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SUSSIDI

PATRISTICI

18 Nello Cipriani

LA RETORICA NEGLI SCRITTORI


CRISTIANI ANTICHI
INVENTIO E DISPOSITIO

Istituto Patristico “Augustinianum”

Roma 2013
SUSSIDI PATRISTICI 18

ISBN: 978-88-7961-113-8
Nello Cipriani

LA RETORICA NEGLI SCRITTORI


CRISTIANI ANTICHI
INVENTIO E DISPOSITIO

Istituto Patristico “Augustinianum”


Roma 2013
© Augustinianum 2013
PRESENTAZIONE

In queste pagine sono raccolte le lezioni, tenute nell’Istituto Patristico


Augustinianum, su «La retorica nei Padri».
Di solito, quando si parla di retorica, si pensa agli aspetti formali del
discorso (lingua e stile). Ma la retorica antica non era solo questo. Non si
limitava a insegnare, a scrivere e a parlare correttamente e in bella forma.
Questo era il compito di una sola parte della retorica, chiamata elocutio.
Nelle prime due parti, invece, cioè nella inventio e dispositio, la retorica
insegnava a pensare, elaborare le idee, trovare gli argomenti e disporli nel
modo più efficace a raggiungere lo scopo del discorso. D’altra parte l’idea
di studiare i testi patristici a partire dall’insegnamento dei retori nasce da
un lato dalla costatazione, ben rilevata da H.I. Marrou, che la cultura
antica «era essenzialmente letteraria, fondata sulla grammatica e sulla
retorica» e dall’altro dalla considerazione che tutti i Padri, o quasi tutti, sì
erano formati alla scuola del retore. Dunque, per comprendere il loro
modo di pensare e scrivere, è utile, per non dire indispensabile, conoscere
le teorie retoriche sulle guaestiones infinitae e gli status causae sia rationales
che legales, la teoria dei loci e dei generi letterari.
Nelle lezioni sono esposte prima le teorie retoriche, quali si leggono
nei libri di Cicerone e Quintiliano, seguono poi le letture di testi patristici,
in cui dette teorie hanno trovato applicazione.
CAPITOLO PRIMO

LA CULTURA ANTICA E LA RETORICA

Non è facile per noi oggi valutare nella giusta misura l’importanza
riconosciuta alla retorica nell’antichità greco-romana. Uno storico della
cultura antica, H.-I. Marrou, nella prefazione di una sua opera famosa di
quella cultura dava la seguente definizione: «Una cultura essenzialmente
letteraria, fondata sulla grammatica e sulla retorica e tendente a formare il
tipo ideale dell’oratore»'. Anche un altro storico della letteratura antica a
proposito della cultura antica ha scritto: «Il rapporto fra retorica e prosa
letteraria a Roma era molto più stretto di qualunque cosa concepibile ai
nostri giorni. In età ellenistica e romana la retorica era la forma più alta di
educazione e formazione professionale... sia gli scrittori antichi sia la
maggior parte dei loro lettori erano passati attraverso parecchi anni di
formazione retorica»?.
Di tale cultura possiamo farci un’idea diretta leggendo la lettera che il
senatore Volusiano scrisse a Agostino, per porgli alcune domande e
obiezioni sulla religione cristiana. Prima di esporre i quesiti di carattere
teologico, egli informava il vescovo che in un incontro di amici avevano
discusso sulla partizione della retorica, enumerando e definendo le
singole parti: «Eravamo - dice — parecchi amici riuniti e ognuno diceva la
sua secondo il proprio ingegno e le proprie tendenze. Il tema della
discussione era la distribuzione della materia nel discorso. Parlo con uno
che se ne intende, poiché una volta tu hai insegnato anche questa
disciplina. Si proponevano e si esponevano i seguenti argomenti: in che
cosa consista la forza dell'invenzione, quanta fatica esiga la disposizione,
quanta la grazia dei tropi, la bellezza delle figure e inoltre quale sia lo stile
oratorio appropriato al carattere e alla natura del soggetto. Alcuni erano a
loro volta fautori dell’arte poetica e la innalzavano al cielo»’, Anche
Agostino in una lettera a Nebridio, dopo aver trattato temi filosofici,

! H.-I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1958", 4. Dello
stesso autore ricordiamo un'altra opera importante per la conoscenza della cultura
antica: Histoire de l’éducation dans l’antiquité, Paris 1948.
? A.D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori, storici e filosofi
latini, Bologna 1963, 6.
* Volusiano, in Aug., ep. 135, 1.
2 N. CIPRIANI

finisce per proporre all’amico una serie di problemi di prosodia e di


grammatica‘. Ancora più significativi sono i Saturnalia di Macrobio: una
lunga opera, in sui sono riferite le conversazioni di un altro circolo di
nobili amici, riuniti nelle feste dei saturnali, per discutere di tutto ma
soprattutto di letteratura e di questioni grammaticali e retoriche.
L’altissima considerazione della cultura letteraria risulta chiara nei
Panegirici che ci sono pervenuti. Il retore Eumenio, nell’occasione della
restaurazione delle scuole di Autun, diceva di Costanzo Cloro: «Egli ritiene
non solo che le discipline del parlar bene e del retto operare siano sotto la
protezione della sua divinità, ma è convinto... che le lettere sono il
fondamento delle virtù»”. Costanzo Il e Giuliano non esitavano a dire che
la cultura letteraria è omnium virtutum maxima... La stima per la cultura
letteraria e retorica si manifesta anche negli alti riconoscimenti fatti dagli
imperatori ai retori e agli oratori: Quintiliano, Frontone, Erode Attico
ottennero l’onore del consolato; nel IV secolo Ausonio ottenne
dall’imperatore Graziano il consolato e la prefettura del pretorio in Gallia;
Temistio fu fatto senatore e proconsole; Mario Vittorino a Roma fu
insignito della toga senatoriale e di una statua nel foro. Da Giovanni
Crisostomo abbiamo una viva testimonianza dell'importanza sociale
dell’oratoria: «Il tale - dice — era di modesta origine e, essendosi
acquistato potere con l’oratoria, ha coperto le più alte cariche, si è
procurato molte ricchezze, ha preso una moglie facoltosa, si è fatto una
splendida casa, incute grande rispetto a tutti ed è circondato di chiara
fama»®. Un esempio concreto di questa possibilità di ascesa sociale tramite
l’eloquenza è dato da Agostino di Tagaste: la sua famiglia possedeva scarse
risorse economiche, ma fece del tutto perché il ragazzo potesse continuare
gli studi proprio per permettergli di fare carriera nella società.
In verità, ancora nel periodo tardoantico l’ideale umano, perseguito
dalla classe aristocratica o dai grandi proprietari terrieri, era quello del vir
eloquentissimus ac doctissimus. Dunque, non solo eloquenza, ma anche
dottrina. In effetti gli animi erano affascinati dall’ideale enciclopedico,
che abbracciava non solo la grammatica e la retorica, ma anche le altre arti
liberali (dialettica, aritmetica, geometria, musica e astronomia) e ancora
filosofia, diritto, storia e persino arti minori come agricoltura, medicina,
architettura, ecc. Era questo l’ideale umanistico che risaliva a Isocrate e

‘*Aug., ep. 3, 5.
® Eumenio, Discorso per l'inaugurazione della scuola, 8, 1- 2, in Panegirici latini, a cura
di D. Lassandro e G. Micungo, Torino 2000, 173
‘ Giovanni Crisostomo, Contro i detrattori della vita monastica, a cura di L.
Dattrino, 3, 5, Roma 1996 (Collana Testi Patristici 130), 153.
LA CULTURA ANTICA E LA RETORICA
3

che aveva fatto proprio Cicerone, trasmettendolo ai secoli seguenti.


Nell’Orator l’Arpinate aveva sostenuto che l'oratore perfetto deve
possedere la conoscenza della filosofia, del diritto civile e della storia. Il
programma di Cicerone era ambizioso, ma in pratica la cultura effettiva
era ben più modesta. Si voleva sapere di tutto, ma tutto in modo
abbreviato, in modo più curioso che scientifico, per mezzo delle
dossografie, delle epitomi, delle raccolta di gesta, di detti ed esempi. Gli
specialisti erano pochi e poche erano le scuole di specializzazione. Nel IV
secolo solo Atene aveva una scuola di filosofia. Scuole di diritto si
trovavano a Roma e Beirut. 1 maestri e i formatori di tutti quelli che
potevano frequentare le scuole erano i grammatici e i retori, i quali, oltre
che insegnare le rispettive discipline, pretendevano insegnare tutto il
resto, approfittando delle occasioni offerte dalla enarratio poetarum e della
lettura degli oratori.
Una formazione più approfondita sulle artes liberales e sulla filosofia era
lasciata all’iniziativa personale. Così sappiamo dall’epistolario agostiniano
che il padre del futuro vescovo pelagiano Giuliano d’Eclano, cioè il
vescovo Memorio, per completare l’educazione liberale del figlio, sì era
rivolto al vescovo di Ippona chiedendogli il libro Sulla musica (ep. 101).
Anche Agostino aveva dovuto leggere e capire da solo le Categorie di
Aristotele’, come pure i trattati delle arti liberali che poté trovare’, insieme
alle opere di molti filosofi.

La scuola e la paideia antica

Il corso degli studi era articolato in tre periodi: nella scuola primaria
(ludus litterarius) ì ragazzi dai sette ai dodici anni di età apprendevano a
scrivere e a fare i calcoli con il magister ludi; nella scuola secondaria il
grammaticus insegnava recte loquendi scientiam et poetarum enarrationem ai
ragazzi dai 12 ai 15-16 anni; nella scuola superiore, agli adolescenti dai 15 ai
19-20 anni di età, il rhetor insegnava l’ars oratoria, accompagnando
l’insegnamento teorico con la lettura dei classici, oratori e storici, proposti
come modelli alla imitazione degli alunni, e con diversi esercizi
preparatori. L'obiettivo era quello di sviluppare le doti naturali di
eloquenza, che sono presenti più o meno in tutti gli uomini, fino alla
perfezione mediante l’insegnamento di un sistema di regole e praecepta,
forniti dall’ars rhetorica, e mediante esercitazioni ispirate ai classici.

’ Aug., conf. 4, 16, 28.


5 vi, 4, 16, 30.
Ivi, 5,3, 3.
4 N. CIPRIANI

Nel nostro corso ci interesseremo in particolare all’ars rhetorica, ossia


all'insegnamento teorico, ma avevano grande importanza anche le
exercitationes, dette in greco progumnaàsmata, che andavano dalle forme più
semplici, affidate al grammatico (chria, sententia, fabula), a quelle più
complesse affidate al retore: narratio, confirmatio e refutatio, locus communis,
laus-vituperatio, comparatio, etopoîa, descriptio, thesis in ulramque partem,
disputatio de lege’. Queste esercitazioni scolastiche hanno lasciato un segno
profondo nei Padri, che più volte le ricordano nei loro scritti. Lattanzio,
per esempio, nell’introduzione alle Divinae institutiones scrive: «Molto ci
hanno giovato le esercitazioni di quelle cause fittizie, che mi permettono
ora di difendere la causa della verità con maggiore facondia ed efficacia
oratoria. Questa, è vero, può essere difesa senza ricorrere all’eloquenza,
come spesso molti hanno fatto; ciò nondimeno, la si deve dilucidare ed in
un certo qual modo sostenere con una esposizione chiara e forbita,
affinché più efficacemente penetri negli animi, sorretta dalla sua propria
forza e ornata dallo splendore dello stile»"'. Sullo stesso argomento ritorna
all’inizio del libro V dell’opera. Giuliano d’Eclano accenna alla pratica
scolastica di attaccare nel certaminis ludicrum tesi inoppugnabili soltanto
come esercizio letterario, per dimostrare la forza della propria
erudizione'*. Anche Agostino nelle Confessiones ricorda le esercitazioni
nella scuola del grammatico"* e del retore'‘. Un ricordo delle declamazioni
e delle controversie scolastiche sì trova anche nel commento di Girolamo
alla lettera Ai Galati".

I requisiti della paideia antica

Da quanto abbiamo detto fin qui si possono ricavare i principi ispiratori


della paideia antica, che hanno lasciato tracce profonde nei Padri e nel
loro modo di concepire la vita cristiana. L’antichità classica non ci ha
lasciato trattati di pedagogia, ma nei libri di retorica questi principi vi si
trovano sufficientemente trattati. Ecco come li enunciava Quintiliano: «La
capacità oratoria si realizza mediante il talento naturale, l’arte e l’esercizio;
a tutto questo alcuni aggiungono, come un quarto mezzo, l’imitazione,

1° Cf. Quint., inst. or. 1, 4.


ll Lact, div. inst. 1,1.
'? Giuliano, in Aug., Opus imperfectum 4, 75.
18 Conf. 1, 17, 27; 19, 30.
ivi, 3,3, 6.
!5 Exp. ep. ad Gal 2, 11-13: PL 26, 340.
LA CULTURA ANTICA E LA RETORICA 5

che noi facciamo rientrare nell’arte»'', Secondo Quintiliano, dunque, tre


sono 1! principi o i requisiti necessari per raggiungere la perfezione
nell’arte oratoria e in ogni altra arte, anche in quella morale costituita
dalla virtù: il talento naturale, indicato con il termine natura o ingenium
(in greco phusis), l’arte o la dottrina (in greco techne) e l’esercitazione, detta
in latino exercitatio o usus, studium (in greco melete). La natura o ingenium
indica le doti naturali di intelligenza, di memoria, di cuore, ma anche di
voce e di presenza fisica, necessarie per essere un grande oratore. L'arte è
il complesso di teorie e regole, ossia la dottrina insegnata dal retore e
integrata dalla lettura e imitazione dei classici (exempla). Infine, l’esercitazione
è l'impegno personale, l’applicazione diligente, e in concreto gli esercizi,
che si ripetevano nella scuola ma che dovevano continuare anche negli
anni seguenti con la composizione e declamazione dei discorsi.
Di questi tre principi o requisiti, tenuti presenti nella pedagogia, aveva
parlato espressamente Platone nel Fedro, dove Socrate dice: «È logico, e
forse anche necessario, Fedro, che i requisiti per poter diventare un
perfetto oratore siano gli stessi che per le altre arti. Se per natura hai il
dono dell’eloquenza, sarai un oratore famoso, purché a questa
disposizione naturale tu aggiunga la scienza e l’esercizio. Qualora invece ti
manchi uno di questi requisiti, sotto questo aspetto sarai imperfetto»,
Ancora Paltone nel dialogo, intitolato Menone, poneva questa domanda:
«Puoi dirmi, o Socrate, se la virtù si può insegnare? O non si può
insegnare ma può essere acquisita con l’esercizio? Oppure, se non può
essere acquisita con l’esercizio né con l'istruzione, è presente negli uomini
per natura o in qualche altro modo?»'%, La questione proposta nel Menone
continuò a essere dibattuta a lungo nelle scuole di filosofia!’ e di retorica,
non perché ci fossero dubbi o opinioni diverse, ma solo come esercizio
scolastico. Così nelle Pantitiones oratoriae Cicerone cita tra le quaestiones
infinitae (indeterminate) la seguente: quonam pacto virtus pariatur naturane
an ratione ac usw”; anche nei Topica viene indicata la questione: quaeritur
naturane an doctrina possit effici virtus.
La stessa concezione pedagogica era pienamente condivisa anche dai
Padri della Chiesa, come si può ricavare da un testo del De Trinitate di
Agostino, in cui si legge: «Per farsi un'idea dell’indole dei fanciulli, si è

16 Quint., inst. or. 3, 5, 1: Facultas orandi consummatur natura, arte, exercitatione, cui
partem quartam adiciunt quidam imitationis, quam nos arti subicimus.
17 Platone, Phoed. 269d.
18 ]d., Menone 70a.
!9 Vedi Plot., enn. 2, 9, 15-16.
"0 Cic., part. or. 18, 64.
2” Id., top. 21, 87.
6 N. CIPRIANI

soliti esaminare le loro doti naturali [ingenia] in questi tre punti: memoria,
intelligenza e volontà. Quanto più un fanciullo ha la memoria tenace e
facile, quanto più la sua intelligenza è penetrante ed il suo gusto al lavoro
ardente, tanto più ci si dovrà felicitare delle sue doti naturali... Nella
prima di queste tre cose: capacità naturali, dottrina e uso [ingenium,
doctrina, usus] sì considera di che cosa sia capace ciascuno con la sua
memoria, intelligenza e volontà. Nella seconda, la dottrina, si considera
che cosa ciascuno abbia raccolto nella memoria e nell’intelligenza,
lavorando con amorosa volontà. La terza cosa, l’uso, è proprio della volontà,
che sì serve delle cose contenute nella memoria e nell’intelligenza, sia per
riferirle come mezzi ad altre cose, sia per compiacersi e riposarsi in esse
come in un fine raggiunto»””.
Interessanti sono le osservazioni fatte da Quintiliano sulla maggiore o
minore importanza dei diversi requisiti pedagogici, per raggiungere la
perfezione nell’eloquenza. Nel libro II della Institutio oratoria, dopo aver
presentato la retorica come arte e come virtus, si chiede se per
l’acquisizione della virtù siano più importanti le doti naturali o la dottrina.
La risposta è articolata: «So che spesso si discute se all’eloquenza giovi di
più il talento naturale o la dottrina. Invero, il problema non riguarda
affatto l’oggetto della nostra opera, poiché non si può creare un perfetto
oratore se non sulla base di entrambe le cose; ritengo tuttavia
importantissimo spiegare come vorremmo fosse impostata la questione su
questo punto. Immaginiamo infatti di sottrarre completamente uno dei
due elementi all’altro: il talento naturale [natura] anche se senza la cultura
[doctrina] varrà molto, mentre senza talento non potrà esservi alcuna
cultura. Qualora invece si uniscano dando pari contributo, riterrei che in
oratori mediocremente dotati di ambedue abbia maggior peso il talento
naturale, e che, invece, quelli completi debbano più alla cultura che alle
doti innate». Illustrava le sue affermazioni con un paragone: «A una terra
priva di qualsiasi fertilità anche l’agricoltore più abile non gioverà affatto,
mentre da una terra buona nascerà qualcosa di utile, anche se nessuno vi
metterà mano; ma in un suolo fertile farà di più l’agricoltore che non la
fertilità del terreno per se stessa»””, Erano idee espresse già da Cicerone: i
precetti della retorica, senza le adeguate doti naturali, non saranno mai
sufficienti a fare un grande oratore, ma sono necessari a chi vuole
raggiungere la perfezione oratoria.
Simile alla precedente è la questione trattata da Agostino nel De
doctrina Christiana sulla maggiore o minore utilità degli insegnamenti

“Aug. rin. 10, 11, 17.


