Sei sulla pagina 1di 219

LOFFREDO&DEDALUS

LA CRITICA LETTERARIA
Il Medioevo
a cura di Emilio Piccolo
LA CRITICA LETTERARIA
Il Medioevo
a cura di Emilio Piccolo
LA CRITICA LETTERARIA
I l Medioevo
a cura di Emilio Piccolo
DEDALUS
Loffredo Editore Napoli S.p.A
Dedalus srl Napoli
Loffredo Editore Napoli S.p.A
via Consalvo, 99 - 80126 Napoli
email info@loffredo.it
Edizioni Dedalus
via Pietro Castellino, 179 - 80131 Napoli
email: mc7980@mclink.it - proteus@mclink.it
I edizione: marzo 2000
La manipolazione e/o la riproduzione (totale o parziale) e/o la diffusione telema-
tica di questopera sono consentite a singoli o comunque a soggetti non costituiti
come imprese di carattere editoriale, cinematografico o radio-televisivo.
La Critica Letteraria
I l Medioevo
6
La Critica Letteraria
7
I l Medioevo
Vitalit della cultura medievale
I l Medio Evo ebbe una concezione sua propria del mondo clas-
sico poich esistette veramente quello che io ho chiamato altrove il
classicismo medievale. Al gusto raffinato dei moderni potr sem-
brare un classicismo deformato, mutilato o bizzarro; eppure esso fu
una forza formatrice degli spiriti di quel secolo dodicesimo, che fu
sostanzialmente un tempo che vide la giovent spingersi avanti per
emergere. uno spettacolo divertente assistere allincontro di que-
sta giovent con gli anziani; uno spettacolo che possiamo seguire
di decennio in decennio e che culmina, per quanto mi permette di
affermarlo la mia esperienza, verso il 1170. Arrivati a questa data
troviamo manifesti poetici e retorici che vengono a costituire una
specie di Dichiarazione dei Diritti. Sono proclamati da un gruppo
di scrittori che si attribuiscono il nome di Moderni. Essi si fanno
banditori di nuovi modelli in poesia, nellarte dello scrivere in pro-
sa, nella filosofia, e in ogni altro ramo del sapere. Sono convinti che
sta sorgendo una nuova et e citano a proprio conforto le parole di
San Paolo: le vecchie cose sono svanite; guardate, esse sono diven-
tate nuove. Avete qui un esempio della graziosa ingenuit di quel-
lepoca che conobbe una censura ecclesiastica veramente minima.
Non cera ancora lI nquisizione, non cera ancora la sorveglianza
papale sul corso degli studi; variet di posizioni caratterizzavano la
teologia e la pi squisita elaborazione dei dogmi. Il secolo dodicesimo
fru di una libert intellettuale che il secolo seguente avrebbe sop-
presso. Per questo un errore parlare del Medio Evo come di una
et tutta uniforme poich sarebbe come se noi potessimo, a modo
desempio, parlare degli ultimi quattro secoli come di un tutto uni-
co. Dobbiamo, invece, tentare di delineare ogni secolo come fu
nelle sue caratteristiche singolari, profondamente diverse da quelle
8
La Critica Letteraria
degli altri secoli. Quando ci si guarder dal parlare di uno spirito
medievale si sar fatto un grande passo sulla strada della compren-
sione della storia.
Ma mi si permetta di parlare ancora dei Moderni del 1170. Circa
un mezzo secolo prima gli Antichi erano stati definiti dei giganti,
mentre i Moderni parevano nani che potevano spaziare su un pi
vasto orizzonte solo perch stavano sulle spalle di quei giganti. Ma
verso la fine del secolo i Moderni hanno spiegato le ali e si vantano
di essere uguali ai loro antenati. Anzi, manifestano un certo fastidio
nei riguardi dello stile dei classici. Si sentono capaci di fare meglio
di loro e coniano, intanto, molte parole nuove.
Sono dei ribelli... ma solo fino a un certo punto. Essi, infatti,
continuavano a scrivere in latino; e mentre attendevano ad affinare
versi elaborati, si fece avanti un altro gruppo che spinse pi a fondo
la ribellione. Giovanni di Salisbur, il pi grande umanista del
dodicesimo secolo, deplora il crescente disprezzo della grammatica,
della retorica e delle lettere. Gli autori classici sono messi da parte.
Coloro che si mantengono fedeli ai classici vengono fatti segno a
frecciate di derisione: Che cosa pensa questo vecchio asino? Perch
mai non fa che ripetere i detti e i fatti degli Antichi? Noi troviamo
in noi stessi la sorgente del sapere.
Questa ammirevole giovent ha scoperto il potere del ragiona-
mento e prova unattrazione irresistibile per le argomentazioni logi-
che che si librano sopra i fatti e ogni altra forma di sapere.
La logica pare a costoro un dono sublime che essi possiedono
per diritto di nascita. Sono tutti presi dalla frenesia per la dialettica
e provano e confutano, affermano e negano ogni cosa. Gli antece-
denti remoti a cui assomigliano sono i Sofisti greci. Essi sono per
noi interessanti perch rappresentano la tendenza a scardinare il si-
stema educativo fondato sulle discipline letterarie. I l loro tentativo
non fu coronato da successo soltanto perch non avevano niente da
mettere al posto di quelle.
Verso il 1200 noi troviamo due nuove discipline del sapere: il
diritto e la medicina. Si sviluppa un nuovo sistema educativo quan-
do le scuole episcopali vengono soppiantate dalle Universit. Si
diffondono in traduzione latina le opere di Aristotele che fornisco-
no uno sterminato corpo di cognizioni relative alluniverso, alla
storia naturale e alla metafisica. Questo materiale sar adattato e
trasformato per divenire parte del grande sistema della scolastica.
Cos il secolo decimoterzo segna il trionfo della filosofia perch questa
disciplina si insinua dovunque e usurpa ogni cosa Verso il 1225 la
9
I l Medioevo
splendida fioritura di poesia e letteratura latina termina bruscamen-
te. Se ne deve cercare la ragione in una riforma delleducazione. Nel
1215 il corso degli studi in vigore allUniversit di Parigi venne
radicalmente alterato: abolito lo studio dei classici, subentra al suo
posto quello della logica formale.
Linsegnamento della letteratura e della retorica venne continua-
to da alcuni maestri isolati e in alcune scuole arretrate. Ma questi
maestri ebbero una vita stentata. Essi erano insultati dagli alfieri
della filosofia. Si ingaggi un terribile Combattimento dei Libri.
I n una composizione poetica che tratta di questo argomento, il fi-
losofo cos si rivolge al poeta: I o ho seguto la via del sapere; tu
invece preferisci fanciullaggini, come la prosa ritmica e il verso. Quale
la loro utilit? Essi devono essere valutati proprio niente... Tu
conosci la grammatica, ma non possiedi neppure un briciolo n di
scienza n di logica Perch dunque meni tanto vanto? Tu sei un
ignorante (ignoramus). Cos stanno le cose verso il 1250. Alcu-
ni anni pi tardi Ruggero Bacone lancia i suoi violenti attacchi con-
tro Alberto Magno e San Tommaso. Egli li rimprovera di avere
messo da parte lo studio del latino, del greco e dellebraico. Ai suoi
occhi il secolo decimoterzo sembra una et che riprecipita nella bar-
barie. Non si esce forse dallargomento ricordando che Goethe fa di
lui grandi lodi. Tuttavia sar bene non dimenticare che vario fu il
giudizio di Goethe sul Medio Evo perch, in genere, egli lo consi-
der un periodo di tenebre culturali. Ma il fatto che fosse possibile
trovare in tale periodo uno spirito come Ruggero Bacone conferm
Goethe nella sua opinione che, cio, in ogni tempo si possono tro-
vare uomini eccellenti e che la loro serie costituisce una specie di
galassia che si estende sopra lo spazio vuoto della notte [...].
Che dire delle basi della cultura occidentale? Le basi della cultu-
ra occidentale sono lantichit classica e il Cristianesimo. La funzio-
ne del Medio Evo fu quella di ricevere quel deposito, di trasmetter-
lo e di adattarlo. Per mio conto, il suo legato pi prezioso lo
spirito che riusc a creare mentre eseguiva questo compito [...]. I
fondatori sono stati San Girolamo, SantAmbrogio, SantAgostino
e pochi altri. Sono figure che appartengono al quarto e al quinto
secolo della nostra era e rappresentano lultima fase dellantichit
greco- romana che coincide con la prima fase del Cristianesimo. La
lezione del Medio Evo proprio nellaccettazione riverente e nella
fedele trasmissione di un deposito prezioso. Ma questa anche la
lezione che noi deriviamo da Dante e da Goethe secondo quanto
egli ci insegna nella sua opera poetica, nei suoi scritti di storia e di
10
La Critica Letteraria
filosofia, nelle sue lettere e nei suoi colloqui. I l secolo decimonono
ha fatto nascere un tipo di scrittore che si eretto a campione di
idee rivoluzionarie e di una poesia parimenti rivoluzionaria [...].
Trasmettere una tradizione non significa cristallizzarla in un com-
plesso dottrinario immutabile e in un canone fisso di alcuni libri
prescelti. La lettera uccide, ma lo spirito vivifica. Lo studio della
letteratura dovrebbe procedere in modo da dare un gaudio allo stu-
dioso e suscitare la sua meraviglia dinanzi a bellezze che egli non
sospettava nemmeno. La devozione e lentusiasmo sono le chiavi
che apriranno questi tesori nascosti. I o sono convinto che vasti campi
della letteratura medievale aspettano ancora il rabdomante che sap-
pia scoprirvi sorgenti di bellezza e di verit [...].
ERNST ROBERT CURTIUS
da Tradizione medioevale e cultura moderna, in Convivium,
a. XXI V, n. 1, gennaio-febbraio 1956
11
I l Medioevo
Letterature romanze e latinit nel medioevo
I l medio evo, ove lo si restringa alla storia della civilt occidenta-
le, fuor della quale sarebbe un termine privo di senso, ha un suo
carattere unitario. Non quello che ha attribuito il rinascimento:
immensa notte di barbarie, dilagante fra il tramonto della civilt
antica e lalba della civilt moderna, millenario intermezzo fra due
et, che fuor di lui e contro di lui si ricongiungono, che senza di lui
si sarebbero composte in una felice continuit di vita. Concetto
negativo ed erroneo, che abbiamo ereditato dal rinascimento, e di
cui non ci siamo ancor del tutto liberati. Ma falso pure il concetto
che del medio evo si fabbric il romanticismo: fontana di giovinez-
za ove la vecchia umanit si tuffa a dimenticare il suo corrotto pas-
sato, a ritrovare la spontaneit priminiva, a riprender contatto con
la divina natura. I l medio evo non pu essere considerato n come
un et barbara, n come unet giovine.
Tra levo antico e il moderno (cos distanti, cos diversi tra loro,
ad onta di tutte le illusioni del rinascimento) il medio evo il pon-
te naturale e necessario. Certo il medio evo ha una sua visione spe-
ciale del mondo: una visione trascendentale, per cui la realt, la
realt vera ed eterna, di l dalla vita.
Visione non ignota alle altre et, ma in loro tuttaltro che domi-
nante. I nvece, assorto in quella visione, il medio evo sembra vivere
solo per essa. Quindi aspira a realizzare nel sacro impero una ter-
rena citt di Dio.
E sommette alla casta clericale la massa del laicato. E subordina
lumano al divino, lindividuale alluniversale, il temporale alleter-
no. E la sua arte, la sua letteratura, la sua filosofia, la sua scienza si
fanno tutte ancelle della teologia.
Ma, pur avendo e mantenendo una sua propria visione del mon-
do, il medio evo non dimentica n calpesta il passato. Da quando
limpero di Roma cade minato dalle forze disgregatrici che gli sono
cresciute nel seno, assalito dalle forze distruttrici che gli si sono
addensate dintorno, savvera certo attraverso i secoli, in tutto il
mondo occidentale, un fatale, continuo, progressivo allontanamento
dalla civilt antica; ma c nello stesso tempo una istintiva, inces-
sante, perenne aspirazione a ritrovare, a ricreare la civilt antica. Ed
possibile appunto riconoscere il medio evo nel suo complesso
come ununit distinta, quando si scopra ed avverta il dramma ond
tutto pervaso: quel perpetuo sforzo che tende, nei suoi rinnovati
12
La Critica Letteraria
tentativi cattolicamente imperiali o imperialmente cattolici, alla ri-
costruzione dellinfranto orbe romano, e giunge invece per modo
affatto impreveduto alla creazione delle nazioni moderne.
Questo dramma si riflette con rispondenza perfetta nel campo
delle lettere, ove pur facile rilevare lo sforzo inteso a creare e ad
alimentare una letteratura universale in una lingua universale (nella
lingua dellantica capitale del mondo una letteratura che vuole o
vorrebbe imitare i grandi modelli antichi): sforzo perenne che fini-
sce senza intenzione a suscitare le molteplici letterature nazionali
nelle diverse lingue volgari.
Le letterature volgari nascono dal senso della latinit. Tengono
della letteratura latina medievale spiriti e forme. I l loro preteso ca-
rattere primitivo, popolare, illusorio. Ossia: popolari sono, in
quanto si dirigono al popolo, se popolo sintenda laccolta di tutti
i laici: borghesi come cavalieri, plebei come principi: tutta gente
che non sa di latino, eppur sente il bisogno di una poesia che lelevi,
di una prosa che leduchi. Popolari anche, in quanto si sforzano
dappagar le esigenze, dinterpretare i sentimenti di quel popolo.
Ma popolari non sono nel senso che la critica romantica volle dare
a questa parola, cio sorte su. I mmediate, spontanee dal cuore del
popolo divinamente incolto, sorte su senza rapporti, anzi in oppo-
sizione con linvecchiata e stanca tradizione dotta.
Se vero che la Commedia di Dante sia lespressione suprema
della novella poesia, niente di men popolare, niente di pi sa-
piente. Ma non si tratta qui di una singolarit della poesia dantesca,
o della antica poesia italiana bens del carattere dominante di tutte
le nuove letterature volgari.
Dopo aver cercato per ogni dove la spiegazione dei fatti che
meglio caratterizzano le prime manifestazioni letterarie dei popoli
romanzi, i dotti hanno finito per volgersi alla letteratura latina. I vi
lor parso di poter rintracciare le radici della lirica cortese, che dai
castelli della Provenza si propag per le corti di Francia e dAllemagna,
dAragona e di Casuglia e di Portogallo, di Lombardia e di Sicilia:
ivi, cio nei motivi e nelle forme, nei versi e nelle melodie della
poesia ritmica latina di carattere profano, negli atteggiamenu di poeti
come I lario e come Baldrico di Bourgueil, nei concetti del maestro
dogni dottrina damore, Ovidio. E altri additarono le radici dellal-
legro e malizioso favolello francese nelle cos dette commedie
elegiache latine di Vitale, di Guglielmo da Blois, di Matteo da
Vendme e dei loro seguaci. E qualcuno credette ritrovare le origini
latine delltepopea animale mostrando che la branca fondamentale
13
I l Medioevo
del Roman de Renart si riallaccia allY sengrinus di Maestro Nivardo,
e per esso a una tradizione latina antica quanto le favole di Fedro. E
qualcuno anche sostenne le origini latine del romanzo, nato prima
come rifacimento o travestimento di poemi antichi (Roman de
Thhes, dEnas, de Troie), e rimasto sempre, anche quando si per-
da fra i sogni del fantastico mondo di Art, fedele ai dettami dOvi-
dio e memore delle favole pagane. E altri, non paghi di rilevare
laffinit generale che apparenta le canzoni di gesta ai poemi epici
latini, antichi e medievali, pretesero di trovare nei singoli passi e nei
singoli versi di questi le fonti a cui attinsero gli autori di quelle,
onde Rolando morente che prende a ricordare, tra laltro, la sua
dolce Francia, imiterebbe il virgiliano Antore, che dulces moriens
reminiscitur Argos. E potrei continuare.
possibile, anzi sicuro, che in tali ricerche, sopra tutto in quelle
che vanno a caccia di raffronti minuti tra lepopea francese e lepopea
latina, ci sia dellesagerazione. Ed pur possibile che in esse siano
stati valutati men del bisogno elementi germanici, celtici, arabici,
che certo non mancano nelle antiche letterature romanze, come non
mancano nelle lingue, come non mancano nelle istituzioni e nei
costumi dei popoli romanzi. Ma non men certo che la fonte mas-
sima di quelle letterature la letteratura latina, la quale ha essa stessa
assorbito, durante il medio evo, elementi stranieri, che assai spesso
non son passati nelle letterature romanze se non per il suo tramite
(com il caso, per dirne uno, dei racconti orientali della Disciplina
clericalis di Pietro Alfonso). Ella li ha ad ogni modo rifoggiati a sua
guisa e ha fornito esempi, temi, motivi, idee, immagini, formule
stilistiche, schemi metrici, norme costruttive alle letterature nate
dal suo seno.
Depositari della tradizione letteraria latina, i chierici furono, pur
nellesercizio delle letterature volgari, i maestri dei laici. Erano stati
i primi a fissar frasi volgari da valere in atti pubblici e da consegnare
alla scrittura.
Nessuna separazione, nessuna opposizione trra il mondo intel-
lettuale dei chierici e quello dei laici. Nessuna opposizione, almeno
agli inizi, tra la letteratura latina, destinata ai dotti, e le letterature
volgari, destinate agli indotti. Si cantano in volgare le laudi di Cri-
sto e dei Santi: sintonano in latino canti bacchici ed erotici. Si
scrivono in volgare poemi sulla guerra di Tebe, sulla guerra di Troia,
sui fatti di Enea, sui fatti di Alessandro: si scrivono in latino poemi
sulla fuga di Waltario, sul tradimento di Gano, sulle profezie di
Merlino, sulle gesta del Cid.
14
La Critica Letteraria
La letteratura latina, custode dellantica tradizione, ma viva sem-
pre e aperta ad ogni novit, costituisce insomma nel medio evo il
punto di partenza e il punto di riferimento di tutte le altre lettera-
ture.
A. MONTEVERDI
Saggi neolatini Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1954,
pp. 6-12
15
I l Medioevo
La poesia provenzale
Tale poesia non si pu intendere nei suoi esatti valori se non nel
clima storico in cui essa matur, clima medievale e quindi clima
cristiano e feudale, che ne fecond la problematica spirituale e le
sugger le vie di soluzione, e quindi clima saturo della tradizione
letteraria mediolatina, da cui eredit i modi espressivi. Ma come
essa rinnova il retaggio culturale della latinit medievale, cos la spi-
ritualit cristiana non ne costituisce che il presupposto e il costume
feudale non ne giustifica che la fisionomia stilistica. Riconosciuta
infatti leducazione cristiana che condiziona lidea amorosa dei
trovatori, s per precisata la sua indole profana; riconosciuto lin-
flusso della classe aristocratica in cui la lirica trovatorica rinviene le
vie del successo, s per tanto limitata tale influenza da invertirne i
termini; indicate infine le fonti tradizionali per i suoi temi
contenutistici e i suoi modi formali, occorre riconoscere per che il
mondo spirituale di questi poeti una creazione loro attuale. E
questo mondo quanto mai remoto dalla prassi quotidiana: un
mondo che vive di solitaria intimit e di vicende irreali, un mondo
nato da un avventurato oblo, da un paradosso intellettualistico, da
una finzione insomma letteraria.
Ora la singolarit di questo fenomeno poetico nella unicit
dellispirazione in tutti i suoi rappresentanti, o quasi - e quelli che
se ne discostarono appaiono aver fraintesa, confusa, lindole pura-
mente estetica di quel mondo spirituale con la prassi sociale del
ceto aristocratico, onde linfiltrazione di motivi della morale comu-
ne nelletica cortese. La lirica trovatorica si presenta non solo come
una scuola i cui seguaci concordino per affinit di sentimenti e dide-
ali, obbediscano a una comune poetica, si educhino in una medesi-
ma atmosfera culturale e sociale, una scuola quanto mai gelosa della
propria tradizione ed esemplare per la somiglianza di sensibilit, di
gusto, di magistero formale ma anche come il miracoloso ripetersi
della stessa situazione sentimentale in uomini dissimili per la loro
condizione sociale e la loro vicenda umana vissuti lungo due secoli.
Lintuizione lirica del primo trovatore, probabilmente cio di
Guglielmo di Poitiers, par ripetersi nei suoi primi successori che la
dispiegano e arricchiscono; e la stessa intuizione par ripetersi negli
altri successivi trovatori. Fin da quelli, cio, che sono generalmente
riconosciuti come gliniziatori di questa tradizione poetica si rinvie-
ne fissata non solo una somma di modi contenutistici e di forme
16
La Critica Letteraria
espressive ma anche un tema sentimentale che sar cantato poi lun-
go due secoli. E la singolarit di questo fenomeno - la ripetizione
del medesimo sentimento ispiratore in pi e pi poeti - appare ancor
maggiore quando si rifletta che esso, come s detto, era quanto mai
aristocratico e fragile, non sollecitato da una realt pratica o passio-
nale: lamore dellamore, inteso come perpetua nostalgia nella sua
rinunciataria purezza, come disciplina etica e sublimazione spiritua-
le in una solitudine paga di se stessa Miracolo della fantasia? o
riecheggiamento dimitatori? n luno n laltro, pur se non man-
chino gli epigoni nel manipolo dei poeti di Provenza. I n realt, la
lirica dei trovatori poesia squisitamente letteraria. Ciascun poeta
discopriva la propria segreta ispirazione tramite lesperienza lettera-
ria dei suoi predecessori e contemporanei: e non solo nel senso che
il rigoroso rispetto a una tradizione impostasi subito come emble-
ma di una classe sociale e depositaria delle sue aspirazioni ed esigen-
ze lo induceva a riprenderne motivi contenutistici e formali, e non
tanto nel senso che tale tradizione era poi da lui ricreata, rinnovan-
dosi in poesia individuale pur nella somiglianza della tematica psi-
cologica e nellidentit della retorica e dei metri; ma precipuamente
nel senso che essa stessa era condizione alla poesia. Essa infatti gli
rivelava quella problematica sentimentale chera stata dei primi po-
eti e che era anche sua, gli largiva la via della risoluzione, gli si pro-
poneva come un ideale mondo di cui si sentiva partecipe e che espri-
meva novellamente, rivivendone la genesi e la maturazione, con la
consapevolezza e quindi losservanza e a un tempo la fede di un
iniziato. I l genere, insomma, non esercitava solo unazione cultura-
le sul singolo poeta, ma era esso a illuminargli lo spirito e a pro-
muovergli la fantasia, ch in quella letteratura egli rinveniva chiarita
e risolta la propria condizione umana davanti al problema della
donna e dellamore, del peccato e del riscatto, della realt empirica e
della propria realt interiore. Ne procede che da una parte ladesio-
ne alla scuola, gi giustificata dalla tendenza medievale ad accettare
per ogni espressione dello spirito quelle regole, quei moduli, quei
tipi che apparissero esemplari, diveniva quasi irrevocabile, ch solo
in quel linguaggio, in quel dizionario cosi dovizioso di sovrasensi e
in quella tecnica esigente unardua dedizione, il poeta aveva ritrova-
to se stesso e quindi poteva ora esprimersi. Dallaltra, che questa
poesia, la quale, come s detto, pare germinata da una finzione
letteraria, nasce da unesigenza storica urgente e duratura; ch essa
un avvento in ogni poeta, il quale, pur se ha scoperto il proprio
sentimento tramite quello altrui, lo contempla come qualcosa di
17
I l Medioevo
nuovo e particolarissimo; pur se lo esprime coi modi tradizionali,
sente questespressione come una propria ardua e solitaria creazio-
ne.
Solo da una tale visuale possibile cogliere loriginalit e il pre-
stigio di non pochi trovatori: originalit e prestigio che son da ri-
cercare nella necessariet dellincontro fra il poeta e la letteratura
trovatorica e nellassolutezza didentificazione dei suoi modi senti-
mentali e stilistici con quelli della scuola: ci che impronta di vergi-
nit creativa anche una poesia come questa incondizionatamente
arresa alla letteratura, di un individualissimo tono molte voci di
questo coro di poeti.
ALBERTO DEL MONTE
da I ntroduzione a Peire DAlvernia, Liriche a cura di A. D. M.
Torino, Chiantore, 1995, pp.1-5
18
La Critica Letteraria
La cavalleria e la lirica amorosa
Molto pi difficile dellanalisi storica del sistema etico cavallere-
sco spiegare storicamente le due altre grandi creazioni culturali
della cavalleria: il nuovo ideale amoroso e la nuova lirica amorosa.
evidente fin da principio che esse sono in stretto rapporto con la
vita di corte. Le corti non sono soltanto il loro sfondo, ma anche il
terreno che le alimenta. Ora per sono le corti minori, quelle dei
principi e dei feudatari, e non pi quelle dei re, a determinare lo
sviluppo generale. La cornice pi modesta spiega anzitutto il carat-
tere relativamente pi libero, individuale e vario, della cultura ca-
valleresca. Qui tutto meno solenne, meno ufficiale, tutto incom-
parabilmente pi agile ed elastico che non nelle corti regali che era-
no state un tempo i centri della cultura. Anche in queste piccole
corti dominano convenzioni abbastanza rigide; aulico e convenzio-
nale furono sempre e sono tuttora equivalenti, perch appartiene
allessenza della civilt cortese indicare vie battute e porre limiti pre-
cisi allarbitrio individuale, ribelle alle forme.
Anche i rappresentanti di questa pi libera civilt cortese debbo-
no il loro prestigio, non gi a doti particolari che li distinguono da
altri membri della corte, ma al contegno comune a tutti. Essere
originali, in questo mondo dominato dalle forme, equivale ad una
scortesia inammissibile. Appartenere al circolo di corte in s il
maggior premio e onore; ostentare la propria originalit come
disprezzare quei privilegio. Cos tutta la civilt dellepoca resta lega-
ta a convenzioni pi o meno rigide. Come sono stilizzate le buone
maniere, lespressione dei sentimenti, anzi i sentimenti stessi, cos lo
sono anche le forme della poesia e dellarte, le rappresentazioni della
natura e i tropi della lirica, la curva falcata e il gentile sorriso delle
figure gotiche.
La cultura della cavalleria medievale la prima manifestazione
moderna di una cultura organizzata dalle corti, la prima in cui fra il
signore, i cortigiani e i poeti ci sia una vera comunione spirituale.
Le corti delle Muse non sono soltanto strumenti di propaganda e
istituzioni culturali sovvenzionate dai principi, ma rappresentano
organismi complessi in cui quelli che inventano le belle forme di
vita e quelli che le mettono in pratica mirano allo stesso fine. Ma
una simile comunione possibile solo dove ai poeti che salgono dal
basso aperto laccesso ai pi alti strati della societ, dove tra i poeti
e il loro pubblico c una grande somiglianza di vita (che sarebbe
19
I l Medioevo
stata inconcepibile un tempo), e dove cortesia e scortesia non im-
plicano solo una differenza di condizione, ma di educazione: dove
quindi non si necessariamente gentili per nascita e grado, ma lo
si diventa per istruzione e carattere. evidente che questo canone
dei valori fu stabilito per la prima volta da una nobilt professiona-
le, che ricordava ancora come fosse venuta in possesso dei suoi pri-
vilegi, e non da una nobilt di sangue, che quei privilegi aveva sem-
pre avuto. Ma con lo sviluppo della kalokagatha cavalleresca, cio
del nuovo concetto di civilt, secondo cui i valori estetici e intellet-
tuali sono nello stesso tempo valori morali e sociali, si produce un
nuovo iato fra cultura classica e laica. La funzione di guida, soprat-
tutto nella letteratura, passa dal clero, unilaterale nella sua conce-
zione del mondo, alla cavalleria. La letteratura monastica perde la
sua funzione storica di guida, e il monaco non pi la figura
rappresenativa del tempo; la quintessenza ne ora il cavaliere, comt
rappresentato a Bamberga, nobile, fiero, vigile, perfetta espressione
della cultura fisica e spirituale.
La civilt cortese del Medioevo si distingue da ogni altra - anche
da quella delle corti ellenistiche, pur fortemente influenzata dalla
donna - soprattutto per il suo carattere spiccatamente femminile; e
non solo perch le donne prendono parte alla vita intellettuale e
contribuiscono a orientare la poesia, ma perch, sotto molti rispet-
ti, femminile anche il pensiero e il sentimento degli uomini. Men-
tre gli antichi poemi eroici, e le stesse chansons de geste, erano de-
stinate a un uditorio maschile, la poesia amorosa provenzale e i
romanzi bretoni del ciclo di Art si rivolgono anzitutto alle donne.
Eleonora dAquitania, Maria di Champagne, Ermengarda di
Narbona, o comunque si chiamino le protettrici dei poeti, non sono
soltanto gran dame, coi loro salotti letterari, esperte promotrici
di poesia, ma sono spesso loro a parlare per bocca dei poeti. E non
basta dire che gli uomini debbono alle donne la loro educazione
estetica e morale, che esse sono la sorgente, largomento e il pubbli-
co della poesia. La donna, nellevo antico semplice propriet del-
luomo, preda di guerra, oggetto di contesa e schiava, nellalto Me-
dioevo ancora soggetta allarbitrio della famiglia e del signore, ora
acquista una dignit che non cos facile comprendere. Perch an-
che se la superiore cultura delle donne potesse spiegarsi col fatto che
gli uomini sono continuamente impegnati nel servizio militare e
con la progressiva secolarizzazione della cultura, rimarrebbe pur sem-
pre da chiarire come mai la cultura goda di tanto rispetto da con-
sentire alle donne di dominare - attraverso di essa - la societ. Non
20
La Critica Letteraria
fornisce una spiegazione soddisfacente neppure il nuovo diritto, che
prevede, per certi casi, la successione al trono in linea femminile e il
trapasso dei grandi feudi nelle mani di donne, e che, in linea di
massima, pu aver contribuito al maggior prestigio del loro sesso.
E tanto meno pu servire da spiegazione la concezione cavalleresca
dellamore, che non la premessa, ma un sintomo della nuova po-
sizione della donna nella societ.
La poesia cortese e cavalleresca non ha scoperto lamore, ma gli
ha dato un nuovo significato. Nella letteratura antica, specie dopo
la fine del periodo classico, il motivo erotico conquista sempre
maggiore spazio, ma non acquista mai limportanza che gli viene
attribuita nella poesia cavalleresca del Medioevo. NellI liade lazio-
ne simpernia bens su due donne, ma non sullamore. Elena e Briseide
potrebbero essere sostituite da qualsiasi altro oggetto di lite, e non
muterebbe per questo la sostanza dellopera. NellOdissea lepiso-
dio di Nausicaa ha un particolare valore affettivo, ma appunto un
episodio isolato, e nulla pi. I l rapporto delleroe con Penelope
ancora sul piano dellI liade: la donna a un oggetto di propriet e fa
parte della casa. Presso i lirici greci dellet preclassica e classica si
tratta ancora e sempre dellamore sensuale; fonte di gioia o di dolo-
re, pur sempre confinato nella sua propria sfera e resta senza in-
fluenza sul complesso della personalit. Euripide il primo poeta
che fa dellamore il motivo capitale di unazione complicata e di un
conflitto drammatico. Da lui la commedia antica e la commedia
nuova ricevono il fecondo motivo, che entra cosi nella letteratura
ellenistica, dove acquista tratti romantici e sentimentali, specialmente
nelle Argonautiche di Apollonio. Ma anche qui lamore appare tut-
tal pi come sentimento soave o traboccante passione, e non mai
come un superiore principio educativo, una potenza etica e un tra-
mite allesperienza del mondo, come nella poesia cavalleresca. noto
quanto debbano Enea e Didone agli amanti di Apollonio, e che
cosa abbiano significato per il Medioevo, e quindi per tutta la lette-
ratura moderna, le pi famose fra le antiche eroine dellamore, Di-
done e Medea. Lellenismo ha scoperto il fascino delle storie amoro-
se, e ha creato i primi idilli romantici, le storie di Amore e Psiche,
Ero e Leandro, Dafni e Cloe. Ma, a prescindere dall tepoca ellenistica,
lamore come motivo romantico non trova posto nella letteratura
fino alla cavalleria; la trattazione sentimentale dellamore e la ten-
sione prodotta dallincertezza sulla sorte finale degli amanti, non
sono tra gli effetti poetici ricercati dallantichit classica o dallalto
Medioevo. Lantichit prediligeva miti e storie di eroi, lalto Medio-
21
I l Medioevo
evo storie di eroi e di santi; qualunque parte vi avesse lamore, era
privo di ogni alone romantico. Perch anche i poeti che lo prende-
vano sul serio condividevano nel migliore dei casi, lopinione di
Ovidio, per cui lamore una malattia che toglie la ragione, paraliz-
za la volont e rende miseri e vili.
Ci che contraddistingue la poesia cavalleresca nei confronti del-
lantichit e dellalto Medioevo, soprattutto il fatto che lamore,
per quanto spiritualizzato, non vi si eleva a principio filosofico,
come in Platone o nei neoplatonici, ma conserva il suo carattere
sensuale ed erotico; e proprio in quanto tale opera la rinascita della
personalit morale. Nuovo, nella poesia cavalleresca, il culto con-
sapevole dellamore, il senso che lamore va protetto e alimentato;
nuova la credenza che lamore sia la fonte di ogni bonta e bellezza
e che ogni atto turpe, ogni bassa inelinazione sia un tradimento
verso lamata. Nuovo lintimo e dolce affetto, la pia devozione,
che lamante prova in ogni pensiero per la sua donna; nuova linfi-
nita, inappagata e inappagabile, perch illimitata, sete damore.
Nuova la felicit dellamore, che indipendente dalla soddisfazio-
ne del desiderio e resta suprema beatitudine anche nel pi duro
insuccesso. Nuovo infine lintenerimento e la femminilizzazione
delluomo innamorato. Gi il fatto che luomo faccia la parte del
corteggiatore capovolge il primitivo rapporto fra i sessi. Le et ar-
caiche ed erotiche, in cui bottini di schieve e ratti di fanciulle sono
allordine del giorno, ignorano il corteggiamento. Che, del resto,
contrasta anche con luso del popolo. Qui la donna, e non luo-
mo, che canta canzoni damore. Ancora nelle chansons de geste sono
le donne a fare gli approcci; solo alla cavalleria questo comporta-
mento appare scortese e sconveniente. Cortese appunto la ritrosia
femminile e lo spasimare delluomo. Cortese e cavalleresca linfini-
ta pazienza e la perfetta abnegazione delluomo, che sopprime la
propria volont e il proprio essere davanti alla volont e allessere
superiore della donna. Cortese la rassegnazione di fronte allinac-
cessibilit delloggetto adorato, labbandono alle pene damore, lesi-
bizionismo e il masochismo sentimentale delluomo: tutte caratte-
ristiche del moderno romanticismo amoroso, che appaiono qui per
la prima volta. Lamante nostalgico e rassegnato, lamore che non
esige accoglimento e adempimento, anzi si esalta per il suo carattere
negativo, 1'amore di ci che lontano, senza un oggetto tangibile
e definito: cos comincia la storia della poesia moderna.
Come si pu spiegare la nascita di questo singolare ideale amo-
roso, apparentemente inconciliabile con lo spirito eroico del tem-
22
La Critica Letteraria
po? Come pu un signore, un guerriero, un eroe reprimere tutto il
suo orgoglio, tutto il suo impeto, e davanti ad una donna mendica-
re lamore, anzi la grazia di poterlo confessare, accettando, in com-
penso della sua dedizione e fedelt, uno sguardo benevolo, una pa-
rola gentile, un sorriso? La situazione tanto pi strana, perch in
questo stesso rigoroso Medioevo che lamante confessa apertamente
la sua inclinazione, tuttaltro che casta, per una donna maritata, e
che, per giunta, generalmente la moglie del suo signore e ospite.
Ma linversione dei rapporti ragginnge il colmo quando il menestrello
squattrinato e vagabondo si dichiara, franco e libero come un nobi-
le, alla moglie del suo signore e protettore, e da lei spera e chiede
quanto chiederebbero principi e cavalieri.
Nel tentativo di risolvere questo problema, viene naturale sup-
porre che nelle promesse di fedelt e nellomaggio erotico si espri-
mano soltanto i concetti giuridici generali del feudalesimo, e che la
concezione cortese e cavalleresca dellamore non sia che la
trasposizione del rapporto politico di vassallaggio nel rapporto con
la donna. Questidea della servit damore come imitazione del
vassallaggio si trova gi accennata nei primi studi critici sulla poesia
trovadorica; ma la pi decisa versione, secondo cui lamore cortese
e cavalleresco deriva solo dal servigio, e il vassallaggio amoroso non
che una metafora, di pi fresca data, ed stata formulata per la
prima volta da Eduard Wechssler. I n opposizione alla pi antica
teoria idealistica sullorigine del vassallaggio - per cui il rapporto
sociale derivava da quello etico e il vincolo feudale dipendeva non
solo dallinclinazione personale del signore verso il vassallo, ma an-
che dalla fiducia e dallamore del vassallo per il suo signore - la tesi
del Wechssler parte dal presupposto che lamore del vassallo per il
signore come per la dama non sia altro che la sublimazione della sua
sudditanza. Secondo lui, la canzone damore esprime solo lomag-
gio delluomo del seguito e non che una forma di panegirico. I n
effetti la poesia cavalleresca prende a prestito dal costume feudale
non solo forme, immagini e paragoni, e il trovatore non si dichiara
soltanto devoto servo e fedele vassallo della donna amata ma spinge
la metafora al punto di affermare davanti a lei anche i propri diritti
di vassallo, e di pretendere a sua volta fedelt, favore, protezione e
aiuto. chiaro che queste pretese non sono che formule convenzio-
nali di corte.
I l principale argomento per spiegare come fosse passata la canzo-
ne di omaggio dal signore alla dama, era quello che principi e baro-
ni, implicati nelle guerre, erano - spesso e a lungo - assenti dalle
23
I l Medioevo
corti e dai castelli e, durante la loro assenza, il potere feudale veniva
esercitato dalle donne. Nulla di pi naturale che i poeti al servizio
della corte cantassero le lodi della dama, in forme sempre pi galan-
ti, atte a lusingare la sua vanit femminile. Non dobbiamo respin-
gere interamente la tesi del Wechssler, che tutto il servigio della dama,
cio il culto dellamore cortese e le forme galanti della lirica damore
cavalleresca siano state in realt promosse dalle donne e che gli uo-
mini non fungessero che da strumenti. Largomento pi grave che
stato opposto a quello di Wechssler, che proprio il pi antico
trovatore, il primo a presentare la sua dichiarazione damore come
un omaggio feudale, Guglielmo I X conte di Poitiers, non era un
vassallo, ma un gran principe. Lobiezione non persuade del tutto,
perch la dichiarazione di omaggio, che nel caso del conte di Poitiers
pu non essere stata che unidea poetica, pot, o piuttosto dovette,
per la maggior parte dei trovatori successivi, poggiare su rapporti
reali. Senza questo fondamento reale, la trovata poetica (che del
resto, anche nel suo inventore, era condizionata, se non da circo-
stanze personali, dalle condizioni generali del tempo) non avrebbe
mai potuto diffondersi tanto e conservarsi cos a lungo.
Si riferisse a rapporti reali o fittizi, fin dallinizio il linguaggio
della lirica cavalleresca si presenta come una rigida convenzione let-
teraria. La lirica trovadorica poesia di societ, dove anche le
esperienze vere debbono rivestire le rigide forme della moda impe-
rante. Tutte le poesie cantano la donna amata nello stesso modo, le
attribuiscono gli stessi caratteri, vedono in lei lincarnazione di uno
stesso tipo di virt e di bellezza; nella composizione ricorrono sem-
pre le stesse formule retoriche, come se il poeta fosse uno solo. La
moda letteraria cos tirannica, cos assoluta la convenzione di cor-
te, che spesso abbiamo limpressione che agli occhi del poeta non
appaia una donna determinata, individualmente caratterizzabile, ma
unastratta immagine ideale, e che il sentimento si ispiri a un mo-
dello letterario piuttosto che a una creatura viva. [...]
Lo scoperto idealismo dellamore cortese e cavalleresco non
pu ingannarci sul suo latente carattere sensuale, n celarne lorigi-
ne, la ribellione al comandamento religioso della continenza. I l suc-
cesso della Chiesa nella lotta contro lamore fisico rimase sempre
assai inferiore allideale; ma ora che vacillano i confini fra categorie
sociali e con essi i criteri dei valori morali, la sensualit repressa
irrompe con raddoppiata violenza e invade i costumi, non solo del-
le corti, ma, in parte, anche del clero. I n tutta la storia dellOcciden-
te non c letteratura in cui si parli tanto di bellezza fisica e di nudi-
24
La Critica Letteraria
t, di vestirsi e spogliarsi, di fanciulle e donne che bagnano e lavano
leroe, di notti nuziali e di amplessi, di visite in camera e inviti a
letto, come nella poesia cavalleresca del costumatissimo Medioevo.
Persino unopera cos seria e di cos alti fini morali come il Parzival
di Wolfram piena di episodi che toccano loscenit. Tutta lepoca
vive in una costante tensione erotica; basta pensare allo strano co-
stume, ben noto, dei tornei, per cui gli eroi portavano sulla pelle il
velo o la camicia della donna amata, alleffetto magico attribuito a
questo talismano, per farsi unidea della natura di quellerotismo.
Nulla riflette cos chiaramente gli intimi contrasti del mondo senti-
mentale della cavalleria, quanto lambivalenza del suo atteggiamen-
to verso lamore, dove la pi alta spiritualit si eongiunge alla sen-
sualit pi intensa. Ma per quanto illuininante possa essere lanalisi
psicologica di questa duplicit dei sentimenti, il dato psicologico
presuppone cireostanze storiche che vanno spiegate a loro volta, e
che possono essere spiegate solo sociologicamente. I l meccanismo
psichico dellimpegno assunto verso la donna altrui, e lesaltazione
di questo sentimento attraverso la libert della ronfessione, non
avrebbe mai potuto scattare, qualora non si fosse attenuata leffica-
cia degli antichi tab religiosi e sociali e se lascesa di una nuova,
emancipata aristocrazia non avesse creato il terreno ideale per la dif-
fusione delle inclinazioni erotiche. Come spesso accade, anche in
questo caso la psicologia non che sociologia dissimulata, non con-
dotta fino in fondo. Ma la maggior parte degli studiosi, di fronte al
mutamento di stile che lavvento della cavalleria porta con s in
tutti i campi dellarte e della cultura, non si accontentano n della
spiegazione psicologica, n di quella sociologica, e vanno in cerca di
influssi storici diretti e di dirette imitazioni letterarie.
Alcuni, Konrad Burdach in testa, riconducono la novit
dellamore cavalleresco e della poesia trovadorica a unorigine araba.
E in effetti c tutta una serie di motivi comuni alla lirica provenzale
e alla poesia aulica islamica, soprattutto lentusiastica esaltazione
dellamore sessuale e lorgoglio della pena amorosa; ma nulla vera-
mente prova che i tratti comuni - che del resto sono ben lungi
dallesaurire lidea dellamore cortese - derivino alla poesia trovadorica
dalla letteratura araba. Uno dei principali motivi che ci fanno dubi-
tare di questo influsso immediato, il fatto che i canti dei poeti
arabi si riferiscono per lo pi a una schiava e manca del tutto liden-
tificazione della signora con lamata, essenziale nella concezione ca-
valleresca. Altrettanto insostenibile la teoria classicista. Perch, per
quanto le canzoni provenzali siano ricche di singoli motivi, imma-
25
I l Medioevo
gini e concetti che risalgono alla letteratura classica - soprattutto a
Ovidio e a Tibullo - lo spirito di questi poeti pagani loro del tutto
estraneo. La poesia damore cavalleresca, pur cos sensuale, affatto
medievale e cristiana, e ben lontana dal realismo degli elegiaci ro-
mani. L si tratta sempre di una reale esperienza amorosa; sappiamo
invece che per i trovatori non si trattava, in parte, che di una meta-
fora, di un pretesto poetico, di una generica tensione affettiva senza
un vero oggetto. Ma, per quanto convenzionale sia il motivo di cui
si serve il poeta per tentare le corde del suo cuore, il suo rapimento,
che leva la donna al cielo, lattenzione che egli dedica ai moti del-
lanimo, la passione con cui scruta i propri sentimenti e analizza
lesperienza interiore, sono sinceri e affatto nuovi rispetto alla tradi-
zione classica.
La meno persuasiva di tutte le teorie sullorigine letteraria
della lirica trovadorica quella che la fa derivare dal canto popolare.
La forma originaria della canzone cortese sarebbe una ballata popo-
lare, una maggiolata, la cos detta chanson de la mal marie, col
solito motivo della giovane sposa che una volta lanno, in maggio,
si libera dalle catene coniugali e si prende per un solo giorno un
giovane amante. Nulla, tranne il rapporto di questo tema con la
primavera, a il preludio naturale e il carattere adulterino dellamore
descritto, corrisponde qui ai motivi trovadorici; e anche questi tratti,
secondo ogni apparenza, provengono dalla letteratura di corte, e
solo di l sembrano essere passati nella poesia popolare. Non c
traccia infatti di canto popolare con preludio naturale anteriore
alla poesia cortese. I sostenitori di questa teoria, specialmente Gaston
Paris e Alfred J eanroy, procedono con lo stesso metodo con cui i
romantici credevano di poter provare la spontaneit dellepos po-
polare. Dai documenti letterari conservati - tuttaltro che popolari
e relativamente tardi - cominciano a indurre un antico, originario
stadio di poesia popolare, e da questo stadio, arbitrariamente co-
struito, non documentato e probabilmente mai esistito, fanno poi
derivare le poesie da cui sono partiti. Ci nonostante si pu benis-
simo pensare che nella poesia cortese e cavalleresca siano penetrati
motivi popolari, briciole di saggezza popolare, proverbi e locuzio-
ni, come del resto questa poesia assorbe molto del pulviscolo po-
etico diffuso nella lingua e proveniente dalla letteratura antica; ma
lassunto che la canzone cortese si sia sviluppata dal canto popolare
non dimostrato e sar difficilmente dimostrabile. Pu darsi che in
Francia, anche prima della poesia cortese, ci fosse una lirica amorosa
popolare, ma - in ogni caso - essa completamente scomparsa; e
26
La Critica Letteraria
nulla ci autorizza a riconoscere nelle forme raffinate e scolastica-
mente complicate della poesia cortese che si esauriscono spesso in
un abilissimo gioco di idee e sentimenti, i vestigi di quella perduta,
certo ingenua poesia popolare.
Pare che sulla lirica damore cortese abbia influito sopattutto la
poesia latina dei chierici. Ma il concetto cavalleresco dellamore nel
suo complesso non fu certo delineato dai chierici, bench i poeti
laici abbiano ripreso da essi alcuni dei suoi principali elementi. Una
tradizione precavalleresca, ecclesiastica, del servigio damore, quale
si credeva di poter supporre, non c stata. Le epistole fra chierici e
monache ci mostrano, fin dal secolo XI , rapporti singolarmente
appassionati, oscillanti fra lamicizia e lamore; e vi si pu ricono-
scere quella mescolanza di tratti spiritualistici e sensuali che ci gi
nota dallamore cavalleresco; ma anche questi documenti non sono
che un sintomo di quella generale rivoluzione degli spiriti che stinizia
con la crisi del feudalesimo e si compie nella cultura cavalleresca.
Perci poesia cortese e letteratura clericale si dovrebbero considera-
re fenomeni paralleli, anzich parlare di influssi e imitazioni. Per
quanto riguarda il lato tecnico della loro arte, certo i poeti cavalle-
reschi hanno appreso molto dai chierici, e indubbiamente, nei loro
primi tentativi poetici, ebbero nelle orecchie le forme e i ritmi dei
canti liturgici. Ci sono punti di contatto anche fra la poesia damore
cavalleresca e lautobiografia ecclesiastica del tempo, che, rispetto
agli schizzi autobiografici pi antichi, presenta un carattere del tut-
to nuovo, e direi quasi moderno, ma anche questi punti di contat-
to, soprattutto laccresciuta sensibilit e lanalisi pi precisa degli
stati danimo, dipendono dal generale rivolgimento della societ e
dalla nuova valutazione dellindividuo e, nella letteratura sacra e in
quella profana, risalgono a una comune radice storica e sociale. I l
lato spirituale dellamore cortese senza dubbio di origine cristia-
na; ma troubadours e Minnesnger non debbono averlo desunto
soltanto dalla poesia dei chierici: tutta la vita affettiva della cristia-
nit era dominata da tale spiritualismo. I l culto della donna poteva
essere facilmente concepito secondo il modello del culto dei Santi;
ma la derivazione del servigio dAmore dal servigio di Maria, carat-
teristica trovata romantica, manca di ogni fondamento storico. I a
venerazione di Maria ancora poco sviluppata nellalto Medioevo e
in ogni caso, gli inizi della poesia trovadorica sono pi antichi del
culto mariano. Anzich ispirare il nuovo ideale amoroso, il culto
della Vergine ad assumere i tratti dellamore cortese e cavalleresco.
Da ultimo; neppure la dipendenza della concezione cavalleresca
27
I l Medioevo
dellamore dai mistici, come Bernardo di Clairvaux e Ugo di San
Vittore, cos sicura come si volle credere.
Ma, comunque influenzata e determinata, la poesia trovadorica
la poesia laica, radicalmente opposta allo spirito ascetico e gerar-
chico della Chiesa, e con essa il poeta profano prende definitivamente
il posto del chierico poetante. Finisce cos un periodo di circa tre
secoli, in cui i monasteri erano stati pressoch le sole sedi della po-
esia. Anche durante legemonia intellettuale dei monaci la nobilt
aveva continuato ad essere una parte del pubblico letterario; ma di
fronte a questa funzione puramente passiva del laicato, la comparsa
del cavaliere poeta un fenomeno cos nuovo ehe si potrebbe con-
siderare come una delle cesure pi profonde della storia letteraria.
Certo non dobbiamo semplificare e generalizzare il processo di ri-
cambio sociale che mette il cavaliere alla testa dellevoluzione civile.
Accanto al trovatore c pur sempre il giullare professionale, e tale si
riduce qualche volta anche il cavaliere, quando deve tirare avanti
con la propria arte, pur rappresentando nei confronti del giullare
un ceto a s. Accanto al trovatore e al menestrello c ancora, natu-
ralmente, il chierico poeta, bench abbia perduto la sua funzione
storica di guida. E, infine, ci sono i vagantes, straordinariamente
importanti dal punto di vista storico come da quello artistico, che
conducono una vita molto simile a quella dei giullari vagabondi, e
vengono spesso scambiati con quelli, ma che, nella coscienza della
propria cultura, cercano ansiosamente di distinguersi dai pi umili
concorrenti. I poeti dellepoca si distribuiscono pressoch fra tutti i
ceti sociali; ci sono fra loro re e principi (Enrico VI , Guglielmo
dAquitania), membri dellalta aristocrazia (J aufr Rudel, Bertran
de Born), della piccola nobilt (Walther von der Vogelweide) e
ministeriales (Wolfram von Eschenbach), borghesi (Marcabru,
Bernart de Ventadour) e chierici di ogni categoria. Fra i quattrocen-
to nomi conosciuti ci sono anche diciassette donne.
Arnold Hauser
da Storia sociale dellarte, Torino, Einaudi, 1955
vol. I , pp. 322-345
28
La Critica Letteraria
Chierici e giullari
Allo stato presente degli studi e alla luce dei risultati raggiunti,
mediante limpiego rigoroso del metodo veramente storico in ogni
campo della storia della cultura, occorre, invece, riconoscere che
neppure un istante regge a un esame critico la tesi dei mondi sepa-
rati; la tesi, cio, per cui la vecchia storiografia, legata a posizioni
assolutamente astoriche e trascendenti, raffigurava il mondo medie-
vale distinto in tanti scompartimenti stagni, ermeticamente chiusi,
isolati luno dallaltro, in modo che tra essi non fosse possibile una
circolazione di idee e di interessi: lambiente dei retori laici
classicheggianti completamente isolato dal mondo della cultura ec-
clesiastica, lambiente laicale del tutto indipendente da quello cleri-
cale, il mondo popolare assolutamente isolato dal mondo della scuola
e della cultura.
La moderna storia della cultura ha limpidamente riconoscinto
che, nella storia culturale, non esistono fatti che siano dominio ri-
servato di un unico ambiente: tutto quello che in ogni singolo cen-
tro di vita spirituale si scopre o si acquisisce diventa rapidamente
patrimonio comune, perch infiniti sono gli scambi tra i vari am-
bienti e infiniti i tramiti che consentono la circolazione delle idee
anche tra mondi che sembrano indipendenti luno dallaltro e perti-
nenti a sfere spirituali diversissime.
E valga, per tutti, lesempio estremamente significativo della storia
linguistica, i cui svolgimenti risultano dalla diffusione o
generalizzazione di fatti creati, primamente, in un ambiente parti-
colare e determineto. La linguistica storica ha appunto accertato
che ogni ambiente linguistico non chiuso in se stesso, bens aper-
to agli influssi e alle suggestioni che partono da altri ambienti; e
accolti dapprima come innovazione riguardante un campo partico-
lare, si estendono a campi sempre pi larghi, fino a diventare fatti
generali di tutta una tradizione linguistica.
Applicando, ora, questi nuovi criteri e metodi al problema par-
ticolare delle origini letterarie romanze, osserviamo che, quando,
tramontato il mito romantico della creazione popolare e collettiva
inconscia della poesia volgare, si riconobbe che quella poesia non
pu essere se non creazione di poeti individuati, la storiografia po-
sitiva allastratto e quasi mistico milieu popolare sostitu il concreto
e determinato milieu giullaresco come officina in cui le nuove lette-
rature si creano e si elaborano; mantenendo, tuttavia, intatta la fede
29
I l Medioevo
nellassoluta autonomia, o meglio indipendenza del mondo
giullaresco, creatore della letteratura volgare, dal mondo clericale
che crea, invece, la letteratura latina del Medioevo.
Ora noi, che abbiamo chiaramente indicato qui sopra il milieu
giullaresco come una delle officine in cui i rozzi volgari romanzi
ricevono la modulazione e la definizione che li rendono strumenti
idonei allespressione dellalta poesia, possiamo agevolmente dimo-
strare che la dottrina dei mondi separati, come non legittima in
ordine a una distinzione che si intenda porre tra mondo clericale e
mondo laicale, cos nemmeno valida in ordine a un distacco che si
voglia riconoscere tra tradizione clericale e tradizione giullaresca:
sempre tra il mondo della tradizionale cultura classicistica e lincol-
to mondo volgare, tra mondo clericale e mondo giullaresco han
luogo rapporti assai stretti e frequenti; e baster, a dimostrarlo, il
fatto, documentatissimo, che gi in et abbastanza antica proprio i
chierici componevano i testi delle dicerie giullaresche: testi di con-
tenuto religioso e dintenzione edificante (i chierici si servivano dei
giullari per la divulgazione delle dottrine e dei misteri tra il popolo)
per lo pi, ma non sempre: possiamo ritenere per certo che da pen-
ne clericali sono uscite anche alcune di quelle fabulae, di quelle
urbanitates, di quelle strophae che costituivano, come abbiamo vi-
sto, il repertorio letterario dei giullari. Ad ogni modo, a dimostrare
che molte dicerie in volgare declamate dai giullari sulle pubbliche
piazze o negli atri delle basiliche in occasione di festivit religiose
siano opera di poeti culti, di chierici, baster recare lesempio del
Ritmo cassinese, che certo composizione dovuta a un chierico,
ma destinata alla recitazione ginllaresca.
Daltra parte, se ascoltiamo le voci sdegnate dei Padri, dobbiamo
ritenere che ai chierici, talvolta, non repugnasse sostituirsi agli
amuseurs professionali nelle feste profane e nei banchetti, intonan-
do essi stessi quelle cantilene che, come abbiamo mostrato, compo-
nevano i mimi ioculares. Clericum inter epulas cantantem severitate
coercendum tuona Attone di Vercelli; e Rabano Mauro, nei
Capitula ad presbyteros: Nec [il pretel fabulas inanes ibi [nei convitil
referre aut cantare praesumat; e un canone sinodale: Non licet
presbyteros inter epulas cantare vel saltare...
Specialmente i chierici che, maestri e discepoli, vivono nellam-
bito del mondo scolastico, compongono in latino cantilenae e fabulae
che si possono confrontare per contenuto, spirito e tono con quelle
volgari del repertorio giullaresco; e servono alla celebrazione di quelle
feste e cerimonie profane, gioiose e burlesche che sono, della vita
30
La Critica Letteraria
ecclesiastica, ricreazione e svago (e baster ricordare le feste goliardiche
in occasione della solennit dei SS. I nnocenti), in ogni centro di
studio e in ogni tempo, al Laterano come a S. Gallo, a Reichenau o
a Fulda.
E spesso, anzi, canti di origine, diremo, goliardica, divulgati dai
giullari, entrano nella tradizione popolare, il De Bartholomaeis, ad
esempio, non esita a ritenere che i canti intonati dal popolo roma-
no in occasione delle feste delle calende di gennaio siano stati pro-
dotti nellofficina della Schola cantorum lateranense.
I noltre largamente documentato che non tutta la giulleria me-
dievale, anche dellalto Medioevo, appartiene al mondo popolare
rozzo e incolto. Si continua, nellalto Medioevo, non solo la mimi-
ca nomade, ma anche quella raffinata che serve le classi aristocrati-
che: il De Bartholomaeis ha dimostrato che nellalto Medioevo re-
sta in uso, presso le classi pi elevate, il mimo conviviale gi caro
allaristocrazia romana dellet classica. Certo un mimo conviviale -
che non disdice alla dignit e pudicizia clericale - la Coena Cypriani
di Giovanni I monide, diacono romano del I X sec., autore della Vita
di Gregorio Magno inserita nel Liber Pontificalis (e non importa
indicare qui le fonti remote delloperetta, variamente elaborata a
partire dal I I I sec.). Monumento prezioso la Coena; che documenta
la presenza di mimi professionisti nel mondo clericale, che pur
giulleria e istrionismo severamente condannava; e interessante per-
ch testimonia che un attore romano della fine del I X sec., in
grado di recitare un testo latino.
E non si tratta di testimonianza singolare e isolata: conosciamo
molti mimi in latino - brevissimi, rispetto alla Coena; ma questo
della maggiore o minore estensione non dato rilevante - eseguiti
alla corte carolingia nel I X sec. Tali sono il carme di Ermoldo Nigello
in onore di Pipino, che un contrasto tra Vosacus (i Vosgi) e Rhenus,
in presenza del re; e i Versus ad imaginem Tetrici, un dialogo di cui
sono interlocutori il poeta, Walafrido Strabone, e un attore, Scin-
tilla, recitato davanti alla statua di Teodorico che Carlo Magno ave-
va fatto trasportare da Ravenna ad Aquisgrana. Gli interlocutori di
questi contrasti o altercationes sono, naturalmente, attori conve-
nientemente truccati e abbigliati.
Resta, insomma, stabilito, per merito specialmente del De
Bartholomaeis, che nelle aule signorili laiche ed ecclesiastiche i giul-
lari recitano testi latini di poeti illustri; mentre i loro minori colle-
ghi che operano nelle piazze e nei trivi recitano testi volgari di cui
sono essi stessi, per lo pi, gli autori; ma che, in molti casi, sono
31
I l Medioevo
opera di chierici che ai giullari li hanno affidati, come accennavamo
qui sopra, allegando lesempio del Ritmo cassinese.
Le relazioni strettissime tra mondo clericale e mondo
giullaresco sono, cos, dimostrate in modo che non si potrebbe de-
siderare pi evidente. Altro che mondi separati! I mporta molto
rilevare che gli scambi tra mondo clericale e mondo giullaresco non
avvengono solo in una direzione; non solo nel senso cio che i
giullari ricevano dai chierici una parte, almeno, del loro repertorio
e, pi, i mezzi tecnici dellespressione: per contro, alla scuola dei
giullari mostrano di essere stati i chierici quando agiscono essi stessi
quasi come mimi nello svolgimento dellazione liturgica.
Non si allude qui al dramma sacro, che sorge e si svolge non
certo indipendente, ma certo, in qualche modo, esterno alla tradi-
zione clericale; bens ad alcuni particolari aspetti della liturgia
canonica, di contenuto evidentemente drammatico, reso mediante
interpretazioni e azioni non diverse da quelle che abbiamo visto
impiegate nella recitazione delle dicerie giullaresche. E basti lesem-
pio del modo onde la Chiesa propone ai fedeli, nella Messa della
Domenica delle Palme, del marted, del mercoled, del venerd della
Settimana Santa il racconto che i quattro evangelisti fanno della
tragica vicenda della Passione. I l testo evangelico recitato da due
diaconi; dei quali uno declama o canta la parte narrativa e le parole
che si pongono via via in bocca a Caifa, Erode, Pilato (ma talvolta i
discorsi diretti dei personaggi del dramma sono resi non dal diaco-
no, bens da alcuni cantori del coro; e da tutto il coro i versetti che
esprimono il sentimento della turba...); e laltro, invece, pronuncia
le parole, solo, del Cristo. Non diremo, ovviamente, che levidente
analogia tra questa recitazione liturgica della Passione evangelica lin-
terpretazione drammatica delle dicerie giullaresche ci imponga di
credere che dalla tradizione istrionico- mimica derivino questi par-
ticolari modi della liturgia; solo possiamo ritenere lecito credere
che al definirsi della liturgia canonica non sia rimasta estranea la
tradizione della drammatica autica, di cui la giulleria medievale la
continuatrice e lerede.
E senza dubbio influenze dellistrionismo - in senso proprio, e
non dispregiativo - medievale son da riconosere in alcune interpre-
tazioni assolutamente teatrali che in alcune Chiese si danno della
liturgia: per corrispondere alle esigenze dellanima popolare, poco
sensibile al contenuto catechistico e contemplativo della liturgia, e
aperta invece allelemento evocativo o rappresentativo della liturgia
stessa. Certo, laustera severit del rito romano male comporta ag-
32
La Critica Letteraria
giunte e intrusioni di carattere apertamente spettacolare, che mai,
infatti, sono state accolte nella liturgia delle Basiliche romane. Ma
pi indulgono al gusto popolare le Chiese, ad esempio, della Gallia,
che nella liturgia romana introducono innovazioni senza dubbio
assai ardite, le quali investono specialmente la liturgia del Natale e
della Pasqua, richiamante, pi che una dottrina, una vicenda
realizzabile drammaticamente.
Daremo un solo esempio, molto significativo, derivandolo da
uno degli antichi rituali della chiesa: francese raccolti dal Martne
nellopera sua monumentale De artiquis ecclesiae ritibus; si tratta di
un momento della liturgia del sabato santo; indicato da un ordina-
rio della Chiesa di Soissons, dichiaratoda Martne pervetustum, senza
precisare, per, nemmeno approssimativamente, let:
Tunc eat processo ad sepulchrum sic: pueri primum ferentes
tintinnabula, et alii cum vexillis; deinde candelabra, thuribula, crux,
quattuor subdiaconi in albis. Hos sequnutur duo presbyteri cum
cappis de pallio, coeteri quoque in ordine suo; ad ultimum episcopus
cum baculo pastorali et mitra et cappa de pallio; cum ipso vero,
capellanus. Et cum perventum fuerit ad sepulchrum, inveniantur
ibi duo diaconi albis simplicibus capitibus amictis cooperti, niveis
dalmaticis superinduti; hi in similitudinem angelorm ad fenestram
stantes sepulchri, unus ad dextram et alius ad sinistram, voce
humillima et capitibus inclinatis versique ad seplchrum dicant:
Quem quaeritis in sepulchro, o Christicolae?. Duo presbyteri in
cappis de pallio in loco Mariarum: J esum Nazarenum crucifixum.
Duo diaconi angeli: Non est hic, surrexit sicut praedixerat. I te,
nunciate, quia surrexit. Presbyteri qui et Mariae dichtur voce altiori
respondeant: Alleluia resurrexit Dominus hodie, resurrexit Leo
fortis, Christus filius Dei; Deo gratias, dicite eya.
Un breve dramma proprio, come si vede; e il rituale una
didascalia vera e propria molto minuziosa e precisa, che non solo
indica le parti che i chierici-attori (i due diaconi le parti degli
angeli, i due preti delle Marie) devono sostenere, ma anche suggeri-
sce gli atteggiamenti che devono assumere e persino il tono della
voce.
I n ogni modo i chierici-attori della liturgia pasquale usano solo
abiti liturgici, se pur recitano un testo che una parafrasi di quel-
lo canonico. Ma pi tardi le intruse interpretazioni drammatiche
del rito canonico acquistano carattere pi decisamente teatrale; e
allora alcune, almeno, delle parti sono assunte non pi da diaconi
e preti indossanti le sacre vesti, ma da pueri del coro, il cui abbiglia-
33
I l Medioevo
mento, pur essendo costituito essenzialmente dalle vesti liturgiche,
comprende anche elementi realistici, s che, ad esempio, quelli tra i
pueri che impersonano gli angeli portano, sulle spalle, le ali
...Sint duo pueri super altare induti albis et amictibus cum stolis
violatis et sindone rubea in facie eorum et alis in humeris, qui dicant:
Quem quaeritis in sepulchro?... (da un rituale della Chiesa di
Narbona di et piuttosto tarda, circa il sec. XI V)
I nsomma, sono chiaramente documentate relazioni tra la
tradizione istrionica e alcuni particolari svolgimenti locali della li-
turgia, anche canonica: il che basta a dimostrare che i chierici, in et
relativamente antica, non hanno esitato ad applicare i modi della
recitazione e della rappresentazione giullaresca persino nella litur-
gia! Pertanto, le fonti ci abilitano ad affermare che i chierici, pur
ripudiando e condannando, nelle sinodi, lattivit dei giullari, in
pratica non mantenevano verso quellattivit - naturalmente disci-
plinata e moralizzata - latteggiamento dispregiativo e repulsivo di
cui parlano gli storici della scuola romantico-positivista. I l mondo
dei giullari e quello dei chierici non sono, nel Medioevo, in stato di
guerra: ma anzi riescono a realizzare una collaborazione intensa e
feconda di risultati importanti, in ordine agli svolgimenti della sto-
ria letteraria.
