Troiano; Orlando: più insigne
paladino cristiano, che perde (paradossalmente) il senno; Angelica: bellissima principessa
pagana del Catai (di lei si innamoreranno anche Rinaldo Ferraù e Sacripante); Ruggiero:
guerriero pagano, campione dell’esercito di Agramante, molto valoroso discendente dalla stirpe
di Ettore; Rinaldo di Montalbano: paladino di nobile schiatta, nipote di Carlo Magno, dal
carattere passionale e orgoglioso; Bradamante: sorella di Rinaldo, promessa sposa di Ruggiero
(già in Boiardo); Astolfo: paladino originario dell’Inghilterra, focoso e impulsivo ma risolutivo,
cugino di Orlando; Medoro: biondo e bellissimo soldato africano di cui si innamora Angelica,
che lo sposerà; Mago Atlante: cerca di proteggere in ogni modo il suo pupillo Ruggiero, su cui
incombe una funesta profezia.
Tecniche e stile del Furioso
- Tecnica dell’entralacement («intreccio»): sapienza insuperabile di A. nel tenere insieme
diversi filoni narrativi. Non è lui a inventare questa tecnica, ma senz’altro fu lui a darle
rilevanza nel panorama letterario.
- Personaggi-tipi (“relazionali”): non torniti psicologicamente, no chiaroscuri psicologici,
importanti per il loro aspetto funzionale dentro la trama: ognuno rappresenta un aspetto tipico
dell’animo umano. Non sono tanto avvincenti per la loro caratterizzazione, ma posti in relazione
con quello che fanno.
- Ironia: verso le debolezze dei suoi personaggi, nei quali l’A. si identifica, ha un atteggiamento
indulgente e ironico (eredità oraziana): «Ecco il giudicio uman come spesso erra!» (I, 7, 2).
Diviene addirittura una strategia compositiva: mettere a distanza i fatti narrati consente di
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interpretarli come immagini multiformi e veritiere delle contraddizioni dell’esistenza. Cita
Raimondi.
- Dimensione polifonica: concerto di punti di vista, non si trasmettono certezze assolute, sguardi
sul mondo anche contrapposti. Non c’è un punto di vita dominante.
Ariosto, Orlando furioso, canto I

Chiasmo iniziale, emblematico per quanto


riguarda la preoccupazione di Ariosto
verso la politica del suo tempo.
Il cavaliere più virtuoso ironicamente
perde il senno. Ariosto si pone sullo
stesso piano di Orlando, lui stesso è
innamorato come il personaggio di cui va
a narrare le gesta.
Epos, amore ed encomio di casa
d’Este.

AUTORI SECONDARI CHE SI INSERISCONO NEL FILONE DEL POEMA EPICO-


CAVALLERESCO
Orlandino di Teofilo Folengo (Venezia, 1526)
- Teofilo Folengo esponente dell’Anti rinascimento. Ripresa del genere letterario.
- in ottave, 8 canti. Teoricamente dovrebbe narrare la fanciullezza di Orlando. Non è un
capolavoro, ma è interessante: 1. Per il contentuto (cfr. giù); 2. L’eterodossia; 3. Aspetto
linguistico.
- Opzione linguistica antibembiana («Tu mi dirai, lettor, ch’io son lombardo / e più sboccato
assai d’un bergamasco; / grosso nel proferir, nel scriver tardo, / però dal tosco facilmente i’
casco», Orlandino, IV, 69). La sua è una scelta linguistica cosciente e anche provocatoria, in
realtà lui conosceva benissimo il toscano, il greco e il latino. Ricordiamo che lui portò alla
perfezione artistica la lingua maccheronica.

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- eterodossia religiosa espressa dai personaggi di questo «romanzo» (rifiutano l'autorità papale,
deridono la confessione auricolare, tuonano contro la vendita delle indulgenze)
Contenuto
- Libri I-VI: antefatto: innamoramento di Berta e Milone
- Libro VII: gesta dell’eroe unico libro in cui parla di Orlando.
- Libro VIII: novella anticlericale del monaco ghiottone Griffarrosto.

Pietro Aretino: La tentazione del romanzo cavalleresco


Pietro Aretino diventò grande nella prosa, ma si cimentò lo stesso nel filone del romanzo epico-
cavalleresco. Sono tutti romanzi interrotti, abortiti, ma che lui volle pubblicare ugualmente.
- Marfisa, Venezia, Niccolò Zoppino, 1535;
- Due primi canti d’Angelica, Venezia, Bernardino Vitali, 1535 ca;
- Li primi due canti di Orlandino, Venezia, A. Bindoni? 1540;
- Astolfeide (una editio sine notis).
Impatto della critica aristotelica sul romanzo cavalleresco (anni: 1540-1550)
I primi 40 anni del secolo lo
stile epico comincia ad avere
successo, ma non ha ancora
impatto sulla critica. In
seguito inizia ad avere
sempre più piede.

G.G. Trissino, L’Italia liberata da Gotthi, (1547-48) Roma, libri I-IX (1547); Venezia, libri X-
XXVII (1548)
- Tentativo molto infruttuoso, archetipo (anche se in negativo) di un filone che approda Tasso, nel
giro di 40 anni. Pertanto, sebbene un fiasco, questo poema è molto importante. Esce tra Roma e
Venezia (nuove capitali del classicismo).  (1547-48) Roma, libri I-IX (1547); Venezia, libri
X-XXVII (1548)
- Argomento: liberazione dell’Italia dai Goti ad opera di Giustiniano, tra 535 e 552 d.C).
Capitani bizantini di Giustiniano (Belisario & Narsete) vs Vitìge (capo Ostrogoti, sconfitti a
Ravenna).
- Fonte principale: Procopio di Cesarea nella sua Storia delle guerre di Giustiniano
- Modelli: «Aristotele per Maestro, e Omero per Duce e per Idea» Aristotele per la materia,
Omero per la lingua. Descrizione piena di enàrgheia, ricca di particolari, contro ai latini (vd.
Virgilio) che hanno sempre evitato di descrivere «tutte le circostanzie e le particolarità de le
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azioni, come cose che nel vero fanno bassezza» (lettera di dedica). In biblio Braidense (MI) si
conserva scartafaccio autografo dove si leggono corrispondenze con personaggi omerici.
- Metro: endecasillabi sciolti: monotonia prosaica del metro privo di rima. Stacco dalla tradizione
precedente (ottava).
- Dedica: a Carlo V (nella lettera dedicatoria) Trissino era già importanti, infatti fu coetaneo di
Ariosto.
- Nel testo sottolineiamo il molto (che ritroveremo nella Gerusalemme Liberata), posta in tricolon
tra loro.
Giudizi sul poema di Trissino
- Strana sorte: risultò parodico (involontaria burla) per il suo eccesso di imitazione (Quondam).
- poema sepolto quasi il giorno medesimo che era uscito in luce (lettera di B. Tasso a Benedetto
Varchi).
- muto nel teatro del mondo (T. Tasso nei suoi Discorsi).

Luigi Alamanni, Gyrone il cortese, Parigi 1548 (primo titolo: Il primo libro dei cavalieri erranti)
- Alamanni va in Francia in esilio, in seguito al rientro dei Medici a Firenze, nel 1530 (perché
compromesso nella precedente Repubblica). Precedentemente aveva pubblicato gli Amori.
Pertanto quest’opera fu pubblicata a Parigi.
- Dedica: Enrico II re di Francia.
- Perché è importante? L’autore riprende il filone delle gesta di Orlando Furioso, ma prova
ad epicizzarlo, paradigmatici sono in questo senso i 24 libri (modello omerico).
- Il romanzo segue i poemi epici, non a caso abbiamo XXIV libri di ottave; riprende il
romanzo bretone Guiron le courtois (1501), riprendeva le gesta del cavaliere errante del
ciclo arturiano (una delle fonti del Furioso); quest’opera si intitolava il primo libro dei
cavalieri erranti.
- IMP la critica ha rilevato nel Guiron le courtois uno dei modelli del Furioso.
- Un solo eroe principale con valore di esemplarità morale e guerriera (Guiron): si parla delle
vicende di Girone e della sua amicizia con Danaino. Tensione didattica: valori di cavalleria
che emergono soprattutto nei racconti secondari.
- Benedetto Varchi lo ritenne migliore del Furioso per il «tentativo di dare unità a una storia
cavalleresca sull’esempio dell’epica antica.
L. Alamanni, Avarchide, 1570 (ma composto nel 1548-1550)
- Alamanni prova anche la strada opposta, ovvero scrivere un poema epico inserendo degli
elementi cavallereschi poema epico alla maniera «di Omero, di Virgilio e degli altri
migliori». 25 canti in ottave. Dedicato a Margherita di Savoia e di Berry.
- L’Avarchide è un’opera postuma (viene pubblicata postuma, ovvero dopo la morte dello
stesso autore).
- Contenuto: assedio di Avarico (=Bourges) e ira di Lancillotto (argomento arturiano).
Tentativo di innestare la materia bretone sul tronco dell’Iliade. Si immagina nel 500 d.C. un
conflitto tra i Celti cristiani ed i Germani pagani; per l’elemento romanzesco il poema si
ispira al Lancelot du Lac. Ma l’unità d’azione va a scapito della varietà e molteplicità degli
eventi;
- Riscrittura dell’Iliade: Lancillotto = Achille; re Artù = Agamennone; signore vandalo di
Avarico, Clodasso = Priamo. Tentativi di creare un’Iliade moderna.