3 Quint., inst. or. 2, 19, 1.
LA CULTURA ANTICA E LA RETORICA
7

teorici rispetto agli esempi orali o scritti di altri oratori. Egli scrive: «A
colui che vuole parlare non solo con sapienza, ma anche con eloquenza,
giacché sarà certamente di maggiore utilità se è capace di
fare ambedue le
cose, raccomando di ascoltare o di leggere e di sforzarsi
di imitare con
l’esercizio gli uomini eloquenti Piuttosto che studiare i maestri dell’arte
retorica»’!. Le ragioni le aveva esposte poco prima: «Se qualcuno ha
ingegno fervido e acuto, imparerà l’eloquenza più facilmente
leggendo e
ascoltando uomini eloquenti che studiando i precetti dell’el
oquenza»,
giacché «non mancano opere ecclesiastiche, leggendo le quali
un uomo
ben dotato, anche se non ha questa espressa intenzione ma sia attento
soltanto alle idee, resta penetrato anche dallo stile, soprattutto se, non
contento di leggere, si eserciterà anche a scrivere, a comporre dettando e
esporre ciò che sente secondo la regola della pietà e della fede. Se poi
manca un tale ingegno, neanche le regole della retorica possono venire
apprese e se, inculcate con grande fatica vengono comprese in parte, non
sono di grande giovamento»’. Questa posizione di Agostino era una
novità destinata a far sentire il suo peso nella formazione dei chierici.

La paideia antica e la morale cristiana nei Padri

Le suaccennate discussioni dei retori sui requisiti necessari per


raggiungere la perfezione nell’arte oratoria e nelle altre virtù non
potevano non influire sulla concezione della vita cristiana nei Padri. Mi
sono posto la questione in uno studio intitolato La morale pelagiana e la
retorica”, nel quale sono giunto alla conclusione che Pelagio aveva
sacrificato la concezione cristiana ai canoni della pedagogia antica,
facendo poco spazio alla novità cristiana, mentre Agostino si era reso
conto che quei canoni, validi per ogni genere di arte, vanno
profondamente modificati quando si tratta della vita cristiana, se si vuole
riconoscere la grazia di Cristo in tutta la sua ricchezza. In altre parole,
Pelagio, restando fedele alla concezione antica, aveva continuato a dire
che per l’acquisizione delle virtà morali è necessario in primo luogo il
bonum naturae, ossia la capacità naturale di fare il bene, e in secondo luogo
l'impegno personale, ossia lo studium o l'esercizio della volontà. Per
quanto riguarda, invece, la dottrina, essa è data dalla legge naturale, che
l’uomo può conoscere con la sua ragione. Perciò, tutto l’aiuto o la grazia
che Cristo può dare al credente, per vivere bene, si riduce all’insegnamento

! Aug., doct. chr. 4, 5, 8.


5 Ivi, 4, 3, 45. -
2% N. Cipriani, La morale pelagiana e la retorica, in Augustinianum 31 (1991), 309-327.
8 N. CIPRIANI

e all'esempio (doctrina et exemplum) della perfetta giustizia, che consiste


nell’amore dei nemici e che permette al cristiano di raggiungere la
perfezione morale. Tuttavia, anche senza Dio (sine Deo) gli uomini
possono essere virtuosi, come è dimostrato dalla vita di tanti filosofi. Un
chiaro esempio di questa concezione è offerto da Pelagio nell’Ad
Demetriadem, un piccolo trattato di formazione spirituale, dedicato alla
nobile giovane della famiglia degli Anici che si era consacrata a Dio”, dove
non si parla mai dell’azione interiore dello Spirito Santo nella
santificazione dei credenti e della necessità della invocazione dell’aiuto
divino.
Contro tale riduzione, che trascura completamente l’azione interiore
dello Spirito Santo, donato ai credenti per la loro rinascita e
rinnovamento spirituale, si batté con energia Agostino, mostrando che
l’origine dell’errore di Pelagio sta in una scorretta concezione del
rapporto uomo-Dio. In una pagina del De civitate Dei egli riconosce che «in
ogni artista, perché faccia qualcosa, si devono tenere presenti tre cose: la
natura, la dottrina e la pratica (usus)» e precisa che «la natura deve essere
valutata dall’ingegno, la dottrina dalle conoscenze, la pratica dai frutti».
Ma poi espone le sue riserve riguardo alla vita morale, osservando: «Se
dunque la nostra natura ricevesse l’esistenza da noi, senza dubbio noi
avremmo generato anche la nostra sapienza e non ci preoccuperemmo di
conseguirla con l’insegnamento, cioè apprendendola da altri; anche il
nostro amore, se venisse da noi e a noi fosse riferito, sarebbe sufficiente
per vivere felici né avrebbe bisogno di alcun altro bene di cui godere. Ma
poiché la nostra natura, per esistere ha Dio come autore, certamente per
avere la sapienza della verità, dobbiamo averlo come maestro e, per essere
felici, come datore dell’interiore dolcezza». La stessa idea è espressa in
una pagina del grande Commento letterale alla Genesi: «L'uomo non è un
essere costituito in modo che una volta creato possa compiere alcuna
buona azione come se potesse farla da se stesso, qualora venisse
abbandonato dal suo Creatore. Tutta la sua azione buona consiste invece
nel volgersi [converti] verso il proprio Creatore e per opera sua divenire
giusto, pio, saggio e sempre felice; egli però non deve acquisire queste
qualità e poi allontanarsi da lui come fa uno che, una guarito dal medico
del corpo, se ne va per conto suo, poiché ilo medico del corpo presta solo
esternamente la sua opera alla natura che opera internamente sotto
l’azione di Dio, che è la causa di tutta la salute con la duplice azione della
provvidenza... L'uomo dunque non deve volgersi a Dio in modo che, una

“7 Pelag., Ad Demetriadem 3: PL 30, 19C.


2° Aug. civ. Dei 11, 25.
LA CULTURA ANTICA E LA RETORICA 9

volta reso giusto, se ne allontani, ma in modo da ricevere sempre da lui la


giustificazione. Poiché proprio per il fatto che non si allontana da Dio che
non cessa di coltivarlo e custodirlo, viene giustificato da lui che gli è
presente, viene illuminato e reso felice, finché resta obbediente e sottomesso
ai suoi precetti»”.
Come si può costatare, tra i due autori, entrambi molto impegnati nella
vita cristiana, c’è una profonda differenza sulla concezione della grazia di
Cristo, data da una diversa idea di uomo e dell’azione dello Spirito Santo
nella vita dei credenti. I] carattere conservatore della pedagogia pelagiana,
come è presentata nell’Ad Demetriadem, oltre che nel disconoscimento
dell’azione interiore dello Spirito, si manifesta anche in altri aspetti:
l'appello allo spirito di emulazione e al senso dell'onore, l'insistenza sulle
minacce delle punizioni e la promessa dei premi. Anche questi aspetti
derivavano dalla paideia antica: nelle scuole si facevano gare letterarie e di
declamazione, nelle quali i vincitori ricevevano gli applausi dei presenti e i
premi dai maestri, mentre chi non studiava veniva punito. Ritengo che il
metodo seguito per mettere a confronto l’insegnamento di Agostino e
Pelagio sulla grazia, possa essere utilmente seguito per estendere il
confronto ai Padri di lingua greca”. Anche in Ambrogio appare la
questione dei requisiti oratori “’.

® Aug., gen. ad litteram 8, 12, 25. |


tractatae, Resp. 2, 1:
% Per il pensiero di Basilio si può esaminare: Regulae fusius
PG 31, 908-910; om. 20, 3: PG 31, 530- 531.
! Ambr., Abrah. 2, 3,8.
CAPITOLO SECONDO

NATURA E PARTI DELLA RETORICA

Natura della retorica

Dopo la premessa generale sulla cultura antica, cerchiamo di precisare


la natura e le parti della retorica. Aristotele è stato il primo autore di
un'arte retorica che ci sia pervenuta. Opponendosi alla svalutazione che
ne aveva fatto Platone in nome della purezza della filosofia (occorre
tuttavia ricordare che Platone aveva di mira soprattutto la retorica dei
sofisti, che ne facevano un uso spregiudicato), lo Stagirita ne mise in
rilievo gli aspetti positivi, sottolineando la differenza tra retorica e filosofia.
A suo avviso sono pochi coloro che riescono a dedicarsi alla filosofia, per
conoscere con rigore razionale il vero e il giusto. Tuttavia i valori morali
dell’onestà e della giustizia sono di particolare importanza per la vita della
città. Ed è proprio questo il compito della retorica: convincere il popolo
non isuuito di ciò che è bene, onesto e utile, non argomentando in modo
rigoroso con ì sillogismi, che partono da premesse incontrovertibili, come
fa la filosofia, ma servendosi degli entimemi, che costituiscono il nucleo
dell’argomentazione e poggiano su ragioni vere o anche solo verosimili.
Secondo tale concezione l’oratore non deve ricercare necessariamente
la verità, ma si può accontentare di ciò che è ragionevole o verosimile, per
rendere credibile la causa da lui sostenuta. Insomma, l’oratore può partire
da premesse soltanto probabili, accettate dai più. In questo modo la
retorica ha lo stesso statuto gnoseologico della dialettica e Aristotele può
dire che «la retorica è analoga alla dialettica: entrambe riguardano oggetti
la cui conoscenza è in un certo qual modo patrimonio comune di tutti gli
uomini e che non appartengono a una scienza specifica»! Di solito si dice
che la funzione propria della retorica sia quella di persuadere. Aristotele
però precisa: «La sua funzione non è la persuasione», che non sempre si
raggiunge, «ma individuare in ogni caso i mezzi appropriati di
persuasione, proprio come avviene per tutte le altre tecniche. Non è infatti
compito della medicina rendere sani, ma procedere con la guarigione fin
dove sia possibile, poiché si possono curare convenientemente anche

' Arist., rhet. 1, 1, 1354a.


12 N. CIPRIANI

coloro che non sono in grado di recuperare la salute. Inoltre, è chiaro che
rientra nella medesima tecnica scorgere ciò che è persuasivo e ciò che è
apparentemente persuasivo, proprio come rientra nella dialettica
riconoscere il sillogismo vero e il sillogismo apparente»”. La concezione
aristotelica della retorica appare chiara nella seguente affermazione: «La
retorica è una sorta di ramificazione della dialettica e della scienza etica,
che è giusto definire politica»®.
Un giudizio altrettanto positivo e vicino alla concezione aristotelica si
legge nel De ordine di Agostino. Dopo aver esaltato la dialettica come la
disciplina disciplinarum, quae docet docere et docet discere, capace di dimostrare
tutto il valore della ragione, quid velit e quid valeat, l’ex retore convertito
presenta la retorica così: «Ma spesso gli ignoranti, per raggiungere la
persuasione su questioni riguardanti il vero, l’utile e l’onesto, non
seguono la verità, che possono raggiungere solo pochi spiriti eletti, ma
piuttosto le proprie idee e consuetudini. Si rese quindi necessario non solo
istruirli secondo le loro capacità, ma spesso e soprattutto suscitare i loro
sentimenti [commoveri]. La ragione chiamò retorica questa parte destinata
a tale funzione. Essa, più in forza della necessità che della purezza, con la
ricchezza delle piacevolezze che sparge sul popolo, cerca di portarlo a
volere liberamente il proprio bene»’. Risulta dunque chiaro il carattere
popolare e politico della retorica; essa mira a persuadere circa il vero,
l’utile e l’onesto a partire da premesse accettate da tutti e ricorrendo
anche ai sentimenti dell’animo e agli abbellimenti del discorso, per trarre
gli ascoltatori dalla parte dell’oratore.

Le parti della retorica

Parlando della lettera di Volusiano a Agostino, abbiamo già accennato


alle parti dell’arte retorica. Ne parliamo ora in modo più esplicito. Tutti i
trattatisti si trovano d’accordo sul numero, sul nome e sull’ordine delle
parti della retorica. Esse sono inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio ©
pronuntiatio. L’arte retorica mirava a formare il perfetto oratore
insegnando in primo luogo a trovare e a elaborare le idee o gli argomenti
da trattare nel discorso. Oggi gli alunni chiamati a svolgere un tema in
classe si trovano con un foglio in bianco davanti e una penna in mano,
senza avere nessun suggerimento tecnico sul modo di trovare, sviluppare e
organizzare le idee. Si fa pieno affidamento sulla creatività del ragazzo.

2 Ivi, 1,1, 1355b.


3 Ivi, 1, 2, 18562.
*Aug., ord. 2, 13, 38.
NATURA E PARTI DELLA RETORICA 13

Nell’antichità la scuola forniva una tecnica adeguata a ogni tipo di


discorso, nella convinzione che le idee non si debbano inventare quanto
piuttosto si devono trovare nella memoria, che è come un grande
magazzino, dove si conservano tutte le cose apprese. Per ogni tipo di
questione l’arte suggeriva il metodo, ossia le opportune domande, con cui
ricercare i loci, cioè le sedes, dove sì possono trovare gli argomenti che
interessano. Era questo il compito proprio della inventio.
Dopo aver insegnato a trovare le idee da esporre, l’arte retorica
insegnava anche l’ordine migliore per esporle, tenendo presenti le diverse
parti del discorso e la diversa efficacia persuasiva dei diversi argomenti. Era
questa la parte della dispositio. Una volta trovate le idee e disposte nel
modo migliore, poi, occorreva esprimerle nel modo più conveniente,
tenendo presente l’argomento trattato, gli ascoltatori o i destinatari, il
genere letterario. E questo era il compito proprio della elocutio, che curava
le virtutes elocutionis: puritas, perspicuitas, ornatus e aptum. La retorica antica
doveva formare un oratore capace non solo di comporre un buon
discorso, ma anche di pronunciarlo in pubblico. Per questo motivo l’arte
suggeriva una tecnica per memorizzare il discorso scritto e poi anche i
gesti e il tono della voce più adatti alle circostanze. L’oratore insomma era
come un attore, che doveva mandare a memoria la sua parte per recitarla
in pubblico. Nel nostro corso di retorica antica non studieremo queste
ultime parti (memoria e actio), ci limiteremo a trattare le prime tre: inventio,
dispositio ed elocutio.
CAPITOLO TERZO