I n realt, riconoscendo i rapporti strettissimi che rilegano i
due ambienti, clericale e giullaresco, e affermando che le esperienze
tecniche realizzate nelluno sono prontamente accolte e realizzate
nellaltro, noi veniamo, in sostanza, ad affermare che, attraverso la
fitta rete di contatti e di scambi che abbiamo indicati, i due ambien-
ti finiscono per formare un unico ambiente. Come i chierici vanno
incontro, accettando i modi della recitazione giullaresca e allesten-
do testi daffidare alla interpretazione dei giullari, alle esigenze del
mondo popolare e laicale, cos i giullari vanno incontro alle esigen-
ze del mondo aristocratico e clericale, interpretando - labbiamo
visto - componimenti di scrittori illustri, anche in latino; e per que-
sta via affinano il loro gusto, arricchiscono la loro cultura, si impa-
droniscono dei segreti di una tecnica elaborata e squisita. Alla scuo-
la dei chierici anche i giullari si formano e apprendono la difficile
arte dellelocuzione e della versificazione; non solo nel senso indica-
to, come abbiamo visto, dal DOvidio, il quale ha affermato la de-
rivazione della versificazione romanza dallapplicazione, fatta dai
chierici, degli schemi ritmici latini alla lingua volgare, ma anche nel
senso precisato da Ph. A. Becker, secondo il quale gli antecedenti
delle formule ritmiche impiegate nella poesia volgare - umile ed
34
La Critica Letteraria
elevata, popolare e darte - si riconoscono agevolmente nella tradi-
zione della poesia liturgica latina, che opera di poeti culti, ma
entra nel patrimonio dei canti del popolo: che linno intona col
clero nella celebrazione del sacro rito.
Dai chierici, in particolare, i giullari apprendono la musica, inse-
parabile, nel Medioevo dalla poesia. Fin dal 1908 il Beck ha mostra-
to che alla tradizione della musica liturgica va rilegata non solo la
musica delle dotte canzoni trobadoriche, ma anche la musica dei
generi lirici minori, di cui i romantici avevano affermato decisa-
mente la popolarit, ponendoli, anzi - labbiamo visto - come do-
cumenti delle origini popolari della stessa lirica darte trobadorica:
e sono le albe, le pastorelle, le canzoni di storia o di tela, che appar-
tengono pi che al genere lirico, al narrativo e al drammatico,
rilegato questultimo, in modo particolare - come abbiamo mostra-
to - alla tradizione mimica o giullaresca. Ora, lanalisi del Beck ha
reso evidente che la musica delle albe e delle chansons de toile
tuttaltro che popolare: artificiale e complicata, si avvicina a quel-
la, elaboratissima, degli alleluia.
una musica dotta - scrive il Beck - che esclude ogni origine
popolare...; gli unici modelli cui si potrebbe accostare sono le mo-
dulazioni delle melodie gregoriane.
La constatazione, ora fatta, della dipendenza - in linea gene-
rale - della tradizione tecnica giullaresca da quella clericale, non
implica, ovviamente, laffermazione che la tradizione giullaresca non
presenti mai aspetti o svolgimenti, per qualche riguardo, autonomi
e non dipenda o derivi da altre tradizioni tecniche diverse da quella
latina conservata dalla scuola clericale. Ogni singolo ambiente
giullaresco, diremo locale o, se si vuole, nazionale ha svolgi-
menti peculiari, che fanno luogo al fissarsi di particolari tradizioni
tecniche, che dipendono, oltre che dalla generale tradizione clerico-
giullaresca, da altre tradizioni con le quali ogni singolo ambiente
giullaresco nazionale si venuto a trovare, localmente, in contatto.
Cos, molto chiare e frequenti sono le allusioni dei giullari fran-
cesi o provenzali a una manera des Bretons o a una tempradura des
Bretors che ci impongono di riconoscere che alla tradizione bardita
senza dubbio attinge la giulleria francese, non solo per quel che
riguarda la materia e i temi poetici, ma anche in ordine ai modi
tecnici e specialmente alla musica.
Altrettanto chiari i rapporti tra mondo giullaresco romanzo e
mondo giullaresco arabo nella Spagna; sicch, se appare astratta e
non bene fondata la tesi - formulata gi nel 500 dal Barbieri e
35
I l Medioevo
riproposta nel 700 da Ludovico Antonio Muratori - delle origini
arabe della lirica darte romanza, occorre daltra parte; senza dub-
bio, ammettere te una ricca serie di mutazioni e di imprestiti, di
modi tecnici, abbiano fatto i giullari spagnoli dalla tradizione
giullaresca araba, cos fertile e viva; e che questi imprestiti, o alme-
no molti di essi, siano entrati anche nella tradizione giullaresca
provenzale e francese.
Ancora, quanto ai modi della versificazione, certo che determi-
nati schemi si fissano particolarmente in ogni singola tradizione
nazionale o locale.
ANTONI O VI SCARDI
da Le origini della tradizione letteraria italiana Roma, Editrice
Studium, 1959, pp. 49-61
36
La Critica Letteraria
La formula testimoniale di Capua
Resta sempre il problema pi importante e pi difficile della
linguistica romanza quello del passaggio dal latino alle lingue
neolatine. A procurar di chiarirlo giover precisare intanto, e sia pur
velocemente, i concetti, in linguistica, di evoluzione, disgregazio-
ne, ricostruzione.
luce clarius che levoluzione bisogna distinguerla dalla disgre-
gazione, luna e laltra commisurando a fatti e stati di cultura.
Astrattamente e didascalicamente intosa, e giusta i risultati con-
seguiti anche nel campo delle altre scienze e della filosofia scientifi-
ca, levoluzione non rettilinea (ma, stato detto, discontinua e
sinuosa), non ha in ogni tempo lo stesso ritmo (ci sono in realt
periodi di cambiamenti rapidi e periodi di relativa stabilit), non
perviene in ogni caso agli stessi esiti (se porta a sistemi di lingua
semplici e a sistemi complessi), e non si orienta necessariamente
verso la differenziazione radicale. Fatale levolversi, levolversi
progrediente, nella lingua come in ogni altra manifestazione dellat-
tivit umana. Non invece fatale la trasformazione profonda, la
disgregazione. Cosi, il greco e larabo non hanno messo capo a tipi
linguistici interamente nuovi, quali sono rispetto al latino, le lin-
gue letterarie romanze, litaliano, il francese, lo spagnolo, il porto-
ghese, il catalano, il provenzale, il romeno.
I l processo di trasformazione dal latino parlato delle classi medie
e popolari (questo il punto di partenza) al neolatino si delinea molto
presto, avanza rapido nel secolo I I I (in cui si affermano una menta-
lit nuova e una nuova struttura della societ: non si dimentica,
certo con quale vigore il Cristianesimo si sia inserito nellevoluzio-
ne sociale ed economica dellI mpero), sguita rapido nel corso dei
secoli I V-VI (nel quale si soliti circoscrivere il declino dellI mpero
romano), e si accentua ulteriormente quando, a partire dal secolo
VI I , assistiamo allintristirsi della vita intellettuale e pratica dellEu-
ropa.
Proprio a cominciare dal secolo VI I possiamo supporre il preci-
pitarsi dallevoluzione linguistica alla disgregazione, processo che
nellVI I I secolo sar oramai in massima compiuto: agli ultimi
dellVI I I o ai primi del I X stato scritto o trascritto lI ndovinello
veronese (versi di chi gi aveva almeno unaurorale, se non ancora
piena, consapevolezza di opporsi alla tradizione latina) e dell842
sono i Giuramenti di Strasburgo. Questi, nella redazione
37
I l Medioevo
galloromanza (sottolineava il Parodi), paiono quasi la voce del-
lesercito francese che si contrappone allesercito germanico, paio-
no gi simboleggiare listante in cui un popolo diventa conscio di s
come individuo storico, listante dunque che idealmente precede
lapparire di una letteratura. I nvece (diciamolo fin dora), i pi
tardi periodetti, decisamente e senza alcun dubbio volutamente
volgari, della Campania (960-963) - e del primo, di Capua, stiamo
celebrando il millenario - sono, al pari dei Giuramenti, formule
giuridiche, ma non rappresenterebbero nulla oltre quella loro nuda
ed elementare praticit (la praticit per il Parodi era la costante
tipica e tipizzante dellanima italiana del Medioevo).
La lingua parlata latina si dissoci, si disgreg, essendosi venuta
a decomporre la forma culturale ereditaria, ossia oramai la cultura
non essendo pi organicamente coesa n agitata dallo spirito di
universalit, bens atona e sommersa (spiegava Amado Alonso, che
citeremo ancora) nella barbarie dellesclusivismo, della vista corta,
della mancanza di norme. E fuori sempre pi dal benefico contatto
e dal modello della lingua scritta (quella oramai dei pochi dotti,
che si andava appartando e corrompendo), sempre pi ristretta agli
usi angustamente locali e di quel tempo, essa lingua parlata dal po-
polo prosegu a sfigurarsi e trasformarsi fino alla piena riduzione a
volgare, fino allo stato di ruralizzazione, continu a frangersi rapi-
damente. Le variet vernacole o dialettali (se consentito discorrere
di dialetti senza che esista una lingua letteraria) saranno state nume-
rose quanto i piccoli aggruppamenti umani, tenuti insieme da biso-
gni e interessi simili, favoriti in ispecie nel periodo feudale e dei
Comuni. Ma le frante parlate dei secoli VI I e VI I I , conseguenti al
moto dissolutore, non sono solo fenomeno di decadenza: prepara-
no anzi e suscitano, costituendone la base (e vedremo in che modo),
la nuova lingua della nuova cultura. Come leggiamo in Benedetto
Croce, la storia prosegue sempre la sua opera infaticabile, e le sue
apparenti agonie sono travagli di partorienti, e i creduti suoi estre-
mi sospiri, vagiti, ai quali bisogna intendere lorecchio, annunziatori
di un nuovo mondo. Altrimenti detto, in senso assoluto e in
istoria, non c mai decadenza che non sia insieme formazione o
preparazione di nuova vita, e pertanto progresso.
Conviene dunque che ben si distinguano le variet vernacole,
effetto, in una fase di decadenza e incultura della disgregazione del
latino, dalle lingue romanze, che quelle variet hanno a fondamen-
to, ma nel loro formarsi sono un prodotto di cultura, di alta spiri-
tualit (e si vedano saggi insigni di Ramn Menndez Pidal e della
38
La Critica Letteraria
sua scuola), splendido punto di approdo di unevoluzione la quale,
strettamente vincolata alla storia umana, non pu essere se non pro-
gressiva. Semplicistica e superata, la concezione delle nostre lingue
letterarie come il traguardo del Volkslatein, del natural corso, senza
partecipazione di dotti, del linguaggio parlato, unicamente o pre-
valentemente volgare o plebeo. Falsa e superata, sopravvivente ma
non viva, la visione secondo cui le belle lingue romanze sarebbero
come (scriveva, ai suoi giorni, il DOvidio), il franamento pro-
gressivo del latino nei rispettivi territori.
Ribadendo e integrando, anzi che un fatto, fatto naturale, di
decomposizione, le lingue letterarie rappresentano un processo con-
sapevole di ricostruzione e reintegrazione, che si viene opponendo
a quel travaglio dissociatore di cui si toccato: processo le cui pre-
messe non certamente ardito porre gi (ripeto) nel secolo VI I ,
gi carico, ha scritto Gian Piero Bognetti, di destini per lOcci-
dente, mentre declina fra contrastanti presagi. I nfrenato via via il
processo di dissoluzione, le variet parlate nei centri di cultura co-
minciano a urbanizzarsi (livellando le pi vistose apparenze muni-
cipali, stringendosi al latino, unificandosi), e si dilatano fuori dai
limiti del municipio. Fissate con la penna, sotto la mano di scrittori
consapevoli dellarte, queste embrionali lingue nuove si faranno il-
lustri (non possono essere mai vernacole, sotto la mano di scritto-
ri), seconderanno sompre pi quellaspirazione alluniversalit che
specifica delle lingue letterarie e induce a reagire a particolarismi di
spazio e di tempo, si lasceranno sempre pi animare dallideale di
norme comuni, dallattenzione ai valori formali come espressione
di un modo di essele civile. I l senso della forma diventer sociale e
la lingua si civilizzer. quellideale dellurbanitas commenta
Gianfranco Folena, che Dante, il quale ha un cos alto sentimento
del consorzio civile, riassume sinteticamente (De vulgari eloquentia,
I , I X, 9) nella locuzione civicare (sub sermone).
Nessuna sorpresa se gi i pi antichi testi volgari, dei secoli X-
XI , offrono un linguaggio che non ci si rivela come prodotto local-
mente specializzato, ma attesta la qualit di lingua letteraria: con i
tratti caratteristici, pi o meno espliciti e sicuri (precisati anche di
recente), del conservativismo (o annobilimento sul latino), delluni-
t, della scelta.
E fermiamoci sul pi antico periodo risolutamente volgare nel
dominio italiano (secondo la definizione di Pio Rajna), di mille
anni sono, ripetuto quattro volte (dal giudice che lo propone e dai
tre testimoni che lo pronunziano) in un placito di Capua che si
39
I l Medioevo
riferisce al monastero di Montecassino. il periodo, compiuto or-
ganismo unitario, che conferma la nascita della nostra lingua: e
quel chella f poi, fu di tal volo, che nol seguiteria lingua n penna.
Lo hanno ristudiato poco fa egregiamente, in ogni suo aspetto, Pie-
ro Fiorelli, ch anche storico del diritto, e il Folena, dopo pagine
geniali di Matteo Bartoli.
Nel marzo 960, nella seconda quindicina, sul far dunque della
primavera, si trovavano convenuti dinanzi al giudice di Capua Archi
(o Arechsi), un laico di Aquino, di nome Rodelgrimo, e labate del
monastero di San Benedetto in Montecassino, il venerabile e ani-
moso e attivo Aligerno. Rodelgrimo rivendicava la propriet di ter-
re allora in possesso del monastero, dichiarando di averle ricevute
in eredit dal padre e dallavo e da altri suoi parenti. Aligerno, per
contro, asseriva che la parte da lui rappresentata aveva gi possedu-
to quelle terre per trentanni.
Ammessa dal giudice la prova testimoniale, e avendo Rodelgrimo
dichiarato di non poter documentare i suoi diritti, si presentano i
tre testimoni addotti dallabate, Teodemondo diacono e monaco,
Mari chierico e monaco, Gariperto chierico e notaio, che vengono
interrogati separatamente. Ognuno di essi, dopo che si sentito
rammentare dal giudice il santo timor di Dio tenendo con una mano
labbreviatura (cio il promemoria gi mostrato da Rodelgrimo e in
cui erano descritti i confini dei terreni contestati) e toccandola con
laltra mano, pronuncia la formula, preparata in precedenza per iscritto
dallo stesso Arechi (ecco, dichiariamo anche noi, il nostro primo
noto certificato di vita linguistica): Sao ke kelle terre, per kelle
fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
E questa deposizione verr poi confermata dai testimoni con
giuramento sui Vangeli, tangentes ipsa Evangelia.
Arechi d ragione al monastero ed emette un placito che viene
steso in scrittura beneventana documentaria dal notaio Adenolfo e
si conserva tuttora nellArchivio del monastero (Aula I I , capsa XXVI ,
fasc. V, n. 24).
Resa in italiano odierno la formula testimoniale di Capua suo-
na: So che quelle terre, entro quei confini che qui [nellabbrevia-
tura] si contiene, le possedette trentanni la parte di San Benedet-
to. (Si badi che il verbo singolare contene ha valore di riflessivo-
passivo, ossia equivale a si contiene inteso passivamente - ma non
concordato in numero col suo soggetto -, come il plurale conteno
del placito di Sessa Aurunca equivale a si contengono inteso pas-
sivamente. Nella latinit medievale si documentano continet per
40
La Critica Letteraria
continetur e continunt per continentur.) Per la tradizione tec-
nica del linguaggio giuridico assunto nelle testimonianze, giover
riportare almeno la formula latina usata dallo stesso Arechi nel 954
e riferita nel Chronicon vulturnense del secolo seguente: Scio quia
ille terre, per illos fines et mensuras quas Paldefrit comiti
monstravimus, per triginta annos possedit pars Sancti Vincencii.
E certo gioverebbe chiarire a fondo la procedura e il reale contenuto
giuridico e storico dei placiti campani: nel nostro del 960 il Ruggieri
ha procurato di cogliere gli elementi delle civilt che si incontrava-
no nella Campania del X secolo, vale a dire il bizantino, il longobardo,
il romanico.
E qui una domanda. Giudici e notai, quali Arechi e Adenolfo (e
cos gli ecclesiastici), scrivevano come pronunciavano?
certo che n potevano n volevano. Osservava, per esem-
pio, Ferdinand Lot, a proposito della redazione galloromanza dei
citati Giuramenti di Strasburgo, il pi antico documento della lin-
gua di Francia: La Langue vulgaire possdait des sons que le latin
ignorait. Comment les transcrire? Et puis lhabitude dcrire
uniquement en latin poussait inconsciemment mettre un mot latin
l ou il et fallu un mot vulgaire. Cest ainsi che ds le premier mot
des serments on lit pro, alors que lon prononait por en ralit.
Chi nondimeno ricorreva a vocaboli e grafie del latino non sempre
agiva inconsapevolmente, per linveterata abitudine allo scrivere e
anche al parlare appunto latino: poteva, anzi, obbedire allambizio-
ne di nobilitare il suo scritto. comunque, il latinizzamento, con-
scio o inconscio, svincolava la parola dallangustia del localismo.
Cos siamo certi che il nesso consonantico nt del latino era pro-
nunciato auche in Campania, e probabilmente fin dallet romana,
nd. Dunque, kondene, trenda, Sandi: voci tuttavia che nel nostro
testo si presentano in veste fonetica latina: contene trenda, e perfi-
no Sancti. Degni di nota i pur ben rari condennere per contende-
re di una carta del 963 edita dal Gattola e ecclesia Sandi Nicolai
del 1045 di una carta del Codex diplomaticus cavensis.
Siamo certi anche dalla pronunzia v del b iniziale, gi attestata
nel latino di iscrizioni antiche; quindi Venedhitti (nomi locali della
Camparnia doggi sono Santo Venedetto e San Venditto): ma il
testo reca Benedicti.
Del periodetto capuano la pronuncia sar stata dunque supper-
gi (si abbia sottocchio la riproduzione rigorosamente scientifica
del Fiorelli): Sao kko kkelle terre pc kkelle fini ke kki kkondene
trend anni le possette parte Sandi Venedhitti. Al Fiorelli, come si
41
I l Medioevo
vede, anche la preposizione per (oggi pe) sembra un latinismo. E
sorvoliamo su gli omessi raddoppiamenti di consonante iniziale, o
sintattici, Sao kho e simili, per cui si veda invece il Ritmo cassinese. E
sorvoliamo un altro (dh di Venedhitti, che interdentale sonora).
Sotto la penna di giudici e notai (ed ecclesiastici), libera-
zione pertanto da tratti vernacoli e locali, per il tramite del latino,
che procura un annobilimento. aggiungiamo, Scelta fra elementi
che si trovano a coesistere nella stessa area: perci, la preferenza
accordata alla forma sao (analogica, plasmata su ao ho), che sar
stata pi diffusa o sar parsa pi eletta di sacco (continuatore del
latino sapio; sactio nel Ritmo cassinese). Questo esempio di scel-
ta, annota il Folena, il primo della nostra tradizione linguistica.
Resterebbe da accennare al sintagma parte Sancti Benedicti: dove
con parte senza articolo gi il Rajna confrontava a parte guelfa e
parte ghibellina, ecc. (e parte, come terra, avr avuto il valore,
secondo il Cilento, di propriet, dominio sovrano) e per Sancti
Benedicti si richiama il genitivo di nomi personali in toponimi del
tipo Montepli, ossia Monte Pauli.
Ma per mettere in luce i latinismi, non si corra il rischio di non
valutare debitamente il fondo locale: esempi, possette (ossia pos-
sedette, con la caduta del d intervocalico) e ko, dal latino quod
(oggi ka, dal latino quia; ma ku sopravvive nellAppennino campa-
no). Siamo perfino in grado di individuare qualche tendenza (ossia
quella di ki, kelle senza elemento labiale) che si registra per Capua,
e Sessa e Teano, ed estranea alla parlata di Montecassino.
I nfine, tra elementi latini, latineggianti, italiani, acquista spicco
come italianissimo un fatto sintattico, il pronome le, che non trova
dunque riscontro nella formula latina (quale quella citata del 954)
e riprende loggetto kelle terre.
Certo, i periodetti della Campania (badando ora solo al primo,
di Capua) rappresentano ben pi che non quella loro nuda ed
clcmentare praticit [...].
Per concludere, tornando a quel che hanno di latino la for-
mula capuana e le ystorie volgari dellExultet, rivolgiamo per un
attimo lattenzione alla caratteristica essenziale del nostro linguag-
gio: la struttura latineggiante e letteraria (o retorica e umanistica)
nella quale esso si determina e consolida assai per tempo, pi addie-
tro del Due e Trecento, pi addietro di quella rinascita dei secoli XI
-XI I , quando, dopo una sorta di stabilizzazione etnica, si afferma
la nuova coscienza nazionale.
Gi Dante asseriva il vulgare latium, la nostra lingua di si, eccel-
42
La Critica Letteraria
lere su quelle di oc e ol, e perch magis videtur inniti gramatice,
que comunis est: (mostra appoggiarsi maggiormente al latino, che
comune anche agli altri volgari romanzi), e perch annovera i po-
eti pi dolci e pi sottili. Per i moderni, ad esempio per lacuto E.
Lewy, che ha procurato di delineare la tipologia linguistica dEuro-
pa, litaliano, quanto a struttura, la lingua europea tipica, quella
che segue pi dappresso il latino, senza presentar molte innovazio-
ni: e non n barocca come lo spagnolo, n limitata come il
francese. Anzi, la latinit dellitaliano nel suo complesso storico ha
indotto a rivedere la partizione delle lingue romanze e a mandar
con pi franchezza la nostra lingua nel gruppo, strettamente unita-
rio e latinizzante, del castigliano, catalano, ecc., in opposizione as-
soluta al francese: che il gran dissidente.
Piacerebbe poter indugiare su fatti e aspetti singoli (con rinvio,
anche per quel che abbiamo or ora detto, agli Atti dellVI I I Con-
gresso di studi romanzi, dove si tratta della retorica nella lingua e
letteratura italiana). Tra laltro si giustamente notato che la con-
servazione della struttura della parola e la libert di spostare laccen-
to su qualunque sillaba, separano litaliano dal galloromanzo e al-
litaliano concedono di assumere e assimilare, senza alterarle n osten-
tarle, voci latine: le quali, perci, con gli arcaismi conferiscono alla
nostra lingua un aspetto monumentale e rappresentativo (e latinismi
e arcaismi si sa che da noi sono pi copiosi che presso le altre nazio-
ni neolatine).
I n breve, la presenza sensibile del latino non fenomeno che
possa risultare o agire in qualche momento solo nella nostra storia
linguistica: ma di tutto il suo decorso e il suo stigma. E presenza
sensibile del latino significa studio delle forme e delle proporzioni:
senso della forma che tradizionale dello spirito neolatino,
segnatamente di quello italiano.
ALFREDO SCHIAFFINI
da I mille anni della lingua italiana Milano, Allinsegna del Paese
doro, 961, pp. 11-24
43
I l Medioevo
Poesia e prosa delle origini (B. Migliorini)
Le variet locali del volgare parlato erano molto divergenti e i
tentativi che finora erano stati fatti per metterli in scrittura avevano
tentato di levigarne la rozzezza eliminando le peculiarit troppo
spiccate e ricorrendo ai suggerimenti che poteva dare la lingua scrit-
ta per eccellenza, il latino. Proprio lesempio del latino, con la sue
relative fissit e regolarit, fa sentire il bisogno di modelli anche per
il volgare. C nellaria lidea che se e quando appariranno dei mo-
delli degni, essi saranno imitati anche nelle loro particolarit, e per
questa via si trover un rimedio alle incertezze grammaticali e lessicali.
Non si mira insomma direttamente a una lingua comune: si mira
a una lingua bella e nobile, la quale eliminer i particolarismi e sar
perci anche comune. NellI talia di questa et, artisticamente cos
mature e politicamente cos divisa, modello voleva dire modello di
bellezza, di eleganza artistica. Questo ci spiega come emergano tan-
to imperiosamente, creando una scia dimitazione letteraria e lin-
guistica, quegli scritti in cui si persegue un ideale di bellezza.
la lirica che si pone allavanguardia della letteratura, e che crea
un moto dentusiasmo, con conseguenze che dureranno per secoli.
La spinta iniziale data dai poeti siciliani della curia sveva, i primi in
I talia a servirsi del volgare per fare poesia darte, sar trasmessa a
tanti altri: e tutti, non solo i pedissequi imitatori siculo-toscani, ma
anche il Guinizelli, gli stilnovisti e in genere tutti quelli che scrive-
ranno in versi, terranno conto in proporzione maggiore o minore
dei modelli siciliani, cos che alcune peculiarit entreranno stabil-
mente nelluso poetico italiano.
Non basta: questa spinta fa s che la poesia acquisti un vantaggio
tanto sensibile sulla prosa da creare fra i due modi di scrivere addi-
rittura una scissione che durer per secoli. I modelli poetici che si
susseguono costituiscono una tradizione, che fornisce un modello
di lingua relativamente uniforme per le varie regioni; invece la pro-
sa stenta (e stenter per molto tempo) a uscire dallambito locale.
Sorge s, poco dopo la fioritura siciliana, una prosa darte, che ha a
Bologna con la persona di Guido Fava il suo primo maestro. E
anche la prosa darte trover in Toscana cultori appassionati come
Brunetto e Guittone. Ma il minor livello artistico da loro raggiunto
in confronto con la poesia e lo stretto legame che la prosa ha sempre
con le contingenze pratiche di carattere personale e locale, per cui
essa non pu staccarsi troppo dal parlare quotidiano, neppure quan-
do soggetta a elaborazione artistica, fanno s che il processo di
44
La Critica Letteraria
unificazione della lingua pronastica sia senza confronto pi lento.
Non va poi, dimenticato che testi in prosa mancano completamen-
te per lI talia meridionale e la Sicilia durante il Duecento: vi si scri-
ve ancora soltanto in latino.
BRUNO MI GLI ORI NI
da Storia della lingua italiana Firenze, Sansoni, 1960
pp. 129-130
45
I l Medioevo
Il problema del duecento
A chi indaga la storia delle letterature moderne, il nostro Due-
cento si presenta, tra due meraviglie, come un problema dei pi
curiosi e dei pi seducenti. Tra due meraviglie, ho detto; e la prima
che un secolo, il quale dietro di s ha il niente, giunga, con breve
e quasi ignaro processo, a preparare lopera immensa di Dante: giun-
ga, con ci, a superare, senza alcun paragone, la forza creativa e il
valore ideale di tutte le altre letterature d Europa, che pur poteva-
no vantare (specie la francese) una storia assai pi lunga e indubbia-
mente pi gloriosa.
E laltra meraviglia che un secolo tanto da noi remoto sia sen-
tito, nella nostra coscienza, come parte integrante e inseparabile di
un tutto che si continua nel presente e si prolunga nellavvenire
mentre questa coscienza di continuit si perduta nelle altre lettera-
ture dEuropa, le quali tutte palesano, tra il periodo medievale e il
periodo moderno, uno stacco pi o meno netto e profondo. E il
problema che tra queste due meraviglie si pone, o piuttosto, che
queste stesse due meraviglie impongono, vien facile, ore, da formu-
lare: quali ragioni fanno si che la letteratura italiana sorga tanto
tardi; e quali forze, prima inoperanti, la conducono tanto presto ad
affermazioni superbe, e ci che pi conta, alla costituzione di una
tradizione capace di curare indefinitamente?
Dietro di s il nostro Duecento ha il niente. Niente significano
infatti, prima del Duecento, quei rari e rozzi balbettamenti di poe-
sia volgare italiana di cui lerudizione riuscita a scovare e a racco-
gliere le testimonianze; e con gran cura e grande amore se le accarez-
za. riuscita a risalire niente meno che ai tempi di Carlo Magno, e
ne ha esumato le dodici parole dellI ndovinello veronese: capriccio
effimero dun chierico solitario. N pi significanti ci possono ap-
parire, dopo un silenzio assoluto di pi secoli, il cos detto Ritmo
giullaresco toscano, il Ritmo cassinese, il Ritmo marchigiano sulla
leggenda di S. Alessio... Son curiosi tentativi, certo; ma non sono
altro che tentativi: poveri, inetti tentativi, intorno ai quali, ben che
si sia ormai alla fine del Cento, nulla si manifesta che possa degna-
mente essere considerato come un vero e proprio movimento lette-
rario.
E intanto, di l dalle Alpi, da pi di un secolo, la letteratura
francese e la letteratura provenzale erano in pieno sviluppo. La Francia
aveva creato la sua epopea, celebrando le gesta di Rolando e
46
La Critica Letteraria
dOliviero, combattenti di cento battaglie, morenti per la loro san-
ta fede e per la loro dolce patria a Roncisvalle; e insieme, le gesta di
tanti eroi, or ossequienti or ribelli a Carlo Magno e al re Luigi,
viventi in un fragor darmi perenne, tra un alternar di sconfitte e di
vittorie, dove, sventurato e avventurato, il valore egualmente
rifulgeva: Guglielmo dOrange, Viviano, Rinoardo; Rinaldo di
Montalbano e gli altri figli dAimone; Uggeri il Danese... La Fran-
cia, anche, aveva creato il romanzo, rinarrando a suo modo le anti-
che vicende dei guerrieri di Tebe e di Troia, di Grecia e di Roma; o
inventando le meravigliose avventure e gli squisiti amori dei cava-
lieri di Bretagna, commensali di re Marco, o di re Art alla famosa
tavola rotonda: Tristano, Galvano, Lancillotto, Percivalle... E tante
altre belle istorie aveva cantato: vere e immaginarie, sacre e profane,
tragiche e comiche: storie di santi e storie deroi; di chierici e di
laici; di principi, di cavalieri, di borghesi, di villani; duomini e di
donne; di persone e danimali... Una poesia narrativa delle pi ric-
che e delle pi varie.
Poesia popolare? poesia primitiva? No: non era quella che
aveva fantasticato il Romanticismo. Era poesia di poeti consapevo-
li. Turoldo, se cos si chiamava lautore della Chansons de Roland,
seppe dare al suo poema la pi solida architettura. Cristiano di Troyes
seppe volgere, avvolgere, svolgere le fila sottili e intricate dei suoi
romanzi con mano sapiente. E accanto ai poeti narrativi, i minori
poeti, lirici, o drammatici, o didattici, ebbero tutti un concetto
adeguato dellarte che raggiunsero o che non ragginnsero (ma que-
sta unaltra questione).
E intanto la Provenza elaborava quella sua fine e squisita, aristo-
cratica lirica trobadorica che, movendo dalle brillanti ineguaglianze
di Guglielmo dAquitania, si espresse prima nellarte tormentata e
appassionata di Marcabruno, e in quella nitida e armoniosa di
Bernardo di Ventadorn, indi sbocci riccamente nei canti di quelli
che parvero a Dante i tre suoi massimi rappresentanti: Bertram dal
Bornio, il poeta dellarmi, Giraldo di Bornelh, il poeta della rettitu-
dine, Arnaldo Daniello, il poeta dellamore.
Tale fu, prima del Duecento, la Provenza, e tale fu la Francia; e in
Provenza come in Francia il Duecento non fu che la prosecuzione
(un po pi fiacca in Provenza, ancor valida in Francia) duna carrie-
ra letteraria ormai lunga, duna tradizione di origini lontane.
I n I talia, invece, il Duecento non ha precedenti. Si disse, e c
forse ancor chi ci crede, che in I talia la letteratura volgare nacque
tardi, perch tra noi la cultura latina fu pi diffusa e pi profonda
47
I l Medioevo
che altrove, onde le nostre esigenze letterarie poterono trovare pi
facile sfogo in opere latine. Ma un errore; ed stato ben dimostra-
to. La letteratura latina dI talia, tra il Mille e il Duecento, non ebbe,
certo, grande valore. E fu, daltronde, principalmente prosastica,
volta in genere a scopi pratici. Prosastica, anzi, fu anche la poesia,
salvo, forse, in qualche ode di Alfano, e in qualche ritmo di San Pier
Damiani: volta, del resto, sopra tutto a narrare, in faticosi poemi,
eventi contemporanei.
Non fu dunque il fiorire, in realt inesistente, della letteratura
latina, che imped, prima del Duecento, il sorgere duna letteratura
italiana. E, viceversa, il sorgere e il crescere della letteratura francese,
prima del Duecento, non fu per nulla impedito dal contemporaneo
fiorire, in Francia della letteratura latina: di una letteratura latina
cos ricca, cos varia e cos importante, quale non era pi stata dai
tempi dellimpero di Roma. Ed essa, si noti, faceva larga parte alla
poesia: a una poesia spesso originale, metrica e ritmica, epica lirica
satirica allegorica, quale si rispecchia, per esempio, nellopera multi-
forme di Gualtiero di Chtillon.
La fecondit letteraria francese, che si eplica nella letteratura lati-
na, cos come in quelle volgari; e la sterilit letteraria italiana, che si
avverte non solo nel campo volgare, ma anche in quello latino,
durante i secoli che precedono il Duecento, debbono dunque spie-
garsi con altre ragioni; e saranno fornite dalle condizioni della civil-
t francese e della civilt italiana di quei secoli. I ntensa, allora, era in
Francia la vita feudale, alla quale mirabilmente corrispondevano le
due letterature volgari, di carattere fondamentalmente cavalleresco.
I ntensa vera anche la vita ecclesiastica, monacale e clericale, e sespri-
meva nelle sue grandi scuole, dinteresse prevalentemente filosofico
e letterario, donde usciva la letteratura in lingua latina. Povera, in-
vece, oramai, era in I talia la vita feudale, corrosa e minata dalla risa-
lente borghesia delle citt. Tuttaltro che povera era la vita ecclesia-
stica; ma volta non gi a interessi speculativi e contemplativi, bens
a interessi politici e sociali (era let delle lotte tra la Chiesa e lI mpe-
ro). Onde la cultura italiana, non certo trascurabile, mirava sopra
tutto a scopi pratici, sviluppava, per esempio, mirabilmente gli stu-
di giuridici e medici, che avevano a Bologna e a Salerno i loro centri
famosi: centri dinteresse europeo, che lI talia poteva contrapporre
a quelli, filosofici e letterari, di Parigi e dOrlans. Ma nelle stesse
sue scuole di retorica lI talia badava piuttosto a formar prosatori,
che sapessero scrivere storie e redigere epistole, anzi che a educare
poeti. A queste tendenze, a questi caratteri corrispondeva in I talia la
48
La Critica Letteraria
letteratura latina, artisticamente assai povera; e accanto a lei nessuna
esigenza ancora sorgeva a richiedere una letteratura volgare.
Ma nel Duecento, mentre Chiesa ed I mpero, con accresciute for-
ze, materiali e spirituali, combattevano la loro battaglia suprema, e
ne uscivano entrambi fiaccati nei liberi Comuni la borghesia citta-
dina, domati ormai vescovi e conti, trionfava; e la stessa molteplici-
t e complessit dei contrasti che si dibattevano nel suo seno ne
palesava la potente vitalit. Nuovi interessi, non pi strettamente
pratici, ma anzi largamente ideali, religiosi filosofici artistici, attira-
vano lattenzione e accendevano il fervore della nuova societ. La
quale perci ebbe bisogno, finalmente, duna sua letteratura, e fi-
nalmente se la cre.
Questa nuova letteratura, questa prima letteratura italiana, di
che fatta? con che si fatta? Quali elementi possiamo cogliere e
individuare nella sua costituzione? C anzi tutto la tradizione lati-
na. Un critico acuto e vivace uscito fuori, pochi anni fa, a parlare
del Duecento come di un secolo, anzi del secolo senza Roma. I l suo
libro brillante, indubbiamente, e ingegnoso, contiene rilievi cu-
riosi e osservazioni interessanti, ma non vi mancano errori ed equi-
voci; e, sopra tutto, la sua tesi inaccettabile. Che la tradizione
latina rimanga viva, anzi si avvivi, in I talia, durante il Duecento,
mostra non pur la letteratura latina che vi si produce, in prosa e in
versi, assai superiore, quantitativamente e qualitativamente, a quel-
la dei secoli precedenti, ma la stessa letteratura volgare.
Questa, infatti, spesso saffaccenda a tradur libri latini. I tradut-
tori son molti; e si volgono non soltanto agli scrittori medievali,
come, tra gli altri, Andrea da Grosseto e il pistoiese Soffredi del
Grazia, traduttori di Albertano da Brescia, ma anche agli autori clas-
sici, come Brunetto Latini, che nella sua Rettorica traduce e com-
menta il De inventione di Cicerone, e nel commento ricorre ad
altre opere di Cicerone, e a Sallustio, a Lucano, a Boezio...
Le stesse opere originali recano evidenti le impronte dellinflus-
so latino. Si pensi a Guittone dArezzo. I l prosatore tutto da con-
frontare con Pier della Vigna e cogli altri maestri della epistolografia
latina contemporanea; il poeta ama ostentare inconsueti latinismi,
e si compiace di avvolgersi talora in un periodare ampio e comples-
so che ricorda e vuol ricordare i modi latini.
Ma che andiamo a cercare fra gli autori minori? Senza una tradi-
zione latina intensa e vivace, rimarrebbero incomprensibili, alla fine
del secolo, Albertino e Dante. Albertino Mussato colui che riscopre
la storia antica, la poesia antica, la tragedia antica, e si studia di
49
I l Medioevo
rifarle con materia moderna. Egli si riattacca, del resto, a tutto un
pensoso e operoso cenacolo: quello che fior a Padova intorno a
Lovato de Lovati. E come il maestro, come i compagni, anchegli si
mantiene fedele nei suoi scritti alla lingua del grande avo patavino,
Livio.
Ma Dante Alighieri attesta la vivacit e la potenza della tradizio-
ne latina non solo e non tanto nei suoi scritti latini, nelle Epistole,
nelle Egloghe, nella Monarchia, nel De vulgari eloquentia; bens
anche e sopra tutto nelle sue opere volgari, nelle Rime, nel Convivio,
nella Commedia... La Commedia tutta un monumento a Virgi-
lio:
Tu se lo mio maestro e l mio autore,
tu s colui da cu io tolsi
lo beno stilo che mha fatto onore.
Dello studio di Virgilio, infatti (e non pur di Virgilio, ma
dOvidio, di Lucano, di Stazio), la Commedia offre a ogni passo
sicura e viva testimonianza.
C dunque, la tradizione latina; ma c, insieme, lesperienza
provenzale e francese. Lesperienza provenzale, sono i trovatori stes-
si della Provenza che la portano in I talia. Attirati dagli ultimi splen-
dori di qualche superstite corte feudale, in Piemonte o nella Marca
Trevigiana, i trovatori vi accorrono, da Rambaldo di Vaqueiras a
Ugo di Saint Circ. Vi accorrono, e vi fanno trionfare la loro arte. Vi
diffondono la loro lingua; vi divulgano la storia della loro poesia;
vi insegnano la tecnica delle loro canzoni e dei loro sirventesi (e dei
discordi, e delle tenzoni). Conquistano le corti, e dopo le corti i
Comuni; celebrano nei loro canti gli avvenimenti storici di questa
loro nuova patria; partecipano, coi loro canti, alle lotte politiche.
E ben presto suscitano intorno a loro imitatori ed emuli italiani.
I a corte degli Ezzelini vede sorgere e affermarsi Sordello. Genova,
fra i traffici e le imprese della sua borghesia marinara, sindugia com-
piacente ad ascoltare i canti del suo Lanfranco Cigala, del suo
Bonifacio Calvo, daltri ed altri suoi figli e non pur di suoi figli ma
di forestieri, anzi di avversari, com quel Bartolomeo Zorzi che a
Genova, dal fondo duna prigione, sorge a rivendicare contro
Bonifacio Calvo lonore della sua Venezia.
Non tutti, ma molti di questi trovatori italiani simpadronisco-
no pienamente dei segreti di quellarte difficile e squisita, tanto da
poter poi rivaleggiare, nella stessa Provenza, o magari nella lontana
Spagna, coi trovatori provenzali: questo il caso di Sordello, di
50
La Critica Letteraria
Bonifacio Calvo. I nsomma gli I taliani hanno finalmente imparato a
poetare in lingua volgare; ma non usano la propria lingua: usano
una lingua straniera.
Ci avviene per nel settentrione, dove quella lingua pi facil-
mente appresa e compresa, dove i rapporti vivi con coloro che la
parlano (e che la scrivono) son pi frequenti e continui. Ma nel
mezzogiorno dI talia, dove i trovatori provenzali non arrivano (o
arrivano rari e fuggevoli), dove i rapporti con la Provenza sono
scarsi, dove la lingua provenzale, tanto diversa dalle parlate native,
non facilmente compresa, ma dove, alla splendida corte
dellimperator Federico, la fame dellarte trobadorica, ammirata e
invidiata, grande, gli imitatori, che non mancano, e che non pos-
sono mancare, sappigliano alla lingua materna. E lo stesso Eederico,
e il figlio Enzo, e il protonotaro e logoteta del regno Pier della
Vigna, e il Notaro Giacomo da Lentino, e il Giudice Guido delle
Colombe, e Giacomino Pugliese, e Rinaldo dAquino, e tanti e tan-
ti altri compongono canzoni e discordi, o scambiano tenzoni, se-
condo il preciso modello provenzale.
Provenzali concetti e immagini, soggetti e motivi, forme e artifi-
ci, versi e strofe; provenzale la terminologia e la fraseologia, anche a
scapito, talora, della naturalezza e della convenienza. I taliana, la lin-
gua. E, insomma, quella stessa imitazione, anche se talora troppo
pedissequa, si risolve in una esperienza utilissima, e riesce in ogni
modo a fare per la prima volta della nostra lingua, depurandola
affinandola disciplinandola, un efficace e duttile strumento lettera-
rio. Senza contare che, intelligentemente adoperata, limitazione
provenzale conduce i Siciliani alla scoperta di una felice forma me-
trica, il sonetto, e li guida allutilizzazione originale di qualche spunto
popolaresco.
Se non che la poesia siciliana si distingue dalla provenzale per
una sue singolare limitazione: per essere una poesia esclusivamente,
o quasi esclusivamente amorosa. La poesia morale, civile, politica,
guerresca, che ha tanta parte nellopera dei trovatori, qui, presso
questi uomini che fanno della guerra, della politica, del reggimento
dello Stato la loro occupazione quotidiana, rimane senzeco. I l fat-
to che per loro la poesia, e lamore stesso che d materia alla loro
poesia, sono un puro gioco, quasi un voluto oblio dclla realt. E
per ci appunto saccomodano cos facilmente delle convenzioni
che loro trasmette la tradizione provenzale.
Ma linflusso provenzale opera pi largamente, e meglio stimola
le energie native a reazioni originali fra i poeti toscani. Guittone
51
I l Medioevo
dArezzo strappa alla tecnica poetica provenzale segreti che i Sicilia-
ni avevano ignorato; e impara, al tempo stesso, dai provenzali a
uscir dal mondo chiuso dellamore: pu cos dare sfogo nelle sue
canzoni alle sue passioni duomo, di cittadino, di cristiano.
Pi indipendenti dai provenzali, e pure a loro legati da moltepli-
ci vincoli, appaiono Guido Guinizelli e gli stilnovisti; s che perfino
la loro innegabilmente nuova e originale concezione dellamore sin-
contra con le idee di certi trovatori pi recenti, come Guglielmo
Montanhagol.
E lo stesso Dante, al tempo delle canzoni pietrose, delle sestine
e delle sestine doppie, delle rime rare ed equivoche, rif per suo
proprio conto lesperienza provenzale, he, a tutto sommare, ebbe
valore decisivo, e benefico, nella maturazione della sue arte. Del
resto un libro come il Donatz proensals, o qualche altro simile trat-
tato provenzale di grammatica e di poetica, laiut a meditare sulla
lingua, sullo stile, sulla versificazione, onde usc poi il De vulgari
eloquentia. E le Vidas e le Razos provenzali, sparse nei canzonieri a
ragguagliar sui poeti e a commentar le loro poesie (vite e ragioni,
che non furono senza importanza nella creazione della novella ita-
liana, quale appare nel Novellino) a Dante, forse, avevan gi dato
lidea di quelle sue deliziose prose della Vita nuova.
Accanto allesperienza provenzale va considerate lesperienza fran-
cese. I poeti di Francia non discendono a frotte, come quelli di
Provenza, nelle corti e nei Comuni italiani. Ma i loro giullari per-
corrono le vie della penisola, e vi diffondono il gusto dei racconti
eroici. Molti sorgono allora nel settentrione a imitarli, e in una lin-
gua che vuol essere francese, e non che un gergo franco-veneto, si
mettono anchessi a cantare di Carlo Magno e di Rolando, di Buovo
dAntona, di Uggeri il Danese, di Ugo dAlvernia, o magari, per
cambiare, di Attila.
Se non che non per questa via, almeno inizialmente, che lin-
flusso francese si esercita con maggior efficacia sulla nascente lettera-
tura italiana. Non tanto dalla voce dei giullari che gli I taliani ap-
prendono il francese, quanto, piuttosto, dai libri. E dai tanti libri
che vengono di Francia, recanti, in facili versi, detti sermoni contra-
sti, pie visioni e sante leggende, i poeti di Milano e di Verona, di
Cremona e di Venezia (Bonvesin da la Riva e fra Giacomino, Girardo
Patecchio e Franceschino Grioni...) traggono incitamenti e
ammaestramenti per i loro poemi religiosi, morali, didattici. E dal
libro che reca lultima grande novit di Parigi, il Roman de la Rose
di Guglielmo di Lorris condotto a compimento da Giovanni di
52
La Critica Letteraria
Meun, un poeta fiorentino, che per alcuni lo stesso Dante, trae un
sunto vivace e geniale, il Fiore. E altri, da quello e da tutti i poemi
allegorici francesi venuti di moda in quei tempi, traggono ispirazio-
ne e motivo alle loro composizioni. Cos fa Brunetto Latini nel
Tesoretto, cos un poeta sconosciuto nellI ntelligenza. N se ne di-
mentica Dante nelle costruzioni allegoriche della sua Commedia.
La prosa francese ebbe tuttavia per gli I taliani una importanza
forse anche maggiore che la poesia. Grazie alla prosa la lingua fran-
cese apparve allora ai nostri avi a pi comune e pi dilettevole dogni
altra; e fu perci in prosa francese che molti fra loro preferirono
scrivere: perfino per narrare le glorie della propria citt, come il
veneziano Martin da Canal; oppure per tessere la trama di un av-
venturoso romanzo, come Rustichello da Pisa - quando non addi-
rittura per descrivere le meraviglie di un mondo lontano, come lo
stesso Rustichello, scrivente, nella provvidenziale prigione di Ge-
nova, sotto la dettatura di Marco Polo. Ma fu soprattutto per com-
pilare trattati scientifici che autori italiani scelsero la prosa francese;
e cos fece, tra gli altri, Brunetto Latini nellopera in cui volle riassu-
mere tutto il suo sapere, in quel Tesoro in cui Dante si compiaceva
di vederlo sopravvivere.
Ma quegli stessi che, nei loro scritti (trattati o cronache, roman-
zi o novelle), per il desiderio di farsi intendere pi largamente dai
loro connazionali, rinunziarono al miraggio della chiara e piacente
prosa francese, del suo esempio finirono poi per giovarsi, consape-
volmente o inconsapevolmente, nella prosa italiana.
Non tutto, in questo travaglio duna letteratura che sta pren-
dendo corpo, viene di fuori. Tradizione latina, esperienza provenzale,
esperienza francese ventrano, certo, per gran parte, ne spiegano molti
caratteri. Ma tutto sarebbe rimasto senza vita, e dunque senza avve-
nire, se fossero mancati impulsi interni, se alla letteratura nazionale
la vita nazionale non avesse dato, decisivo, il suo apporto.
Quale fu lapporto nazionale? Gi nella poesia siciliana una nota
originale era data da qualche motivo popolare, che, pur essendo un
po di tutti i tempi e un po di tutti i luoghi, pure il poeta (si
chiamasse egli Rinaldo dAquino, Oddo delle Colonne, Giacomino
Pugliese, o magari anche Federico imperatore) sera chinato a racco-
gliere dai nostri volghi. E nera nato una volta un piccolo capolavo-
ro, modesto ma autentico: il Contrasto attribuito a Cielo dAlcamo.
E gi nella poesia guittoniana la nota pi originale era data dal
prorompere della passione politica, legata ai luoghi dove il poeta
viveva, agli eventi ai quali assisteva. Ne un bellesempio la canzone
53
I l Medioevo
di Guittone per la battaglia di Montaperti. Pi duna volta il lettore
crede di cogliervi presentimenti danteschi: del Dante che nella Com-
media commenta e gindica fatti e persone della sua patria e della sua
et.
Ma il primo nostro movimento poetico che si presenti, nel suo
complesso, con caratteri di vera originalit esce da una rivoluzione
religiosa. Assisi e Perugia lo videro nascere. Assisi, centro di forma-
zione e dirradiazione del gran moto francescano, ascolt, dalle lab-
bra stesse del santopoeta, le parole, trepide dintima commozione,
del Cantico di frate Sole. E fu questa la prima poesia veramente
originale che suonasse in lingua italiana: anno 1224. Si citano, a
dire il vero, canti biblici, che sembrano contener le stesse cose; ma
San Francesco, ripetendole, d loro un accento tutto nuovo, anzi
un nuovo senso, con quel suo amore che abbraccia in Dio tutte le
cose create da Dio. I l cantico di San Francesco rimane tuttavia un
fatto isolato.
Qualche decennio dopo Perugia, punto di partenza di quellal-
tro gran moto religioso che si venne a innestare nel moto francescano,
cio quello dei flagellanti, ascoltava primamente suonare, sulle boc-
che di quegli uomini frenetici intenti a disciplinarsi, il canto delle
laude: composizioni rozze, da principio, condotte alla meglio o alla
peggio sul modello di certi cantici latini gi in uso tra i fedeli; ma
animate da una gran fede religiosa, e grazie a quella fede, non certo
alla loro arte, moltiplicate e diffuse, oltre lUmbria, in tutte le
contrade dI talia. E infine, quando fu lora, la lauda trov il suo
poeta: I acopone da Todi. Egli ne mantenne il tono popolare, ne
accett le forme semplici e grosse; ma dentro, con arte robusta,
seppe riversare la piena della sua anima, inebriata damore divino,
pervasa dodio e dorrore per le miserie e per le vanit umana, con-
scia per del senso e del valore dei suoi amori e dei suoi odi, dotta
ed esperta dei segreti della vita mistica.
Dante lontano (quanto allarte, intendo) da I acopone, cos
come da San Francesco: mai son luoghi della sua Commedia, dove
egli prega, o dove impreca, che sembrano implicare lesperienza
francescana e iacoponica.
ANGELO MONTEVERDI
da Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli Milano-
Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 3-14
54
La Critica Letteraria
La prosa del Duecento
Quando allorizzonte della cultura italiana appaiono i primi albori
duna letteratura volgare, il paesaggio che si rivela, sempre pi niti-
do, alla nuova luce, non addormentato n inerte. Gi sono fioren-
ti centri di studio e di civilt, gi sono in atto valide imprese lette-
rarie; che preparano e anticipano lopera, pur diversa negli intenti e
nellestensione, dei primi scrittori volgari. Tra questopera e quei
centri, quelle imprese, accade per di individuare una continuit
ideale e indiretta piuttosto che localizzata e univoca: segno che la
formazione duna letteratura volgare rappresent in Italia non unevo-
luzione, ma una rivoluzione. Rivoluzione che nel suo manifestarsi
in ambito culturale e linguistico esprime un profondo mutamento
delle strutture vitali del paese.
Nella nostra indagine sulle origini della prosa, i rilievi dindole
precipuamente letteraria saranno dunque riportati su uno schizzo,
necessariamente schematico, dei motivi predominanti nella vita
politica, economica, spirituale del Duecento italiano: il tracciato
degli uni sar integrato e interpretato da quello degli altri.
opportuno svolgere innanzitutto una veloce ricognizione del
terreno; quasi sventagliando, su quello che fu il teatro degli avveni-
menti che ci interessano, la luce di un riflettore.
Nella pianura padana si percepisce una trama di presenze poeti-
che rappresentate dai trovatori, prima provenzali, poi italiani; tra-
ma molto fitta specialmente intorno alle corti signorili, ma non
priva di addentellati nelle repubbliche marinare, Genova e Venezia,
ed in Toscana, dove Terramagnino e Dante da Maiano rappresenta-
no bene il passaggio della poesia amorosa dalluna allaltra lingua (il
provenzale e il toscano), dalluno allaltro ambiente sociale (quello
aristocratico e quello borghese). Ma il fenomeno trovadorico, pur
cos fortunato in I talia (ce lo dicono anche i canzonieri qui esemplati,
le vidas e le razos e le grammatiche qui compilate), non si ormeg-
gia ai modi di una qualsiasi collettivit, non valica i confini dellam-
biente in cui si sviluppato, e affider la propria sopravvivenza a
discendenti elettivi.
Pi profonde radici - e gi ci portiamo sintomaticamente sul
territorio dei liberi Comuni - sono quelle della letteratura in volga-
re lombardo e veneto. Qui lazione di scuole e di una cultura latina
(maestro era Bonvesin, e scrisse anche in latino; ma si ricordino
Salimbene, Sicardo da Cremona, Albertano da Brescia, Bellillo
55
I l Medioevo
Bissolo); qui la partecipe passione popolare, politica e religiosa, si
manifestano nella produzione letteraria, che a sua volta svolge temi
e impiega formule tali da poter risonare entro un pubblico assai
vasto. Gli argomenti, agiografici ed edificanti (si ricordi pure, sul
versailte latino, la Legenda aurea di I acopo da Varazze, dimorato a
lungo in Lombardia), sono in genere affini a quelli diffusi nellocci-
dente romanzo, con epicentro in Francia; si tratta di una libera col-
laborazione allattivit letteraria comune, che ci permette di ricono-
scere unarea laterale ben viva, piuttosto che dei prestiti.
A Bologna sincontrano condizioni particolari, decisamente fa-
vorevoli alla letteratura. Qui era lUniversit italiana pi illustre,
allora, e pi frequentata: luogo dincontro e capitale della cultura.
Una attivit gloriosa di studi giuridici prepara, come vedremo, un
contributo molto importante alla nostra letteratura: direttamente,
attraverso la parallela fioritura della retorica; indirettamente, col
sensibile rinnovamento dello stile anche nella storiografia, coltivata
in precedenza con esclusivo interesse cronistico. (I l dettatore
Boncompagno da Signa compone anche un libro De obsidione
Anconae, e il suo allievo Rolandino da Padova una Cronica Marchiae
Trivixanae; e provengono dallUniversit di Bologna Pietro Cantinelli
e Francesco Pipino, autori di cronache di grande apertura, ed giu-
dice e notaio lautore dei Gesta Florentinorum, Sanzanome di Fi-
renze). A Bologna, in un clima di studi raffinati, di maturit filoso-
fica e retorica, di uguaglianza di fronte al sapere, verranno elaborati
i nuovi concetti dello Stilnovo, saranno cio filtrati e arricchiti i
materiali prodotti della scuola siciliana e dalla prima scuola toscana.
I l vicino territorio veneto comincia ad essere un centro di
raccolta di poemi epici: trascritti e cantati nella lingua originaria,
poi via via contaminati con elementi del dialetto locale, poi
ciclicamente ampliati e continuati e rifatti (n manca la produzio-
ne, anche in francese, di composizioni daltro genere, per esempio
religioso). Di qui spesso ha il punto di partenza la successiva fortu-
na di molte geste, anche se ormai si pu escludere che il Veneto sia
stato tramite unico e obbligatorio. I l Veneto, ricco di monumenti
romani e, che pi conta, di biblioteche gloriose, dopo aver procu-
rato traduzioni dal latino tra le pi antiche in I talia (del Pamphilus,
dei Disticha Catorris), doveva assistere alla fine del secolo ad un
episodio premonitore: lattivit umanistica e la poesia latina dei
padovani Lovato e Mussato. Altro esempio di vitalit letteraria al
centro di un Comune e accanto a uno studio.
La Toscana, sino alla met del Duecento, rimane, rispetto alla
56
La Critica Letteraria
cultura, un po in ombra: vivo gi lo scambio di docenti, e natu-
ralmente di discenti, con Bologna (Boncompagno da Signa e Bene
da Firenze insegnano a Bologna, donde viceversa scendono a sud
degli Appennini gruppi assai nutriti di maestri meno illustri; nei
formulari retorici al nome di Bologna si sostituisce spesso quello di
Siena o di altre citt toscane), e lo Studio di Arezzo acquista rino-
manza, ma sempre su scala regionale. I n mezzo allattivit letteraria-
mente grigia dei cronisti brilla il poema filosofico-morale di Arrigo
da Settimello; che per un ex-allievo di Bologna, e l avr anche
conoscinto i suoi modelli francesi.
Suona alta sullUmbria la voce di san Francesco. Tra i molti
movimenti religiosi che nel Vangelo trovavano (ritrovavano) una
promessa e una fede per le plebi oppresse, quello francescano,
dottrinalmente ligio alla Chiesa e alieno da sottintesi politici, con-
quist in breve tempo ampi territori dello spirito. probabile che
tra i suoi precedenti ideali si debba annoverare lescatologia
gioachimita; n, tra i seguaci del Santo, mancarono i rappresentanti
di altre culture italiane ed europee. Ma lindole del movimento
popolare: gi nel Santo, che adegu il suo dialetto allalta ispirazio-
ne del Cantico, e pi ancora nei suoi fedeli. E anche la letteratura
francescana in latino mantiene un tono stilistico umile (quasi pre-
parandosi ad avere la sua forma pi confacente nel volgare toscano
dei Fioretti); e in volgare e con modi popolareshi saranno intonate
le laudi, e un poeta, I acopone, ne riprender con pi intense vibra-
zioni i motivi, senza respingere i suggerimenti della poesia profana.
Questa nuova religiosit laica si spander in Toscana e in tutta I ta-
lia; ma oltre i confini del Duecento.
Se al Nord lalta cultura rappresentata dallo Studio bolognese,
nellI talia meridionale spiccano unaltra scuola illustre, quella medi-
ca di Salerno (ne verr anche uno scrittore, Pietro da Eboli), e un
centro spirituale ricco di gloria letteraria, Montecassino. I l Ritmo
cassinese sembra riproporre un esperimento tipico della prima let-
teratura francese, lalleanza, o lidentificazione, del clerico e del giul-
lare in un poemetto lirico-didattico. Ma lintento era anacronistico,
o la forza espansiva del monastero esaurita: in effetti questarea cul-
turale, che giunge sino a Roma (dove assai presto, alla met del
Duecento, si eseguono due volgarizzamenti dal latino: le Storie de
Troia e de Roma e le Miracole de Roma - ma poi nullaltro), appare
in fase di estinzione.
I nfine, la corte fridericiana. Limperatore stesso, coerentemente
al vasto programma politico, promuove e domina la confluenza di
57
I l Medioevo
varie correnti culturali che nel Sud si erano pittorescamente costeg-
giate o intersecate. da ricordare anzitutto la fusione - nella persona
stessa degli scrittori - della letteratura trovadorica, imitata per la
prima volta in un volgare italiano, e della cultura giuridica bolo-
gnese (i dotti della corte, da Pier delle Vigne a Roffredo di Benevento
e Taddeo di Sessa, avevano studiato a Bologna); e poi, entro un
orizzonte molto pi vasto, la rinascita del gusto latino, ben espressa
dagli scultori di Castel del Monte - dai quali, direttamente o no,
apprese larte Andrea Pisano -, e del diritto romano (si ricordino i
frequenti consulti dellimperatore con i maestri della ghibellina
Bologna); infine, col massimo sforzo di assimilazione, il rinnovato
studio della filosofia aristotelica, attraverso i volgarizzamenti latini
dallarabo.
una grande impresa che sembrer morire insieme col sogno
egemonico di Federico, ma i cui frutti appariranno altrove, quasi
continuando gli scambi di uomini di governo e di gruppi etnici che
limperatore aveva promosso: appariranno nella poesia e nella scul-
tura toscane, nel magistero dettatorio di Pier delle Vigne, nelle
argomentazioni della disputa sulla nobilt, nella vitalit del mito di
Federico.
I n questa tabella della vita culturale sono rimaste vuote le caselle
relative ai maggiori scrittori in latino: Innocenzo III, san Bonaventura,
san Tommaso, Egidio Colonna. Non gioverebbe a noi colmare la
lacuna: questi luminari del pensiero medievale devono riconoscere
quasi sempre e quasi in tutto il loro debito alla filosofia francese
appresa o esercitata a Parigi (o, come I nnocenzo I I I , appartengono
ad una civilt, per cos dire, extra-territoriale, quella della corte pon-
tificia): non rappresentano perci, e non iniziano (a breve scaden-
za) tradizioni ben individuabili e localizzabili in I talia - quali quelle
che abbiamo prima menzionato. E che possiamo cos schematizza-
re: unarea lombarda e veneta, con prolungamenti in Piemonte e
Liguria, immersa nella civilt romanza del tempo, e attiva anche
con opere didattico-religiose in volgare; unarea bolognese, con
propaggini in Toscana, caratterizzata dal rinnovamento del pensie-
ro giuridico e retorico, e dallaspirazione a dar maggiore dignit allo
stile. Allaltro estremo dI talia - a parte lantica Salerno solo operosa
nel campo della scienza medica, ed essendo ormai povera di presti-
gio labbazia cassinese - la varia e vivace, ma meno profondamente
radicata attivit letteraria della corte fridericiana.
I l gioco imperiale di Federico, che a nord del territorio della
Chiesa era consistito in mosse audaci ma naturalmente episodiche
58
La Critica Letteraria
di diplomazia e alleanze, di guerre combattute e fomentate; che
perci aveva utilizzato le energie preesistenti, e destinate ad altre
fortune, di signori feudali e di Comuni ormai maggiorenni, a sud,
ove si poteva esercitare unazione pi costante e unitaria, si scontra-
va invece con la forza dinerzia di privilegi nuovi e antichi, di variet
etniche e linguistiche, non turbata e vinta da quella riscossa dellini-
ziativa e dello spirito dindipendenza che era legata, nel Nord, al
fervore dei commerci e degli scambi, alla prima organizzazione in-
dustriale. Non per nulla decadevano Amalfi e Bari, e ampliavano i
loro mercati Genova e Venezia e Pisa.
In realt, mentre la scena sembrava dominata dalla lotta tra Chiesa
e I mpero, le comparse, e cio i Comuni, si preparavano a ruoli di
primo piano. Gi i primi fenomeni di cultura organizzata, cui ab-
biamo accennato, sono resi possibili dallesistenza di citt e di ordi-
namenti democratici: mentre la vita errante del trovatore era condi-
zionata dalla varia fortuna e dai vari umori dei signori, mentre il
giullare doveva inserirsi nella corrente delle devozioni e delle fiere,
mentre il dotto si rivolgeva a unideale societ di confratelli, solo
nella stabilit delle istituzioni, nella formazione di una classe sia pur
modestamente colta, nel riconoscimento e nella collaborazione del
pubblico la vita letteraria poteva costituirsi basi solide.
Per questo la nostra storia letteraria delle origini coincide in gran
parte con la storia dei Comuni. I l Comune significa la formazione
di una nuova classe di imprenditori e commercianti e artigiani che
nella cultura vedono prima uno strumento di lavoro, poi la speran-
za di una nobilt acquisibile, e che alla cultura portano un abito di
osservazione e di esperienza umana tale da rinnovare in modo pro-
fondo il gusto medievale; significa pure la fine delle concezioni feu-
dali, la creazione di nuovi rapporti associativi che necessariamente,
entro le dimensioni dottrinali del tempo, dovevano rifarsi al vec-
chio diritto romano, a un ideale sia pure approssimativo della
classicit (per questo rinasce il termine res publica, e ogni Comune
si cerca o si inventa un fondatore romano). I n questa opera di rin-
novamento ebbero forse una parte i movimenti ereticali, specie in
Lombardia e in Toscana; certo comunque che la civilt comunale
era spiccatamente laica, anche quando i rapporti coi vescovi erano
buoni, anche quando le citt erano guelfe. Linsegnamento era sem-
pre pi spesso affidato a maestri e scuole secolari, ed era ordinato
soprattutto a fini pratici; la media cultura era ormai nelle mani di
giudici e notai e maestri, cio di laici, dalle cui schiere uscirono
nella grande maggioranza gli scrittori delle origini e persino le ini-
59
I l Medioevo
ziative di arte religiosa, come la costruzione di chiese, erano prese
da associazioni laiche.
E gi si rinnovano le fondamenta ideologiche della nuova socie-
t. in questo periodo - per citare un caso sintomatico - che si
dibatte in I talia, sulla base delle invenzioni cavalleresche e
trovadoriche (leccellenza delle imprese, lelevatezza del sentire, come
patenti di nobilt), e con argomenti dei trattatisti mondani (An-
drea Cappellano) o filosofico-religiosi (Guglielmo Peraldo), la di-
sputa sulla nobilt: dalle eleganti quaestiones formulate alla corte
fridericiana, sino alla nobile e solitaria meditazione di Guittone e
alla calda perorazione del Convivio.
I Comuni si trovano spesso in grado di svolgere unazione poli-
tica capillarmente estesa e rivoluzionaria. Si rinnovano, per esem-
pio, i rapporti di collaborazione tra le varie cellule cittadine: in base
a necessit commerciali e finanziarie vediamo collegarsi Milano con
Genova; Firenze con le citt romagnole e Genova e Venezia; e fuori
dI talia si delinea ormai una carta geografica di rappresentanze e
mercati lombardi, toscani, genovesi dal Portogallo al Levante, dalla
Provenza alle Fiandre. Una rete che la Chiesa utilizzer per le sue
riscossioni nei paesi cristiani, e con la quale cercher di spazzar via
dalla penisola gli eredi del programma imperiale, i nuovi aspiranti
egemoni: Manfredi, Ezzelino, Uberto Pallavicino - agevolando in-
tanto laffermazione di Firenze bianca su tutta la Toscana - e che poi
continuer a reggere con laiuto di principi stranieri.