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- L’opera del padre fu definita “l’Iliade toscana” dal figlio di Alamanni. Varchi la considerò
addirittura superiore al Furioso.
- Bernardo Tasso, Amadigi (1560) composto tra 1545-1557 ca.
***
Bernardo Tasso, Amadigi (1560)
Bernardo fu il padre di Torquato
- 100 canti di endecasillabi sciolti (prima stesura). Poema epico di impronta classicistica
incentrato sulle gesta di un solo eroe. Tenta di conciliare Ariosto (scelta di un eroe della
tradizione cavalleresca) e Aristotele (unità di azione).
- Ipotesto: Amadis de Gaula (origine spagnola) di Garcia de Montalvo – tradotto in italiano
nel 1546 – eroe perfetto nelle sue virtù e nell’amore integro per Oriana + vicende Mirinda
(sorella di Amadigi) e Alidoro (fratello di Oriana). Coppie di amore incrociato.
- Ogni canto si apre con l’alba e si chiude con la descrizione della notte: volontà di
corrispondere all’unità di tempo aristotelica?
Riflessione: negli stessi anni diversi autori provarono a seguire il filone delle gesta d’Orlando
proposte da Ariosto, sebbene cercassero sempre di apportare alcune novità. Ricerca di un nuovo
elemento originale.
Elemento interessante: Tasso commenta il motivo dell’insuccesso del padre. Tali insuccessi,
precedenti a T. Tasso, funsero da base per il grande successo che invece ebbe avuto grazie alla
Liberata.
Su richiesta di Ferrante Sanseverino (si trovava in Sorrento) passa al metro dell’ottava e inserisce
episodi e intrecci in chiave ariostesca. Si assoggetta al «gusto del presente secolo» (lettera al
Varchi), per venire incontro al gusto dei gentiluomini della corte sorrentina del principe Ferrante
Sanseverino:
Leggeva alcuni suoi canti al principe suo padrone; e quando egli cominciò a leggere, erano le
camere piene di gentiluomini ascoltatori; ma nel fine, tutti erano spariti: da la qual cosa egli prese
argumento che l’unità dell’azione fosse poco dilettevole per sua natura, non per difetto dell’arte
che egli avesse: perciò che egli l’aveva trattata in modo che l’arte non poteva riprendersi; e di
questo non si ingannava punto. (T. Tasso, Apologia in difesa della Gerusalemme liberata).  l’arte
poetica andava bene, ma non vi erano sottotrame a quella principale, una trama più intrecciata
sarebbe stata più avvincente. Monotonia.
Pertanto Bernardo riscriverà la sua opera in ottave, inserendo alcune sottotrame (da cui in seguito si
ispirò T. Tasso). Il rispetto di alcune norme aristoteliche, applicate al romanzo cavalleresco, non
riscontra successo alla corte.
***
G.B. Pigna, Gli heroici (Venezia, Giolito, 1561)
- È un trattato di poetica con incluso un poemetto celebrativo di 50 stanze (per
l’esemplificazione), dedicato al suo signore Alfonso II d’Este.
- Sono intesi idealmente a saldare le riflessioni sul poema cavalleresco con il nuovo interesse
per una «poesia heroica», fondata su un fatto vero, cioè storico, nel quale interviene però il
verosimile, sotto forma di trascendente o soprannaturale.
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- La nuova idea di poesia è esemplificata dal poemetto celebrativo in 50 stanze intitolato
L’heroico – «uno schizzo della vita heroica» (Gli heroici, p. 15) – intorno al quale si
struttura il trattato. Il poemetto ha per soggetto la «horribile caduta» del principe Alfonso
durante una giostra a Blois nel 1556: «il vero fu che il Principe cadesse a morte et non
morisse […] et il verisimile è che gli Angeli custodi della sua vita incontinente si
movessero, et che Marte principale tra essi li conducesse dinanzi a Dio, et parlasse per
salute di esso Signore in modo tale che gli impetrasse la vita» (ibid., p. 12).
- Il poeta si sta avvicinando al concetto di creazione verosimile, inteso non solo come
ipotetica realtà, ma chiama in causa quella doxa comune che il lettore è disponibile ad
accogliere.

TORQUATO TASSO- L’inesausta ricerca del poema eroico.


Cosa Tasso impara dai ‘fiaschi’ precedenti (Trissino e Tasso senior)
- Per il poema moderno è necessaria una ricchezza («varietà») composita per soddisfare il
gusto del pubblico (un tempo non era necessaria). La direttrice epica prevale, ma con essa
interferiscono componenti liriche e romanzesche. Ricordiamo momenti lirici molto alti nel
Tasso, rispetto all’Ariosto.
- Per T. l’opera d’arte non deve soddisfare solo «i maestri dell’arte», ma deve avere successo
anche presso gli uomini mediocri («uomini mezzani»): «Io non mi proposi mai di piacere al
vulgo stupido, ma non vorrei però solamente sodisfare a i maestri dell’arte. Anzi sono
ambiziosissimo dell’applauso de gli uomini mediocri» (da una lettera a Scipione Gonzaga).
Cerca un pubblico intermedio.
Un lungo iter compositivo
Abbiamo un fittissimo corpus epistolario di Tasso, essenziali per la ricostruzione della storia
dell’autore e delle sue opere.
- 1560: a Venezia scrive le prime 116 ottave de IL Gierusalemme (embrione).  scelta
particolare del maschile.
- 1562: Rinaldo di T. Tasso (12 canti): sulla scorta del padre, compone un poema eroico di
materia cavalleresca: molte avventure che gravitano attorno a un solo personaggio: Rinaldo
di Montalbano.
- 1565: Tasso, 21enne, al servizio del cardinale Luigi d’Este, cui aveva dedicato nel 1562 il
suo Rinaldo (nel 1571 passerà al servizio di Alfonso II d’Este). Sceglie argomento (era
indeciso sulla tematica e decide di riprendere quello della guerra fra cristiani e musulmani).
- 1566: è già al canto VI del «Goffredo» o «Gottifredo» (titolo provvisorio che compare nelle
lettere).
- 1575: la prima stesura del poema è terminata (T. legge il testo al duca Alfonso e alla
duchessa).
- 1575-76: revisione romana coordinata dall’amico cardinale Scipione Gonzaga (Silvio
Antoniano «il pretino», Sperone Speroni, Flaminio de’ Nobili, Pier Angeli da Barga).
- 1579: a Genova e a Venezia escono due edizioni parziali e scorrette. Edizioni pirata,
pubblicate mentre lui pernottava al Sant’Anna.

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- 1581: Parma, una copia a Casalmaggiore e due Ferrara: Gerusalemme liberata. Furono
pubblicate le prime edizioni, anche se Tasso non le aveva ancora totalmente approvate.
L’amico Angelo Ingegneri attribuì il titolo canonico all’opera.
- 1584: famosa l’edizione a Mantova a cura del cardinale Scipione Gonzaga. Correzioni da
parte di Tasso e dello stesso Gonzaga. Il testo è in parte modificato, leggere variazioni.
- Questione filologica non abbiamo una vera e propria edizione critica. Abbiamo alcune
edizioni attendibili, ma non una critica in cui in appendice troviamo riassunta la genetica e
l’evoluzione di come si è formata quest’opera.
- L’ultima tappa il prof non inserisce in questa cronologia anche l’ultima data perché
alcuni ipotizzano che non sia l’ultima evoluzione dell’opera, ma un’opera completamente
diversa.