LE QUAESTIONES INFINITAE

La retorica era particolarmente importante per le città greche, dove la


vita pubblica era decisa nei tribunali e nelle assemblee popolari. In effetti,
Aristotele assegnava alla retorica il compito di insegnare tre tipi di
discorso, funzionali alla vita della polis: 1 — il discorso fatto dall’avvocato
nei tribunali giudiziari sia come accusa che come difesa (dikaiòn ghènos o
genus iudiciale); 2 — il discorso fatto nelle assemblee deliberative, dove si
prendevano decisioni concernenti la vita della città, a favore o contro una
certa proposta (symboleutikòn ghènos o genus deliberativum); 3 — il discorso
fatto nelle occasioni solenni, per celebrare una ricorrenza pubblica o un
personaggio illustre (epideiktikòn ghènos o genus demonstrativumo laudativum).
La classificazione aristotelica rimase immutata per sempre. Tuttavia con
il passare dei secoli cambiarono profondamente le situazioni sociali e
politiche e con esse anche la pratica oratoria e l’insegnamento della
retorica. Nell’impero romano continuarono le battaglie oratorie nei
tribunali giudiziari e i discorsi celebrativi, ma quelli pronunciati nel senato
persero ogni valore, perché ormai le decisioni importanti venivano prese
solo dall'imperatore. Anche in Grecia con il tramonto della libertà della
polis la retorica cominciò a ritirarsi a poco a poco nella scuola e a perdere
contatto con la vita reale. Nelle esercitazioni scolastiche si incominciò a
scegliere argomenti sempre più lontani dalla vita quotidiana, a volte temi
della storia passata, a volte temi mitici o del tutto irreali, che servivano solo
a fare esercitare gli alunni. Così già nel periodo ellenistico nelle scuole di
retorica qualunque tema, anche il più strano, poteva diventare oggetto di
un discorso, come l’Elogio di Elena o l’Elogio della chioma di Berenice. Esempi
di questa tendenza della retorica a estraniarsi dalla vita reale li abbiamo
nelle declamazioni di un retore famoso del IV secolo, come Libanio,
maestro di alcuni Padri della Chiesa. Anche Sinesio di Cirene ci ha lasciato
un Encomio della calvizie. Ho già ricordato l’accenno di Giuliano d’Eclano
alle dispute scolastiche tra i fautori e gli oppositori della medicina, Nel De
vera religione Agostino afferma di poter fare un ampio elogio del verme e
16 N. CIPRIANI

ricorda che «molti hanno tessuto lodi della cenere e dello sterco con
grande verità e abbondanza»'.
Occorre comunque qui accennare ad altri fenomeni, che portarono
all'ampliamento dei temi trattati dalla retorica. Cicerone aveva scritto libri
di filosofia in uno stile più retorico che filosofico, ispirato cioè all’ideale
oratorio del copiose ornateque dicere. I retori da parte loro avevano
teorizzato che ogni causa determinata può e deve essere generalizzata,
ossia che il caso particolare deve essere riportato all’universale. Attraverso
questa via la retorica accolse dalla filosofia moltissimi temi, detti loci
communes: sulla virtù, sulla fama, sui vantaggi e svantaggi del matrimonio,
sui doveri dei genitori verso i figli e dei figli verso i genitori e così via.
Risulta pertanto utile la distinzione fatta da Cicerone tra le quaestiones
finitae (determinate) e quelle infinitae (indeterminate): le prime, dette
propriamente causae (in greco ypotheseis), trattavano temi legati a una
persona o una categoria di persone, poste in particolari circostanze di
tempo e di luogo; le quaestiones infinitae, invece, erano dette propriamente
proposita (in greco iheseis) e trattavano temi generali di etica, politica e
fisica. Nei Topica Cicerone distingue la causa dal propositum con queste
parole: «La causa tratta persone, luoghi, tempi, azioni e circostanze
determinate in tutto o in parte; la tesi non è determinata se non da uno o
più punti, ma non i più importanti. Pertanto la causa non è che una parte
della tesi e ogni questione concerne qualcuna delle circostanze che
costituiscono la causa, una, più e talvolta tutte»”. Per fare qualche esempio:
si ha una causa, quando si discute se Cicerone è degno di lode per la sua
condotta nell’affrontare la congiura di Catilina; si ha un propositum o tesi,
quando ci si chiede se i tiranni, che conculcano la libertà dei cittadini,
sono degni di stima o no. Un altro esempio: abbiamo una causa quando si
discute se è bene che Tizio o Caio si sposino; è una tesi quando sì chiede
in generale se è bene sposarsi o se è opportuno o doveroso che il saggio si
sposi.
La generalizzazione della causa, per cui un caso particolare viene
riportato a una questione generale, viene spiegata dal Lausberg così:
«L’oratore ha per lo più presente nella memoria la trattazione delle
quaestiones infinitae, perché ha imparato a scuola le quaestiones infinitae. Si
troverà spesso nella condizione di usare come argomento o come

! Aug., vera relig. 41, 77.


® Cic., top. 21, 79-80: Causa certis personis, locis, temporibus, actionibus, negotiis cernitur,
aut in omnibus aut in plerisque eorum; propositum aut in aliquot eorum aut in pluribus, nec
tamen maximis. Itaque propositi pars est causa el omnis quaestio earum aliqua de re est,
quibus causa continentur, aut una aut pluribus aut nonnumquam omnibus.
LE QUAESTIONES INFINITAE
17

ornamento, per la risposta a una quaestio finita, il confronto della


corrispondente quaestio infinita; le quaestiones fimitae sono, per così dire,
contenute o circondate dalle corrispondenti quaestiones infinitae°. Così la
quaestio infinita diventa un locus communis, che può assumere la forma
breve di un’allusione o anche una forma di un discorso con un'impronta
giudiziale, deliberativa, epidittica, gnomica, o paradigmatica (di sentenza
o di exemplum). Di ciò parleremo più diffusamente in seguito. Fin d’ora
però è bene ricordare un’altra osservazione del Lausberg: «Il lettore, che
ignorando il topos, ritiene la formulazione finita dello scrittore una prova
occasionale, del tutto originale dello scrittore, e quindi la sopravvaluta
semanticamente, sbaglia alla stessa maniera del lettore, che annoiato dalla
conoscenza del topos, ritiene la formulazione finita dello scrittore solo un
giro vuoto di nessuna importanza semantica. Il topos è una forma che può
venir riempita di volta in volta di un contenuto inteso attualmente (come
un vaso ricolmo ora di acqua ora di vino: con diversa funzione quindi).
Riconoscere che un'idea incontrata in un testo corrisponde a un topos ha
importanza storica e non è privo di valore anche per la comprensione del
testo stesso, se si considera che l’autore ha reso finito e lo ha inserito nel
concreto contesto in cui deve adempiere una funzione attuale»!.
Nei Padri i discorsi che rientrano nella categoria delle causae sono
relativamente pochi. A titolo di esempio possiamo ricordare l’Apologeticum
di Tertulliano, che si presenta come la causa Christianorum, in cui l’autore
fa il difensore dei cristiani, accusati di orribili delitti occulti e di altri gravi
crimini pubblici, come quello di non rendere il culto dovuto agli dèi e agli
imperatori. Anche la Vita di Cipriano, scritta dal diacono Ponzio, è una laus
di una persona determinata, vissuta in un preciso momento della storia e
in una certa città: è quindi una causa. Ma per ovvi motivi negli scritti
patristici ricorrono molto di più le quaestiones infinitae che quelle finitae. È
dunque importante che prima di prendere in esame la inventio
riguardante le causae, oggetto diretto dell'insegnamento della retorica,
diamo uno sguardo anche alle quaestiones infinitae.

I tria genera quaestionum

Nei Topica Cicerone distingue due generi di quaestiones infinitae. Scrive:


Quaestionum autem quacumque de re sunt duo genera, unum cognitionis, alterum
actionis, si hanno, cioè, due generi di questioni: teoriche e pratiche. Ne dà
poi la seguente spiegazione: «Le questioni teoriche sono quelle che hanno

3 H. Lausberg, Elementi di retorica, tr. it. di L. Ritter Santini, Bologna 1969, 58.
‘ Fui, 59.
18 N. CIPRIANI

per fine la conoscenza, come quando si cerca se il diritto abbia origine


dalla natura oppure da una qualche condizione o patto degli uomini; le
questioni pratiche invece sono di questo tipo: se è conveniente che il
sapiente si dia alla vita pubblica». Quindi avanza qualche suddivisione
dell’uno e dell’altro tipo: «Le questioni teoriche sono di tre specie: si può
chiedere se una cosa esista, quale sia la sua natura o la sua qualità. Al
primo tipo si risponde con la congettura, al secondo con la definizione, al
terzo con la distinzione di ciò che è giusto o ingiusto»°. Quanto alle
questioni pratiche esse sono di due specie: «Una concerne i doveri, come
quando ci si chiede se si debbano accogliere e allevare i figli; un’altra mira
a suscitare o a sedare o a estirpare del tutto i sentimenti dell’animo. Per
esempio, per eccitare gli animi si fanno esortazioni alla difesa dello stato,
all’onore, alla gloria; in questo genere rientrano anche i rimproveri, gli
incitamenti e i lamenti lacrimevoli. Al contrario mira il discorso che
spegne l’ira, che dissipa la paura, che reprime la gioia eccessiva o spazza
via la tristezza. Tutte queste forme di discorso appartengono alle questioni
infinite ma si applicano anche alle cause»®.

Le quaestiones infinitae nei Padri

I Padri ovviamente conoscevano molto bene queste distinzioni e se ne


sono serviti con frequenza. Agostino ricorda i tre generi di questioni
teoriche ben due volte nel libro X delle Confessioni. Nel cap. 10 di quel
libro dice: «Quando però sento dire che vi sono tre generi di questioni:
dell’esistenza, dell’essenza e della qualità di una cosa, io afferro sì
l’immagine dei suoni che quesiè parole compongono... ma le cose in sé,
che quei suoni indicano, non le toccai con nessuno dei sensi corporei, né
le vidi al di fuori dello spirito». Nel cap. 40 dice a Dio: «Tu sei la luce
permanente, che consultavo sull’esistenza, la natura e il valore di tutte le

’ Cic., top. 21, 81-82: Quaestionum autem, quacumque de re, sunt duo genera, unum
cognitionis, alterum actionis. Cognitionis sunt eae, quorum finis est scientia, ul si quaeratur
a nalurane ius profectum sit an ab aliqua quasi conditione et pactione. Acionis aulem
huiusmodi sunt: “Sitne sapientis ad rem publicam accedere”.
‘]d., top. 22, 86: Actionis relicuae sunt, quorum duo sunt genera, unum ad officium,
alterum ad motum animi vel gignendum vel sedandum planeue tollendum. Ad officium sic,
ut cum quaeritur suscipiendine sint liberi? Ad mouendos animos cohortationes ad
defendendam rem publicam, ad laudem, ad gloriam, quo ex genere sunt querellae,
incilationes miserationesque flebiles, rursusque oratio cum ad iracundiam restinguens, tum
metum eripiens, tum exsultantem laetitiam comprimens, tum aegriludinem abstergens. Haec
cum in propositi quaestionibus genera sint, eadem in causas transferuntur.
‘Aug., conf. 10, 10, 17.
LE QUAESTIONES INFINITAE
19
cose»®, Ma già in una delle sue prime lettere si era servit
o della triplice
distinzione delle questioni teoriche, per illustrare in
qualche modo il
mistero trinitario (cf. ep., 11,4). L’idea era stata trattata anche in Divo.
quaest. 83, 18. È probabile che la distinzione delle questi
oni teoriche e
pratiche, insegnata dalla retorica, abbia ispirato anche
Clemente
Alessandrino nell'ideazione della sua trilogia: Protrettico, Pedago
go e Maestro.
In greco logos non è solo il discorso, è anche il Logos divino, Cristo
. Egli
dapprima esorta alla religione, suscita cioè nell’animo sentimenti di
pietà
e timor di Dio (protrettico); poi insegna gli officia, cioè ciò che è
conveniente e doveroso fare per vivere virtuosamente (pedagogo); infine
introduce alla vita intellettuale, cioè insegna quelle verità, trattate nelle
questioni teoriche (maestro)°. L’influsso della retorica qui ipotizzato è
confermato da un’altra pagina del Pedagogo, dove Clemente parla del logos
setikòs (vituperatio) e poi del logos protreptikòs e apotreptikòs (esortativo e
dissuasivo).

La quaestio coniecturalis

Fatta la distinzione delle questioni, Cicerone nei Topica passa a indicare


le questioni particolari che si possono trattare nell'ambito delle singole
questioni teoriche, incominciando dalla congettura: «La questione
congetturale si divide in quattro parti: con la prima sì chiede se una cosa
esista, con la seconda si chiede da dove sia (l’origine), con la terza si cerca
la causa che l’ha prodotta, con la quarta i mutamenti che può subire»".
Subito dopo illustra la suddetta divisione con esempi. Sull’esistenza (sitne,
o an sit aliquid o utrum sit) ci si può chiedere, per esempio, se esistono cose
oneste e giuste in se stesse o solo nell’opinione; sull’origine (unde sit), ci si
può chiedere se la virtù nasce dalla natura o dall’istruzione; sulla causa
efficiente, quando si chiede da quali fattori sia prodotta l’eloquenza
(quibus rebus eloquentia efficiatur); sui cambiamenti si può chiedere: è
possibile che per una ragione qualsiasi un uomo eloquente diventi
incapace di parlare? (possitne eloquentia commutatione aliqua converti in
infantiam?) "'.
Come esempio di questioni congetturali possiamo segnalare quelle
trattate da Agostino a proposito dell’anima. Nel De quantitate animae egli

$ Fui, 10, 40, 65.


° Clem. Alex., ped. 1, 1, 1, 4.
10 Cic., top. 21, 82: Coniecturae ratio in quattuor partes distributa est, quarum una est,
cum quaeritur sitne aliquid, altera, unde sit; tertia quae id causa effecerit; quarta in qua de
mutatione rei quaeritur.
ll Ibid.
20 N. CIPRIANI

non si chiede se l’anima esiste, perché per gli antichi era una cosa
scontata, essendo un animal tutto ciò che è vivo, ossia è un essere che ha
un’anima. Si chiede invece unde sit anima nel duplice senso dell'origine e
della composizione; e ancora si chiede: cur corpori data sit 22 Per rispondere
a queste questioni ricorre ai loci della causa efficiente, della causa
materiale e di quella finale. Rientra tra le questioni congetturali anche la
questione della resurrezione, trattata da Tertulliano nell’Apologeticum. Egli
prima porta un argomento retorico, ad hominem: se ì pagani credono nella
reincarnazione, ritengono cioè possibile che le anime passino da un corpo
ad altri corpi, tanto più o a fortiori possono tornare ad animare i propri
corpi. Poi indica il perché (ratio) di questa restituzione nella destinatio
iudicii, ossia nel fatto che il giudizio finale deve riguardare l’anima e il
corpo insieme, perché ambedue in vita hanno operato il bene o il male.
Quindi mostra la causa efficiens nella potenza di Dio: colui che ti ha creato
dal nulla, può anche farti risuscitare. Infine, porta analogie prese dal
mondo della natura, in cui ci sono tanti esempi di cose che muoiono e
risorgono"’. Sempre a proposito della risurrezione dei corpi un altro
esempio di quaestio coniecturalis, ampiamente sviluppata, è offerto da
Ambrogio in De excessu fratris, 11, 50-91.

La quaestio (de)finitionis

Sul modo di fare una definizione nei Topica si legge: «Quando si vuole
definire una cosa o si cerca la natura di una cosa [quid sit], se ne deve
spiegare la nozione, la proprietà, la divisione e le partizione. Vi si aggiunge
anche la descrizione che i Greci chiamano charactèr. La nozione si cerca
così: se è giusto ciò che è utile a chi è più potente; la proprietà così: la
tristezza ricade solo nell'uomo o anche negli animali. Per la divisione si
cercano le specie di una cosa (i tre generi di beni, le specie animali),
mentre per la partizione si cercano le parti (quali sono le parti del diritto,
le parti di un paese). Quanto alla descrizione, ci si chiede quali sono le
caratteristiche di un avaro o di un adulatore»!!,
Il discorso fatto da Cicerone nei Topica era rivolto agli avvocati, che
cercano definizioni utili alla causa e gli esempi da lui suggeriti rispondono
a questa esigenza. La dialettica invece insegnava criteri più rigorosi per
definire una cosa. Nell’epoca patristica ebbero grande risonanza le
Categorie di Aristotele e l’Isagoge di Porfirio. Istruito probabilmente dalle

!? Aug., an. quant. 1, 1.


'* Tert., apol. 48.
14 Cic., top. 29, 83.
LE QUAESTIONES INFINITAE 21

due opere, Agostino nel De quantitate animae discute a lungo sulla corretta
definizione dell’uomo e della sensazione. Egli scrive: «Una definizione
non può contenere né di più né di meno di quanto si è inteso
determinare, altrimenti è difettosa [vitiosa]. Sì prova che è immune da
difetti mediante la trasposizione [conversio] dei termini. Ciò risulterà più
chiaro con gli esempi». Se definisco l’uomo animal mortale, do una
definizione difettosa. La prova sta nel fatto che se faccio la trasposizione e
dico che ogni animale mortale è uomo, la definizione risulta difettosa per
eccesso di estensione, perché anche la bestia è animale mortale. Se però
definissi l’uomo: animale razionale, mortale e grammatico, avrei una
definizione difettosa per minore estensione. Me ne rendo conto facendo
la trasposizione: è infatti giusto dire che ogni animale razionale, mortale e
grammatico è uomo, ma non è vero l'inverso, perché molti uomini, che
non sono grammatici, risultano esclusi da questa definizione".
Allo stesso modo tratta poi la definizione della sensazione. La
definizione: omnis sensus passio corporis est animam non latens (la sensazione è
la modificazione del corpo che non sfugge all’attenzione dell’anima) è
difettosa, perché si estende più di quanto dovrebbe. Include infatti
modificazioni del corpo (come la crescita dei capelli o delle unghie) che
non sfuggono all’anima razionale, ma sfuggono ai sensi. Io so che i capelli
mi sono cresciuti non perché li vedo crescere con i miei occhi, ma perché
faccio un ragionamento, una induzione (coniectatio): un mese fa erano
corti, ora sono lunghi. Per avere una buona definizione della sensazione,
perciò, devo aggiungere un elemento che restringa il contenuto, come
quando dico che sensus est passio corporis quae per seipsam non latet animam.
Con l’aggiunta di per seipsam si scartano tutte quelle modifiche del corpo
che conosco con la ragione e non con il senso".