Nel Medioevo romanzo la prosa si sviluppa quasi sempre pi
tardi della poesia: rivelandosi la coscienza di autonomia del volgare
sul piano linguistico della comunicazione, naturale che essa si espli-
chi dapprima in fenomeni collettivi: di carattere sacrale (narrazioni
ed inni agiografici o comunque edificanti) o guerresco-feudale (can-
zoni di gesta, serventesi) o mondano (lirica amorosa); e col costan-
te sostegno della musica e del ritmo. La prosa, impegnata a unespres-
sione pi riflessa e tecnica, costretta a cercare nel silenzio una diffici-
le agevolezza e armonia di suoni, fatica molto maggiormente ad
abbandonare la vecchia veste latina; n, considerati i suoi contenu-
ti, e di conseguenza il suo pubblico, ne sente lurgenza.
I n I talia, dove si presero dapprincipio a modello i risultati delle
altre letterature pi precoci, non ci si allontan molto da questo
indirizzo generale. Pi che la partecipazione diretta allinvenzione
agiografico-poetica e cavalleresca nella pianura padana, e pi che la
creazione di poemetti religiosi nellI talia centrale, ci interessa qui,
per i risultati ben altrimenti decisivi, la comunit della
60
La Critica Letteraria
sperimentazione e della collaborazione nella tecnica lirica dalla Sici-
lia alla Toscana a Bologna (e da Guittone agli stilnovisti al Petrarca),
a cui corrisponde una certa resistenza verso altri filoni di cultura
(per esempio quello classico: rari, nella lirica, i riferimeuti ad autori
latini). Pi difficile era invece, per un letterato, strappare contenuti
descrittivi e raziocinativi, insomma prosastici, alla tradizione e alla
comoda consuetudine latina. Occorreva che lattenzione del pub-
blico, la ricerca di un pubblico, imponessero questo sforzo; i primi
esempi di prosa volgare, che rispondono soltanto a necessit prati-
che, costituiscono appunto un primo avvio sulla corrente presto
impetuosa della letteratura divulgativa.
La storia della prosa volgare nel Duecento trova dunque le sue
ragioni, se non la sua necessit, nellampliamento dellarea di perti-
nenza della cultura (o, in altre parole, nella diminuzione dei dislivelli
culturali); e consiste nello sforzo di dare anche al volgare prosastico
una dignit formale, una tradizione. [...]
nellambito delle convenzioni giuridiche che il volgare
riesce ad aprire, in I talia, una breccia nella barricata latina: premen-
do come un oscuro istinto nella mente dei menanti meno colti, o
invece soddisfacendo lovvia esigenza di rendere intelligibile ai testi-
moni il contenuto dei documenti (motivi analoghi agirono nella
compilazione dei formulari di preghiere). I ncontriamo cos da un
lato la carta rossanese, la carta fabrianese, ecc., dallaltro i placiti
cassinesi, la carta picena, la dichiarazione pistoiese, il breve di
Montieri, la carta sangimignanese. La successione cronologica ci fa
passare da unarea che si potrebbe definire cassinese ad unarea to-
scana; ma la zona in cui questo processo di simbiosi tra luso giuri-
dico e il volgare giunge ad esiti pi rilevanti quella bolognese.
Caratteristico della fioritura giuridica di Bologna era lo stretto
legame, anche istituzionalmente consacrato, del diritto e della reto-
rica: alla dignit esterna - diplomatica e calligrafica - dei documenti
si volle far corrispondere una dignit interna, stilistica. Furono cos
accolte e svolte esperienze che avevano gi avuto notevole elabora-
zione a Montecassino e alla corte papale. Di queste esperienze ven-
ne presto a beneficiare anche il volgare, quando non solo fu stabili-
to che gli aspiranti notai mostrassero, negli esami, qualiter sciant
scribere et qualiter legere scripturas, quas fecerint, vulgariter (1246)
- e gi prima Piero d Boattieri dava istruzioni per la versione in
volgare, a voce, degli strumenti notarili -, ma si incominci a sten-
dere traduzioni, o persino a comporre formulari in volgare: alludo,
oltre che agli scritti di Guido Faba, al frammento di Rainerio da
61
I l Medioevo
Perugia.
La promozione del volgare in Guido Faba davvero brillante:
esso assume di pieno diritto funzioni che sembravano riservate al
latino, e del latino accoglie soprattutto il prestigio formale: gli artifizi
retorici, il cursus. Le composizioni di Guido debbono servire di
modello, o di falsariga: sicch la loro attuale astrattezza contiene in
potenza una validit reale: ch nello scrivere a un principe o nel par-
lare a un vescovo, nellinsediare un podest o nel presentare unamba-
sciata, si ricorreva appunto a quelle, o ad analoghe formule.
I l magistero giuridico dunque abbracciava anche il campo dei
rapporti politici: ed proprio tra questi due poli - giuridico e poli-
tico - che scocca la maggior scintilla nella storia della prosa
dugentesca.
Occorre anzitutto che spostiamo lo sguardo a sud
dellAppennino. Gi s detto che la Toscana aveva dato un notevo-
le contributo di uomini allo Studio di Bologna, ricevendone, quasi
in contraccambio, numerosi docenti. Ma sino alla met del Due-
cento non si possono cogliere in alcuna sua citt tracce notevoli di
un ambiente letterario. I n altri campi eccellono allora i Toscani:
quelli del commercio e delle finanze. Non per nulla i primi testi che
ci rimangono, assai antichi, sono libri di conti. Sulla base di questi
interessi pratici stava per per sorgere una potenza economica di
importanza europea; ispirati da questi interessi sinfittivano i con-
tatti con i principali centri culturali del tempo. I l notaio assisteva il
commerciante e il banchiere nelle loro operazioni, li seguiva nei
loro viaggi; quando il Comune incominci a giocare su un vasto
scacchiere politico, era ancora al notaio che si affidavano i contatti
diplomatici e la compilazione dei trattati.
Da Bologna a Firenze; da Gluido Faba a Brunetto Latini. Se le
formule di Guido potevano avere, o anche non avere, attuazione
pratica, Brunetto in grado di inserire nel Tresor, a modello, atti
ufficiali del Comune di Siena: la pratica salda il suo debito con la
teoria. Certo, Brunetto acquista nei suoi viaggi in Spagna e in Fran-
cia unapertura di pensiero europea: il suo Tesoretto trapianta in
I talia il seme dei poemetti allegorici donde in Francia era recente-
mente germogliato il Roman de la rose; il suo Tresor la pi ricca e
ben costrutta enciclopedia volgare, anche rispetto alla Francia. Ma
occorre qui sottolineare lattivit pi specificamente retorica di
Brunetto: il volgarizzamento del De inventione, la traduzione delle
orazioni ciceroniane. Nel tradurre il De inventione Brunetto mette
ben in chiaro che la retorica non riguarda soltanto le piatora che
62
La Critica Letteraria
sono in corte [= tribunale]:, ma insegna a dire appostatamente
sopra la causa proposta, la qual causa no pur di piatora n pur tra
accusato e accusatore, ma sopra laltre vicende, s come di sapere
dire in ambasciarie e in consigli d signori e delle comunanze e in
sapere componere una lettera bene dittata.
I mmenso fu perci lincentivo dato dalle necessit del governo
democratico allo studio della retorica e dei classici dellelocuzione
(mai in I talia si lessero e tradussero con tanta passione Cicerone e
Sallustio) e alla formazione di una letteratura cancelleresea (Dicerie,
Parlamenti). una sfera di rilevanza pratica che gi tocca aree esteti-
camente vive: larte del dire viene ormai ricercata e ammirata al di l
della sua utilit. Si sviluppa il gusto (certo favorito da una vocazio-
ne naturale) del discorso costruito a regola darte, solennemente
intonato, o abilmente insinuante, o spiritosamente conciso; si ap-
prezza soprattutto lespressione pregnante ed epigrammatica, il mot-
to, con una tradizione che dal Ritmo di Travale, attraverso il No-
vellino, trover la sua perfezione nel Decameron (Paolo da Certaldo
esortava gli oratori ad esprimersi con nuovi vocaboli e intendenti,
per che molto se ne diletta la gente). Ma la partecipazione di
ampi strati della cittadinanza alla vita del Comune diede, e ci con-
ta ancor pi, una spinta vigorosa alla naturale tendenza ad elevarsi
culturalmente. Sete di sapere e attivit di divulgazione culturale si
venivano incontro lungo una strada ormai ben tracciata. [...]
La fioritura letteraria, e specialmente prosastica (la lirica , per
sua stessa natura, pi riservata e aristocratica), fin dunque per co-
stituire una presa di coscienza del mondo da parte di persone che,
senza consacrarsi agli studi, guardavano tuttavia la realt con occhio
acuto. proprio in questo periodo che si moltiplica il numero del-
le scuole, spesso comunali o private, con programmi dinsegnamen-
to scarni e funzionali: leggere, scrivere, far di conto, sono obiettivi
limitati e pratici, che i buoni commercianti e artigiani supereranno
poi nel fondaco e nella bottega, o specialmente in ore di libera let-
tura. Ogni ramo del sapere ne riesce fortemente influenzato: il me-
todo divulgativo, da tramite inevitabile alla conoscenza, accenna a
divenire forma mentale, concetto pragmatico della cultura. Trascu-
rata la speculazione teologica o metafisica (si ricordi la novella XXI X
del Novellino), alla religione si chiedono soprattutto norme di con-
dotta morale o civile: sapienza classica e sapienza cristiana, conta-
minate con disinvoltura sempre maggiore, si distribuiranno nei pa-
ragrafi dei manuali di vita pratica, e si troveranno allato le conside-
63
I l Medioevo
razioni disincantate, i consigli opportunistici e gretti scaturiti dal-
lesperienza. Questa innovazione fu resa possibile dallevoluzione
dei trattati morali, che prima si svincolarono dalla gerarchia delle
attivit e delle virt umane istituita dal pensiero pi decisamente
religioso (sicch a poco a poco si cess di registrare ci che apparte-
nesse esclusivamente alla sfera dellinteriorit e dellastrazione, e si
dedicarono invece nuovi capitoli al concreto e al quotidiano: si
confrontino la Somme le roi con i contratti di Albertano; lo
Speculum morale con i Documenta antiquorum), e poi, nel Tre e
Quattrocento, spezzarono ogni schema a priori, seguendo invece il
progresso - o la memoria - di unesperienza personale (penso a Pao-
lo da Certaldo, al Morelli, a tanti altri). ci che si avverte anche
nella storia degli exempla, che si liberano da strutture didascaliche
e, assorbita in s la propria moralit, divengono specchi della vita
feconda di nuove combinazioni (Novellino).
Lapprendimento dellarte del dire, la fondazione di un codice di
comportamento, losservazione del mondo umano, sono interessi
che gi indirizzavano a letture duna certa ampiezza. Ma questa so-
ciet giovane e priva di recenti tradizioni si gett sulla storia (sem-
pre coltivata anche nei secoli pi grigi) con lansia di creare una
prospettiva pi vasta al proprio operare. Scarsa maturit storicistica
e abitudine moralistica traspongono spesso laneddoto in esempio,
la storia in mito: che anche un modo di attualizzare.
Cos dai materiali di varia origine che i nuovi interessi culturali
avevano saputo raccogliere, vien fuori un piccolo tesoro di perso-
naggi storici o leggendari degni di dominare, per la loro virt o per
la loro sapienza o per la loro attitudine al simbolo, i territori del
mito, sui quali infatti essi si schierano non in base a precedenze
cronologiche o geografiche, bens, seguendo le grandi partizioni dei
significati pragmatici, secondo le loro misure simboliche. Per farsi
unidea di questo fenomeno fondamentale dello spirito dugentesco,
basta accostare i Fiori di filosafi alla Commedia: nonostante il mira-
bile acquisto di spazio e limpidezza storica attestato da questa ri-
spetto a quelli, le scene esemplari si staccano nelluna e negli altri
con la medesima nettezza di contorni, istituzionalizzate, infine, ne-
gli intagli e nelle visioni ammonitrici del Purgatorio.
Gli eroi del mito sidentificano cos con gli ideali della nuova
societ, o recuperano nei valori ancora attuali le idealit cavallere-
sche, o incarnano le forze avverse e conservatrici, o rappresentano,
pi complessamente, e sotto un alternarsi di luci dammirazione e
dodio, solo la propria personalit, giganteggiante nella storia. Solo
64
La Critica Letteraria
come connotazione accessoria portano, questi eroi, i segni della loro
origine: e avranno gesti ed espressioni cavalleresche i protagonisti
dei romanzi, e riflessi di ricchezze favolose incorniceranno i perso-
naggi orientali.
Ma bisogna escludere la storia di Roma: sentita, pi intensa-
mente che in addietro, come appartenente a quella stessa civilt ro-
manza. Ci significa che gli eroi esemplari di Roma antica rappre-
sentano, oltre che la propria funzione mitica, i simboli di una socie-
t civile che ritorna ad essere, dopo i secoli feudali, un modello da
imitare: chi dir che fosse sanza divina inspirazione, Fabrizio infi-
nita quasi moltitudine doro rifiutare, per non volere abbandonare
sua patria? Curio, da li Sanniti tentato di corrompere, grandissima
quantit doro per carit della patria rifiutare...? e Muzio la sua mano
propria incendere...? Chi dir di Torquato, giudicatore del suo fi-
gliuolo a morte per amore del pubblico bene, sanza divino aiutorio
ci avere sofferto? ecc. (Convivio).
I l ricordo di Roma, che specialmente in I talia era perdurato con-
solante e ammonitore, si trasforma in sentimento attuale, vivo, quasi
che solo una pausa condannata alloblio dividesse loggi da un ieri
glorioso. Sar opera degli umanisti approfondire questa coscienza e
trasformarla in azione coerente; ma nel Duecento colpisce ancor
pi il constatare come i quadri storiografici medievali si aprano in
direzione di una idealizzata memoria della latinit: e Cesare e Cice-
rone rappresentino una vicenda che ancora commmuove e pare ri-
flettersi nel presente; e i pericoli della Repubblica, le mene di Cati-
lina, siano narrati e letti con partecipazione rinnovata.
Era facile rinnovare questa partecipazione: le istorie, alle quali i
Toscani non avevano bisogno di essere esortati, sublimavano in una
prospettiva universale la passione politica che era allora il sentimen-
to pi vivace, arrabbiato: forsanche al di sopra dellinteresse perso-
nale. Questa passione - che costituiva un altro segno della rinata
coscienza collettiva, entro i limiti delle prime cellule comunali - era
riuscita a prorompere quando ancora la lingua balbettava le sue pri-
me frasi in volgare (Ritmo bellunese, Ritmo lucchese); aveva sug-
gerito la balenante concisione di una lettera senese del 1260; e mentre
saliva subito sulle alture di uneloquenza robusta e senza residui per
opera dei poeti (gli anonimi autori di serventesi; Guittone altret-
tanto efficace nella prosa della lettera XI V, - Chiaro Davanzati), riu-
sciva a dare efficacia allo stile generalmente monotono dei cronisti:
poteva insomma balzare dallimproperio popolaresco, magari
esternato in forma di proverbio, alle invettive della Commedia.
65
I l Medioevo
Nelle sue forme pi immediate, questa passione ispira la
partigianeria di Comune e di partito; nelle pi mature, si esprime
con la polemica, quasi tutta in lingua latina, sui diritti della Chicsa
e dellI impero. Come grado intermedio si pu indicare la ricerca,
svolta con metodo storico o pseudostorico. di ascendenze secolari
al moderno sistema di forze: quando gli storici, com loro abitudi-
ne nel Due e Trecento, iniziano il loro racconto dalla lotta tra Cesa-
re e Catilina o dalla fondazione di Fiesole, essi cercano di portare su
un piano pi grandioso e venerando le lotte alle quali partecipano.
Ed questa trasposizione che innalza anche il potenziale emotivo
delle vicende passate: citiamo - per tornare allattualit di Catilina
nella Firenze preumanistica - il confronto istituito da Dino Compa-
gni tra Corso Donati e Catilina, non senza reminiscenze sallustiane:
Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma pi cru-
dele di lui, gentile di sangue, bello di corpo... con lanimo sempre
intento a mal fare, col quale molti masnadieri si raunavano e gran
seguito avea, molte arsioni e molte ruberie fece fare... (Cronica).
Di qui la particolare propensione, italiana e toscana, alla storia:
che si sviluppa, talora, caratteristicamente, come un allargamento
del registro contabile o della memoria familiare, costituendo una
tradizione che va da Ricordano Malaspini a Giovanni di Pagolo
Morelli. Storia contemporanea, sintende (a parte certi fantasiosi
blasoni familiari), che rievoca la cronaca, anche la cronaca nera, di
un ambiente ancora provinciale: dove la rottura di un fidanzamen-
to pu dividere in due fazioni una citt, dove le operazioni militari,
per lo pi modeste, sfogano la furia di risentimenti campanilistici.
Nella seconda met del Duecento, infatti, occorre registrare un
fitto movimento nello scacchiere politico: quello, appunto, che
occupava maggiore spazio nelle cronache. il momento di accen-
narvi, ora che la nostra attenzione si fermata, e definitivamente, in
territorio toscano. I n poche parole, si tratta del predominio pro-
gressivamente affermato da Firenze sulle altre citt toscane: prima
su Volterra, Pistoia e Arezzo; poi su Lucca e Siena; infine su Pisa.
Posizione geografica, organizzazione industriale, abilit nel commer-
cio. alleanze, ultimi privilegi feudali, presenza di seggi vescovili:
queste sono le principali sorgenti di energia a cui attinsero le citt
toscane in una lotta capillare e continua. Firenze ebbe il sopravvento:
ma le tracce della resistenza durata dalle citt vicine sono abbastanza
numerose. La pi nota la presenza nei testi fiorentini di elementi
linguistici provenienti dalle altrc citt toscane; la pi curiosa, in
sede letteraria, il predominio conservato dagli scriptoria di Pisa,
66
La Critica Letteraria
Arezzo e Siena: sicch leggiamo quasi sempre in trascrizioni non
fiorentine le opere composte a Firenze.
Linteresse per il passato rientrava dunque nella coscienza, e per-
sino nella passione presente. Ed caratteristico della situazione
dugentesea il campeggiare - nel sentimento - di rancori provinciali
se non familiari, quando ormai lorizzonte - nel freddo calcolo degli
interessi finanziari - ha un diametro che congiunge il Levante sino
alla Cina, con le Fiandre, e - nel sistema degli equilibri politici -
inscrive unEuropa gi progrediente verso grandi raggruppamenti e
grandi schieramenti.
Di fronte a questo orizzonte lo sguardo tuttaltro che disatten-
to; ma sereno, pacato. I viaggi sono subito accompagnati da una
letteratura descrittiva che sinnesta immediatamente nel filone dei
notiziari sui cambi, sulle merci, sui porti (come la cronaca in quello
dei libri di conti); e che segna un primo avviamento alla curiosit
scientifica ed etnografica. Questa letteratura pu essere considerate
come il punto di convergenza di numerose tradizioni e aspirazioni.
Perch, come lautocoscienza del cittadino si sviluppa in seno alla
sua attivit pratica, cos losservazione di uomini e paesi precedeva e
stimolava la curiosit verso la natura e le sue leggi; e perch alle
esigenze della fantasia, soddisfatte in genere dagli avvenimenti del
passato o da finzioni romanzesche non indigene, si offrivano gli
amplissimi pascoli delle regioni acquisite insieme al commercio e
alla conoscenza diretta. Da questa convergenza di aspirazioni nasce
la fisionomia del Milione - tanto diffuso anche in Toscana: in cui
linchiesta di prima mano rafforza e contiene il primo nastro di fan-
tasie e travisamenti pseudoscientifici di cui pure essa costituisce un
punto di arrivo; in cui le cose viste e il tono da memoriale cam-
peggiano su uno sfondo novellistico e talora epico per il quale Mar-
co Polo pi dovette sentire necessaria la collaborazione di
Rustichello.
I n verit, il Milione e la Composizione del mondo, qualunque
sia il loro valore nella storia delle scienze, sono i primi segni di una
conoscenza non mediata del mondo. I l carattere compilatorio della
scienza medievale (oscillante tra superstizione e simbolismo), dopo
aver subito i primi colpi nel settore della matematica - sensibile alle
esigenze della prassi commerciale e creditizia -, in queste due opere
appare gi minacciato dalla osservazione e dalla sperimentazione. E
cos le monotone nomenclature di Ristoro sono animate dallentu-
siasmo e dalla risolutezza dello scienziato che controlla, interpre-
tandole, le leggi della natura; [...] lo schedario dei fenomeni avvia
67
I l Medioevo
alla contemplazione dellarmonia tra le forze del cosmo e la natura
familiare che ci circonda. [...]
Certo, per questa esplorazione del mondo gli I taliani non posse-
devano ancora un grande assortimento di strumenti nautici: ai qua-
li, nelle prime fasi, utilitaristiche, di attivit, non si era ancora potu-
to provvedere. Bussole e goniometri culturali furono avvedutamente
cercati nel mercato pi ricco e sicuro, quello francese: si trattasse di
compilazioni scientifiche o morali, storiche o filosofiche. Non solo:
ma si accolsero con pochi adattamenti persino le convenzioni socia-
li e le invenzioni letterarie, annettendo cos, di fianco al proprio
passato, il passato e il presente della nazione vicina e pi evoluta.
Scorcio estremamente audace dei volumi storici, mitici e teoretici:
tale il risultato di una vorace acquisizione dei precedenti culturali.
Lantichit viene recuperata prima dessere ben compresa (sar que-
sto il compito dei tre secoli successivi), dai prossimi mercati lettera-
ri simportano sistematicamente non solo le compilazioni
didascaliche - le quali potevano svolgere con facilit la loro funzio-
ne in un ambiente diverso - ma anche le invenzioni cavalleresche e
cortesi cos profondamente radicate nel nativo terreno ideologico
(nella battaglia di Campaldino, afferma la Cronica fiorentina, gli
Aretini fecero xij paladini tra loro, e pi gagliardamente combattero
che giamai facesse paladini in Francia). La riuscita del trapianto -
tanto fortunata da poter condurre a un Morgante, a un Orlando
innamorato, a un Orlando furioso - scopre la necessit profonda di
questa operazione: cera da arredare un ampio spazio mentale, e il
nuovo mobilio trov a poco a poco lubicazione e lilluminazione
pi opportune. E occorre aggiungere che leggende e convenzioni
cavalleresche giungevano in I talia nelle redazioni pi recenti, col
marchio di un ambiente non pi tanto diverso (pure nella Francia
del Duecento si registra un imborghesimento e una maggiore diffu-
sione del costume signorile, divenuto ideale comune, anche se ar-
duo). E daltra parte in I talia il rinnovamento comunale si faceva
strada in un paesaggio ancora caratterizzato da elementi feudali: sic-
ch la civilt poteva far suoi, trasformandoli, certi modelli di gene-
rosit e magnanimit e gentilezza che non si riferivano soltanto a
fantasie romanzesche, ma a realt prossime nel tempo e nello spazio
(dalle corti paesane alla curia di Federico), che vivevano ancora nel-
la tradizione familiare della media nobilt toscana pur immersa nel-
la vita del Comune e prossima allassimilazione con i compagni di
lotte politiche. I l costume nobiliare, ideale sia pur remoto, trover
unalta celebrazione nelle novelle eloquenti del Decameron, che per
68
La Critica Letteraria
altro irrorato dalla vitalit irrefrenabile delle nuove classi.
Lusucapione dei temi avviene ( la via pi spedita) attraverso
unusucapione di testi: questo il secolo del volgarizzamento; e
non si pu attuare con calma la discriminazione delle opere (Bono
Giamboni traduce lArte della guerra di Vegezio, le I storie di Orosio,
la Miseria delluomo di Lotario Diacono); ed ancora scarso il ri-
spetto dei diritti dautore, e persino dellintegrit dei testi, mescola-
ti e sovrapposti (possiamo riferirci di nuovo a Bono). Del resto la
distinzione tra volgarizzamento e opera originale assai elastica: se
Bono tratta come cosa sua la materia del De miseria, rifacendone la
cornice, eliminando e agginugendo capitoli, riassumendo e amplian-
do, e guardandosi dal riconoscere il suo debito verso Lotario e le
altre sue fonti, daltra parte i racconti del Novellino (spesso, per
quanto ci consta, abilmente rielaborati), son talora dedotti quasi
alla lettera da raccolte affini.
Pi frequentemente che testi latini, si tradussero testi francesi:
limpegno richiesto era molto minore, per affinit di lingue e per
affinit di spiriti. E ci non vale solo per scritti recenti: opere della
letteratura latina o in latino si diffusero in I talia per tramite france-
se: il Roman de Troie, i Fets des Romains, i Dits des philosophes, il
livre dou gouvernement des rois, in concorrenza con lEneide, il
Catilinario, il Liber de dictis philosophorum, il De regimine
principum. La rassomiglianza dei due volgari permetteva a tradut-
tori indolenti di ripetere, con pochi ritocchi fonetici, le parole in
cui si imbattevano; ma costituiva gi la base per un cosciente e vivo
pastiche in scrittori come quello del Fiore. Dapprima, anzi, il rico-
noscimento della tradizione didattica doltralpe aveva suggerito di
comporre senzaltro in francese: onde il Tresor, il Divisament dou
monde (o Milione) - a parte altri motivi contingenti e personali.
I l toscano, insomma, era in principio estremamente ricettivo
verso le forme galliche, la cui progressiva eliminazione, riscontrabile
nella tradizione manoscritta dei testi, indica non linnalzamento di
una barriera, ma almeno un tentativo di controllare il transito lin-
guistico. I ntanto, le compilazioni francesi mettevano a disposizione
del pubblico un sistema di nozioni, di fantasie, di suggerimenti gi
armonizzati al servizio di una societ moderna: gi in Francia sera
attuato, contemporaneamente alla celebrazione letteraria dei nuovi
ideali, lo spoglio dei materiali ancora fruibili della cultura classica e
medievale. Ci serv, in I talia, come un suggerimento.
La cultura toscana non sorge dunque su un terreno precedente-
69
I l Medioevo
mente dissodato, ma si svolge come un aspetto della formazione e
dellaffermazione di una civilt economico-politica. Da ci deriva-
no, in gran parte, le sue caratteristiche originali: perch tra le offerte
delle precedenti imprese culturali la Toscana pot liberamente acco-
gliere e respingere, e accogliendo trasformare e assimilare. Gli scrit-
tori toscani, dopo un breve periodo di apprendistato, ripercorrono
la strada per conto loro, ben attenti per a ci che gli altri hanno
fatto; e in pochi decenni possono salire su posizioni dominanti.
Sintomatico segno di questa maggior libert rispetto a regioni cul-
turalmente gi illustri , per esempio, il progressivo incremento dei
volgarizzamcnti dal latino rispetto alle versioni dal francese, che pure
offrivano il vantaggio di una facilit non solo linguistica, ma
contenutistica. E il metodo del volgarizzamento viene presto prefe-
rito a quello del rimaneggiamento (che pure sarebbe dovuto riusci-
re accattivante come tramite di attualizzazione) e si caratterizza per
la costante fedelt alle forme prosastiche. Queste preferenze (per
fonti latine, per versioni aderenti, per la prosa) sono da collegare
col fatto che non preesistevano convenzioni narrative a cui dover
adeguare questi prodotti, se non daltra forma mentale, certo daltra
lingua (si pensi invece alla letteratura didattica lombarda in ottonari).
Ne risult un contatto pi proficuo, un avvicinamento magnifico
al mondo classico, da cui presto il Petrarca e il Boccaccio avrebbero
saputo trarre le conseguenze. un poco ci che avviene nella lin-
gua: il fiorentino, che fu poi italiano, ginugendo a solidificare le sue
strutture pi tardi daltre lingue romanze, ed essendo meno di esse
influenzato d fatti di sostrato e di superstrato, si orient con sicu-
rezza verso il modello latino, raggiungendo in breve un assetto de-
finitivo.
cos possibile spiegarsi gli atteggiamenti gi classici,
prerinascimentali della letteratura toscana; e larchitettura offre un
parallelo impressionante. Perch non solo questione di moduli
greco- latini trascritti da sarcofagi e costruzioni paleocristiane, e ri-
prodotti in organismi diversi - fenomeno verificatosi ripetutamente
in tutta larchitettura occidentale -, ma di una particolare fedelt al
ritmo, ai rapporti, allo spirito: di cui sono esempi ovvii il battistero
di San Giovanni e San Miniato al Monte. Anche qui, ci pare, oltre
a unimponderabile sintonia del gusto, che ci azzardiamo a tirare in
causa, giovava la relativa lontananza dal grande movimento
architettonico lombardo e, pi generalmente, romanico (la Tosca-
na, per esempio, non partecipa agli esperimenti nelluso della co-
pertura a volte: rimane ferma alla pi semplice soluzione delle
70
La Critica Letteraria
capriate): nessuno schema tecnico o estetico si sovrapponeva alle
linee del monumento classico.
CESARE SEGRE
da I ntroduzione di C. Segre a La prosa del Duecento, a cura di
C. Segre, e M. Marti Napoli-Milano, Ricciardi, 1959, pp. VII-XIV,
XV-XXVI
71
I l Medioevo
Il fiorentino del duecento
1. Anche attraverso la storia linguistica si pu tentare di definire
ci che intrinsecamente legato a Firenze, ci che si intende per
fiorentino. Passano gli uomini e le generazioni, si corrodono le mura
e le case, e uno spirito rimane, quella forza inconscia che trattiene i
fiorentini cos saldamente uniti alla loro citt e, attraverso la grazia
del parlare, incatena quelli venuti di fuori. Questa forza pare eterna.
Ma eterno non vuol dire immobile. E qui si tratta invece di
introdurre e descrivere la fiorentinit di tutti i tempi, che non
stata mai la stessa e che ci propone il grande problema, come nata,
e come ha potuto affermarsi.
Una introduzione lontana alla storia di Firenze non pu essere
fatta del resto con argomenti diversi da quelli linguistici. Questi
soltanto possono offrire fin dallantichit pi remota due aspetti
fondamentali del problema: lisolamento della Toscana e la
insignificanza originaria, e la tardivit della sua futura capitale, Fi-
renze.
2. I l discorso comincia da lontano. Lingua latina non vuol
dire un punto fermo ma una corrente imponente di tendenze e di
fatti, che vanno dalla pi arida grammatica a un capitolo di storia
della cultura pieno di significato. Non infatti una struttura di
suoni e di forme del latino classico, o ancora peggio del latino vol-
gare, ci da cui prendiamo le mosse: ma questo grande ambiente, la
Toscana doggi, lEtruria di allora, nella quale venuta a insediarsi
in circostanze caratteristiche, e per cos dire fortunate, la tradizione
linguistica romana.
Questo ambiente aveva, ho detto, una caratteristica speciale, liso-
lamento. Se noi guardiamo la situazione attuale per la quale Firen-
ze, a met strada esatta tra Roma e Milano, soffre degli inconve-
nienti del troppo facile passaggio, non possiamo immaginare con-
trasto pi evidente. Nella preistoria pi lontana, la regione padana,
lApulia e la Sicilia costituivano i punti di arrivo delle grandi cor-
renti di cultura in I talia. E le grandi vie di comunicazioni fra nord e
sud corrispondevano invece, fino alla conquista romana, allasse delle
vie Flaminia e Salaria. Chi veniva dal nord evitava di attraversare il
Tevere, mantenendosi sulla sua riva sinistra. Fiesole, madre di Firen-
ze, era una citt etrusca notevole, ma fuori di qualsiasi corrente im-
portante di traffico.
Questo isolamento ha fatto s che al tempo dellespansione ro-
72
La Critica Letteraria
mana, nel I I I secolo a. C., la cultura romana si trovasse di fronte a
una struttura della societ e a tradizioni linguistiche come le etru-
sche, rispetto alle quali ci potevano essere evidenti scambi, ma non
mediazioni o mescolanze. La colonizzazione romana in Etruria ha
proceduto dalle classi inferiori, risalendo verso le superiori, tenace-
mente attaccate alle loro tradizioni. I l latino di Toscana si svolto
senza alcun contraccolpo diretto da parte dellambiente.
Anche questa constatazione ha un senso se la si confronta con
quanto avvenuto nellI talia centrale a oriente del Tevere, a sud di
Roma, e in Roma stessa. La pressione demografica verso la capitale,
le affinit di lingua e di cultura delle popolazioni italiche hanno
fatto s che il peso del numero, in tutte queste regioni, si sia fatto
sentire su tutto quello che vi era di genuino, ma anche di fragile, in
Roma. Tutta lI talia centro-meridionale, salvo la Toscana, stata
italicizzata e, da un punto di vista latino, imbarbarita.
Questo si riassume nella formula sostanzialmente esatta di un
autorevole linguista italiano, C. Merlo, Etruria latina e Lazio
sannita.
3. Nemmeno lisolamento vuol dire immobilit. Chi studia
le vicende della lingua etrusca e del latino dEtruria, si rende conto
di alcune tendenze o novit, che si facevano strada secondo un an-
damento dal sud al nord, e che potremmo collegare al tracciato
della strada attuale Umbro-Casentinese lungo la Val di Chiana e il
Casentino, e la sua diramazione verso Firenze. Non solo dal punto
di vista della lingua, il significato di Arezzo, Fiesole e Volterra appa-
re come qualcosa di pi recente rispetto a quello di Caere, Tarquinia,
Orvieto.
Queste novit minute sono essenzialmente due. Luna riguarda i
nomi locali in -ena che si conservano a destra e a sinistra di questas-
se e sono sostituiti in latino, e poi in italiano, da nomi sdruccioli in
-ina come lodierno Bolsena di fronte a Volsinii lantico nome di
Orvieto, o Rasenna nellAppennino umbro marchigiano, di fronte
a Rssina in Casentino. Queste vicende, non importando ragioni di
significato, hanno potuto essere cristallizzate senza difficolt nella
lingua latina.
Laltra e pi complessa la tendenza allaspirazione delle conso-
nanti occlusive P T K. Nello svolgimento delle consonanti occlusive
dal latino alle lingue romanze i casi sono tre: o lequilibrio tra esse e
le vocali si mantiene solido come, inizialmente, nellI talia
centromeridionale non toscana; o si ha la tendenza alla lenizione,
cio a un principio di sonorizzazione per cui si passa da p a b, da k
73
I l Medioevo
a g, da t a d, come anticamente nellI talia settentrionale e oggi in
molte regioni dellI talia centromeridionale non toscana; o infine si
ha un principio di aspirazione, cio laggiunta di un soffio alla arti-
colazione delle consonanti. Questo terzo processo quello che ci
interessa.
Laspirazione era nota in Roma, parole greche contribuivano a
diffonderla. Come vezzo di pronuncia era stata oggetto di critiche
da parse di oratori pi misurati verso oratori pi enfatici. I l tipo
choronae, praechones era qualcosa di antiromano, cos dal punto di
vista del passato come da quello del suo svolgimento futuro, e si
riconnetteva forse a qualche cosa di etrusco.
Ora non si tratta per noi di ritenere come automatico che una
tendenza articolatoria etrusca sia passata direttamente nel latino
dEtruria, che anzi, proprio per le ragioni dette prima, pare da esclu-
dersi. Ma par possibile invece che una tendenza che a Roma ha
potuto passare per enfatica, in Etruria abbia potuto essere giudicata
semplicemente come elegante o elevata, e quindi si sia presentata
come un modello cui guardare con simpatia.
La conquista romana ha posto fine allisolamento materiale della
Toscana. Se si pensa allimportanza delle due vie Aurelia e Cassia, si
vede che in et romana passavano per la Toscana due grandi vie di
comunicazione. Le novit della pronuncia romana, quelle ad esem-
pio che hanno condotto a distinguere vocali aperte e chiuse, sono
penetrate anche in Toscana. Ma, accanto al processo di unificazione,
si posero ben presto, nellI mpero ormai ingigantito, problemi di
decentramento, che sono stati risolti dallimperatore Diocleziano
intorno al 300 d. C. Sostituendo allantica capitale Roma, le quat-
tro grandi capitali delle diocesi, egli creava barriere indirette, di cui
una importantissima veniva ad aggiungersi a quella geografica, pro-
prio ai limiti settentrionali della Toscana. Mentre le regioni
transappenniniche della padana continuavano a vivere la vita piena
dellI mpero e delle sue comunicazioni gravitanti in direzione ovest-
est e viceversa, la Toscana veniva ad essere, insieme al resto dellI talia
peninsulare, come appartata. Daltra parse la pressione delle corren-
ti meridionali poteva farsi sentire fino alla linea dellAmiata, del
Trasimeno e della Val Tiberina, e perci spostare ma non annullare
le frontiere preesistenti fra il latino di Toscana e quello del Lazio e
dellUmbria. Col 300 d. C. la Toscana ritorna perci, per opera di
forze nuove, a un isolamento, analogo anche se non identico a quello
primitivo. La successiva divisione per la quale la Tuscia a nord
dellArno o annonaria (distinta dalla suburbicaria a sud) gravita nel
74
La Critica Letteraria
secolo V piuttosto verso lEmilia, non sposta i termini del proble-
ma.
4. Perch la barriera venisse unaltra volta attenuata, occor-
reva una forza nuova e giovane, anche se indiretta. I l dominio dei
Goti fu troppo breve, quello bizantino troppo limitato. Fu cos che
lopposizione tra settentrione e mezzogiorno cambi natura nel
periodo longobardo che dur tre secoli: allimagine di unI talia con-
tinentale e di una peninsulare si sostitu quella di unI talia setten-
trionale con in pi i Ducati di Lucca, Spoleto e Benevento, e della
rimanente I talia meridionalc, arricchita di unI talia costiera che com-
prende le resistenze e le relazioni bizantine di Venezia, Ravenna e
Roma; queste ultime congiunte da un itinerario pi o meno corri-
spondente alla via Salaria, da Roma a Rieti e alle valli del Velino e
del Nera. I l periodo longobardo non porta a demarcazioni lingui-
stiche fondate su differenze sociali fra vincitori e vinti o fra gerarchie
ecclesiastiche legate allimpiego del latino e la predicazione ormai
fatta in volgare. Viceversa, linserimento in una cerchia storico-cul-
turale pi ampia, la frequenza di pellegrini e di mercanti su strade
conducenti a Roma ha cominciato ad attenuare gli inconvenienti
dello svolgimento dialettale troppo particolarista, della trasforma-
zione del latino in tante forme neolatine quante erano le parroc-
chie.
Attraverso soprattutto Lucca, capitale del ducato di Tuscia, si
avuto non solo la penetrazione di parole longobarde che come spanna
corrispondono allarea dellI talia settentrionale pi la Toscana, ma
la accettazione di forme dalle consonanti lenite come podere e spo-
sa (con la s dolce), di fronte a poter e casa (con la s aspra) e cos
strada e spiga e sega (di fronte a data, mica, cieca), tutte
rispecchianti pronunce settentrionali.
I nversamente ha permesso lintroduzione nel settentrione di in-
novazioni toscane o centromeridionali come le finali del verbo sen-
za s o le pronunce moderatamente palatali dei gruppi di consonate
pi l come piano al posto di plano. Su questo antefatto si sono
svolti nel periodo successivo, quello carolingio, i processi analoghi
di penetrazione di francesismi, parole come giardino o marciare, e
suffissi di derivazione come quelli in -iere (cavalier) contro quelli
indigeni in -aio.
Tuttavia il periodo longobardo non rappresenta ancora linseri-
mento definitivo della Toscana nel quadro di una comunit lingui-
stica italiana. I l marchesato di Toscana che si costituisce nel I X seco-
lo piuttosto un simbolo di organizzazione interna e di isolamento
75
I l Medioevo
esterno. I primi tentativi di autonomie locali accrescono la differen-
za delle aree toscane poste su strade, da quelle ancor pi appartate.
Cos sulla soglia della storia i dialetti toscani possono s mostra-
re novit in comune con altri dialetti, come la dittongazione di
miele dal latino mel, o innovazioni caratteristiche come le forme in
-aio (notaio) dal latino -arius. Ma sono soprattutto i dialetti non
raggiunti da innovazioni meridionali come quanno per quando o
le forme metafonetiche laziali come nel romano antico novu di fronte
a ova e soprattutto da innovazioni settentrionali come nel ligure
ggu di fronte al puro occhio; come ei da e chiusa nel ligure peive
di fronte al puro pep; come la caduta delle vocali finali nel ligure
kan di fronte al puro can, e il suo plurale metafonetico nel ligure
ken di fronte al puro cani; come la lenizione delle consonanti
intervocaliche del ligure peive in confronto di pep; e la
palatalizzazione radicale di can in confronto di quella moderata di
piano.
Questa prevalenza di definizioni negative si accorda con una
Toscana riportata allisolamento nei secoli I X e X. [...]
1. I l problema fiorentino si presenta allora in modo un po di-
verso da quello convenzionale, di una Firenze che sia un concentra-
to e un simbolo di storia linguistica, anzi italiana, fin dai tempi pi
remoti. Viceversa, riappare ora anche per Firenze, e con parecchi lati
oscuri, quellaspetto dellisolamento che, in base a elementi geogra-
fici ben definiti, aveva potuto esser riferito ragionevolmente alla
regione intera.
Figlia di Fiesole, Firenze era nata proprio per una ragione di geo-
grafia, al passaggio di un fiume importante, l dove esso esce da una
valle stretta per entrare in uno spazio aperto, anzi paludoso; fu rag-
giunta poi dalla via Cassia che discendeva il Valdarno; e, anche quan-
do si ridusse a dimensioni e a valore demografico minimo, in et
bizantina, ebbe torri, fu munita a difesa, fu contrastata e cio rite-
nuta importante. Durante il periodo longobardo, che inser la re-
gione in uno spazio pi ampio, Firenze si sottrasse a questo proces-
so, rimase appartata, e la sua storia linguistica non soltanto si inizia
dopo quella artistica e politica, ma si inizia anche dopo quella degli
altri centri toscani.
Di fronte alla fondazione del nostro Battistero e della chiesa di
San Miniato al Monte, a met del secolo XI , il pi antico dei testi
fiorentini, pubblicati dallo Schiaffini, del 1211. E i tentativi di
creare una tradizione di lingua letteraria italiana prima che a Firenze
si sono manifestati non soltanto in Sicilia e nellI talia settentriona-
76
La Critica Letteraria
le, ma in una citt toscana come Arezzo, per opera di Guittone. Pisa
per mare, Lucca per terra, ebbero un rilievo politico ed economico
precoce, rispetto al quale la tardivit di Firenze stata ormai retta-
mente intesa. I riflessi linguistici si vedono nella espansione pisana
in Sardegna, e nei caratteri dialettali lucchesi, tanto pi aperti alle
influenze settentrionali di quelli fiorentini. Viceversa la difficolt di
fissare una tradizione linguistica fiorentina appare attraverso i testi
del Duecento e come una controprova della sua soggezione ad altre
mode toscane, e per ci stesso della sue tardivit.
2. Occorreva superare cos la tendenza meccanica a saldare
testi e localit in forma rigida, a imaginare, ogni volta che la realt
rendeva impossibili le classificazioni, o un ibridismo generico o ori-
gini straniere temperate da amanuensi indigeni o origini indigene
temperate di miraggi pisani o senesi: nelle periferie delle citt si
fatto scrivere un po troppo.
Come bene ha visto lo Schiaffini, abbiamo sottocchio una Fi-
renze in cui i modelli stranieri hanno tentato di penetrare, lasciando
una traccia, e nella maggior parte dei casi scompaiono. Questo pro-
cedimento, che ha una base storico-culturale solida, si realizza nei
singoli esempi con maggiore o minore coerenza. Massima la
penetrazione dei tipi dissoro al posto di dissero: ampiamente
documentato nel XI I I secolo e poi riassorbito, risostituito dal disse-
ro, normale cos dal punto di vista del latino come dellitaliano
attuale. Non ha importanza la sua natura, morfologica piuttosto
che fonetica, di origine forse toscana meridionale: documentato a
Siena e a Cortona, da Siena raggiunge Pisa e Lucca, quindi Prato,
infine Firenze. Meno documentati a Firenze, ma nella stessa situa-
zione sono i tipi mtteno, diceno invece di mettono, dicono, di
origine pisano-lucchese. Sullo stesso piano feceno al posto di
feciono (per fecero). Altre per altri al singolare proviene ugual-
mente da Pistoia e Prato; intende per intendi allimperativo, fin
dai tempi pi remoti, riconosciuto come toscano completo, ma
non fiorentino, e cio Firenze unisola non sommersa da questa
innovazione; lengua, pongo, onto, per lingua, pungo, unto sono
caratteristici di Siena, ma non giungono a Firenze; uomeni si trova
a sud e a occidente contro uomini a Firenze; stra per star sincopato
solo in occidente; antro per altro attestato fino a Prato.
Neanche in questo caso lisolamento di Firenze vuol dire immo-
bilit. Qualche esempio di innovazioni fiorentine si trova: ma non
si va al di l di atro per altro ricordato da Dante e del tipo Lazzero,
loder al posto di Lazzaro, lodar. E il recente lavoro di A.
77
I l Medioevo
Castellani, conferma sulla base di testi di carattere pi popolare di
quelli cello Schiaffini, la singolarit del dialetto fiorentino nel qua-
dro della Toscana del XI I I secolo.
Di particolare importanza sono i casi in cui la resistenza fiorenti-
na individua Firenze rispetto ad aree non solo toscane ma anche
settentrionali. Tali gli esempi della lenizione del tipo fadiga diffusa a
Pisa e a Lucca, che raggiunge Siena (fadiga, siguro, rego, segondo)
suscitando reazioni di rafforzamento (robba, doppo), e manca a
Firenze; tale la sibilante s registrata da Dante a carico dei Pisani
contro la costrittiva z, piassa, Fiorensa; tali i tipi auto per alto pure
propri delloccidente e non di Firenze; tale la epentesi di i per rom-
pere lo iato quale Dante gi osserv nel lucchese eie lo comuno de
Lucca con eie per e, e compare solo saltuaria per es. in Andreia;
tale infine dallaltra parse l aretino, che proviene dalla Valle Tiberina
e non si estende a occidente di Arezzo.
Nemmeno di fronte a queste penetrazioni lisolamento di Firen-
ze assoluto. Lenizione settentrionale acquista diritto di cittadi-
nanza anche a Firenze in casi come podere, luogo, sega, strada ecc.
Nel caso di s intervocalica, la pronuncia irregolare fiorentina di sorda
e sonora sancisce ancora oggi uno stato di cose, intermedio tra un
settentrionale costantemente sonoro e un toscano meridionale co-
stantemente sordo.
Queste eccezioni alla formula generale dellisolamento fiorenti-
no provano la storicit dellaffermazione di una Firenze dapprima
appartata, poi sempre pi raggiungibile cos a uomini come a cor-
renti linguistiche. Esse non infirmano la valutazione generale, vali-
da fino al XI I I secolo. Deriva da questo che largomento della posi-
zione centrale non ha base storica, perch fino al XI I I secolo una
centralit appartata, allo stesso modo che in Sardegna sono centrali
i dialetti del Logudoro o a Creta le iscrizioni di Gortina. Solo per-
ch la centralit geometrica diventata una centralit storico-cultu-
rale, Firenze ha potuto cessare di essere appartata per diventare un
centro irradiante, e soppiantare la centralit di Pisa, aperta alle vie
del mare, o quella di Lucca e Siena e Pistoia, poste su grandi vie di
comunicazione.
Ma per quanto queste considerazioni accentuino il distacco fra
Toscana non fiorentina normalizzata e Firenze isolata e aberrante,
non pare si possa parlare di una struttura particolare del fiorentino,
che di un dissoro o di una piassa non risente in modo degno di
rilievo; n di una predisposizione funzionale del fiorentino ad assu-
mere una posizione direttrice; e nemmeno di una perspicuit e
78
La Critica Letteraria
bellezza nella quale meglio si continuava... limpronta fonetica
della parola di Roma. Anche qui, si deve ripetere, senza un presti-
gio storico culturale non sarebbe stata la differenza di dissoro disse-
ro, da piassa a piazza, da fadiga a fatica a determinare le sorti
imperiali del dialetto fiorentino.
E se prestigio storico-culturale fiorentino quello che nel XI V
secolo fa recuperare il tempo perduto e impone i modelli fiorentini
allI talia tutta, prestigio storico-culturale non fiorentino quello
che nel XI I I secolo ha fatto accettare, nelle diverse forme citate,
modelli non fiorentini. I l rientro dei nobili dalla campagna, realiz-
zato ai primi del XI I I secolo, potrebbe aver portato di peso dei
tecnicismi campagnoli, come lavvento al potere dellaristocrazia
terriera alla fine del VI secolo a. C. ha consacrato nel latino di Roma
dei rusticismi di sostanza e di forma. Non mai avrebbe potuto co-
stituire una affermazione di non-fiorentinit.
III
1. Di quanto la realt parla in favore di questa specie di
purit linguistica di Firenze, di altrettanto la teoria, cos dello scri-
vano spicciolo come degli scrittori, mostra di non considerarla af-
fatto. Dal pi umile fiorentino a Dante c una compattezza di atti
e di teorie nel sostenere che il fiorentino non detta legge e che si
deve scrivere secondo modelli che possono venire anche da lonta-
no: da scrivani che poco pi in l potevano guardare delle citt
toscane, e da uomini di studio che guardavano a Bologna o addirit-
tura alla Sicilia. Quando un toscano, Guittone dArezzo, prov a
serivere come gli veniva fatto di scrivere, seguendo s canoni astratti
rigorosi ma nello strumento linguistico della sua citt natale, ecco
che lo stesso Dante lo prese a partito, sostenendo che non era quella
la via migliore per avere una lingua volgare di alto livello. Se questo
era valido per Arezzo, figurarsi per Firenze. La dottrina di Dante
lineare: il volgare illustre non pu essere locale, deve essere aperto e
valido per lI talia intiera, anche se non costituito da una mescolanza
di dialetti locali.
Questa universalit della lingua letteraria non vista per in modo
astratto come avviene con le attuali lingue artificiali. La lingua let-
teraria vista attraverso unopera negativa di eliminazione di ci
che arcaico e di ci che locale, proprio come atteggiamento non
dissimile dai grammatici dellet ciceroniana, per i quali lassillante e
il rustico si confondevano nel dare alla giovane tradizione letteraria
latina un aspetto rozzo.
Quindi a ragione lo Schiaffini esclude che il volgare illustre sia
79
I l Medioevo
una sintesi, astrazione o estrazione dai dialetti. Esso solo il risulta-
to di una epurazione, dalla quale non si pretendeva che tutti i dia-
letti fossero colpiti in ugual maniera. I l volgare illustre poteva avere
un fondamento non costante, purch non avesse particolari che ur-
tassero, e non si prestasse a quelle accuse di turpiloquio che Dan-
te considera carattere comune ai dialetti, dal milanese al toscano.
2. Dante teorico perci saldamente legato al mondo nel
quale la cultura italiana e la fiorentinit si erano venute svolgendo.
Firenze non ha ancora n pretesa n potere di dettar legge in materia
di lingua. Ma se la sua tesi del volgare illustre significa un superamento
a una sintesi di dialetti, non rappresenta nemmeno un passaggio a
un riconoscimento del fiorentino per ragioni che fossero diverse
dalle storico-culturali. Si pu certo dire che la Divina Commedia
una commedia e non tragedia n canzone. Sta di fatto che la sua
lingua, come ha dimostrato N. Zingarelli in un lavoro fondamenta-
le, il fiorentino, che accoglie i latinismi, gallicismi e dialettismi
italiani per ragioni che non sono affatto quelle di renderlo pi ele-
vato: forme condannate nel De vulgari eloquentia come i barbarismi
pisani in -onno, appaiono, nientemeno, nel Paradiso
...terminonno; volgarismi fiorentini come manicare, introcque per
mangiar e intanto nellI nferno ...pensando ch i l fessi per vo-
glia - di manicar; s mi parlava ed andavamo introcque. Ma i
latinismi come appropinquare, cernere, digesto, igne non arrivano
a cinquecento e sono quasi sempre giustificati da ragioni tecniche o
stilistiche. I gallicismi come masnada, miraglio, vengiare sono po-
che decine. I dialettismi come brolo per orto e burlare per cader
dal settentrione, o sorpriso dal meridione sono ancor meno. Tutti
insieme non giustificano limagine n di una lingua di Dante
sopradialettale n di accoglimenti occasionali e bizzarri. La Divina
Commedia scritta in fiorentino.
Dante si dunque contraddetto. Ma la contraddizione, che
infirma largomentazione logica, non ha nessun peso sul terreno
estetico e storico-culturale. Nello scrivere la Divina Commedia,
Dante non ha agito in quanto teorico della lingua, ma in quanto
artista, che nello strumento linguistico fiorentino ha trovato una
realizzazione pi adeguata per le sue intuizioni. Felice contraddizio-
ne che ci risparmia di misurare artifici e complicazioni di una poesia
scritta in volgare illustre, sottomessa a regole esteriori, quasi oggi,
da un sostenitore di una lingua internazionale, si aspettasse per co-
erenza unopera di poesia scritta in esperanto se non in basic english.
3. L e condizioni storico-politiche che mutano
80
La Critica Letteraria
definitivamente la posizione di Firenze corrispondono ai due primi
decenni della vita di Dante. Si capisce che la capacit di espansione
di Firenze risale al XI I secolo, dalla morte della contessa Matilde nel
1115 agli inizi della sottomissione del contado nel 1197. Sta di
fatto che dopo la sconfitta di Montaperti nel 1260 per opera dei
Senesi ghibellini, gli avvenimenti determinanti sono stati la rivinci-
ta sui Senesi a Colle nel 1267, la sconfitta dei Pisani per opera dei
Genovesi alla Meloria nel 1284, la vittoria fiorentina di Campaldino
sugli Aretini nel 1289.
Le condizioni storico-culturali si verificano subito dopo. Nelle
arti, S. M. Novella si inizia nel 1278. Nel campo delle lettere la
prosa del Boccaccio salda la tradizione latineggiante con la giovane
fiorentina e affianea al modello dantesco un tronco di tradizione
prosastica solido e insieme suscettibile di svolgimento ordinato.
I l nobilitarsi del fiorentino appare nella sua grandezza se si pensa
che nelle carte commerciali, a mezzo il secolo XI V, compaiono
barbarismi toscani che in quelle del XI I I erano assenti. Questo per-
ch, come mi suggerisce A. Castellani, lo spazio vitale fiorentino si
dilatato al punto da accogliere nelle carte daffari formule caratte-
ristiche di persona in maggioranza provinciali. Nel secolo XI I I i
barbarismi erano imposti da un prestigio qualitativo che veniva di
fuori, nel XI V dal peso numerico di classi inferiori.
Le osservazioni del Bembo alla fiorentinit di Dante non sono
fondate. La fiorentinit ha significato per Dante aderenza al suo
tempo in una forma che due secoli dopo si ritrovava superstite nel
solo contado, non pi nella metropoli, per lo stesso motivo: la
metropoli aperta a tutte le correnti spirituali e perci linguistiche
del periodo doro della nostra cultura, si disfa di tutto quello che
s genuino, ma pu apparire a un certo momento come zavorra
grossolana, resto di situazioni e ambienti tramontati.
facile dunque definire nei manuali litaliano come il fiorentino
elevato a dignit di lingua letteraria per le sue virt intrinseche nel-
lambito dei dialetti italiani, quasi si trattasse di un fatto prevedibile,
automatico, fatale.
Vorrei invece aver sgombrato il terreno da questi formalismi e da
questi semplicismi e aver mostrato un travaglio: il dramma di una
tradizione linguistica universale come la latina, isolata in Etruria, e,
allinterno dellEtruria, solcata da forze centrifughe, isolata in Firen-
ze, non per prestigio, ma per povert e lontananza dalle grandi stra-
de. Dopo di che, raddrizzate le cose da un punto di vista politico,
dallopera di un uomo del vecchio mondo, Dante, ha potuto pren-
81
I l Medioevo
dere principio una tradizione nuova, quella che durata secoli, quella
che ci permette oggi, italiani di tutte le regioni dI talia, nel nome di
Firenze e del suo pi grande cittadino, di intenderci.
GIACOMO DEVOTO
da Dalla lingua latina alla lingua di Dante, in I l Trecento Firenze,
Sansoni, 1953, pp. 41-54
82
La Critica Letteraria
Il Cantico di frate Sole
I l Cantico di frate Sole il cantico della bont divina. Non solo
lAltissimo, lOnnipotente, anche buono, ma , nel Cantico, sol-
tanto buono. il Padre. La lode che sale verso di lui un omaggio
figliale. Le diverse forze della creazione, in cui il suo volere si mani-
festa, ci sono presentate unicamente nel loro aspetto benefico. I l
sole vuol dire la soavit delle aurore, la limpida chiarit degli spazi;
vuol dire la luce e il calore prodigati regalmente a tutto il creato,
quasi a simboleggiare linfinita misericordia dI ddio. La luna e le
stelle sono state fatte da Dio perch luomo avesse lincanto dei
pleniluni e delle notti stellate. I l vento e le nubi, lungi dal suggerire
delle immagini di tempesta, diventano delle vicende provvidenziali
necessarie alla vita.
Nulla, tra le lodi tributate a sor acqua, che lasci sospettare le
sue insidie, le sue terribili collere. Del fuoco son menzionate la ro-
bustezza e la forza, ma anche, ed in primo luogo, la bella
giocondit, in modo da fare pensare, non alla fiamma devastatrice,
ma al calore che ritempra e rallieta. La terra la sostentatrice e la
regolatrice della nostra vita corporea. Non solo tutto utile, ma
tutto bello. Bello il sole, belle sono la luna e le stelle, bello il
fooco. Lepiteto di preziose, chegli applica alle stelleed allacqua,
contiene forse, pi che unidea di utilit, unidea di bellezza: una
bellezza pi nobile e rara. Qua e l lastrattezza sentimentale di quel
bello si risolve e determina in luce: il sole radiante cun grande
splendore, clarite sono le stelle, coloriti i fiori. Ogni cosa creata
insomma esegue verso il resto della creazione, verso luomo soprat-
tutto, un comando di bont. Della bont un aspetto la, gioia e
refrigerio dei sensi umani. La creazione resta una prova della bont
divina anche quando, dopo il sole, dopo le stelle, dopo il fuoco ...si
passa allumanit. Certo il poeta non pu pensare agli uomini senza
pensare anche subito agli odi che li separano e li armano, alle lagri-
me che sono costretti a versare, allI nesorabile che li atterra e dissol-
ve. Ma non ne resta intaccata lazzurra purezza della sua visione. Al
disopra del dolore umano si inarca un lembo di paradiso ove si
vedono incoronati quelli che hanno sofferto senza rivolta e quelli
che in punto di morte si sono trovati concordi con Dio.
Ma il Cantico di frate Sole soprattutto il cantico dellumilt.
Ne siamo avvertiti dalla stessa umilt delle sue parole: le pi candi-
de, le pi disadorne che mai sieno state adoperate in un inno. A
quella straordinaria umilt formale corrisponde una non meno stra-
83
I l Medioevo
ordinaria umilt nei sentimenti e nelle idee. Esce da ogni particolare
del Cantico a figura inconfondibile dellorante: Frater Franciscus,
homo inutilis et indigna creatura Domini Dei. La laude si apre
con una professione dindegnit (nullu homo ene dignu...) e si chiu-
de con un invito esplicito alla grande humilitate. Sono, chi ben
guardi, momenti ed aspetti dellumilt i vari atteggiamenti che as-
sume la lode: lestasi ammirativa dinanzi alle cose create, quasi lorante
assista al loro uscire dal nulla; il commosso riconoscimento di tutto
ci che dobbiamo al Creatore; il senso della nostra dipendenza da
lui, la coscienza cio che ogni cosa nelle sue mani e che lui,
sempre e dovanque, la sola volont, la sola forza operante (Allumeni
noi per loi, in celu lai formate, per lo quale a le tue creature dai
sustentamento, per lo quale ennallumini la nocte). I nomi di
frate e di sora con cui vengono chiamate le diverse creature, la
bella fraternit francescana abbracciante tutte le creature dI ddio,
sono indici anchessi di umilt. Francesco rinuncia in tal modo ad
ogni regalit di fronte al creato; si mette al livello di qualunque cosa
esistente, anche della pi modesta e della pi vile; riconosce un
fratello nel sole, vero, ma anche nel vermicciolo e nel filo derba.
Nessuna ebbrezza panteistica, nessun orgoglio di animo che si allar-
ghi alla misura delluniverso e che in s assorba il Tutto. Francesco si
sente elemento infimo e impercettibile in una moltitudine infinita
di esseri, tutti come lui opera di Dio, tutti attestanti la bont e la
potenza divina, tutti bisognosi che Dio li vesta della sua luce e fissi
loro il compito su cui giudicarli e redimerli. Lamore di Francesco
per le creature comunanza di servizio e di attesa. Comunanza
anche di dolore. Francesco le solleva con s nella chiarit sovrumana
dellestasi, ma perch riconoscano con lui la loro nullit dinanzi al
Creatore, perch lo ringrazino di aver fatto di esse un suo strumen-
to. Si aggiunga che lamore di Francesco va di preferenza alle creatu-
re pi umili. Non solo sono menzionati, accanto alle cose pi eccel-
se della creazione, accanto al sole e alle stelle, anche i coloriti fiori e
lerba, ma quel particolare acquista nellinsieme del Cantico (anche
se si possa anche per esso trovare un riscontro nei testi sacri) una sua
commovente personalit. I ntravediamo, grazie ad esso, quanto ci
fosse di vero nel candore ingenuo che hanno cos ampiamente illu-
strato gli agiografi e di cui resta documento particolare quel meravi-
glioso commento del Cantico che sono i Fioretti. ancora umilt
lideale simplicitas che spira da tutto il Cantico, lidea che da esso si
effonde di una vita prodigiosamente semplificata, ridotta alle cose
essenziali, alle cose pi necessarie e pi sante: nel campo materiale,
84
La Critica Letteraria
la luce, lacqua, i cieli stellati... nel campo dello spirito le sole eterne
voci del cuore. umilt la pace che il Cantico esalta: la rassegna-
zione di chi perdona invece di vendicarsi, di chi soffre in silenzio
invece di protestare e di lamentarsi. Pi in generale umilt la san-
ta obbedienza, la disciplina di chi compie fedelmente il suo com-
pito. Ch ogni cosa creata ha la sua speciale missione. Come com-
pito degli astri rischiarare ed abbellire la notte, della terra produrre
le cose necessarie allumana famiglia, cos compito delluomo man-
tenere intatta nel suo spirito leffigie divina, riconquistare il cielo
come Cristo ha insegnato, baiulando crucem. Conoscere ed attuare
la propria legge, sentirla come un atto della volont di Dio e quindi
di una volont buona, ecco il modo con cui luomo e le cose posso-
no fin da questa vita redimersi, e il dolore in perfetta letizia. Nel
Cantico non domina soltanto il concetto di volont divina; vi si
tende ad una sintesi del creato in quanto attui una legge fissata da
Dio. Le varie creature sono definite mediante il particolare compito
a ciascuna assegnato. Linvito finale che tutte le abbraccia non sol-
tanto al ringraziamento e alla lode, ma allobbedienza: serviteli cun
grande humilitate Degli uomini sono ricordati soltanto quelli che
accettano ed attuano la missione di amore predicata dal Cristo. Sin-
tona con questo carattere fondamentale del Cantico il richiamo fi-
nale alle santissime voluntati in cui bisogna che la morte ci colga
se vogliamo chessa ci schiuda i regni della felicit eterna. N pu
sorprenderci che tra le qualifiche tributate a sor acqua ci sia anche
quella di humile.
I l Cantico di frate Sole s il cantico dellumilt, ma dellumilt
francescana: umiliarsi per essere esaltato. Non la genuflessione di
un imbelle o di un vinto. Con quellinginocchiarsi dinanzi a Dio
Francesco celebra il suo sogno pi grande e pi bello, il mondo
luminoso che la sua dolorante umanit ha costruito al disopra del
triste mondo reale. Ch Francesco ha subto anche lui, come test
avvertivamo, lo spietato teologismo dellepoca; ha avuto anche lui
delle ore di mistico annientamento; ma qui, nel Cantico, soprat-
tutto un uomo e un poeta. Religione ed umanit restano congiun-
te. Si alleano per aprirgli i regni dellidillio e per procurargli un
anticipo di serenit paradisiaca.
Come il regno spirituale di pace annunciato dal Cristo, lideale
del Cantico non rinnegava la vita, ma rivelava quello che cera in
essa di divino. Dava a tutte le cose - anche alle pi modeste, anche
alle pi terribili - una nuova sovrumana bellezza. La laude delle
creature non diceva soltanto la certezza della futura beatitudine, ma
85
I l Medioevo
la attuava. Essa cantava alla sua maniera la forma che luniverso a
Dio fa simigliante, mostrando ogni cosa creata obbediente al co-
mando divino, facendo vibrare nel mondo unificato unanima sola,
la volont buona di Dio. Senza superar le barriere frapposte dallor-
todossia tradizionale - trascendenza divina, molteplicit naturale,
gerarchia degli esseri - essa realizzava gi la felicit dei cieli, lunione
con Dio, merc lidentificazione della volont individuale colla vo-
lont divina che parla in noi e nelle cose. E il mondo era concepito
come una operosa concordia dtinfinite volont emananti da Dio,
consapevoli della propria divinit. Nella loro fusione fraterna Fran-
cesco vedeva compto il sogno di tutta la sua vita: il sogno di una
chiesa vivente, vera immagine della citt superna, coro grandioso,
immenso di palpiti affermanti I ddio.
Perci forse fu s grande lamore che Francesco non cess di por-
tare a quei versi. Non si stancava di farseli ripetere quando il male
si faceva pi grave... incominciando la laude egli stesso e poi facen-
dola intonare ai compagni.
LUIGI FOSCOLO BENEDETTO
da I l Cantico di Frate Sole Firenze, Sansoni, 1941, pp. 206-212
86
La Critica Letteraria
Il Cantico di San Francesc
A chi ben consideri la struttura dellopera, questa non si rivela
per nulla semplice, integrata o unitaria [...]; ma, al contrario, di-
stinta in due parti di tono quanto mai diverso. E che si tratti di una
distinzione non priva di conseguenze facile comprendere [...].