«Tassisti» contro «ariostisti» (1584)


Si accende il dibattito, che si svilupperà per tutto il ‘600. Proprio nello stesso anno saranno
pubblicate due opere a favore dei due fronti opposti.
- Camillo Pellegrino, Il Carrafa o vero dell’epica poesia (superiorità della Gerusalemme) la
tensione dello stile, potrebbe spiazzare il lettore.
Vs
- Leonardo Salviati, Difesa dell’Orlando furioso. Si preferisce il Furioso in quanto esempio
di misura ed equilibrio classico, non inteso per il rispetto dei canoni della Poetica di
Aristotele, che come abbiamo visto non vengono rispettati, ma per lo stile e la forma.
La struttura dell’opera (secondo molti critici)
Forze centripete o teleologiche dell’epica (=conquista Gerusalemme) cui si oppongono le forze
centrifughe romanzesche. Gerusalemme resta luogo centrale, nel rispetto dell’unità d’azione; ma
sono permessi movimenti centrifughi. Protagonista centrale (forza di raccordo) è Goffredo di
Buglione, ma spiccano altri personaggi a tutto tondo: Rinaldo (capostipite degli Estensi: motivo
encomiastico), Tancredi, Clorinda, la maga Armida ecc. Il movimento centrifugo fa sì che tutte le
forze centrifughe ritornino verso il centro (Gerusalemme), dimostrando come l’intero poema si
costruisca su una grande peripezia (in Aristotele questo termine indica il mutamento della
situazione da positiva a negativa e viceversa).
La risultante di queste due forze dà una curvatura drammatica e patetica (cfr. Larivaille, Gigante,
Russo, Ferretti, con lievi differenze nel raggruppamento canti):
1) Introduzione: canti I-III Canto l’arme pietose e ’l capitano….
2) Perturbazione: canti IV-XIII («sacca oscura di 10 canti», Baldassarri)
3) Rivolgimento: canti XIV-XVIII: ritorno di Rinaldo (che aveva tralignato cedendo alle
lusinghe di Armida)
4) Epilogo: canti XIX-XX. battaglia finale, scioglimento e vittorio dei cristiani sui pagani:
canti.
Personaggi principali: Goffredo di Buglione, capitano valoroso e devoto, figura del perfetto eroe
controriformistico, immune dalle tentazioni; Tancredi: eroe moderno, che onora leggi cavalleria,
ma è malinconico e indeciso. Vive un amore impossibile per Clorinda; Rinaldo: il più forte
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guerriero dei cristiani. È giovane e valoroso ma sconsiderato. Nella finzione del poema è l’antenato
di Alfonso II d’Este; Carlo e Ubaldo: due cavalieri cristiani che liberano Rinaldo dal giardino di
Armida. Arrivano alle isole Fortunate grazie all’aiuto de mago d’Ascalona; Sveno: principe di
Danimarca, partito per portare aiuto a Goffredo, verrà ucciso da Solimano; ma la sua spada servirà
ugualmente a Rinaldo nella battaglia decisiva; Aladino: vecchio re di Gerusalemme; Solimano: il
più forte dei guerrieri schierati a difesa di Gerusalemme. Personaggio cupo e riflessivo. Lotta per
riconquistare il trono, ma verrà ucciso in duello da Rinaldo; Argante: più forte guerriero saraceno
dopo Solimano. Viene ucciso in duello da Tancredi; Erminia: timida principessa musulmana di
Antiochia, già prigioniera dei cristiani e innamoratasi di Tancredi (è forse la più originale creazione
tassiana); Armida: maga seduttrice, inviata tra i cristiani dalle forze demoniache: minaccia della
sensualità e dell’eroismo; ma si innamora perdutamente di Rinaldo; Clorinda (< Camilla
virgiliana): modella della guerriera, è una novella Diana; combatte con armatura bianca; alla fine,
prima di venir uccisa da Tancredi, scopre di avere origini cristiane.
Erminia, Armida e Clorinda sono le tre eroine (pagane tra l’altro, quindi atipici) che hanno più
sfaccettature e spessore psicologico.
Cifre stilistiche e narratologiche della Liberata
- Stile: alla ricerca di uno stile «magnifico/eroico», «tra la semplice gravità del tragico e la
fiorita vaghezza del lirico»; le parole devono essere «non comuni, ma peregrine e da l’uso
popolare lontane» quindi auliche e difficili, le figure retoriche devono «commuovere e
rapire gli animi».
- Sintassi: è piena di inversioni, anastrofi, chiasmi: «parlar disgiunto» (torsione delle frasi),
che avrà molti nemici, tra cui Galileo. Tasso a Scipione Gonzaga: «Non so se Vostra
Signoria abbia notato un’imperfezione del mio stile. L’imperfezione è questa: ch’io troppo
spesso uso il parlar disgiunto, cioè quello che si lega più tosto per l’unione e dependenza de’
sensi, che per copula o altra congiunzione di parole». È pieno di anastrofi e di iperbati,
l’ordine della frase è scombinato, vengono utilizzate diverse figure di dislocazione degli
elementi della frase.
- Tecnica narrativa: Suspance. «Lasciar l’uditor sospetto, procedendo dal confuso al
distinto» (Lettere poetiche). Non solo per con il procedersi della trama, ma anche con la
descrizione di un personaggio (o di un amore). Tecnica, già virgiliana («suspendere
animos», «tenere animos suspensos»), della progressiva messa a fuoco della materia
narrativa: vd. amore di Erminia per Tancredi, per cui si ha prima un’ombra confusa (III), poi
più distinta cognizione (VI), particolarissima cognizione se ne ha nel XIX canto.
- Tipologia del narratore: T. è un «narratore passionato» (Raimondi): T. cerca di rispettare
il precetto di Arist. che vuole che nell’epos le vicende siano presentate al lettore senza
intervento dell’autore, ma alla fine risulta «un’ombra che attraversa il racconto e ne
suggerisce l’intonazione», è «uno spettatore tra gli spettatori che conduce per mano il lettore
nelle pieghe della psicologia dei personaggi». L’ironia di Ariosto è del tutto assente
1593. Un’ultima tappa compositiva della GL o una nuova opera?
- Esce la Gerusalemme conquistata, dedicata al nipote del papa Clemente VIII, Cinzio
Aldobrandini. I canti diventano da 20 a 24 (come poemi omerici). Si tratta dell’unica edizione
approvata dallo stesso Tasso. Vinse la Liberata in ogni caso.
- Revisione molto profonda Il poeta taglia o attenua tutto ciò che gli sembra in contrasto con
le severe linee ideologiche controriformistiche. Espunzione di interi episodi, soprattutto degli

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accenti più sensuali ed erotici; religiosità cerimoniosa e celebrativa. (la riduzione del ruolo di
Armida, l’accentuazione delle fonti bibliche nel sogno di Goffredo, ecc.).
- Argante ha ora una moglie e un figlioletto come Ettore; alcuni episodi laterali vengono tagliati
(Es.: viaggio di Carlo e Ubaldo sulla nave della Fortuna). Rinaldo diventa Riccardo, che non
torna a combattere di sua volontà ma grazie all’intervento divino (riceve un’armatura sacra per
sbaragliare infedeli).
- Stile: ricerca di uno stile stentoreo e magniloquente, che va a sostituire la mobilità di toni e
sentimenti che era pregio assoluto dei versi della Liberata.
Tasso, Gerusalemme liberata, canto I
molto Omaggio a Trissino.
Sinossi della Liberata: forze centrifughe
compagni erranti; forza centripeta il gran
capitano.
Sottolineiamo la dispositio delle prime
quattro ottave: 1. Argomento: guerra santa;
2. Invocazione si giustifica la necessità
dei fregi al vero, che è subordinato
all’argomento. Mentre in Ariosto
convivano romanzo ed epica, qui c’è una
gerarchia netta.
E che’l vero, condito in molli versi
topos ripreso dal primo libro del De Rerum
Natura, già citato da Tasso padre, che ci fa
capire che la “medicina” da far indossare al
malato è l’elemento epico e il “miele” la
materia cavalleresca (trama avvincente).
Negli ultimi due versi abbiamo un topos
della poesia encomiastica del ‘500, ovvero
la promessa di dedicare un’opera
straordinaria che celebri le sue imprese.
L’errante si collega ai compagni erranti
della prima ottava e stabilisce una
connessione tra l’errore e il carattere errante
dell’autore, come i personaggi portati in
scena. Esprima la necessità della vicinanza
del suo signore.

Per un approfondimento online


Ariosto: http://www.internetculturale.it/directories/ViaggiNelTesto/ariosto/index.html
Tasso: http://www.internetculturale.it/directories/ViaggiNelTesto/tasso/index.html
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I trattati sul comportamento. Arte & Letteratura. Gli emblemi

I. Letteratura e arti visive nel Rinascimento- Storia di una emancipazione da


arte meccanica a arte liberale
Dante esalta Cimabue e Giotto primo audace accostamento dei pittori ai poeti

Petrarca esalta Simone Martini. Il disegno di Laura

Boccaccio esalta Giotto


“[...] ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e
operatrice col continuo girar de‘ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non
dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte

64
nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo
esser vero che era dipinto. [...]”
Decameron, VI, 5
(ma cfr. anche Amor. Vis., IV, 16; Gen. Deor. Gent. XIV 16; Esposizioni Commedia, III, p. 82)

Superiorità della parola sull’immagine. I vecchi pregiudizi da estirpare


- La parola penetra nell’interno del cuore, raffigura il mondo interiore, non quello esteriore
- Sopravvive al tempo perché non è legata alla materialità dei prodotti artistici, che invece
deperiscono.
- Simonide («la pittura è poesia silenziosa, e la poesia è pittura che parla») citato da Plutarco
(Sulla gloria degli Ateniesi III, 346f-347c).
Confini tradizionali tra parola e immagine