La quaestio qualitatis

La questione sulla qualità di una cosa (quale quid sit) può presentarsi
sotto una duplice forma: semplice o comparativa (aut simpliciter aut
comparate). Esempio di una questione in forma semplice: Si deve
desiderare la gloria? (expetendane sit gloria?). Esempio di questione in
forma comparativa: la gloria deve essere preferita alle ricchezze?
(Praeponendane sit divitiis gloria?). Ci sono tre tipi di quaestio qualitatis in
forma semplice: il primo genere, de expetendo fugiendoque, si usa soprattutto
nel genus deliberativum. Esempi: si devono ricercare le ricchezze? si deve

15 Aug., an. quant. 25, 47.


16 Jvi, 25, 48.
22 N. CIPRIANI

fuggire la povertà? Il secondo genere, de aequo el iniquo, ricorre piuttosto


nelle cause giudiziali. Esempio: è giusto vendicarsi di chi ci ha fatto un
torto? (aequumne sit ulcisci a quocumque iniuriam acceperis). Il terzo genere,
de honesto et turpi, sì usa soprattutto nel genus laudativum. Esempio: è bello e
buono morire per la patria? (hkonestumne sit pro patria mori?) .
Le questioni di qualità in forma comparativa sono di due tipi: in una si
chiede se si tratta di una medesima cosa o di una cosa diversa (unum de
eodem et alio). Esempio: che differenza c’è tra l’amico e l’adulatore, tra il re
e il tiranno (quid intersit inter amicum et adsentatorem, regem et tyrannum).
L'’altro tipo tratta se una cosa è più grande o più piccola (alterum de maiore
et minore). Esempio: se l’eloquenza abbia più valore della scienza giuridica
(eloquentiane pluris sit an iuris civilis scientia)’. Esempi di questo tipo di
questioni sono frequenti nei Padri. Rimando ancora al De quantitale
animae, dove, oltre alle questioni sull’origine e sulla composizione
dell’anima (unde sit), Agostino si poneva diverse domande sulla qualità
dell’anima: qualis sit anima, quanta sit, cum ad corpus venerit qualis efficiatur,
qualis cum abscesserit'.
L’ignoranza della teoria retorica delle tre questioni teoriche, con le
domande ad esse connesse, può portare talora fuori strada, come è
successo nello studio dell’opera di Giuliano d’Eclano. Nell’ opera Ad
Florum, di cui Agostino ha trasmesso i primi sei libri nell’Opus imperfectum,
il vescovo pelagiano intendeva dimostrare che la dottrina del peccato
originale è contraria sia all’idea di giustizia che a quella di peccato.
Esaminava, perciò, i due concetti sotto diversi aspetti. Scriveva: Ne ergo in
infinita volumina extendatur oratio, hic, hic, harum de quibus agimus rerum
genus, species, differentia, modus qualitasque cernatur; immo sollicitius utrum sint,
unde sint, ubi sint, quid etiam mereatur et a quo'. Il primo studioso, che
dedicò a Giuliano una monografia, il tedesco Albert Bruckner, vedeva qui
espresse due serie di categorie irriducibili l’una all’altra: la prima
rispondente alle domande sull’essenza, la seconda alle domande
sull’essere. Tentava poi di trovare una parentela alle dieci categorie,
ricollegando la prima serie alle categorie stoiche, con lo sdoppiamento,
d’influsso aristotelico, della nozione di sostanza in quelle di genus e di
species, mentre per quanto riguarda la seconda serie si limitava a rilevare il
ruolo insostituibile della nozione del paschein aristotelico”. Più tardi il

!7 Cic., top. 22, 85.


' Aug., an. quant. 1, 1.
'° Giuliano, in Aug., c. Iul. imp. 1, 34.
2? Cf. A. Bruckner, Julian von Aeclanum. Sein Leben und seine Lehre, Lipsia 1897 (TU
15,3), 93.
LE QUAESTIONES INFINITAE 23

testo fu studiato da F. Refoulé. Costui sì limitava a osservare che queste


categorie non si trovano tali e quali né in Aristotele né nei Topica di
Cicerone né nell’Isagoge di Porfirio né nel De definitionibus di Mario
Vittorino, concludendo: «Non si sa se Giuliano si riferisce a qualche
trattato allora in uso»!
Nessuno dei due studiosi pensava all’arte retorica, mentre probabilmente
era proprio questa la fonte principale che ispirava Giuliano. Il testo citato,
infatti, mentre indica l’ordine secondo il quale devono essere affrontate le
questioni di una disputa, traccia un quadro di possibili ricerche
speculative. Giuliano in un primo tempo propone di affrontare la quaestio
definitionis della giustizia e del peccato, stabilendo il loro genus, species,
differentia, e la quaestio qualitatis simplex, stabilendo il modus e la qualitas. In
un secondo tempo sì decide a fare un'analisi più accurata (immo sollicitius),
completando le ricerche con le questioni concernenti l’esistenza (utrum
sint, unde sint, ubi sint) e ancora con la qualitas comparata (quid mereatur et a
quo). È un metodo retorico che lo scrittore pelagiano conosce bene.
Anche nel libro quinto della stessa opera a proposito del male scrive:
«Vediamo, dunque, prima se esiste, poi che cosa è e infine qual è la sua
origine» (videamus ergo prius utrum sit, tunc quid sil, ultimum unde sit). E
proseguiva: «Per la verità ho già fatto questa ricerca nel primo libro della
presente opera, ma allora davo per scontato il primo punto. Affrontiamo
dunque la questione dell'esistenza del male»”. Come si vede, la
conoscenza della retorica può essere di aiuto, per avere una migliore
comprensione dei testi.

de science religieuse
2 F, Refoulé, Julien d'Eclane, théologien et philosophe, in Recherches
52 (1964), 238.
Giuliano, in Aug., c. Jul. imp. 5, 27.
CAPITOLO QUARTO
I TRIA GENERA CAUSARUM E GLI STATUS
Abbiamo trattato prima le questioni indeterminate a motivo della loro
importanza e frequenza negli scritti patristici. Si deve però ricordare che
l’arte retorica si interessava soprattutto alle causae o questioni determin
ate.
Parlando della retorica di Aristotele, abbiamo già accennato ai tre generi
di cause che venivano trattati nella polis greca: il genus iudiciale, il genus
deliberativum e il genus demonstrativum o laudativum. Qui però appare
un’alua teoria retorica importante, quella degli status. Lo status viene
definito così da Cicerone: «La confutazione dell’accusa, nella quale si ha il
respingimento del crimine, poiché in greco si dice stasis, in latino si
chiama status: è la posizione, su cui innanzitutto insiste la difesa, giunta
per così dire allo scontro, per respingere l’attacco dell’accusa». Da
Quintiliano sappiamo che al posto del termine status i retori parlavano
anche di constitutio 0 caput causae (punto capitale). Gli status si trovano
soprattutto nelle cause giudiziarie, ma si possono trovare anche nelle
deliberazioni e nelle lodi.

Status rationales

Gli status sono di due generi: rationales e legales. 1 razionali sono di tre
specie: a — infitialis o coniecturalis è lo status in cui il difensore nega che sia
avvenuto il fatto di cui uno è accusato. Per esempio, contro l’accusa: hai
fatto questo furto (/ecisti hoc furtum), il difensore, se può, si difende
rispondendo semplicemente: non feci. Negare il fatto è senza dubbio la
difesa migliore possibile. b — Lo status (de) finitionis si ha quando l’accusato
ammette di aver compiuto il fatto, ma respinge che possa essere definito in
un certo modo: /eci, sed non hoc feci. Per esempio, uno ammette di aver
rubato, ma non di aver compiuto una rapina a mano armata, che è un
furto molto più grave. c - Si ha infine lo status iuridicialis o qualitatis
quando l’accusato ammette il fatto di cui viene accusato ed è d'accordo
anche sulla definizione del delitto, ma si difende sostenendo di averlo
fatto giustamente o legalmente: feci, sed iure feci. È dunque il difensore o
colui che risponde all’accusa che stabilisce lo status causae.
Quintiliano al riguardo dava utili consigli ai giovani che incominciano
a fare gli avvocati: «Imparino anzitutto che ogni causa prevede un metodo
96 N. CIPRIANI

basato su quattro possibilità: chi si appresta a dibattere la causa, deve


tenerle presenti per prime. Partendo in particolare dal difensore, il modo
di gran lunga più efficace di svolgere il suo compito sta nel poter negare
quanto viene addebitato; il secondo sta nell’affermare che non è il fatto
addebitato a essere stato commesso; il terzo — e il più onorevole - sta nel
difendere come giusto ciò che è stato fatto. Qualora facciano difetto di
queste possibilità, resta un'ultima ma a quel punto unica salvezza: sfuggire
da un’accusa che non si può negare e da cui non ci si può difendere,
ricorrendo a qualche espediente giuridico, così che la causa non appaia
intentata regolarmente. Da qui, le ben note questioni, d’azione legale o
d’eccezione declinatoria [ralationis]»'. Con l’ultime osservazioni Quintiliano
aggiunge ai tre status razionali già noti un quarto status. Il vero e proprio
status tra(ns)lationis o recusationis sì ha quando l’accusato, prima ancora
d’incominciare il processo, ne chiede il rinvio ad altro giudice, o
l’annullamento. Questo dibattito preliminare è chiamato da Cicerone: de
constituendo iudicio. Scrive il Lausberg: «Nello status translationis sì pone il
problema della legittimità del processo, in particolare della competenza
del giudice, in quanto l’accusato afferma la di lui incompetenza e richiede
il rinvio del processo ad altro giudice. La translatio acquista una particolare
motivazione per mezzo dell’anticategoria che consiste nella contraccusa:
l’accusato accusa l’accusatore o il giudice di una mancanza che rende
giuridicamente nulla o non valida la loro funzione di accusatore o di
giudice»’. Anche nella Rhetorica ad Herennium è detto con chiarezza e
brevità quando si ha lo status translationis: quando il reo o il suo difensore
sostiene che il processo è illegittimo a motivo del tempo o dell’accusatore
o dei giudici chiamati a giudicare.

Status legales

Oltre gli status rationales, dicevamo, ci sono quelli legales, che riguardano
le legitimae disceptationes, ossia le dispute sull’interpretazione delle leggi.
Esse hanno luogo quando lo scritto è ambiguo, di modo che di un testo si
possono dare due o più sensi diversi (status ambiguitatis); oppure si oppone
allo scritto la volontà o l’intenzione dello scrittore (st. scripti et voluntatis);
oppure a una legge se ne oppone un’altra (st. legum contrariarum)®.

! Quint., inst. or. 3, 6, 83-84.


* Cic., part. or. 99.
*H. Lausberg, Elementi di retorica, 24.
* Rhet. ad Herennium 1, 11, 22.
5 Cic., top. 95-96.
I TRIA GENERA CAUSARUM E GLI STATUS 27

Quintiliano parla di quattro status legales, perché ai tre precedenti


aggiunge lo status ratiocinationis o ex syllogismo, che si ha quando ci si difende
facendo appello non a una legge scritta che non c’è, ma mostrando che il
caso in questione è analogo a un altro previsto dalla legge”.

Gli status nell'Apologeticum di Tertulliano

La dottrina degli status trova un chiaro riscontro nell’Apologeticum di


Tertulliano, a proposito del quale Lattanzio ci ha lasciato il seguente
giudizio: «Tertulliano, è vero, difese a perfezione la stessa causa nel libro
intitolato l’Apologetico. Tuttavia, poiché altra cosa è rispondere alle accuse,
per cui basta difendere o negare, altra cosa è impartire ammaestramenti
(instituere), come noi facciamo, in cui deve essere racchiusa l’essenza di
tutta la dottrina». Nelle prime pagine dell’opera, dopo un breve exordiunè,
il difensore dei cristiani propone una specie di status recusationis o
translationis: poiché non è possibile difendere i cristiani in tribunale,
Tertulliano dice di essere costretto a farlo per iscritto, appellandosi così al
giudizio della coscienza di tutti. Egli accusa i giudici di essere prevenuti
nei confronti dei cristiani e di ritenerli colpevoli prima ancora di qualsiasi
indagine conoscitiva, solo a motivo del nome cristiano: hanc primam causam
apud vos collocamus iniquitatis odii erga nomen Christianoruni. Considera i
primi tre capitoli del libro una specie di prefazione ad suggillandum odii
erga nos publici iniquitatem'°. Passa quindi a dire che cosa farà e in che
ordine (propositio e divisio): iam de causa innocentiae consistam; nec tantum
refutabo quae nobis obiciuntur, sed etiam in ipsos retorquebo quae obiciunt,
precisando le accuse che intende respingere: Respondebimus ad singula quae
in occulto admittere dicimur, quae palam admittentes invenimur, in quibus vani,
in quibus damnandi, in quibus irridendi deputamur'. A questo punto, invece
di passare subito a rispondere alle accuse dei pagani, affronta la questione
del valore delle leggi: «Ma poiché, se la nostra verità risponderà a tutte le
accuse, c’è sempre all’ultimo l’autorità delle leggi contro di essa,
asserendosi che nulla c’è da obiettare alle leggi o che anche per chi non lo
voglia la necessità dell’ossequio alle leggi è al di sopra della verità,
bisognerà che prima io mi costituisca in polemica con voi per quanto
riguarda le leggi (de legibus prius consistam) al vostro cospetto quali tutori

‘ Quint., inst. or. 3, 6, 87.


7 Lact., div. inst. 5, 4.
‘Tert., Apol. 1, 1-3.
° Ivi, 1, 4.
10 Jvi, 4, 1.
"vi, 4, 1-2.
28 N. CIPRIANI

della legge»'’. Viene così introdotto lo status iuridicialis, nel quale il


difensore sostiene che il decreto non licet esse vos, con il quale si proibisce
l’esistenza stessa dei cristiani, non solo è disumano, è anche espressione di
violenza bruta e di iniqua tirannia".
Esaurito questo tema, finalmente passa allo status infitialis o coniecturalis,
nel quale respinge l’accusa che i cristiani siano rei di gravissimi crimini
occulti, negando semplicemente i fatti, perché mancano le prove, ma
frutto di voci menzognere: Nunc ad illam occultorum facinorum infamiam
respondebo, ut viam mihi ad manifestiora purgen'*: «Siamo accusati di essere i
più scellerati fra i criminali per un supposto rito dell’infanticidio, per il
pasto che ne ricaviamo, per l’incesto commesso dopo l’orrendo banchetto.
Di tale incesto sarebbero complici i cani, che tirano e spengono i lumi,
veri mezzani nelle tenebre, destinati a velare così la più empia delle
libidini. Si vocifera tutto, ciò, ma voi, da tempo che si vocifera, non avete
mai pensato a dimostrare alla luce del sole quello di cui ci accusate»'’. Per
dimostrare che la voce popolare non è una prova credibile per accusare i
cristiani, sviluppa il locus communis della fama!'°, anzi capovolge l’accusa
contro i pagani: Haec, quo magis refutaverim, a vobis fieri ostendam partim in
aperto partim in occulto, per quod forsitan et de nobis credidistis!’.
Confutate le accuse dei crimini occulti, passa a quelle dei crimini
manifesti (nunc de manifestis), ossia che i cristiani non prestano il culto agli
dèi e non offrono sacrifici per gli imperatori e perciò sono rei di sacrilegio
e di lesa maestà: Summa haec causa, immo tota est el ulique digna cognosci, si
non praesumplio aut iniquitas iudicet, altera quae desperat, allera quae recusat
veritatem’®. Dinanzi a tali accuse, il difensore dei cristiani non nega i fatti,
ma nega che il rifiuto di sacrificare agli dèi e in onore degli imperatori
siano davvero un sacrilegio e un delitto di lesa maestà imperiale. Si pone,
cioè, nello status definitionis, dimostrando che né gli dèi pagani né tanto
meno gli imperatori meritano onori divini: Deos vestros colere desivimus, ex
quo illos non esse cognovimus. Hoc igitur exigere debetis, uti probemus non esse illos
deos el idcirco non colendos, quia tunc demum coli debuissent, si dei fuissent'°. Nel
cap. XXVIII termina la confutazione dell’accusa di sacrilegio e passa
all’altra accusa: «Tutto ciò è più che sufficiente contro l’accusa di lesa

12 Tvi, 4, 3.
13 Jvi, 46.
li vi, 6,11.
15 vi, 7, 1-2.
16 Ivi, 7, 8-14.
17 Ivi, 9, 1-20.
8 Ivi, 10,1.
19 Jvi, 10,2 - 27.
1 TRIA GENERA CAUSARUM E GLI STATUS 29

religione e divinità. È chiaro che non possiamo essere ritenuti rei di


mancato ossequio ad una divinità che non esiste... Ed eccoci al secondo
capo d’accusa, quello di lesa maestà, di una maestà anzi più grave
dell’altra, perché in pratica vi date all’ossequio di Cesare con maggior
tremore nell’animo e con più prostrato sgomento che non a quello di
Giove olimpico». La difesa può riassumersi in poche parole: «I cristiani
sarebbero dunque nemici pubblici semplicemente perché non vogliono
tributare agli imperatori onori menzogneri e temerari e perché, praticanti
una religione vera, preferiscono celebrare le solennità dell’imperatore
nell’austera intimità della loro coscienza, anziché attraverso pubbliche e
lascive sregolatezze»”',
Nella peroratio finale (cap. L) l’oratore non chiede pietà per i cristiani,
ma giustizia. Si rivolge ai magistrati con lo stesso atteggiamento di sfida e
di sarcasmo che aveva assunto all’inizio: «Ma fate, fate pure, magistrati
incorruttibili, dal momento che tanto più degni di considerazione
apparite al cospetto del popolo, se al popolo avrete immolato i cristiani.
Tormentateci pure, torturateci, condannateci, abbatteteci. La vostra
iniquità è la riprova della nostra innocenza... Eppure la più squisita e
ricercata delle vostre crudeltà è irrimediabilmente sterile. Sì traduce in
una maggiore capacità di proselitismo per la nostra setta. Ogni volta che
mietete sul nostro campo noi ci moltiplichiamo. Il sangue dei cristiani è
una semenza feconda (semen est sanguiîs Christianorum) ».