Mi pare che il Casella, natura religiosa di indole idillica, inclinata
allarmonia e allarmonizzazione, non abbia abbastanza sentito lenor-
me contrasto tra la prima e la seconda parte del nostro inno; tra la
metafisica ottimistica che abbraccia tutte le creature allinfuori del-
luomo e il pessimismo etico fondamentale quando si tratta di de-
scrivere luomo; tra la teodicea che riposa tranquillamente sulluni-
verso creato e lagone in cui si trova luomo postadamico. Poich
non pu essere trascurato che soltanto luomo un potenziale fi-
gliuolo prodigo in quanto lui solo conosce una morte secunda
dopo la morte corporale che partecipa in comune con gli animali e
con le piante. I n verit, difficile comprendere perch il nostro
studioso citi delle Opuscula latine del Santo la sentenza pessimista:
Omnes creaturae quae sub caelo sunt, secundum se, serviant et
cognoscunt et obediunt Creatori suo melius quam homo, senza
accorgersi, come pare, che appunto tipica di San Francesco questa
concezione pessimistica della condizione umana che colora tanto la
seconda parte del nostro inno (e questo spiegherebbe anche il modo
evasivo con cui luomo compreso in quel passivo, Lodato si, della
prima parte).
Come conseguenza di quanto sono venuto dicendo fin qui, sor-
ge naturale la domanda perch mai, contrariamente ai salmi modelli
e al racconto della Genesi che rispecchiata da quei salmi, San Fran-
cesco, rappresentato nelle vecchie biografie francescane in atto di
predicare a cuncta volatilia, cuncta animalia, cuncta reptilia e parti-
colarmente agli uccelli, abbia omesso, nel suo elenco delle creature,
proprio gli animali. La valutazione pessimistica della condizione
umana giudicata inferiore persino a quella degli animali caratteri-
stica gi del pensiero di SantAgostino [...].
Comunque si possa risolvere il problema dellomissione degli
animali, chiaro che linno, da coro universale delle varie creature
in lode di Dio ad un tratto si trasforma in una predica indirizzata
agli uomini contaminati dal peccato originale. Ben si comprende
quindi che il predicatore non rifugga dalluso di parole minacciose
per indurre i credenti alla penitenza. Egli, ben a proposito, scoglie
per spaventare colori piuttosto neri e se la morte chiamata sorella,
87
I l Medioevo
essa non affatto quellessere benigno che il Casella evoca, ma la
morte livellatrice che non risparmia nessuno, a cui nullo omo vi-
vente pu scampare, insomma piuttosto la morte descritta da Villon:
J e cognois que povres et riches,
sages et fous, prestres et lais,
nobles, vilains, larges et chiches...
Mort saisit sans exception.
o dal Tasso:
............
mir quasi in teatro od in agone
laspra tragedia de lo stato umano,
i vari assalti e il fero orror di morte.
Lagonia della morte corporale si complica dellagone che minac-
cia il cristiano nella sua ultima ora terrena: lattesa della morte secunda
[...]. Fedeli a questo ordine di idee le ultime parole del Cantico non
consolano, perch esse accennano alla morte e non alla vita secunda,
tanto che la felice alternativa appare soltanto con una formulazione
negativa: no li far male. Cosicch linno di San Francesco non ter-
mina ottimisticamente con uno sguardo alla vigna di Dio come
invece termina il Ritmo Cassinese.
Per tutti questi motivi, credo pi che giustificato il rifiuto di
accogliere una armonizzazione troppo facile, troppo idillica del
Cantico che, di conseguenza, non pu essere giudicato unaltra
manifestazione del carattere serafico del giullare di Dio. Con la
fine dellinno siamo pi vicini a un Dies irae (non a caso scritto dal
francescano Tommaso da Celano) che ad un Alleluia:
Mors stupebit et natura
judicanti responsura.
Tuttavia, pur accogliendo come corretta la mia analisi
disarmonica, come giudicare il valore artistico del Salmo che, con-
siderato secondo la sua pi intima realt, chiaramente desinit in
piscem? Con tale interpretazione il Salmo di San Francesco non
viene forse ridotto ad un prodotto ibrido (canto delle creature +
predica), mancante di unit e, per conseguenza, inartistico? A tale
dubbiosa domanda credo poter suggerire un buon motivo per
riaffermare il positivo valore artistico del Cantico nel fatto che le
due parti, in apparenza disunite, sono in realt collegate dal tono
sempre presente della litania. Riprendendo in esame la connessione
dei versetti X-XI V, non possiamo fare a meno di riconoscere che le
lodi e le beatitudini sono fra loro strettamente legate. Dio
lodato in X per quelli che perdonano cio discepoli di Cristo,
88
La Critica Letteraria
non diversamente da come stato lodato nei versetti precedenti per
le altre creature; i beati, quelli di XI e XI I I sono uniti con i Laudato
si di X e XI I ; n diversamente collegata la sora... Morte di XI I con
sora... Terra di I X. Ne deriva che quando i credenti recitano linno,
non possono fare alcuna pausa, una pausa che sarebbe come una
sosta capace di offrir loro nuova lena. E questo perch il ritmo so-
spinge quasi forzatamente ad accettare le terribili realt della vita
cristiana: sofferenze, morte, possibilit di dannazione; ad accettare
anche il terribile guai a quelli che morranno ne le peccata mortali.
La dolce tirannia della litania (Laudato si - Beati quelli) conduce
tutti, quasi inconsapevolmente, sulla strada della benedizione e del-
la lode di Dio. Ma questa non la stessa forza naturale della litania
sia essa supplica o lode, che, distruggendo il tempo empirico e di-
scontinuo della nostra vita pratica, ci immerge nel flusso della divi-
nit extratemporale, continua, onnipresente; quella forza precisa-
mente che con magici poteri dissolve la nostra vita nellonnipresenza
divina? Si pu, adunque, affermare che cos e non diversamente San
Francesco nel suo Cantico ha ravvivato la magia primitive della lita-
nia e la sue forza persuasive teen applicando in anticipo la famosa
regola pascaliana: plier lautomate. Appare cos evidente che San
Francesco ricorso allautomatico della litania per far sormontare al
credente alcune sue intime resistenze (che, forse, erano le sue pro-
prie) ottenendo il risultato di unire le due parti del suo inno. N si
dimentichi che la litania rivissuta dal Santo, anche se pare prolun-
garsi automaticamente, non soltanto automatica, perch in verit
essa soprattutto una testimonianza di quella inondazione o inva-
sione dellonnipresenza divina che avvolge il credente. Si pu per-
tanto dire che questa unit di tono lirico, del tono di elegia anche
per verit angoscianti del dogma, trasforma quella seconda parte
dellinno che un Dies irae in un Alleluia secondo lo spirito di
tutto il salmo che, in tal modo, trova la sua assoluta unit artistica.
Dopo tutto, non forse chiaramente verosimile che il Santo nel
quale viene per noi tutti raffigurata lesperenza di Dio sentita nella
came umana del credente (il Santo-giullare che canta e danza per
Dio e riceve le stigmate di Cristo); proprio la voce di un tal Santo,
cos sensibile al divino e che gi aveva fatto risuonare sulla sua ta-
stiera la musica mundana; non verosimile, dico, che questa voce
rimanesse, anche nella meditazione dellagone finale della vita uma-
na, accordata allAlleluia gi intonato sotto gli auspici del sole, della
luce e della speranza? Per parlare pi tecnicamente, si pu osservare
che la melodia dellinno (qualunque sia stata) rimane la stessa per
89
I l Medioevo
tutte le lasse, siano lunghe o corte [...]. La melodia unica si fa leco
dellattitudine unica di lode a Dio che il Santo ci propone o ci
impone nel suo Salmo; quello stato teopatico che continua nel Santo
al di sopra delle resistenze umane contro la morte (prima e secon-
da) e in cui si pu davvero, come dice il Casella, passare dal cielo
alla terra e dalla terra al cielo. Tuttavia si tratta per noi di non
ridurre col Casella le difficolt o resistenze che deve aver sentite il
Santo; ma, al contrario, di rilevarle nella loro vera importanza in un
momento primo dellanalisi, per poi apprezzare larmonizzazione
artistica di princpi contrari effettuata dal giullare di Dio.
LEO SPITZER
da Romanische Literaturstudien, 1936-1956 Ubingen, Max
Niemeyer, 1959, pp.467-477
90
La Critica Letteraria
La poesia di Jacopone
Non vogliam dire che [J acopone] per le folle scrivesse le sue
poesie, e anzi pare a noi che non debba accettarsi neppur lopinione
di chi volle le Laude scritte per i confratelli religiosi del Tudertino:
bens soltanto che, mentre cotesti ritmi didattici furono il supremo
tentativo di J acopone per entrare in diretta colleganza con gli altri
uomini, proprio essi mostrano, meglio di ogni nostra parola, lasso-
luta incolmabile lontananza fra lesperienza mistica del poeta di Todi
e quella troppo pi semplice ed umana d moti popolari, dellAlleluja
per esempio o d Flagellanti.
Che al fallimento umano saccompagni, in questo caso, anche
un fallimento letterario; che cio, mancando a J acopone anima vera
di maestro, le sue laude didattiche dovessero riuscir fredde quasi in
ogni punto, noiose e non prive dantipatiche dissonanze, questo
appare anche pi facilmente comprensibile.
Per, dal naufragio dellesperimento che chiameremo apostoli-
co, si salvano - come abbiam visto - alcune poche reliquie, le quali
hanno talvolta un loro effettivo valore poetico e sempre, ci che
pi importa, ci additano le direzioni e le vie della nostra ricerca.
Sia che, in esse, noi ci fermiamo a considerare la tristezza del-
lanima posta di fronte al mistero di giustizia e di dissoluzione che
la morte sancisce e nasconde; sia che invece incontriamo il senso del
terrore umano nel cospetto di Dio punitore e vendicatore; o la sete
di passione dellumanit per amor di Cristo crocifisso; o ancora lani-
ma stessa fatta persona e descritta in figura di fanciulla fragile e gen-
tile; o finalmente anche gli accenni ad unesteriore acuta psicologia
e persino le incarnazioni d vizi, nei quali si risente lteco del flagel-
lo che non pu mai tacere duna mordace coscienza - il travaglio
cio duno spirito abituato a scrutare in s anche gli spunti e le
possibilit di colpe non mai commesse, anzi appena e con ripu-
gnanza sfiorate del pensiero che vaga indocile -: sempre in ogni
caso, dove una luce di poesia o un barlume dinteresse ci sorprenda
attenti e bevevoli, troveremo una materia contenuta in limiti
sufficicntemente fissi, chiari e non difficili a definirsi.
Vogliam dire che tutta la poesia del Tudertino tende verso una
lirica commossa e raffinata, che esprima le pi delicate e sottili vi-
brazioni del suo animo e della sua vita religiosa. Quando J acopone
abbandoni del tutto anche lesteriore paludamento ammaestrativo
e moraleggiante, e faccia della sua anima stessa linizio ed il fuoco
91
I l Medioevo
della sua poesia, e lasci penetrar n suoi versi tutto il complicatissimo
dramma delle sue esperienze umane e divine: allora sentiremo di
trovarci di fronte ad una pi grande arte, della quale avevamo rac-
colto e vagheggiato fin qui gli sparsi frammenti.
I l fraticello di Todi che, nel primo fervore religioso dopo la con-
versione, aveva ceduto ad un bisogno di predicazione, non menzo-
gnero n volgare ma certo qualche po esteriore, riusc poi, come
abbiam visto, con landar del tempo, a raccogliersi in se stesso, fatto
esperto da tante disillusioni e sempre meglio convinto della sua
disperata solitudine e della straordinaria miseria e debolezza degli
uomini, desideroso di liberarsi nel silenzio dal tumulto delle pas-
sioni e delle ire che troppo ancor lo turbavano. Questo processo di
riflessione e maturazione sand sviluppando in realt in un perio-
do di tempo, che certamente impossibile determinare con preci-
sione, e che pu esser stato lunghissimo o esser durato magari tutta
la vita del poeta. Daltra parte chiaro che, anche quando pi si
faceva strada nello spirito di lui il desiderio di solitudine e di pace,
si mescevan poi con esso i contrari istinti che lo spingevano a lotte
e polemiche: cos come quando dal suo cuore sgorgavano i motivi
duna nuova lirica pi profonda e maturata nel silenzio, rimaneva-
no accanto ad essi le velleit didattiche non ancor morte e qua e l
trasparenti, con danno maggior e minore dellorganismo poetico,
pur nelle laude pi belle. Pertanto, sebbene a noi paia giusto tener
fermo il concetto che questo processo sand accelerando e com-
piendo nellultima parte della vita del poeta, quando pi noi lo
vediamo acquetarsi, quasi in unestasi mistica, uscito fuori alfine
delle guerre per la riforma della Chiesa e dellOrdine Francescano: si
pu ben dire tuttavia che questa lotta dur in lui in ogni tempo: e
soltanto a noi, che siam ridotti a giudicar dagli avvenimenti esterni,
pu sembrare chessa si risolvesse in un senso o nellaltro in ciascun
istante della sua vita.
Quando lo spirito di J acopone sostava in questa riflessione soli-
taria, nella quale la sensibilit sua, gi cos grande, si faceva pi acu-
ta e quasi morbosa: allora gli accadeva di sorprendere in s tante e
siffatte brame diverse e contrastanti, desideri ed opposti terrori, af-
fetti ed angosciose rinunzie, maligne tendenze ed aspirazioni ad
uninfinita bont, impulsi demoniaci e divini: tanto e cos compli-
cato intrico di sentimenti e di passioni, chegli si ritraeva impaurito
e quasi disperato di rinvenir mai pi un principio di chiarezza e di
salute, e non trovava liberazione se non nel canto (prorompe
labundanza en voler dire [LXXX]).
92
La Critica Letteraria
Nacque forse cos quella parte della sua poesia, pi veramente
lirica e pi grande, nella quale i diversi stati del suo animo religioso
e le sue solitarie angoscie trovano una espressione singolarissima e
nuova.
Un motivo unico vive nelle laude di J acopone che ora ci accin-
giamo ad esaminare: lincontro dellanima umana con Dio. Quel
contatto e contrasto dellumano e del divino, che foggi la sua vita
cos tormentata e strana e riemp di s tutta la sua mente e tutto il
suo cuore. Perch se questa mescolanza di terreno e di celeste, di
finito e dinfinito, di chiaro e di misterioso, con il suo orizzonte
ristretto di ombre terribili, lambiente caratteristico dello spirito
medievale: certo nessuno pi del Tudertino fece di questo comune
problema il sno problema, raccogliendo intorno ad esso ed in esso
tutto il suo spirito.
Lo studio di questi ritmi pertanto potr sembrar a taluno mo-
notono e privo di sorprese: ma si tratta duna monotonia in ogni
caso inevitabile, come quella che propria di tutte le anime indivi-
duali, le quali sempre, n momenti in cui la loro vita culmina e si
assomma, ritornano ciascuna alla sua primordiale sostanza, dove
vive perfettamente distinto e non confondibile un unico accento.
I l che non esclude per altro, neppur nel cave nostro, una certa
possibile variet datteggiamenti. I nvero la posizione delluomo di
fronte a Dio non sempre quella medesima, ma passa per infinite
sfumature attraverso una larga e variopinta gamma di reazioni simili
e diverse. Le quali tutte posson raccogliersi sotto la comune deno-
minazione damore: qualora si intenda per questa parole nel suo
pi ampio e vero significato, come relazione di amicizia ed inimici-
zia ad un tempo, consolazione e terrore, fiducioso abbandono e
gelosia: giubilo talora, ma pi spesso, e quasi sempre anzi, ebbrezza
tormentosa ed irrequieta.
Lamore di Dio, inteso come contenuto di una determinate for-
ma poetica, ha tenuto in J acopone quel posto stesso che, in altri
poeti suoi contemporanei, il culto di vaghe e fuggevoli donne beatrici
o selvagge: del che ci potrem meglio render conto pi innanzi.
chiaro che, partendo il Tudertino da una siffatta ispirazione,
dovesse parergli ogni volta tentatore il motivo della nascita di Ges:
il miracolo della venuta di Dio, cos apparentemente semplice e
piana, ma pregna di tanto altissimo mistero fra gli uomini ignari ed
indegni. Spesso infatti tornato J acopone al racconto della Nativi-
t, con felicit poetica pi o men grande, e talora nulla. Tralascian-
do per il momento la lauda I I , che ha versi pieni di dolce bellezza;
93
I l Medioevo
osserviamo ora la LXV, nella quale lI ncarnazione diventa un pro-
blema, che il poeta pone a s stesso e faticosamente risolve con aridi
raziocin. Qual la ragione che ha spinto il Figlio di Dio sulla terra?
Unebbrezza damore, per cui egli ebrio par deventato - o matto
senza senno, una carit nella quale sabbruciano occultandosi sen-
no, forza e valore, un amore smisurato, cui gli affetti che legano i
figli a padri e alle madri stesse non si posson paragonare. Ges ha
abbandonato per ci altezza e potenza ed disceso a ricercar dolor e
vilt: lamor lha s ferito, - pena li par dolzore. Ed egli parla al-
lanima, come a sposa, in tono commosso:
Amor, priego, me done, - sposa, chamor demando,
altro non vo cercando - se non amor trovare;
lamor non me perdona, - tutto me va spogliando,
forte me va legando, - non cessa denflammare;
donqua prendi ad amare, - sposa cotanto amata,
ben taggio comparata, - pi dar non ho valore.
E lanima, che intende tutto il valore dellatto di Cristo, il
quale come Dio e uomo venuto a trarla di fetore, a farla di serve
regina, risponde parole semplici e umane:
A te pi che me tutta, - amor, se dar potesse,
non che nol facesse, - ma pi non ho che dia;
lo mondo e ci che frutta, - se tutto el possedesse,
e pi, se ancora avesse, - dariate, vita mia;
dtte che ho en bala: - voler tutto e sperare,
amare e desiare - con tutto el mio core...
Demandi che pi dia, - amor, questa tua sposa
che tanto desiosa - te potere abracciare;
o dolce vita mia, - non me far star penosa,
tua faccia graziosa - me done a contemplare;
se non potesti fare - tu da lamor defesa,
co posso far contesa - portar tanto calore?
Donqua, prendi cordoglio - de me, Ges pietoso!
Non me lassar, mio sposo, - de te star mai privata;
sio me lamento e doglio - quando tuo amor gioioso
non se d grazioso, - ben par morte acorata;
da che mhai desponsata - sarestime crudele,
lo mondo me par fiele - ed onne suo dolzore.
Voglio ormai far canto, - che lamor mio nato
ed hame recomperato; - damor mha messo anello;
lamor mencende tanto - chen came me s dato,
terollome abracciato, - ch fatto mio fratello;
94
La Critica Letteraria
o dolce garzoncello, - en cor tho conceputo
ed en braccia tenuto, - pero si grido: - Amore!
Veramente, n versi citati, il dialogo fra il Redentore e lani-
ma salvata non privo duna certa commozione fervida e dolce; e
pi ancora quel passar dellanima da un senso di totale abbandono,
attraverso il desiderio duna pi intima e costante contemplazione,
ad un grado desaltata ebbrezza, che ricrea dallimmagine concepita
nella mente la realt del Dio fatto came - umana e fraterna came di
fanciullo -, pieno di verit e di passione.
NATALINO SAPEGNO
da Frate J acopone Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1969,
pp. 80-84
95
I l Medioevo
La poesia di Jacopone
La poesia di I acopone tutta dominata da interessi e problemi
psicologici: lo attesta il linguaggio, spesso assai ricco di termini astrat-
ti, di natura appunto psicologica e riferentesi alla vita dello spirito,
e povero invece di termini concreti e riguardanti le cose materiali.
Certe espressioni hanno un significato pregnante, nascono da un
complesso lavoro interno e ne sono il segno e il risultato. Un lin-
guaggio cosiffatto quello di uno spirito librato in unatmosfera
rarefatta, preoccupato del problema della propria perfezione, conti-
nuamente tendente verso lalto, e insieme attento ai propri movi-
menti, non in modo riflesso e non con linteresse distaccato e pre-
valentemente estetico dello psicologo moderno, ma con un senso
vigile, direi quasi esasperato, della responsabilit morale che accom-
pagna quei movimenti. Ci risulta evidente dal comparire di termi-
ni e frasi di una concretezza talvolta brutale: sono espressioni di
dispregio per s medesimo, o di aborrimento per il peccato, che
rivelano quale acuto senso I acopone abbia del contrasto tra la perfe-
zione a cui aspira e la realt della sua vita e del mondo. I l termine
energico, grossolano, plebeo cercato con levidente scopo di dar
forza allespressione, e ci accade sopra tutto nella prima sezione del
laudario iacoponico, che contiene, come si detto, riflessioni sul
peccato, sulla vanit delle cose terrene, sulla morte. Nellinsistenza
sul tono violento e sui termini spregiativi si coglie lodio e direi
quasi il rancore contro il mondo e le sue brutture [...]. A volte, per
es. nello sviluppo dato al tema, pure tradizionale, della contempla-
zione della morte, il particolare orrendo rilevato con grossolana
ironia, e sono usate espressioni di immediata efficacia rappresentati-
va.
I l desiderio di mettere in evidenza il lato vergognoso od orribile,
sia materialmente, sia moralmente, crea immagini e paragoni rapidi
e inaspettati.
I l senso dei contrasti fra la realt e lideale morale, e latteggia-
mento di lotta contro il male si traduce anche in una tendenza dram-
matica, che continuamente crea dialoghi e dibattiti, fra il peccatore
e la Vergine, fra lanima e il corpo, fra i cinque sensi, e cos via.
Anche nei componimenti inizialmente lirici interviene talvolta un
interlocutore, un oppositore, che solleva obbiezioni, quasi porta-
voce di una coscienza attenta, guardinga, sospettosa. Sentimenti,
facolt, concetti astratti si configurano concretamente in
96
La Critica Letteraria
personificazioni, presentate pittorescamente di scorcio, con efficace
brevit.
I l movimento drammatico accresciuto dalle frequenti apostro-
fi, spesso unite allesclamazione, che non sono un espediente retori-
co, a cui I acopone ricorra con coscienza riflessa di artista, ma il frut-
to di un atteggiamento spontaneo della sua fantasia che continua-
mente crea di fronte a s figure concrete da esortare e persuadere, o
con cui discutere o combattere.
I l senso del contrasto morale atteggia tutto per antitesi e con-
traddizioni, che sono cos accostamenti di espressioni contrastanti
per tono, come di termini di significato contrario.
La stessa sintassi iacoponica, che costituisce indubbiamente una
delle maggiori difficolt del testo, prova di una psicologia inquie-
ta e combattuta: la prevalenza della coordinazione asindetica sulla
subordinazione, che d un andamento spezzato allespressione e i
cambiamenti di costruzione denunciano la continua reazione mo-
rale del poeta di fronte al suo oggetto: mescolato sempre alla vi-
sione un gindizio che modifia e altera lespressione; biasimo, indi-
gnazione, disprezzo sono palesi nello stesso atteggiarsi della frase.
Un fattore morale entra anche nellatteggiamento di I acopone di
fronte alla propria cultura. Poeta indubbiamente colto ed esperto
della tecnica poetica, possiede lo strumento necessario per esprime-
re le riposte esperienze del suo spirito, per cercare nella tradizione,
in un ritorno volontario su tali esperienze, la sistemazione razionale
di ci che ha provato, per tentare lesposizione dei dogmi della fede.
Come uomo del M. E., apprezza la dottrina, ma solo in quanto sia
rivolta a fini morali e pratici; la cultura che abbia valore soltanto
umano e terreno gli sembra, come ad altri Spirituali, colpevole e
peccaminosa, ed egli va oltre gli uomini del suo tempo, non per
quello che espresso, ma per quello che sottinteso nel suo atteg-
giamento: perch non ricerca neppure la bella veste, che, adornan-
do la dottrina, la renda accetta. Donde, di fronte agli schemi elabo-
rati di certi suoi componimenti, alle forme culte delle rime che ri-
calcano tipi latini [...], alle espressioni latineggianti di passi di con-
tenuto teologico, o elevate e astratte delle laudi mistiche, alle remi-
niscenze e citazioni bibliche dei passi di tono solenne, o di conte-
nuto apocalittico e profetico, ecco certe sprezzature del linguaggio,
certi atteggiamenti giullareschi, gli schemi semplicissimi di certe laudi,
e in generale le forme grossolane e volgari gi accennate, che dico-
no, a chi studi I acopone da un punto di vista stilistico, la stessa cosa
che talune affermazioni esplicite di disprezzo per la cultura. I l suo-
97
I l Medioevo
no aspro e spezzato dei versi iacoponici denuncia la noncuranza ed
anche lostilit per la bella forma, che inutile e colpevole orna-
mento, perch a pi profonde e importanti cose si devono rivolgere
tutte le forze delluomo. Laccusa di rozzezza spesso fatta a I acopone
ha forse la sua radice pi che altro nella constatazione di tale asprez-
za di forma, in parte voluta, in parte ottenuta inconsciamente.
Uno degli aspetti pi evidenti delle poesie mistiche di I acopone
[...], la ridondanza dellespressione. La pienezza e la violenza sen-
timentale proprie del mistico sembrano rompere gli argini dellespres-
sione comune e riversarsi in gridi, in esclamazioni, in ripetizioni, in
immagini eccessive e accese.
La mancanza di misura, sia nel senso dellequilibrio della com-
posizione, sia in quello della calma e limpidezza dellespressione,
leccesso del sentimento non domato e purificato, sono difetti es-
senziali di I acopone, che appunto per essi stato pi volte condan-
nato come poeta mancato, senza tuttavia che vengano meno lin-
teressamento che suscita la sua singolare personalit, e il valore rea-
le, che lespressione, sia pure difettosa e incompleta di essa, possie-
de. Hanno la stessa origine profonda gli aspetti diversi ed opposti
che la poesia iacoponica presenta, e proprio per questo compene-
trarsi di pregi e difetti essa lascia perplessi ed incerti ed cos diver-
samente valutata: la ridondanza qualit insieme negativa e positi-
va, segno cio di equilibrio artistico non raggiunto, di mancanza di
disciplina formale, e nello stesso tempo di una ricchezza sentimen-
tale rara. La violenza dellespressione, tolta al linguaggio amoroso
profano, ma con una libert e crudezza ed anche sincerit passionale
singolari, un fenomeno che, pur ripetendosi in tutti i mistici, as-
sume in ciascuno qualche carattere speciale. I n I acopone limpeto
prevale sul languore proprio di diversi temperamenti. Col linguag-
gio carnale e acceso di certe laudi siamo gi nel campo della metafo-
ra, che un mezzo, in questo caso, per esprimere linesprimibile.
FRANCA BRAMBILLA AGENO
da I ntroduzione a J acopone Firenze, Le Monnier, 1953
pp. XIII-XVII
98
La Critica Letteraria
Volgarizzamenti del Due e Trecento
Questa complementariet anche oggettiva dellattivit letteraria
originale e del volgarizzamento importante per la retta impostazione
storica del problema delle traduzioni: perch ci invita a disegnare i
loro rapporti con lo svolgimento della prosa con linee che seguano
il pi docilmente possibile i momenti attivi e quelli passivi, i punti
di forza e i rilassamenti. La storia dei volgarizzamenti una striscia
scindibile solo per comodit espositive dal fascio luminoso della
prosa: la vicenda delle traduzioni risponde, al pari di quella delle
opere originali, agli incitamenti di un gusto he si trovava in quegli
anni in fase di effervescenza. utile e necessario rilevare il patrimo-
nio di elementi fornito dallesercizio della traduzione al prosatore
che si sentiva dentro pi precisi e prepotenti i nuovi ideali; ma
erano questi ideali, man mano che venivano alla luce della sua co-
scienza (manifestandosi sempre pi limpidamente nelle sue opere)
a suscitare il suo interesse per i classici, a sfumarne pi finemente i
tratti prima abbozzati da una finalit pratica e approssimativa: per
tradurre vi devessere il desiderio di tradurre. E poi la traduzione
portata a termine, la traduzione scritta, una sola delle tante tradu-
zioni che lo scrittore ha fatto per s, leggendo, penetrando sempre
pi a fondo nel mondo che vuole conquistare. Vorremmo dunque
evitare di attribuire ai volgarizzamenti unefficacia determinante ed
univoca nei rispetti della letteratura originale; e considerarli piutto-
sto come un riflesso analizzabile della luce che si veniva gettando
sul gran mare del mondo classico, attribuendo loro, invece che una
precedenza, un ideale parallelismo con le altre espressioni del pen-
siero letterario. Sostituiremmo insomma la formula:
volgarizzamento prosa originale, allaltra superficiale e, se non
corretta da infinite riserve teoriche, pericolosa: volgarizzamento e
prosa originale.
I l nome di Brunetto Latini , come s visto, quello che con
maggior diritto pu ambire ad essere citato per primo a rappresen-
tante del nuovo modo di vedere i classici e della nuova concezione
del volgarizzamento. Bono Giamboni, che senza turbamenti teoretici
ma con vera sensibilit linguistica compiva a Firenze, negli stessi
anni, una feconda attivit volgarizzatrice, sia per lindole degli auto-
ri scelti, quasi tutti religiosi e medievali (ma Orosio e Vegezio ave-
vano ancora un certo profumo di classicit), sia perch il suo modo
di volgarizzare era piuttosto un rimaneggiare che un tradurre, va
99
I l Medioevo
collegato con le correnti di gusto pi popolare e di forma pi divul-
gativa; la sua coscienza della latinit non certo molto chiara e
scaltrita. Ma appunto per questo, e per la costante mancanza di una
corrispondenza puntuale col testo latino, il suo stile cos maturo e
sapiente saggio notevole di una possibilit di amalgama tra le vive
tendenze del volgare e quanto dei modelli latini poteva servire al
suo maturarsi; saggio che confortato significativamente da un esa-
me del Libro d Vizi e delle Virtudi, dove, assente ogni supporto
diretto di un testo latino, la struttura sintattica non subisce alcun
cedimento [...].
Nei volgarizzamenti della prima met del Trecento vediamo
concretarsi, attraverso il comportamento del traduttore rispetto al
suo testo, quella visione della classicit che circoli letterari e uomini
di gusto cercavano di conquistare sempre pi limpida cacciandone
la polvere degli anni. Albertino Mussato celebrava gli scrittori latini
e imitava Livio; Giovanni del Virgilio esprimeva la sua vena
naturalistica in esametri virgiliani che sarebbero stati trascritti dal
Boccaccio, quasi a indicarci lassimilazione in Firenze, delle idee dei
cenacoli preumanistici settentrionali; il Petrarca andava a caccia di
codici che collazionava da buon filologo e dava la spinta pi poten-
te agli studi classici, mettendosi al centro di uno scambio culturale
che nel ricordo della latinit ignorava le frontiere politiche. Col
Boccaccio infine venivano a contatto secondo queste nuove idealit,
la prosa volgare e lo studio classico: landamento della lingua volga-
re fattasi adulta satteggiava immediatamente su un pensiero che gi
del contenuto classico aveva adottato, come e quanto gli servivano,
le strutture.
Lo studio della classicit ingenera nei volgarizzatori uno scrupo-
lo che in precedenza avevano ignorato: mentre la loro stessa capaci-
t stilistica e la loro cultura si sono sviluppate con rapidit da stupi-
re (basta confrontare i prologhi dei volgarizzamenti: per esempio
quello di Brunetto al Pro Ligario con quello di Alberto della
Piagentina al suo Boezio o quello della quarta Deca di Livio), il
testo ispira loro, si direbbe, un timore reverenziale prima ignorato.
I primi traduttori erano pi disinvolti: Bono Giamboni rifaceva a
modo suo girando al largo delle difficolt; Brunetto cercava di tra-
durre con precisione, ma non temeva di incorrere in qualche
anacronismo, n aveva scrupolo a trasportare la retorica ciceroniana
nellarringo comunale. Nel linguaggio penetravano di continuo
parole e forme nuove, ma pianamente, senza lotta. I nvece quanto
pi chiaro appare, nel desiderio del possesso, il contrasto della nuo-
100
La Critica Letteraria
va con la vecchia cultura, il traduttore si fa inquieto, teme che il suo
linguaggio non sia allaltezza delloriginale, ne violenta lessico e sin-
tassi. I nquietudini di un valore positivo, sintende; e violenze in cui
il volgare mostrer la propria attitudine a foggiarsi secondo formule
pi complesse; ma in un primo tempo sembra che la lingua si rifiu-
ti, e le traduzioni hanno qualcosa di sforzato e ingenuo insieme, che
ci colpisce, specie dopo un confronto con le pi antiche. E c altro,
fra le cause di questo diverso modo di tradurre: c che nel Trecento
vengono volgarizzati pure i testi poetici, Ovidio prima di tutto, e
Virgilio e Lucano (altro, e ben notevole, segno dei tempi). Nel
testo poetico il processo espositivo tenuto insieme, pi che dalla
progressione dei fatti e delle idee, dallunit della visione: che pi
difficile da riprodurre in s, e ricreare con la scrittura. Per questa
difficolt, presentatasi pure ai lettori, che erano avvezzi ad altro, ai
lunghi romanzi di Francia - e per le durezze, forse, della traduzione
- a questi volgarizzamenti arrise minore fortuna (tranne che per quelli
di Ovidio, ce lo dice il numero dei codici); eppure essi rappresenta-
no in un certo senso, per lattenzione ai particolari peculiari e lo
scrupolo di fedelt nella traduzione, la punta massima di codesto
sforzo di comprensione e di assimilazione.
CESARE SEGRE
I ntroduzione a Volgarizzamenti del Due e Trecento a cura di C.
Segre. Torino, UTET, 1953, pp.53-56
101
I l Medioevo
Societ e cultura nella lirica dei siciliani
Com noto la pi antica lirica darte italiana nacque nella corte
di Federico I I di Svevia ad opera, prevalentemente, di funzionari
dellimperatore, di suoi parenti o di notabili del regno. questo un
dato su cui bisogner riflettere sia perch unico nella storia della
letteratura italiana (com stato giustamente detto, e il caso di Lo-
renzo il Magnifico sar per molti rispetti profondamente diverso),
sia perch ci permette di approfondire i due punti fermi che finora
sembrano accertati in merito a questa poesia: vale a dire che quei
poeti scrivevano in un siciliano illustre, in un siciliano nobilitato
dal continuo raffronto con le due lingue in quel momento auliche
per eccellenza, il latino e il provenzale: e che essi accettavano la
poetica (i contenuti e le forme) della lirica provenziale. Punti fermi
indiscutibili, senza dubbio: e baster pensare non solo agli esempi
di veri e propri calchi indicati dal Gaspary e da altri, ma agli schemi,
ai motivi, alle analogie e, soprattutto, alla lingua, nella quale le pa-
role fondamentali - quelle che dnno tono e significato a un verso o
a una strofa -, le parole che hanno una risonanza o un riflesso sono
parole che pur nella forma italiana o, meglio, siciliana, riecheggiano
da vicino la forma equivalente provenzale. Alludiamo ai numerosi
amanza, temenza, benenanza, contendenza, intenza, doglienza,
percepenza, sofferenza, canoscenza, ralenza, plagenza, e alla gioia,
allorgoglio, allamore fino e via dicendo. Punti fermi, tuttavia, dai
quali illegittimo dedurre che i poeti siciliani fossero imitatori pri-
vi di originalit (come ha ripetuto per oltre un secolo la critica
romantica), n che la loro originalit - quando si manifesti - vada
ricercata negli spunti di poesia popolare che talvolta affiorano sulle
acque stagnanti degli schemi della lirica cortese (come ancora oggi
ripetono alcuni studiosi anche autorevoli). Perch essi, in realt,
non furono e non potevano essere semplici imitatori: diversa era la
situazione oggettiva in cui sorgeva la loro esperienza poetica e di-
verse erano anche le loro condizioni soggettive. Sar sufficiente, per
rendersene conto, approfondire un poco quel dato a cui abbiamo
fatto cenno allinizio.
Dietro la cosiddetta scuola siciliana vi era un organismo stata-
le (il regno di Federico I I ) ben pi complesso e accentrato di quan-
to non potessero essere le corti feudali a cui facevano capo i trovatori.
Vi era la personalit di una monarca (lo stesso Federico) fra le pi
rilevate, imperiose e spregiudicate dellintero Medio Evo. Vi era,
102
La Critica Letteraria
infine, una politica che tendeva ad assicurare, con ogni mezzo, al-
limperatore legemonia su tutta la nostra penisola allo scopo di
realizzare lantico progetto imperiale di sottoporre ad un unico do-
minio la Germania e lI talia. Non il caso di esaminare da vicino le
vicende di quella politica e di valutare se davvero il regno di Federi-
co possa essere considerato il primo stato moderno e se egli possa
davvero essere salutato come lanticipatore delle monarchie assolute
illuminate (su tali valutazioni in realt lecito esprimere numerosi
dubbi). Per il nostro discorso sufficiente sottolineare alcuni ele-
menti che cinteressano pi da vicino. I n primo luogo il carattere
strumentale di tutta la politica di Federico. Egli segue una linea
diversa in Germania, nellI talia settentrionale e nel Regno: in Ger-
mania favorendo i prncipi feudali, nellI talia settentrionale inco-
raggiando, dovunque era possibile, laffermarsi di signorie persona-
li, nellI talia meridionale combattendo strenuamente i baroni e li-
mitando al massimo il loro potere e la loro autonomia. Tale diversi-
t di comportamento non casuale, ma tende a realizzare il domi-
nio incontrastato di Federico, ad affermare la sua egemonia nellI ta-
lia e a far prevalere una concezione aristocratica del potere, ade-
guando naturalmente i mezzi alle situazioni concrete. I n tal modo
nellI talia meridionale dove limperatore voleva costituire la base
personale (e anche patrimoniale) della sua forza non poteva
ovviamenta tollerare la mediazione o linterferenza dei baroni;
nellltalia centro- settentrionale dove si erano affermati i comuni
con la loro dinamica democratica conveniva favorire lo spegnimen-
to di quella dinamica e laffermarsi di un unico signore; nella Ger-
mania dove proprio il mantenimento dei privilegi e della struttura
feudale garantiva una certa tranquillit al potere di Federico non
restava che favorire il mantenimento di quei privilegi e di quella
struttura. Non meno strumentale la politica economica tutta tesa
nel regno di Sicilia ad ottenere per il sovrano la maggior quantit
possibile di mezzi finanziari (anche quando sembra voglia difendere
i contadini dai soprusi dei baroni). Di qui il recupero attento e
inflessibile di tutte le terre demaniali usurpate, lordine fissato persi-
no alla semina e al raccolto del grano, i privilegi assegnati allo stato
nella vendita del frumento, limposta fondiaria, le varie imposte in-
dirette e linstaurazione di alcuni monopoli di Stato (fra cui il mo-
nopolio del sale tanto esoso per il popolo quanto remunerativo per
il sovrano). E strumentale la politica culturale di Federico: la sua
spregiudicatezza ideologica non significa tanto apertura verso for-
me di cultura moderna, quanto disponibilit verso tutti gli aspetti
103
I l Medioevo
nella cultura che potessero tornare utili al suo disegno: sostanzial-
mente assenza di principi. Per questo egli pu, di volta in volta, far
proprie tesi diverse sullorigine del potere imperiale, pu servirsi a
seconda delle circostanze di armi ideali diverse e anche contrastanti
fra loro nella sua lotta contro la Chiesa (fino a far proprie alcune tesi
dei movimenti pauperistici). Per questo egli contro la mescolanza
razziale, obbliga gli ebrei a portare un particolare segno di ricono-
scimento e concentra gli arabi nella zona di Lucera, ma nello stesso
tempo utilizza le minoranze concedendo agli ebrei particolari van-
taggi nel commercio del danaro e reclutando fra i Saraceni i merce-
nari delle sue truppe. Per questo egli favorisce presso la sua corte lo
sviluppo della cultura tecnico-scientifica propria degli arabi (e non
sar un caso che il maestro di Ruggero Bacone, Pietro Peregrino
terminer proprio nella zona saracena di Lucera di scrivere il suo De
magnete sia pure parecchi anni dopo la morte dellimperatore) e
istituisce la prima universit di Stato, quella di Napoli, la quale,
pero, si distingueva dalle altre del genere in questo, che non aveva
per iscopo la scienza pura o leducazione dei chierici, ma mirava a
formare funzionari dello Stato.
Abbiamo insistito sul carattere strumentale e sulla sostanziale
mancanza di princpi della politica di Federico I I , perch nellambi-
to di un simile quadro, appare abbastanza evidente che un analogo
carattere dovette avere - almeno nel primo impulso che la fece sor-
gere - anche lattivit poetica dellimperatore, dei suoi figli e dei
suoi funzionari. A Federico I I non poteva sfuggire (e non sfugg)
limportanza che aveva legemonia nel campo delle idee e della cul-
tura per assicurare il suo dominio sullI talia e battere le due grandi
forze antagoniste, la Chiesa e i Comuni. Egli aveva bisogno di eser-
citare la sua forza dattrazione sui nuovi intellettuali, non pi colle-
gati alla Chiesa o di provenienza nobiliare: i giuristi, i notai, i medi-
ci e simili che tanto peso venivano acquistando nella vita pubblica.
A questo scopo bisognava creare un ambiente culturale laico (e quindi
non influenzato dalla Chiesa), non municipale e quindi non in-
fluenzato dalle vicende cittadine, fondamentalmente aristocratico
(non per nascita, ma per ambizione) e quindi portato ad ammirare
il sovrano. A questo scopo, tuttavia, non era sufficiente n luniver-
sit di Napoli, come alternativa a quella di Bologna, n lapertura
verso la cultura araba, n la produzione in latino dei suoi funzionari
Bisognava misurarsi anche nel campo della sorgente letteratura vol-
gare, cui tante suggestioni venivano dagli esempi provenzali e fran-
cesi. Di qui la scelta del siciliano illustre e limitazione della poesia
104
La Critica Letteraria
occitanica. Ma di qui anche le profonde differenze fra i trovatori
provenzali e i poeti siciliani. Differenze sul piano della posizione
sociale, intanto: essendo i primi cantori professionisti, che passava-
no di corte in corte e spesso scadevano al livello dei giullari, gli altri
funzionari e burocrati di grado elevato e, quindi, colti dilettanti di
poesia. I nsomma gli autori di questa prima poesia darte in volgare
erano tutti degli intellettuali laici, dei grandi laici naturalmente,
impegnati in una lotta senza quartiere contro la Chiesa di Roma:
senza di che non si spiegherebbe che ancora ai primi del Trecento il
fiorentino Dante si richiamasse a una curiale poesia siciliana, n che
di fatto una tale poesia a mezzo il Duecento potesse uscire dalla
Sicilia e dal Regno e imporsi allI talia centrale. C di pi: lungi
dallaccettare leredit della poesia provenzale in modo passivo, i
siciliani operarono una decisa selezione dei temi (riducendoli ri-
gorosamente a quelli dellamore cortese), una decisa scelta del vol-
gare siciliano nobilitato s sulla scorta del provenzale, ma arricchito
dallinnesto della rigogliosa cultura cancelleresca, una decisa scel-
ta stilistica che rifiuta le forme pi mosse e legate allelemento mu-
sicale e tende, invece, a uno stile assai pi uniforme, a una dignito-
sa ma pi grigia curialitas stilistica. Di qui la limitatezza dei motivi
di quella lirica, che canta prevalentemente lamore in un secolo di
lotte feroci e di passioni ardenti, di grandi scoperte e di ardui pro-
blemi, di rivolgimenti sociali e di nuovi orientamenti religiosi: nel
secolo, insomma, della democrazia comunale, di Marco Polo e di
San Francesco. Le lotte fra la Chiesa e lI mpero, fra signori feudali e
borghesia cittadina, le ideologie ereticali, lansia di conoscenza, le
profonde esigenze di una maggiore giustizia somale non hanno eco
in questa poesia: oggetto delle cure quotidiane dellattivit pratica
di questi uomini di corte, esse non trovano accoglienza nella loro
attivit poetica. La duplice personalit di questi rimatori immersi,
da una parte, nella cronaca quotidiana, realizzatori di un grande
disegno politico, partecipi di una cultura multiforme e, dallaltra,
monocordi cantori della vicenda amorosa, pu essere spiegata sol-
tanto nellambito della politica e del clima culturale della corte di
Federico. Non gi che la scelta di unarea poetica cos ristretta e
rigidamente delimitata debba essere attribuita a una sorta di
autocensura suggerita dalle esigenze dellimperatore. Anche questo
elemento certo non mancava: perch se vero che nella produzione
latina di quegli stessi scrittori non si rifuggiva dagli argomenti poli-
tici, sia pure per approdare, quasi sempre, alle lodi verso il sovrano,
anche vero che maggiori preoccupazioni suscitava la produzione
105
I l Medioevo
in volgare pi facilmente comprensibile da parte del popolo e, nella
quale, anche sotto una veste conformista, avrebbe potuto nascon-
dersi efficacemente la critica verso il potere costituito. A tale riguar-
do non stato forse finora notato che i primi editti emanati da
Fedenco I I , dopo la sua incoronazione, nel maggio 1221 alla Dieta
di Messina, riguardavano le meretrici, gli ebrei, gli attori (cio i
giullari) e i trovatori erranti: e per le due ultime categorie si stabili-
va che dovessero essere poste fuori legge se avessero osato con can-
zoni illecite disturbare in alcun modo limperatore. Tuttavia nella
scelta rigorosa dellamore cortese come ispirazione unica della lirica
siciliana concorrono, a mio parere, elementi assai pi importanti. I l
carattere aristocratico della corte (e della politica) di Federico, che
richiedeva una poesia raffinata, elaborata, altamente intonata, quale
poteva essere offerta dalla tematica amorosa e dalla tradizione
provenzale. I l rapporto feudale fra la donna e lamante (luna intesa
come signore e laltro come vassallo), cio il tema fondamentale
della servit damore, tutte le sue variazioni, e, insieme, le sottili
disquisizioni sulla natura dellamore, ben si adattavano a un am-
biente in cui il sovrano era considerato quasi una divinit e il limi-
tato circolo dei cortigiani poteva apprezzare lelegante schermaglia
intellettuale legata alla problematica amorosa, il suo potere di rival-
sa sulle cure quotidiane, la manifestazione di sensibilit squisita e di
duttilit culturale chessa poteva fornire, la separazione netta chessa
creava fra unlite capace di apprezzarla e la grande massa che ne
rimaneva esclusa. Si aggiunga lorientamento laico della corte di
Federico al quale ben si addiceva il carattere di questa fenomenologia
amorosa che si prestava a raffigurare un processo di purificazione
delluomo (una specie di itinerario mistico) non pi indirizzato
verso Dio e regolato dalle leggi della Chiesa, ma - su un piano mon-
dano e, naturalmente, senza nessuna intenzione negatrice della divi-
nit - indirizzato verso la donna e la sua esaltazione. I nfine un aspet-
to della cultura medievale, che sembra trovare proprio nella corte di
Federico, il suo punto di maggiore rilievo: lattenzione, cio, per la
tecnica (dico tecnica e non scienza) che consente attraverso labilit
pratica la soluzione di problemi concreti non sul piano dei principi
ma su quello dellattivit applicata) di rispondere a domande a cui
non saprebbero dar risposta n la filosofia, n la scienza, n la mate-
matica (e si pensi proprio allEpistola de Magnete di Pietro Peregri-
no), e, accanto a tale attenzione per la tecnica, senza che appaia
come una contraddizione, il gusto del simbolo, la concezione della
realt come manifestazione visibile di simboli spirituali, delle cose
106
La Critica Letteraria
come una sorta di cifrario dello spirito. Giustamente Battaglia pu
affermare che la realt per lanimo medievale unimmensa arena di
assenze che bisogna recuperare nellesperienza interiore e decifrare
attraverso la fugacit delle loro remote e sbiadite postille: o, me-
glio, un mondo di presenze invisibili o nascoste che occorre restau-
rare o resuscitare. E il simbolismo della poesia amorosa doveva
particolarmente tentare gli intellettuali della corte di Federico im-
mersi in un ambiente culturale nel quale tanto posto aveva la tecni-
ca: quei funzionari che erano impegnati essi stessi quotidianamente
nella tecnica dellamministrazione dello Stato, della politica, della
diplomazia. I l simbolo amoroso diveniva cos una sorta di rivalsa
sullattivit quotidiana e, nello stesso tempo, trasferiva in un cifrario
spirituale e universale tutti i problemi che lattivit quotidiana ave-
va posti. I n tal modo la poesia amorosa riconquistava sul piano
culturale e simbolico quella complessit di significati che sembrava
avesse perduto con la limitazione della tematica. E lamore, senti-
mento universale diveniva il nodo nel quale sintrecciavano espe-
rienze di vita, esigenze culturali, proposte ideologiche, atteggiamenti
di gusto che rappresentavano il travaglio di unintera civilt e la
condizione umana di unepoca storica e che potevano essere intesi
soltanto da una ristretta cerchia di privilegiati. Con i siciliani, in-
somma, ha la sua prima formulazione lamore come microcosmo
che poi diventer il centro della drammatica esperienza di Francesco
Petrarca. I l tema centrale la servit damore, che d gioia e dolore,
ma a cui lamante si sottopone volentieri perch sa che prima o poi
otterr la ricompensa. Dipendenti da questo tema sono gli altri,
quello della lontananza, con le sofferenze che comporta; quello del-
la gelosia dellamante o del marito; quello della paura di manifesta-
re il proprio amore o, dopo aver ottenuto lamore della donna, di
perderlo; quello, tutto cortigiano, dei mal parlieri, cio di coloro
che turbano con i loro pettegolezzi la gioia damore; quello del
rimpianto delle gioie damore ormai perdute; quello della primave-
ra; quello della partenza; quello della lode. Tali motivi sono stiliz-
zati nella forma e nel contenuto, senza riferimenti di luogo e di
tempo, senza scenario, senza paesaggo: quando la realt sintroduce
nelle analogie una realt favolosa e leggendaria come la fenice, la
salamandra che arde nel fuoco, la tigre che sincanta dinanzi allo
specchio, il profumo della pantera, lira del leone, il canto del ci-
gno, la natura dellorso, lusanza del selvaggio. Oppure una realt
in fondo scientifica, ma ricca di occulti significati e di simboli, come
la calamita che invisibilmente attira il ferro; o il lume che al pari
107
I l Medioevo
attira la farfalla.
Eppure proprio da questi temi cos convenzionali che i sicilia-
ni riescono a ricavare le figure e i motiivi esili ma autentici della loro
poesia. Motivi e figure che hanno il breve respiro e la leggerezza
aerea del mondo raffinato a cui appartengono, dello scenario ideale
nel quale si muovono, del lettore ideale a cui il poeta si rivolge, Se
i poeti siciliani avessero voluto esprirnere, come molti pretendono,
un contenuto immediato ed umano, se avessero voluto accostarsi
alle libere fonti del sentimento popolare, non avrebbero trovato
neppure le parole necessarie per balbettare. Le loro parole non han-
no forza espressiva e risonanza al di fuori di quellambiente: solo
nella cerchia del gusto cortigiano benenanza pu far sentire un bri-
vido di felicit, fino pu essere laggettivo appropriato per lamore,
conoscenza pu indicare le virt della donna. solo nellambito di
quel gusto pu aver significato il rapporto di dipendenza gerarchica
dalla donna o dallamore e il diritto del subordinato alla ricompen-
sa se ha servito lealmente.
CARLO SALI NARI
dallI ntroduzione ai Lirici del 200 Torino, UTET, 1968
pp. 9 e sgg
108
La Critica Letteraria
La poesia siciliana
Dalle corti feudali della Francia meridionale la lirica dei trovatori
sera propagata e imposta nella Penisola iberica, in I talia nella Fran-
cia del nord, in Germania, per i suoi ammalianti ideali darte e di
vita: perch [...] rappresentava in forma aristocratica e tale da poter
gareggiare per accorta eleganza con la pi squisita poesia latina del
Medioevo, il complesso mondo di sentimenti individuali del poeta
e, in ispecie, lamore spiritualizzato: mondo individuale ma a un
tempo collettivo, in quanto rispondeva al sentire di una nobile so-
ciet cortese. E formalismo, culto dellio, spiritualizzazione dellamore
[...], dispiegarono unefficacia palese e diretta sui primordi della
poesia europea.
I nuovi doctores illustres - giudici, notai, uomini darme o di
chiesa, nativi dellI sola (e sono la pi parte, i pi antichi e i pi
celebri), del rimanente Regnum o di altre regioni dI talia, e comun-
que legati alla Corte degli Svevi, e che costituirono presto una scuola
con un suo gusto particolare - si accordarono alla nota dominante.
E poich nella letteratura ha rilievo ed pungolo la tradizione o
imitazione, essi derivarono dai loro supremi e inevitabili modelli,
ma con qualche indipendenza, i concetti e gli atteggiamenti del-
lamore di corte col relativo fastoso corredo di convenzionalismi,
galanterie e astrattezze; dedussero la forma metrica del discordo; di
pi trassero conforto e sostegno ad applicare alla lingua siciliana
quella tecnica che era uneredit latina, continuatasi nel Medioevo e
aggravata da buon numero di ingegnosi artificii di concetto, di sti-
le, di versificazione. Confluirono pertanto nel lessico della nostra
prima poesia, e in quello dellantica poesia francese, nel gallego-
portoghese dei trovatori della Penisola iberica e nel medio-alto-te-
desco dei Minnesnger, i termini dellidioma damore delle corti
occitaniche, il quale si fece cos europeo, ed considerato come un
linguaggio proprio solo di un certo strato sociale, capito solo in un
determinato ambiente, tipico insomma di una scuola, ed stato
posto legittimamente a confronto con la terminologia italiana della
musica, che godette anchessa, nei secoli XVI I e XVI I I , di incontra-
stato dominio nellEuropa [...].
Ma i rimatori legati alla Corte sveva che, discepoli dei Provenzali
e, non meno, dei Latini (troppo spesso tenuti in disparte, questi
ultimi, nellesplorazione della nostra nascente poesia), avevano fine
il senso della forna, limpida la coscienza del valore personale della
109
I l Medioevo
parola, lavorarono con trepida cura la loro lingua quotidiana, per
modo che, nobilitandosi, riuscisse una veste appropriatamente or-
nata del contenuto amoroso [...].
Per quel ch poi della tecnica del verso e della strofa, luso
trobadorico fece gradire saggi, pi o meno numerosi, di scoperta
bravura quasi sempre fine a se stessa: il cumulo delle rime al mezzo,
lavviare ogni strofa di canzone con la parola che chiude la strofa
precedente (coblas capfinidas) e il costruire tutte le strofe sulle stes-
se rime (coblas unissonans) o il ripetere le rime a ogni due strofe
(coblas doblas). Ma aiut anche a perfezionare e sistemare la metri-
ca, abituando a una rigorosa versificazione sllabca e costringendo
alla rima perfetta. Cos, se il trovatore per non venir meno al rispet-
to della rima, si riduceva perfino a sostituire il provenzale col fran-
cese o forme consacrate dalla tradizione aulica con voci delluso bas-
so, il verseggiatore siciliano ricorse, per lo stesso fine, alla lingua
latina o a quella provenzale, e avendo un suo cri e un suo amri da
congiungere in rima, si serv di amri latineggiante o
provenzaleggiante (I acopo da Lentini ha, nellibrida lingua
toscanizzata dagli amanuensi Non so se lo savete / comio vamo a
bon core; / ca son s vergognoso / ch io pur vi guardo ascoso / e non
vi mostro amore) e per accordare con pnu io peno un plinu (o
chinu) si valse del latinismo plnu (Re Enzo: Alegru cori, plenu /
di tutta beninanza, / suvvegnavi, seu penu / per vostra inamuranza).
ALFREDO SCHIAFFINI
da Momenti di storia della lingua italiana Roma Studium, 1953
pp. 12-15
110
La Critica Letteraria
Il pubblico colto del secolo XIII
I n I talia, molto prima che altrove, la vita politica ed economica
si svolgeva in comuni cittadini indipendenti, cos che vi prendeva-
no parte molte pi persone. La nobilt feudale (alla quale va unito
il ceto dei chierici cortigiani) non aveva importanza culturale nel-
lI talia settentrionale e centrale. Cera, per esempio a Bologna, Fi-
renze, Arezzo, Siena, un patriziato cittadino relativamente numero-
so, la cui composizione spesso si rinnovava, che aveva parte dirigen-
te nella vita pubblica e aveva bisogno di istruzione. Per conseguenza
in queste citt sorse prestissmo una specie di sistema di istruzione
cittadino che produceva un gruppo relativamente numeroso di laici
colti e che quale che fosse in esso la partecipezione di istituti eccle-
siastici e di persone appartenenti alla Chiesa, aveva un carattere molto
pi pratico e molto pi mondano che nel nord. Se lasciamo da
parte la medicine, lo scopo di questa istruzione, che naturalmente
era ancora soprattutto latina, era di mettere in condizione di parte-
cipare agli affari della vita pubblica, dellattivit giuridica e notarile,
e a questo scopo serviva una propedeutica retorica, chiamata ars
dictaminis [...]. Essa sovrabbondava di figure ornamentali, era pom-
posa e talvolta oscura, ci che sembra contraddire il suo fine prati-
co. Ma la tradizione solenne e maestosa delle cancellerie della tar-
da antichit, rinnovata dallo stile epistolare di Federico I I e del suo
cancelliere Pier della Vigna; essa offre ora un gradito mezzo di espres-
sione per la coscienza indipendente e per lorgoglio politico dei co-
muni e dei partiti. Linfluenza di questo stile sulla prima letteratura
in lingua popolare grande, ed rafforzata dallarte poetica dei
provenzali del trobar clus, anchessa ispirata dalla retorica
manieristica, oscura e difficile; nei provenzali si trovano anche i pri-
mi esempi di poesia politico polemica in lingua popolare. I noltre
nella poesia italiana agisce anche il forte realismo popolare e la mor-
dacit e la poesia religiosa delle laudi, anchessa popolare ma forma-
ta anche alla tradizione biblico-tipologica; e vi appare infine lin-
fluenza della concettosit e della tecnica della discussione scolastica.
Verso la fine del XI I I secolo le influenze pratico politiche, popo-
lari, manieristiche e filosofiche si fondono nella formazione della
letteratura italiana e danno un nuovo orientamento ai motivi corti-
giani; e si trova un altro ceto di persone alle quali la letteratura si
rivolge. Bench non abbiamo alcuna idea molto chiara sul corso
distruzione consueto nelle famiglie del patriziato urbano - anche
111
I l Medioevo
sulleducazione di Dante non sappiamo pressoch nulla, soltanto
ci che egli stesso dice nel Convivio I I , XI I sui suoi studi di adulto
- in ogni caso chiaro che allistruzione e alla culture prendeva parte
un numero di persone molto maggiore che altrove, e che molto
presto la lingua popolare fu usata in modo pi indipendente, per
scopi pi importanti e con maggiore dignit. Prestissimo, gi nella
seconda met del XI I I secolo, si forma un gruppo di poeti che non
n feudale e aristocratico n clericale, che usa la lingua popolare
per dire cose che non sono affatto popolari, che contrappone, in
modo pi concreto di J ean de Meun, per esempio, la nobilt del
cuore a quella della nascita, che, sebbene continuamente impegnato
nella vita pratica e politica, d limpressione di una lega segreta di
iniziati, che fonde nelle sue poesie lelemento mistico- erotico, il
filosofico e il politico in una unit spesso difficile da spiegare, e che
cerca, con maggiore chiarezza e consapevolezza di chiunque altro,
di raggiungere uno stile elevato nella lingua popolare.
Chi il pubblico per la poesia di questo gruppo, del gruppo del
Dolce Stil Nuovo, come lo chiam Dante, il pi giovane di quei
poeti? Non si pn rispondere con precisione a questa domanda;
con precisione molto maggiore si pu mostrare come i poeti si im-
maginassero il pubblico al quale si rivolgevano. Fin dal principio
essi si rivolgono a una lite, alla lite del cor gentile, e fin dal
principio cercano, facendo appello ai pochi e respingendo i molti,
di creare questa lite e di darle coscienza di se stessa. Questo atteg-
giamento rintracciabile gi in Guido Guinizelli ed molto forte
nel Cavalcanti; molto accentuato nella Vita nuova e nelle canzoni
di Dante; si manifesta anche nel Convivio, e qui con un particolare
orientamento contro gli eruditi latini e per i colti in lingua popo-
lare. Questa la testimonianza pi importante che noi abbiamo,
attorno al 1300, per lesistenza di un pubblico colto di lingua po-
polare, e voglio riportarla qui bench sia molto note: Ch la bont
dellanimo, la quale questo servigio (cio linterpretazione allegori-
co-filosofica delle sue canzoni contenuta nel Convivio, oggetto molto
difficile) attende, in coloro che per malvagia disusanza del mondo
hanno lasciato la letteratura (il latino) a coloro che lhanno fatto di
donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni e cavalieri, e
molta altra nobile gente, non solamente maschi; ma feminine, che
sono molti e molte in questa lingua (litaliano), volgari e non lette-
rati (la cui lingua di cultura la lingua madre italiana, non la lati-
na).
Lelaborazione completa del rapporto col pubblico, cos come
112
La Critica Letteraria
nasceva dallo Stil Nuovo, appare per la prima volta nellaltra grande
opera dantesca in lingua popolare, nella Commedia [...].
Dante si cre un pubblico, ma non lo cre solo per s: cre
anche il pubblico per i successori. Egli form, come possibili lettori
del suo poema, un mondo di uomini che non esisteva ancora quan-
do scriveva e che si costitu lentamente grazie al suo poema e ai
poeti che vennero dopo di lui.
ERICH AUERBACH
da Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichit latina e nel
Medioevo Milano, Feltrinelli, 1960, pp. 267-269; 282
113
I l Medioevo
I poeti del Trecento
I l Trecento caratterizzato, a paragone del secolo precedente (in
cui acquista un rilievo predominante lesperienza della lirica damo-
re, dai siciliani agli stilnovisti, riflessa in forma consapevole nella
dottrina del De vulgari eloquentia), dalla straordinaria pluralit e
variet delle voci in cui si esprime il sentimento di una cultura lette-
raria assai pi complessa e insieme pi dispersiva e obbediente a
molte sollecitazioni discordanti.
Tre grandi nomi, consacrati in un canone a buon diritto tradi-
zionale, segnano i momenti essenziali di questa cultura; ma appun-
to, con la loro grandezza, accentuano a dismisura il distacco e la
povert delle esperienze minori; mentre, con la loro successione,
sottolineano la complessit di cui si detto, lirrequietezza e il rapi-
do trasmutarsi dei riflessi culturali e letterari di una struttura socia-
le, che in breve giro di anni vede un po in tutta la penisola frantu-
marsi le istituzioni comunali, disgregarsi il sistema dei rapporti eco-
nomici ad esse corrispondente, costituirsi le Signorie e i Principati,
prepararsi insomma, con varie alternative e attraverso lotte aspre, e
non senza discontinuit cronologiche determinate da specifiche si-
tuazioni locali, quello che sar per secoli lassetto relativamente sta-
bile della societ italiana e della sua cultura. Unet, dunque, per
eccellenza, di transizione; segnata da alcune fortissime personalit
di orgogliosi pionieri e capostipiti della civilt moderna, e da una
folla di tentativi e di esperimenti, in cui si rispecchia la vita difficile,
contraddittoria, irta di delusioni e di utopie, di un mondo che si
dibatte nella travagliosa ricerea di un nuovo ordine politico morale
ed intellettuale.
I ntendere questo travaglio significa infine rendersi conto di quel
fenomeno storico complesso e bifronte, che si suol designare, ri-
spetto allo svolgimento della cultura, col termine di Umanesimo, e
al quale si riconnette non a caso, nella secolare tradizione
storiografica, per quanto si riferisce allI talia almeno, unalterna vi-
cenda di valutazioni discordanti: ora disposte a ritrovarvi le pre-
messe e i fondamenti della grande lezione rinascimentale e della sua
funzione europea; ora, soprattutto nella critica ottocentesca e ro-
mantica, portate piuttosto a puntualizzare in esso linizio o il sinto-
mo di una crisi, di uninvoluzione profonda della societ italiana e
lespressione, se non proprio la causa, del mancato sviluppo di una
cultura nazionale autonoma. La chiave per uninterpretazione pi
114
La Critica Letteraria
persuasiva dellUmanesimo, che risolva in un nesso dialettico que-
sto contrasto di valutazioni, sta forse proprio in uno studio pi
attento del Trecento italiano; perch proprio nellI talia del secolo
XI V che si elabora primamente il volto della moderna civilt del-
lEuropa; ma questa scoperta di una nuova prospettiva culturale ed
umana viene anche con lesaurirsi di un promettente rigoglio di
civilt politica e reca con s il germe di quella dolorosa scissione,
caratteristica di tutta la storia italiana per secoli, tra la coscienza
politica e la vita intellettuale e morale, fra il cittadino e lo scrittore.
LUmanesimo, in quanto invenzione di una nuova tavola di va-
lori culturali ed umani che politicamente si contrappone al Medio-
evo ascetico e feudale, invero la coscienza, fatta esplicita e chiara,
della civilt borghese dei Comuni: la scoperta delliniziativa del-
luomo creatore dei suoi beni e della sua fortuna; lesaltazione del-
lintelligenza e dellastuzia mondana, della potenza e della ricchezza
terrena, e anche delle umane passioni, della dignit dei sentimcnti e
del loro complesso caratterizzarsi; donde lesigenza del realismo
narrativo e del lirismo introspettivo nella letteratura,
dellantiscolasticismo nella filosofia, e nelletica una pi spregiudi-
cata attenzione alla casistica dei valori sociali ed individuali; avven-
to insomma di una concezione laica della vita, legata a interessi con-
creti, consapevole delle sue forze, inizialmente ottimistica, esube-
rante e avida di progresso. Ma nel momento stesso in cui questa
nuova coscienza umanistica perviene in I talia alla sua maturit, gi
la struttura sociale, in cui essa si era venuta elaborando, entrata in
una fase di decadenza, ha iniziato i suo proccsso di disgregazione e
savvia a una rapida rovina. La rivoluzione politico-economica, che
ha la sua espressione nel Comune italiano, recava nel suo seno an-
che il germe di questo capovolgimento delle prospettive culturali,
che giunge alla sua pienezza, dopo una lenta elaborazione sotterra-
nea, nella civilt trecentesca, nelle opere dellAlighieri, del Boccaccio
e del Petrarca; ma questa raggiunta maturit si rivela dal principio
tormentata e intimamente scissa, ha lo splendore troppo acceso e
un po fragile di un fiore sradicato che consuma in un effimero fer-
vore le sue linfe superstiti (e non dar frutto); il fastigio supremo di
una civilt viene cos a coincidere con i primi segni della decadenza,
in unatmosfera di decoro e di raffinatezza, che prepara da lontano i
trionfi dellaccademia e della pedanteria filologica. I nterpreti e atto-
ri al tempo stesso di questa vicenda contraddittoria, in cui si celebra
il nascimento di una grande cultura moderna, del suo splendore,
del suo orgoglio polemico e delle ragioni del suo imminente decli-
115
I l Medioevo
no, sono i protagonisti della civilt italiana trecentesca.