Filippo Beroaldo (1453-1505) Sul fatto che siano più vere le immagini dei libri che delle monete
«Libri loquentes sunt scriptorum imagines, ita nomismata vultus sunt silentes, inde fit ut et
litterarum iucunditatibus mens instruatur et imaguncularum inspectione oculi pascantur»
I libri sono immagini eloquenti degli scrittori, mentre le monete sono volti silenti, per cui succede
che la mente è formata dai piaceri delle lettere e gli occhi si alimentano dalla visione delle
immagini

L’Umanesimo e la disputa delle arti. Arti visive e letteratura procedono in parallelo? (Non
necessariamente)
Ma poi che io dal lungo essilio in quale siamo noi Alberti invecchiati, qui fui in questa nostra sopra
l'altre ornatissima patria ridutto, compresi in molti ma prima in te, Filippo, e in quel nostro
amicissimo Donato scultore e in quegli altri Nencio [Lorenzo Ghiberti] e Luca e Masaccio, essere a
ogni lodata cosa ingegno da non posporli a qual si sia stato antiquo e famoso in queste arti.
Leon Battista Alberti, Proemio al De pictura (1435)

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Alberti: la pittura è maestra di tutte le cose (1435-36)
Et chi dubita qui appresso la pictura essere maestra o certo non piccolo hornamento a tutte le
cose? Prese l’architetto, se io non erro, pure dal pictore li architravi, le base, i chapitelli, le
colonne, frontespicii, et simili tutte altre cose; et con regola e arte del pictore tutti i fabri, i scultori,
ogni bottega e ogni arte si regge; né forse troverai arte alcuna non vilissima la quale non raguardi la
pittura, tale che qualunque truovi bellezza nelle cose, quella puoi dire nata dalla pittura. Però usai di
dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della
pittura stato inventore. De pictura, II, 26

L’Umanesimo e la disputa delle arti. Arti visive e letteratura procedono in parallello? (Sì)
«Fino a quando fiorisce l’eloquenza fiorisce la pittura, come insegnano i tempi di Demostene e
Cicerone. Dopo che l’eloquenza andò in declino, anche la pittura decadde. Appena l’una rifiorì
anche l’altra levò la testa. Vediamo pitture di duecento anni prive di qualsiasi raffinatezza e testi di
quello stesso periodo rozzi, trascurati e di cattivo gusto. Dopo Petrarca la letteratura si è rinfrancata
e dopo Giotto si è risollevata la mano dei pittori: entrambe sono giunte ora al loro massimo
compimento»

Enea Silvio Piccolomini, lettera 119 (1450 ca.), Opera, ed. Basilea 1551, p. 646
Il duomo di Orvieto descritto da Enea Silvio
La facciata è altissima e straordinariamente larga, adorna di moltissime statue scolpite da ottimi
artisti, in gran parte senesi, non certo inferiori a Fidia e a Prassitele. I volti di marmo bianco
paiono vivi e le membra degli uomini e delle fiere sono così formate che l’artificio sembra
eguagliare la natura. Manca solo la voce perché siano esseri animati. E si vedono qui, come se le
scene si stessero svolgendo realmente, la resurrezione dei morti, il giudizio del Salvatore, il castigo
dei dannati e la ricompensa degli eletti.

Enea Silvio Piccolomini, Commentarii, libro IV, ed. Totaro, p. 793


- Arte che gareggia con la realtà. Il ritratto di Antonio Urceo Codro fatto da Francesco Francia.
- Se conosci Codro, o Pellegrino,
- Chi è più Codro, questo o quello?
- Stampa del XVIII da un originale ritratto perduto di Francesco Francia che si conservava a
palazzo Bentivoglio (ultimi anni del ‘400).
- C. Landino, proemio al commento dantesco (Firenze, 1481)

FIORENTINI ECCELLENTI IN PITTURA E SCULTURA


(…) Ma tale arte dopo sua perfezione come molte altre nell’italica servitù quasi si spense; ed erono
le pitture in quegli secoli non punto atteggiate e sanza affetto alcuno d’animo. Fu dunque el primo
Ioanni fiorentino cognomianato Cimabue che ritrovò e’ liniamenti naturali e la vera proporzione, la
quale e’ Greci chiamano simetria, e le figure ne’ superiori pittori morte fece vive e di vari gesti, e
gran fama lasciò di sé (…) Giotto fiorentino coetaneo di Dante (…) Fu Masaccio ottimo imitatore
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di natura, di gran rilievo (…) Paolo Uccello buono componitore e vario, gran maestro di d’animali e
di paesi, artificioso negli scorci perché intese bene di prospettiva (…) Fra Giovanni Angelico e
vezoso e divoto e ornato molto con grandissima facilità (…) Filippo di ser Brunellesco architettore
valse ancora assai nella pittura e scultura (…) Donato scultore da essere connumerato fra gl’antichi,
mirabile in composizione e in varietà (…)

La rivolta delle cose contro le parole / 2 Leonardo «omo sanza lettere»


Proemio.
So bene che per non essere io litterato, che alcuno presuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi
biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere. Gente stolta. Non sanno questi tali ch’io potrei,
sí come Mario rispose contro a’ patrizi romani, io sí rispondere, dicendo: «Quelli che dall’altrui
fatiche se’ medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non vogliano concedere». Diranno che,
per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non sanno questi che le
mie cose son piú da esser tratte dalla sperienzia, che d’altrui parola; la quale fu maestra di chi bene
scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutt’i casi allegherò»
Codice Atlantico, c. 327v

Leonardo. Il primato dell’occhio e della pittura. Ms. A, c. 99r e poi in Trattato de pittura, cap.
19 (Ms. Lat. Urb. 1270, cc. 8r-9r)
«L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso [il centro di
raccordo delle impressioni sensoriali] può più copiosa e magnificamente considerare le infinite
opere di natura; e l’orecchio è il secondo, il quale si fa nobile per le cose racconte, le quali ha
veduto l’occhio. Se voi storiografi o poeti o altri matematici non avessi coll’occhio viste le cose,
male le potresti riferire per le scritture; e se tu, poeta, figurerai una storia colla pittura della penna,
el pittore col pennello la farà di più facile sadisfazione e men tediosa a essere compresa; se tu
dimanderai la pittura muta poesia, ancora il pittore potrà dire del poeta orba pittura: or guarda
quale è più dannoso mostro, o cieco o muto. Se ’l poeta è libero, come ’l pittore, nelle invenzioni, le
sua finzioni non sono di tanta sadisfazione a li omini quante le pitture, perché, se la poesia s’astende
colle parole a figurare forme, atti e siti, il pittore si move colle proprie similitudine de le forme a
contrafare esse forme; or guarda qual è più propinqua all’omo o ’l nome d’omo, o la similutudine
d’esso omo. Il nome dell’omo si varia in vari paesi, e la forma non n’è mutata se non da morte».
Ariosto, Furioso, XXXIII, 1-2

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La rivolta delle cose contro le parole / 1 F. Berni, Capitolo a Sebastiano dal Piombo
(lode di Michelangelo)

G. Vasari, Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti (1550, 1568)
- Da Cimabue a Michelangelo (unico vivente, nell’ed. del 1550).
- Storia dell’arte moderna divisa in tre periodi (come età della vita umane): infanzia (da
Cimabue a Lorenzo di Bicci); giovinezza (Brunelleschi, Donatello, Masaccio); piena
maturità (Michelangelo)

L. Dolce, Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (1557)


- «invenzione, disegno e colorito» corrispondono a inventio, dispositio, elocutio
- Predilige Raffaello su Michelangelo, superiore per «colorito, varietà e convenevolezza»
- Esaltazione di Tiziano: «egli camina di pari con la natura, onde ogni sua figura è viva, si
muove e le carni tremano».

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Firenze, BNCF, Palatino 337, c. 52r
• L. Tansillo, Le lagrime di San Pietro (1585)
• Pittori & Poeti
• I pittori descrivono e i poeti dipingono
• Raffaello dipinge Baldassar Castiglione (1514-15, Parigi, Louvre)
olio su tela. 82×67 cm
RITRATTI DI GRANDI LETTERATI
Castiglione, Il cortegiano, libro I
Ludovico di Canossa: «quasi sempre per diverse vie si po tendere alla summità d’ogni eccellenzia»
«Varie cose ancor egualmente piacciono agli occhi nostri tanto che con difficultà giudicar si po quai
più lor sono grate. Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna,
Raffello, Michelangelo, Giorgio da Castelfranco: nientedimeno, tutti son tra sè nel far dissimili,
di modo che ad alcun di loro non par che manchi cosa alcuna in quella maniera; perché si conosce
ciascun nel suo stil’ esser perfettissimo. Il medesimo è di molti poeti Greci e Latini, i quali diversi
nello scrivere, son pari nella laude».
Castiglione, Cortegiano dalla Dedica a Miguel de Silva
«mandovi questo libro come un ritratto di pittura della corte d’Urbino, non di mano di Rafaello
o Michel Angelo, ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali, senza
adornar la verità de vaghi colori o far parer per arte di prospettiva quello che non è»

G. Della Casa, sonetto XXXIII 1545-1546

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Una competizione in cui i poeti devono riguadagnare terreno
Pommier ha parlato di «gloria del ritratto» per una stagione, quella fra Quattro e Cinquecento, in cui
la lode letteraria fa i conti con una diffusione del ritratto che acquista caratteri diversi dal passato,
per quantità e qualità. E cambia a poco a poco lo statuto sociale del pittore, pur con differenze
significative nei vari centri della penisola. Per i letterati si apre una partita nuova, fatta di negazione
dei nuovi rapporti di forza, ma anche di competizione, oltre che di legami personali di amicizia
difficilmente immaginabili nel passato.