% Fui, 28, 3.
1 vi, 35, 1.
CAPITOLO QUINTO
GLI STATUS LEGALESE L’ESEGESI DEI PADRI
Con la lettura dell’Apologeticum di Tertulliano abbiamo illustrat
o la
teoria degli status rationales. Vediamo ora di chiarire la teoria degli
status
legales. Essì ricorrono soprattutto nei processi penali, quando l'accusa e
la
difesa sono in disaccordo sul significato da dare a un testo della legge e
ciascuno cerca di dimostrare che il testo non dice quello che gli fa dire
l’avversario. La discussione allora è detta legitima disceptatio o disceptatio in
scriptis. La discussione interpretativa può riguardare non solo il testo di
una legge, ma anche un testamento, un patto, un contratto o qualunque
scritto. Anche questi status sono di diverso genere: 1 — nello status scripti et
voluntatis (o anche sententiaeo intentionis) sì cerca di conoscere la volontà o
l’intenzione dell’autore dello scritto nel redigere il testo. Ci si chiede:
dobbiamo dare più valore alle parole o alla intenzione del legislatore?
(verbane plus an sententia valere debeani); 2 — nello status ambiguitatis la
discussione nasce non tanto dalla difficoltà di cogliere l’intenzione del
legislatore, quanto piuttosto dall’ambiguità delle parole stesse: la legge si
presta a diverse interpretazioni a causa della formulazione linguistica; 3 -
nello status delle leggi contrarie (legum contrariarum) il problema
interpretativo nasce dall’esistenza di leggi in contrasto tra loro, una legge
contraddice un’altra; 4 — si ha infine lo status ratiocinationis o syllogismi,
quando sì cerca di stabilire la voluntas del legislatore argomentando per via
di analogia: ciò che una legge dice di una cosa o di una categoria di
persone si può dire analogamente di un’altra?
Sul modo di trattare gli status legales nelle causae giudiziarie siamo
informati da Cicerone nelle Partitiones oratoriae (XXXVIII, 132 - XXXIX,
138). L’Arpinate scrive che i precetti sullo status di ambiguità sono comuni
ai due avversari che disputano sull’interpretazione di uno scritto. Ciascuno
di essi sostiene che la propria interpretazione è conforme alla saggezza del
legislatore; ambedue diranno che l’interpretazione dell’avversario è
assurda, inutile, ingiusta, vergognosa e perfino in contrasto con tutti gli
altri testi; al contrario ciò che egli sostiene lo scriverebbe, ma in modo più
chiaro, ogni legislatore prudente, giusto e saggio. Dirà inoltre che la
propria interpretazione non ha niente di capzioso o di pericoloso, mentre
32 N. CIPRIANI
N

l’interpretazione dell’avversario avrebbe conseguenze assurde, pericolose,


inique e contraddittorie'.
Nello status dello scritto e dell’intenzione chi si appoggia sulla lettera
dello scritto, dopo aver esposto la causa, dovrà recitare il testo e poi
pressare l’avversario, interrogarlo, chiedergli se per caso ricusa il testo o al
contrario nega il fatto. Infine richiama il giudice al valore dello scritto.
Dimostrata così la propria interpretazione, farà un’amplificazione con
l’elogio della legge e respingerà l’audacia di chi, dopo aver agito
apertamente contro la legge e averlo confessato, si presenta, ciò
nonostante, a difendere il suo operato. Quindi passerà a confutare la parte
della difesa, in cui l’avversario sostiene che la volontà e l’intenzione del
redattore sono in contrasto con la redazione del testo. Perché questa
redazione, se il pensiero era un altro? Perché l’avversario lascia da parte
quello che è stato scritto per mettere avanti un’idea che non è stata mai
scritta?”. Colui invece che per difendersi, si appoggerà sull’intenzione del
legislatore, sosterrà che il valore della legge sta nel pensiero e nella
volontà del legislatore, non nelle parole e nella lettera della legge; loderà
il legislatore per non aver previsto alcuna eccezione, per non fornire una
scusa alle colpe. Quindi porterà esempi, in cui appare chiaro che se la
legge viene interpretata alla lettera e non secondo l’intenzione, si va
contro l’equità. Cercherà infine di suscitare la collera del giudice contro la
calunnia dell’avversario. Nel caso delle leggi in contrasto tra loro si dovrà
ricorrere ai precetti retorici dati in precedenza per gli altri casi*.

L’esegesi biblica dei Padri

Gli studiosi dell’esegesi patristica di solito si interessano all’esegesi


storico-letterale, preferita dalla Scuola antiochena, e a quella allegorico-
spirituale della Scrittura, maggiormente praticata nella Scuola
alessandrina. Trascurano invece totalmente l’esegesi retorica, propria
delle controversie teologiche. Vorrei qui richiamare l’attenzione proprio
su questo tipo di esegesi, perché ricorre con frequenza nelle opere dei
Padri. Alla luce dell’insegnamento retorico i Padri tendono a presentare
tutta la Scrittura come la Legge di Dio, in cui si possono trovare testi
oscuri, difficili da interpretare, e di cui di fatto si sono date diverse
interpretazioni. Tutti escludono per principio che nella Scrittura possano
esserci testi che dicono cose contraddittorie, perché l’autore unico della

! Cic., part. or. 132-133.


2 Tui, 193-134.
3 Fui, 135-138.
GLI STATUS LEGALES E L'ESEGESI DEI PADRI
33

Scrittura è Dio stesso, che non può sbagliare né contraddirsi. Perciò viene
escluso per principio lo status delle leggi contrarie. Sono invece tenuti
presenti gli altri status, quello dell’ambiguità e quello dello scritto e della
volontà. Un chiaro esempio di questo modo di leggere la Scrittura si ha
nel De induratione cordis Pharaonis, uno scritto attribuito a Pelagio‘.
L’autore esclude la possibilità che nella Scrittura ci siano affermazioni
contraddittorie sulla trasmissione del peccato originale con queste parole:
Deus autem omnipotens verax absque infirmitatis macula praescius, qui nullius
potentia inclinatur, iustus iudex omni pietate repletus, quo modo poterat sibi
contraria promulgare mandata ?. Riconosce invece che nella Scrittura ci sono
testi oscuri e ambigui, invitando a non scandalizzarsi di questo. Suggerisce
poi il modo per risolvere le ambiguità, ricorrendo ai testi più chiari, che
non hanno bisogno di alcuna interpretazione’.
Anche Agostino nella polemica contro i Manichei, che insistevano sulle
contraddizioni presenti nella Scrittura tra i libri dell’Antico e del Nuovo
Testamento, diceva: «Avendo io dunque replicato queste argomentazioni e
avendo in tal modo mostrato, dopo averli messi a confronto, che questi
due passi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento non sono in contrasto
[non esse contraria], cosa potrà fare Adimanto?»”. Sempre nella stessa opera
ricorreva anche allo status scripti et voluntalis. «È sufficiente collegare
all’interno del suo discorso tutto questo passo della lettera paolina,
affinché appaia chiaramente il motivo [cur], per cui l’Apostolo abbia detto
ciò, e di converso la malafede di costoro, che scelgono alcuni testi della
Scrittura, con i quali ingannare gli inesperti, isolandoli dal contesto che li
precede e li segue, grazie al quale si potrebbero invece capire la volontà e
l’intenzione dello scrittore»®.
Ma probabilmente in nessun altro scritto patristico appare con
maggiore chiarezza l'influsso delle teorie e esercitazioni retoriche sugli
status legales come nell’opera di Giuliano d’Eclano, riportata da Agostino
nell’Opus imperfectum. Tutto il secondo libro dell’opera non è che una
disceptatio tra i due polemisti sull’interpretazione di Rom. 5, 12ss. e altri
passi della Scrittura. Agostino si era appoggiato su quel testo della Lettera ai
Romani per affermare la dottrina del peccato originale. Il vescovo
pelagiano si oppone a tale interpretazione, anzitutto con una praescriplio,
in cui afferma che la dottrina del peccato originale è contraria alla

1 Vedi PLS 1, 1506-1539.


5/vi, 11: PLS, 1, 1511.
6 Ivi, 9: PLS, 1, 1510.
’ Aug., c. Adimantum 15, 2.
5 vi, 14, 2.
34 N. CIPRIANI

giustizia e quindi non può essere insegnata dalla Scrittura: «È stato già
mostrato che nulla si può provare per mezzo delle Scritture sante che non
abbia la garanzia della giustizia; perché, se nella legge di Dio si ha l’ideale
perfetto della giustizia, vuol dire che la legge divina non lascia spazio alla
nemica della giustizia, ossia all’ingiustizia, e quindi non può l'autorità
giustificare quello che la ragione condanna. Se ammettiamo in Dio la
mancanza della giustizia, comincia a traballare tutta la maestà divina,
essendo Dio talmente giusto che la dimostrazione dell’ingiustizia
equivarrebbe alla dimostrazione della non esistenza di Dio. Abbiamo già
concluso che noi adoriamo nella Trinità un Dio giustissimo, ed è apparso
irrefutabilmente che da Dio non può essere imputato ai bambini un
peccato fatto da altri»°.
Dopo aver accusato di manicheismo i sostenitori del peccato originale,
li presenta come «ribelli alla pietà e alla ragione... stolti, impudenti ed
empi, perché infamano le Pagine sante che citano per provare il crimine
della divinità»!'. Ripete quindi la praescriptio, accennando allo status legalis
dello scritto e dell’intenzione: «Rimanga dunque fisso nell’animo del
prudente lettore massimamente questo: in tutte le Scritture sacre è
contenuto solo ciò che i cattolici intendono ad onore di Dio, come viene
illustrato dalla luce di frequenti sentenze. Se in qualche passo
un'espressione troppo dura solleva una questione, è certo senz'altro che
l’autore di quel testo non ha inteso ciò che è ingiusto, ma deve
interpretarsi secondo l’apertura che viene dall’evidenza della ragione e
dallo splendore degli altri passi in cui non c’è iniquità»''. Poco dopo
accenna allo status ambiguitatis. Riferite le parole dell’Apostolo in
discussione, dice dell’avversario: «Che tu abusi dei tuoi fiancheggiatori e ti
nascondi dietro l’ambiguità delle parole lo capisce ogni persona erudita
che abbia letto le nostre opere. Quanto al resto del volgo, del quale il
Profeta dice a Dio: “Tu tratti gli uomini come pesci del mare”, esso rimane
ingannato perché si accoda e ignaro di salutari distinzioni, crede che si
possa congiungere nella realtà tutto quello che vede associato nelle parole.
Ma che cosa sia logico, che cosa assurdo, che cosa ci porti a dedurre da
certe premesse la legge inespugnabile e veneranda della dialettica, non lo
giudicano se non le persone più dotte e attente»', Come l'avvocato in
tribunale Giuliano bolla l’interpretazione della Scrittura fatta dall’avversario
come blasfema e offensiva di Dio, folle e contraria alla ragione. Gli dice

° Giuliano, in Aug., c. Jul. imp. 2, 16.


0 vi, 2, 21.
D vi, 2, 22.
2 Ivi, 2, 36.
GLI STATUS LEGALES E L'ESEGESI DEI PADRI
35

irridendolo: «Sei tanto sciocco che a stento mi trattengo dal riso»";


«impudentemente ti ripari sotto l’ombra del suo nome (Paolo), mentre
dite cose tanto diverse e contrarie»!', In un altro passo gli dice: «Farei
certo ottimamente a disprezzare la tua frivola spiegazione di questo testo e
a passarla sotto silenzio senza ribatterla, essendo per così dire terra terra,
se non temessi che si creda più alla perfidia che alla coerenza».
E inutile riferire tutti gli insulti (convicia, contumeliae) rivolti da Giuliano
al suo avversario. È opportuno invece far notare che egli prima si preoccupa
di confutare l’interpretazione agostiniana e poi offre la propria
interpretazione, che presenta così: «Messa dunque a nudo la tua impudenza
o la tua imperizia, che o non cura o non è capace di spiegare ciò che dice
l’Apostolo. E dimostrato con la luce della stessa verità, che nei ragionamenti
di Paolo nulla collima con la tua demenza manichea, dedichiamoci adesso al
commento, perché, come si è dimostrato in che modo non si possa
intendere Paolo, così si chiarisca in che modo egli deve e può essere
inteso»!, In questo senso, dice, il primo passo da fare è quello di stabilire il
propositum o la voluntas dell’Apostolo nella Lettera ai Romani, che nel
commento esalta come «sapiente ed erudito dottore della Chiesa»!” e lo
apostrofa: «O precettore pieno dello Spirito di Dio! O vaso veramente
d’oro! O tromba che richiama non con stridori spezzati ma con voci
spiegate. Egli concilia autorità al suo discorso con l’umanità dell’esortazione»'®,
Invita quindi i lettori: «Crediamo pertanto al maestro delle genti e
rediamogli testimonianza della sua verità»'. Conclude la sua esegesi,
sostenendo che nei testi paolini non è contenuta nessuna dottrina
favorevole alla dottrina professata dagli avversari: «Poiché riconoscevano di
non poter contare sull’aiuto della ragione, gli avversari rivendicavano una
totale soddisfazione dai testi dell’Apostolo che sono stati spiegati. E poiché si
è fatta luce che in essi non sta scritto nulla di deforme, nulla di difforme
dalla santità e dalla ragione, appare evidente la rovina di una dottrina che è
stata fatta crollare sia dalla ragione con tante testimonianze della Scrittura,
sia dalla religione dei cattolici che è in Dio: dottrina che ormai non è difesa
più dall’opinione basata su questo passo paolino».

13 vi, 2, 57.
li Ivi, 2, 64.
5 vi, 2, 98.
16 Fui, 2, 150.
7 Fui, 2, 216.
18 Fui, 2, 232.
9 vi, 2, 234.
20 Fui, 2, 236.
36 N. CIPRIANI

L'influsso dello status legalis ex ratiocinatione nell’esegesi di Mario Vittorino


è stato messo in rilievo da G. Raspanti. Egli ricorda che nel commento al
De inventione di Cicerone Mario Vittorino afferma il principio: Ex eo quod
scriptum est id, quod non scriptum non est, colligitur. Poi commenta: «Siamo
nell’ambito dello scriptum, cioè della controversia legale che verte su un
testo e utilizza soprattutto, ma non solo, la ratiocinatio legalis. Questo
ragionamento giuridico ha certamente influenzato il metodo esegetico di
Mario Vittorino. Allorché il retore africano deve commentare un testo,
egli, da un lato ha davanti uno scriptum, dall’altro le idee filosofiche che
ritiene giustificate dal medesimo scriptum da commentare: si tratta, perciò,
di pervenire ad una nuova formulazione del testo, cioè ad una spiegazione
che affermi le idee dell’autore e le collochi, senza eccessive forzature, sotto
l’autorità del testo di partenza. Così il commentario diviene
interpretazione del testo, e in tal modo Mario Vittorino può affidarsi a tale
forma per comunicare la propria visione filosofica. Ecco che, per esempio,
la definizione di virtù data da Cicerone viene, con un piccolo
accorgimento, profondamente trasformata e adeguata, insieme alle
nozioni di natura, studium e disciplina, alle idee filosofiche dello Scrittore
africano»"!.

"! G. Raspanti, Mario Vittorino, esegeta di $. Paolo, Palermo 1996, 40.


CAPITOLO SESTO

LA TEORIA DEI LOCI

Il primo compito della inventio è quello di comprendere quale genere


di questione o status causae sì deve trattare. Fatto questo primo passo, detto
intellectus causae, bisogna trovare il modo di convincere, fornendo gli
argomenti che rendono credibile (fidem facere) ciò che è dubbio o gli
argomenti idonei a spingere all’azione (animos movere) o semplicemente
adatti a rendere piacevole il discorso (delectare). Sono infatti questi i tre
fines propri dell’oratore: insegnare o provare (docere o probaré), suscitare
sentimenti (animos movere) e rendere piacevole il discorso (delectare). Gli
argomenti poi si ricavano dai loci, definiti da Cicerone sedes argumenti,
mentre l’argomento è definito: un’idea o ragione, che rende credibile una
cosa dubbia (ratio quae rei dubiae fidem facii)'. La concezione sottostante a
questo insegnamento della retorica è bene illustrato dal Lausberg: «La
inventio non viene rappresentata come un processo creativo (come in
alcune poetiche moderne), ma come un ritrovamento per mezzo della
memoria (analogamente alla concezione platonica del sapere): le idee
adatte al discorso esistono già come copia rerum nell’inconscio o nel
subcoscio dell’oratore e devono solo essere richiamate alla memoria da
un'’abile tecnica e possibilmente da un continuo esercizio. La memoria
viene rappresentata come una totalità dì spazio, nelle cui singole parti
(“luoghi”; topoi, loci) sono distribuite tutte le singole idee. Per mezzo di
domande adatte (analogamente alla maieutica socratica) vengono richiamati
alla memoria i pensieri nascosti nei loci. La generale preesistenza dei
pensieri da ritrovare non esclude una originalità (ingenium) dell'oratore o
dell’artista»?.