Dante, cresciuto nellambito di una civilt comunale gi lacerata
dai profondi dissidi interni e segnata dalle gravi insufficienze politi-
che che ne fanno presentire il non lontano sfacelo; egli stesso parte-
cipe e martire di quelle lotte; si tiene tuttavia aggrappato con tutta
la sua umanit e la sua dottrina a quella realt di vita politica e di
costumi e di ideologie etiche e religiose, e la elabora in una vasta
sintesi, che cronaca insieme e profezia, somma filosofica e rappre-
sentazione di fatti e di uomini, lopera pi assoluta e al tempo stesso
la pi legata alla problematica spicciola del suo tempo, la pi uni-
versale e anche la pi italiana e dialettale di tutta la nostra letteratu-
ra.
I l Boccaccio, che opera nel medesimo ambiente fiorentino, ma
in uno stadio di involuzione pi profonda, gi lontano dallatteg-
giamento dantesco di partecipazione, e anzi alieno dallintenderlo e
dal giustificarlo, gi propenso a stabilire fra la letteratura e la vita
quotidiana un distacco, in cui si celebri la nuova teorizzata libert e
dignit del letterato; ma ancora aperto alle sollecitazioni di unespe-
rienza di costume e di moralit concreta, da investire con le armi
dellironia e della satira, non ha ancora rinunziato, nel nome di
unideale solitudine, alla dialettica dei rapporti sociali, che anzi lo
appassiona intensamente con la sua varia e vivace casistica; accoglie
pertanto con nuovo vigore il patrimonio della cultura borghese,
inventiva e polemica, psicologica e narrativa, e lo riassume traspor-
tandolo su un piano di estrema raffinatezza letteraria, ma conser-
vandone la straordinaria ricchezza di fantasie e di rappresentazioni,
di tipi e di situazioni comiche romanzesche e drammatiche.
I l Petrarca, infine, sciolto da ogni legame diretto con le vicende
della lotta politica italiana e, pur attraverso le varie relazioni con i
principi e i signori di cui accetta il patrocinio, sempre attento a
salvaguardarsi un rifugio pi o meno illusorio di libert intellettua-
le e poetica, il simbolo pi schietto del tardo ideale umanistico,
con la sua cultura distaccata e fragile, tutta chiusa in un labirinto di
sottili espericnze individuali, lirica e idillica, solitaria ed astratta,
sebbene intensamcnte vissuta nella sua astrattezza, la cultura che
vive nel Canzoniere e che si proporr naturalmcnte a supremo mo-
dello dei letterati italiani per almeno tre secoli.
Dante, Boccaccio, Petrarca additano i momenti pi importanti,
le fasi di un trapasso, di una trasformazione radicale delle strutture
politiche, dei costumi, delle concezioni del mondo. I n essi lespe-
rienza culturale attinge a quel supremo rigore che caratterizza le
116
La Critica Letteraria
punte pi consapevoli e riflesse di una civilt. I minori del Trecento
sono invece lontanissimi da un rigore siffatto, come pure da quello
scolastico, ma pur sempre indice di una vicenda intellettuale co-
sciente delle sue direttive e dei suoi limiti, che aveva guidato e rego-
lato i progressi dellattivit letteraria del secolo XI I I . Essi presenta-
no un quadro pi vario ma pi incerto, pi difficile ad affermarsi,
pi dispersivo e pi ibrido, in cui galleggiano i residui inerti di una
cultura gi spenta e ridotta a bagaglio di formule astratte, ma anche
affiorano a tratti voci nuove, pi facili e cordiali.
Guardate i lirici, ad esempio. Ci che pi spicca, a paragone
dclla coerenza della scuola dai siciliani allo Stil novo, proprio il
carattere estremamente empirico dei loro tentativi, la loro riluttan-
za ad accettare un sistema preciso di schemi contenutistici e di lin-
guaggio, la prontezza con cui obbediscono di volta in volta alle
suggestioni pi disparate dellambiente: insomma una cultura ed
un gusto tipicamente informi. Se nei primi anni del secolo registria-
mo una fioritura di mediocri rimatori che riecheggiano dallesterno
linsegnamento degli stilnovisti, con una totale incapacit di ade-
sione sostanziale; se per contro negli ultimi decenni del Trecento in
un clima di stanchezza e di esaurimento fiorisce lillusione arcaizzante
ed erudita dei letterati intenti a risuscitare il fascino di quella lirica
preziosa, su un piano meramente verbale di pi o meno decorosa
accademia; ci che conta piuttosto lapporto di una folla di picco-
li maestri dei quali assai pi arduo definire unimmagine e unim-
pronta stilistica, e la cui importanza consiste forse soltanto nellim-
mediatezza con cui riflettono i dati di una cultura disgregata e ibri-
da, adattandoli alle mediocri esigenze della loro incerta e torbida
biografia: da Fazio degli Uberti al Corregiaio, dal Vanozzo ad An-
tonio da Ferrara, da Giannozzo Sacchetti a Simone Serdini, dal
Bonichi al Faitinelli ed al Pucci, dal Soldanieri al Donati e al
Prudenzani. Non a caso alcune di queste figure sono estremamente
vaghe e sfuggenti alle ricerche del filologo; e quando anche i dati
documentari son sufficienti a permetterci di stabilire con esattezza i
limiti dei singoli canzonieri, il risultato non ci appare meno incon-
sistente per laffiorare di una molteplicit di elementi contradditto-
ri, che non riescono ad assestarsi, caso per caso, in una fisionomia
unitaria.
Ci che conta la variet grande, dalluno allaltro, degli spunti
e dei motivi di ispirazione; e in tutti la presenza di una sollecitazio-
ne autobiografica immediata e di una continua occasionalit dei
temi, e insieme lesigenza di un vario sperimentare di forme e di
117
I l Medioevo
tecniche e di linguaggi aperto tutto in una volta agli echi della gran-
de tradizione trobadorica e dantesca, alla suggestiva novit del lirismo
petrarchesco, alle eleganze fiorite della poesia musicale, al parlato
incisivo e mordente dellAngiolieri, al gusto dei suggerimenti
popolareschi, allo squallido mitologismo ornamentale dei gram-
matici pre-umanisti. Senza dire che poi tutte queste ed altre remini-
scenze e maniere, non solo si succedono, ma si alternano, si interse-
cano, si mescolano di continuo in uno stesso autore, talora in un
solo componimento. Si tratta per lo pi, non di poesia, ma di lette-
ratura: di una letteratura per altro irrequieta e mobilissima che at-
traversa zone intense, e solo verso il finire del secolo approda ai
malinconici esercizi di un generico squallore.
Non diversamente, nei poemi allegorici e didattici, vedete come
dal serio impegno dei testi pi antichi si passi solo a poco a poco al
modo dispersivo e tutto esterno degli esempi pi tardivi, in cui
lallegoria poco pi che un gioco e un pretesto per accogliere e
legare alla meglio una somma di minute esperienze di vita, e pi
spesso di letteratura.
Non il luogo qui di indugiare in una descrizione dei nomi e
dei testi singoli. Baster, dopo aver riconoscinto questo frantumarsi
degli elementi di una cultura letteraria in una moltitudine di espe-
rienze individuali, e talora nellambito persino di una singola espe-
rienza, dar rilievo alle figure e ai fatti pi salienti: oltre i rimatori gi
ricordati (e il fenomeno, che essi incarnano di un allargarsi e ramifi-
carsi capillare degli interessi letterari in tutte le parti della penisola),
allalba del secolo, la pungente fantasia satirica e mimica dellautore
del Fiore, la robusta vena gnomica e linfinita curiosit di Francesco
da Barberino; pi tardi, la pubblicistica un po pettegola, ma arguta
schietta e fantasiosa di un Pucci; e, con essa, che forse lapporto
pi importante e significativo, la dovizia inconsueta dei testi popo-
lari e semipopolari. Cantri, serventesi, laude e rappresentazioni sa-
cre, frottole, strambotti, favole e proverbi: tutta una ricca lettera-
tura che rapprescnta la maggior somma di invenzioni e di modi
veramente nuovi in qucsta poesia minore trecentesca, e, soprattutto
nei cantri, oltrech la pi fertile di schiette, se pur tenui, emozioni
poetiche, anche la pi attiva, in quanto quella che maggiormente
opera a svincolare anche la letteratura ufficiale dagli schemi del pas-
sato, ad aprirle nuove vie, ad offrirle temi inusitati e fecondi. Anche
questo rilievo inconsueto che acquista nel Trecento la letteratura
popolare, ci aiuta a definire gli aspetti minori di una civilt caratte-
rizzata appunto dai segni della molteplicit, della variet, dellestre-
118
La Critica Letteraria
mo empirismo dei tentativi e dei linguaggi; il che comporta anche
nonostante tutto il senso di una pi larga apertura, di una pi varia
ricchezza, e cio laffacciarsi, almeno potenziale, di una problematica
letteraria pi duttile e in parte pi moderna, pi promettente, chc
per altro, nel trionfo dellideale umanistico (che tende sempre pi a
svincolarsi dalle sue origini e ad affermarsi nclla sua astratta
assolutezza), era destinata a rimanere da noi senza proseguimento e
sviluppo.
Oltre tutto, proprio da questi testi minori, dove il valore do-
cumentario prevale quasi sempre sul proposito artistico, che noi
possiamo ricavare meglio limmagine reale del secolo: unimmagine
minuta varia, contraddittoria se si vuole, e nellinsieme torbida e
angosciosa. Limpressione che sorge pi insistente [...] unimpres-
sione di deceadenza, che investe e travolge tutte le forme di una
civilt. Mentre un sistema di rapporti umani e civili si spezza e cede
il posto ad un altro, in cui pi angusto il margine concesso allar-
monico sviluppo della vita individuale, il cuore degli uomini sem-
bra stretto da un senso di paura e di sconforto.
I grandi istituti, su cui poggiava lassetto della cristianit medie-
vale, sono ormai vuoti nomi. La Chiesa, lacerata dagli scismi e dal-
linterna corruzione, ha smarrito il senso della sua funzione: in alto,
prelati lussuriosi e simoniaci; in basso, preti e frati ipocriti e avidi di
guadagno e di sopraffazione. I compiti affidati ai vicari di Cristo
sono tutti trasmutati I n sparger sangue e vender benefici, I n vizi
scellerati, afferma Antonio da Ferrara; e Giannozzo Sacchetti con-
ferma che ipocrisia... per sacerdoti ogni ben dissigilla; e Pietro
Alighieri ritrae i prncipi della Chiesa tratti a lussuria e a ricchir
parenti; e Braccio Bracci stupisce che le forze dello spirito e una
dottrina di pace siano messi al servizio degli interessi terreni e ridot-
ti a strumenti di guerra: El Vangelo di Dio leggesti invano, Che
pace predic per ogni via, E tu fai guerra e mettici in resia.... Lin-
vocazione di una giustizia di Dio, che sopravvenga ad atterrare lavara
Babilonia, cos frequente da diventare quasi un luogo comune;
mentre da ogni parte insorge la richiesta di una riforma profonda di
tutta la vita religiosa. N minore la vergogna, e pi ridicola lim-
potenza, dellI mpero; sempre pi evidente appare la vanit di ogni
speranza riposta in un suo intervento, che rimetta ordine e giustizia
negli Stati della penisola. La situazione dellI talia, nei suoi rapporti
soprattutto con lautorit imperiale, efficacemente riassunta nelle
parole di uno scrittore pur di tradizione ghibellina, Pietro di Dan-
te: rege sanza possa e leggi vane; un sovrano che teunto pi a
119
I l Medioevo
ciancia Che non fu mai il ciocco delle rane e per causa del quale
quasi a tiranno ogni terra.
Ma pi grave del declino delle istituzioni medievali la profon-
da crisi degli ordinamenti del Comune. Gi nei testi pi antichi,
anche in quelli dove la nuova concezione del costum borghese si
esprime in termini pi orgogliosamente polemici, come nel Fiore, o
in quelli che teorizzano in modi ingenui le idealit della classe diri-
gente, come i trattati di Francesco da Barberino o la canzone del
pregio di Dino Compagni, il lettore intravvede di scorcio il rove-
scio reale di una condizione apparentemente vivace, florida e super-
ba: venuta meno lonest delle relazioni mercantili, corrotte le ma-
gistrature, resa venale la giustizia, smascherata lipocrisia dei giura-
menti cavallereschi. E il lamento cresce negli anni seguenti (perfino
sulle labbra dei modesti fiorentini, di un Pucci, di un Adriano d
Rossi), quanto pi si fa grave dallesterno e dallinterno la minaccia
delle soluzioni violente, della rivolta del popolo minuto ovvero
della prepotenza degli avventurieri spregiudicati e fortunati. I l Co-
mune non riuscito a creare un sistema stabile di ordine e di giusti-
zia; le lotte civili hanno preso il sopravvento; il contado rimasto
distaccato ed estraneo, se non ostile. La storia di Firenze, fra la ti-
rannide del duca dAtene e il tumulto dei Ciompi, quasi un sim-
bolo dellinterna debolezza e dellincapacit di sviluppo degli ordi-
namenti comunali.
Perfino laffermazione della ricchezza e della potenza, che era sta-
ta in un primo tempo lorgogliosa affermazione di un modo nuovo
terreno e mondano di concepire la vita, si vien rivelando a poco a
poco nella sua grettezza e diventa la norma e il presupposto di unin-
giustizia pi profonda: E il mondo vile oggi a tal condotto Che
senno non ci vale o gentilezza, Se non v misticata la ricchezza La
qual condisce e nsala ogni buon cotto, afferma Pieraccio Tedaldi;
e Niccol Soldanieri rincalza: I l vulgo cari Tien zappator pur chegli
abbian denari... Al mondo maggior chi ha pi fortuna. La quere-
la per un siffatto travolgimento dei valori si estende e sottolinea
lingiustizia dei rapporti sociali: al povero tutto negato; anche le
offese perpetrate a suo danno restano impunite; una societ dura e
gretta lo condanna a una condizione di servit senza speranza di
redenzione. E mentre per alcuni, pur nelle forme familiari di una
ideologia religiosa e di un richiamo allideale evangelico, la povert
bandiera di lotta e segno di protesta; altri sorgono a smascherare il
carattere utopistico di questo cristianesimo arcaico e mettono in
luce la natura reale della povert, fonte di corruzione. di avvilimen-
120
La Critica Letteraria
to e di disordine. Ma questo senso di uno squilibrio profondo del-
lassetto sociale resta pure, come il segno di una minaccia incom-
bente, il rimorso di una legge infranta, lansia di una giustizia inaf-
ferrabile, e risuona con modi e toni vari nelle prose e nei versi del
tempo. Fin nelle laude religiose si insinua lutopia di un mondo
dove gli uomini siano finalmente uguali: Se noie tutte avemo un
pate, Donqa semo noi frateglie: Perch non semo agguagliate De
ricchezza onnechiveglie?. E sullo sfondo della polemica arditissima
del Fiore balena ad un tratto con straordinario vigore di rappresen-
tazione, limmagine delle plebi affamate e derelitte: E quandio veggo
ignudi qu truanti Su monti del litame star tremando, Che freddo
e fame gli va s accorando Non posson pregiar n Die n santi, El
pi chio posso lor fuggo davanti....
I n un mondo cos turbato dalla coscienza dellanarchia e della
ingiustizia che lo pervade, anche la minaccia della tirannide pu
assumere la maschera di una speranza di ordine e di pace sociale. La
signoria di uno solo pu parere che assicuri, in certi limiti, una
parvenza di uguaglianza e perfino, per i pi oppressi e perseguitati,
di maggiore libert. Lesperienza tuttavia dissipa ben presto le illu-
sioni: nella terra del tiranno Folli son quei che vi stanno, ammo-
nisce Francesco da Barberino; e il Saviozzo, o chi per lui, ribadisce:
Tiranno tira a s tutte sue voglie: Chi priva dellaver, chi della vita;
A chi toglie la figlia, a chi la moglie; mentre Pietro Alighieri mette
in guardia contro i nuovi pubblicani che rodono ognor con
peggior morso.
Ad ogni modo, sopra tutte le delusioni, resta ferma linvocazio-
ne ansiosa, insistente, dolorosa, di un ordine nuovo che dia final-
mente tranquillit e sicurezza a tutti: la pace, qualunque essa debba
essere, ordinata da un imperatore o promessa da un pontefice, me-
glio consapevoli delle loro funzioni, o magari imposta da un tiran-
no alle comunit faziose e rissose. Limmagine della dolce pace e
presente, bene supremo e sempre inafferrabile, a tutti gli spiriti;
sorregge le speranze degli esuli; ispira le riflessioni e i moniti dei
cittadini pi pensosi; risuona sulla bocca anche dei retori; usurpa-
ta al servizio delle pi varie propagande.
I ntanto, nellassenza di un assetto durevole e ordinato dei rap-
porti economici civili e morali, luomo si sente come un fuscello in
bala di forze estranee che lo opprimono. La Fortuna signoreggia il
mondo: sia poi essa sentita, come talora avviene, quasi cieca ed in-
forme potenza del caso, o ancora come espressione dellimpenetra-
bile volont di Dio, o magari come una specie di forza materiale di
121
I l Medioevo
fronte a cui luomo di cuore si erge, non vittorioso, ma pur tenace
nel rivendicare la sua superstite umana dignit. Ai pi neppure que-
sta impotente rivendicazione di dignit concessa: Contra Fortu-
na non si puote andare, dichiara Vannozzo, N pu per predicanza
o per sermone Corso de stella un momento cessare. Non resta che
acconciarsi ai cinici precetti dellanonimo: Per consiglio ti do di
passa passa..., o a quelli pi avvilenti che van sotto il nome di
Bindo Bonichi: Un modo c a viver fra gente: ...Cessa da magri e
accstati a grassi.... Limpressione che si leva da molte di queste
pagine quella di una civilt che si estingue, con i suoi ordini poli-
tici e morali, e anche con la sua pazienza e la sua poesia: al lamento
di Giovanni Quirini per la morte di Dante (Or son le Muse torna-
te a declino, Or son le rime in basso descadute) risponde alla fine
del secolo quello di Franco Sacchetti per la morte di Boccaccio (Or
mancata ogni poesia E vote son le case di Parnaso).
Al lettore accorto non sfuggir il ricorrere frequente da un testo
allaltro di alcuni temi insistenti, e dunque indubbiamente vivi e
ugualmente presenti alla coscienza dei lirici come dei didascalici,
dei canterini e dei laudesi: il problema della fortuna, e cio del com-
portamento delluomo dinanzi alle forze soverchianti della realt
circostante; il problema della povert, e cio degli squilibri e dclle
ingiustizie sociali; il motivo della tirannide, minaccia incombente
alle comunit superstiti e agli individui ansiosi di libert e al tempo
stesso promessa sovente di un ordine pi stabile e di una giustizia
pi uguale; lanelito infine della pace, di una politica in cui trovi
riposo in qualunque modo e a qualunque prezzo la travagliata sorte
di tutti e di ciascuno. proprio nel ricorrere di questi temi (dal-
tronde strettamente legati fra loro e radicati in una medesima situa-
zione civile e morale) che si delinea latmosfera comune da cui na-
scono, pur cos dissimili negli aspetti, tutti i testi qui raccolti: ed ,
come s visto, latmosfera di una civilt che si spegne, in un rigo-
glio estremo di superstite effimera vitalit, ma squilibrata e ispersa,
gi disposta ad accasciarsi nellimmobile splendore di una lunga
decadenza confortata da splendidi sogni.
NATALINO SAPEGNO
da I ntroduzione ai poeti minori del Trecento, in Pagine di storia
letteraria Palermo, Manfredi, 1960, pp. 197-209
122
La Critica Letteraria
Il Libro delle meraviglie di Marco Polo
Marco Polo non un viaggiatore che ci racconti un suo viaggio.
un uomo che, per ispecialissime fatalit famigliari, cresciuto e
vissuto in Oriente, che stato per lunghi anni alla corte mongola, al
servizio del pi grande impero che allora esistesse, in diretto e con-
tinuo contatto perci colla immensa e molteplice Asia. Quando,
nel 1298, a 44 anni, nelle carceri di Genova, strappato alla sua vita
consueta di uomo dazione, inganna i suoi ozi scrivendo, lo scopo
che si propone quello di dare allEuropa un quadro complessivo
del mondo asiatico, di far sentire agli occidentali che intensa mira-
bile vita palpitasse di l dalle steppe e dalle chiostre montuose oltre
cui noi non vedevamo allora che solitudini e mostri. Bench lam-
piezza e la novit della materia lo obblighino ad una distribuzione
analitica e impongano spesso al suo libro le apparenze di un sempli-
ce itinerario, il suo libro una sintesi. Come tutte le sintesi, uni-
ficato da un sentimento: lorgoglio di avere appartenuto ad una
potente realt e di rivelarla [...].
I l suo libro un inventario delle ricchezze orientali. Con accen-
to dintenditore, spesso con espressione commossa, Marco ricorda i
tappeti magnifici, i bei tessuti doro e di seta, le perle i rubini, gli
zaffiri, i topazi, i coralli, gli avori, le mille carrettate di seta che
entrano giornalmente in Cambaluc, i fiumi che menano oro, le mi-
niere dargento e di lapislazzuli, i legnami preziosi, le spezie, le
finissime pelli, gli aromi... Esce dal libro come un barbaglio di teso-
ri infiniti. Alcune di quelle ricchezze sono come rinchiuse in isole
remote a cui non si lascia approdare nessun mercante straniero: cosi
nel Cipangu, dove sono doro i tetti della reggia e dove ogni mo to
seppellito con una perla in bocca. Altre sono come perdute in
montagne inaccessibili, ove nessun forestiero pu avventurursi per
lostilit degli indigeni e la micidialit dellaria. Ma talune hanno gi
una espansione mondiale. I l mercatante europeo le trova gi negli
empori di Egitto, di Siria, del Mar Maggiore, senza immaginare
per in che prodigiosa abbondanza ed a che prezzo incredibilmente
mite le possegga la loro patria lontana, e senza rendersi esatto conto
dei miracoli di coraggio, di abilit, di tenacia che costato il loro
arrivo. Marco ci porta ai mercanti di origine: nel paese, ad es., ove
per un grosso di Venezia si possono avere tre delle pi belle porcel-
lane cinesi; in quello ove si danno per la stessa moneta quaranta
libbre di zenzero fresco del migliore; in quello dove con cinque
saggi dargento o con pochi grumi di sale si pu avere un saggio
123
I l Medioevo
doro fino... Cinforma dei monopoli, dei tributi, dei noli, delle
dogane, dei vari tipi di moneta in uso nelle diverse regioni, della
maggiore o minore accoglienza degli abitanti. Plaude ai re che sono
ospitali verso il mercante e chiama indegna di re la complicit del
re di Tana con i corsari. Riconosce ammirativamente la sincerit
commerciale dei bramini. Segue glintrepidi mercatanti sui mari in-
fidi, nelle navigazioni interminabili, alla merc dei venti, dei piraati,
delle popolazioni selvagge o feroci; li segue nelle non meno inter-
minabili e paurose marce terrestri, attraverso i deserti desolati, pei
monti inospiti, per le foreste popolate di fiere e di mostri umani,
collincubo assiduo che piombi sulla stanca carovana qualche banda
di ladroni. Le immense citt orientali, su cui si trattiene con tanto
entusiasmo - Cambaluc, Chinsai, Zaitun - sono per lui soprattutto
dei magnifici empori. I n una vera gloria di luce esse ostentano le
loro vie e le loro piazze affollate, i loro fondachi, i loro porti dalle
migliaia di navi.
Mercante, adunque. Ma perch la parola si adegui alla figura di
Marco bisogna pronunciarla con rispetto, non sentirvi nessuna an-
titesi colle virt pi elette dello spirito, ridarle soprattutto il poeti-
co prestigio di cui poteva essere circonfusa, per una tempra magna-
nima, in tempi di vita gagliarda, quando commercio significava ri-
cerca eroica di nuove strade, faticosa conquista sulla natura e sugli
uomini. necessario non dimenticare che lo spirito commerciale di
cui Marco animato quello stesso che ha trasformato le nostre
piccole citt marinare in grandi potenze europee. E che in lui, come
nei famigliari non meno grandi che gli furono precursori e maestri,
come nella citt di cui incarna la tradizione secolare e di cui rispecchia
magnificamente il carattere, quello spirito improntato della raffi-
nata genialit che fa del nostro Dugento uno dei pi grandi secoli
della nostra storia [... ].
Si aggiunga che questo mercante veneziano anche un grande,
un autentico esploratore. I l suo libro virilmente conciso ed im-
personale, senza tracce di esibizionismo, schivo di confidenze e di
sfoghi; ha quelle sole particolarit autobiografiche che allautore
sembrarono necessarie per ottener fede al racconto. Ma, bench le
esperienze eccezionali che gli hanno procurato la sua grandiosa do-
cumentazione sieno lasciate nellombra, esse sintravedono anche
cos come le profonde invisibili assise di un edificio imponente.
Basterebbe elencare i luoghi da lui visitati, quelli di cui ha parlato a
noi occidentali pel primo, per mostrare che il suo posto vicino ai
Colombo e ai Vespucci: tra gli animosi, in tanta parte italiani, che
124
La Critica Letteraria
hanno allargata la nostra conoscenza della terra. Dellesploratore
egli possiede tutte le pi nobili doti. Senti in lui il fascino dei viaggi
lontani, il senso delle originalit paesistiche ed etniche, lamore a
tutto ci che caratteristico e singolare. Lo attraggono le religioni,
le tradizioni, le costumanze [...]. Ha il potere, cos raro, dellammi-
razione. felice di cogliere, di misurare, nelle sue infinite espressio-
ni, il palpito della vita. Poich non certo per sola avidit di mercan-
te si esalta dinanzi a certi spettacoli. I l fervore dei traffici, labbon-
danza ed il pregio delle mercanzie, lentit dei guadagni privati e
delle riscossioni statali sono, vero, i suoi indici di osservazione.
Ma al disopra del lucro e della ricchezza si sente chegli ama lazione.
Ci tratteggia lintensa attivit commerciale di cui fervono le popo-
lose citt della Cina, ricorda i mercanti ricchissimi dallesistenza re-
gale, ma non dimentica il povero monello buttato per tempo nel
vortice perch impari il mestiere, e che correndo tutto il giorno
riesce anche lui a conchiudere qualche baratto e a guadagnarsi la
vita.
I l libro di Marco Polo non soltanto una rivelazione geografica.
Esso rivela ed esalta lAsia di Kubilai: una realt politica e storica
che aveva del sovrumano. Ha come centro e come culmine la de-
scrizione dellorganismo imperiale. Alla piccola Europa, sempre
dilaniata dalle dissensioni feudali nonostante la formazione dei grandi
stati unitari, sempre pi lontana - nella pratica, se non nel sogno -
dalla superiore e universale unit romana, esso dava una lezione
potente di forza e di ordine.
Per di pi Marco uno scrittore. Qualunque sia lo scopo o il
contenuto apparente del suo libro, esso ha la magnifica originalit
delle opere in cui si riassunta una esistenza e si espresso un carat-
tere. Si delinea realmente dallinsieme del libro un profilo spirituale
preciso. Ed al libro rimando chi voglia veramente conoscere il gran
viaggiatore: sapere di quali forze essenziali fu armato il suo spirito,
quale ideale lo ha sorretto nelle peregrinazioni avventurose, alla luce
di quali verit ha osservato i mille aspetti nuovi che gli offrivano la
natura e la vita umana.
LUIGI FOSCOLO BENEDETTO
125
I l Medioevo
La letteratura comico-realistica
Nel rapido cenno che ci consentito fare di questa letteratura in
versi, va almeno detto che essa trasse le sue origini da una larga
tradizione letteraria, rappresentata da certa poesia medievale, so-
prattutto quella goliardica, e dalla poesia giullaresca e popolare fio-
rita fin dai primordi delle nostre letterature romanze, e assunse fi-
sionomia e individualit soprattutto ad opera di due notevoli per-
sonalit: Rustico di Filippo detto Barbuto, fiorentino, della secon-
da met del Duecento, e Cecco Angiolieri, i quali ne fissarono la
poetica nei tempi, nelle forme stilistiche e nel linguaggio, in modo
del tutto diverso, anzi opposto alla lirica aulica della scuola siciliana
e del dolce stile. Accanto ai motivi misogini e antiuxori, e a quelli
dellamore sensuale per la donna, dellelogio della ricchezza, del la-
mento della povert, del vituperio imprecante contro nemici perso-
nali e politici e contro la laida e sconcia bruttezza di donne vecchie,
questi rimatori accolsero abbondante materia dalla loro vita perso-
nale e domestica e da quella cittadina e dettero cos nelle loro rime
una rappresentazione abbastanza larga di s e dellambiente moral-
mente e socialmente basso in cui vissero o finsero di vivere.
A tale materia fecero corrispondere uno spirito alquanto grosso-
lano, privo di ideali umani e di elevatezza culturale, spregiudicato e
materialista, bramoso di godimenti sensibili, dei piaceri conviviali
del mangiare, del bere e del gioco, della donna e dellamor
sodomitico. Ma questo spirito vive i suoi modi e penetra in quella
materia ( questo il carattere pi proprio e distintivo di tale produ-
zione) con sentimento non serio, bens umoristico, tutto volgendo
al comico e al riso con laperto intento parodistico di ritrarre non il
reale ma la sua caricaturale deformazione, il che in certo senso atte-
nua e quasi dissolve il realismo comunemente attribuito a queste
rime. Lo stile, il linguaggio e il lessico, in corrispondenza con la
materia assunta e col sentimento che la vive, tendono al popolare e
al popolaresco, di tanto rifuggendo dallo stile e dal linguaggio aulico,
o volutamente contrapponendovisi, di quanto si accostano alla lin-
gua pi viva e pi spinta delluso quotidiano, con palese ricerca del
crudo, del rude e del violento.
Ne risulta nel complesso un vero e proprio genere letterario ab-
bastanza determinato nella tematica e nelle forme stilistiche, cio
governato da propri canoni e norme com di ogni tradizione lette-
raria e la cui vitalit storica data proprio da questo, oltre che dal
126
La Critica Letteraria
fatto fondamentale di rappresentare esso un modo del nostro senti-
re vivere ed esprimerci, che di ogni tempo e di ogni gente. Come
tale, questa produzione non dunque immediata, spontanea e
incondita manifestazione dellanima popolare secondo linterpreta-
zione della critica romantica, ma costruzione darte retta da una
vigile disciplina letteraria. I l rozzo, il plebeo, il grossolano, il rusti-
co e il popolare, di cui anche noi abbiamo toccato, sono circoscritti
ai temi, allo spirito e al lessico di quella poesia, non si estendono
alla sua fattura; e in quello stesso ambito non sono diretta e sponta-
nea confessione autobiografica, ma quasi sempre cercati, voluti e
conquistati per puri intenti e compiacimenti letterari. Cos possia-
mo spiegarci ladesione a questo genere da parte di poeti colti e di
spirito fine ed elevato (basterebbe per tutti il Dante della tenzone
con Forese) e il simultaneo volgersi alla lirica aulica di chi se ne
crede il deciso iniziatore, cio Rustico di Filippo.
La conoscenza e lo studio di queste rime giovano a darci una
intelligenza storica dei tempi molto pi ampia e veridica di quella
che ce ne dava il quadro fornitoci dalla storiografia letteraria
ottocentesca e limitato quasi esclusivamente alla poesia aulica, per-
ch ci mostrano lesistenza di questi interessi mondani e terrestri e
di questo vivo gusto del popolare, e meglio ci aiutano a intendere il
successivo dispiegarsi della nostra civilt letteraria anche nella for-
mazione di grandi personalit poetiche qual quella del Boccaccio.
I noltre queste rime sono anche mezzo validissimo per lo studio
della storia della nostra lingua, alla quale esse apportano un contri-
buto non meno efficace di quello della lirica dotta.
A parte dovrebbero essere classificate le famose collane di Fol-
gore di San Gimignano, del tutto diverse e lontane dalla produzio-
ne di cui si parlato, specie dal punto di vista dellispirazione e
dello stile. Siamo s ancora nella vita reale del tempo, nel senso che
egli fingendo di dettare un programma di vita a una brigata cortese
e a un cavaliere ne ritrae e descrive, sia pure idealizzandole, liete
costumanze mondane; e abbiamo ancora di fronte unanima gau-
dente intesa ai piaceri del senso, ma lo spirito ne interamente di-
verso, e altro ne lo stile e il linguaggio. Nessuna crudezza realistica,
n volgarit plebee, n intenti parodistici e caricaturali, n gusto del
popolare e del rude; ma ideale e colorita dipintura di un mondo di
gentilezza, governato dalle virt cavalleresche della prodezza e della
cortesia e aperto a signorile giocondit, espressa in una lingua e in
uno stile molto pi raffinati e ripuliti. un genere a parte, cui si
dette la qualifica di borghese per distinguerlo cos da quello plebeo
127
I l Medioevo
del realismo comico come dallaltro altamente aristocratico del dol-
ce stile, e che ebbe anchesso il suo svolgimento, tutto proteso verso
forme e spiriti rinascimentali, non meno vivamente di quanto lo
fossero idealizzate figurazioni di vita profana, di cui pittori del tem-
po andavano abbellendo le sale dei palazzi pubblici e privati, com
dato ancora di vedere, proprio in San Gimignano, nella sala del
Consiglio del Palazzo Comunale.
F. FIGURELLI da Cecco Angiolieri, in La Ietteratura italiana, I
Minori Marzorati, Milano 196l, vol I , pp. 242-244
128
La Critica Letteraria
La poesia giocosa del Due e Trecento
Nel fervido panorama culturale, cos suggestivo ed avvincente,
che offrono allo studioso i primi capitoli della nostra storia lettera-
ria, mentre agli ultimi aneliti di una letteratura in lingua latina sin-
trecciano spontaneamente e naturalmente vi si inseriscono le prime
voci di una nuova umanit in lingua volgare in una innegabile
continuit di ideali e di passioni, un gruppo di poeti chiassosi e
scapigliati facilmente riconoscibile: Rustico, Cecco, Meo, Folgo-
re, Cenne... Hanno una comune visione della vita, godereccia,
sensuosa, realistica, antiplatonica; una comune poetica di opposi-
zione allo stile tragico e di predilezione dello stile parlato, pede-
stre, comico: sono i poeti che noi abbiamo scelto di chiamar gio-
cosi, con parola che vuol individuare la loro arte e la loro persona-
lit. Giocoso, infatti, a noi sembra intensamente comprensivo di
tutti gli altri qualificativi con i quali sono stati fin qui indicati quei
poeti, essendo termine ricco di un duplice valore psicologico e
stilistico; e giocoso assorbe in s anche le precise indicazioni di
realistico e di comico, poich lantico poeta giocoso, per sua
natura, operava sempre in tacita o aperta polemica con lidealismo
letterario di Provenza, di Sicilia, di Toscana, oltre tutto per saziet e
per fastidio; e si ispirava, di conseguenza, ai dettami che le varie
Artes dictandi suggerivano per uno stile mezzano o basso, per lo
stile comico, appunto. Del resto, giocosa fu sempre chiamata la
poesia del Berni, il quale non il creatore, non il punto di partenza
di una poesia tolta in giuoco come ben la defin Benedetto Croce,
ma un solido punto di arrivo, un rielaboratore (sapiente e
litteratissimo rielaboratore!) dei temi e della tecnica giocosi, quali
si erano formulati e maturati da Rustico a Cecco, al Burchiello, al
Pistoia, al Pulci. Pure di res jocosa e di sermo jocosus sulla scorta
della poetica oraziana trattavano le citate Artes, ad illustrare quel
particolare genere, quei temi, insomma, dobbligo, e la tecnica pe-
culiare ad esso pi idonea.
Una simile condizione critica non pu, quindi, indulgere ad in-
terpretazioni autobiografiche o di tipo romantico; anzi, estrema cura
ed attenzione occorrer ad evitare, e sar talvolta oltremodo diffici-
le, i pericoli pi sottili e nascosti di falsare la biografia, o lautobio-
grafia, la letteratura e la storia: quello, cio, di scambiare per reale
elemento di vita, per verit biografica, un antico tema dobbligo in
129
I l Medioevo
siffatta rimeria, e quello di lasciarsi suggestionare dallandamento
apparentemente romantico o addirittura, altre volte, da poeta ma-
ledetto o decadente, di questo o quel componimento poetico [...].
Sembra ingiusto, perci, accusare i giocosi, poggiandosi soltan-
to sullesame tematico e contenutistico delle loro rime, di dissipa-
zione morale, di scarsa interiorit, di mancanza di seriet, di poco
coraggio verso i tremendi doveri che cimpone la vita. La loro pi
alta seriet consiste nellonest e nellimpegno con cui affrontarono
praticamente e risolvettero secondo le proprie possibilit e la pro-
pria vocazione i loro problemi di cultura, di tecnica, di stile; nella
coerenza con cui tennero fede alla loro visione della vita e la espres-
sero secondo i modelli di una decisiva tradizione. Rappresentarono
il fastidio e la saziet che ormai poteva generare la poesia aulica,
ricca di aneliti verso lideale, ma assai povera, o del tutto priva, del
gusto della realt; si richiamarono alla vivace variet della vita in
contrapposizione alluniforme immagine platonizzante, che essi
potevano sentire indecisa nei contorni e vaga e fumosa nel suo sot-
tile teologico valore; non accettarono unarte assai schifiltosa e sprez-
zante, monotona costituzionalmente per la sua stessa essenzialit,
per amore verso la sempre rinnovantesi plasmabilit del parlato e
anzi ne beffarono ed irrisero gli ormai consueti luoghi comuni; alle
sublimazioni sognate e celestiali vollero opporre i rinnovati ed anti-
chissimi diritti della terra e del senso, mentre batteva alle porte la
rivendicazione umanistica e si preannunziava il trionfo naturalistico
del Rinascimento. Ma se questa seriet di fabbri del parlar materno
nellunit di intenti e di propositi (unit invero facile a degenerare
anchessa in gioco accademico: accademia contro accademia) deci-
siva a riscattare i poeti giocosi dalla ripetuta accusa di incolti e di
illetterati, non si dimentichi, daltra parte, che moltissimi di loro
appartenevano a famiglie assai potenti ed illustri dantica nobilt,
sulle quali gravavano non poche responsabilit della vita del Co-
mune; che altri furono anche messeri, cavalieri o notari; e che le
loro rime politiche, pensose robuste impetuose, testimoniano, infi-
ne, la loro appassionata e totale partecipazione agli avvenimenti del
tempo, di cui furono talvolta attori, talvolta spettatori, affrontando
coraggiosamente le conseguenze non sempre liete delle loro azioni
o delle loro particolari convinzioni politiche, nel vivo della lotta.
Ricorderemo le sferzanti rime politiche di Rustico di Filippo, quel-
le violente e beffarde di Folgore da San Gimignano, e le pensose ed
impetuose di Pietro dei Faitinelli, per tacere degli altri [...].
130
La Critica Letteraria
[...] alla tradizione giocosa latina medievale, a quella pi antica
dei temi misogini ed anti-uxorii, della variabilit della fortuna, delle
tenzoni, degli joca ecc., e a quella pi recente del goliardismo sen-
suale e scapigliato, chiassoso e taverniere, sinnesta, sulla scorta dei
perentorii paragrafi delle Artes dictandi, la nuova tradizione gioco-
sa in volgare. Letteraria anchessa, dunque; anchessa accademia,
quanto lo stilnovismo e il petrarchismo. E se dello Stilnovo fu det-
to che una scuola creata dai posteri, e per solo riconoscibile
come aura poetica e dottrinale (Flora), la stessa cosa potrebbe
ripetersi per i pi antichi nostri giocosi, concordi nel rivolgersi ad
una precisa tradizione letteraria e nellaccettare i suggerimenti della
retorica, e riconoscibili nella loro ispirazione terrestre, sensuosa, anti-
aulica. Da loro, per via di imitazione e di assimilazione, deriver il
genere che da Rustico si prolunga almeno sino al Berni: in esso, a
volta a volta, pur tra il vano ripetersi degli antichi temi, come in
cera obbediente alle intenzioni dellartista, si plasmeranno lestro di
un Burchiello, la loquace e facile letterariet di un Pistoia, il sapien-
te umoristico gioco di un Pulci.
Balza da questa affollata e rumorosa rimeria un insegnamento
storico che ci riporta ad un momento della civilt e della cultura
europee ancora profondamente unitaria, ed una panoramica visione
che ci ridona la vita ed il colore di quel tempo. A volerla rievocare
simultaneamente, dallalto e quasi da lontano, essa ci riconduce in-
tero e assai vivo il fervore delle idee e delle lotte, il fitto mnoversi
degli uomini con le loro debolezze, le loro delusioni, le loro ambi-
zioni. Vi risentiamo le grossolane risate, le empie bestemmie, le
violente invettive; il pittoresco e multicolore fluire della vita quoti-
diana del Comune vi rivive, nelle piazze incorniciate dai palazzi de-
gli Uffici o negli stretti e bui vicoletti dominati dalle lussuose case
gentilizie. E se anche molti di quei piccoli ed affannati uomini sono
oggi muti e senza fisionomia (un nome scarno e vuoto; nullaltro),
tuttavia la loro forza significativa e suggestiva: eco di pettegolezzi
e di risse e di cronaca nera, espressione di una particolare sensibilit,
segno della vivacit e dellimpegno di una cultura militante. La
rimeria giocosa e comica, pur rimanendo fenomeno squisitamen-
te letterario e culturale nella sua ispirazione, nei suoi motivi e nella
sua tecnica, affonda le proprie radici nella vita e ci riporta il senso ed
il colore del tempo in una maniera che la poesia tragica, per la sua
stessa paura, rifiuta e condanna. E perci sentiamo che quella, pi
che questa, ricca di carica sociale ed affronta, pur nellalveo della
131
I l Medioevo
tradizione tematica gi - crediamo - a sufficienza messa in rilievo, i
problemi della vita quotidiana.
MARIO MARTI
da I ntroduzione a Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M.
M. Milano, Rizzoli, 1956, pp. 11-12
132
La Critica Letteraria
Cecco e la poesia comico-realistica
La poesia realistico-giocosa stata variamente interpretata e giu-
dicata dalla critica letteraria; alcuni critici in quella poesia hanno
riconosciuto la riproduzione schietta e fedele della vita dei rimatori
e del loro mondo intellettuale ed umano, e altri, allopposto, la
continuit di una tradizione letteraria e scolastica in stile comico, di
cui i poeti giocosi sarebbero culturalmente gli eredi e i continuatori
nella nuova lingua, il volgare.
I n quanto pareva, nellopera letteraria e giocosa, immesso il
mondo minore e grossolano della realt quotidiana, sembrava, cio,
rappresentato, in tono dimesso e stile e lingua spogli da influenze di
cultura, con immediatezza e realismo naturalistico, lambiente so-
ciale e umano proprio dei poeti, la critica erudita e positivistica,
erede delle posizioni romantiche, riteneva come biografici e senti-
mentalmente sinceri e genuini i dati contenuti nei componimenti
letterari, scambiando cos per realt storica quella espressa nel pro-
dotto letterario. Lopera dei rimatori giocosi rappresentava il mon-
do della commedia terrena; essa era lanticultura, la spontaneit ar-
tistica, lesempio pi vero darte popolare ed ingenua in opposizio-
ne netta allopera dei poeti stilnovisti e cortesi, magnifico esempio
darte culta, artificiale, intellettualistica; descrizione, insomma, quella
poesia, dun dramma umano appassionatamente vissuto, cronaca
biografica sincera e inalterata, espressione pura e semplice di una
istintivit popolare di ispirazione, di stile, di lingua, del tutto
difforme dalla studiata eleganza e dalla raffinata intellettualit della
poesia culta. I n realt, per, i critici pi sorvegliati e pi accorti, pur
restando fedeli alle posizioni ideali e teoriche su cui quella critica si
fondava, non potevano non avvertire essi stessi la difficolt di accet-
tare lespressione giocosa come specchio sincero e nitido di senti-
menti e passioni, di considerare, ad esempio, le oscene ingiurie di
Rustico, i vigorosi improperi e vituperi di Cecco, di Meo, del Tedaldi
come manifestazione sincera e appassionata di stati danimo violen-
temente commossi; e talora avanzavano il dubbio che si trattasse di
invenzioni e di bizzarrie poetiche, di iperboliche esagerazioni lette-
rarie. certo che anche ad una superficiale osservazione, certe vio-
lenze e arditezze giocose, la gustosa raffigurazione di casi minuti
dellesistenza borghese e quotidiana, le esclamazioni intolleranti ca-
riche di crucciosa malinconia, le notazioni realistiche audaci risulta-
no visibilmente elementi di una compiaciuta e spesso divertita de-
133
I l Medioevo
formazione letteraria, espressioni ambigue di scomposta evidenza,
intenzionalmente improntate a toni accesi e vivaci, rivolte ad effetti
straordinari ed eloquenti e parodistici, nelle quali sembra dissolver-
si una corrispondenza quale che sia con dati storicamente accertati.
E non solo perch, a considerare il caso tipico e limite, in questa
prima fioritura volgare del genere giocoso (quando ancora i modi
giocosi non sono diventati maniera puramente letteraria o pretesto
a un fantasioso gioco poetico e linguistico di gusto insieme bizzarro
e pittoresco), vi esempio sicuro di una pura invenzione, il sonetto
antiuxorio di Pietro d Faitinelli, il rimatore lucchese autore di un
violento sonetto diretto contro la sua donna (son. I I I ) che sappia-
mo invece dai documenti teneramente amata da lui e che gli soprav-
visse come sua erede; ma anche perch la natura letteraria della rimeria
realistico-giocosa testimoniata dalla partecipazione ai modi gio-
cosi dei poeti illustri in alcuni momenti della loro attivit artistica.
Lopposizione netta fra rimatori cortesi e rimatori borghesi e,
correlativamente, tra poesia fiorentina e poesia senese, stata facil-
mente smentita; cos come a Firenze risuonavano le voci delicate
degli stilnovisti e la voce irruente di Rustico, a Siena la poesia di
Cecco e di Meo era preceduta dallesperienza sicilianeggiante di
Folcacchiero d Folcacchieri e accompagnata da quella aulica di
Bortolomeo d Mocati... Modi poetici e letterari, dunque,
intercambiabili, nellambito di un mondo culturale, diverso negli
aspetti e nei valori, ma sostanzialmente unico Guido Guinizelli, il
padre, come dice Dante, mio e degll altri miei miglior, che mai
Rime damor usar dolci e leggiadre, liniziatore bolognese dello
Stil novo, rivela in un suo sonetto la piena adesione ai modi comi-
ci:
Diavol te levi, vecchia rabbiosa,
e sturbigion te fera in su la testa
nel quale la descrizione della vecchia si atteggia nelle forme che
ci sono ormai note:
Ma tanthai tu sugose carni e dure
che non si curano [i nibbi e i corbi] averti tra mano;
per, rimani, e quest la cagione;
e in un altro sonetto (Chi vedesse a Lucia...) egli, che pur aveva
cantato la donna come colei che a tenea dangel sembianza, ir-
rompe in una sua espressione di vivo desiderio sensuale:
Ah, prender lei a forza, oltra su grato,
e baciarli la bocca e l bel visaggio
e li occhi suoi, chn due fiamme di foco.
134
La Critica Letteraria
I l Cavalcanti, a sua volta, il dolente poeta damore, uno di quel-
li, di cui Dante scrive che vulgaris excellentiarm cognovisse (De
vulg. el.), impiega talora i modi dimessi alieni dalla poesia tragica e,
pi ancora, i modi bassi, per dirla retoricamente, della poesia gioco-
sa, come ncl sonetto:
Guata, Manetto, quella serignituzza...
e com drittamente sfigurata
e quel che pare quandella sagruzza.
E Dante stesso, giovane, trepido cantore della Vita nuova, scrive
gli irruenti sonetti della tenzone con Forese Donati che i vecchi
critici giustificano solo collegandoli con un pauroso e momentaneo
deviamento dellAlighieri, una parentesi brutta e poco onorevole in
una vita cos drammaticamente alta e significativa. Daltro canto gli
stessi poeti giocosi, i poeti considerati istintivi, spontanei, popola-
ri, realistici, scrivono talora nei modi della poesia illustre. Per limi-
tarci solo a qualche esempio, I acopo da Lona ci ha lasciato, accan-
to al sonetto burlesco su Rustico, sette sonetti amorosi, nella forma
e nel tono artificiosi e complicati, preguittoniani; Cecco Angiolieri,
il rimatore basso e plebeo per eccellenza, rivela, in alcuni sonetti,
certo cronologicamente i primi, una iniziale inclinazione alle forme
poetiche e ai procedimenti stilistici illustri, siciliani e di transizione,
che egli impiega con seriet e convinzione, anche se con scarsi risul-
tati darte (e questa vigilia poetica ci spiega il pieno possesso da
parte del senese del patrimonio darte degli stilnovisti nel momento
felice del suo trovare giocoso, comicamente polemico con lispira-
zione stilnovistica); e, soprattutto, Rustico di Filippo, liniziatore
della rimeria volgare in stile comico, ci ha lasciato accanto ai suoi
ventinove sonetti audaci e potenti, ventinove altri sonetti del tutto
conformi alla tradizione illustre siciliana damore, mostrandosi cos
padrone sicuro dei mezzi artistici del genere tragico e di quello co-
mico, tecnico esperto nelluno e nellaltro genere, creatore di una
lingua violenta, robusta e realistica e fedele interprete e meccanico
ripetitore della lingua poetica che la tradizione della prima scuola
aveva suggestivamente elaborato e conferito alla Toscana. Aspetti
opposti, allora di un mondo culturale, cui i poeti partecipano,
lispirazion bassa dei poeti borghesi e quella sublime dei poeti illu-
stri e in ci ancora errato si rivela il giudizio della lingua dei poeti
realistici come ingenua, spontanea, irriflessa: essa appare, piuttosto,
consapevolmente adattata agli atteggiamenti antispiritualistici, espres-
sione s di un mondo culturalmente modesto, ma orientata pur
nelle sue componenti culte e popolari, ad accogliere prevalentemente,
135
I l Medioevo
per scopi darte, i crudi tratti idiomatici e ad atteggiarsi in modi
stilistici colloquiali e familiari.
La decisa reazione della critica idealistica alle proposizioni della
critica positivistica ha ormai dissolto ogni interpretazione rigida-
mente romantica e biografica della rimeria, giocosa e ha ampliamente
rilevato e documentato il carattere letterario di essa, la sua natura
affatto culturale la continuazione in essa della tradizione scolastica
dei contenuti e dei modi bassi, ossia lelaborazione in volgare de
motivi e delle forme giocosi di una ben costituita e vital corrente
letteraria medievale latina e neolatina. I l Marti, soprattutto, ha re-
centemente mostrato lambiente culturale in cui la poesia giocosa
va collocata e spiegata; non gi frutto quella poesia, di una istintivit
popolare e plebea, di una confessione biografica, espressione rozza e
incondita di una spiritualit meschina e di un gusto incolto, patri-
monio insomma dellanticultura insofferente, ribelle e immediata
bens risultato, al pari delle forme letterarie pi alte, di una coscien-
za artistica impegnata e talvolta severa, prodotto di una adesione
consapevole dei rimatori agli spiriti e ai modi della poetica medie-
vale nella scelta dello stile mediocre, cui la retorica assegnava, nella
tradizione scolastica degli stili, un posto analogo a quello dello stile
sublime. Riattingono, i rimatori giocosi, sia pur in una analoga
esperienza umana e culturale, i temi poetici a una tradizione lettera-
ria antica e recente: i vecchi temi misogini e antiuxori presenti in
tutta la letteratura medievale e riassunti, nel sec. XI I , da Andrea
Cappellano in quella parte del Liber de Amore che costituisce il De
reprobatione Amoris e da Buoncompagno da Signa, nel sec. XI I I ,
nella sua retorica novissima, dove sono elencate le molteplici
transumptiones, o metafore, di ardita violenza, applicabili alla don-
na anticortese, e vivi, nelle lingue romanze, sia pur con spirito di-
verso, nei provenzali Marcabruno e Rustebenf, nel francese J ean de
Meun della seconda parte del Roman de la Rose, nello spagnolo
J uan Ruiz del Libro de buen Amor e nellitaliano autore del Fiore;
i vecchi temi dellamore innaturale, e quelli ben pi diffusi dellin-
costanza della Fortuna che Arrigo da Settimello nella sua elegia De
diversitate fortunae, studiatissima nelle scuole, adattava nel sec. XI I
a tutte le possibilit deffetto e deloquenza; i vecchi temi del vitu-
perio e dellingiuria giocosa, espressi in latino nelle strophal, nei
gabbi, nelle cantilene, nelle satire goliardiche, continuate nel mon-
do romanzo dalle poesie derisorias dei provenzali, nelle cantigas
descarnio y de maldecir della lirica spagnola; e i pi recenti motivi
della celebrazione sensuale e gioconda della donna, dellesaltazione
136
La Critica Letteraria
spensierata del denaro onnipotente, del gioco, della taverna, della
deprecazione crucciosa della povert che risuonano nei carmina
amatoria, lusoria, potatoria dei goliardi medievali, che prorompo-
no nei canti del repertorio giullaresco e popolare. Vecchi e recenti
motivi che rappresentano in maniera parodistica o realistica un
mondo basso e triviale, angusto e grossolanamente appassionato
quale appare anche nei fabliaux francesi (i cui antecedenti costitui-
scono la Comoedia elegiaca latina) e nei contes rire (i cui prece-
denti latini sono i gabbi e le facezie giullaresche) o nellepopea degli
animali parlanti, nel Roman de Renard o nelle grandi compilazioni
gi citate del Ruiz o di J ean de Meun. Motivi, dunque, vitalissimi
nella letteratura, atteggiati per la norma retorica del conveniens se-
condo i modi stilistici e linguistici prescritti dalle artes dictaminis.
Ora, in questo deciso rilievo della natura topica, o scolastica,
della rimeria giocosa non esclusa dalla critica pi recente una
congenialit dei poeti con i temi e i motivi della loro arte e, pi,
una loro particolare esperienza umana che giustifica lassunzione dei
modi comici; ma congenialit ed esperienza che risultano, nelle pro-
posizioni critiche, non preminenti, s che la poesia giocosa appare
piuttosto come un compiaciuto esercizio o gioco letterario, il risul-
tato di una adesione artificiale a modi stilistici costituiti, di una
scelta innocua delle forme comiche dellofficina letteraria. I n realt
se, come si gi osservato, lequivalenza letteraria degli stili consen-
te a taluni rimatori realistici di tentare le vie dellesperienza aulica e
sublime, vero per che il fondamentale impegno artistico e lette-
rario di quei poeti si spiega solo nellambito comico, che la loro
ispirazione significativa resta sempre unica e insuperabile; anche nel
caso di Rustico, il poeta bifronte, bisogna concludere che solo nella
poesia giocosa espressa tutta la personalit del fiorentino, non
essendo le rime sicilianeggianti che meccanico ossequio alla tradi-
zione illustre, segno forse di una vigilia letteraria ancora immatura a
frutti altamente e singolarmente significativi. La discretio dello stile
comico appare dunque determinata da una particolare disposizione
spirituale e da una operante esperienza umana dei rimatori; del re-
sto facile altres constatare che, in questo primo fiorire dclla poesia
giocosa volgare, quando ancora essa non si affermata come schema
poetico o genere letterario in altra temperie storica, fatti storici e
vicende biografiche stanno spesso alla base della trasfigurazione po-
etica, anche a prescindere dai sonetti di materia politica nei quali
maggiormente riconoscibile la trasposizione di accadimenti civili
nella poesia.
137
I l Medioevo
Scarsi ed esigui sono, invero, i dati documentari relativi ai nostri
poeti e povere e ambigue le notizie accertate che consentano di com-
prendere appieno i loro componimenti, lintelligenza dei quali spesso
ostacolata dal fatto che noi moderni ignoriamo personaggi e cir-
costanze della realt storica entro la quale i rimatori vivevano. Ep-
pure quando si conoscono documentariamente taluni momenti della
biografia di questo o di quel rimatore, si indotti a rilevare che la
loro poesia ha comicamente esagerato o trasfigurato nei modi con-
venzionali della scuola elementi storici e reali. E non si pu accen-
nare al caso tipico di Meo d Tolomei, la cui personalit stata
chiamata recentemente in vita dal Marti con un compatto numero
di sonetti; di questo singolare rimatore senese, la cui opera costi-
tuita dal vituperio antimaterno e antifraterno, documentata Lini-
ziale fortuna mondana e politica e il successivo rapido oscuro decli-
no, di fronte allascesa del fratello minore, Mino detto lo Zeppa, al
quale Meo costretto, alla fine, a vendere casa e terreno: lingiuria
giocosa contro il fortunato fratello, cui vanno le preferenze della
madre, si illumina cos, variamente (e lo Zeppa ritratto come bi-
gotto, codardo, millantatore e ladro), di una concreta vicenda uma-
na, sollecitata com, nella sua trasfigurazione comica, da un risenti-
mento del rimatore, meschino, invidioso, intollerante della sfortu-
na. Poco persuasivo pu sembrare lesempio di Meo, dal momento
che il vituperio presuppone sempre un antefatto reale; ma quando
il Marti osserva che il tema poetico donna taverna dado di Cecco
ripetizione letteraria di un tema goliardico che ricorre particolar-
mente in quel carme di Primate poeta che Salimbene ci ha traman-
dato come giustificazione allaccusa mossa dal vescovo a Primate
de opere venereo, idest luxuria et de ludo et de taberna, si pu
aggiungere che quel motivo parte del mondo umano nel quale il
senese, di famiglia ormai decaduta, viveva e operava. Nei Capitoli
volgari dei Disciplinati della venerabile compagnia della madonna
dellOspedale di S. Maria della Scala di Siena del 1285 si prescrive
severamente agli affiliati: Anco che ciascuno de la Compagnia quan-
to pi pu si guardi da ogni giuoco d dadi, e da ogni altro che si
vincesse e si perdesse, e del tutto si guardi dandare in taverna, e
dogni altro luogo disonesto. Anche lantistilnovismo polemico
del canzoniere amoroso dellAngiolieri pi che attestare una generi-
ca continuit di una tradizione scolastica antifemminile, sembra piut-
tosto confermare linsurrezione di una cultura e di un ambiente sto-
ricamente e socialmente determinati nella divertita e pungente vo-
lont del senese e dei suoi imitatori di deridere lispirazione mistica
138
La Critica Letteraria
e spiritualistica di quei poeti aristocratici e solitari, e tesi perci ad
evadere dal loro monda borghese, che essi umanamente non inten-
dono e non condividono, descrivendo gli aspetti dellamore gros-
solani e sensuali che essi vivono, esagerati nelle forme stilistiche del-
la scuola in una sapida parodia.
Poesia giocosa, quindi, saldamente legata allambiente entro cui
essa fiorisce; frutto non di puro e semplice gioco letterario, ma di
una adesione ai modi espressivi della tradizione comica nellassun-
zione poeticamente deformata di dati reali, il cui contenuto e il cui
spirito risponde alla vita scabra e dimessa dei poeti.
Rimatori letterati sono i giocosi, partecipi e possessori dei mezzi
e degli strumenti dellofficina letteraria del Medioevo; il cui trova-
to, nei suoi svolgimenti e nelle sue immagini, nelle sue forme e nei
suoi modi, si inquadra e si giustifica nella tradizione della letteratu-
ra di stile comico in tutta la variet e lampiezza delle sue espressio-
ni. Nei procedimenti formali regolati da retorica in cui i poeti adat-
tano il volgare, il sole nuovo del mondo letterario, alluso richie-
sto dalla res iocosa si riconosce la natura e la qualit del lavorio
artistico dei rimatori e la loro fedelt, soprattutto, al patrimonio
scolastico della tradizione comica e bassa. Ma nella coerente e per-
manente assunzione dei modi comici v il segno della naturale in-
clinazione dei nostri rimatori ad esprimere, sia pur con ovvia
trasfigurazione parodistica ed esagerata, poeticamente efficace ed elo-
quente, il mondo della borghesia minuta e popolana delle citt
dugentesche nel quale essi vivono come uomini passionati e veri e
storici, con i suoi trasporti sensuali e terreni, privo di profondi sen-
timenti, alieno da un serio impegno morale e religioso, remoto dal-
le complicatezze intellettuali, pago dei suoi valori immanenti e
mondani, insofferente dogni tentativo devasione aristocratica e
cortese.
I poeti realistico-giocosi, non sorretti da unalta e severa coscien-
za della vita e dellarte, trasfondono, combinandoli variamente e
amplificandoli con gustoso gioco sentimentale (che sfuma i limiti
tra realt e bizzarra e fantastica deformazione letteraria), i dati forni-
ti dai propri domestici casi, od offerti dalla minuta vita comunale
alla quale partecipano, nella loro poesia, elaborata secondo i canoni
retorici e i modelli esemplari della tradizione, ma aderente nel tono
e nello spirito alla realt che ne ha sollecitato lispirazione.
I poeti di alto stile depurano da ogni segno di esperienza terrena
e da ogni riferimento concreto la loro poesia di tono dolce e leggia-
dro, intensamente lirica, o dissolvono in un dettato formalmente
139
I l Medioevo
prezioso, di alti intendimenti morali o di ardite sottigliezze
dottrinali, il realismo anche crudo della loro poesia di tono aspro e
sottile, e si isolano in una aristocratica solitudine darte, impegnati
in un severo e finissimo travaglio poetico. Di contro, i poeti di
basso stile nella loro prima esperienza volgare, nella particolare espe-
rienza storica della Toscana comunale nellet fra due secoli, restano
pur sempre fedeli al mondo umano che essi esprimono con corposa
robustezza, bisognosi non dastrazione n di solitudine, ansiosi non
daffinamento formale rigoroso e sottile, ma di comunicazione larga
e immediata (latteggiamento stilistico colloquiale e interlocutorio;
il ritratto burlesco o parodistico, il vituperio, limprecezione e il
realismo politico; ecc.) come di fronte a una platea umana parteci-
pante e sorridente al trovato estroso e bizzarro (il gusto stilistico
della rappresentazione dialogata e della scena farsesca a dialogo con-
citato; la deformazione parodistica dei casi domestici; la metafora
oscena e il linguaggio allusivo e furfantesco; lesaltazione dei vizi e
dei piaceri comuni; ecc.), intenti a una elaborazione artistica e stilistica
non faticante n assidua, ad un lavorio letterario comunque mode-
sto, nel quale la lingua risulta ingenuamente composita e miscidata,
anche se dominata dai fatti idiomatici, dalle forme della parlata po-
polare.
Nel quadro della civilt e societ comunale degli ultimi de-
cenni del Duecento e dei primi del Trecento la cultura letteraria
toscana presenta due aspetti diversi e significativi. Da un lato la
borghesia attiva e intraprendente dei nuovi chierici della cultura, i
giudici i notai i maestri di grammatica e di retorica e di diritto, che
costituiscono la classe dirigente del Comune, si pone come conti-
nuatrice ed erede della tradizione scolastica latina e neolatina e in-
tende a divulgarla e a rinnovarla, inserendovi spiriti democratici e
borghesi; da ci lallestimento delle sillogi della poesia illustre, i
volgarizzementi delle opere didattiche e retoriche dal latino e dal
francese, le grandi compilazioni didattiche in volgare. Dallaltro la
borghesia ricca e mercantile e lantica nobilt guelfa decaduta, ossia
gli strati socialmente pi alti del Comune, alla cui vita partecipano
attivamente, che esprimono le pi raffinate e aristocratiche esigenze
della cultura, accolgono e continuano le forme pi solenni e severe
della tradizione della scuola e dellaula cortese e tendono, con spiri-
ti eletti, a una letteratura preziosa e distaccata, da lite: la poesia
dello stile tragico e lo stilnovismo nel suo complesso. I nfine la bor-
ghesia minuta e gli strati popolari pi attivi, paghi di una letteratu-
ra meno o poco impegnata sul piano dellarte, senza preziosit, aperta
140
La Critica Letteraria
a una pi immediata intelligenza e a un pi largo pubblico, erede,
nella variet dei suoi aspetti, delle forme e degli sipiriti della tradi-
zione comica e della tradizione pi squisitamente popolare. A que-
sta sfera letteraria appartiene la nostra rimeria, 1a quale ha, oltre che
contenuti parodistici, una sua robusta e realistica seriet, e vanta il
suo poeta raffinato e gentile, in qualche modo legato alla gaudente
ed elegante borghesia danarosa, in Folgore, ma pur sempre aderente
nel complesso al gusto e ai valori e alle esigenze dellambiente nel
quale essa fiorisce. [...] Quale che sia la misura della presenza bio-
grafica dellAngiolieri nelle sue rime - e sicuramente limmagine che
egli d di se stesso, dei suoi vizi e delle sue passioni, non presenta
alterazioni sostanziali della realt storica quale accertata o facil-
mente intuibile dalle notizie che di lui possediamo - il poeta si rive-
la, nel suo temperamento, costantemente inquieto e cruccioso,
implacato e mobilissimo, insoddisfatto e pur in qualche misura ras-
segnato alla sua sorte per dispettoso compiacimento. Non si ha mai,
in lui, un dramma spirituale; n come accade su una linea ben di-
versa in Rustico, la sua sensibilit si esprime in una protesta satirica;
appare tuttavia il poeta, in una disposizione affatto sensualistica a
cogliere i tratti corposi della realt e a respingere ogni mondo idea-
le, con lanimo sempre involto in quella malinconia [...], che in-
soddisfazione, irrequietezza di non soddisfatti piaceri e di non ap-
pagati desideri, uggia duomini e di cose e di s. E se tale malinconia
espressa dal rimatore con eloquenti effetti di divertita e ironica
esagerazione, tuttavia rimane al fondo della sua ispirazione a riscat-
tare la natura blasfematoria dei componimenti pi arditi e immora-
li, a render vivi e palpitanti i pi temperati e suadenti, damore.