Una regata sul Canal Grande ‘dipinta’ da Aretino. Il Canal Grande al tramonto dipinto da
Aretino/1
A messer Tiziano (Di maggio, in Vinezia, 1544)
Avendo io, signor compare, con ingiuria de la mia usanza cenato solo o, per dir meglio, in
compagnia dei fastidi di quella quartana [=febbre] che più non mi lascia gustar sapore di cibo
veruno, mi levai da tavola  sazio de la disperazione  con la quale ci posi. E così, appoggiate le
braccia in sul piano de la cornice de la finestra, e sopra lui abbandonato il petto e quasi il resto di
tutta la persona, mi diedi a riguardare il mirabile spettacolo che facevano le barche infinite, le quali
piene non men di forestieri che di terrazzani [= compaesani], ricreavano non pure i riguardanti ma
esso Canal Grande, ricreatore di ciascun che il solca. E subito che fornì [= offrì] lo spasso di due
gondole, che con altrettanti barcaiuoli famosi fecero a gara nel vogare, trassi molto piacere de la
moltitudine che, per vedere la rigatta, si era fermata nel ponte del Rialto, ne la riva dei Camerlinghi,
ne la Pescaria [=mercato del pesce], nel traghetto di Santa Sofia [=stazione del traghetto] e ne la
casa da Mosto [=abitazione veneziana].
Il Canal Grande al tramonto dipinto da Aretino/2
E mentre queste turbe e quelle con lieto applauso [=compiacimento] se ne andavano a le sue vie,
ecco ch'io, quasi uomo che fatto noioso a se stesso non sa che farsi de la mente non che dei pensieri,
rivolgo gli occhi al cielo; il quale, da che Iddio lo creò, non fu mai abbellito da così vaga pittura di
ombre e di lumi. Onde l'aria era tale quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi per
non poter esser voi, che vedete, nel raccontarlo io, in prima i casamenti, che benché sien pietre vere,
parevano di materia artificiata [=ciò che è vero sembra finto]. E di poi scorgete l'aria, ch'io compresi
[=percepii, considerai] in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco
la maraviglia ch'io ebbi dei nuvoli composti d'umidità condensa; i quali in la principal veduta
[=visti di fronte] mezzi si stavano vicini ai tetti degli edificii, e mezzi ne la penultima, peroché la
diritta [=la veduta di destra] era tutta d'uno sfumato pendente [=tendente] in bigio nero. Mi stupii
certo del color vario di cui essi si dimostrano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco
solare; e i più lontani rosseggiavano d'uno ardore di minio non così bene acceso.
Il Canal Grande al tramonto dipinto da Aretino/3
Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l'aria in là, discostandola dai palazzi
con il modo che la discosta il Vecellio nel far dei paesi! Appariva in certi lati un verde azurro, e in
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alcuni altri un azurro verde veramente [=in modo naturale] composto da le bizarrie de la natura,
maestra dei maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava [=creava un gioco di
prospettive] in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro
pennello è spirito dei suoi spiriti [= è ispirato dalla natura], e tre e quattro volte esclamai: «Oh,
Tiziano, dove sète mo?». Per mia fè, che se voi aveste ritratto ciò ch'io vi conto, indurreste gli
uomini ne lo stupore che confuse me; che nel contemplare quel che v'ho contato, ne nutrii l'animo,
che più non durò la maraviglia di sì fatta pittura.

II. Trattati sul comportamento- Alla ricerca del perfetto uomo di corte
Quattrocento: grande stagione dei dialoghi
- Libertà antidogmatica della forma dialogica, che lascia sempre aperte possibilità di sviluppi
discorsivi diversi.
- Forma nuova di veritas, non metafisica o logica, ma retorica: la verità sta dentro il
linguaggio, la verità va cercata con l’escussione e l’analisi delle ipotesi in campo.
- Filosofia morale e ‘pragmatica’ (non speculativa): fornisce modelli di vita esemplare.
- Gli autori spesso non entrano nei dialoghi. Problema: come la pensano?
I grandi dialoghi del Quattrocento. alcuni esempi
Dialogi ad Petrum Paulum Istrum di Leonardo Bruni (1404 ca.)
Dialogus de curiae commodis di Lapo da Castiglionchio (1438)
De avaritia, De infelicitate principum di Poggio Bracciolini (1425, 1440)
De curialium miseriis, di Enea Silvio Piccolomini (1444)
De vero falsoque bono e De libero arbitrio di Lorenzo Valla (1430-1440)
Disputationes Camaldulenses di Cristoforo Landino (1474)

G. Pontano, De sermone (1502)


- Trattato in VI libri sulle virtù del discorso quotidiano (sermo, non oratio).
- La virtù principale su cui si concentra è la facetudo, virtù fondamentale per una retorica
dell’otium e della civile distensione (finalità: recreatio animorum).
- Libri I, II, III: definizione teorica disposizione faceta (considerazioni antropologiche, analisi dei
tipi-caratteri umani). Cicerone, Quintiliano e Aristotele.
- Libri IV, V, VI: esempi concreti, muovendosi tra exempla del passato e della contemporaneità
(leggere sia i volgari – Decameron – che i latini moderni come le Facetiae di Poggio).
- Testo che «rifugge dalla precettistica minuziosa e delinea una problematica d’insieme coerente
con la spregiudicatezza di un Umanesimo non ancora irrigidito nel progetto razionale del
Rinascimento» (Mantovani)

G. Pontano, De sermone (1502), dedica a Giacomo Mantovano

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Siamo nel nostro settantatreesimo anno, o Giacomo Mantovano, ed è un anno per la verità per nulla
disimpegnato o inoperoso poiché, tra gli sconvolgimenti d’Italia, non ci è dato godere di quel
riposo che suole essere concesso, per sua stessa natura, alla vecchiaia, ora che l’esercito francese
imperversa in Emilia, Toscana, Lazio, Campania, Puglia e Calabria e io stesso sono in ansia non
solo per le cose di famiglia, ma per la mia stessa vita […]
Pertanto, mentre gli eserciti francesi percorrono, per non dire devastano, l’Italia e da una parte
proprio i francesi dall’altra gli spagnoli occupano il regno di Napoli, abbiamo del tutto distolto
animo e mente dalle grandissime sofferenze che ci fanno a ragione vacillare e, cosa che può forse
stupire, ci siamo rivolti a scrivere delle virtù e dei vizi che si danno nel discorso; non però quello
oratorio o poetico, ma quello che persegue la ricreazione dell’animo e le cosiddette facezie,
cioè il rapporto per così dire civile e urbano e le riunioni private degli uomini quando si raccolgono
non solo per un fine pratico, ma per il piacere e il ristoro dalle fatiche e dagli affanni […]
Tu accogli questo libro e volgi l’animo e i pensieri solo a cose liete; non ti invitiamo infatti al pianto
insieme con noi, ma al riso e alla festosità. Noi non ci siamo staccati dalla sofferenza per incitare te
e altri alle lacrime, ma perché sappiate che non siamo privi di conforto anche tra le estreme
afflizioni e comprendiate che anche voi siete distolti, per opera mia, dal contemplare le
distruzioni d’Italia.
Tu poi, o Mantovano, osserva e realizza quello che è l’impegno tuo e di tutti i letterati: ritenere,
pensare, sapere in modo certo che non poche cose possono essere fatte dalle deliberazioni e dalle
azioni degli uomini, ma che il progetto supremo di tutte le cose va riferito a Dio Ottimo Massimo .
E, in verità, gli uomini che la pensano diversamente sono vani e quanto mai inconsistenti