La distinzione dei loci

I loci si distinguono in due categorie: intrinseci e extrinseci. 1 primi sono


quelli che ineriscono (insita) alla cosa (res) o al fatto (negotium) o alla
persona, di cui si vuole parlare. Essi si trovano seguendo l'insegnamento

! Cic., top. 2, 8.
? H, Lausberg, Elementi di retorica, 30.
38 N. CIPRIANI

dell’arte retorica e perciò sono detti anche artificiales (in greco ènteknoi). 1
loci extrinseci, invece, sono cercati al di fuori della cosa, del negotium e della
persona, oggetto del discorso, e perciò sono detti inartificiales o artis
expertes, sine arte (in greco àteknoi), perché l’arte retorica non insegna come
trovarli, anche se insegna il modo di farli valere.
Parliamo prima dei loci extrinseci. Essi sono principalmente i testes o ì
testimonia, intesi come «tutto ciò che viene assunto da una circostanza
esterna alla causa per darle credibilità»*. E poiché la forza persuasiva di un
testimonium risiede nell’auctoritas del teste, questi loci sono divini e umani. I
testimonia divina per ì pagani erano le divinazioni, gli oracoli, gli auspici, le
vaticinazioni, i responsi dei sacerdoti, degli aruspici e dei presagi e sonni
(coniectorum)*. Per i cristiani naturalmente i testimonia divina sono le parole
della sacra Scrittura. Esempio classico è la raccolta di testimonia biblici in
tre libri, fatta da Cipriano e dedicata a Quirino.
Quanto ai testimonia umani possono essere orali o scritti (leggi,
convenzioni, promesse, giuramenti, confessioni). Il loro valore o peso
dipende dalla maggiore o minore auctoritas del testis, che a sua volta si
misura in base alla sua virtù, ingegno, erudizione, condizione sociale, età,
esperienza, ecc. Le testimonianze umane si possono ottenere in piena
libertà (ex voluntate) o con forza (ex necessitate): tormenta, verbera, ignis o
anche semplicemente con minacce, che provocano gravi perturbationes
animi (metus, ecc). Un locus ab extrinseco, molto considerato fino a diventare
un locus communis e tra i più utilizzati nelle causae, è quello della fama vulgi,
che Tertulliano definisce quoddam multitudinis testimoniuni.

Tloci extrinseci nei Padri

Negli scritti patristici non si discute sulla auctoritas divina delle


testimonianze prese dalla sacra Scrittura, in quanto è ammessa da tutti, si
discute piuttosto sulla loro interpretazione. Nell’epistola pelagiana De
castitate, già sopra ricordata, la bontà della castità è dapprima provata con
la ratio, poi con gli exempla tratti dalla Scrittura e infine dalla dottrina della
Scrittura. Scrive l’autore all'inizio del capitolo quinto: Sed dicis mihi: haec
quidem vera ratio est et experimentis plurimis comprobata, sed mihi non sufficit,
nisi eam etiam Scripturarum auctorilate firmaveris et earum testimoniis bonum
castitatis ostenderis. Accipe ergo legis exempla (V, 1). Gli exempla sono uno dei
loci extrinseci più frequenti nei discorsi del genus deliberativum o esortativo,

3 Cic., top. 19, 73.


‘1 Cic., part. or. 2, 6.
5 Cf. Tert., apol. 7.
LA TEORIA DEI LOCI 39

come è quello dell’epistola De castitate. Poco dopo, segnala il passaggio


dagli exempla ai testimonia veri e propri: Dices forsitan: haec quidam vehemens
ratio est, sed exemplis potius quam doctrinae consolidatione munitur; ego autem
etiam doctrinae auctoritatem desidero. E risponde: Respondere quidem poteram
exempla Christi non minus perfici debere quam verba...Sed videamus si etiam
sermonum etus possumus reperire doctrinam (VII, 1).
Agostino già nel De ordine aveva rivendicato la vera auctoritas divina a
Cristo contro quella falsa degli oracoli pagani: gli esseri viventi nell’aria
(demoni) «mediante segni magici nel mondo sensibile e con responsi di
solito facilmente ingannano le anime curiose del loro destino terreno o
desiderose di caduchi poteri o paurose di vani presagi»; Cristo è la «vera,
Jirma et summa auctoritas» divina, perché ha provato il suo potere con i
prodigi, la sua clemenza con l’umiltà, la sua natura con la parola
imperiosa (praeceptione). Erano i criteri indicati nel De fide di Ambrogio per
rivendicare a Cristo, contro gli ariani, l’auctoritas divina. Il convertito
riconosce un certo valore anche all’auctoritas degli uomini, i quali per lo
più ingannano, ma che sono credibili quando danno prova della loro
dottrina e vivono in modo coerente con quanto insegnano”. Nel De utilitate
credendi (anno 392) dirà che l’auctoritas non è necessaria ai sapienti, cioè a
coloro che hanno già raggiunto con la ragione la certezza della scienza,
ma a chi non è ancora sapiente, perché può essere indotto (commovet) ad
affrettarsi alla sapienza solo dall’auctoritasj, che muove alla fede con i
miracoli e l’adesione della moltitudine”. Perciò dice di aver creduto alla
Chiesa, «per la fama consolidata dalla diffusione, dal consenso e dalla
vetustas», mentre non crede ai Manichei, che sono pauci, turbulenti e tam
novi, e perciò non presentano nihil dignum auctoritaté.
Quanto al peso da dare alla auctoritas dei Padri in una discussione
teologica, abbiamo una vivace discussione tra Giuliano d’Eclano e
Agostino. Il giovane vescovo d'Eclano nei quattro libri Ad Turbantium aveva
sostenuto che se i pelagiani avessero avuto la possibilità di essere giudicati
da un concilio di persone colte e qualificate, sarebbero stati assolti da ognì
accusa di eresia. Si lamentava invece del prevalere del giudizio della massa
degli ignoranti, che non è altro che una conspiratio perditorum, favorito
dall’appoggio di un potente comes della corte di Ravenna. Sono critiche
ispirate chiaramente al locus communis de testibus, trattato nella scuola del
retore. Quintiliano aveva scritto a questo proposito: «Se la parte avversa
soffre per il numero dei testes, si dovrà rilevare la loro scarsità [paucitatem];

$ Aug., ord. 2, 9, 27.


7 Aug., util. cred. 16, 34.
Ivi, 14, 31.
40 N. CIPRIANI

se ne ha tanti, si dovrà parlare di una cospirazione [conspiratio); se presenta


testes oscuri, della loro minima importanza [vilitatem]; se sono potenti, del
loro favoritismo [gratiam]°. Per respingere queste accuse, il vescovo di
Ippona esalta la fede del popolo cristiano e si appella a diversi Padri della
Chiesa sia occidentale che orientale, tutti stimati per la fama della loro
santità e dottrina, vissuti in epoche e regioni diverse, e presentati come
testimoni della perenne tradizione della Chiesa universale, perché hanno
trasmesso quello che hanno ricevuto". La auctoritas di questi uomini,
dunque, poggia non solo sulla loro dottrina, ma soprattutto sulla loro
santità, sul loro consenso e diffusione nel tempo (vetustas) e nello spazio
(universalitas). Agostino insiste su un’idea del tutto assente nel vescovo
pelagiano: nelle questioni di fede l'autorità degli uomini non è legata
tanto alla loro dottrina quanto all’essere essi testimoni della Tradizione
della Chiesa. L’eco di questa discussione si sente ancora nell’Opus
imperfectum. Poiché nell’Ad Florum Giuliano si era appellato, per l'ennesima
volta, al concilio «di persone illustri per prudenza, affinché appaia non
quello che si dice ma quello che si dice con ragione», Agostino ribatte: «Se
in un concilio, di cui sembra che tu desideri il giudizio, sedessero
Cipriano, Ilario, Ambrogio, Gregorio, Basilio, Giovanni di Costantinopoli,
per tacere di altri, oseresti cercare giudici più dotti, più prudenti e più
veraci? Ebbene essi gridano contro i vostri dogmi; essi con i loro scritti
condannano i vostri scritti, che vuoi di più? Ho già dimostrato questo a
sufficienza nel primo e secondo dei sei libri che ho pubblicato contro i
tuoi quattro»!!,

Tloci intrinseci

Dopo aver trattato i loci extrinseci, torniamo a quelli intrinseci. Come


abbiamo accennato, essi possono essere loci a persona, quando sono
inerenti alla persona di cui si parla, oppure loci a re o a negotio, quando
ineriscono alla cosa o al fatto, che si vuole trattare. I loci più comunemente
usati nella narratio sono quelli espressi nel Medioevo con il seguente
esametro: Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando. Anche in
inglese si dice che ogni buon giornalista deve presentare i fatti secondo il
seguente schema di domande: Who? When? Where? What? Why? Il
Lausberg li spiega e li completa così: «Questi loci, come le rispettive idee

° Quint., inst. or. 5, 7, 23.


1° Aug., c. Jul. imp. 1-2.
l’ Aug. c. Iul. imp. 2, 37. Per la differenza tra l'autorità della Scrittura e degli
uomini vedi Aug., ep. 147, 4.8.
LA TEORIA DEI LOCI 41

trovate per mezzo di queste domande si chiamano locus a persona (quis),


locus a re (quid), locus a loco (ubi), locus ab instrumento (quibus auxiliis), locus
a causa (cur), locus a modo (quomodo), locus a tempore (quando). Si aggiungeva
inoltre l’interrogativo sull’affinità concettuale (adiunctum), che si divide
nel locus a simili (comparatio, paragone), nel locus a contrario (paragone con
l’opposto) e i due loci a simili impari, cioè il locus a maiore ad minus
(deduzione), il locus a minore ad maius (induzione)» ",
Una spiegazione più ampia dei loci intrinseci, accompagnata da esempi
illustrativi, si legge nella Institutio oratoria di Quintiliano nel libro V, cap. X.
Al termine dell’esposizione sono così riassunti: «Gli argomenti sono forniti
dalle persone, motivi, luoghi, tempi (divisi in ciò che precede, ciò che
accompagna e ciò che segue), i mezzi (tra cui rientra lo strumento), il
modo, cioè le circostanze particolari dell’azione; la definizione, genere,
specie, differenze, i caratteri propri, l’eliminazione [remotio], conseguenze,
le cause efficienti e gli effetti, i risultati e il paragone, che si suddivide in
più specie»".
Come si può constatare, i loci possono essere tanti. Ciò non vuol dire
che in ogni discorso si debbano prendere tutti in considerazione.
L’oratore deve operare una scelta, scartando i più deboli e i più banali e
tenendo conto dei fines che si propone di raggiungere, dei genera
quaestionum, dei genera causarum, degli status causae e delle singole parti del
discorso. Nelle laudes o vituperationes ricorrerà soprattutto ai loci a persona e
ai loci honestatis (virtù e vizi). Nei discorsi deliberativi (suasoriae) ricorrerà
soprattutto ai loci utilitatis. Nelle controversiae iudiciales ai loci aequitatis, oltre
che ai loci propri dello status coniecturalis, finitionis e qualitatis. Vediamo
dunque prima come viene praticata la teoria dei loci nei diversi genera
causarum e nei diversi status, per passare poi alle diverse parti del discorso.

o
12 H, Lausberg, Elementi di retorica, 31.
loci a re vedi Quint., inst. or. 5, 10,
1ì Quint., inst. or. 5, 10, 94. Peri loci a personae ì
23-31 e 5, 10, 32.
CAPITOLO SETTIMO

IL DISCORSO DEL GENUS LAUDATIVUM O LODE

Insegnamento retorico

Vediamo in primo luogo quali sono i loci che la retorica suggerisce per i
discorsi del genus laudativum. Nelle Partitiones oratoriae Cicerone incomincia
dando un primo orientamento! e avvertendo che le rationes laudandi
vituperandique non valgono solo ad bene dicendum ma anche ad honeste
vivendum. Il motivo di tale affermazione sta nel fatto che in una persona si
deve lodare tutto ciò che è connesso con la virtù e biasimare tutto ciò che è
connesso con il vizio. Il fine proprio del genere laudativo, infatti, è
l’esaltazione della honestas da una parte e il biasimo della disonestà
(turpitudo) dall’altra. L’elogio o il biasimo di una persona si fa narrando ed
esponendo ragioni o fatti senza alcuna argomentazione, perché l'oratore si
preoccupa più di toccare i sentimenti dell'animo che di portare prove o
rafforzarle. In effetti, non si propone di provare ciò che è dubbio, ma
amplifica ciò che è certo o è dato per certo. Quindi valgono i precetti che
l’arte retorica dà a proposito della narratio' e della amplificati@.
Nel capitolo seguente passa a indicare la dispositio del discorso di lode
(laus), che deve seguire la triplice distinzione dei beni fatta da Aristotele:
si lJodano prima i beni esterni, poi quelli del corpo e quindi quelli
dell’anima, che sono i più stimati. Si inizia dal locus a genere (stirpe) breviter
modiceque, avvertendo che, se l’origine era disonorevole, si tralascia; se era
umile, si passa sotto silenzio, oppure se ne fa un accenno, per accrescere la
gloria della persona lodata; se è il caso, poi, si trattano i loci delle ricchezze
e risorse economiche e sociali. Quindi si passa ai beni del corpo, tra i quali
la bellezza è quello che rimanda di più alla virtù. Infine si giunge all’elogio
delle virtù narrando i fatti o gesta, la cui esposizione può essere fatta in tre
modi: aut enim lemporum servandus est ordo, cioè o si segue l’ordine
cronologico, aut in primis recentissimum quidque dicendum, o si comincia dai
fatti più recenti, come hanno fatto Omero nell’Odissea e Virgilio nell’Eneide,

! CF. Cic., part. or. 21, 70-71.


2 Fui, 31ss.
3 Fui, 21, 52ss. 72-73.
44 N. CIPRIANI

aut multa et varia facta in propria virtutum genera sunt digerendo, oppure si
espongono i fatti secondo i diversi generi di virtù*.

Virtù e vizi

Di fondamentale importanza per il discorso laudativo o encomiastico,


pertanto, è la conoscenza dei loci honestatis, ossia delle virtù, perché proprio
da esse e dai vizi opposti si ricavano gli argomenti per fare l’elogio o il
biasimo. Le virtù naturalmente possono essere esposte in diversi modi
secondo la prevalente ispirazione filosofica o religiosa. Cicerone nelle
Pantitiones oratoriae segue l’insegnamento di Aristotele, mentre nella Vita di
Pitagora Porfirio esalta nell’antico filosofo le virtù propriamente pitagoriche
e neoplatoniche. Gli autori cristiani, come vedremo, fanno l’elogio del
santo, oggetto del discorso, tenendo presenti i valori propri del cristianesimo,
senza tuttavia dimenticare del tutto l’insegnamento della retorica, al quale
anzi sovente accennano in modo esplicito, almeno per dire che se ne
distaccano di proposito.
Ritornando alle Panritiones oratoriae, le virtù sono divise secondo la
concezione aristotelica in due specie: le virtù etiche (temperanza, fortezza,
e giustizia) e le virtà dianoetiche o speculative (prudentia, anche
economica e politica, calliditas, sapientia). Accanto a queste virtù sono
poste la dialettica e la retorica come ministrae comitesque sapientiae. La
verecundia è considerata la custode di tutte le virtù. Alle virtù ci si dispone
con le arti liberali: letteratura, numeri, musica, geometria, astronomia, ma
anche equitazione, caccia, armi e tutto ciò che aiuta a coltivare il rispetto
della religione, genitori, amici e ospiti’. I vizi naturalmente sono gli abiti
opposti alle virtù. Tuttavia Cicerone avverte di prestare attenzione a non
confondere le virtù con i vizi vicini per la loro somiglianza. La prudenza
può somigliare all’astuzia (malizia), la temperanza alla rozzezza nel
disprezzo dei piaceri, la giustizia al rigore, la religione alla superstizione.
Insomma, si deve evitare di confondere le virtù con i vizi, perché alle
tendenze buone può somigliare l’eccesso o l’esagerazione®.

Tloci della laus di una persona

Al termine del trattato sulle virtù Cicerone indica sinteticamente le


cose che si devono maggiormente illustrare (haec erunt illustranda maxime)

‘ Ivi, 22, 74-75.