I nfatti, passioni e sentimenti, in questo temperamento acre, ma non
mai irosamente morale, agiscono in superficie e non sono vissuti in
profondit; e resta, per ci, un margine al gioco della mente che
aggiunge dapparenza e rigonfia le cose, che scatena la pi iperbolica
fantasia, entro cui si spiegano la foga negatrice del poeta e lestremo
vituperoso dei sonetti contro il padre; lo scontento imprecante nel-
lansiosa brama di denaro e di godimenti; lindugio del rimatore,
tra sorridente e amareggiato, nel ritratto di s, innamorato pi spes-
so scontento che appagato, e di Becchina, astuta sensuale, provo-
cante; o, ancora, laccentuarsi di una ben precisa polemica
antispiritualistica svolta con ironici eccessi.
E la fantasia poetica, nei suoi voli bizzarri, in Cecco non solo
sempre suggerita dalla realt, da cui non sfugge e non evade mai, ma
della realt si avvale a comporre appunto i suoi giochi, conforme
141
I l Medioevo
allatteggiamento del poeta, esteriore e immanente, e alla sua attitu-
dine espressionistica. Gi in quella che pu essere considerata la
prima esperienza poetica damore del senese, nellaccettazione dei
moduli artistici toscano-guittoniani, nellassunzione seria e impe-
gnata degli elementi preziosi e scelti della poesia illustre di transi-
zione, il poeta non perviene mai ad astrarsi in un dettato teso ed
esemplare. Gli elementi anche realistici, in quella poesia toscana,
erano assorbiti in una astrattezza poetica, persino arida, anche se
con una sua preziosa malia; nellAngiolieri, invece, i tratti realistici
restan tuttavia, senza misura indipendenti e dominanti, e la sua
poesia acquista in concretezza e icasticit quanto perde in aristocra-
tica tensione stilistica. Ora, proprio questa prevalenza, di gusto e
dattitudine, al realismo corposo nel canto damore, ispirato da
quellumor pessimistico proprio di Cecco, svela la contraddizione
implicita fra la seriet dellintento tragico e lusualit e grossolanit
dellimmagine e dellespressione poetica, e, quindi, la preminenza,
nella poesia del senese, dei tratti borghesi e realistici, a scapito e
contro la sua aulica ispirazione; ci segna il punto di partenza del
ritrovamento da parte di Cecco della facolt propriamente contraf-
fattrice ed ironica, del passaggio allintento nettamente comico che
si manifesta appieno, con coerenza di mezzi e di modi, nella pi
matura poesia, nella quale, in forma magniloquente e paradossale e
con forte accentuazione realistica e teatrale, il mondo complicato e
sottile, intellettuale e mistico dello stilnovismo, da cui il poeta attinge
situazioni, significati ed espressioni, risulta sapientemente burlato e
deriso, e nella quale si realizza distesamente la sua ispirazione
goliardica e giullaresca. E la facolt comica e burlesca di Cecco, pur
nella sua uggia crucciosa, si attua proprio in questo calcolato e scal-
tro atteggiare ad effetti ironici e divertiti lispirazione varia, superfi-
ciale, contraddittoria; nellesprimere con spirito fantastico e defor-
mante, in toni accesi e coloriti, contenuti s borghesi, ma sempre
serii. Nella sua poesia, descriva il poeta lamore per Becchina o la
sua struggente passione, rifletta sulle proprie miserie e disgrazie, ce-
lebri i godimenti o si crucci della sua povert, imprechi o motteggi
popolarescamente, descriva narri o rappresenti, sempre lespressio-
ne realistica e grossolana, senza valori o allusioni ideali, piena di
sfrontate ed estrose trovate, impetuosa, perch percorsa da una sor-
te di tetra malinconia, paradossale ed esagerata, perch sortita da un
gioco inventivo senza profonde radici spirituali, mimica e tutta vlta
allesterno e al fatto, perch priva di profonda consonanza interiore,
e per ci sempre un po caricaturale riguardo ai contenuti, ironica
142
La Critica Letteraria
spesso a rispetto della realt, i cui contorni ha compiaciutamente
esagerato e ironicamente contraffatto. il segno, questo, dellarte
pi matura dellAngiolieri, dei sonetti che meglio attestano la sua
singolare qualit poetica. Laccentuazione delle tinte, lesagerazione
dei tratti nella sua raffigurazione realistica, quel che di efficacemente
eloquente e sonoro risuona nella voce sua e in quella dei suoi perso-
naggi, quella esteriorit espressionistica ricca di accostamenti biz-
zarri e popolari riflessioni sentenziose, levidenza marcata delle
scenette di svolgimento rapido e farsesco, la concitazione dei dialo-
ghi serrati, son modi espressivi peculiari al senese [...]. Tanto pi
efficaci e singolari risultano quei modi, quanto pi mobile e colori-
ta la lingua di Cecco, ampiamente e variamente composita nei
suoi elementi lessicali e nelle sue forme fonetiche e morfologiche,
attinti a fonti eterogenee, culte e popolari: latinismi, gallicismi,
meridionalismi poetici, toscanismi e senesismi e, se pur raramente,
voci maliziose e furbesche.
MAURIZIO VITALE
da I ntroduzione a Rimatori comico-realistici del Due e Trecen-
to, a cura di M. V. Torino, UTET, 1956, vol. I , pp. 48-69
143
I l Medioevo
Guittone dArezzo
Comunemente il nome di Guittone crea con s la sensazione
doscurit e di funambulismo tecnico, insieme con gindizio di una
sostanziale impotenza espressiva a specchio di una sua aridit spiri-
tuale. Ed sensazione, e giudizio, persuasiva, specialmente quando
si pensi alla parte deteriore e caduca, e che maggiormente irrita il
nostro gusto di uomini doggi, della esercitazione letteraria del
rimatore dArezzo; tanto pi che fu proprio il peggio di Guittone a
far pi vasta presa sui mediocri discepoli, che accettarono e compli-
carono - in unassurda emulazione di abilit - le singolari difficolt
tecniche affrontate e miracolosamente superate dal loro inarrivabile
modello. Guittone voleva piegare il suo volgare alle sottigliezze pi
astruse e alle articolazioni pi incredibili, non solo per conquistare
un suo vanto rispetto alla recente e gracile tradizione siciliana, ma
anche per superare i suoi veri maestri, gli antichi trovatori. la
stessa posizione insomma, decisamente emulatoria, di Dante nei
confronti di Arnaldo Daniello, del quale egli tradusse in Toscana la
famosa sestina, duplicandone le non lievi difficolt tecniche nella
sua sestina doppia. La tensione tecnica di Guittone, oltre che dal
tradizionale concetto del trovare, trae forza proprio dalla forma-
zione culturale del poeta e dal suo stesso temperamento energico e
volitivo: non un arido gioco fine a se stesso; vuole essere, al con-
trario, proprio una dimostrazione di capacit e di potenza. Ed ecco
la frequenza delle rime al mezzo, nei sonetti e nelle canzoni, che
raddoppiano la difficolt della rima semplice, creando un interno
rapporto fonico e, nei casi migliori, musicale, suscettibile di ampi
sviluppi stilistici; ecco le rime ripetute ed equivoche, [...] nello sforzo
di ricavare da un breve corpo fonetico pressoch identico e fisso
ogni possibilit semantica; ecco le rime: care dei sonetti 223 e 224,
stroppo, vadro, giadro, prestrabbo, idrabbo, ruzume, rabuffa, ciuffa,
valentre, ecc. e di altrove, che denunciano la volont di dimostrare
e di esaurire la ricchezza lessicale della nuova lingua; e le
difficoltosissime rime doppie del son. 60, nel quale ogni verso
diviso in due emistichi, ed i ventotto versetti che ne derivano, rima-
no rispettivamente e normalmente fra di loro (solo il primo
emistichio consuona col terzo irregolarmente rispetto al quinto e al
settimo). Una volta postisi su questa china, difficile fermarsi; ed
alla spinta concorrono, daltra parte, linveterata tradizione retorica
medievale, le allitterazioni, i bisticci, le ambivalenze lessicali, le ri-
144
La Critica Letteraria
petizioni, le etimologie, le figure etimologiche... Un bagaglio che
Guittone portava con grande disinvoltura e facilit e molto volen-
tieri, come attesta la tessitura tecnica della sua poesia e della sua
prosa. [...]
Gli che Guittone era cosciente della necessit di siffatte
ricerche lessicali e tecniche, che gli procuravano insistenti accuse
doscurit, per inserire nel giro di uno stile gi fossilizzato e tradi-
zionale lurgenza di nuovi motivi e della sua energia rinnovatrice.
Prova ne sia che le peculiarit tecniche finora ricordate, ed altre,
non sono caratteristiche della sua prima produzione dargomento
amoroso, ma anche della sua seconda e terza attivit politica e reli-
giosa, ove esse pi spesso diventano funzionali e si tramutano in
significativo elemento di stile. I nsomma, la confessione me
sforzeraggio a trovar novel sono non riferibile solo alla formazio-
ne guittoniana, ma al suo costante carattere, alla sua energica e dina-
mica natura di sempre Scuro saccio che par lo - meo detto, ma che
parlo - a chi sentend a me; - ch lo ngegno mio da me - che me pur
prove n onne - manera, e talenthonne, cos altra volta conclude-
va, prima del congedo, un suo discorso poetico sulla speranza damo-
re, travagliato da rime equivoche ed ambigue. E cio, se bene inten-
diamo: So che la mia poesia sembra scura, salvo che io parlo a
coloro che mi amano; la mia natura che mi spinge a esplorare tutti
i mezzi despressione, ed io perci la faccio assai volentieri. C
tutto un viluppo denergie e di rinnovamento nello schema di un
deciso programma da perseguire fino in fondo. E molti anni dopo,
in una delle nuove canzoni morali vigorose, ampie e distese, Guittone
ribadiva quella sua posizione con fermezza rinnovata, ora, dalla per-
suasione morale: E dice alcun ch duro - e aspro mio trovato a
savorare; - e pote essere vero. Und cagione, - che mabonda ragio-
ne, - per cheo gran canzon faccio e serro motti-e nulla fiata tutti -
locar li posso; undeo rancuro, - chtun picciol motto pote un gran
ben fare. Versi meritatamente famosi come gli altri sopra citati. Ma
noi vorremmo porre laccento non tanto sulla oscurit che costitu-
isce il capo daccusa, quanto sulle successive dichiarate ragioni del
suo essere: il mio temperamento mi spinge allesplorazione della
lingua e dello stile, prima; e poi: io rancuro se nulla fiata non posso
serrare, come io vorrei, tuttintero il mio pensiero. Sicch anche la
conversione religiosa si risolve, per questo Ulisse della tecnica, in
programma letterario: ora parr seo saver cantare - e seo varr
quanto valer gi soglio, - poich del tutto amor fuggo e disvoglio.
Questa energia di ricerca espressiva del Guittone poeta ed del
145
I l Medioevo
Guittone prosatore; del Guittone scrittore damore ed del
Guittone cantore della rettitudine e della patria; il suo inaridirsi e
raffreddarsi genera le inutili e artificiose forme della sua peggiore
poesia; il suo corroborarsi di pensiero in adeguazione ad una
perspicua chiarezza psicologica d origine ad una vigorosa, impe-
tuosa, tagliente eloquenza, non priva di bagliori di poesia. Allora la
tecnica fredda diventa calore di stile, e Guittone tende ad assumere
la sua pi precisa fisionomia di poeta. [...]
Forma di un sentimento ardente e battagliero; ch il centro
psicologico di Guittone uninflessibile certezza spinta fino ai limi-
ti dellapostolato. La forma espressiva che gli si attaglia loratoria;
le sue mete, la solidariet e il proselitismo. E perci lautobiografismo
sta alla base della sua produzione in versi e in prosa, negli elementi
di pi immediata importanza per limpostazione dei rapporti tra
arte e vita: quelli che riguardano la scuola, la tradizione, la cultura,
e quelli che riguardano la morale, la fede, la religione. Si noti quan-
to spesso Guittone inizi le sue poesie con un Ahi: Ahi, bona don-
na, che devenuto; Ahi, dolce gioia, amara ad opo meo; Ahi
Deo, che dolorosa, - ragione aggio de dire; Ahi lasso, or stagion
de doler tanto; Ahi quantho che vergogni e che doglia aggio
ecc. ecc. e quante volte introduca siffatta interiezione nel corso del-
lo svolgimento tematico. O anche si veda come frequentemente la
prima mossa di un suo componimento sia costituita da un vocativo:
A te, Montuccio, ed agli altri il cui nomo; Alcun conto di te,
conte Gualtieri; Altra fiata aggio gi, donne, parlato; Magni
baroni certo e regi quasi; Messer Giovanni amico, n vostro amo-
re; Tanto d vert, frati e dignitate; O sommo bono e del bon
solo autore, e cos via. Quasi tutti i sonetti dei vizi e delle virt si
aprono con un vocativo; Guittone si rivolge in seconda persona a
quelle astratte entit a condannarle, ad ammonirle, ad esortarle ed
esaltarle, come se si trattasse di persone. Era la sua propria natura.
Fra gli Ahi e i vocativi degli incipit si giungerebbe facilmente a circa
due terzi dei componimenti guittoniani in versi: e non parliamo
delle Lettere, che per la loro stessa natura sono dei sermoni. For-
me di costante autobiografismo, ancorato a solidi princpi e volto
alla persuasione; cos come sintomatico che essi si ritrovino altret-
tanto spesso nelle poesie amorose, nelle morali e politiche, e nelle
Lettere, che scaturiscono dalla stessa disposizione spirituale da cui
nascono quelle. Questa energia interiore, questimpegno totale, ri-
scattano la poesia amorosa dalla precedente condizione cortese ed
intellettualistica, e la commisurano alla vita, dissolvendone i favo-
146
La Critica Letteraria
losi miti tradizionali ed inserendola nel giro degli interessi pratici e
vitali; e piegano larte a tutte le esigenze del viver sociale. Di qui
linsistente dottrinarismo, il continuo appello alla ragione, e la ro-
busta ossatura logica della canzone e della lettera guittoniana. Non
si chieda, dunque, a Guittone la lirica sorgiva del canto e la immor-
tale trasparenza della poesia pura: esse rimangono quasi sempre lon-
tane dal suo impegno dottrinale e pedagogico. Saranno tuttal pi
rari approdi felici, attraverso la tempestosa navigazione delleloquenza
e le strettoie ventose della persuasione. I l destino di Guittone
lapostolato:Auda che dico chi vole arricchire, - e cor, non sacco
impire, ed ornare non gi fazion, ma mente; e ancora: Auda chi
vole adessa il mio parere. - Che brevemente chere - e vol di noi
razional natura? - Vole, dico, che noi amiam savere.... Lesortazio-
ne, il consiglio, linsegnamento, lammonimento, sono le solite vie
della sua espressivit; la sovrabbondanza degli attributi e linsisten-
za dellaggettivezione parenetica e morale accompagnano le serie dei
suoi convinti assiomi, delle sue categoriche affermazioni; le interro-
gazioni retoriche traducono il turgore del sentimento; le interiezio-
ni e le esclamazioni rivelano la sua commozione morale. Uninte-
riorit, quella di Guittone, che non conosce dubbi, n inquietudi-
ni; ma, estremamente sicura di s, si effonde allesterno con la cer-
tezza che nessuno pu porre in dubbio la sua severit, e che anzi
tutti faranno volentieri omaggio alla luce che da essa si sprigiona;
una interiorit che non soffre soste o pause nellopera di missione e
di esaltazione, ma che manca tuttavia di raccoglimento e di intimi-
t, di sofferenza e di malinconia. [...]
Solo in tal senso ci sembra possibile parlare di un realismo
guittoniano; come continua esigenza, cio, di riportarsi alla vita,
attraverso il rigore morale, la scuola, la cultura e la dottrina. Per
questa via Guittone supera e dissolve la tradizione precedente, ar-
ricchisce il suo lessico e il suo dizionario dimmagini, e prepara temi
nuovi. Gli si frantuma il vecchio concetto di nobilt feudale, di
sangue e di razza, ed egli pone i nuovi fondamenti della nobilt di
cuore e delezione: Non ver lignaggio fa sangue ma core, - n vero
pregio poder, ma vertute - e s grazia ed amore, appo scente. Parte-
cipa intensamente alla vita politica della sua Toscana, la sua passio-
ne gli ispira le pagine pi commosse della sua pi calda eloquenza;
e nasce la grande canzone, che non rimarr senza riflessi anche nel
grandissimo Petrarca. Strappa lamore al mito e lo consegna alla
realt, e ispirato dei suoi solidissimi principi morali, inaugura nella
letteratura italiana il canto della rettitudine. Tutto ci contribuisce
147
I l Medioevo
a far di Guittone uno dei punti critici e nevralgici della nostra prima
letteratura; e a permettergli un ampliamento di visuale dincalcola-
bili conseguenze particolarmente verso i domini del reale. Si ricor-
dino la sua tenzone con la donna villana, i motivi pi maliziosi dei
suoi I nsegnamenti dAmore, e certe immagini di vita quotidiana e
familiare, che avvicinano Guittone al realismo dei giocosi: che n
terra fai di bene onni fontana, - pane de vita e de dolzor cocina; s
come naso a viso e tu a dottrina, - tu, di costumi ornament e colo-
re; desconverrea non poco a bancher bono - vetro alcuno com-
prar libra dargento; Molti ghiotti son, molti; e nullo tanto, -
che marchi mille dessi in pesce alcono; e via dicendo. Esiti im-
provvisi e non rari verso lumile e quotidiana realt, usati tuttavia
dal poeta sempre come mezzi per meglio chiarire il suo pensiero, o
come viatico di pi invitante persuasivit, fermo comegli nel suo
atteggiamento didatticamente severo, e proverbiosamente
ammonitore (e si vedano i sonetti 166- 168 come esemplari della
fusione di realismo e di proverbiosit). Qui anche da segnare lori-
gine di quella ibrida mescolanza di linguaggio, risultante di varie
componenti (la idiomatica dialettale, la culta tradizionale siciliana e
provenzale, la latina scolastica e letteraria), che dispiacque tanto
agli antichi e dispiace tanto anche a noi moderni.
Certo, il pi felice Guittone noi sappiamo coglierlo soltanto nella
direzione della sua energica eloquenza verso limpegno morale e verso
la passione politica, nel suo autobiografismo ardente e battagliero,
senza dubbi e senza tentennamenti. Se volessimo vedere in lui solo
lanticipatore e il precursore dello Stilnovo, di Dante o del Petrarca,
noi riusciremmo a possederne solo una piccola parte; ch in Guittone
certamente (ed abbiamo gi espresso il nostro parere al proposito)
vi sono elementi che i suoi immediati posteri dovettero ereditare,
forse senza accorgersene, anzi ostentando ribellione. Ma distrugge-
remmo limportanza e la validit storica di Guittone, se lo esaurissi-
mo tutto intero nel verso Angel di Deo sembrate in ciascun mem-
bro, o negli altri quattro Gentile ed amorosa criatura, - soprana di
valore e di biltate, - voi chavite dangel la figura, - lume che sovra
ognaltro ha claritate..., che potrebbero essere firmati da un poeta
stilnovista; o lo riducessimo a certe minime modulazioni di canto,
che potrebbero anche far pensare al Petrarca pi lirico. Guittone
Guittone nellimpeto tagliente della sua eloquenza, nella fermezza
luminosa delle sue accensioni morali e religiose; nelle forme darte,
cio, e dispirazione, nelle quali soltanto poteva inverarsi il suo vi-
goroso temperamento e la sua sempre urgente vocazione
148
La Critica Letteraria
allapostolato; magari turgide e verbose, ma anche ampie ed organi-
che. [...] Per questa via gusteremo il miglior Guittone nelle canzoni
politiche, perch in esse il lievito autobiografico acquista slancio e
forza di irrompente passione, senza mai trasmodare dalla misura
della morale e della giustizia. Cultura e vita morale vi si accendono
e si sublimano in un canto solenne, duna cordialit nuova, come se
la voce di Guittone fosse essa stessa la suprema voce della giustizia e
della morale, pur aspra talvolta di sarcasmo, vibrante dironia, rgente
di condanna. il caso della famosissima canzone Ahi lasso, or stagion
de doler tanto, che , per giudizio comune, il punto pi alto
ragginnto dal poetare guittoniano: A voi, che ste ora in Fiorenza,
dico-che ci ch divenuto par vadagia;-e poi li Alamanni in casa
avete, - servitei bene, e fate vo mostrare-le spade lor, con che vhan
fesso i visi, -e padri e figli aucisi.... I l passato culturale e dottrinale
di Guittone cede qui alla essenziale constatazione della verit; cedo-
no i barocchismi sottili e la tortuosa e vana tecnica; la lingua rag-
giunge il suo nuovo vero impasto realistico, nel quale la fastidiosa
mescidanza di cultismo e di dialettismo non ha pi luogo. Guittone
grida ex abundantia cordis, tutto immerso nel fatto in s, ammonitore
ed apostolo nel proprio lievitante autobiografismo; la sua retorica
assume il valore di significativo ed emblematico stile: Baron
lombardi e romani e pugliesi-e toschi e romagnoli e marchigiani, -
Fiorenza, fior che sempre rinnovella, - a sua corte vappella...; Mo-
nete mante e gran gioi presentate - ai Conti e a li Uberti e a li altri
tutti.... Una eloquenza, quella di Guittone, preparata tecnicamen-
te da lontano, sicura nel suo taglio, ferma nella sua solennit; attinge,
talora, toni biblici specialmente nel compianto 0 nel lamento: Ahi
dolze terra artina, - pianto maduce e dolore... membrando cheri di
ciascun delizia, - arca dogni dovizia, - sovrapiena arna di mel terren
tutto, - orto donne disdutto, - ambra di poso e dagio.... E: cos
per esempio nella famosa canzone a Ugolino della Glherardesca e a
Nino Gindice di Gfallura, che il poeta vorrebbe indurre a recar soc-
corso a Pisa: O come in pianger mai suo figlio stanco! - Vederla
quasi adoventata ancella, - di bellor tutto e donor denudata, - di
valor dimembrata, - suoi cari figli in morte ed in pregione... e donni
amico nuda e donni ainto. Di l dal Petrarca, dunque in Guittone
che si pn cogliere lorigine di certi atteggiamenti e di certi toni,
divenuti poi tradizionali nella poesia politica italiana; in queste sue
canzoni, che certo dovette leggere ed amare il secondo e pi grande
poeta aretino. [...]
Questi stessi caratteri psicologici e stilistici dnno corpo alle
149
I l Medioevo
Lettere, fra le quali primeggia (e ne una riprova) la gi citata XI V
agli I nfatuati miseri Fiorentini dopo la battaglia di Montaperti,
calda e commossa replica dellanaloga canzone (ma potrebbe essere
anche lopposto). I n essa la tessitura tecnica e linguistica delle Let-
tere, cos bene illuminata dagli studi dello Schiaffini e del Segre, ai
quali rinviamo, si rimpolpa di vera vita e di commossa psicologia,
perdendo quanto di freddo cerebralismo e di programmaico
schematismo pn avere nelle altre lettere; quali per esempio, le pro-
lisse I I I e XXI e la XI I , costellate da cima a fondo di detti, di citazio-
ni, di sentenze. Ma lievi ed elegant) nella loro struttura sono la V e
la XVI I I ; indirizzata alla Compinta Donzella la prima, nella quale la
parole compiuta nella utilizzazione della replicatio si carica di sim-
bolica perfezione spirituale e culturale; indirizzata all ex-assessore
di Arezzo Marzucco Scornigiani la seconda, assaporata (cosa vera-
mente eccezionale in Guittone) dallarguto sale di una pungente e
sorridente ironia. I `e altre, per gran parse, sono testimonianza an-
cora della culture e degli spirit) di Guittone frate, quale luna e gli
altri siamo andati delineando; e perci sono da porsi accanto alle
canzoni moral), di cui ripetono i caratteri, se non si voglia ammet-
tere che le lettere vivono in un linguaggio pi mosso e realisticamente
immaginoso: le due lettere a frate Manente dell ordine dei predica-
tori, per esempio, quella alle a Abadesse e donne religiose, e cos
via. Sarebbe, dunque, anche per questo - a nostro gindizio - errato
pensare che le lettere siano pure esercitazioni stilistiche nel genere
epistolare, sul tipo di queue di Guido Faba, tanto sono pi ample e
costruite. (3i sarebbe contrario alla mentalit di fra Guittone tut-
to teso verve la vita e verve la realt, ammonitore e giudice di uomi-
ni e di event). Noi crediamo, col Segre, che esse rispondessero e si
riferissero a precise situazioni e ad uomini veri (non a fantasmi,
come far poi in parse il Petrarca), e iossero realmente inviate ai loro
destinatari, come erano inviate le canzoni appunto e i sonetti, e che
fossero insieme - agginngiamo - diffuse presso i letterati come opere
darte e di poesia. N deve meravigliare che Guittone potesse scrive-
re ad un carissimo Frate e Padre suo congratulandosi per la malattia
di lui e mostrandogli in quale stato di grazia cgli si trovasse a cause
della sue infermit fisica; ci non solo conforme ai dettami del
cristianesimo, ma anche alla mentalit medievale, e soprattutto alla
coerenza spirituale di Guittone, che abbandon
moglie e figli per seguire la sue vocazione religiosa. E in fondo,
dalla conversione in pod, larte state sempre per Guittone solo il
mezzo pi redditizio per assolvere ai suoi doveri di frate dell Ordi-
150
La Critica Letteraria
ne dei Cavalieri di S. Maria, larma pi efficace, infine, per la sue
opera di apostolato, perseguita nei decenni della sue attivit, da
vero bon trovatore, - in piana, e n sottile rime e n care - e in soavi
e saggi e card motti.
MARIO MARTI
da Ritratto e fortuna di Guittone dArezzo, in Realismo dantesco
e altri studi Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, pp. 133-45
151
I l Medioevo
Il dolce stil nuovo
La lirica del Trecento nasce accompagnata dallarte: non rozza,
immediata, n primitiva (almeno in quel senso che pi generalmen-
te sattribuisce a codesto epiteto), bens consapevole d propri mezzi,
non aliena da ricerche retoriche e linguistiche, poggiata su di una
vasta e sottile cultura, dotata a suo modo, e secondo lestetica del
tempo, di discernimento critico. La corrente che, allinizio del seco-
lo, segna gli orientamenti e i limiti del gusto letterario, quella del
dolce stil nuovo e col suo influsso, pur mescolato, intorbidito,
diviso, durer, oltre il Petrarca, fin nella prima met del secolo se-
guente. I nflusso esteriore: visibile in determinati e sempre pi con-
venzionali atteggiamenti del contenuto e della forma; influsso inti-
mo e assai pi profondo: nella coscienza artistica che opera in molti
poeti, e anche nel Petrarca, guidandoli nella ricerca duna espressio-
ne raffinata e nobile d propri sentimenti, duna lingua sempre meno
volgare, lavorata con delicatezza, scelta n vocaboli secondo lidea-
le dun gusto aristocratico e prezioso. Di questa vasta risonanza let-
teraria del dolce stile giova non dimenticarsi se si vogliono intender
davvero, nella loro formazione e n loro limiti, le opere poetiche
nate in un deteminato clima di raffinata cultura. Ma pur giova non
confonder lampia e un po vaga zona dinfluenza con il nucleo cen-
trale dondessa promana, e che , per s, ben limitato e chiuso nel-
lambito duna scuola poetica, la cui storia ritrova i suoi documenti
pi certi e notevoli in alcuni luoghi, ormai famosi, degli scritti
danteschi.
E noto che Dante, incontrando in un balzo del suo Purgatorio il
rimatore lucchese Bonaggiunta Orbicciani, mentre ci offre il nome
(da noi, per convenzione ormai antica, adottato) della scuola o grup-
po letterario cui egli appartiene, definisce poi questo dolce stil
novo uno scrivere quando Amore spira, significando al di fuori ci
che quello detta dentro, e a quel modo proprio che esso detta;
venendo poi a pi precisa determinazione storica, afferma che i nuovi
poeti seguono il dettatore pi da vicino che non i siciliani e i tosca-
ni del Duecento.
I n unaltra pagina del Purgatorio egli esalta, come maestro e pre-
cursore della nuova lirica, il bolognese Guido Guinizelli: e lo chia-
ma il padre suo e de li altri suoi miglior che mai rime damor usar
dolci e leggiadre e dai dolci detti di lui fa derivare tutto luso
moderno (Purg. XXI V 49-63; XXVI 97-99, 112-114). Daltron-
152
La Critica Letteraria
de gi in un sonetto giovanile laveva citato come il saggio (Vita
nuova, XX, alludendo certo alla novit e alla forza del pensiero di
lui: maestro dunque lo considerava e per la dolcezza della forma e
per lelevatezza dei concetti. Quanto agli altri discepoli del Guinizelli
e rappresentanti delluso moderno, che la nuova lirica volgare,
varie testimonianze, di Dante stesso o daltri della sua cerchia, ci
permettono dindicarne con sicurezza i nomi, pochi ma nobilissi-
mi, e cio, con lo stesso Alighieri, il Cavalcanti, Lapo Gianni e Gianni
Alfani, Dino Frescobaldi e Cino da Pistoia. Allopera di questi, con
piena consapevolezza critica, Dante attribuisce infine la trasforma-
zione dellidioma volgare in lingua letteraria: e nelle loro poesie
addita gli esempi concreti di quel linguaggio illustre, aulico, curiale
e cardinale, del quale deduce logicamente la necessit. Che se poi si
vuol vedere in che senso e con quali tendenze si verifichi codesta
ricreazione artistica delleloquio popolare, si dovr leggere soprat-
tutto quel brano dove Dante esalta il suo volgare, fatto sublime
dalla dottrina, perch fra i tanti rozzi vocaboli dei Latini, fra tante
incerte costruzioni, tanto difettose pronunce, tante rustiche caden-
ze, cos elegante, schietto, compiuto ed urbano lo vediam scelto,
come dimostran nelle loro canzoni Cino da Pistoia e lamico suo,
cio lAlighieri stesso (De vulg. eloq. I 17).
Riaccostando fra loro le sparse notazioni di Dante, integrandole
a vicenda e pi con losservazione attenta delle opere dei singoli
poeti, non sar difficile, a parer nostro, giungere a una rappresenta-
zione critica precisa e soddisfacente, della scuola del dolce stil novo,
illuminata nelle sue intenzioni e n suoi propositi, nel suo atteggia-
mento estetico, e, ci che pi importa, nella sua reale importanza
storica. E anzi tutto, poich fra i sei poeti pi su ricordati una
affinit generica di concetti e di forme manifesta ad ogni lettore
attento e storicamente riconosciuta in ogni tempo, e daltra parte le
qualit stesse che li rinniscono fra loro giovano anche a distinguerli
da tutti gli altri rimatori contemporanei: cos si dovranno respinge-
re senzaltro le opinioni di quei critici che vorrebbero allargare i
confini storici dello stil novo fino ad accogliervi tutti i poeti della
societ borghese rinnovata nella seconda met del Duecento, o,
peggio, tutta o quasi la lirica italiana dei primi secoli. I l dolce stile,
prima di diventare una tendenza assai diffusa del gusto, fu il conve-
gno ideale - qualcosa di meno che unaccademia con i suoi regola-
menti, qualcosa di pi che un libero rapporto damicizia - fra pochi
giovani poeti: ambiente di cultura chiusa ed eletta, che nel mondo
letterario, sul finir del Duecento, ha un suo posto ben distinto, e al
153
I l Medioevo
quale in particolar modo si contrappone coscientemente nello stile
e n concetti, la cos detta lirica realistica e borghese.
I l che non vuol dire che lo stil novo si stacchi in maniera asso-
luta dalla letteratura anteriore e contemporanea e sia proprio come
pur stato detto autorevolmente, una rivoluzione; mentre cer-
to che, nonostante la novit d sentimenti e la nobilt dellespres-
sione (onde i suoi poeti si innalzano sullarte troppo pi rozza ed
inefficace degli altri rimatori), esso si riattacca con stretti e robusti
vincoli non pur alla letteratura del Duecento, ma a tutta la cultura
filosofica e religiosa del Medioevo; e non dI talia soltanto. Centro
del mondo poetico degli stilnovisti, oggetto di discorsi e di discus-
sioni, quando non di confessioni liriche, , come ci avverte ancor
Dante, lAmore. E questo Amore, , senzalcun dubbio, un amore
umano; non come altri ha pensato, un simbolo soltanto, unidealit,
unastrazione filosofica. Senonch, per intender appieno la ricchez-
za e la complessit dei fatti psicologici che al concetto damore si
ricollegano nella poesia degli stilnovisti, giova ricostruire, sia pure
in sommario, nella sua formazione storica, la varia e raffinata cultu-
ra che quella poesia appunto presuppone. [...]
A tutta questa varia e vasta letteratura psicologica vuol essere
ricollegato lo stil novo: lAmore, di cui Dante parla nel passo cos
famoso del Purgatorio, e dietro la dettatura del quale sen vanno
strette le penne d giovani rimatori, viene ad esser dunque, cos
illuminato, quasi una sintesi di tutta la vita multiforme e segreta
della coscienza. Anche pi da vicino, e con pi precisa affinit, il
dolce stile si ricongionge alla dottrina damore elaborata dagli ulti-
mi poeti di Provenza e introdotta fra noi da alcuni lirici toscani del
Duecento, e soprattutto da Chiaro Davanzati. Ne riprende alcuni
concetti, sparsi ancora ed incoerenti, e li unifica, li coordina, li ar-
ricchisce, organizzandoli, come disse benissimo un critico, in una
profonda persuasione sentimentale: essenziali, fra essi, lidea d
rapporti di gentilezza con virt e damore con gentilezza e la conce-
zione damore come sorgente di perfezione morale ed elevazione a
Dio. Per questo aspetto nel quadro generale della cultura contem-
poranea, la scuola poetica fiorentina ci apparir, come giusto, non
pi che un momento, certo assai notevole, dellaffermarsi di una
nuova coscienza e religiosit laica, che propone ed esalta il valore
morale dei sentimenti umani.
Cotesta affermazione sorge, in tempi non lontani e in maniera
pi o meno indipendente, ma con forme non dissimili, nella Fran-
cia meridionale, con lo sviluppo estremo della poesia cortese, da
154
La Critica Letteraria
noi con lo stil novo, e anche nella nazione germanica con Walther
von der Vogelweide. I l dolce stil novo ebbe certamente impor-
tanza pi larga e profonda che non gli altri movimenti da noi ricor-
dati - non fossaltro perch da esso prese le mosse larte luminosa di
Dante - ma a quelli, e pi in generale a tutta la lirica psicologica del
Medioevo, devessere senza dubbio riaccostato da chi voglia inten-
derlo davvero n suoi limiti.
Vero che, se a noi giova per comprendere pi intimamente la
sostanza del dolce stile inquadrarlo nella storia culturale di tutta
una et, per Dante che lo defin novo e per i contemporanei di
lui, ci che pi dovette aver peso nel giudizio fu codesta novit
appunto, e cio il carattere distintivo che, nel quadro di quella sto-
ria d alla scuola fiorentina la sua fisionomia peculiare e rinnovatri-
ce. I n che esso consiste? Su questo problema s appuntata pi spe-
cialmente la curiosit d critici, e intorno ad esso son nate le discus-
sioni pi ferventi e accanite. Alcuni vi han scorto un progresso di
natura filosofica e si son sforzati di ricostruire in un sistema logico
la dottrina del dolce stile e uno fra gli altri, e con maggior chiarezza,
lha fatto consistere nellaccordo, tentato dal Guinizelli, fra la tradi-
zione poetica della Provenza, che aveva creato la teoria dellamore
ideale, e la filosofia scolastica per la quale a Dio solo pu rivolgersi
lamore razionale e virtuoso: accordo ottenuto esaltando la donna
s, ma intesa come immagine di alcunch di spirituale e divino.
Senonch questa tesi del Vossler, che fra le molte proposte certo la
pi lucida e coerente, se pu, entro certi limiti, illuminare lopera
del Guinizelli e di Dante, rimane estranea, per non dir altro, a quel-
la del Cavalcanti: n le donne degli stilnovisti possono dirsi pro-
priamente simboli, se non forse della loro stessa femminilit e della
virt beatifica e perfettiva che ne irraggia al cuore dellamante. Vero
che un organismo ideale, un sistema filosofico nel quale tutti i
poeti del dolce stil novo si accordino non esiste: e nella storia del
pensiero speculativo la loro scuola non rappresenta niente di pi
che lapplicazione, spesso frettolosa ed arbitraria, di certe idee e schemi
generali a taluni problemi particolari ed empirici. Ch se, a propo-
sito di taluno fra questi poeti, si potr parlare con sicurezza duna
larga cultura filosofica, non possibile dir la stessa cosa di tutti. E
infine, anche ammesso, come vuole un critico, che senza il movi-
mento scientifico dellepoca, lo stil nuovo non sarebbe nato, rima-
ne pur sempre vero che, a farlo nascere, ha contribuito assai pi la
tradizione letteraria franco-italiana e limpeto dun nuovo e tutto
istintivo umanesimo: insomma un clima determinato di fine intel-
155
I l Medioevo
ligenza e dacuta sensibilit.
I nvero il dolce sul novo non appartiene, nella sua essenza e
direttamente, alla storia della filosofia medievale (se pur da quella
riprenda talora schemi, classificazioni e persino talune forme lingui-
stiche). E neppure appartiene alla storia della poesia propriamente
intesa, come altri studiosi han voluto, per i quali la novit di esso
consisterebbe nello stile, inteso nella sua pi nobile e - diciamo
pure - moderna accezione, non come scelta e ordine di parole, di
frasi, di costrutti, secondo le inani regole retoriche dellornato, del-
leleganza, del ritmo, sibbene come espressione fedele e diretta degli
stati dellanima, lucidamente intuiti dalla fantasia: espressione sin-
cera cio di un contenuto profondamente sentito. I l che qualit
generica, comune ad ogni vera poesia, e quindi anche a quella degli
stilnovisti in quanto tale: non giova tuttavia a spiegare il racco-
gliersi di alcuni poeti in un gruppo determinato. Senza dire che una
tal dottrina trascende di troppo i limiti dellestetica medievale.
Come tutte le cos dette scuole poetiche, in s stesso e intrinse-
camente, lo stil novo appartiene alla storia della cultura o, se si
vuole pi sottile specificazione, della cultura artistica: di quella cio
che costituisce la base, per dir cos, naturale, su cui le opere darte
singole si formano e crescono. E pi precisamente ancora potremo
definire lo stil novo come il fissarsi di un determinato atteggia-
mento del gusto: il raccogliersi di alcune menti interessate ai pro-
blemi della poesia, con passione di creatori e coscienza di critici,
intomo ad uno speciale contenuto poetico e a certe regole formali e
retoriche, a una singolare maniera cio di interpretare e di rappre-
sentare le cose. Quanto alla novit cos solennemente attestata da
Dante dovr esser ricercata, sulla linea della tradizione letteraria (cui
il doloce stile si ricollega), in un approfondimento e raffinamento
dellindagine psicologica. Approfondimento di concetti: ovvero
creazione di schemi pi numerosi pi agili e duttili, che si giova di
una pi vasta e attenta cultura quale quella che si va diffondendo
ogni giomo di pi tra i laici. E raffinamento di forme: ritrovamento
cio di una lingua pi schiva e delicata, pi limpida e pi sensibile,
atta ad esprimere in immagini nuove le pieghe pi recondite e meno
afferrabili della coscienza. Laccento del poeta critico batte con mag-
giore intensit ora sul progresso del contenuto, ora su quello dello
stile. Del contenuto: come nel luogo pi volte citato del Purgato-
rio, dove la conoscenza raffinata dei problemi damore, posseduta
da nuovi poeti, contrapposta a quella troppo pi grossolana ed
estrinseca della vecchia maniera. Dello stile: come n passi ricordati
156
La Critica Letteraria
del De vulgari eloquentia, dove proclamata la ricchezza, lelegan-
za, la pieghevole adesione a una materia difficile e delicatissima, del-
la lingua nuova. Ma e luna e laltra affermazione saccordano nella
consanevolezza duna cultura privilegiata, piena di fede nella sua
verit e nella sua efficacia. Determinare con precisione la materia di
cotesta cultura non possibile (allo stesso modo che impossibile
ricostruire il sistema filosofico dello stil novo). Si pu indagarne
gli sparsi antecedenti; si pu anche additare alcuni concetti essen-
ziali e di uso pi frequente n canzonieri di questi poeti: la relazio-
ne da essi istituita fra gentilezza (o nobilt) e virt, fra amore e
gentilezza, e lidea damore come moto dellanima verso la sua per-
fezione morale, tendenza al Sommo Bene, del quale la bellezza ter-
rena ombra e vestigio; aluri schemi avremo occasione dindicare,
esaminando da vicino lopera d poeti singoli, e pi specialmente
vedremo, per opera del Cavalcanti e d suoi imitatori, farsi strada
una pi minuta attenzione alle distinte facolt od attivit dellorga-
nismo, le quali prendon figura e diventan personaggi dun dramma
ideale ed asuratto, se pur sostanziato dumanit. Altri elementi daf-
finit riscontreremo nella lingua: nelluso di certe parole (virt,
valore, piet, mercede, gentilezza, umilt, ira, super-
bia), le quali acquistano un significato nuovo e singolare, quasi
direi scientifico; in certe disposizioni del sentimento, che ritornano
dalluno allaltro di questi poeti, sia pure con minore o maggior
vigore; in certi schemi metrici e retorici; perfino in certe immagini
e movimenti lirici, che, nelluso frequente, diventan convenzionali.
Ma, pur tenendo debito conto di questi fattori sparsi che insieme
collaborano a ricostruire in noi la rappresentazione di quel determi-
nato atteggiamento del gusto, che fu il dolce stil novo, occorre
non dimenticare che lelenco di essi, lungi dallesaurire la novit e la
peculiarit vere della lingua e dello spirito stilnovistico, pu offrir-
cene soltanto le caratteristiche pi esteriori e immediate. La novit
della lingua piuttosto in una voluta ricerca di levit fantastica e di
rarefazione spirituale, per cui ogni immagine ed ogni parola ci tra-
sportano in un mondo ideale e raffinato, dove i sentimenti si svi-
luppano nella purezza incontrastata dello loro linea e nulla di cor-
poreo viene mai a toccarli e sminuirli. E lo spirito peculiare dello
stil novo nella persuasione di possedere meglio e pi intima-
mente la realt della vita amorosa, e in genere psicologica, e di sa-
perne dare una rappresentazione pi adeguata: in altre parole, nella
coscienza, che fede, di una cultura accresciuta e rinnovata rispetto
agli uomini dellet precedente. Vi in tutto ci alcunch di giova-
157
I l Medioevo
nile, e comunque di ingenuo: una superbia, come spesso accade,
non scevra da pedanteria. Ma vi anche una forza vera: il culto del
sentimento, che, nella sua purezza spirituale, eleva luomo al di so-
pra della mentalit volgare, non solo ostentato come un privilegio
ma vissuto dagli stilnovisti con sincerit: e nella rappresentazione
della vita psicologica la loro arte veramente, se pur pi povera di
colore e di concretezza, pi intima anche e pi sottile. Comunque
neccesario che sadoperi a intender gli aspetti di questo ambiente
schivo ed aristocratico - il senso dunaristocrazia, che non pi di
nascita bens di sentimenti, di scienza, dintelligenza artistica, di
cultura insomma - chi vuol capir davvero le parvenze duna poesia
nata e divulgata in un cenacolo chiuso, che ha le sue fragili delica-
tezze e i suoi limiti prestabiliti.
NATALINO SAPEGNO
da I l Trecento Milano, Vallardi, 1955, pp. 11-18
158
La Critica Letteraria
Guido Cavalcanti
Egli ebbe per s la ventura di incontrarsi dun tratto con i corpi,
con i volti vivi, di sentire nel significato pi vasto del termine il
volume e il peso delle figure che avvengono nellestrema tensione
dellanima e del pensiero. Questo senso della figura che rapidamen-
te si attuava nellunica figura possibile per un poeta di tanto fervore,
faceva che essa, per lintenso stupore e la meraviglia sempre nuova
della scoperta, diveniva assorta e lontana, e pur cos vitale, si perde-
va nella luce eccessiva da cui era investita. I mporta ora osservare che
quella luce rara e ineffabile nella sua trasparenza, impossibile ad iden-
tificarsi ed a ripetersi in qualsiasi ora e in qualsiasi citt del mondo,
quella luce di cui Guido non parla mai ed non di meno sempre
presente, la luce interiore di lui che nasce per noi soltanto dalle
cadenze chiare, dagli accenti aperti del suo verso. A
quellirraggiungibilit della donna, a quel suo tradursi nellimmagi-
ne della sua eccessiva virt, come controcanto piuttosto che come
commento, corrisponde nel poeta un senso per ora nascosto di pe-
ricolo, di paura, di perdimento che riflette il posto occupato in lui
da quellimmagine che si addensata unica contro il nulla, la morte
[...].
Lo sconforto che ne deriva al poeta tanto pi drammatico quan-
to pi chiaramente egli riesce a sentire che la propria natura spiri-
tuale non ha altra via per attuarsi che il possesso definitivo di quella
immagine. La paura di cui Guido ci parla che altro significherebbe
infatti se non che al di fuori di tale possesso lanima, mancandole
insieme alloggetto destinato ogni ragione di forza e di vita, finireb-
be nel perdimento pi buio ed informe? Avvinto da un desiderio
tanto acuito ed esclusivo, egli intende che lirreversibilit della pro-
pria vicenda non ammetterebbe per lui un ritorno alla disposizione
interna dattesa e di perplessit, in cui proprio la figura della donna
aveva fra tutte preso rapidamente campo e straordinario rilievo. A
questo carattere di irreparabile, a questaria di avventura mortale
egli vede pervenire ora il significato di quella figura, e tuttavia il
motivo della paura interiore appartiene ancora fortemente alla dia-
lettica della sua vita [...].
Propriet essenziale di questa alternativa drammatica di consu-
marsi tutta quanta nellintimo e direi nel sangue del poeta fino a che
159
I l Medioevo
risulti soltanto una particolare accezione nel sentire e nel canto.
Egli non ne prospetta i termini in modo da costruire e disporne il
calore sotto lurto interrogativo della mente che accentua e rincalza;
ma comincia direttamente dalleffetto lirico. La voce nasce in lui
quando il dolore ha gi mortificato e pervaso ogni sua facolt: lag-
gettivo sbigottito e lavverbio sbigottitamente danno il tono e
la misura diretta di questa penetrazione: daltro canto un verso come
Tu mi s piena di dolor la mente, per quanto si sappia che il
termine dugentesco avesse un significato assai pi vasto del nostro,
per effetto poetico del linguaggio riesce a suggerirci il gelo, il vuoto
e lo sperdimento che avevano reciso alle radici ogni sua possibilit
di pensare e di percepire la variet delle cose della terra. Questa
drammatica trasparente ottusit, mentre lasciava che il dolore
spaziasse e ricadesse in lui come una cosa inerente al suo sangue e al
suo respiro, escludeva, insieme al bisogno di comunicare e allidea
stessa di societ, leloquenza e la ricerca riflessa. Lordine e larmonia
interiori, attraverso tante vicende si ricompongono nellatto chiaro
del dire e del confessare. La potente coralit della sua voce compatta
che lascia intendere appunto quellordine sia pure negativo e cio
come tutte le forze in lui fossero sottoposte ad uno stesso destino,
schiacciate da uno stesso peso e animate da un unico umore, non si
dirige verso lesterno, ma ripiega tutta su di lui ed ivi perfettamente
esaurita nasce alle sue risonanze. La natura di essa non pertanto
mutata se non di qualche tonalit; ancora le circola intorno quel
silenzio assorto e nitido in cui, come prima i fenomeni e le rivela-
zioni, ora i movimenti interni e le figure traslate avvengono con la
medesima sorpresa e miracolo.
E per concludere sullarte di Guido si ricordi come, portata fuori
dei termini del suo quotidiano conflitto, da elementi nuovi - lesi-
lio e il viaggio a Tolosa - tragga la medesima, lunica voce ormai
connaturata con la sua persona spirituale. E poich a proposito di
questa persona si parlato di incertezza e di malinconia, mi piace
richiamare alla nostra attenzione la sua forza precisa che colloca
immediatamente nel suo significato ultimo e decisivo gli avveni-
menti; il suo accento grave e lucido di tristezza, ben al di l di
uninclinazione riflessa alla solitudine e di un gusto del proprio iso-
lamento, ci parla di un dolore totale che rimane miracolosamente
ancora uno strumento di vita. Assai pi oltre di una voce privata, la
sua incide nellessere intero delluomo fino a restituircene una no-
zione disperata e pure composta. la prima nozione fondamentale
160
La Critica Letteraria
della vita e dellessere che ci d - e in quale legittima concreta manie-
ra - la poesia italiana.
MARIO LUZI
da LI nterno e il Limbo Firenze, Marzocco, 1949, pp. 48-52
161
I l Medioevo
Il Novellino
I l tipo pi caro alle menti medievali la piccola sentenza, la
breve battuta, la facezia pronta e inattesa. Si tratta dun atteggia-
mento istintivo delluomo che sa conversare con intelligenza e con-
sidera le azioni e le parole del prossimo con sguardo acuto e distac-
cato, s che ne possa cogliere il tratto pi malizioso. Presuppone
una finezza intellettuale lieve e serena: tanto che la facezia fu par-
ticolarmente cara agli umanisti, che la considerarono un vero e pro-
prio genere letterario, e lo stesso Castiglione la consigli nella
conversazione del suo umanissimo cortigiano [... ].
I l suo gusto di particolare derivazione letteraria: richiede una
leggera condizione ironica e una sensibilit cerebrale, che meglio
sincontrano presso i letterati. Nel Medioevo, infatti, la facezia s
diffusa e mantenuta principalmente nellambiente dei chierici, come
aneddoto erudito e libresco [...].
Essa costituisce per questa cultura uno dei suoi elementi pi
sicuri e originali. La sua invadente presenza nella tradizione medie-
vale risponde a una tendenza mentale di portata generale: in realt,
tradisce il tipo enciclopedico, acritico ed episodico della comune
cultura, quale si presenta alla vigilia delle grandi letterature roman-
ze. Laneddoto rappresentava laspetto pi palese della letteratura
amena: finiva col diventare un riposo dello spirito e uno stimolo
dellintelligenza.
Non sempre possibile, anche rispetto al contenuto e allinten-
zione morale, distinguere la facezia dallo exemplum: la prima pu
considerarsi come una sottospecie di questultimo; e anchessa era
chiamata ad appagare unesigenza didattica, dimostrativa, parenetica.
Lesempio, la facezia, larguzia, la sentenza sono tutte forme che si
possono comprendere sotto la comune denominazione di aned-
doto. E le fonti a cui il Novellino attinge e che predilige nella sua
fondamentale ispirazione, offrivano un contenuto narrativo che
ancora aneddoto e non gi novella [... ].
La brevit quindi essenziale a questo tipo di racconto: la sua
efficacia affidata soprattutto alla rapidit caustica e sapida, e a vol-
te anche salace, della sua sintassi; la parola devessere pronta e sicura
come un semplice gesto. Tutta la sua vita artistica si esaurisce nel-
listante, ma la sua capacit espressiva si continua nel sorriso, come
una forza morale che si comunica allintorno, oltre il suono e larco
delle parole succinte: un piccolo sasso che fa increspare le acque
162
La Critica Letteraria
ferme nello stagno.
Si veda la novella XXVI I : Uno grande moaddo (= uomo sag-
gio) and ad Alessandria (dEgitto), ed andava un giorno, per sue
bisogne (= per affari) per la terra (= nel paese). Ed un altro li venia
di dietro, e dicevali villania e molto lo spregiava: e quelli non faceva
niuno motto. Ed uno li si fece dinanzi e disse: O che non rispondi
a colui che tanta villania ti dice?. E quelli, sofferente (= paziente),
rispose e disse a colui che li dicea che rispondesse: I o non rispon-
do, perchio non odo cosa che non mi piaccia.
Di solito una parole di cos felice intelligenza ha bisogno di edu-
carsi e trasmettersi in un ambiente raffinato, come pu essere quello
delle corti; e perci spesso sono i cortigiani e i giullari che ne
conoscono il costume. Si veda la novella XLI V che mette in iscena
quel Marco Lombardo ricordato con onore da Dante come uno
che seppe del mondo (Purg. XVI, 25): Marco Lombardo fu nobile
uomo di corte e savio molto. Fu, a uno Natale, a una citt dove si
donavano molte robe, e non nebbe niuna. Trov un altro uomo di
corte, lo quale era nescente appo lui (= ignorante a confronto di
Marco), e avea avuto robe. Di questo nacque una belle sentenza,
che quello giullare disse a Marco: Che ci, Marco, chio ho avuto
sette robe, e tu niuna? E s sei tu troppo migliore e pi savio di me!
Quale la cagione? E Marco rispose: Non per altro se non che tu
trovasti pi d tuoi (= cio simili a te, ignoranti), chio non trovai
d miei.
A volte una decisione improvvisa, unazione imprevista che
suscita lammirazione: ma la parola laccompagna e la chiarisce, ed
essa vale sempre pi dellatto. Per esempio, la novella XC: Lo
mperadore Federigo andava una volta a falcone (= a caccia con il
falcone), e avevane uno molto sovrano (=eccellente, eccezionale),
che lavea caro pi duna cittade. Lascillo a una grua (= lo lanci
contro una gru). Quella mont alta; il falcone si mise alto molto,
sopra di lei. Videsi sotto unaguglia (=aquila) giovane: percossela a
terra e tanto la tenne che luccise. Lo mperadore corse credendo che
fosse una grua: trov come era. Allora con ira chiam il giustiziere
e comand chal falcone fosse tagliato il capo, perch aveva morto
lo suo signore (laquila regina degli uccelli e rappresenta la maest
imperiale): Questa stessa novella, ampliata e arricchita di dettagli,
rinarrata dal Bandello: eppure pi efficace nel Novellino, dove
appunto la brevit meglio saddice al tema. Si noti inoltre che la
fonte era di tradizione orientale, come del resto fa capire il tipo
dellaneddoto.
163
I l Medioevo
Soltanto in casi rari laneddoto giunge alla novella; ma anche
allora i termini psicologici, e in genere narrativi, sono appena ac-
cennati, e la rapidit espositiva crea un diverso fascino: quello della
cosa narrate schiettamente, senza ornamenti retorici, come puro se-
gno della realt umana. Siamo ancora assai lontani dallarte dispiegata,
costruita, potentemente organica del Decameron; ma c gi nel
Novellino il gusto della novella e soprattutto lambizione di cre-
are con una serie di piccoli fatti e di brevi aneddoti un clima
morale e sociale, una immagine degli uomini attraverso alla parola
facile, adorna, spiritosa.
Questa economia verbale d al primo contatto limpressione duna
povert o elementarit di linguaggio e di stile. Pare che lautore vo-
glia segnare il semplice schema narrativo, ai fini di aiutare la memo-
ria, anzich tentare il vero e proprio racconto. La prima impressio-
ne del lettore comune quella di trovarsi dinanzi ad appunti, che
altri potrebbero sviluppare: abbozzi e non narrazioni organiche.
Tanto pi se ci si riaccosta al Novellino con il gusto scaltrito della
novella boccaccesca o di quella del Rinascimento. Di fronte allam-
pio sviluppo che la novella assume a partire dal Decameron, il rac-
conto del Novellino pu sembrare allo stato informe. Ma pu an-
che risultare con la freschezza dun linguaggio primitivo e ingenuo
allorecchio raffinato del letterato stanco di tanta letteratura troppo
adulta e consapevole. I n realt le due impressioni sono entrambe
ingannevoli: ch la narrazione del Novellino ha ben poco di comu-
ne con larte del Boccaccio, anche laddove lo stesso spunto
novellistico ci autorizzerebbe al raccostamento e al confronto; e,
viceversa, non affatto vero chessa sia ignara o sprovvista di co-
scienza tecnica e stilistica, ma, al contrario, risponde a un preciso
modello letterario, e, nonch costituire la timida nascita dun ge-
nere, rappresenta invece il tramonto e lusura duna forma narrati-
va che aveva qualche secolo di storia.
SALVATORE BATTAGLIA
da Contributi alla storia della novellistica Napoli, Pironti e figli,
1947, pp.120-25
164
La Critica Letteraria
Dino Compagni e Giovanni Villani
Accanto a questo mondo dello spirito e dellimmaginazione cera
il mondo reale, il mondo della carne o della vita terrena, come si
dicea, che s potea maledire, ma non uccidere. Era la cronaca, me-
moria d per di d fatti che succedevano, inanime come il diziona-
rio, o come la lista delle spese. Quelli che ne scrivevano con qualche
intenzione artistica, la dettavano in latino e la chiamavano storia
[...].
Ma in Toscana il Malespini avea gi dato lesempio di scrivere la
cronaca in volgare. E Dino Compagni segu lesempio, scrivendo in
volgare i fatti di Firenze dal 1270 al 1312. Attore e spettatore, prende
una viva partecipazione a quello che narra, e schizza con mano sicu-
ra immortali ritratti. Non questa una cronaca, una semplice me-
moria di fatti: tutto si move, tutto rappresentato e disegnato,
costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e a tutto lo scrittore
presente, si mescola in tutto, esprime altamente le sue impressioni
e i suoi giudizi. Cos uscita di sotto alla sua penna una storia
indimenticabile.
Questa storia una immane catastrofe, da lui preveduta e non
potuta impedire. E non si accorge che di quella catastrofe cagione
non ultima fu lui. O piuttosto ne ha unoscura coscienza, quando
con quel tale senno di poi dice: - Oh se avessi saputo! Ma chi
poteva pensare? - Ma Dino pecc per soverchia bont danimo; gli
altri peccarono per malizia, e Dino li flagella. Era Bianco; ma pi
che Bianco, era onesto uomo e patriota. li pareva che qu Neri, qu
Bianchi, quei Donati quei Cerchi, non fossero divisi da altro che da
gara duffici, e gli parea che partendo ugualmente gli uffici quelle
discordie avessero a cessare. Gli parea pure che tutti amassero la
citt, come facea lui, e fossero pronti per la sua libert e il suo deco-
ro a fare il sacrificio d loro odii e delle loro cupidigie. E gli parea
che uomo di sangue regio non potesse mentire n spergiurare e che
nessuno potesse mancare alle promesse, quando fossero messe in
carta. E anche questo gli parea, che gli amici stessero saldi intorno a
lui e che ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire. Che cosa
non parea al buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo
della repubblica. la prima volta che si trova in presenza [...] la
morale d libri e la morale del mondo. E la contraddizione balza
fuori con tutta lenergia di una prima impressione. I l bravuomo al
contatto del mondo reale cede di disinganno in disinganno, e cia-
165
I l Medioevo
scuna volta rivela la sue ingenuit con un accento di maraviglia e
dindignazione. I mmaginatevelo alle prese con Bonifazio VI I I , Car-
lo di Valois, Corso Donati, ci che di pi astuto e violento era a
quel tempo. Lenergia del sentimento morale offeso il secreto della
sua eloquenza. Qui non ci nessuna intenzione letteraria; la narra-
zione procede rapida, naturale, sino alla rozzezza. Vi un materiale
crudo e accumulato e mescolato, senza ordine o scelta o distribuzone,
ignota larte del subordinare e del graduare; mancano i passaggi e
le giunture; il fatto spesso strozzato; spesso il colorito un po
risentito e teso: difetti di composizione gravi. Pure le qualit essen-
ziali che rendono un libro immortale, stanno qui dentro, sincerit
dellispirazione, lenergia e la purit del sentimento morale, la com-
piuta personalit dello scrittore e del tempo, maraviglia, lindigna-
zione, il dolore, la passione del cronista, ci comunica a tutto moto
e vita.
I n tempi meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca
di Firenze sino al 1348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote
Filippo. Mira a dar memoria d fatti, pigliandoli dove li trova, e
spesso copiando o compendiando i cronisti che lo precessero. Sono
nudi fatti, raccolti con scrupolosa diligenza, anche i pi minuti e
familiari, della vita fiorentina, come le derrate, i drappi, le monete,
i prestiti: materiale prezioso per la storia. Ma questa cruda realt,
scompagnata dalla vita interiore che la produce, priva di colorito
e di fisonomia e riesce monotona e sazievole.
La cronaca di Dino e le tre cronache d Villani comprendono il
secolo. La prima narra la caduta d Bianchi, le altre raccontano il
regno d Neri. Tra vinti erano Dino e Dante. Tra vincitori erano i
Villani. Questi raccontano con quieta indifferenza, come facessero
un inventario. Quelli scrlvono la storia col pugnale. Chi si appaga
della superficie, legga i Villani. Ma chi vuol conoscere le passioni, i
costumi, i caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino.
FRANCESCO DE SANCTIS
da Storia della letteratura italiana
166
La Critica Letteraria
La citt di Dino Compagni
[...] Da qualche giudizio corrente si potrebbe ingenerare lidea
che la personalit di Dino si affermi nella sua opera come individua-
lit immediata e prepotente, come bruto termine di paragone, pas-
sato tale e quale dallagitazione alla espressione: aiutano questa cre-
denza le notizie che, ingrandite, hanno a lungo circolato sullener-
gica e irriduciblle partigianeria delluomo - di crucci e di vendette
evidentemente, come si conviene a un tipo ritenuto esemplare del
costume comunale, segnatamente fiorentino a definizione
desanctisiana di attore e di testimone, giusta per quanto non abba-
stanza precisa, non bast a mitigare limmagine; ed essa rest quasi
pi rispondente a un altro Dino, il beccaio detto Pecora, tante volte
e tanto severamente riprovato nella Cronica, piuttosto che al no-
stro. Credo che non si possa intendere il valore della Cronica se non
si riconosce che la forza che la sostiene di natura morale piuttosto
che passionale, non importa se la moralita di Dino destinata a
esprimersi spesso con gli accenti della passione; e sarebbe ancora
troppo generico se non si riconoscesse di che specie codesta mora-
lit appassionata. I l che assolutamente impossibile se si indulge
pi del giusto a rappresentarci un uomo di parte e anche peggio un
fazioso; a correggere daltronde questa falsa opinione non valgono i
pur giusti apprezzamenti sulla mitezza del carattere e sullequilibrio
e sullavvedutezza del senno politico che, ripassate con infinita pa-
zienza le Consulte: e le Provvisioni, il Del Lungo non manc di
fare, si pu dire, sul vivo dei quotidiani interventi, e tanto meno il
bonario compatimento che il De Sanctis ostent per il buon Dino,
per il povero Dino, gratificandolo duna ingenuit e duninespe-
rienza che certo non ebbe: questi rilievi sullindole e sull ingegno
possono sragionarlo da ogni sospetto di violenza, ma lasciam aper-
to il quesito perch un uomo cos moderato o cos debole si dimo-
strasse poi scrittore tanto drastico. Per spiegarci sia quella modera-
zione, che non fu debolezza n inettitudine, sia questa fermezza
non credo ci sia nulla di pi opportuno che riflettere sulla sua posi-
zione politica, poich la polis tutto il mondo del Compagni, e
luomo e il cittadino fanno tutto uno, e anche la sua morale
essenzialmcllte morale civica.
Chi si accinga a studiarlo per quel che veramente, cio per
lautore della Cronica, pu lasciar relegati tra i vaghi antefatti o di-
gressioni gli altri pochi testi che gli vengono riconosciuti: la Croni-
167
I l Medioevo
ca non ne presuppone nessuno e, diremo di pi, non lascia immagi-
nare che un mondo ideale, morale e formale potessero preesistere o
comunque vivere al di fuori o al di sopra della tremenda esperienza
della polis. Le poesie attribuite a Dino staranno tuttal pi ad indi-
care quel grado di civilt e di elevazioni che un simile esercizio sem-
pre dimostra e che non era estraneo in Firenze neppure ai popolani
delle Arti: potranno nel loro elaborato e nel sincretismo della
tematica mostrarci che il Compagni aveva per lo meno orecchiato
alle porte della poesia cortese e non era alloscuro delle correnti e
dei modi culti nel suo tempo; ma non potranno guidarci verso il
fuoco morale o espressivo della Cronica. Eppure, se si dovesse dar
corso al gioco dei precorrimenti e delle corrispondenze, le note dal-
le quali si esplica pi singolare la personalit di Dino poeta ci ripor-
tano appunto in quella sfera del civis: come quando nel sonetto a
Cavalcanti che il Del Lungo ritiene scritto dopo i provvedimenti
del 1295, i quali aprivano ai Grandi una possibilit di ritorno ai
diritti pubblici mediante lascrizione alle Arti (possibilit di cui si
valse Dante ma non lo sdegnoso Guido), sembra rammaricarsi che
la cortesia dellamico voglia mantenere ogni visibile prerogativa
mentre sarebbe tale da poter nobilitare qualsiasi altra condizione.
Ahi con saresti stato om mercadiere! esclama appunto il popola-
no e il mercante, che per questo nella pienezza dei diritti politici
della democrazia fiorentina.
O nella Canzone del Pregio se c un momento nel quale
esce dalla maniera implicita allinsegnamcnto (ensenhamen)
provenzale evidentemente quando fissa con la sua serict le regole
del buon operare del Rettore o del Mercante, i fondamenti, cio,
del reggimento democratico fiorentino:
Se buon pregio vuole aver Rettore
siegua sua legge, e poi ami giustizia
e strugga e spenga a suo poder malizia
con grande studio e franchezza di core:
tenga masnada a corte e buon legisti
che chiar conoscan dal falso il diritto,
e buon notar da non falsar lo scritto,
e notte e giorno sovente i requisti:
a nul perdoni,
n grazie doni,
ad amici e nemici sia straniere,
ed estimi pi caro onor cavere;
E che giudica, innanzi il paragoni.
168
La Critica Letteraria
Saggrada pregio aver a Mercatante,
drittura sempre usare a lui convenne;
e longa provedenza li sta bene,
e che impromete non venga mancante.