B. Castiglione, Il libro del Cortegiano (1528) L’iter redazionale


- Primo abbozzo (1508-1513)
- Prima redazione (1513-1516)
- Seconda redazione (1518-1521)
- Terza redazione (1524) in IV libri: ms. Laurenziano Ashburhamiano 409, con interventi
autografi
- 1528: stampa prima Venezia (Manuzio) poi a Firenze (Giunti) con ripulitura bembiana di
Giovan Francesco Valier, che pare tradire le idee antibembiane dell’autore
Il Cortegiano di B. Castiglione
- Ambientazione: Urbino, corte dei Montefeltro, 1507 [quando Castiglione si trova in
missione diplomatica in Inghilterra], una «città in forma di palazzo», nel «più bel palazzo
che in tutta Italia si trovi».
- Interlocutori: Ottaviano Fregoso (interlocutore anche delle Prose del Bembo), Federico
Fregoso, Pietro Bembo (interlocutore anche delle Prose del Bembo e delle Piacevoli notti
dello Straparola), Gaspare Pallavicino, Cesare Gonzaga, Bernardo Dovizi da Bibbiena,
Francesco Maria della Rovere, Bernardo Accolti… le discussioni però sono coordinate da
due donne, la duchessa di Urbino Elisabetta Gonzaga e sua cognata Emilia Pio.
- Scopo delle discussioni: «formar con parole un perfetto cortigiano». Scopo idealistico-
platonico (come Platone aveva descritto la repubblica perfetta, Cicerone il perfetto oratore
nel De oratore, Senofonte il principe perfetto con la Ciropaedia).
- Dedicatario: prima Alfonso Ariosto, poi Miguel de Silva.
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Cortegiano. Contenuto dei 4 libri
- Libro I: Interlocutore principale: Ludovico di Canossa. Problemi affrontati: nobiltà (il
cortigiano deve essere «nato nobile e di generosa famiglia»), ingegno, bell’aspetto e grazia,
bontà e onestà; esperto nelle armi, rapporto tra uomo d’armi e uomo di lettere, buon uso
linguaggio (inserzione della questione della lingua: F.Fregoso sostiene tesi arcaizzanti
Bembo vs Ludovico di Canossa che sostiene tesi cortigiana); supremazia tra pittura e
scultura.
- Libro II. Interlocutore principale: Federico Fregoso. Modi e tempi in cui il cortigiano deve
impiegare le sue capacità: relazioni interpersonali (raccomandata prudenza e cautela, la
«discrezione», quasi «il condimento del tutto»). Larga parentesi sulla comicità del Bibbiena:
per le facezie ci si rifà al De oratore + Decameron + De sermone: bisogna tenersi lontani
dalla buffoneria e dalla malignità.
- Libro III. Interlocutore principale: Giuliano de’ Medici. profilo ideale della «dama di
palazzo». Gioco come ludus cortigiano.
- Libro IV. . Interlocutore principale: Ottaviano Fregoso (+ Gasparo Pallavicino): rapporti tra
cortigiano e suo signore (dimensione politica del cortigiano, che è come un precettore-
filosofo per il principe, come Aristotele per Alessandro Magno. Pagine finali dedicate
all’amore (neoplatonico): P. Bembo esalta l’amore spirituale come mezzo per raggiungere
amore divino.

AL REVERENDO ED ILLUSTRE SIGNOR DON MICHEL DE SILVA VESCOVO DI VISEO


[La dedica: i fasti in un cimitero]
[…] Così, per eseguire questa deliberazione cominciai a rileggerlo; e sùbito nella prima fronte,
ammonito dal titulo, presi non mediocre tristezza, la qual ancora nel passar più avanti molto si
accrebbe, ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono introdutti nei ragionamenti, esser già
morti: ché, oltre a quelli de chi si fa menzione nel proemio dell'ultimo, morto è il medesimo
messer Alfonso Ariosto, a cui il libro è indirizzato, giovane affabile, discreto, pieno di suavissimi
costumi ed atto ad ogni cosa conveniente ad omo di corte. Medesimamente il duca Iuliano de'
Medici, la cui bontà e nobil cortesia meritava più lungamente dal mondo esser goduta. Messer
Bernardo, cardinal di Santa Maria in Portico, il quale per una acuta e piacevole prontezza d'ingegno
fu gratissimo a qualunque lo conobe, pur è morto. Morto è il signor Ottavian Fregoso, omo a'
nostri tempi rarissimo, magnanimo, religioso, pien di bontà, d'ingegno, prudenzia e cortesia e
veramente amico d'onore e di virtù e tanto degno di laude, che li medesimi inimici suoi furono
sempre constretti a laudarlo; e quelle disgrazie, che esso constantissimamente supportò, ben furono
bastanti a far fede che la fortuna, come sempre fu, così è ancor oggidì contraria alla virtù. Morti
sono ancor molti altri dei nominati nel libro [Cesare Gonzaga, Gasparo Pallavicino, Vincenzo
Calmeta, Ludovico Pio, G. Cristoforo Romano, Roberto da Bari], ai quali parea che la natura
promettesse lunghissima vita. Ma quello che senza lacrime raccontar non si devria è che la signora
Duchessa [E. Gonzaga] essa ancor è morta; e se l'animo mio si turba per la perdita de tanti amici e
signori mei, che m'hanno lasciato in questa vita come in una solitudine piena d'affanni, ragion è che
molto più acerbamente senta il dolore della morte della signora Duchessa che di tutti gli altri,
perché essa molto più che tutti gli altri valeva ed io ad essa molto più che a tutti gli altri era tenuto.
Per non tardare adunque a pagar quello, che io debbo alla memoria de così eccellente Signora e
degli altri che più non vivono, indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e
publicare tale qual dalla brevità del tempo m'è stato concesso.
73
AL REVERENDO ED ILLUSTRE SIGNOR DON MICHEL DE SILVA VESCOVO DI VISEO
[Il perfetto cortigiano: la metafora dell’arciere]
Altri dicono che, essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar un omo così perfetto come io
voglio che sia il cortegiano, è stato superfluo il scriverlo perché vana cosa è insegnare quello che
imparare non si po. A questi rispondo che mi contentarò aver errato con Platone, Senofonte e Marco
Tullio [= repubblica ideale, principe ideale, oratore ideale], lassando il disputare del mondo
intelligibile e delle idee; tra le quali, sì come, secondo quella opinione, è la idea della perfetta
republica e del perfetto re e del perfetto oratore, così è ancora quella del perfetto cortegiano; alla
imagine della quale s'io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica averanno i
cortegiani d'approssimarsi con l'opere al termine e mèta, ch'io col scrivere ho loro proposto; e se
con tutto questo non potran conseguir quella perfezion, qual che ella si sia, ch'io mi son sforzato
d'esprimere, colui che più se le avvicinarà sarà il più perfetto, come di molti arcieri che tirano ad un
bersaglio, quando niuno è che dia nella brocca, quello che più se le accosta senza dubbio è miglior
degli altri. Alcuni ancor dicono ch'io ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le
condizioni, ch'io al cortegiano attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio già negar di
non aver tentato tutto quello ch'io vorrei che sapesse il cortegiano; e penso che chi non avesse avuto
qualche notizia delle cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato, mal avrebbe potuto
scriverle; ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto
quello che so desiderare.

N. Machiavelli, Il principe, cap. VI La metafora dell’arciere


Non si maravigli alcuno se [...] io addurrò grandissimi esempli. Perché [...] debbe uno uomo
prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi
imitare, [...] e fare come gli arcieri prudenti, a’ quali parendo el luogo dove desegnano ferire
troppo lontano, [...] pongono la mira assai più alta che il luogo destinato [...] per potere con lo
aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro. (N. Machiavelli, Il principe, a cura di G. Inglese,
Torino 1995, 32)

Il cortegiano Dal libro I, 26: grazia e sprezzatura


[parla il conte Ludovico di Canossa] Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose
bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse,
transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal
professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar
scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va
carpendo i fiori, così il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che
la tenghino e da ciascun quella parte che più sarà laudevole […] Ma avendo io già più volte pensato
meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula
universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano
più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la
affettazione [maniera artificiosa]; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa
sprezzatura [disinvoltura], che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica
e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben
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fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario
il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per
grande ch'ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si
ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco
estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le
altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e
dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto
secondo che loro porgea la natura e la verità, che 'l studio e l'arte; la qual se fosse stata conosciuta,
arìa dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque
come il mostrar l'arte ed un così intento studio levi la grazia d'ogni cosa.

Il cortegiano. libro IV, 5 (rapporto cortigiano-signore)


Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s'è parlato, estimo io che sia il
guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori talmente la benivolenzia e
l'animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d'ogni cosa che ad
esso convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello
inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia
acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed indurlo al camin della
virtù; e così avendo il cortegiano in sé la bontà, come gli hanno attribuita questi signori,
accompagnata con la prontezza d'ingegno e piacevolezza e con la prudenzia e notizia di lettere e di
tante altre cose, saprà in ogni proposito destramente far vedere al suo principe quanto onore ed utile
nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità, dalla magnanimità, dalla mansuetudine e
dall'altre virtù che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda
dai vicii oppositi a queste. Però io estimo che come la musica, le feste, i giochi e l'altre condicioni
piacevoli son quasi il fiore, così lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo dal
male, sia il vero frutto della cortegiania. E perché la laude del ben far consiste precipuamente in
due cose, delle quai l'una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente
bono, l'altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine desegnato, certo
è che l'animo di colui, che pensa di far che 'l suo principe non sia d'alcuno ingannato, né ascolti gli
adulatori, né i malèdici e bugiardi, e conosca il bene e 'l male ed all'uno porti amore, all'altro odio,
tende ad ottimo fine.