5 Ivi, 22, ‘76- 80.
6 Ivi, 22, 81.
IL DISCORSO DEL GENUS LAUDATIVUM O LODE
45

nel discorso laudativo: a - la nascita del personaggio, la


sua educazione, la
sua istruzione € il suo carattere; cose importanti o straordinarie che gli
sono capitate, soprattutto se in esse sembra apparire un intervento
divino;
b - quindi si parlerà delle sue idee, delle sue parole e azioni secondo
le
differenti specie di virtù che abbiamo sopra distinto e tra i loci della
inventio si ricercheranno le cause, gli effetti e le conseguenze necessarie
dei fatti; c — infine, non si dovrà passare sotto silenzio neppure la morte di
coloro la cui vita è degna di lode, se c’è qualcosa di rilevante o nello stesso
genere di morte o nei fatti che l'hanno seguita’.
Quintiliano nella /nstitutio oratoria offre uno schema più dettagliato dei
loci soprattutto per quanto concerne la prima parte della vita: genus o gens
(famiglia), natio (popolo di appartenenza), patria (luogo di nascita), sexus
e aelas, paideia (educazione ricevuta), habitus corporis (i beni del corpo),
fortuna (ricchezze, amici); animi natura (doti naturali), studia (inclinazioni
naturali), quid affectat quisque (ciò che uno vuole apparire). Raggiunta
l’acme, ossia il punto culminante della vita, l'oratore espone i dicta e ì
gesta, disponendoli secondo le diverse virtù. Nella parte finale del discorso
parla della morte e degli eventi che ne seguirono, sottolineando, come per
la nascita, gli aspetti straodinari, incredibili e divini®.
Oltre ai loci, propri di questo genere, nella laus o nella vituperatio non
manca mai la comparatio, ossia il confronto o il paragone del personaggio
lodato o biasimato con altri uomini illustri del passato, per mostrarne la
superiorità nella virtà o nel vizio. Per quanto riguarda la dispositio il
discorso laudativo dopo un breve esordio o principium, ha una lunga parte
espositiva o narrativa divisa in tre sezioni: gli inizi della vita, la maturità
con i detti e le gesta narrati secondo le virtù, le circostanze della morte;
una breve conclusione. Per quanto concerne la elocutio Cicerone scrive:
«Poiché in queste cause l'oratore non mira se non al piacere e al diletto
dell’ascoltatore, si userà uno stile ornato di parole insigni, che abbiamo
molta dolcezza (e ciò avviene se usiamo con frequenza termini nuovi o
arcaici o traslati), o semplicemente con la stessa costruzione della parole
in modo che si corrispondano spesso parole di uguale lunghezza o di
desinenza simile, antitesi, duplicazioni, periodi con il ritmo (numero), che
senza somigliare al verso, soddisfino le esigenze istintive delle orecchie.
Con frequenza si deve ricorrere ancora agli ornamenti di contenuto, fatti
sorprendenti e inattesi, annunciati da fenomeni straordinari, prodigi,
oracoli o fatti che sembrano essere accaduti per volere degli dèi o del

? Fui, 22, 82.


8 Quint., inst. or. 3, 5.
46 N. CIPRIANI

destino. In effetti, l’attesa degli ascoltatori, lo stupore e gli esiti improvvisi


sono sempre per essi fonte di piacere»”.

Il genus laudativum nei Padri

Nei Padri, oltre che vere e proprie laudes, cioè discorsi fatti in una
pubblica assemblea per elogiare un martire o un santo, troviamo anche le
vite dei santi, che appartengono propriamente al genere delle biografie,
ma che assumono sempre un carattere encomiastico. A partire dalla metà
del IV secolo, infatti, si scrivono sempre più numerose vite di santi, che
non si distinguono molto dalle laudes tanto per il loro contenuto e lo
scopo, sempre elogiativo, quanto perché si richiamano, in modo più o
meno esplicito, alla tradizione biografica. Ciò risulta soprattutto nelle
introduzioni, quando lo scrittore ricorda i precedenti modelli letterari, a
volte si rivolge al destinatario, che gli ha chiesto di scrivere la biografia,
esalta la grandezza del personaggio, dicendosi indegno o incapace di fare
l’elogio delle sue virtù (è la figura retorica della tapeinosis), dichiara di
voler raccontare solo ciò che è degno di fede, ecc. Tutti questi elementi si
ritrovano, per esempio, nella parte introduttiva della vita di Ambrogio,
scritta dal diacono Paolino. Per quanto concerne le laudes o encomi veri e
propri dei santi, comunque, occorre notare che gli oratori, pur mostrando
di conoscere molto bene i loci propri del genere, spesso protestano di non
voler seguire l'insegnamento retorico, perché ispirato da una mentalità
pagana, ma di volersi ispirare alle virtù proprie del vangelo.

Vita di Gregorio Taumaturgo (Gregorio di Nissa)

Ne abbiamo un esempio chiarissimo nella Vita di Gregorio Taumaturgo,


scritta da Gregorio Nisseno, che più che una biografia, come fa pensare il
titolo, è un vero encomio, pronunciato in un’assemblea di fedeli.
Nell’esordio Gregorio dichiara apertamente il motivo e la natura del suo
discorso": «Lo scopo del mio discorso e di questo incontro è uno solo:
Gregorio il Grande... Dobbiamo pregare che questo mio discorso abbia
tanto aiuto (dallo Spirito Santo) quanto ne ebbe egli per la sua vita,
affinché il mio elogio non si trovi inferiore alla grandezza delle sue azioni
virtuose». Dichiarato l’argomento e fatta l’invocazione, accenna al topos
della sua inadeguatezza a celebrare la grandezza delle virtù del Santo;

° Cic., part. or. 21, 72-73.


1° Le citazioni sono tratte dalla tr. it. di L. Leone, Roma 1988 (Collana Testi
Patristici 73).
IL DISCORSO DEL GENUS LAUDATIVUM
O LODE 47

annuncia quindi di non voler seguire i loci, indicati dall’arte


oratoria per il
genere encomiastico: i cristiani nel fare gli elogi dei santi devono
seguire
criteri diversi dai pagani. Il Nisseno insiste sul capovolgimento
dei valori e
sulla novità dei loci: «Nessuno di quelli che sono stati educati dalla divina
sapienza presuma che colui che viene celebrato per la sua perfezio
ne
spirituale sia lodato con la tecnica degli elogi praticati da quelli che sono
estranei alla nostra concezione della vita. Noi infatti non giudichiamo con
lo stesso metro degli altri la nozione del bene; e neppure sui medesimi
argomenti possono trovarsi d'accordo quelli che vivono alla maniera del
mondo e quelli che si sono posti al di sopra di esso. Quelli infatti stimano
di gran pregio e degne di essere ricercate le ricchezze, la stirpe, la gloria,
la potenza del mondo, le leggende che celebrano i fondatori delle città; e
così pure stimano la fama, i trofei, le battaglie e le fatiche della guerra,
cose delle quali rifuggono quelli almeno che ragionano. A mio parere,
invece, vi è una sola patria degna di essere onorata, il paradiso, prima sede
del genere umano; una sola città, quella del cielo, costruita con pietre
viventi... un solo splendore della stirpe, la parentela di Dio... e che c'è di
più splendido di quella nobiltà? Le tradizioni avite di tutti gli altri sono
favole e invenzioni, frodi demoniache intrecciate a racconti leggendari; le
nostre invece non hanno bisogno di chi le narri... Per mezzo di questo
elogio spirituale il divino codice encomiastico allontana ed esclude da
coloro che sono lodati le stoltezze del mondo, ritenendo indecoroso che
quelli che si sono resi famosi per i loro risultati spirituali siano celebrati
con gli onori terreni. Infatti, se qualcuno è un uomo del mondo che ci
tiene alla felicità terrena, costui chiede agli uomini di essere lodato con
argomenti del genere, che abbia una patria ricca di bestiame, o un mare
vicino che fornisce ai ghiotti facilmente e con abbondanza i viveri, o pietre
su pietre che abbelliscano i suoi edifici. Ma chi si preoccupa della vita
celeste... stimerà indecorosa la ricchezza dei beni terreni. Perciò anche
noi, lasciate da parte le lodi di tale genere, per celebrare Gregorio il
Grande né faremo cenno alla sua patria né amplificheremoil suo elogio
parlando dei suoi antenati, ben sapendo che non è vera lode quella che
non appartiene a chi è lodato.. Affermiamo invece che gli appartiene
quella lode che gli rimane per sempre e non può essergli strappata. Poiché
dunque possiamo essere privati di tutto, della ricchezza, fama, gloria
onore, lusso, piaceri, parenti, amici, ci rimane soltanto, inseparabile da
noi, la nostra disposizione d’animo incline al vizio o alla virtù: noi
riteniamo beata soltanto colui che è virtuoso»"'.

ll Ivi, 35-36.
48 N. CIPRIANI

Gregorio, insomma, dichiara di voler elogiare il Santo cristiano solo


per le virtù, ossia per i beni dell'animo, non per i beni esterni e i beni del
corpo. Risulta comunque chiaro che egli conosce molto bene
l'insegnamento retorico sui loci del genere encomiastico, anche quando
dichiara di non volerli trattare. A questo proposito egli avverte: «Nessuno
però pensi che, per non aver nulla di rilevante da dire sulla patria o gli
antenati del nostro uomo, li passiamo in silenzio con la scusa che non
valgono nulla». Di fatto egli parla, esaltandoli, del paese di origine del
Santo (il Ponto Eusino) e della sua città natale, ma subito protesta:
«Queste cose non hanno niente a che fare con il nostro proposito, quasi
credessimo di voler dimostrare più eccellente tra i santi quel grande uomo
per il fatto che il suo territorio erra ricco di mezzi o la città era
sontuosamente sfarzosa di edifici o per il mare vicino aveva facilità
d’importare abbondantemente da ogni parte quel che credeva»'’. Ripete,
quindi, ancora una volta, di non voler parlare dei suoi genitori né della
sua città, «giacché queste notizie non servono allo scopo che mi sono
proposto in questo mio impegno celebrativo»'.
Dopo un esordio piuttosto lungo, finalmente incomincia l'elogio con
un altro avvertimento: «Il principio di questo elogio comincerà dal
momento in cui egli diede inizio alla vita virtuosa. Già nel periodo della
fanciullezza... mostrò subito, fin dall’inizio, quale sarebbe divenuto
nell’età matura». L’affermazione è illustrata con la similitudine assunta dal
mondo della natura: «Come i primi germogli... Così anch'egli fiorì».
Segue una comparatio con Abramo, per esaltare la sua cultura profana e la
scoperta della fede: «E prima ancora di giungere alla nascita mistica e
spirituale si comportò così bene nella sua vita da non portare al battesimo
nessuna macchia di peccato». Parla poi del suo soggiorno in Alessandria
d'Egitto e dell’insidia tesagli da una meretrice, annotando: «Questo sì
racconta della giovinezza del nostro Santo, degno inizio della sua vita
futura». Segue un’altra comparatio con un altro personaggio biblico, il
patriarca Giuseppe.
Dopo la giovinezza, passa a narrare l’età matura con la sottolineatura
del passaggio: «Tale è dunque l’inizio della sua vita. Ma quale ne fu il
seguito? Dopo aver percorso tutto il curriculum degli studi profani», si
diede alla filosofia cristiana, frequentando il famoso Origene. Molti nella
città di Alessandria volevano che rimanesse da loro, ma egli si ritirò nella
solitudine per stare solo con Dio come Mosè (altra comparatio). Contro la
sua volontà fu ordinato vescovo. In una visione (gli apparvero Giovanni e

12 vi, 38.
13 Ibid.
IL DISCORSO DEL GENUS LAUDATIVUM O LODE
49

Maria) fu istruito sulla vera conoscenza della fede, che poi mise
per iscritto
nel Simbolo o Spiegazione della fede. Incoraggiato dalla visione, forte
come un atleta lascia il deserto, entra in un tempio pagano, da cui scaccia
satana, e converte con i prodigi il suo sacerdote. Arriva finalmente in città,
accompagnato da una grande folla. Esalta la sua povertà: «Quando si era
dato alla filosofia, si era spogliato come di un peso di tutto quello che
aveva e non gli rimaneva perciò nulla di ciò che è necessario per vivere né
terreni né patria né casa». Interessante è l’osservazione di carattere
letterario che qui fa il Nisseno: «Se il racconto della sua vita è solo
espositivo ed è presentato in forma semplice, il fatto che il mio discorso
abbia tralasciato volutamente quelle esagerazioni dei fatti, suggerite di
solito da una certa ricercatezza artificiosa, proprio questa è la
testimonianza e una prova che io non esagero di proposito quando
ricordo i suoi miracoli, perché sono convinto che basta il ricordo delle sue
gesta per una lode perfetta».
L’elogio prosegue con il racconto delle numerose conversioni ottenute
con i suoi discorsi, della costruzione di un tempio, della mediazione di pace,
dei miracoli del lago, per mostrare la saggezza di Gregorio nel dirimere le
contese, saggezza superiore persino a quella di Salomone"', e la potenza
taumaturgica superiore a quella dei Profeti Elia ed Eliseo". Pregato di
recarsi a Comana per fondare una chiesa, ispirato da Dio, tra i tanti
candidati scelse come vescovo un carbonaio, votato poi all'unanimità".
Racconta quindi la tragica beffa di due ebrei, che durante il viaggio, uno si
finse morto e l’altro supplicò Gregorio di pensare alla sua sepoltura. Avendo
Gregorio cedutogli il mantello per la sepoltura, si mise a sghignazzare alle
sue spalle, ma quando si volse al finto morto, si accorse che era morto
davvero. L’oratore, quasi in difesa del Santo, osserva: «Se questo episodio,
operato dalla fede e dalla potenza del Santo, può sembrare disumano,
nessuno si disorienti, ma pensi a Pietro», che guarì lo storpio ma condannò
a morte Anania"”’. Gregorio continua a predicare e a far miracoli, ma arriva
la persecuzione. Per evitare di essere arrestato, fugge nel deserto, «per
portare conforto al suo popolo e aiutare tutti quelli che combattevano per la
fede». Terminata la persecuzione, lascia il deserto, per continuare l’opera
della evangelizzazione e promuovere il culto dei martiri.
A questo punto, senza alcun preavviso, l’oratore passa a parlare delle
circostanze che precedettero la morte: «Desiderando, prima di morire, di

l1 Fui, 66.
15 Ivi, 70-71.
16 Tui, ‘71-77.
17 Ivi, 79.
50 N. CIPRIANI

vedere convertiti tutti dal culto degli doli alla fede della salvezza, quando
avvertì che l’ora della sua morte era vicina, percorse con diligenza tutto il
territorio circostante, per conoscere quanti fossero quelli che ancora non
avevano abbracciato la fede. E seppe che non rimanevano che 17 pagani,
lo stesso numero di cristiani che c’erano al suo arrivo. È dopo aver pregato
sia per quelli che credevano, per una loro maggiore perfezione,, sia per gli
infedeli, per la loro conversione, passò infine dalla vita di questo mondo a
Dio, raccomandando ai suoi discepoli di non acquistare per lui una tomba
privata»', L’elogio poteva essere concluso così, ma il Nisseno batte un
ultimo colpo d’ala. Quando tutto sembrava finito, scrive: «Ora riprendo il
discorso, per raccontare altri miracoli; narrerò ciò che il mio discorso ha
omesso di narrare per la fretta e che avvenne nei primi tempi del
sacerdozio del Santo». Narra così del suo arrivo in città durante una festa,
dello scoppio improvviso di una pestilenza e della sua scomparsa per
l’intervento miracoloso di Gregorio. Fu proprio questo miracolo a spingere
tanta gente alla conversione. Ho sottolineato la novità letteraria, perché in
genere la lode seguiva l’ordine cronologico dei fatti, mentre qui l'oratore,
giunto alla fine della vita, è tornato indietro, all’arrivo del Santo in città.