E sia se pu di bella contenenza,
secondo a che mistiere orrato intenda;
e scarso a comperare, e largo venda
fuor di rampogne con bellaccoglienza.
La chiesia usare,
per Dio donare,
il cresce in pregio; e vender ad un motto,
ed usura vietar torre del tutto,
e scriver bello, e ragion non errare.
Nello studio di Vittorio Mistruzzi si trovano tutte o quasi
tutte le ragioni che hanno consigliato la critica recente a restituire
allanonimato il poemetto dellI ntelligenza nonostante che il Del
Lungo spingesse la sua convinzione nella paternit di Dino fino ad
andare rintracciando accuratamente concordanze di locuzioni e
costrutti con la Cronica, concordanze che possono valere a ricon-
quistare il poemetto alla Toscana, ma non alla penna del Compa-
gni. E a questo proposito, rovistando nella selva delle ipotesi, delle
confutazioni, delle attribuzioni agli Arabi, ai Siciliani a un Fiorenti-
no, a un Fiorentino che abitava al Pignone, a un mcdico, a un fisico,
a un astrologo che dal Trucchi al Settembrini, dal De Sanctis al
Bhmer, al Grion, al DAncona cresciuta intorno a queste 309
affatturate e stucchevoli strofe, e apprezzando la variet di tono e di
piglio o cipiglio con le quali proposte e risposte erano suggerite,
insinuate o intimate, mi veniva da pensare, mi si perdoni la confes-
sione: quale meraviglioso romanzo si potrebbe cavarne, purch
un Musil italiano volesse affondarvi le mani.
Poich dunque tutto sembra concorrere nella figura del cittadi-
no, sar bene soffermarci un momento a definirla il pi possibile da
vicino, sia pure sommariamente, nel tempo e nelle vicende da cui
prese il suo significato e la sua qualit. Lindagine, nei limiti nei
quali pu esserci utile, potrebbe ugualmente procedere sul testo
della Cronica come sui documenti di cancellcria che la ricerca stori-
ca ha riportato alla luce dal Del Lungo al Davidsohn, al Doren,
allOttokar; un primo apprezzamento sulla fedelt dello storico, a
parte alcune inesattezze e omissioni che si possono imputare alle
stesse virt di sintesi proprie di Dino, anche se qualcuno volle fon-
dare proprio su di esse le sue riserve sullautenticit della Cronica.
169
I l Medioevo
Nel 1280 in seguito allarbitrato del Cardinale Latino le gravi
discordie di parte che avevano tormentato la citt per vari decenni
sembrarono risanate, ma lequilibrio ristabilito era fittizio poich in
realt i Guelfi erano uscit dalla lotta con ben altra potenza dei loro
avversari e cominciarono ben presto a dimostrarlo alterando a loro
vantaggio i patti intercorsi. Erano pi che altro contese di Grandi.
Se vero che tocc ai popolani influenti di provvedere a che la citt
non precipitasse di nuovo nelle violenze e nelle divisioni. Nacque
allora nel 1282 per iniziativa popolare, quel governo delle Arti che
con il nome ora di secondo, ora addirittura di primo popolo segna
una svolta decisiva nel corso della storia del Comune e d inizio alla
democrazia Fiorentina. Tutti conoscono la struttura che assunse al-
lora lo Stato, con lesecutivo a Priori, in carica per soli due mesi, la
tutela della legalit, ai magistrati di fuori, il Podest e il Capitano
del Popolo, in carica per sei mesi, il potere effettivo ai quattro Con-
sigli i quali garantivano una tale partecipazione al governo della
citt e imponevano cos stretti limiti allautorit dei pur effimeri
signori, che il regime giustific appieno lattributo di impersonale
che gli fu da alcuni storici accordato. La sostanza di codesta struttu-
ra essenzialmente popolare, vale a dire mercantile e borghese, an-
che prima che il nuovo popolo del 1292, i terribili sacratissimi:
Ordinamenti di Giustizia, le diano un aspetto di accigliata esclusiva
e onnipotente dominazione popolare. gi quella del 1282 una
costituzione che consacra la sovranit del popolo delle Arti, siano
pure esse le sole sette maggiori, nelle sue Capitudini, nei suoi Savi e
Richiesti, in coloro che ogni Sesto della citt manda ai Consigli,
gelosi delle loro prerogative, ombrosi di ogni abuso di potere da
parte delle cariche che pure sono elettive. Nella citt ormai cos
definitivamente guelfa da non temere pi i pochi Ghibellini
riammessi tra le sue mura, il popolo della produzione prende cos
ferma coscienza della sua forza, da dare nella costituzione che la
sancisce lidea della saggezza unita a quella della fierezza. Nella sua
maturit politica, ponendosi come arbitro, sospetta
lantighibellinismo, ormai artificioso, come un pretesto al sormon-
tare dei Grandi della sua stessa parte guelfa: circospetto anche
verso le guerre esterne perch la guerra unoccupazione da Grandi
e i servigi e i sacrifici dei Grandi che sanno portare le armi sono
pericolosi servizi, pericolosi sacrifici. Lo si vide nella guerra aretina
quando, dice il Compagni: I Guelfi fiorentini e potenti avevano
gran voglia andare a oste ad Arezzo; ma a molti altri, popolani, non
parea s perch diccano la impresa non esser giusta; e per sdegno
170
La Critica Letteraria
aveano con loro degli ufici. Della vittoria di Campaldino infatti i
Grandi menarono poi gran vanto e cercarono di farla pesare sulla
riconoscenza popolare per riacquistare influenza. La risposta fu
qellafforzamento di popolo che col nome di Ordinamenti di Giu-
stizia spinse forse la potenza popolare fino alla demagogia ma alz
un tale imperioso fortilizio ai diritti conquistati con lunit, ore, di
tutte le Arti, che in una citt dove la prepotente vitalit degli inte-
ressi non riposava un giorno, mai, come osserva il Del Lungo, nes-
suno os apertamente sfidarlo; e pose chi in qualche modo lottasse
contro la sovranit popolare nella condizione di lottare contro la
legge. Non per questo la lotta si era esaurita; e la cause principale fu,
come notano, mi pare acutamente, il Salvemini e il Davidsohn, che
per quanto il popolo delle Arti nella sue unit avesse ottenuto tutto
il potere, non aveva per potuto cacciare i Grandi da Parte Guelfa,
vale a dire dalla roccaforte e dal sancta sanctorum del guelfismo che
era la ragione stessa del Comune fiorentino; e Parte Guelfa era uno
Stato dentro lo Stato.
Dino Compagni fu uno dei costituenti delpopolo del 1282.
Poteva avere allora tra i 25 ed i 30 anni. Di famiglia assai ragguarde-
vole di popolani grassi, era stato immatricolato nellArte della Seta,
del Convento di Calimala, nel 1280 e in quel 1282 era stato per
la prima volta eletto console della sue Arte che lo innalzer ancora a
quella carica nell86, nell89, nel 91, nel 94, nel 99. I n codesta
qualit si trov a essere uno dei sei fondatori della nuova costitu-
zione. I l perch, alcuni popolani gustando le parole si porgeano, si
raunorono insieme sei cittadini popolani, fra quali io Dino Com-
pagni fui, che per giovanezza non conoscea le pene delle leggi, ma la
purit dellanimo e la ragione che la citt venia in mutamento. Par-
lai sopra ci, e tanto andammo convertendo cittadini, che furono
eletti tre cittadini capi dellArti; i quali aiutassono i mercatanti e
artieri dove bisognasse.
Meritava conto che Dino sottolineasse qui pi che altrove la
parse avuta in concreto, qui proprio allinizio della Cronica che ri-
sponde anche allinizio del reggimento popolare come la fine ri-
sponde alla degenerazione e allattesa di un nuovo ordine. I l fatto
ha, credo, importanza determinante nel corso della sue vita pubbli-
ca che quanto dire della sue vita, tout court, e nellinterpretazione
che se ne pu dare attraverso il suo stesso racconto. Essere stato tra
i fondatori del regime popolare delle Arti vorr dire poi sempre
credere nella bont degli istituti e delle leggi che il popolo fiorenti-
no allora si dette e, forte di quella fede, giudicare severamente chiun-
171
I l Medioevo
que operasse a scalzarli o a corromperli. Scorrendo la Cronica, e
seguendo il Del Lungo e il Davidsohn tra le carte delle Consulte
non trovo nulla che non si posse spiegare con questo semplice dato:
lessere il Compagni divenuto la coscienza giuridica e la coscienza
morale di quel sistema politico che il popolo fiorentino si era con-
quistato con la sua vitalit economica e la sue fierezza e al quale egli,
giovane, aveva dato lavvio: lappoggio a Giano della Bella contro le
insidie dei Grandi non rassegnati, linclinare nella deprecate divisio-
ne, se mai, ai Cerchi, daltronde non risparmiati dalle sue taglienti
censure perch, Grandi ancora vicino al popolo, parea fussino stati
dolenti della cacciata di Giano e mostravano ossequio agli Ordina-
menti; e, una volta che le fazioni si convertirono in una vera e pro-
pria scissione di Parte Guelfa, laccostarsi nettamente ai Bianchi come
al partito della legalit democratica contro le manovre aperte e co-
perte dei Grandi raccolti nel partito dei Neri, i quali con labilit
diplomatica e il denaro avevano saputo legare alla loro cause la Cu-
ria di Bonifacio VI I I . Tutto questo corso politico, a non voler ricor-
dare altro che le fasi pi appariscenti, acquista una rigorosa coerenza
se noi ci riconduciamo allatto che nella sue giovinezza il Compagni
si trov a compiere e soprattutto alla coscienza giuridica e alla co-
scienza morale che acquist, mantenne e imperson, del sistema
politico che ne era conseguito. Ma, cosa ai nostri fini anche pi
importante, codesta coscienza che appuntisce la penna dello stori-
co quando, estromesso dalla vita pubblica dal trionfo de Neri e cio
dellillegalit, si accinge a rappresentare anche lui la selva oscura del
proprio tempo. Se la forza energica e tanto compatta, ci si deve al
fatto che Dino identifica la sua moralit con la moralit dello Stato
democratico, del quale si tiene testimone e in un certo senso garante.
Le sobillazioni, le insidie, le segrete intese, e le pubbliche ipocrisie
tutti quei subdoli movimenti rotti da improvvise violenze e da atti
sfrontati che caratterizzano la vita della citt partita, prendono il
loro colorito brusco e il loro lapidario rilievo nella moralit del
Compagni perch non questa la prima volta che una forte tensio-
ne morale si traduce in una potente facolt visiva e di rappresenta-
zione; ma, dobbiamo agginngere, in quanto la moralit del Com-
pagni non individuale attitudine a giudicare e drammatizzare, ma
fermezza, lucida, implacabile che ha lo Stato democratico nello scru-
tare con gli occhi di un suo testimone i propri eversori, e la legalit
i propri nemici e i propri deboli e corrotti tutori. Meglio che un
generico e sia pure appassionato patriottismo, meglio che una gene-
rica e sia pure robusta costituzione morale, e infinitamente meglio
172
La Critica Letteraria
che la tempra del partigiano, questa posizione, che a me pare evi-
dente il Compagni abbia fatto sua, ci aiuta a intendere la misura
delle sue antipatie, e delle sue simpatie, il senso delle sue condanne
e giustificazioni, il suo destino politico, i suoi intendimenti e addi-
rittura i suoi procedimenti di scrittore. [...]
I n questa storia che si modella ormai sulle persone e sulla vita
della citt, senza per questo perdere le sue intrinseche ragioni di
storia, Dino non pu evidentemente tacere di s, per quanto ci,
incredibile a dirsi, non abbia mancato di fare scandalo tra certi com-
mentatori e dar nuova esca ai dubbi. Quel che egli ci racconta in
stretto rapporto con la posizione morale e politica pi che assunta,
impersonata, fino dagli anni ormai lontani della giovinezza e del
rinnovamento di popolo: difesa della costituzione, difesa dellunit
popolare. Consultato in qualit di Savio dai Priori, dei quali uno
Dante non nominato, prese dunque parte alla decisione di esiliare i
capi delle due fazioni: tra questi Guido Cavalcanti che, se era amico
caro di Dante, non era certo estraneo allaffetto di Dino, come ab-
biamo veduto. Poich i partigiani dei Donati non si volevano parti-
re e tramavano con i Lucchesi, i signori vedendo che i Lucchesi
appunto venivano ad appoggiare codesti banditi riluttanti a scrisse-
ro loro non fussono arditi entrare su loro terreno e aggiunge secca-
mente il Compagni: io mi trovai a scrivere la lettera: e alle villate si
comand pigliassino i passi. ancora il tono di colui che nei suoi
atti fa sentire e coincidere il trionfo del potere popolare. Ma quella
risolutezza che, torno a ripetere, delluomo in quanto gli proviene
dalla forza dello Stato, viene meno quando, indebolito dalle pro-
fonde divisioni lo Stato popolare, continuare a praticarle sarebbe
ostentazione tribunizia e malefica. Non c quindi contraddizione,
ma duttile sensibilit politica che impone questo trapasso, quando
vediamo Dino ricorrere alle arti della mediazione tra la parte dei
Donati radunata in Santa Trinit a congiurare per la cacciata dei
Cerchi e i Priori indignati per questa sfida. Dino sa che lunit del
popolo non reggerebbe questa volta a un attacco e cerca di scongiu-
rarlo. E pu anche darsi che la parte avversa stimolando la Signoria
perch li punisse mostrasse di vedere pi a fondo sotto le apparenze
conciliative infine adottate dai Donati: resta che il problema politi-
co, al di l della circostanza, era di impedire una definitiva rottura:
e tale problema nettamente sentito dal Compagni che appunto e
qualcosa pi che un uomo di parte. Quando si accusa per questo
dingenuit il buon Dino, si commette invece lerrore di conside-
rarlo implicato in questa guerriglia di consorterie e di rivalit fami-
173
I l Medioevo
liari: in realt egli aveva lo sguardo pi lungo, lo sguardo di un
uomo di Stato, o per meglio dire delluomo dello Stato democrati-
co. Lo stesso senso di responsabilit lo guida dal Cardinale
dAcquasparta, paciaro in Firenze. Non sfugge al Compagni che sotto
la specie di quella missione conciliatrice c la volont dabbassare la
parte d Cerchi e innalzare la parte dDonati: se nera accorto an-
che il popolo e per questo si era levato uno di non molto senno il
quale con uno balestro saett uno quadrello alla finestra del
vescovado. I Donati avevano anche troppo diffamato i Cerchi e i
loro seguaci come Ghibellini e si erano anche troppo apertamente
proposti al Papa come unica garanzia di Parte Guelfa, perch loffesa
subita dal Cardinale non andasse riparata: i signori, per rimediare
allo sdegno ricevuto, gli presentorono fiorini MM nuovi. E io gliel
portai in una coppa dariento e dissi: Messere, non li sdegnate
perch siano pochi, perch sanza i consigli palesi non si pu dar pi
moneta . Rispose gli avea cari; e molto li guard, e non li volle. Se
in genere questi due anni, 1300 e 1301, sono gli anni di fuoco
dellesperienza politica del Compagni, le settimane a cavallo tra lot-
tobre e il novembre del 1301 possono definirsi le settimane di pas-
sione delluomo di governo, e, di riflesso, dello storico che in
questo caso un politico elevato alla potenza morale; e tanto pi
quanto pi grande stato linsuccesso e mortificante la condizione
di non poter omai pi influire sul corso delle cose. Vale ricapitolare
brevemente lo stato della citt: con lintrusione dei Cerchi nelle
discordie di Pistoia, la divisione preesistente si era trasformata in
una vera e propria scissione di Parte Guelfa. I Neri appoggiati alla
Curia dallalta banca fiorentina erano riusciti con labilit della pro-
paganda a mettere i Bianchi nella luce di tiepidi Guelfi per non dire
di criptoghibellini. Bonifacio VI I I , animato dallambizione di im-
porre la supremazia della Chiesa, delega allufficio di paciaro Carlo
di Valois, con il disegno sempre meno recondito di scalzare il pote-
re della parte bianca, con la quale finisce per identificarsi quel che
rimane del legittimo regime popolare e della costituzione, in una
citt ormai divisa in tutte le sue classi. La stessa evoluzione delle
cose aveva portato Dino dalla parte dei Bianchi: eletto ancora al
Priorato il 15 ottobre egli si trova a fronteggiare linsidia mortale. E
il peggio che sitratta di una partita da giocare al coperto, sotto le
apparenze di una fase diplomatica conciliativa. Quel che lo scrittore
ci dice allora delle manovre dei Neri coperti dal Valois, e via via dei
loro atti sempre pi temerari e della confusione e delle debolezze e
vilt della parte avversaria pari soltanto alla tensione delluomo di
174
La Critica Letteraria
governo il quale vede pericolare il regime e le istituzioni che sono la
ragione stessa della sua vita politica. A colui che impegnato nel-
lestremo tentativo di salvataggio dello Stato democratico i discorsi
insidiosi dei Neri al Valois: Signore merc per Dio, noi siamo i
Guelfi di Firenze, fedeli alla casa di Francia: per Dio, prendi guardia
di te e della tua gente, perch la nostra citt si regge da Ghibellini
equivalgono allozioso sentenziare o ai vili e subdoli proponimenti
dei Bianchi che tengono la ringhiera a impacciata mezo il d; e era-
vamo nei pi bassi tempi dellanno e impediscono qualunque riso-
luzione. Larroganza sfrontata e provocatoria di Noffo Guidi non
pi condannabile dellinerzia e della pavidit dei Bianchi. A questo
punto il Compagni, sul tono di una recriminazione, perviene al-
lunica e perci molto eloquente distinzione di forma e sostanza
quando ammette che la rottura della legalit non pu essere rintuz-
zata che da una pari illegalit, se il potere legittimo non ha forza
sufficiente a difendersi o ha le mani legate dalla situazione diploma-
tica: i Guelfi bianchi non ardivano mettersi gente in casa, perch i
Priori gli minacciavano di punire e chi raunata facesse: e cos teneano
in paura amici e nemici. Ma non doveano gli amici credere che gli
amici loro gli avessino morti, perch procurasseno la salvezza di
loro citt, bench il comandamento fusse.
Coscienza politica, giuridica e morale erano state finora tuttuno;
la crisi dello Stato democratico incrina visibilmente quella univoca
compattezza e la politica del Compagni in questo periodo riflette a
un certo punto lo stato caotico della citt, ma appare ancora inspi-
rata al criterio di evitare rotture, di non raccogliere le provocazioni,
di stare, bench ad occhi aperti, anzi sbarrati, al gioco diplomatico
che nellapparenza si sta conducendo: e in effetti, per quanto si cerehi
di intendere il senso di certe bonarie manate sulle spalle appioppate
dai critici del povero Dino, non ci riesce facilmente di immagina-
re un atteggiamento pi politico nel rappresentante di un Comune
che dopo tutto guelfo e nel guelfismo ripone la sua fierezza pa-
triottica, alla presenza di un paciaro della casa di Francia, espressa-
mente mandato dal Papa, liberamente accettato per questa missione
dal Consiglio generale della Parte Guelfa e dei 72 mestieri dArte,
tutti favorevoli alla venuta del principe salvo i fornai che dissono
che n ricevuto, n onorato fusse, perch veniva per distruggere la
citt. Dino cerca con un ultimo appello allunit di toccare il cuore
dei suoi concittadini: mette in opera il suo santo e onesto pensiero
nella Chiesa in cui il patriottismo fiorentino ha pi probabilit di
ritrovare le sue vibrazioni e recita la sua forte allocuzione in San
175
I l Medioevo
Giovanni; viene eletto un consiglio di XI cittadini di ambedue le
parti che assistano i Priori, si decide di accomunare gli Uffizi tra
cittadini Bianchi e Neri s accolgono le profferte di collaborazione
dopo molte resistenze, data lincostituzionalit del provvedimento,
Dino acconsente anche ad indire con un mese di anticipo, le elezio-
ni del Priorato misto. una politica di conciliazione spinta allestre-
mo, tra difficolt di ogni genere sotto la pressione della piazza. I
signori erano stimolati da ogni parte. I buoni diceano che guardassono
ben loro e la loro citt: i rei li contendeano con questioni; e tralle
domande e le risposte il d se ne andava: i baroni di messer Carlo gli
occupavano con 1unghe parole. E eos viveano con affanno. La
diffidenza e i sospetti sono tali che un invito di Carlo di Valois ai
Priori a parlamentare in S. Maria Novella, fuori della porta, viene
interpretato come un tranello per ucciderli: e ci non venne loro
fatto perch non ve ne andorono pi che tre; a quali, niente disse,
come colui che non volea parlare, ma s uccidere.
Finalmente il giorno 4 novembre i Neri gettano la maschera, gli
Ordinamenti vengono calpestati: la citt prende laspetto crucciato
e sinistro dei tempi demergenza. Tra gli infingimenti di Carlo, i
tradimenti delle vicherie, il malfido comportamento del Podest,
lopera dei Priori si rende sempre pi difficoltosa. I nfine, di una
delegazione mista di cittadini, il Valois trattiene i Bianchi e manda
liberi i Neri. il segnale che d libero sfogo alla violenza: e Corso
Donati rientrato in Firenze. La sera appar in cielo un segno
maraviglioso, il qual fu una croce vermiglia, sopra il palagio d
Priori. Fu la sua lista ampia pi che palmi uno e mezo; e luna era di
lunghezza braccia XX in apparenza, quella attraverso un poco mi-
nore; la qual dur per tanto spazio, quanto penasse un cavallo a
correre due aringhi. Onde la gente che la vide, e io che chiaramente
la vidi, potemmo comprendere che I ddio era fortemente contro alla
nostra citt crucciato. Cominciano la caccia alluomo, le ruberie, le
estorsioni, gli omicidi. Un ultimo appello dei Priori in carica cade
nel vuoto. E per lasciorono il priorato. La partita perduta. Non
rimane a Dino che trasferire la sua amarezza politica sul piano del-
lindignazione morale e rappresentarci, infine allo scoperto, le con-
seguenze di questo sfacelo dello Stato democratico e mostrarci la
citt, poich infine citt e non altro che citt e piazza lo Stato
sfasciato sotto i colpi dellarbitrio e della violenza, come una forma
che riveli dun tratto la fermentazionc biologica ehe nascondeva nelle
sue viscere, mostrarci la citt uomo per uomo, chi sono, gettata la
maschera, i Donati, i Rossi, i Tornaquinei, i Bostichi, a che si sono
176
La Critica Letteraria
ridotte le millanterie e lalterigia di un Donato Alberti, di un Manetto
Scali. questo il momento di fissare definitivamente nella sua ma-
teria di tenebra e di fuoco lindimenticabile ritratto di Corso: Uno
cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma pi crudele di
lui, gentile di sangue, bello di corpo, piacevole parlatore, adorno di
belli costumi, sottile dingegno, con lanimo sempre intento a
malfare, col quale molti masnadieri si raunavano e gran seguito avea,
molte arsioni e ruberie fece fare, e gran dannaggio aCerchi e a loro
amici; molto avere guadagn, e in grande altezza sal. Costui fu
messer Corso Donati, che per sua superbia fu chiamato il Barone.
Abbiamo gi osservato che lenergia morale la sostanza stessa
della prosa di Dino, la materia su cui sono rilevate e sbalzate le
memorie e le immagini. Non ci sono evidentemente due morali nel
Compagni, intendo dire una morale politica e una morale religiosa.
Tuttavia non si pu a meno di osservare che in questo momento la
morale che era stata intrinseca allassoluta convinzione politica e
quasi la sua punta perforante, estromesso luomo politico dalla cosa
pubblica e posto nella condizione di non pi influire sul suo svolgi-
mento, la morale dello storico, per cos dire, rompe il passo, si sca-
tena nellinvettiva, nella incriminazione, nello scherno ad personam
per poi ricomporsi in certe sintesi gravi e cupe come il fragore di
una rovina. Sono le pagine pi intense e accese della Cronica. I n
seguito la morsa si allenta man mano che luomo da sotto lorizzon-
te del suo tramonto politico osserva con il suo sguardo, pur tutta-
via inesorabile, crescere la potenza e rinnovarsi la discordia tra i
vincitori, Corso facendo ora leva sul popolo minuto contro Rosso
della Tosa e i popolani grassi, mentre la parte sbandita, sparita di
fatto la distinzione tra Bianchi e Ghibellini, tenta vanamente dal-
lesterno unimpossibile riscossa. Dino ha ancora di che accendersi
al valore di Baschiera Tosinghi poi che il suo sguardo scavalca Firen-
ze e si appunta su Arrigo VI I , come quello di Dante dunque, ma
non per un superamento dottrinale della disputa ristretta alla polis
guelfa, anzi per la speranza di un nuovo ordine da instaurare ancora
in quella polis, in questa citt. Attesa di un nuovo ordine o attesa di
un castigo, speranza o vendetta lattenzione del Compagni si ferma
ancora allinterno della cerchia fiorentina quel tanto che basti a con-
statare lorribile fine di Corso Donati, di Rosso della Tosa, di Pazzino
d Pazzi, di Betto Brunelleschi, pessimo cittadino il quale, anche
se a Dino ci pot sembrare ormai unempiet, aveva osato rispon-
dere ai messi di Arrigo che mai per niuno signore i Fiorentini in-
chinano le corna. Finita, come finito Bonifacio VI I I , tutta una
177
I l Medioevo
generazione di tenaci e arditi contendenti, distrutta dalle morti vio-
lente, dagli esilii. Egli rimasto in Firenze, uomo in un certo senso
superiore alle fazioni, coscienza dello Stato democratico e della pa-
tria che in esso per lui si identificava, non esposto come altri ai
rancori; rimasto a misurare la rapidit del proprio declino e a
osservare la giustizia di Dio quanto fa laudare la sua maest e
come si conoscono aperte le vendette di Dio... nei malefizi presen-
ti e nelle furie sanguinose. Non tanto rassegnato perci alla tiranni-
de dei Neri che la speranza non prenda il volto della vendetta. Per il
resto losservatore politico si appunta sulla discesa di colui che le
porta, quella speranza, quella vendetta: E venne gi discendendo
di terra in terra, mettendo pace come fusse uno Agnolo di Dio,
ricevendo la fedelt fino presso a Milano.... Si incanta, lui popola-
no, non certo irrigidito in principi che nella vita comunale non
esistono, nel mitico prodigio della regalit: Messer Guidotto,
veggendo tutto il popolo andarli incontro, si mosse anche lui: e
quando fu appresso a lui, gitt in terra la bacchetta, e smont a
terra, e baciogli il pi; e come uomo incantato, seguit il contrario
del suo volere. Uscendo dalla dura mischia, dal corpo a corpo del-
la citt, per sconfinare nel vago di paesi lontani, verso il dominio
della speranza, la Musa di Dino che fu brusca e tagliente diventa
affabulatrice. Perfino quel che si riferisce alla politica avversa e allin-
trigo dei Neri contro lAgnolo di Dio, ha ora alcunch di vago e di
remoto: i Fiorentini non sono pi i cittadini dei consigli, delle cari-
che, con il loro nome e cognome e carattere, ma soltanto i Fioren-
tini.
Con il loro denaro e con la loro arte dellintrigo singegnano di
frapporre ostacoli alla giustizia di Arrigo mentre pendono sulle loro
teste minacce e castighi. La Cronica si interrompe prima che Dino
debba riconoscere la vanit delle sue speranze e la ineluttabilit dei
mutamenti avvenuti in Firenze. Come scrisse il Carducci il Com-
pagni interrompeva la storia stupenda, mancandogli il cuore, dopo
minacciata e aspettata giustizia imperiale sui cittadini pieni di scan-
dali, a narrare tanta tristezza di disinganno. Di lui come di Dante
si potr dire che, uomo legato a una fase politica definita, e scriven-
do daltronde a ridosso degli avvenimenti che ne determinarono il
dramma, portato a vedere in una luce apocalittica la natura e il modo
del mutamento intervenuto. I n realt si tratt di un moto di asse-
stamento che non compromise profondamente n le istituzioni es-
senziali n la potenza del popolo. I o sviluppo della prosperit e
della vitalit fiorentina fu immenso nei decenni successivi. Ecco in
178
La Critica Letteraria
quale prospettiva nel proemio delle I storie codesti avvenimenti ap-
parivano al Machiavelli, al teorico dellefficienza: e veramente, se-
condo il giudizio mio, mi pare che niuno altro esempio la potenza
della nostra citt dimostri, quanto quello che da queste divisioni
dipende, le quali ariano forza di annullare ogni grande potentissima
citt. Nondimeno la nostra pareva sempre che diventasse maggiore,
tanta era la virt di quclli cittadini, e la potenza dello ingegno e
animo loro a fare s e la loro Patria grande.
Ci resta ora da fare qualche considerazione sul criterio che
dovette presiedere alla concezione di questa storia e sullanimo con
il quale fu poi di fatto eseguita. Le ricordanze delle antiche I storie
lungamente hanno stimolata la mente mia scrive Dino allinizio
del suo libro. Certo, pu essere lecito non accordare a Dino tutta
ludienza che si suole accordare a Giovanni Villani quando con pi
copia di discorso, com nel suo stile, ci dice la stessa cosa. Eppure
se anche lo sviluppo della Cronica assume laspetto di un intervento
ancora diretto sui fatti, quasi che la penna sia un modo di fare anco-
ra politica o, in mancanza di meglio, vendetta; se anche si polarizza
dunque energicamente nei caratteri molto risentiti della requisitoria
e dellapologia, non meno vero che lesempio dei classici pu aver
stimolato fortemente anche uno scrittore sul quale le sollecitazioni
pragmatiche dovevano poi prevalere su qualunque intendimento
enciclopedico e letterario. E non c neppur bisogno di dire che la
storiografia classica non manca di adeguati precedenti di questa na-
tura, perch in questa fase attiva, indiretta, della venerazione del
classico, le ricordanze non sono ancora divenute modelli e, se pos-
siedono uno straordinario potere di eccitazione, non hanno il pote-
re di conformare la materia vivente. Se dunque noi troviamo che
Dino non abbia intonato il proprio racconto a nessun deliberato
arieggiamento degli antichi, questo non ci autorizza a disconoscere
n il proposito di fare una storia come usavano fare gli antichi, n la
seriet dellimpegno che tale proposito sottintende. Daltronde se
anche per il Compagni le naturali disposizioni del temperamento
espressivo devono fondarsi su un principio di autorit, cosa che
sembra inerente alla mens medioevale, abbiamo tutta una letteratu-
ra retorica, di uso gi secolare nelle scuole dellOccidente, che rac-
comanda la concisione, la brevitas, come la prima virt della narratio.
Particormente pregiata era la brevitas sallustiana, segnalata da
Quintiliano. I n questo senso lorientamento del gusto sarebbe nel
Compagni in rapporto con una cultura sorpassata, mentre la prosa
simultanea di Dante si sviluppa nel senso della amplitudo e dellor-
179
I l Medioevo
nato umanistico. Di fatto, sebbene non sia illecito sottintendere
una cultura di tal genere, antiquata, sembra impossibile pensare, nel
caso del Compagni, a una scelta e non a una necessit. I n altri termi-
ni, il Compagni riesce a farci sentire la sua espressione densa, forte-
mente chiaroscurale, brusca negli sviluppi e nei passaggi, come lunica
possibile. Perentoria, originale e quando si tiene conto di questo, si
vede quanto sia pericoloso legare troppo strettamente lapprezza-
mento del fatto artistico con la condizione della cultura.
Ma un altro proponimento, di ben diversa natura, noi troviamo
scritto, nella prima pagina del libro: esso contiene un messaggio di
speranza e la finalit morale dellopera: ed l dove Dino professa
di scrivere i pericolosi avvenimenti non prosperevoli, i quali ha
sostenuti la nobile citt figliuola di Roma a utilit di coloro che
saranno eredi d prosperevoli anni, acci che riconoscano i benefici
da Dio, il quale per tutti i tempi regge e governa. Anche senza
forzare i termini di questo discorso e attribuire un significato
catartico al disegno del Compagni, appuntandoci su quellanno giu-
bilare MCCC che per Dante come per il Villani fu il termine a quo
di una necessaria palingenesi, e che si trova segnato nel proemio
della Cronica come centro degli avvenimenti; anche senza questa
che a me pare arbitraria illazione per uno scrittore del tipo del no-
stro, innegabile che una vera e propria transizione dal male al
bene che Dino intende rappresentarci quando si accinge alla sua
storia negli anni di Arrigo VI I e dellintravisto riscatto. Non meno
di Dante, nel 1300 Dino si ritrov per una selva oscura, anche se
la via per uscirne non passava per lui da regioni cos ardue e remote,
ma tra le case orgogliose e tra le rovine e le brecce fatte dal piccone
e dal fuoco nella sua citt. Codesta via, esclusivamente cittadina e
civica, per quanto sia tracciata da Dio e percorsa da un suo Agnolo,
che appare tale anche a Dante, conduce alla polis e in nome di que-
sta sar disseminata di vendette e castighi. C una ragione morale
fondata - com nella natura delluomo, nel suo esser cive - sulla
ragione politica cittadina, a dirigere il lavoro dello storico e a forni-
re la sua opera dellitinerario spirituale che sembra richiesto dallac-
cezione alta nella quale ha voluto usare la parola cronica; la storia
di unesperienza che anche in questo caso comune al singolo e alla
pluralit, esposta a insegnamento non certo universale ma civico. I n
realt quando Dino conclude: niente vale lumilt contro alla grande
malizia fa qualcosa di pi che cercare scuse alla propria sconfitta;
mostra di avere anchegli sentito che il senso del dramma vissuto
sconfina dai termini della politica in quelli della morale religiosa; e
180
La Critica Letteraria
in questo senso noi possiamo intendere ladesione al mito
palingenetico di Arrigo: I ddio onnipotente, il quale guardia e
guida d prencipi, volle la sua venuta fusse per abbattere e castigare
i tiranni che erano per Lombardia e per Toscana, infino a tanto che
ogni tirannia fusse spenta. I n questo senso morale dunque, anche
se la morale in Dino si traduce come sempre in postulazioni politi-
che immediate. I l che non pare implichi per nulla che il significato
esemplare, che negli intendimenti volle annettere al libro della sua
esperienza, sia una conversione dal guelfismo al ghibellinismo, poi-
ch Arrigo significava ben altra cosa per lui che il ripristino di una
concezione e di una parte in Toscana ormai tramontate da un pez-
zo.
N lessere un esponente autorevole del glorioso Comune pote-
va fargli sentire come una indegnit il ripararsi della speranza in
Cesare, poich il Comune fondato su uno stato di fatto e non su
un principio; e la politica del Compagni, come abbiamo accennato,
si aggira entro quel fatto e non sfiora i princpi.
Ma osserviamo ora come lispirazione si comporti di fatto tra il
passato e lavvenire, tra la dimensione del ricordo e quella della spe-
ranza. Diremo subito che questa seconda poco meno vaga di una
favola quando non prende il volto della vendetta e cio non si
riconduce a ci che il Compagni ha direttamente sottocchio, di
arbitri e di crimini e di soperchierie. E quanto al passato, se Livio
pu consolarsi dei tempi presenti intrattenendosi sullantichit
incorrotta di Roma, il movimento che spinge il Compagni di
natura opposta: esso lo riporta nel mezzo della lotta, senza la tem-
peranza e la rassegnazione concesse dal tempo, con le armi del giu-
dizio o del sentimento appuntite, pi che stemprate, da un presente
ancora implacato. Linazione del politico defenestrato si traduce
nellazione dello scrittore ancora politica e in pi ferrata dallina-
sprita moralit. E la compostezza che dobbiamo riconoscere a un
artista di questo vigore non gli impedisce di stare a fianchi ai suoi
uomini con una drammaticit che tende a fare il passato presente
come il presente. N daltro canto gli consentita quella forma di
alienazione dalla citt, che Dante ritraendosi nellorgogliosa riserva
della sua nobilt, pot trovare: faccian le bestie fiesolane strame di
lor medesme. I l popolano, venuto al potere dalle Capitudini del-
lArte praticata da generazioni di suoi familiari, rimasto al lavoro tra
i suoi popolani, non pu n astrarsi n distrarsi dalla sua citt, pren-
dere le distanze dalla gente onesta o infida che lo circonda. E lo
scrittore rimane confitto nellinestinguibile fuoco della lotta, nel-
181
I l Medioevo
leterno presente della polis. Questa nozione del tempo che esiste
ma annullata da un agonismo sempre attuale cancella ogni possi-
bile inattivit propria dei cronisti, inaugura autorevolmente i modi
della storia; ma anche contrassegna in un modo unico questa tran-
sizione dal politico allo storico. Questa storia che azione, e come
tale dramma, non evoca, sorprende gli uomini nel loro fare. A
nessuno consentito di riposare nel proprio essere, secondo quella
concessione nella quale risiede forse la pi profonda piet della sto-
ria. Tutti quelli che furono, furono in quanto fecero, e fecero nella
materia dura e angolosa della polis o nel magma incandescente della
citt decaduta da polis; e continuano ad essere tali nel tempo sop-
presso dalla passione vivente dello scrittore.
Sono questi elementi, tutti dellordine della vitalit - ma mi per-
metto di invitarvi a dilatare il senso di questo termine dalla accezio-
ne biologica a quella intellettuale e morale, di coerenza che non
deflette, n per fiacchezza n per vilt, di superiore ostinazione -
sono questi elementi che fanno dei tre libri della Cronica una com-
pagine unitaria e unica, la materia della quale si assoda senza raffred-
darsi, ad altissima temperatura. E gli uomini di una generazione
violenta e grandiosa, e i moti e le operazioni vitali della citt di
Firenze vi sono rimasti bloccati come dentro la lava.
MARIO LUZI
da La citt di Dino Compagni, in LApprodo letterario, IV,
1958, pp. 76-81; 85-92
182
La Critica Letteraria
La poesia minore del Trecento
I l Trecento caratterizzato, a paragone del secolo precedente (in
cui acquista un rilievo predominante lesperienza della lirica damo-
re dai siciliani agli stilnovisti, riflessa in forma consapevole nella
dottrina del De vulgari eloquentia), dalla straordinaria pluralit e
variet delle voci in cui si esprime il sentimento di cultura letteraria
assai pi complessa e insieme pi dispersiva obbediente a molte
sollecitazioni discordanti. Tre grandi nomi consacrati in un canone
a buon diritto tradizionale, segnan i momenti essenziali di questa
cultura; ma appunto, con la loro grandezza, accentuano a dismisura
il distacco e la povert dell esperienze minori; mentre, con la loro
successione, sottolineano la complessit di cui si detto, lirrequie-
tezza e il rapido trasmutarsi dei riflessi culturali e letterari di una
struttura sociale, che in un breve giro di anni vede un po in tutta la
penisola frantumarsi le istituzioni comunali, disgregarsi il sistema
dei rapporti economici ad esse corrispondente, costituirsi le signorie
e i principati, prepararsi in somma, con varie alternative e attraverso
lotte aspre e non senza discontinuit cronologiche determinate da
specifiche situazioni locali, quello che sar per secoli lassetto relati-
vamente stabile della societ italiana e della sua cultura. Unet,
dunque per eccellenza, di transizione; segnata da alcune fortissime
personalit di orgogliosi pionieri e capostipiti della civilt moder-
na, e da una folla di tentativi e di esperimenti, in cui si rispecchia la
vita difficile, contraddittoria, irta di delusioni e di utopie, di un
mondo che si dibatte nella travagliosa ricerca di un nuovo ordine
politico morale ed intelletuale.
I ntendere questo travaglio significa infine rendersi conto di quel
fenomeno storico complesso e bifronte, che si suol designare, ri-
spetto allo svolgimento della cultura, col termine di umanesimo, e
al quale si riconnette non a caso, nella secolare tradizione
storiografica, per quanto si riferisce allI talia almeno, unalterna vi-
cenda di valutazioni discordanti: ora disposte a ritrovarvi le pre-
messe e i fondamenti della grande lezione rinascimentale e della sua
funzione europea; ora, soprattutto conservandone la straordinaria
ricchezza di fantasie e di rappresentazioni, di tipi e di situazioni
comiche romanzesche e drammatiche.
I l Petrarca infine, sciolto da ogni legame diretto con le vicende
della lotta politica italiana e, pur attraverso le varie relazioni con i
principi e i signori di cui accetta il patrocinio, sempre attento a
183
I l Medioevo
salvaguardarsi un rifugio pi o meno illusorio di libert intellettua-
le e poetica, il simbolo pi schietto del tardo ideale umanistico,
con la sua cultura distaccata e fragile, tutta chiusa in un labirinto di
sottili esperienze individuali, lirica e idillica, solitaria ed astratta,
sebbene intensamente vissuta nella sua astrattezza, la cultura che
vive nel Canzoniere e che si proporr naturalmente a supremo mo-
dello dei letterati italiani per almeno tre secoli.
Dante, Boccaccio, Petrarca additano i momenti pi importanti
le fasi di un trapasso, di una trasformazione radicale delle strutture
politiche, dei costumi, delle concezioni del mondo. I n essi lespe-
rienza culturale attinge a quel supremo rigore che caratterizza le
punte pi consapevoli e riflesse di una civilt. I minori del Trecento
sono invece lontanissimi da un rigore siffatto, come pure da quello
piuttosto scolastico, ma pur sempre indice di una vicenda intellet-
tuale cosciente delle sue direttive e dei suoi limiti, che aveva guida-
to e regolato i progressi dellattivit letteraria del secolo XI I I . Essi
presentano un quadro pi vario, ma pi incerto, pi difficile ad
afferrarsi, pi dispersivo e pi ibrido, in cui galleggiano i residui
inerti di una cultura gi spenta e ridotta a bagaglio di formule astratte,
ma anche affiorano a tratti voci nuove, pi facili e cordiali.
Guardate i lirici, ad esempio. Ci che pi spicca, a
paragonedella coerenza della scuola dai siciliani allo stil novo, pro-
prio il carattere estremamente empirico dei loro tentativi, la loro
riluttanza ad accettare un sistema preciso di schemi contenutistici e
di linguaggio, la prontezza con cui obbediscono di volta in volta
alle suggestioni pi disparate dellambiente: insomma una cultura
ed un gusto tipicamente informi. Se nei primi anni del secolo regi-
striamo una fioritura di mediocri rimatori che riecheggiano dallester-
no linsegnamento degli stilnovisti, con una totale capacit per al-
tro di adesione sostanziale; se per contro negli ultimi decenni del
Trecento, in un clima di stanchezza e di esaurimento, fiorisce lillu-
sione arcaicizzante ed erudita dei letterati intenti a risuscitare il fa-
scino di quella lirica preziosa, su un piano meramente verbale di pi
o meno decorosa accademia; ci che conta piuttosto lapporto di
una folla di piccoli maestri, dei quali assai pi arduo definire unim-
magine e unimpronta stilistica, e la cui importanza consiste forse
soltanto nellimmediatezza con cui riflettono i dati di una cultura
disgregata e ibrida, adattandoli alle mediocri esigenze della loro in-
certa e torbida biografia: da Fazio degli Uberti al Correggiaio, dal
Vannozzo ad Antonio da Ferrara, da Giannozzo Sacchetti a Simone
Serdini da Bonichi al Faitinelli ed al Pucci, dal Soldanieri al Donati
184
La Critica Letteraria
e al Prudenzani. Non a caso alcune di queste figure sono estrema-
mente vaghe e sfuggenti alle ricerche del filologo; e quando anche i
dati documentari son sufficienti a permetterci di stabilire con esatteza
i limiti dei singoli canzonieri, il risultato non ci appare perci meno
inconsistente per laffiorare di una molteplicit di elementi contrad-
dittori, che non riescono ad assestarsi, caso per caso, in una fisiono-
mia unitaria.
Ci che conta la variet grande, dalluno allaltro, degli spunti
e dei motivi dispirazione; e in tutti la presenza di una sollecitazione
autobiografica immediata e di una continua occasionalit dei temi,
e insieme lesigenza di un vario sperimentare di forme e di tecniche
e di linguaggi, aperto tutto in un volta agli echi della granda tradi-
zione trobadorica e dantesca, alla suggestiva novit del lirismo
petrarchesco, alle eleganze fiorite della poesia musicale, al parlato
incisivo e mordente dellAngiolieri, al gusto dei suggerimenti
popolareschi, allo squallido mitologismo ornamentale dei gram-
matici preumanisti. Senza dire che poi tutte queste ed altre remini-
scenze e maniere, non solo si succedono, ma si alternano, si interse-
cano, si mescolano di continuo in uno stesso autore, talora in un
solo componimento. Si tratta per lo pi, non di poesia, ma di lette-
ratura: di una letteratura per altro irrequieta e mobilissima, che at-
traversa zone intense, e solo verso il finire del secolo approda ai
malinconici esercizi di un generico squallore. Non diversamente,
nella sezione dei poemi allegorici e didattici, vedete come dal serio
impegno dei testi pi antichi si passi solo a poco a poco a modo
dispersivo e tutto esterno degli esempi pi tardivi, in cui lallegoria
poco pi che un gioco e un pretesto per accogliere e legare alla
meglio una somma di minute esperienze di vita, e pi spesso di
letteratura.
Non il luogo qui di indugiare in una descrizione dei nomi e
dei testi singoli (a ci sopperiscono abbastanza le notizie introduttive
ai diversi canzonieri o poemi o gruppi di liriche). Baster, dopo
aver riconosciuto questo frantumarsi degli elementi di una cultura
letteraria in una moltitudine di esperienze individuali, e talora nel-
lambito persino di una singola esperienza, dar rilievo alle figure e ai
fatti pi salienti: oltre i rimatori gi ricordati (e il fenomeno, che
essi incarnano, di un allargarsi e ramificarsi capillare degli interessi
letterari in tutte le parti della penisola), allalba del secolo, la pun-
gente fantasia satirica e mimica dellautore del Fiore, la robusta vena
gnomica e linfinita curiosit di Francesco da Barberino; pi tardi,
la pubblicistica un po pettegola, ma arguta schietta e fantasiosa di
185
I l Medioevo
un Pucci; e, con essa, che forse lapporto pi importante e signifi-
cativo, la dovizia inconsueta dei testi popolari e semi-popolari.
Cantri, serventesi, laude e rappresentazioni sacre, frottole,
strambotti, favole e proverbi: tutta una ricca letteratura, che rap-
presenta la maggior somma di invenzioni e di modi veramente nuo-
vi in questa poesia minore trecentesca, e, soprattutto nei cantri,
oltrech la pi fertile di schiette, se pur tenui, emozioni poetiche,
anche la pi attiva, in quanto quella che maggiormente opera a
svincolare anche la letteratura ufficiale dagli schemi del passato, ad
aprirle nuove vie, ad offrirle temi inusitati e fecondi.
NATALINO SAPEGNO
da I ntroduzione a Poeti minori del Trecento, a cura di N. S.
Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, pp. I X-XI I
186
La Critica Letteraria
Jacopo Passavanti
A sfogliare lalbum degli esempi di fra J acopo Passavanti in una
pi abbandonata lettura [...] sorprende la variet di sfumature rea-
lizzate da questo poeta di sogni che il nostro domenicano. Poeta
di sogni (e sia pure in senso metaforico soltanto) invero il
Passavanti, creatore di atmosere sempre un po stupite e stregate,
segnate appena da un velo di mistero. Una velatura di mistero e di
maga in cui per tutto incisivo e stranamente reale, senza incanti
e prolungati stupori. Cotesta sostanza avventurosa di sogno e cotesta
fascia di allucinata certezza, risul tano presenti come entit essenzia-
li nel controllo di tutti gli esempi, senza distinzione della duplice
ed opposta luce di cui si tinge questa lunga e diversa galleria. Della
quale variazione di luce, dopo averne indicato il fondamento co-
mune, occorrer tenere il massimo conto, procedendo allanalisi dei
toni nei quali digrada e si modifica la vasta pittura passavantiana.
Perci dopo la notizia della prima grande partizione di colore, e il
calcolo relativo allampiezza e alla intensit nettamente superiore
della scrittura negra rispetto alla dorata luce di altri esempi, sar
necessario tenere ancora e soprattutto presente come nellinterno
stesso della tinta oscura dominante, ha modo di esprimersi un vasto
repertorio di tonalit diverse. E in questo consiste gi unindicazio-
ne della ricchezza darte e di sensibilit del Passavanti. Una gamma
insospettata si sprigiona dalle pagine di paura dello Specchio,
dispiegandosi in una serie di gradazioni che rendono pi suggestiva
la consuetudine col libro. I l tema della paura che soprattutto
signoreggia la fantasia dello scrittore, si iscrive in una molteplicit
di scale e di registri. Ma il valore di queste sfumature che rimane
poi da accertare, ed nellindividuazione di questi toni che consiste
il compito essenziale dellesegesi critica. Perci si rende inevitabile,
ad esaurire il nostro compito di penetrazione del definitivo signifi-
cato di questa scrittura, un attento lavoro di scandaglio del territo-
rio su cui si estende, nel suo modificarsi, il pi responsabile motivo
tematico.
I n questa zona che si apre alla nostra indagine, i momenti pi
intensi sono forse rappresentati da quei luoghi in cui si genera un
atmosfera di favolosa tetraggine, con sfondi di apocalittico miraco-
lo e di fosca superstizione, come nellesempio del conte di Matiscona:
Un d di Pasqua, essendo egli nel palazzo suo proprio, attorniato
da molti cavalieri e donzelli e da molti onorevoli cittadini, che
187
I l Medioevo
pasquavano con lui, di subito uno uomo isconosciuto, in su uno
grande cavallo, entr per la porta del palazzo, sanza dire alcuna cosa
a persona; e venendo insino l, dovera il conte con la sua compa-
gnia, veggendolo tutti e udendolo, disse al conte: - Su, conte, levati
e seguitami. - I l quale, tutto impaurito, tremando, si lev; e andava
dietro a questo isconosciuto cavaliere, al quale niuno era ardito di
dire nulla. E venendo alla porta del palazzo, comand il cavaliere al
conte che montasse in su uno cavallo che ivi era apparecchiato, e
prendendolo per le redine, e traendolosi dietro, lo menava suso per
laria, correndo alla distesa. E cos lo tirava su in alto veggendolo
tutta la gente della citt, gridando il conte doloroso, con dolorosi
guai.... La stilizzata visione della demoniaca cavalcata aerea tutta
avvolta in un cupo prodigioso stupore, a cui le grida aggiungono
uneco di disperata angoscia. Alleffetto uditivo delle grida (un po
teatrale se si vuole, ma non si dimentichi loratoriale volont che
presiede a questi esempi) il Passavanti ricorre assai spesso, e sempre
con positivi risultati (e, a proposito di teatralit non si dimentichi
neppure la conferma che essa ottiene dalla struttura insistentemente
dialogica degli esempi, coerentissma del resto con la sensibilit dram-
matica dello scrittore). Anche il morto scolaro di maestro Serlo
sparisce urlando con dolorosi guai. E il peccatore, di cui racconta
San Gregorio, che intercede un giorno di tregua dalla moltitudine
di demoni apparsagli, per rapirne lanima: non essendo esaudito,
con doloroso pianto, traendo guai, mor, e lanima sua fu portata
da diavoli alle pene dello inferno Questa indicazione fonica sim-
bolo estremamente rappresentativo del destino di dannazione del-
lanima e nella musicale posizione di clausola in cui di prefrenza
collocata, come avviene in questi esempi citati, assume unenergia
stilistica tutta speciale. Su questa particolarit delle clausole si os-
servi ancora la chiusa dellesempio del conte: E cos, gridando,
spar dagli occhi degli uomini, e andnne ad essere sanza fine nello
inferno coi demoni. Lossessionan nero delle avventure fantastiche
del Passavanti non ha mai unintensita cos piena come in queste
clausole, in cui ritornano queste stesse parole che parlano di grida,
di demonii, di pene, di eternit e di inferno, ma con ritmi ed echi
sempre vitalissimi.
GIOVANNI GETTO
da Umanit e stile di J acopo Passavanti Milano, Leonardo, 1943,
pp. 89-92
188
La Critica Letteraria
Il linguaggio di Santa Caterina da Siena
Diremo subito che questo [il linguaggio cateriniano] si accosta,
nel suo fondamentale atteggiarsi, a quel tipo caratteristico che si
pu ritrovare in quasi tutti gli scritti dei mistici. Perch se e vero che
il linguaggio mistico in s una pura astrazione, e che nella realt
esiste solo il linguaggio di questo o di quel mistico, per anche
vero che esiste un atteggiamento espressivo comune a tutti i mistici,
che costituisce come una trama storica che raccoglie in ununica
tradizione stilistica questi scrittori, pur restando poi ancor sempre
diverso il modo con cui ognuno si inserisce in essa, e nuovo il con-
tributo di ogni singola individualit. Anche un rapido esame della
letteratura mistica permette subito di cogliere quello che un aspetto
costante delleprressione religiosa, quel gusto cio delle antitesi, delle
metafore, dei termini superlativi, quellamore del linguaggio figura-
to (come lo chiamavano i retori della vecchia scuola, distinguendo
un parlar proprio da un parlar-figurato), gusto che, per esser tipico
della letteratura del seicento, stato da alcuni chiamato barocco. La
genesi di tale atteggiamento linguistico evidente. Essa deve essere
ricercata nella natura particolarissima dellesperienza religiosa asso-
lutamente nuova, intensa ed ineffabile. La corposit, la sensuosit,
la stranezza espressiva sono in stretta relazione con la sfuggente real-
t spirituale che essi vogliono chiarire e fissare [...].
Anche Santa Caterina rientra in questa tradizione. Anche per lei
si parlato di barocchismo. Espressione questa che va naturalmente
presa in senso metaforico, poich da un lato il suo linguaggio risen-
te della letteratura religiosa medievale e dei testi biblici, dallaltro
esso sorge per un bisogno intimo. Ora tutto star nel capire come
spontaneit e tradizione coesistano, e nel cogliere quindi, insieme
alla sincerit dellispirazione, il tono particolare di essa.
Fra le caratteristiche essenziali del linguaggio mistico vi quella
che si potrebbe dire la esteriorizzazione della realt interiore e
spirituale. I n esso gli elementi e le situazioni della vita dellanima
sono oggettivati in concrete entit fisiche mediante elementi desunti
dal mondo fenomenico. Anche Santa Caterina, per esprimere la sua
intima esperienza sfuggente ed intensa, ricorre al mondo esterno.
Perci i suoi modi espressivi vanno, in una crescente progressione,
dalla semplice similitudine alla metafora e allallegoria: le quali sono
pur rivelatrici, nella loro qualit particolare, dellanimo della scrit-
trice che le usa. Con esse sintroducono nel linguaggio cateriniano
189
I l Medioevo
in gran numero le pi diverse immagini, ricavate sia dalla societ
umana sia dalla natura.
Un primo vasto gruppo di similitudini derivato dal mondo
umano. Esse sono tutte documento di quella larga simpatia della
santa verso gli uomini, che costituisce una delle note pi intime
della sua personalit Santa Caterina lontanissima da quel senti-
mento ostile o almeno pessimistico di fronte alla societ che si trova
in altri mistici, e fortissimo ad esempio in I acopone. Ella si sente
legata da un saldo vincolo affettivo agli altri uomini, alle loro cose,
alla loro vita, che osserva con cordiale interesse, senza distoglierne
con disgusto lo sguardo. Cos lamore di Dio verso la sua creatura
illuminato da lei con questa similitudine
Dio ha fatto a voi e ad ogni creatura come fa il padre che mette
alcun tesoro in mano del figliuolo suo e per farlo grande e arricchito
il manda fuora della citt sua.
E Ges che espia su di s le colpe degli uomini da lei
assomigliato alla balia:
Egli ha fatto come fa la balia che nutrica il fanciullo che quando
egli infermo, piglia la medicina per lui perch il fanciullo piccolo
e debile, non potrebbe pigliare lamaritudine perch non si nutrica
altro che di latte.
Questa similitudine efficacissima appartiene in particolare,
a quel gruppo di immagini materne, che ritornano assai di frequen-
te, e che sono quasi una eco di quel sentimento della maternit
secondo cui si atteggia essenzialmente la sua vita interiore. Bellissi-
ma per fra tutte queste immagini umane quella introdotta per
descrivere laspetto esterno e insieme la situazione psicologica di
Tuldo, il giovane condannato a morte da lei convertito:
Volsesi come fa la sposa quando giunta alluscio dello sposo
suo e volge locchio e il capo addietro inchinando chi l accompa-
gnata e con latto dimostra segni di ringraziamento.
questo uno tra gli accenti pi vivi e pi delicatamente umani
dellopera di Santa Caterina e tale da illuminare questanima che,
tutta raccolta nel mondo del cognoscimento di s, sa raccogliere a
volte tutto un fremito di pulsante vita in una rapida e chiara sintesi
degna quasi di un poeta.
GIOVANNI GETTO
da Saggio letterario su S. Caterina da Siena Firenze, Sansoni,
1939, pp 73-76
190
La Critica Letteraria
La prosa dei Fioretti
Quella dei Fioretti proprio la prosa del rapimento, della man-
suetudine e dellaffetto. Ha una semplicit che non dei poveri di
mente, ma di coloro che sono abituati a sfrondare le cose del mon-
do. quasi scarna, e sembra alleggerita dalla mediazione costante
sui pochi sentimenti che reggono davvero la vita, fatta trasparente
dalla dimestichezza con la povert che insegna quanto poche siano
le cose necessarie a vivere.
E perch chi scrive ha una lunga abitudine alla riflessione, ha lo
sguardo sicuro, penetra facilmente i caratteri, delinea con poche
parole una scena, riflette in un dialogo brevissimo i personaggi e le
consuetudini del loro spirito. Anche qui le impressioni che si stac-
cano dal fondo del libro, sono rare, perch quasi dovunque si tratta
di uomini umili e pii. Ma dove la materia cambia, si rivela una
vivacit drammatica insospettata, la quale - tuttavia - ha sempre la
stessa fonte spirituale. Un giorno, mentre San Francesco in ora-
zione nella selva, un giovane picchia in fretta e forte e per grande
spazio alla porta del convento. Frate Masseo apre: Onde vieni tu,
figlinolo, che non pare che tu ci fossi mai pi; s hai picchiato
disusatamente?. E come si dee picchiare?. Picchia tre volte, luna
dopo laltra, di rado: poi aspetta tanto che l frate abbia detto il
pater nostro e venga a te; e se in questo intervallo non viene,
picchia un altra volta. I l giovane ha fretta: vorrebbe parlare con san
Francesco, ma poich questi in contemplazione, fa chiamare frate
Elia. Frate Masseo tarda a tornare: il giovane picchia un altra volta
come prima. Poco dopo frate Masseo viene alla porta e dice: - Tu
non hai osservata la mia dottrina nel picchiare. - I l giovane sa che
frate Elia non vuol moversi, e gli fa comandare da San Francesco di
ubbidire. Udendo frate Elia lubbidienza di Santo Francesco, and
alla porta molto turbato, e con grande impeto e romore laperse, e
disse al giovane: - Che vuoi tu? -. I l pellegrino gli pone la sue
questione; Elia gli risponde superbamente: I o so bene questo, ma
io non ti voglio rispondere; va per gli fatti tuoi I l giovane replica:
I o saprei meglio rispondere a questa quistione, che tu. Allora
frate Elia, turbato, con furia chiuse luscio e partissi. Poi cominci a
pensare della detta quistione... E non sapendola risolvere, torna
alla porta per domandarne al giovane: ma egli sera gi partito;
imperocch la superbia di frate Elia non era degna di parlare
collAgnolo. Che il pellegrino sia un angelo si presente dal modo
191
I l Medioevo
com delineata la sue figura, dal modo comegli arrive alla porta,
dalle cose che egli mostra miracolosamente di sapere, dal misterioso
significato che ci sembra dintravvedere nel fatto che proprio duran-
te questa visita San Francesco orava nella selva colla faccia levata
verso al cielo: ma pi si sente la sua natura sovrumana in questa
scena dove accennato con un tocco cos leggero e reale il profilo
flemmatico del frate portiere, e colla stessa sicurezza e con un atteg-
giamento pi riflessivo limpetuosit di frate Elia.
Questi quadretti rapidi e sottili sono rari, e per la loro brevit si
dimenticano. Ma anchessi guidano a comprendere la fisonomia e i
modi dominanti del libro. Come poco basta allo scrittore per co-
gliere un movimento o unabitudine dello spirito cos poco gli ba-
sta per dar limpressione della santit e della campagna romita. Egli
ha una rara esperienza della vita morale: e una sfumatura e certe
pause naturali e significative valgono per lui pi di molte parole.
Ha la sobriet che nasce dalla lucidit interiore, dallavere per guida
costante un sentimento risoluto: qualit necessaria cos al santo come
al poeta.
I Fioretti sono il poema dellumilt, dellaspettazione fiduciosa:
tutto il resto, tutto ci che non giova a questo sentimento, non
veduto, come se non esistesse. La realt orientata in un certo
modo, e ridotta, come avviene sempre nellopera di un poeta: nulla
vi di estraneo a quellorizzonte. E perci il libro pieno di armo-
nia, ed tutto consapevole del suo fine; e quel fine, purissimo, spira
nella sue prose come il soffio che d forma ad una fiala di cristallo.
Bisogna aggiungere, per dire tutta la verit, che il volume pi
uguale che ricco, che la sue arte inconsapevole, che perci la mate-
ria spesso ripetuta, non molto ordinata n collegata, e a lungo
andare anche gli atteggiamenti stilistici rivelano i limiti di quella
poesia. I Fioretti nascono da un solo motivo generatore ma questo
motivo poco fecondo. Perci la lettura continua stanca, e i capito-
li famosi non sono molti: quello di frate Leone, a periodi lirici e
calmi, come di un inno alla perfetta letizia; quello del lupo che,
mansuefatto da San Francesco, entrava dimesticamente per le case,
a uscio a uscio, senza fare male a persona, e senza esserne fatto a lui,
e giammai nessuno cane gli abbaiava dietro; quello della predica
agli uccelli, che alle parole del santo aprono i becchi e distendono i
colli e aprono le ali e reverentemente inchinano i capi infino a terra,
e poi sollevano in aria con maravigliosi canti e volano per i quattro
punti dellorizzonte, presagio dolce e solenne della fortuna dei
poverelli di Cristo. Ma qualche altro meriterebbe la stessa fame:
192
La Critica Letteraria
quello di SantAntonio che predica ai pesci, stesi dinanzi alla rive in
un cerchio ordinato e grandioso, descritti con lo stesso nitore deal;
uccelli, e come accarezzati dallo stesso affetto; e quello di San Fran-
cesco che lode a frate Masseo la povert, ci che non procurato
dallindustria umana ma apparccchiato dalla provvidenza divina, il
pane accattato, la mensa della pietra cos bella, la fonte cos
chiara.
Tutto il libro una lode, ore sommessa, ore alta, della creazione.
Ma quando lo scrittore dinanzi alle creature semplici - gli animali
-, e alle cose che Dio ha fatto per i bisogni immediati delluomo, la
sua parola si fa pi commossa, acquista una tenerezza piena di grati-
tudine e dinnocenza.
Cos la sua ammirazione per i tuguri coperti di graticci, per i
letti fatti di poca paglia distesa sulla nuda terra, per le anime che
ignorano il desiderio e lorgoglio.
I n questa solitudine a cui bastano un sorso e un pane, lanima si
fa pi fine e pi penetrante, si sgombra delle passioni, e la sua parola
diviene persuasiva e amorevole. Chi scrisse questo libro, dovette
partecipare delle stesse esperienze spirituali di San Francesco: altri-
menti non si spiegherebbe la naturalezza la brevit convincente, con
cui egli ritrae la facile chiaroveggenza psicologica del progatonista e
la sua spontaneit nellindovinare e soggiogare le anime.
ATTILIO MOMIGLIANO
da Studi di Poesia Bari, Laterza, 1948, pp. 11-14
193
I l Medioevo
Il Trecentonovelle
Poich il Sacchetti spigliato narratore di piacevoli beffe e ritrattista
della societ borghese del suo tempo una sola cosa col Sacchetti
meditativo e moraleggiante che fa con sincert e impegno le sue
prove in una grande parte - forse la maggiore, quantitativamente -
della sua attivit letteraria, esamineremo qui in che misura e sotto
quale aspetto il suo linguaggio (e in particolare la sintassi) ne risen-
ta, e come rifletta queste differente posizione spirituale. Apparir
che nel linguaggio schiettamente narrativo la sintassi riproduce con
estrema facilit lanimo divertito dello scrittore e la sua spensierata
dedizione alla materia mentre quando subentra la riflessione per
porre le premesse e dare lavvio al racconto o per giudicarlo e confe-
rirgli una pi ampia validit, lo sforzo di disciplinare struttural-
mente gli elementi del discorso fallisce, e il contorno della formula-
zione sintattica non coincide pi con quello del contenuto spiri-
tuale.
I l veloce e vivace delineamento di una figura o di un carat-
tere, largentina fluidit del dialogo, la prontezza ad afferrare i pic-
coli particolari significativi, la perfetta adeguazione del linguaggio
alla vicenda narrata, che inviterebbe a parlare, come vedremo, di
una mimesi sintattica, son tutte caratteristiche dipendenti dallar-
guzia, dalla curiosit, dalla nativa vivacit di espressione, dalla lun-
ga e in fondo benevola esperienza degli uomini; caratteristiche ope-
ranti solo in connessione con lambiente in cui lautore si muove,
perch da questo son ispirati e su questo operano descrivendolo.
la realt che ispira il Sacchetti, ed egli la dipinge con tratti nervosi e
sicuri e, diciamolo pure, superficiali, perch tanto pronto a co-
glierne ogni tratto, che il ritmo delle apparenze lo afferra e lo trasci-
na senza lasciargli il tempo di andar pi a fondo col pensiero. La
meditazione subentra in seguito, quando limpressione dei fatti
gi raffreddata: descrizione e giudizio restano cos scissi, e la com-
prensione solo approssimativa. Linteresse spontaneo del Sacchetti
messo a fuoco sulla realt, s che il contorno raziocinativo ne riesce
progressivamente sfocato.