G. Della Casa, Galateo ovvero de’ costumi (1558)


- Titolo completo: Trattato nel quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un
suo giovanetto, si ragiona de’ modi che si debbono o tenere o schifare nella comune
conversazione, cognominato [cfr. Boccaccio] Galateo, overo de’ costumi.
- Il titolo, modellato sui titoli ciceroniani, ha valore di dedica: a Galeazzo Florimonte,
vescovo di Aquino e poi di Sessa Aurunca. È il dedicatario a suggerire all’autore
l’articolazione del trattato.
- Un vecchio ‘idiota’ (illetterato) – siamo ormai lontani dalle alte idealità di Castiglione –
ammaestra un suo «giovanetto» che deve entrare in società (il prediletto nipote Annibale
Rucellai, controfigura dell’autore).
- Trattato non è in forma dialogica (diviso in 30 capp. nell’ed. moderna).

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G. Della Casa, Galeteo ovvero de’ costumi
- Obiettivo: come risultare «costumato e piacevole e di bella maniera» a corte, a partire da
comportamenti della vita quotidiana, Evitando ciò che è sgradito ai sensi, all’appetito
(istinto che spinge a reagire secondo pulsioni e reazioni), all’intelletto.
- Esempi: non mettersi le mani in luoghi poco consoni, non mettere sotto il naso altrui cose
puzzolenti, non guardare nel fazzoletto dopo esserti soffiato il naso, non assaggiare il cibo
nel piatto degli altri, non starnutire annaffiando chi ti sta accanto, non sbadigliare
rumorosamente o emettere flatulenze…
Capp. xviii-xxiv: serie di aneddoti tratti da Boccaccio
G. Della Casa, Galateo, cap. VI
Sono ancora di quelli che così si dimenano e scontorconsi e prostendosi e sbadigliano,
rivolgendosi ora in su l’un lato ed ora in su l’altro, che pare che gli pigli la febre in quell’ora:
segno evidente che quella brigata con cui sono rincresce loro. Male fanno similmente coloro che,
ad ora ad ora, si traggono una lettera della scarsella e la leggono. Peggio ancora fa chi, tratte
fuori le forbicine, si dà tutto a tagliarsi le unghie, quasi che egli abbia quella brigata per nulla e
però si procacci d’altro sollazzo per trapassare il tempo. Non si deono anco tener quei modi che
alcuni usano, cioè cantarsi fra’ denti o sonare il tamburino con le dita o dimenar le gambe;
perciocché questi così fatti modi mostrano che la persona sia non curante d’altrui. Oltre a-cciò non
si vuol l’uom recare in guisa che egli mostri le spalle altrui, né tenere alto l’una gamba sì che
quelle parti che i vestimenti ricopruono si possano vedere: percioché cotali atti non si sogliono
fare se non tra quelle persone che l’uom non riverisce (…) Dee l’uom recarsi sopra di sé e non
appoggiarsi né aggravarsi addosso altrui. E, quando favella, non dee punzecchiare altrui col
gomito, come molti soglion fare ad ogni parola, dicendo: - Non dissi io vero? Eh voi? Eh Messer
Tale? – e tuttavia vi frugano col gomito.

G.B. Giraldi Cinzio, L’uomo di corte (Pavia 1569)


- Nel 1563 il Cinzio viene allontanato da Ferrara (dopo essere stato per 15 anni segretario ducale
di Ercole II) e si trasferisce a Mondovì, chiamato dal duca Emanuele Filiberto di Savoia, che nel
1560 vi aveva fondato uno Studio.
- Titolo completo: Discorso di M. Gio. Battista Giraldi Cinthio nobile ferrarese, intorno a
quello che si conviene a giovane nobile & ben creato nel servire un gran Principe.
- Scritto in 3 giorni dall’autore su richiesta del figlio Lucio Olimpio e del genovese Pietro Battista
Lomellini.
- Nel frontespizio: Idra nella palude di Lerna: «Virescit vulnere virtus»: la virtù si rafforza
grazie alle ferite/offese (ricevute): allusione alla propria estromissione da Ferrara?
- Navigazione difficile a corte, soprattutto per gli umori del signore. La conversazione è
costantemente avvelenata dalla simulazione, dalla «varietà delle nature umane», dai «morditori,
nuovi Momi»
- Qualità dell’uomo di corte. Il cortigiano, novello Proteo, deve adeguarsi alle varie nature dei
personaggi di corte, deve saper temperare gli impulsi e mostrare molta modestia; poi deve far
mostra di una «gentile ironia»

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- Cosa possiamo desumere? gli splendidi orizzonti delle corti rinascimentali vanno
progressivamente incupendosi, mentre l' "umana conversazione" che ne aveva assicurato gli
armoniosi equilibri è inquinata dalle forze perverse della simulazione e della ingratitudine.
- «Ho raccolto in breve discorso quello che dagli scrittori antichi e dalle conversazioni delle corti,
per quel tempo che vi sono stato, ho osservato insino ad ora». Contenuto:
• Cap. I: i pericoli delle corti
• Cap. II: La maniera di servire (mostrarsi allegro e festevole; modestia e gentil ironia)
• Cap. III: esercizi del corpo (cavalcare, gioco della palla; duello; danza; caccia)
• Cap. IV: Esercizi dell’animo (Studi delle lettere; pittura)
• Cap. V: I giuochi (gioco onesti; scacchi; musica; motteggiare)
• Cap. VI: La verità e la simulazione
• Cap. VII: L’amore (amore cristiano; imprese e motti; duello per amore)
• Cap. VIII: La religione (cattolica)
G.B. Giraldi Cinzio, L’uomo di corte, Modena, Mucchi, 1989,
cap. I
Dicono adunque costoro [i Greci, maestri da favole], che essendo Momo fra gli Dei e non facendo
egli mai cosa che bene istesse, non mancava punto di riprendere quanto di buono facevano gli
altri. Infastidito adunque Giove del costui mal dire, accioché non fosse quella gran seccaggina fra
gli Dei, lo gittò (come dicono le favole) a capo in giù dal cielo. Ma egli, non pentito punto del suo
mal costume conforme alla sua mal natura, cercò di generare simile a sé e, dopo molto aver
cercata moglie atta a compiere la su rea intenzione, si accoppiò colla invidia, e tale fu il loro
congiugimento che nacquero ad un parto la malvagità e la maldicenza. Le quali poscia,
accoppiatesi coll’odio e col livore, in poco ispazio di tempo produssero tanti altri figliuoli e nipoti,
che si sparse in ogni parte della terra questa mala progenie; in guisa che non vi è, non dirò regione
o città, ma casa alcuna privata nella quale non sia entrata questa pestilenza. Ma se facessero gli
uomini quel che Giove fé per liberarne il cielo, sarebbero questi malvagi fuori delle parti abituali,
e spargerebbono il tosco fra le fiere ne’ boschi o nelle selve, e non conteminerebbero, come tutto dì
fanno, le virtù altrui colle loro pestifere parole.
G.B. Giraldi Cinzio, L’uomo di corte, Modena, Mucchi, 1989,
cap. I
Ma poiché noi veggiamo che altrimente è avenuto, e che spesse fiate questi malvagi, per simolar
bontà, hanno più facili gli orecchi de’ maggiori, egli è sommamente da avvertire che nelle corti
costoro, coprendo colla simolazione e con buon viso il loro mal animo, si oppongono di continuo a
coloro che conoscono potere ascendere, per lo mezzo di fedele e virtuosa servitù, a qualche grado
appresso il Signor loro, ed è questa pessima sorte di uomini come un mortal morbo fra corpi sani.
E si possono anche chiamare acconciamente questi tali scogli, posti nel mar di questa vita, i quali,
per starsi nascosi sotto quete onde, con tanta malagevolezza si possono schivare, che spesso spesso
altri si pensa di battere sicuro camino e, solcando disavedutamente queste onde, percuote in essi e
vi fa naufragio.