Certo, chi si dichiarava con una certa dose di civetteria uomo
discolo e grosso aveva lambizione di superare, per dono di intelli-
genza (vedi la nov. CLI ) e per forza di voiont, il livello culturale
del suo ambiente, tanto da ritenersi in grado di giudicarlo e di am-
monirlo. Ma se il buon Franco si fa, in un certo senso, storico, egli
194
La Critica Letteraria
deve accontentarsi di fissare lo sguardo sulle piccole vicende, o su
aspetti minuti delle grandi; e se si fa moralista, muove per lo pi il
suo giudizio da fatti minimi, di cronaca, e senza troppo premunirsi
dal pericolo delle contraddzioni. E alla fine la direzione del nostro
giudizio, che ci fa sorvolare su questi timidi tentativi di sistemazio-
ne storico- morale e ci trasporta con prontezza e quasi impazienza l
dove larte del Sacchetti - libera - si pu manifestare con tutta la sua
naturale festivit, bens opposta a quella della volont dellautore,
ma non a quella della sua naturale vocazione; onde ci rallegra con-
statare poi sulla pagina che quasi tutte le parti migliori fioriscono
sulla limpidit di un cielo non offuscato da nebbie meditative. Co-
munque, col tentare una dislocazione dai valori puramente narrati-
vi a quelli di maggior peso morale lautore istituisce nel suo stile
uninstabilit di equilibrio che a volte si fissa in una definitiva frat-
tura, a volte ha esiti in cui una delle tendenze prevale sullaltra [...].
Riteniamo insomma che, mentre la meditezione morale
dimensiona lo spazio entro il quale si situano le novelle, tuttavia la
moralit, quando non si presenti pi in incognito, ma in posizione
distinta e coi propri attributi, non giunga sempre a una piena solu-
zione in seno al liquido poetico, e lasci anzi tracce residue che pale-
sano la sua incompiuta elaborazione anche al saggio dellanalisi lin-
guistica [...].
I l gusto per la voce popolare non del solo Sacchetti, il molto
ch del solo Sacchetti deriva dalla particolare posizione che questo
linguaggio popolare occupa nellavvio stesso del suo narrare. Si veda,
a contrasto, il Boccaccio, anchegli gran buongustaio di parole ed
espressioni popolari. Nel Decameron il linguaggio popolare si adatta
e sottost a quello aulico: il Boccaccio introduce nel tessuto del suo
stile, senza deformarlo, lespressione popolare, con particolari scopi
umoristici o di colore ambientale, simile allaristocratico che a tratti
si diverte a fare il verso al volgo. Nelle parti pi vive del
Trecentonovelle invece il Sacchetti raggiunge unespressione lingui-
stica sinceramente e compiutamente popolare: la lingua del popolo
tanto sinteriorizza in lui, che ad essa si conforma, su essa satteggia
il suo linguaggio (e ad eliminare ogni pericolo di malintesi, come
parlare di spontaneit e simili, ci soccorrono i Sermoni, dove il
linguaggio, anche nelle numerose novelle, tanto meno vivace e
scorrevole. La naturalezza delle novelle una lenta conquista, a cui
tuttaltro che estranea lesperienza delle Rime). Cos nelle novelle
non abbiamo pi, del linguaggio popolare, sparsi anche se numero-
si elementi, ma moduli narrativi, formule sintattiche, tutto quanto
195
I l Medioevo
insomma contribuisce a che lo stile del racconto popolare divenga,
nelle mani del Sacchetti uno strumento meraviglioso di comicit.
Nelle novelle del Sacchetti affiora dunque, limpida e ormai sicu-
ra del suo corso - rotti i frequenti ostacoli di una tradizione stilistica
tanto differente - la vena del linguaggio popolare. Vena che, com
facile sincerarsi, si presenta nei narratori contemporanei solo con
deboli tracce, timide apparizioni (a parte certi isolati, quale lautore
della Vita di Cola), e solo nel Cinquecento si fa vistosa e irruente,
alimentandola fonti generose. Cos la prosa del Trecentonovelle ci
appare estremamente singolare tra quella dei novellieri contempo-
ranei, ora caudataria di quella boccaccesca, ora incapace di darsi un
assetto qualsivoglia (lo scrittore non pi paludato non sapeva assu-
mere landatura disinvolta del popolano); e differisce nel contempo,
nonostante le numerose analogie, da quella dei molti scrittori del
Cinquecento che adottarono forme linguistiche proprie della lin-
gua parlata. Perci, mentre i nostri raffronti con prosatori, e special-
mente commediografi, del Cinquecento, e con testi moderni popo-
lari o popolareggianti vogliono indicare la vitalit di questi proce-
dimenti della lingua parlata, ci preme precisare la particolare posi-
zione del nostro autore: posizione, confronto ai cinquecentisti, di
maggior rispetto per la sua fonte, e questo non perch la sua ade-
sione sia meno cosciente, ma perch essa rappresenta, a conclusione
di una singola ricerca di stile, la raggiunta consapevolezza del mon-
do interiore dellartista, e non la partecipazione a un programma o
a una moda.
I l gusto popolaresco dellonomatopea e della caricatura, gi in
precedenza raffinato e stilizzato nella tecnica impressionistico musi-
cale delle Rime, celebra qui con le forme del linguaggio parlato la
gioia della sua maturazione. Cosi, liberatasi dai rigori della tradizio-
ne, la sintassi sacchettiana ci si presenta animata da quello spirito
immaginoso, osservato nellitaliano dallo Spitzer e indicato recen-
temente dal Terracini in funzione di una vera e propria caratterizza-
zione della nostra lingua, che spregiudicatamente utilizza, con fina-
lit ora allusiva ora imitativa, elementi ancora vibranti dellintona-
zione di un discorso reale. Va da s che questi elementi escano, nel
Trecentonovelle, dalla potenzialit con cui vagano tra le maree del
linguaggio, per assumere la definitezza dellatto stilistico.
stata pi volte notata nel nostro novelliere labilit nel rendere
scene di confusione: lasino inferocito dalle beccate del corvo, il
vecchio dottore in preda ai capricci del ronzino, il parapiglia causa-
to dallorsa legata alle campane, la corsa pazza del lupo e della botte
196
La Critica Letteraria
e dello sbigottito fanciullo, e cos via. Fatto si che la fantasia del
nostro Franco, che si disperde o sindebolisce quando, ancor lonta-
ni i personaggi, deve evocarli e indurli sulla scena, si fa sempre pi
attenta e accesa quando questi incominciano a intrecciare la loro
pantomima, e riuniti i fili de racconto, e concentrato questo nel
breve spezio di unazione che per lo pi si risolve speditamente, essa
sabbandona ormai senza preoccupazioni al gioco lieve e indiavola-
to delle sue creature di un momento.
CESARE SEGRE
da Lingua, stile e societ Milano, Feltrinelli, 1963
pp. 302-303, 326-328
197
I l Medioevo
Andrea da Barberino
Lepopea cavalleresca francese si spoglia, in I talia, della maestosit
delle sue forme, dei suoi alti, solenni e commossi accenti, per sten-
dersi ed appiattirsi quasi sempre in una rappresentazione borghese,
talvolta, anzi, quasi familiare e casalinga di quel mondo eroico, e,
perso quel tono e quellaccento cos altamente epico della sua rima
fioritura, si arricchisce di motivi e di spunti suggeriti dalla comune
vicenda giornaliera. A questo modo essa si adegua ai gusti, alle ne-
cessit e agli interessi del nuovo pubblico al quale destinata e si
rivolge. Nelle sue diverse forme, delle ottave dei poemi o cantari o
della prosa dei romanzi, non ad un ristretto, eletto pubblico essa
parla, ma ad una folla variopinta di uditori e di lettori facili ad
esultare e a commuoversi per il trionfo del bene e della giustizia, a
esecrare e a condannare senza piet e, insieme, a intenderne con
diletto lo spirito cortese e cavalleresco che essa evoca.
A Firenze, per due secoli, dal Trecento al Cinquecento, si eserci-
ta, come del resto in molte altre citt, una singolare forma di arti-
gianato poetico: quello dei canterini. Dalla piazzetta di San Martino
al Vescovo, nella quale solevano dar convegno al loro pubblico fe-
dele, i canterini o cantatori in panca salivano spesso anche al Palazzo
del Comune, per recitare le loro ottave dinanzi ai Priori, dei quali
venivano cos ricreando i conviti e le veglie. Si sa che il Comune
fiorentino ebbe nel Trecento al suo stipendio un ufficiale, detto sin-
daco referendario, al quale competeva lincarico di recitare compo-
nimenti volgari dinanzi ai signori e alle loro famiglie. Sia che mae-
stro Andrea da Barberino recitasse in pubblico, come alcuni riten-
gono, i suoi romanzi, sia che li destinasse, come la compilazione in
prosa pi naturalmente suggerisce, alla lettura negli ambienti bor-
ghesi pi elevati o signorili, si deve pensare che non a un uditorio
plebeo e indotto egli si rivolgesse, bens piuttosto a uditori o lettori
capaci di gustarne lo spirito ed i modi; giusta quanto di lui scrisse il
Carducci: Andrea da Barberino, notaro ed uomo di studi, in servi-
zio dei popolani seri e per lettura nelle camere e nelle sale ricompil
da molti testi molte prose di romanzi.
La Firenze di questepoca politicamente irrequieta: rivolgimenti
si susseguono a rivolgimenti: dalla cacciata del duca dAtene, attra-
verso la guerra degli Otto Santi, al tumulto dei Ciompi, allimporsi
delloligarchia borghese fino allaffermarsi della Signoria dei Medici
nella persona di Cosimo. Ma, in questo stesso periodo, conquistate
198
La Critica Letteraria
Prato, Pistoia, Arezzo e, dopo dura lotta, Pisa con il suo prezioso
porto, e debellata la minaccia viscontea despansione in Toscana,
Firenze stabilisce una salda egemonia su tutta la regione. Frattanto,
essa tocca lapogeo della sua potenza economica: la vita delle arti
vi ferventissima; le attivit mercantili e le operazioni di cambio
delle ricche compagnie fiorentine assumono proporzioni gran-
diose; il fiorino conquista i mercati europei ed asiatici. Signoreggia
la societ comunale del tempo, la gente nova che lesercizio della
mercatura ha arricchito e nobilitato. I n tale societ, se pur erede
delle idealit cortesi nei suoi ceti pi alti, aperta agli spiriti nuovi e
cos fervida di attivit commerciali e mercantili, lideale cavalleresco
non pu mantenere il suo primitivo carattere aristocratico e milita-
re; sopravvive spogliato dei suoi originari attributi.
Di qui il nuovo carattele della narrativa cavalleresca, di qui il suo
sfociare in romanzo, in un unico immenso romanzo, nel quale vie-
ne ordinatamente a comporsi e a disporsi, secondo gli schemi di
una complessa genealogia, la discendenza dei Reali di Francia, a par-
tire da un illustre capostipite quale Costantino il Grande, fino a
Carlo Martello, qui nipote e degenere successore di Carlo Magno.
Questo disegno unitario, gi evidente nel citato codice della
Marciana, riceve, in questi nostri romanzi, uno sviluppo pi com-
pleto ed una pi precisa e concreta definizione.
Per questo ricollegare le origini della dinastia francese al glorioso
imperatore romano, le sorti della monarchia francese vengono ad
inserirsi nel quadro delle fortune dellI mpero romano; si assegna,
perci, alla causa di Francia la missionc che era propria dellI mpero
di Roma: la diffusione e la difesa della fede cristiana. A questa mis-
sione la dinastia di Francia chiamata per predestinazione divina: lo
provano la miracolosa conversione di Costantino, la consegna
dellOrifiamma, la santa bandiera di Francia, a Fiovo, colui dal
quale nasceranno genti che accresceranno molto la fede cristiana e
che per grandi misteri deve lasciare Roma, la nascita quasi
messianica di Orlandino nella grotta di Sutri, lapparire dei messag-
geri del cielo al suo fianco in Aspramonte, il suo prodigioso inter-
vento in Aspramonte per la salvezza di Carlo, gli eventi soprannatu-
rali che precedettero e seguirono la sua morte.
Che la storia venga in questi romanzi trasfigurata e sconvolta in
modo da mutare completamente tutta la vicenda storica e i relativi
rapporti, non deve destar stupore. La storia entra in essi solo per
quel tanto che lautore ha voluto che vi entrasse, ossia a fare da
sfondo e da cornice alla finzione poetica. Non dunque sono da ascri-
199
I l Medioevo
vere ad ignoranza certe arbitrarie trasposizioni, le disinvolte inver-
sioni dei rapporti storici, la facile alterazione del vero geografico,
ma a deliberato proposito dei romanzieri, cui quei monarchi ed
eroi si sono presentati in una particolare luce romanzesca.
Non si pu, per converso, disconoscere che i romanzieri insista-
no nel dare alle loro opere laspetto e landamento di storie vere,
tanto in esse ricorre frequente la notazione di date, documentate fin
nel giorno e nel mese, tanto sentito e realzzato il desiderio e il
proposito di prospettare gli avvenimenti entro un quadro
cronologicamente ben definito. A questo amore di verosimiglianza
storica sinforma anche la diligente citazione di versioni diverse, date
da autori, cronache, e cronachette, storie e libri, dei quali
si controlla e si discute lattendibilit.
Gli si accoppia un vivo amore di particolarit georafiche e
topografiche, soprattutto manifesto nella cura di seguire puntual-
mente i personaggi negli itinerari dei loro viaggi, scandendone le
tappe, numerando le localit da essi toccate, delle quali si illustra la
posizione e si cita sposso lattuale e lantica denominazione, con un
particolare e vivo gusto geografico. I n tale gusto sembra possibile
cogliere il riflesso di quella brama di conoscenza geografica che, de-
statasi fin dal Duecento con i viaggi dei Polo, avr il suo corona-
mento nel viaggio di scoperta di Colombo.
Nellampio orizzonte geografico dei nostri romanzi rientrano,
non solo lEuropa, ma ancora lAsia, sterminata e varia di popola-
zioni e di regioni, e lAfrica misteriosa, temuta e affascinante al di l
della nota fascia costiera settentrionale; e tutto il Mediterraneo
presente, loccidentale e lorientale, con le sue isole, i suoi approdi,
le sue rotte spesso fortunose.
Ugone dAlvernia, percorrendo la terra alla ricerca dei regni dI n-
ferno, ha la ventura di visitare il favoloso paese del Prete I anni, nel
quale crescono gli alberelli che fanno il pepe, e molti altri alberi
odoriferi che tutti fanno spezzierie; e di quelli alberi e molte dolce
erbe, che sono in questo loco, tanto odore ch una maraviglia; il
romanziere gli fa vivere una drammatica notte tropicale (ma il cie-
lo in quella notte si turb, e levossi grandissimo vento, e fessi tanto
freddo; ma in sulla mezza notte pass la freddura, poi si lev un
vento con un caldo cocente che si pensava di morire, e questo dur
insino al die; ma a d si rischiar laria, e torn il tempo ragionevo-
le), lo guida alla scoperta di una fantastica rete idrografica, scatu-
rente dalle fontane del Paradiso terrestre (le quali spandeno uno
fiume, il quale poi in quattro parti detto fiume si divide; e corrono
200
La Critica Letteraria
per quattro parti della terra, e fanno quattro fiumi, luno dei quali si
chiama Eufrates, il secondo Nilo, terzo Frison, quarto Tigri), lar-
resta stupito dinanzi alla visione dei monti che eruttano fiamme.
Ugone, in queste pagine, non gi soltanto il fedelissimo suddito
di Carlo Martello che, per soddisfare allempio capriccio del suo
signore, si sottopone allinaudita prova di un viaggio ultraterreno,
n il devoto pellegrino medievale: egli anche e piuttosto il viag-
giatore ardimentoso, lesploratore intrepido che affronta e investiga
lignoto, luomo che muove alla scoperta di mondi inesplorati, ed
osserva con occhio stupefatto ed attento i meravigliosi, infinita-
mente vari fenomeni che la sua ricerca gli presenta.
I n questo mutevole orizzonte, lI talia ha naturalmente un posto
a s, e la rievocazione dei luoghi italiani ha nella voce dei romanzieri
unintonazione pi confidenziale, e quasi commossa perch scende
a nobilitare le pi povere e remote contrade, a scoprirvi care abitu-
dini di vita italiana. I n una grotta di fuori da Sutri uno miglio,
fatta per bestiame, nasce Orlandino. Nelle strade di Sutri, risuo-
nanti di rumorosi giuochi di fanciulli, scende anche Orlandino a
dar prova della sua forza e del suo valore, primeggiando subito fra i
coetanei, conquistando la loro ammirazione e simpatia, e meritan-
dosi quella divisa a quartieri, simbolo delle virt per le quali egli si
distingue e che diventer la sua insegna. Ancora in I talia avviene il
suo primo incontro con Carlo, il terribile zio che aveva scomunica-
to ed esiliato i suoi genitori, ed al quale Orlandino si permette di
tirare la barba e di rivolgere scura guatatura, invano redarguito
dal brutto e spaventoso viso dellimperatore e da un suo grande
roncare di gola. Orlando esordisce a corte come generoso difenso-
re dei deboli contro le ribalderie dei prepotenti; n valgono a frena-
re i generosi impulsi di questo figlio ardimentoso le trepide ansie
materne. Sullalpe dAspramonte egli compie le prime prove dar-
mi; rinchiuso da Carlo nella torre di Monlione, insieme ad Astolfo
e ai figli giovanetti del duca Namo, e costretto allinerzia, mentre
lesercito di Carlo gi marcia a bandiere spiegate verso Roma, si
sente fremere dimpazienza, e riesce ingegnosamente ad evaderne;
ma, pi tardi, quando Carlo rinuncerebbe per il momento a farlo
cavaliere, proponendogli di attendere per questo il ritorno a Parigi,
il suo sdegno si tramuta in fiera collera. I l leoncello che appariva in
visione allimperatore a Sutri, e che gli faceva temere per il suo avve-
nire grandiosi eventi, ricordandogli analoghe visioni apparse a Ce-
sare e a Filippo di Macedonia prima della loro morte, appare bene
dinanzi a Carlo in Aspramonte, quandegli essendosi temerariamen-
201
I l Medioevo
te cimentato con Almonte, sta per soccombere alla forza del Saraceno.
Orlando e Carlo appartengono a due mondi diversi, talvolta in aperto
contrasto: luno alla giovinezza impetuosa, laltro alla vecchiaia spos-
sata.
La figura di Carlo Magno ha in tutta questa produzione roman-
zesca un suo convincente tono bonario; la statura del grande impe-
ratore risulta impicciolita rispetto a quella tradizionale, ma non
invilita; la sua fierezza fonde spesso in lagrime, perch di fronte allo
spettacolo cruento del campo di battaglia il suo cuore paterno e il
suo sguardo non reggono pi; la sua fiducia in una fondamentale
bont umana lo rende spesso vittima dei raggiri e degli inganni dei
Maganzesi, linfida pianta che, allignata a fianco di quella benigna
dei Chiaramontesi, protende con accanita pervicacia i suoi rami a
guastare i buoni frutti dellaltra, la trista genia che offusca con la
tetra ombra dei suoi tradimenti la luce che irradia dalla nobile casa
di Francia. Macario di Losanna e Namo di Baviera stanno a fianco
di Carlo a rappresentare, rispettivamente con le losche insinuazioni
e gli aperti consigli, due forze contrastanti, ma che agiscono sul suo
animo con la stessa potenza. Carlo Magno appare stanco e vecchio:
appesantito, pi che dagli anni, dal peso dellimmenso I mpero che
ha retto e dagli avvenimenti che si sono torbidamente addensati e
accumulati al suo orizzonte, a partire dalluccisione del padre e
dallusurpazione del trono per opera dei fratellastri, fino al tradi-
mento di Roncisvalle, causa della perdita della santa gesta e della
disfatta della Francia. Di tanti avvenimenti rimasta nellanimo di
Carlo una profonda malinconia, che le vicende del presente talvolta
crudamente acutizzano, facendone stillare lagrime vere. Per questo
la sensibilit di Carlo rifugge dal pericolo, dalla guerra, dal sangue,
dalla morte; per questo egli cos prudente, cos sollecito della
salute dei suoi paladini, cos paterno. Egli non appare mai in una
luce radiosa, neppure negli anni della piena maturit, ma, piutto-
sto, sempre; in una luce smorzata. Sul suo capo venerando, al quale
ossequienti si inchinano le assise dei baroni dellI mpero, pi che la
corona fulgente dellimpero, noi vediamo inarcarsi unaureola, i cui
contorni vanno gradualmente sfumando nella luce tenue di un cre-
puscolo. Quandegli si stacca dal mondo, la sua figura avvolta da
una grandiosa solennit ieratica. E i nostri romanzieri non sono mai
irriverenti verso Carlo, non irridono a una sua pretesa debolezza o
dabbenaggine, come avverr in seguito, ma stanno di fronte a lui in
un atteggiamento reverente, solo qualche volta venato da una leg-
gera indulgenza.
202
La Critica Letteraria
La lotta di Roncisvalle si colloca come al centro dellideale para-
bola rappresentata dalla storia della dinastia francese. Allindomani
di Roncisvalle nasce per la Francia unra nuova che del glorioso
passato conserva intatto il ricordo, proposto ad inimitabile model-
lo. I n essa un solo eroe appare degno di figurare accanto ad Orlan-
do: Rinaldino, che di quello ha lindomito coraggio, il focoso ar-
dore combattivo, e, da ultimo, la rassegnata accettazione di una
sorte indesiderata e avvilente. Con lui la corona di Francia potrebbe
ritrovare il suo prestigio, se le manovre, perpetuamente sventate e
risorgenti, della razza nemica non ne stroncassero di volta in volta
ogni possibilit. Di una vita animata da propositi s chiari e da ide-
ali s ben definiti, ci sfugge la conclusione; la sua storia, quale ci
rimasta, ci congeda da lui nellatto in cui egli sincammina solo ver-
so unignota destinazione, lasciandosi malinconicamente alle spalle
il mondo delle sante lotte, incontro allavventura.
questultimo un mondo assai pi vario e colorito, dai contorni
multiformi e fluttuanti, in cui alleroico si sostituisce limmane e lo
straordinario, alla forza e alla grandezza morali la forza e la grandez-
za fisiche, al miracolo degli interventi divini il prodigio delle appa-
rizioni diaboliche, ai profondi misteri celesti glincantesimi di fonti
e di mostri. La narrazione svaria dietro a questa caleidoscopica vi-
sione del mondo e risulta tutta intessuta di casi e di vicende infini-
tamente rinnovantisi, le cui fila si accostano, si incontrano, si
sovrappongono e si sviluppano allinverosimile, senza, per, aggro-
vigliarsi, per tornare poi a dipanarsi e a distendersi ordinatamente.
I n una tela narrativa cos varia, sempre pi frequente e pi viva
appare limmagine della donna. Essa lispiratrice delle imprese pi
rischiose, colei che, cingendo linsegna al cavaliere che si appresta a
scendere in piazza a giostrare per meritare il suo amore, gli infonde
la forza di combattere e di vincere; a lei il cavaliere che torna rag-
giante di gloria dal torneo offre la sua vittoria, che dono damore
ed insieme garanzia di protezione e di difesa. Valore guerriero ed
amore sono inscindibili. I l valore guerriero ha tale potere che, tra-
mite la fama, accende dammirazione i cuori femminili anche a di-
stanza. E lamore che ne nasce una forza primitiva, cui vano
tentare di opporsi; ha limpeto di un fiume che scorre gonfio di
acque ed investe quanto incontra sul suo cammino; trova cuori
candidi mervigliosamente aperti ad accoglierlo ed a colmarsene;
diventa la sola ragione di vita, per la quale si superano distanze
terrene e differenze di fede religiosa, e si vincono timidezze e pudo-
ri; e un sentimento puro che non si riveste di complicate
203
I l Medioevo
sovrastrutture, n di complicazioni psicologiche, n vien celato die-
tro falsi sembianti o contenuto nei limiti della convenienza, ma si
manifesta ed esprime con atti ed accenti di una assoluta sincerit.
Accende di solito, ad un tempo, il cavaliere e la dama, e, svolgendo-
si attraverso, una silenziosa corrispondenza di sguardi e di sospiri, o
attraverso un innocente scambio di scritti e di pegni damore, o
ancora attraverso le battute di una arguta schermaglia amorosa, sfo-
cia nel matrimonio. Ma se non pu essere corrisposto, il che avvie-
ne per raramente, si rifiuta di ricorrere a compromessi, corre dirit-
to alle soluzioni estreme, attingendo i toni della tragedia.
I ntorno a questi fedeli damore si muove un mondo minore,
facilmente disposto alla benevola condiscendenza, allindulgente
complicit, al pronto e non sempre disinteressato aiuto: sono scudieri
e servi devoti, vecchie fantesche sagge e discrete, damigelle sollecite
e compiacenti, cortigiani ospitali e nani in cui statura e malizia stan-
no in rapporto inverso; personaggi stilizzati che appartengono al-
lantica commedia e che qui si ritrovano a loro agio, perch presen-
tati in un ambiente ritratto con toni novellistici. Essi vivono ai
margini dellazione, ma, spesso, per opera loro, lazione, sviluppata-
si attraverso cambiamenti di stato, travestimenti e sostituzioni di
persona, perviene alfine allo scioglimento, cio allagnizione: del
fratello che ritrova il fratello, del figlio che restituito al padre,
della sposa che si ricongiunge al marito.
La narrazione sempre condotta con semplicit, con linearit,
con candore. A tanta variet di vicende, a casi cos complessi domi-
nati spesso dallincostante giuoco della Fortuna il narratore tiene
pazientemente dietro con ordine, con chiarezza, con meticolosit e
seriet estreme. Ma, a tratti, nelle descrizioni delle scene di batta-
glia, lo stile si fa robusto ed incisivo, il ritmo della narrazione divie-
ne serrato ed incalzante, limmagine fissata con potenza icastica.
Di solito spontaneo, il romanziere sa a volte assumere atteggiamen-
ti solenni e pose classiche; nelle ambasciate, nelle arringhe, nei ser-
rati interrogatori, nelle tempestose assemblee la sua intonazione ha
un ampio respiro; in alcune epistole la passione amorosa si accende
di disperati accenti espressivi. Ma non questo il tono costante
della narrazione; nelle parti migliori essa si svolge con la freschezza
e lincanto delle cose giovani e nuove; si pensi alla tenerezza del-
lidillio fra Galerana e Carlo Magno giovinetto, o a quello tra Lionida
e Aiolfo, od ancora a quello tra Bosolino e Chiarita. I l romanziere
guarda ai giovani con spiccata simpatia e li presenta sempre in unat-
mosfera incantatrice, quanto mai carica di seduzione e propizia al
204
La Critica Letteraria
fiorre dinnocenti idilli; si pensi a Buovo e Drusiana che
nascostamente si baciano sotto la tavola, a Galerana che si fa vezzo-
samente incoronare da Mainetto con una ghirlanda derbe, a I ionida,
che con perdonabile scaltrezza, squisitamente femminile, corrompe
il nano al servizio del re, suo padre, per affidargli una ambasciata ad
Aiolfo; a Fioredalisa che, dal suo balcone, sparsi i biondi capelli ad
asciugare al sole, sospira guardando il palazzo di Rinaldino.
La passione amorosa ritratta nel suo nascere con estrema
riguardosit, intessuta di sguardi furtivi e pudichi, di pallori e ros-
sori, di sospiri e palpiti invano repressi. Pi approfomlita lanalisi
del sentimento in Fioredalisa che, innamorata di Rinaldino, soffre
per la lontananza dellamato, e deperisce tanto nellaspetto da desta-
re le preoccupazioni della madre, che ne parla con il marito, ed
invano tenta di distrarla dalle sue cupe malinconia con giuochi e
diletti e compagnie della sua et, che non fanno che ottenere leffet-
to opposto, quello cio di rincrudire il dolore della fanciulla; e in
Lionida, promessa sposa a Aiolfo, che gi conosce il morso tormen-
toso della gelosia. Sono situazioni e toni che si ritrovano nelle pagi-
ne del Boccaccio.
I l romanziere, dintesa con i giovani, irride talvolta ai vecchi per
le loro sciocche paure: si pensi allatteggiamento di Chiarita e delle
damigelle sue amiche nei riguardi di Marmonda, balia di Bosolino,
che custodisce le armi del giovane ed inutilmente tenta di sottrarle
alla loro curiosit; o per le loro stolte vanit, quale quella della
matura moglie del re Agolante che saccende damore per il duca
Namo e ringalluzzisce al pensiero di potere, al ritorno in patria,
vantare uno amante cavaliere nella Cristianit; li segue con affet-
tuosa benevolenza e complice malizia nelle loro monellerie; si pensi
a Fioravanti che, intollerante del russare del suo vecchio maestro
Salardo, gli si avvicina e gli taglia la veneranda barba, e poi si sdraia
poco discosto a riprendere i suoi sogni dorati, del tutto ignaro delle
gravi conseguenze che il suo fallo avr per lui; ma soprattutto si
pensi ai contrasti picareschi del giovane Orlandino alla corte di Car-
lo. I l sorriso con il quale il romanziere accompagna questi suoi per-
sonaggi prediletti ha una limpida e inesauribile freschezza.
Lo stesso romanziere, talvolta, narrando, assume la veste del
sermoneggiatore, e introduce nel suo dire detti proverbiali, senten-
ze e massime, soprattutto severe nei riguardi delle donne e degli
ecclesiastici, secondo una tradizione medievale tra satirica e comica
popolareggiante ben nota. Ma questo atteggiamento meno consono
alla sua natura; pi sua certa sottile vena umoristica, che scorre
205
I l Medioevo
sotto la narrazione, abilmente intessuta con la stessa trama roman-
zesca e solo qua e l scopertamente affiorante: si pu scorgerla, ad
esempio, fusa nella leggiadria dellidillio fra Rosana e Aiolfo che,
aprendosi stupito alla vita, scambia per creatura celeste una faneiulla
peccatrice, e pi apertameute nel rimpianto dei monaci della badia,
della quale fatto abate Rinovardo, per i tempi felici in cui la vita
era meglio goduta. che Andrea da Barberino - il pi cospicuo
rappresentante della produzione romanzesca qui raccolta, al quale il
discorso qui fatto ha avuto particolare riguardo - aperto a tutte le
forme della vita letteraria del suo tempo, che in s accoglie e rivive:
di volta in volta cronista, predicatore sillogizzante, novellatore e
sempre artista.
I l romanziere sempre affettuosamente presente alla sua narra-
zione, accompagna i suoi personaggi e si intenerisce alla loro sorte,
ma senza mai imporre la sua presenza. Modestamente si riserva solo
qualche spiraglio, attraverso il quale poter fugacemente affacciarsi
sulla scena per parlare al suo pubblicco e suggerire una considera-
zione.
Di tanto in tanto sfoggia qualche espressione francese che dia
colore desotico al suo dettato; oppure foggia bizzare etimologie,
divertendosi per il primo al giuoco; ma per lo pi il suo stile
piano, discorsivo, fluente, con una sua sobria eleganza ed una sua
franca cordialit; non mai trascurato anche quando pi sponta-
neo, e sempre estremame rispettoso verso il suo pubblico, del quale
non sollecita, ma comunque attende lapprovazione e il plauso.
La sua lingua vivamente toscana, raramente intrisa di crudi
francesismi, anche se nella trattazione di una materia siffatta non era
facile resistere alle suggestioni linguistiche delle fonti, dirette o in-
dirette, francesi: e ci non solo contribuisce non poco a dare carat-
tere di italianit ad una materia, per la maggior parte attinta a fonti
non toscane, bens d la misura anche delle qualit dello scrittore.
una lingua che si piega duttile ad assecondare le esigenze dello scrit-
tore: comica, cio realistica e plebea nella descrizione degli orrori
del campo di battaglia, aulica, cio affinata e cortese nella rappre-
sentazione della serene vita di corte, mediana nella riduzione a
dimensioni borghesi di tanti aspetti della vita degli eroi, nella raffi-
gurazione di un incantato mondo di fiaba, che presente un po
dunque fra le pagine dei suoi romanzi, ma che meglio si mostra
nella descrizione del paese dei piccinacoli, che magistralmente
precorre, come ha notato il Flora, quella dello Swift. I n essa la lin-
gua si fa minutamente descrittiva e nel rappresentare certo fumo
206
La Critica Letteraria
piccolo fumicare dalla valle e i panetti grandi come un fondo di
bicchiere serviti a tavola conserve tuttavia una sue agile freschezza
poetica. Qui il narratore, ben lontano dallo sbozzare a larghi tratti,
disegna in punta di penna, ottenendo i risultati di un fine
miniaturista.
Ma la grandiosit delledificio che Andrea da Barberino ha sapu-
to progettare ed innalzare, e la sapienza con cui ha saputo in esso
congegnare le singole parti, distribuendole secondo un piano pro-
porzionato ed armonico, rivelano in lui la perizia di un architetto
sicuro. I n questa costruzione il vecchio e il nuovo felicemcnte coe-
sistono in un connubio che ha validit per ogni tempo. Di sul vec-
chio tronco della esausta epopea francese, il romanziere toscano ha
il grande merito di aver saputo far germogliare un virgulto fresco e
vitale, dal quale non tarderanno ad aver linfa le splendide opere del
Pulci, del Boiardo e dellAriosto.
[...] La narrazione sempre condotta con semplicit, con
linearit, con candore. A tanta variet di vicende, a casi cos com-
plessi dominati spesso dallincostante giuoco della Fortuna il narra-
tore tiene pazientemente dietro con ordine, con chiarezza, con me-
ticolosit e seriet estreme. Ma, a tratti, nelle descrizioni delle scene
di battaglia, lo stile si fa robusto ed incisivo, il ritmo della narrazio-
ne diventa serrato ed incalzante, limmagine fissata con potenza
icastica. Di solito spontaneo, il romanziere sa a volte assumere at-
teggiamenti solenni e pose classiche; nelle ambasciate, nelle arrin-
ghe, nei serrati interrogatori nelle tempestose assemblee la sua into-
nazione ha un ampio respiro, in alcune epistole la passione amorosa
si accende di disperati accenti espressivi. Ma non questo il tono
costante della narrazione; nelle parti migliori essa si svolge con la
freschezza e lincanto delle cose giovani e nuove [...].
La passione amorosa ritratta nel suo nascere con estrema
riguardosit, intessuta di sguardi furtivi e pudichi, di pallori e ros-
sori, di sospiri e palpiti invano repressi. Pi approfondita lanalisi
del sentimento in Fioredalisa che, innamorata di Rinaldino, soffre
per la lontananza dellamato, e deperisce tanto nellaspetto da desta-
re le preoccupazioni della madre, che ne parla con il marito, ed
invano tenta di distrarla dalle sue cupe malinconie con giuochi e
diletti e compagnie della sua et, che non fanno che ottenere leffet-
to opposto, quello cio di rincrudire il dolore della fanciulla; e in
Lionida, promessa sposa ad Aiolfo, che gi conosce il morso tor-
mentoso della gelosia. Sono situazioni e toni che si ritrovano nelle
pagine del Boccaccio [...].
207
I l Medioevo
Lo stesso romanziere, talvolta, narrando assume la veste del
sermoneggiatore, e introduce nel suo dire detti proverbiali, senten-
ze e massime, soprattutto severe nei riguardi delle donne e degli
ecclesiastici, secondo una tradizione medievale fra satirica e comica
popolareggiante ben nota. Ma questo atteggiamento meno consono
alla sua natura; pi sua certa sottile vena umoristica, che scorre
sotto la narrazione, abilmente intessuta con la stessa trama roman-
zesca e solo qua e l scopertamente affiorante: si pu scorgerla, ad
esempio, fusa nella leggiadria dellidillio fra Rosana ed Aiolfo che,
aprendosi stupito alla vita, scambia per creatura celeste una fanciul-
la peccatrice, e pi apertamente nel rimpianto dei monaci della ba-
dia, della quale fatto abate Rinovardo, per i tempi felici in cui la
vita era meglio goduta. che Andrea da Barberino [...] aperto a
tutte le forme della vita letteraria del suo tempo, che in s accoglie e
rivive: di volta in volta cronista, predicatore sillogizzante,
novellatore, e sempre artista.
I l romanziere sempre affettuosamente presente alla sua narra-
zione, accompagna i suoi personaggi e si intenerisce alla loro sorte,
ma senza mai imporre la sua presenza. Modestamente si riserva solo
qualche spiraglio, attraverso il quale poter fugacemente affacciarsi
sulla scena per parlare al suo pubblico o suggerire una considerazio-
ne.
Di tanto in tanto sfoggia qualche espressione francese che dia
colore desotico al suo dettato; oppure foggia bizzarre etimologie,
divertendosi per il primo al giuoco; ma per lo pi il suo stile
piano, discorsivo, fluente, con una sua sobria eleganza ed una sua
franca cordialit; non mai trascurato, anche quando pi sponta-
neo, e sempre estremamente rispettoso verso il suo pubblico, del
quale non sollecita, ma comunque attende lapprovazione ed il plau-
so.
La sua lingua vivamente toscana, raramente intrisa di crudi
francesismi, anche se nella trattazione di una materia siffatta non era
facile resistere alle suggestioni linguistiche delle fonti, dirette o in-
dirette, francesi: e ci non solo contribuisce non poco a dare carat-
tere di italianit ad una materia, per la maggior parte attinta a fonti
non toscane, bensi d la misura anche delle qualit dello scrittore.
una lingua che si piega duttile ad assecondare le esigenze dello scrit-
tore: comica, cio realistica e plebea nella descrizione degli orrori
del campo di battaglia, aulica, cio raffinata e cortese nella rappre-
sentazione della serena vita di corte, mediana nella riduzione a
dimensioni borghesi di tanti aspetti della vita degli eroi, nella raffi-
208
La Critica Letteraria
gurazione di un incantato mondo di fiaba, che presente un po
dovunque fra le pagine dei suoi romanzi [...].
Ma la grandiosit delledificio che Andrea da Barberino ha sapu-
to progettare ed innalzare, e la sapienza con cui ha saputo in esso
congegnare le singole parti, distribuendole secondo un piano pro-
porzionato ed armonico, rivelano in lui la perizia di un architetto
sicuro. I n questa costruzione il vecchio e il nuovo felicemente coe-
sistono in un connubio che ha validit per ogni tempo. Di sul vec-
chio tronco della esausta epopea francese, il romanziere toscano ha
il grande merito di aver saputo far germogliare un virgulto fresco e
vitale, dal quale non tarderanno ad aver linfa le splendide opere del
Pulci, del Boiardo e dellAriosto.
ADELAIDE MATTAINI
da I ntroduzione a Romanzi dei Reali di Francia, a cura di A. M.
Milano, Rizzoli, 1957, pp. 12-24
209
I l Medioevo
Sacchetti novelliere
La composizione del Trecentonovelle occupa oltre un decennio
della vita del Sacchetti e ne impegna visibilmente tutte le facolt
artistiche. Credo pertanto che sia giunto il momento di tirare final-
mente le somme del nostro discorso critico e di verificare se esso sia
stato realmente utile per illuminare dallinterno il laborioso ante-
fatto, genesi o preistoria, delle novelle sacchettiane. Dovrebbe es-
sere abbastanza agevole, infatti, vedere a questo punto con chiarez-
za, sulla scorta dellitinerario sin qui segnato, come il nostro autore
sia giunto al Trecentonovelle dopo una esperienza morale e lettera-
ria senza dubbio seria e fruttifera, e identificare altres i legami che
intercorrono tra quella esperienza molteplice e lopera creativa del
narratore.
I l Sacchetti, quando si accinge a scrivere la sua raccolta, ha ormai
lasciato alle proprie spalle tanto la spensieratezza giovanile, gli in-
cauti slanci trasfusi nellimprovviso della Battaglia, quando il sot-
tile gusto, gi molto pi consapevole, dellelegante letteratura
dintrattnimento, assaporata nelle sue semplici e pure espressioni
figurative e ritmiche, realizzata spesso con singolare maestria e per-
fezione nelle liriche per musica; ha superato inoltre i momenti dif-
ficili dellabnegazione e della rinuncia: quella tenace fatica intrapre-
sa per chiarire alla propria coscienza lurgere disordinato di certe sue
vive esigenze morali, per investirsene anzi con schietta e totale par-
tecipazione; si indotto infine a circoscrivere, entro la ristretta cer-
chia degli sfoghi marginali ed episodici, i superstiti risentimenti e
gli scatti subitanei dellumore eccitato, riversando di volta in volta,
questa eccedenza passionale nelle rime morali della maturit e della
vecchiaia, senza deliberate pretese letterarie, ma piuttosto cedendo
ad una necessit di confessione autobiografica e di polemica aperta.
Dal punto di vista sentimentale, dunque, il Sacchetti giunto al
Trecentonovelle dopo una progressiva e sempre pi intensa presa di
possesso della realt: svolgendo, cio, i propri interessi umani dalla
naturale ma ingenua socievolezza giovanile, dalla inerme e incon-
scia cordialit dei primi anni, alla conoscenza spesso amara e tutta-
via intima e concreta degli uomini e delle vicende del mondo (pro-
prio cos: dalla Battaglia al Trecentonovelle, ovvero dalla favola
popolare al realismo narrativo).
naturale che il Sacchetti, dopo la contrariet e gli sconforti,
sopravvivendo e anzi rianimandosi in lui il gusto dello scrivere, ab-
210
La Critica Letteraria
bia ripreso contatto con lattivit letteraria su quel preciso terreno a
cui lo avevano condotto inevitabilmente la sua istintiva espansivit
e soprattutto il suo moralismo ormai disincantato. Dopo il naufra-
gio di molte illusioni, per salvarsi dallaccidia solitaria e dai contur-
banti refoulements (da cui poteva nascere tuttal pi, sempre che gli
fossero soccorsi estro e vocazione adeguati, una sorta di attivit liri-
ca affidata esclusivamente alla memoria poetica), il Sacchetti era
indotto a rivolgersi con occhio ormai sperimentato e asciutto alla
vita minore, varia e strana e contraddittoria, della gente comune,
ritraendola quale essa si configurava lucidamente nella sua fantasia,
dopo che gli era entrata direttamente nel sangue, come una presen-
za perennemente tangibile e niente affatto elusiva. Qui infatti, in
queste figure e in questi oggetti (in essi, sintende, e nei loro intricati
rapporti; e, ancora, nel ritmo o nella durata con cui quegli stessi
rapporti tendevano a creare le situazioni, a prendere spazio e a di-
stendersi nel tempo), il nostro scrittore ritrovava con certezza un
sicuro punto dappoggio e quindi anche loccasione ideale e solleci-
tante per restituirsi nuovamente allesercizio suggestivo dellarte. Per
questo il Sacchetti, nel Trecentonovelle, viene assumendo con na-
turalezza, come sfondo e tono fondamentale del suo libro, il volto
e la voce di una ben definita classe sociale, quella della borghesia
cittadina, con ramificazioni estreme sin dentro al popolo minuto
oppure, allopposto, con lepisodica inserzione di qualche grande o
eccezionale personaggio (in funzione per di controfigura o di rife-
rimento estravagante).
evidente, infatti, che nelle novelle sacchettiane il vero prota-
gonista quasi sempre il multiforme mondo della gente mezzana
(mercanti e artigiani, medici e notai, osti e gabellieri, dipintori e
buffoni; ed anche uomini diversi di chiesa e del contado: abati,
pievani e predicatori; tavernieri e contadini): quella gente, cio, che
nellintenso e dibattuto clima medioevale aveva massimamente av-
vertito, alla stregua dello stesso Sacchetti, il valore politico e reli-
gioso della comunit; e che anzi, proprio in virt di questo senti-
mento, si era considerata per lungo tempo concorde ed unita, addi-
rittura cooperante con fiducia ad un nuovo e sempre pi giusto
ordine mondano. Una classe dunque gi vitale e operosa, che ora il
Sacchetti scorgeva invece, con amarezza, dilacerata e stanca, tra per-
durare di guerre, tra violenze e spoliazioni, infiacchita soprattutto
nel suo originario slancio creativo, cedevole ai compromessi, ormai
solo sollecita del vantaggio particolare; una classe, dir ancora,
primieramente inseritasi nella storia come forza autentica di pro-
211
I l Medioevo
gresso civile, e quindi invece decaduta e disanimata nel corso di una
lotta senza quartiere e senza esclusione di colpi, dove i maggiori
(gli spregiudicati, cio, e i politici pi astuti) erano venuti
soverchiando i minori e li avevano divisi e corrotti. Cos la voce
del Sacchetti, per nulla divertita o agnostica, ma piuttosto moral-
mente realistica (vedi nel suo fondo, del resto, la costanza di un
accento meditativo e sperimentato, lombra di un indelebile pessi-
mismo), aspirava proprio ad interpretare da vicino e a manifestare
la vera situazione di unet perigliosa, gi un tempo aperta alle mag-
giori speranze ed ora tristemente premuta da un senso corrucciato
di precariet e di incertezza, cogliendone i riflessi pi accessibili e
pi pittoreschi di cronaca minuta, vivace e discorde, di esistenza
comune e quotidiana. (Questa novella mi fa ricordare quanto il
mondo corre oggi in questa terra, e ben lo sa il men possente, quan-
do ha questione col possente; ch, non che gli sia fatta ragione, ma
non si truova chi per lui apra la bocca, o chi giudicare voglia contro
al pi possente. E nelle terre che dicono reggersi a comune, questo
vizio pi incontra, e la prova il manifesti, ch anni otto o dieci
durer un piato e quando in gran tempo non spacciato, ciascuno
pu pensare, come pens Carmignano, che la maggioranza [il pi
potente ] per non pagare dilunga la questione. E non si vede egli
nella iustizia che tutti i poveri uomeni e tapini sono gli esecutori di
quella; ma i possenti non la vogliono per loro?)
Nel Trecentonovelle il Sacchetti sceglie dunque, con decisione e
senza smagliature, lorizzonte ben definito della vita comunale in
crisi e si sforza poi di creare i toni, i colori, il linguaggio insomma di
quel mondo; di adeguare tutte le sue capacit di scrittore a quella
esatta misura, a quelle dimensioni a lui ben note e da lui interamen-
te conosciute. Questo spiega anche perch nelle novelle sacchettiane,
nonostante la delusione sottesa e il segreto sconforto, circoli tutta-
via unaria di famiglia e in fondo di cordialit. Appunto perch,
sebbene svuotata ormai di profondi ideali e ricca pi di vizi che di
virt, quella folla di personaggi minori costituiva comunque luni-
ca realt alla quale il Sacchetti, in un mondo sconvolto e pressoch
indecifrabile, potesse ancora guardare con un interesse umano non
del tutto contaminato da polemiche o ritorsioni, e soprattutto con
un superstite spirito di solidariet e di simpatia. Raccontare diven-
tava quindi per il Sacchetti un altro modo di comunicare, come gi
nelle Sposizioni: lunica maniera di sopravvivere, di resistere allo
scetticismo e di confortarsi, non evadendo dalla realt, ma affron-
tandola almeno l dove essa poteva conservare per lui una zona
212
La Critica Letteraria
ancora capace di sollecitare un dialogo, una partecipazione: sfor-
zandosi, cio, di stabilire con la gente, alla quale si sentiva intima-
mente legato, quella sola ed estrema forma di rapporti che gli era
ancora consentita (Considerando al presente tempo e alla condi-
zione dellumana vita, la quale con pestilenziose infirmit e con oscu-
re morti spesso vicitata; e veggendo quante rovine con quante
guerre civili e campestre in essa dimorano; e pensando quanti populi
e famiglie per questo son venute in povero e infelice stato, e con
quanto amaro sudore conviene che comportino la miseria, l dove
sentono la lor vita esser trascorsa, e ancora immaginando come la
gente vaga di udire cose nuove e spezialmente di quelle letture che
sono agevoli a intendere, e massimamente quando danno conforto,
per lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa... io Franco
Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso, mi proposi di
scrivere la presente opera; e raccogliere tutte quelle novelle, le quali,
e antiche e moderne, di diversa maniera sono state per li tempi, e
alcune ancora che io vidi e fui presente, e certe di quelle che a me
medesimo sono intervenute). Proprio per questo, essendo nato in
fondo dalla tristezza e al tramonto di una vita guerreggiata, il
Trecentonovelle non pu essere semplicemente interpretato come
la rappresentazione spassionata e scherzosa di una realt spensierata-
mente accolta (una sorta dinvenzione letteraria su temi indifferenti
o casuali), ma pinttosto il racconto, interessato e intimamente par-
tecipe, di una realt assunta nella fantasia con piena consapevolezza
e dopo una lunga sperimentazione: un racconto, i cui personaggi
non sono in verit altro che le figure (qui lasciate liberamente vivere
e soltanto con grande discrezione ricondotte, infine, ad una legge)
nelle quali, a un certo momento, am concretarsi la personale rifles-
sione del Sacchetti, il suo non provvisorio n mai rinnegato
moralismo (E perch molti e spezialmente quelli, a cui in dispiace-
re toccano, forse diranno, come spesso si dice: queste son favole; a
ci rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella verit mi sono
ingegnato di comporle. Ben potrebbe essere, come spesso incontra,
che una novella sar intitolata in Giovanni, e uno dir: ella inter-
venne a Piero; questo sarebbe piccolo errore, ma non sarebbe che la
novella non fosse stata).
Sollecitato dunque da una disposizione sostanzialmente
moralistica (ma dun moralismo che aveva gi soddisfatto alle sue
pi pressanti istanze pedagogiche, nelle Sposizioni; e andava ormai
esaurendo, nelle ultime liriche, i superstiti fremiti dellindignazio-
213
I l Medioevo
ne), il Trecentonovelle rappresenta veramente, dal punto di vista
artistico, la pregnante conclusione delle varie esperienze letterarie
sacchettiane. I n esso infatti si compie, e felicemente si realizza, quel-
listintiva vocazione al racconto che era gi sensibile nel Sacchetti,
sin dai tempi della Battaglia; ora per altro fortificata dalla medita-
zione etica, e stilisticamente arricchita dal fruttuoso esercizio delle
rime. E si pu dire infatti che il Sacchetti, nella sua progressiva
ricerca di unarte assolutamente congeniale, ha cominciato in un
primo tempo col prendere contatto con la realt in una maniera
estrosa e descrittiva (le colorite deformazioni giovanili, il reali-
smo caricaturale); ha quindi proceduto ad una acquisizione varia
ma dissociata di quella realt, accostandola nei suoi diversi elementi
compositivi e trovando per ciascuno di essi la pi immediata equi-
valenza espressiva (colori, voci, figure, ambienti e scene); e infine
ha ricomposto, pezzo per pezzo, quella medesima realt, dopo ave-
re decifrato a suo modo il ritmo vitale che la governa, attraverso
unopera di sapiente e dosatissimo montaggio: ha messo, cio,
ordine e equilibrio tra quegli elementi, dapprima divisi e
separatamente assimilati, rinvenendo fra essi, nella prosa delle no-
velle, lunico possibile punto dincontro e di fusione. certo, dal-
tra parte, che soltanto dopo di avere lungamente riflettuto sui casi
della propria e dellaltrui vita e dopo essersi fatto centro di quel
mondo che sempre, se pur diversamente, lo aveva interessato ed
attratto, il Sacchetti riuscito a imprimere nella sua arte quellordi-
ne e quellequilibrio, quella sicurezza di scrittura, in cui tu avverti
nitidamente il limite darrivo di una sicura maturazione sentimen-
tale e di una impegnativa carriera artistica.
Nel Trecentonovelle, insomma, le frammentarie esperienze si
unificano, trovano i loro collegamenti e i sostegni reciproci, soprat-
tutto perch il Sacchetti ha scoperto, narrando, il modo di riconci-
liarsi con la vita, di accettarla cordialmente nella sua inesauribile
contraddittoriet e di restituirla cos, come tema ricco e dinami-
co, al proprio ingegno e alla propria fantasia.
II
Prima di procedere ad una lettura interna del Trecentonovelle
occorre spendere qualche parola intorno a questioni di primo pia-
no: la struttura generale del libro sacchettiano e le moralit che
suggellano (se non sempre, almeno con ricchissima frequenza) le
novelle.
Se intendiamo per struttura di unopera il suo predisposto ed
214
La Critica Letteraria
evidente disegno esterno, la presenza visibile di una cornice e quin-
di di parti omogenee ed equilibrate, in questo preciso senso reperire
una struttura nel Trecentonovelle mi sembra davvero impresa di-
sperata. Se si tolgono infatti i rapidissimi e scarni raccordi che al-
linizio di ciascuna novella (e non sempre, per altro) tendono a
creare un esile legame con quella precedente; se non si tien conto di
alcuni raggruppamenti di novelle, mai molto nutriti n perspicui,
attorno a qualche tipico personaggio oppure attorno a qualche tema
comune; se si tien conto, soprattutto, del valore quasi sempre prov-
visorio ed essenzialmente pratico del tenue connettivo, oltre che
del carattere fortuito e, in ogni modo, irregolare e quanto mai sal-
tuario degli aggregati; se, infine, si tiene presente che il
Trecentonovelle allinea con tutta probabilit i vari racconti secondo
il loro ordine di composizione, appare chiaro che il Sacchetti non
pretese affatto di creare nel suo libro una interna architettura n di
distribuirlo in parti e neppure, tanto meno, di consegnarci lidea di
un capo dopera integrale e unitario, sottratto al flusso del tempo
ed inscritto nei termini metafisici di una durata eminentemente
poetica. La costante fondamentale del Trecentonovelle non da
ricercarsi, perci, in uno schema trascendente, in una orditura sim-
metrica, preordinata o postuma che sia; ma invece, proprio allop-
posto, nella energia dinamica e fluida del suo sempre imprevedibile
svolgimento, nella sua libert dintreccio, nella sua forza despansio-
ne e, direi quasi, di amplificazione allinfinito. Quivi i sottili lega-
menti e le enucleazioni episodiche non realizzano, infatti, neppure
un minimo di struttura, bens appena una sorta di esigui argini tem-
poranei, contro cui per un attimo si arresta acquietandosi, per
rilanciarsi quindi pi intrepida e avventurosa che mai, londa mobi-
lissima e irrequieta di una vena narrativa difficilmente coercibile. La
verit che ci troviamo di fronte ad una raccolta che organica-
mente refrattaria ad una misura esatta e conchiusa, proprio al con-
trario del Decameron (tanto per citare un esemplare capo dopera),
il quale non solo sopporta agevolmente, ma anzi intimamente sol-
lecita, la grazia di una cornice, la magia di unarmonica partitura.
Perch nel Trecentonovelle il tempo del racconto non proprio
quello lirico della prosa boccaccesca, ma piuttosto quello acciden-
tale e fortuito della realt storica, quale essa appariva, animatissima
nei casi suoi e nelle sue figure, alla fantasia e allaniina del Sacchetti.
Nel Trecentonovelle, del resto, ci sono in certi punti dei guasti
irreparabili: vaste lacune provocate dalla mutilazione del codice. Or
215
I l Medioevo
bene, anche di fronte a queste lacerazioni violente, noi non abbia-
mo affatto limpressione che esse arrechino unoffesa eccezionalmente
dolorosa o addirittura irreparabile alla presunta unit inviolabile
del libro. Osserviamo, al contrario, che la nostra attenzione, dopo
di avere accertato, per curiosit o per scrupolo filologico, lentit
del danno e dopo di avere tuttal pi rimpianto lestensione del
materiale sottratto, riesce a scorrere di poi, dallun lembo allaltro
della larga breccia, senza eccessivi sussulti e, anzi, con sufficiente
disinvoltura. I l rammarico in definitiva rimane di natura puramente
documentaria e non estetica: cio strettamente legato alle dimen-
sioni materiali della lacuna e non gi ai suoi effetti artistici sullorga-
nismo complessivo dellopera. I l che significa che noi potremmo
anche prolungare con finzione provvisoria, dalluna parte o dallal-
tra delle due estremit, i confini del Trecentonovelle, oltre i limiti
materiali entro cui il suo autore ha deciso di contenerlo, senza per
questo sentirne alterato il carattere intimo, che proprio quello di
una vicenda inesauribile e non bloccata. I ntendo dire che il
Trecentonovelle trova nelle sue dimensioni reali non un limite inte-
riore e invalicabile, ma appena una sanzione provvisoria, un arresto
incidentale e in fondo gratuito, perch esso non costituisce che una
sezione (quella scritta, naturalmente) di una rappresentazione pe-
rennemente mobile, multiforme e inesauribile, della vita.
Dalla esperienza e dalla osservazione quotidiana delle vicende
umane, il Sacchetti aveva infatti ricavato, come s veduto nelle
Sposizioni, soprattutto il senso della precariet della nostra sorte.
Al fondo di questa sua osservazione cera anche naturalmente una
sottolineatura di amarezza, che soltanto la fiducia schietta in una
superiore giustizia era poi riuscita in parte a mitigare. Ma la vita
restava a ogni modo per lui una perenne e inesauribie sorpresa: un
costante intrico, una capricciosa alternanza di gioia e di dolore, di
riso e di pianto, di bene e di male. Entro questo giro vorticoso e
inafferrabile, egli scorgeva se stesso e gli uomini della sua razza come
i personaggi di una rappresentazione che una mano segreta aveva
gi interamente predisposto e di cui essi erano chiamati a recitare le
diverse parti, apprendendole o meglio improvvisandole, di volta in
volta, senza conoscerne tuttavia gli sviluppi e lepilogo. Se dunque
nelle Sposizioni di Vangeli il Sacchetti, di fronte allenigma che av-
volge il mondo (per cui misteriosamente i violenti sopraffanno i
deboli, e i vizi la vincono sulla virt, e le male passioni sembrano
spengere gli impulsi migliori) e di fronte allo spettacolo squallido
della storia del suo tempo, ha cercato, con lainto della sua fede
216
La Critica Letteraria
semplice, di trovare per s e per gli altri un punto di appoggio e di
consistenza nel fluire arbitrario e indecifrabile degli avvenimenti (e
quella linea di forza o di sostegno egli trov nellaccettazione, pri-
ma dolorosa poi sempre pi rassegnata, di una legge divina operan-
te misteriosamente nel mondo); nel Trecentonovelle egli ha poi di-
mostrato non soltanto di aver conservato quel sentimento religio-
so, come un rifugio e una via di scampo, come una consolazione da
ritrovare e a cui ricorrere ogni giorno, rinnovandosi davanti ai no-
stri occhi lo spettacolo sempre strano e inatteso di una vita quanto
mai contraddittoria e deludente, ma di avere anche voluto rappre-
sentare in ciascuna novella, con interesse curioso e con occhio sem-
pre sorpreso e meravigliato (e perci anche con animazione ogni
volta fresca e rinnovata), quella mutevole alternativa. Quella alter-
nativa, cio, che ormai il Sacchetti aveva intimamente accettata pro-
prio nella sua stessa visibile incoerenza e arbitrariet, in virt di una
fede che gliene assicurava con certezza la provvidenziale, se pure
inesplicabile, necessit. Garantitosi cos di fronte agli scoramenti
che aveva patito per laddietro (e disposto a sfogare nelle varie rime
contigue al Trecentonovelle i ritorni di fiamma del suo umore, in
gran parte pacificato ma suscettibile tuttavia di momentanei scatti e
di accidiosi inviluppi), il Sacchetti si dedicato perei al
Trecentonovelle con mente sgombra e con spirito alleggerito. Se
nelle Sposizioni, infatti, egli ha commerciato con la vita in forma
riflessiva e ancora sentimentalmente commossa; egli ora invece, tro-
vate per il suo cuore, dianzi perplesso e a volte paurosamcnte sgo-
mento, le ragioni che potevano confortarlo contro ogni evenienza
(riconciliarlo con la vita o almeno indurlo ad accettarla nella sua
non evasiva realt), poteva attendere, con mano ferma e gusto per-
sino divertito, al racconto inesauribile di quella vita che poco in-
nanzi, anzich avvivarne lestro ed eccitarne la fantasia, lo aveva im-
pegnato in amare e polemiche ritorsioni, in interrogazioni acerbe.
evidente che al tempo delle novelle quelle antiche domande
erano state esaudite e quel vuoto spirituale era stato colmato. Le
moralit finali che suggellano i racconti, ci confermano, a questo
proposito, una sicurezza; ci attestano un approdo. Sicurezza che si
riverbera nel tono distaccato e nitido della prosa narrativa
sacchettiana, svelenita da risentimenti e da crucci; tuttal pi appe-
na incrinata a tratti da una nota di malinconia. La malinconia, ben
sintende, di chi guarda ormai la vita con occhio fatto certo e sere-
no, e anzi ne ricrea senza turbamenti lintreecio, ne anima la casua-
217
I l Medioevo
lit in forme persino scherzose, senza per questo trattenersi, qualche
volta, dal rimpiangere o dal desiderare unesistenza meno legata ad
una legge cos caduca ed effimera. Questo, secondo me, ci rende
anche ragione del vero carattere del realismo sacchettiano: un reali-
smo di cui abbiamo colto la genesi moralistica (che lo ha temprato,
come un filtro, dopo lc esteriori braverie giovanili), ma che ormai
non serba pi lacre e polemica tendenziosit delle rime moralistiche
e civili, ma placato si rasserena in ambizioni artisticamente costruttive,
investe le figure, le vicende e le cose, per farle lievitare in unopera
assidua e in fondo serena di lucida decantazione. Con che si anche
cercato di risolvere (e il lettore si aiuti con quanto pi volte si
detto in precedenza) il problema delle moralit finali, le quali di
volta in volta ricompongono, tra lestrosa e divertita anarchia delle
vicende narrate, quella regola e quellordine che ormai il Sacchetti
aveva acquisito nel proprio cuore e che gli permetteva di attendere
come artista, libero e inventivo, alla rappresentazione della realt.
Le moralit, considerate non astrattamente ma nella loro genesi
interiore e nelleconomia della particolare natura del nostro autore,
si rivelano quindi non come postume applicazioni della riflessione
o come semplici clausole consuetudinarie, ma come elementi stret-
tamente integrativi del racconto stesso. Scrivendo il Trecentonovelle
il Sacchetti mirava infatti a radicarsi fra i suoi simili, a scegliersi un
suo pubblico, a scrivere per esso oltre che per s. E quel pubblico
era appunto costituito da quelle stesse figure che sono venute poi
popolando con grande variet le novelle sacchettiane: gente minu-
ta, ora ingenua e ora scanzonata, ora scettica e ora superstiziosa, ora
vigile e ora smemorata; la gente insomma di una classe sociale ben
definita, quanto mai numerosa nella Firenze di quel tempo. Per questa
gente, come per il Sacchetti che ne volle essere linterprete e il
descrittore fedele, la realt, anche la pi apparentemente burlesea e
accidentale, non accadeva mai senza che spontaneamente fiorisse
sulla sua bocca il motto o la sentenza, il precetto di vita. Era questo
il modo con cui si rivelava, nella coscienza di questi uomini mino-
ri, bench partecipi spesso di corrotti costumi, di frodi e di violen-
ze, di scherzi sconci e di basse trivialit, il sentimento di una religiosit
istintiva e schietta, non sempre fervida ed animosa, ma tuttavia in
qualche modo sempre vigile a scattare e a suscitare il disappunto e la
recriminazione, il timore del castigo o la giustizia dellespiazione.
Cos nella contraddittoria e spesso sconcertante alternanza dei casi
terreni, nel loro curioso e intricato inviluppo nella quasi indecifra-
bile casualit delle azioni umane o addirittura nella consapevolezza
218
La Critica Letteraria
della precariet delle ambizioni mortali, lo spirito semplice del po-
polo, ignaro tanto delle alte consolazioni filosofiche quanto dellar-
guto scetticismo dei miscredenti, trovava nellintimo delle sue co-
scienze, nel suo innato buon senso, una legge di provvidenziale sag-
gezza, una norma ed una regola vecchissime ma salde, le quali costi-
tuivano il suo punto dappoggio e di orientamento. Cos nascevano
e si perpetuavano i proverbi, i motti e le sentenze. Ebbene il Sac-
chetti ha inteso con le sue moralit (le quali tengono assai pi della
bonomia plebea che non della severit dei teologi) semplicemente
sigillare, di volta in volta, il suo racconto popolare, le sue scene di
vita (vere e pronrie tranches de vie) ricorrendo ad uno di quei mot-
ti, di quelle sentenze che costituivano una manifestazione sponta-
nea, un modo naturale di essere, dei personaggi da lui assunti come
protagonisti del suo libro e, prima ancora, come pubblico di esso.
Le sentenze del Trecentonovelle venivano, insomma, assiduamen-
te variando, con naturalezza e con discrezione, il tema costante del
moralismo sacchettiano, di certe sue empiriche costanti (una sor-
ta di leit-motiv assunto ormai come una nota stessa del racconto),
ricomponendo cos ogni volta, ma in maniera del tutto spontanea,
entro una sorta di logica semplificatrice, le contraddizioni del rac-
conto, il suo scoppio estroso e precpite. E il racconto, dal canto
suo, poteva avere per oggetto, in questo modo, una realt non
preordinata n assunta a simbolo, n poeticamente evasa dai limiti
che le competevano, bens infinitamente aperta, esternamente irri-
ducibile ad una legge e ad una norma, fluida ed eccitata, ora come
una pantomima o una finzione scenica, ed ora comce un grottesco,
una beffarda mistura. E quella rappresentazione poteva serbare per
il Sacchetti anche una intima gioia, poteva restituirgli il sorriso e la
soddisfazione dello scrivere. Perch lesperienza morale e di fede,
che lo aveva preservato dal pessimismo crudo e dallozio inventivo,
nello stesso momento in cui lo assicurava di una ferma certezza (ri-
spetto alla quale sattenuavano le pene e si illanguidiva leccessivo
colore drammatico delle vicende terrene, riscattate da una luce be-
nefica e confortevole), lo restituiva altres pacificato al mondo del-
larte, che egli veniva poi arricchendo di tutti i casi e di tutti i perso-
naggi da lui conosciuti nella vita e ai quali guardava ormai non gi
con sorriso scettico n con intenzioni polemiche, ma con affettuosa
e partecipe cordialit, come ad un mondo finalmente ritrovato e
accolto ormai con serena attitudine (E perci non si dee mai alcu-
no disperare, per che spesse volte, come la fortuna toglie, cos d;
e come ella d cos toglie. Chi avrebbe immaginato che le perdute
219
I l Medioevo
carte gi per lacqua fossono state rifatte per un lupo, che mettesse
la coda per uno cocchiume duna botte, e s nuovamente fosse stato
preso? Per certo questo un caso e uno esemplo, non che da non
disperarsi, ma di cosa che venga, non pigliare n sconforto n ma-
linconia).
LANFRANCO CARETTI
da Saggio sul Sacchetti Bari, Laterza, 1951, pp. 140-155

Potrebbero piacerti anche