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Per queste cagioni adunque, illustre giovane, e per altre tali ho io sempre giudicato che coloro
usano gran senno i quali, quantunque Signori non siano, avendo avuti nondimeno con larga mano
dal sommo Iddio il modo di poter vivere da sé onoratamente, si stanno fra i confini della lor buona
fortuna, e vogliono piuttosto ch’altri serva loro, che si voglino essi sottoporre all’altrui imperio
con tal pericolo: veggendo.
Stefano Guazzo, La civile conversazione (1574) 1579: 2a ed. ampliata
- L’autore (1530-1594) è attivo presso la corte gonzaghesca di Casale Monferrato. Opera dedicata
al signore Vespasiano Gonzaga (dal 1536 erano signori del Monferrato)
- Forma: dialogica. Dialogo dal valore terapeutico tra Annibale Magnocavalli (filosofo e medico
casalese) e il fratello dell’autore Guglielmo Guazzo (il «Cavaliere», ammalato di febbri e
dunque di malinconia), cortigiano al servizio dei Gonzaga.
- I libro: i frutti della «civil conversazione». Come distinguere le buone dalla cattive
conversazioni (maldicenza, adulazione, menzogna, superbia).
- II libro: regole per conversazioni fuori casa e delle maniere che devono nella conversazione i
giovani e i vecchi, i nobili e gl’ignobili, i principi e i privati, i dotti e gli indotti, i cittadini e i
forestieri, i religiosi e i secolari, gli uomini e le donne.
- III libro: conversazione domestica (marito-moglie; padre-figlio; fratello-fratello – molto
spazio a questo aspetto -; padrone-servo). Auctoritas del capofamiglia: la conversazione è
medicina delle cattive disposizioni d’animo e veicolo dei valori della tradizione.
- IV libro: Racconto di Annibale, esempio della ideale «civil conversazione». Espediente del
dialogo incastonato: ricordo di un convito a casa della nobildonna Caterina Sacco, alla
presenza di Vespasiano Gonzaga, dedicatario del trattato; dialogo tra 10 convitati. Esempio di
perfetta conversazione aristocratica, dove i partecipanti dismettono i loro titoli e gradi e sono
tutti soggetti privati tra loro uguali: battute, motti, scherzi, ironie
Stefano Guazzo, La civile conversazione
Libro I
Annibale. Poiché adunque m’avete dimandato qual sorte di conversazione s’abbia ad eleggere per
giungere a quella perfezzione che già abbiamo dichiarata, io, escludendo tutte le altre, propongo a
questo effetto la civil conversazione.
Cavaliere. Che cosa intendete voi per quella voce «civile»?
Annibale. Se volete che io ve lo dichiari, bisogna prima ch’io vi dimandi se voi conoscete alcun
cittadino che proceda nelle sue azzioni incivilmente.
Cavaliere. Io ne conosco più d’uno.
Annibale. Ora vi dimando, all’incontro, se conoscete alcun uomo di villa che civilmente proceda.
Cavaliere. Molti ne conosco.
Annibale. Eccovi adunque che noi diamo largo sentimento a questa voce, poiché vogliamo inferire
che ’l viver civilmente non dipende dalla città, ma dalle qualità dell’animo. Così intendo la
conversazione civile non per rispetto solo della città, ma in considerazione de’ costumi e delle
maniere che la rendono civile. E sì come le leggi e costumi civili sono communicati non solamente
alla città, ma alle ville e castella e popoli che le sono sottoposti, così voglio che la civil
conversazione appartenga nonché agli uomini che vivono nelle città, ma ad ogn’altra sorte di

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persone, dovunque si trovino e di quale stato si siano: e insomma che la conversazione civile sia
onesta, lodevole e virtuosa.
Stefano Guazzo, La civile conversazione
Libro I
Annibale. Io adunque vi replico che la conversazione è il vero affinamento e l’intera perfezzione
della dottrina, e che giova più al letterato un’ora ch’egli dispensi nel discorrere con suoi eguali,
ch’un giorno di studio in solitudine. Anzi, nel conferire si sganna molte volte degli errori ch’egli ha
preso da se stesso, non avendo dirittamente inteso il senso delle scritture, e viene a ravedersi che ’l
giudicio d’un solo può di leggieri esser offuscato dal velo dell’ignoranza o d’alcuna passione, e che
nella moltitudine non avviene così facilmente che tutti s’abbaglino. E finalmente con la prova si
certifica che la virtù espressa ne’ libri non è altro ch’una virtù dipinta, e ch’ella s’acquista più con
l’uso che con la lezzione.

III. Introduzione alla letteratura Emblematica


1. Che cos’è un emblema?
emblema
[em-blè-ma] s.m. (pl. -mi)
1 Figura simbolica spesso accompagnata
da un motto: la colomba è l'e. della pace
2 fig. Simbolo di
qlco. SIN personificazione: quell'uomo è
l'e. dell'onestà
• sec. XVI

Caratteri dell’Emblematica
- Circa 6.500 libri di emblemi furono pubblicati durante il Rinascimento
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- Libri scritti sia in latino che in volgare e nelle lingue nazionali
- Argomento morale ma anche religioso
- Grande diffusione attraverso la stampa
- Parte integrante e sostanziale della cultura del Rinascimento e del Barocco.

2. Brevissima storia dell’Emblematica (le rispettive foto nelle slide)


1. Filippo Fasanini e il Trattato sui geroglifici di Orapollo
2. L’Emblematum liber di Andrea Alciato
3. Il Dialogo delle imprese militari e amorose di Paolo Giovio
4. Hieroglyphica di Pierio Valeriano
5. Le Simbolicae Quaestiones di Achille Bocchi
6. L’Iconologia di Cesare Ripa

1. Filippo Fasanini e il Trattato sui geroglifici di Orapollo

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2. L’Emblematum liber di Andrea Alciato
9 dicembre 1522 – Alciato a Francesco Calvo
«Durante questi Saturnali, compiacendo l’illustre Ambrogio Visconti ho composto un libretto di
epigrammi intitolato Emblemata, in ciascuno dei quali descrivo qualcosa, tale che significhi con
eleganza un qualche cosa tratto dalla storia o dal mondo naturale, donde pittori, orefici, fonditori,
possano realizzare quel genere di oggetti che chiamiamo scudi e attacchiamo ai cappelli o portiamo
quali insegne, come l’ancora di Aldo, la Colomba di Froben e l’Elefante del Calvo»
Chi ha inserito le immagini?
Steyner: Non a torto, sincero lettore, rimpiangerai la nostra diligenza nelle vignette che sono state
aggiunte a quest’opera. Infatti l’autorità del valentissimo autore e la dignità del libretto meritavano
illustrazioni più eleganti, cosa che anche noi ammettiamo. Desideravamo che queste invenzioni ti
fossero presentate più belle, in modo da porle davanti ai tuoi occhi dipinte con quanta più arte
possibile e niente, per quanto sappia, abbiamo tralasciato a questo riguardo...(Candido lectori,
salutem plurimam 1531).
Alciato: Le parole significano, le cose sono significate. Tuttavia anche le cose talvolta significano,
come i geroglifici di Horo e Cheremone, argomento sul quale anche noi abbiamo composto un
libretto in versi (Commento al De verborum significatione, 1530).

3. Dialogo delle imprese militari e amorose di Paolo Giovio


A Cosimo I de’ Medici -
Prefazione al libretto degli emblemi dell’illustrissimo Signore Andrea Alciato al signor Chonrad
Peutinger

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Mentre i fanciulli giocano alle noci, i giovani ai dadi e gli uomini oziosi si intrattengono con le carte
da gioco, io nelle ore di festa conio questi emblemi e figure simboliche di illustre mano di artisti,
affinché chiunque sia in grado di applicare fregi alle vesti e scudi ai cappelli, o di scrivere muti
segni. Ma a te il sommo Cesare conceda di possedere preziose monete e insigni codici degli antichi.
Io, poeta, darò al poeta solo doni di carta che, o Chonrad, ricevi come pegno del mio affetto.
Tanta è la cortesia di Vostra Eccellenza verso di me, ch'io mi tengo obligato a rendervi conto di
tutto quell'ozio che in gran parte, a vostra amorevole esortazione, mi sono usurpato in questi fieri e
noiosi caldi del mese d'agosto, nemico della vecchiaia. E perciò, avend'io tralasciata l'istoria come
fatica di gran peso, mi sono ito trastullando nel discorrere con messer Lodovico Domenichi, che a
ciò m'invitava, sopra l'invenzioni dell'imprese che portano oggidì i gran signori. Di modo che,
essendomi riuscito questo picciol trattato assai piacevole e giocondo e non poco grave per l'altezza e
varietà de' soggetti, mi sono assicurato di mandarvelo, pensando che vi possa esser opportuno
passatempo in così fastidiosa stagione; e in ciò ho imitato il vostro semplice ortolano, che spesse
volte sopra la vostra tavola, ricca di varie e preziose vivande, s'arrischia di presentare un panierino
de' suoi freschi fiori di ramerino e di borana per servire a uno intermesso d'una saporita
insalatuccia. 
Ha questo trattato molta similitudine con la diversità de' detti fiori, ameni alla vista, e gratissimi al
gusto; il quale sarà ancor tanto più grato a voi valoroso Signore, quanto ch'egli è nato in casa vostra,
e l'argomento del presente discorso ha havuto principio in tal guisa, che usando meco
famigliarmente M. Lodovico Domenichi, per cagione di tradurre continuamente l'historie nostre
Latine in volgar Toscano, a buon proposito entrò a ragionare della materia e arte dell'inventione e
imprese, le quali i gran Signori e nobilissimi Cavalieri a nostri tempi sogliono portare nelle
sopraveste, barde e bandiere, per significare parte de' lor generosi pensieri.

Prima, giusta proporzione d’anima e di corpo. Seconda, ch’ella non sia oscura di sorte ch’abbia
mestiero della sibilla per interprete a volerla intendere, né tanto chiara ch’ogni plebeo l’intenda.
Terza, che sopra tutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra entrandovi stelle, soli,<