Vita di S. Cipriano (Ponzio)

L’autore, il diacono del vescovo Cipriano di nome Ponzio, vuole scrivere


una vita destinata ad essere letta anche dai posteri. Dopo una breve
introduzione, propria delle biografie, che occupa il primo capitoletto"’,
Ponzio incomincia un vero discorso laudativo con un esordio tipicamente
retorico. Si domanda: «Da dove cominciare? Da dove dare inizio al racconto
dei suoi meriti, se non dal principio della fede e della nascita celeste?».
Esplicitamente Ponzio dice di non voler parlare del genus, della patria, della
nascita e degli studi delle arti liberali; vuole narrare solo la vita cristiana di
Cipriano. Seguendo i praecepta dei retori, però, degli inizi della nuova vita
mette in risalto gli aspetti meravigliosie prodigiosi; paragona Cipriano agli
antichi, per rilevare la singolare rapidità della sua esperienza cristiana:
«Cipriano fu il primo e - credo - il solo esempio che si può progredire più
rapidamente con la fede che con il tempo... Cipriano, provenendo da
pagani ignoranti, ebbe fin dall’inizio una fede così matura come forse pochi
l’hanno quando giungono al termine del progresso»”. Ricordata la grande

18 vi, 92.
1° Vita Cypriani 1, 1-4 (Le citazioni sono tratte dalla tr. it. di M. Simonetti, Roma
1989° [Collana Testi Patristici 6]).
20 Ivi, 2-3.
IL DISCORSO DEL GENUS LAUDATIVUM
O LODE SI

familiarità che unì Cipriano ancora neofita al glorioso presbiete


ro
Ceciliano”’, passa a parlare di questo periodo della vita, dicendo:
«Sarebbe
troppo lungo scendere nei particolari e faticoso ricordare
tutte le sue
azioni»; racconta comunque la sua elezione a vescovo quando
era ancora
neofita, la sua umiltà e l’insistenza del popolo, accennando appena
alle
opposizioni incontrate e giustificandole «perché egli potesse riportare la
vittoria»,
Ordinato vescovo (l’acme), finalmente incomincia a narrare le gesta
secondo le virtù, Incomincia la nuova parte con altre domande retoriche:
«Chi è in grado di raccontare come egli si comportò a partire da quel
momento? Quale fu la sua pietà, quale la sua forza, quanta la misericordia,
quanta la severità!». Ne esalta l’uniltà e l’amore per i poveri”. Il suo zelo per
la fede e la fama presso il popolo attirò su di lui l’attenzione delle autorità;
avrebbe potuto subito subire il martirio, ma gli fu differito per volere divino
per dargli modo di scrivere opere preziose che sarebberio risultate utili alla
Chiesa. Cipriano evitò la morte rifugiandosi in una villa di campagna e
Ponzio lo difende dalle critiche che gli furono fatte: il ritiro non fu dovuto a
paura, ma al desiderio di obbedire al Signore?’ L'argomento è importante,
perciò Ponzio insiste nella difesa: il ritiro «non fu ispirato da pusillanimità,
ma fu veramente voluto da Dio» per il bene del suo popolo”. A questo
punto Ponzio avverte: «L'esigenza di non allungare il libro non permette di
esporre con discorso troppo prolisso altri importanti fatti. Di essi basterà
dire soltanto che se i pagani li avessero appresi dalla tribuna degli oratori,
forse si sarebbero convertiti». Non rinuncia però a proclamare la pietà di
Cipriano superiore a quella di Tobia. Per non sembrare irrispettoso, ripete:
«Ci perdoni costui, ancora ci perdoni e più volte ci perdoni: ovvero, a dire il
vero, voglia ammettere che, se fu possibile far molto bene prima di Cristo,
ancor più è possibile fare dopo di lui». Cipriano, infine, è costretto
all'esilio. Ponzio, ricorrendo al locus communis de exilio, dice che se per il
mondo l’esilio è una pena, non lo fu per Cipriano. Solo per mortivi retorici
ricorre anche al luogo comune del locus amoenus: «Non voglio ora descrivere
l’amenità del luogo e lascio da parte tutto l’apparato di delizie.
Immaginiamo un luogo brutto per posizione, squallido per aspetto, che non
ha acque salubri né verde ameno né una spiaggia vicina, ma grandi rupi
silvestri gfra le fauci inospitali di una solitudine assolutamente deserta,

2 Ivi, 4.
22 Tui, 5, 16.
3 Tui, 6.
24 Ivi, 7.
5 vi, 8.
2 fvi, 10.
52 N. CIPRIANI

nascosto in una parte inaccessibile del mondo. Anche se il luogo dove venne
Cipriano, il sacerdote di Dio, era tale, avrebbe potuto esso avere il nome di
esilio?»””’, In realtà il luogo dove fu esiliato Cipriano era davvero ameno,
appartato secondo il suo volere, ma aperto a tutti coloro che lo volevano
visitare. Tra le tante visite ricevute Ponzio preferisce ricordare quella che gli
fece il Signore in sogno, con cui gli comunicava l’accettazione della sua
richiesta della dilazione del martirio": «Che cosa più chiara di questa
rivelazione, che cosa più fausta di questa degnazione? In anticipo gli fu
predetto tutto ciò che poi si verificò». Di nuovo Ponzio è costretto a
difendere Cipriano: «Il motivo della richiesta dilazione dipendeva dalla
necessità di ordinare le proprie cose e disporre le proprie volontà», ossia gli
aiuti da dare ai poveri, nessun'altra ragione”. Con il cap. 14 incomincia
l’ultima parte della vita con il racconto del martirio: «Già da Roma era
venuta la notizia» del martirio di papa Sisto. Ponzio trova anche negli ultimi
giorni di vita motivi per elogiare il vescovo. Scrive: «Non bisogna lasciare
senza lode neppure questo sublime motivo di gloria di così grande uomo».
Cipriano «come gli si offriva l’occasione istruiva i servi di Dio con le
esortazioni del Signore e li rincuorava»”. Arrivò improvvisamente il capo
della polizia, Cipriano fu tenuto sotto discreta sorveglianza per una notte
nella casa dell’ufficiale, mentre tutto il popolo vegliava alle porte della
casa"', «Spuntò finalmente il giorno seguente, quello stabilito, quello
promesso, quello divino, che se pure il tiranno avesse voluto differire non ci
sarebbe riuscito, giorno gioioso per la coscienza del futuro martire». Il
vescovo fu portato al pretorio. Arriva il proconsole, «Cipriano viene
introdotto, presentato, interrogato sul suo nome. Rispose chi era e
- l’interrogatorio finì lî!»"*. Negli ultimi capitoliè narrata con brevità la storia
del martirio”.

“hi, ll.
25 Ivi, 12.
” Ivi, 13. La difesa della persona lodata era prevista dalla retorica. Quintiliano
scrive: «Come la lode utilizzata per questioni concrete richiede delle prove, così
anche quella composta per ostentazione contiene talvolta un’apparenza di
apparato probatorio... Alcune considerazioni, invece, finiranno per sembrare una
difesa. Per esempio, qualora l’oratore, elogiando Ercole, ne scusasse lo scambio di
abito con la regina di Lidia e la lana che secondo la tradizione filò in ottemperanza
agli ordini di quella. Ma tipico della lode è amplificare e abbellire i fatti» (inst. or,
3, 7,4.6).
0 Fui, 14.
I vi, 15.
* Ivi, 16.
3% Ivi, 18.
CAPITOLO OTTAVO

IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM

Premessa

Prima di affrontare il tema, è bene fare qualche premessa. Come


abbiamo già notato, il discorso del genere deliberativo era proprio delle
assemblee chiamate a discutere proposte di carattere politico. Nella boulè
della polis greca o nel Senato della Roma repubblicana si discutevano le
iniziative da prendere per il bene pubblico, che inevitabilmente
suscitavano opinioni contrastanti tra i sostenitori e gli oppositori. Si
poteva, per esempio, discutere sull’opportunità o meno di fare una guerra
o semplicemente di fare un ponte, un tempio, una via, tra chi era
favorevole e chi contrario. Una simile situazione ovviamente non poteva
trovare riscontro nella vita della Chiesa antica. Anche quando sì voleva
costruire un tempio, non era l’assemblea dei fedeli che prendeva la
decisione, dopo aver ascoltato i pro o ì contra dei presenti. Nell’assemblea
cristiana al posto di discorsi propriamente deliberativi si facevano discorsi
esortativi (al martirio, alla verginità o a un’altra virtù), che, insieme ad altri
genere di discorsi come le consolationes, nell’arte retorica non erano stati
fatti oggetto di un diretto insegnamento, perché secondo Cicerone non
riguardavano tanto la vita pubblica quanto quella privata. Ciò nonostante,
come fa osservare Mario Vittorino, «nell’esortazione si osservano le stesse
norme della deliberazione»!. Perciò non è ingiustificato il nostro interesse
per l’insegnamento della retorica sul genus deliberativum.

La utilitas

C'è un’altra osservazione da fare. Se, come abbiamo visto, i loci


honestatis (de honesto et turpi) sono propri della laus, i loci propri del genus
deliberativum sono ì loci utilitatis (de expetendo et fugiendo). Tuttavia già nelle
Pantitiones oratoriae Cicerone avvertiva che non si può separare l’utilitas
dalla honestas, anzi si deve sempre anteporre l’onesto all'utile. Quintiliano

! Mar. Victorin., exp. in Rhet. 1, 3, 4 .


54 N. CIPRIANI

si dice pienamente d’accordo con Cicerone”. Questo vale naturalmente


ancora di più per gli oratori cristiani, che esortano alla virtù non solo per i
vantaggi (spirituali e sociali) che ne derivano, ma anche perché la virtù è
un bene in se stessa. Non deve quindi meravigliare se Mario Vittorino,
dopo aver detto che i praecepta della deliberazione valgono anche per
l’esortazione, precisa che nell’esortazione, oltre che l’utilitas e la
possibilitas, sì deve trattare anche la honestas'.
Una terza osservazione è forse la più importante. Se i loci honestatis,
indicati dalla retorica per fare l’elogio di una persona, necessariamente
erano assai differenti per gli oratori pagani e cristiani, lo stesso si dovrà
dire per i loci utilitatis. Cicerone aveva insegnato che l’oratore che vuole
consigliare (suadere) un uditorio a prendere una determinata decisione o a
dissuaderlo dal prenderla, «deve adattare il discorso non solo alla verità
ma anche all’opinione degli ascoltatori» (et quoniam non ad veritatem solum,
sed etiam ad opiniones eorum qui audiunt, accomodanda est oratio). Dopo questo
primo suggerimento ne dava un altro: l’oratore deve tener presente a
quale pubblico sta parlando: «Vi sono infatti due categorie di uomini, una
è quella degli uomini illetterati ed ignoranti che antepongono sempre i
vantaggi all’onestà, l’altra categoria è quella degli uomini educati e colti, i
quali a tutto preferiscono la propria dignità. Ebbene a questi ultimi dovrà
proporre la lode, l’onore, la gloria, la fedeltà, la giustizia e ogni altra virtù,
mentre ai primi proporrà il lucro, il profitto e tutti i vantaggi materiali»
(Hoc primum intelligamus, hominum duo esse genera, alterum indoctum et agreste,
quo anteferat sempre utilitatem honestati, alterum humanum et politum, quod rebus
omnibus dignitatem anteponat. Itaque giuc generi laus, honos, gloria, fides, iustitia
omnisque virtus, illis autem alteris quaestus, aemolumentum, fructusque
proponitur). Non basta. C'è gente ancora più grossolana, osserva ancora
Cicerone, «che insegue con ardore il piacere, nemico della virtù e che
adultera la natura del bene con una falsa imitazione, e lo preferisce non
solo alle cose oneste ma anche a quelle necessarie. Ebbene, quando si
cerca di persuadere e consigliare questo tipo di gente, bisogna lodare
anche il piacere»’. Naturalmente l’oratore sacro, chiamato a predicare il
vangelo, non potrà seguire questi consigli; non dovrà assecondare le false
opinioni degli ascoltatori ma seguire la verità, né potrà distinguere gli
ascoltatori tra colti e incolti, ricchi o poveri, per prospettare benefici

? Quint., inst. or. 3, 8, 1.


3 Scrive Mario Vittorino: In exhorlatione vero deliberationis praecepta servantur.
Tractatur utilitas, tractatur honestas, tractatur possibilitas. Utilitas porro duobus generibus
comprehenditursi mala repellamus, si prospera consequamur (exp. in rhet., 1, 3, 4).
* Cic., part. or. 90.
IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
55

differenti a ciascuna
nz categoria e soprattutto non potrà promettere vantaggi
(commoda) materiali e temporali.
I Padri, quando esortano i fedeli a una virtù, in primo luogo
mettono
in risalto il bonum proprium di quella virtù, ossia la ragione per cui quella
virtù è in se stessa buona e degna di lode, insistendo, per esempio, che
quella virtù è propria di Dio, di Cristo o di altri santi, oppure mostran
done
la liceità, giustizia, equità e pietà. Poi passano a mostrarne l’ucilitas, spesso
la necessitas, ossia i vantaggi di ordine spirituale, qual è il premio o la merces
della vita eterna, senza dimenticare ì vantaggi di ordine temporale e
sociale, come la concordia e la pace. Comunque, la utilitas di una cosa
- osserva Quintiliano - si mostra anche quando si dice che è grande,
piacevole e priva di pericoli*.

La possibilitas

Dopo aver messo in rilievo la honestas e l’utilitas, l'oratore che vuole


suadere o consigliare deve mostrare che ciò che esorta è possibile, anzi
addirittura è facile a farsi. L’esortazione a una determinata virtù, infatti,
non sarebbe di alcuna efficacia, se la sua acquisizione risultasse impossibile
o molto difficile. È inutile esortare a fare una cosa, anche se bella e utile,
che appare irrealizzabile o quasi. L’oggetto di una deliberazione, dice
Quintiliano, «o è sicuro che si possa realizzare o non lo è. Se non lo è,
questo rappresenterà l’unico, o comunque il più importante punto in
discussione. Accadrà spesso infatti che prima diciamo che un’idea non si
deve realizzare neppure se si può, e poi diciamo che non si può». Gli
status, abbiamo detto, non erano esclusivi del genere giudiziario, si
potevano trovare anche negli altri due generi. Quintiliano a proposito del
genere deliberativo scrive: «Non è sufficiente comprendere le orazioni
deliberative nemmeno nello stato di qualità, che pure contiene le
questioni tanto dell'onestà quanto dell'utilità. Nell’eloquenza deliberativa,
infatti, trova sovente spazio anche la congettura [ossia la possibilitas]; in
alcuni casi vi si tratta qualche definizione, in altri casi possono rientrarvi
anche questioni legali, specie per le decisioni private, se si questiona sulla
liceità di un’azione»”.
Per dimostrare che una cosa è possibile e si può realizzare, si deve
ricorrere ai loci della quaestio coniecturalis, che Cicerone nelle Partitiones
oratoriae riassume così: «Con chi e contro chi, in che tempo e in che luogo,

5 Quint., inst. or. 8, 26-27.


Tui, 8, 16.
Ivi, 3, 8, 4.
56 N. CIPRIANI

o ancora di quali mezzi possiamo servirci, armi, denaro, alleati e altre cose
che rientrano nel genere delle cause» (quibuscum el contra quos, quo tempore
aut quo loco, aut quibus facultatibus armorum, pecuniae, sociorum earumve rerum
quae ad quamque rem efficiendum pertinet, possimus uti, requuirendum est)". Sì
tratta, come si vede, di loci adatti alle suasoriae, che trattano temi di
interesse pubblico. Per le esortazioni di carattere morale il locus proprio è
sempre quello ex causis, che possono essere diverse a seconda della
concezione dell’uomo e dei suoi rapporti con Dio. Per Pelagio
l’esortazione morale deve poggiare soprattutto sulla convinzione che la
natura dell’uomo è buona e capace di acquisire da sola la virtù, a
condizione che ci sia un serio impegno della persona. Con la volontà, la
diligenza e l’esercizio tutto è possibile, senza bisogno di altri aiuti esterni.
Per Agostino invece il credente più che sulle proprie forze deve fare
affidamento sull’aiuto di Dio e quindi sull’umiltà e la preghiera. Il discorso
sulla possibilità morale, perciò, mette in luce il diverso modo di concepire
l’esperienza cristiana.
L’importanza del tema della possibilità nelle esortazioni è messa bene
in rilievo non solo negli scritti di Pelagio e di Agostino, ma anche di altri
Padri della Chiesa. Un curioso esempio lo abbiamo in una paradossale
interpretazione allegorica, che Ambrogio ha fatto delle parole rivolte dal
re d'Egitto ad Abramo. Secondo il libro della Genesi il re avrebbe detto
ad Abramo: «Che mi hai fatto? Perché non mi hai detto che è tua
moglie, ma mi hai detto che è tua sorella? E così me la sono presa in
moglie. Ora ecco a te tua moglie, prendila e vattene via in fretta» (Gn.
12, 18ss.). Il vescovo di Milano commenta: «Immaginiamoci un
intemperante che, contemplata la grazia della castità e attratto dalla sua
bellezza, pensi di doverla seguire, ma poi, non conoscendo le ancelle che
l’accompagnano quando avanza e l’attorniano quando sopraggiunge,
cioè la temperanza, la modestia, il pudore, la frugalità nel cibo, la fuga
dalla dissolutezza, dalla sfrontatezza, dalla insolenza, la rigorosa
prudenza, l'attenta vigilanza, improvvisamente infiammato o dal calore
dell’ubriachezza o dall’ardore della carne o dalla vista di una bellezza
molto attraente, non può trattenersi né resistere alla legge della carne.
Non dirà forse: «Credevo che seguire la castità fosse più facile: essa
supera la mia capacità di sopportare, supera le mie forze. Si trova
raramente uno che possegga tutte queste virtù. Addio castità, vattene
lontano dai confini dei miei sensi. Torna subito di corsa da dove sei
venuta. Non sopporto la tua presenza, sono tormentato da gravi
difficoltà, penando di trattenerti mentre non ne sono capace». È rivolto

8 Cic., part. or. 95.


IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
57

a colui che lo ha consigliato, che ha cercato di introdurre nella sua


mente l’abitudine della castità, dicendo che non sarebbe stata
una virtù
difficile né impossibile, ma compagna di molti, amica di coloro che sì
dedicano agli studi, conveniente ai volontari, dice: «perché mi hai fatto
questo? Perché non mi hai detto che è tua moglie?», - cioè una che
è
unita non da un legame superficiale ma da un legittimo matrimonio, che
porta con sé una dote ricchissima, ma che reca o gravi pesi del
matrimonio e il provento di una unione gravosa -, ma l’hai chiamata
sorella, non vincolata da alcuna legge e compagna naturale, non superba
e dominatrice in virtù di un diritto fondato sul valore della dote. È così
senza valutarne la gravosità avevo pensato di unirmi a lei e di trattenerla.
Ma ho capito quale pesante fardello l’accompagna. Ecco tua moglie, cioè
ecco a te la tua persuasione, prendila e vattene in fretta. Non voglio che
rimanga davanti a me, nei miei pensieri. Vattene di qui con i tuoi
consigli, con la tua esortazione; vattene subito, torna indietro di corsa:
non sopporto i tuoi indugi, sono in mezzo ai guai; mi basta essere stato
già ingannato»°. È un discorso stilisticamente interessante per la sua
vivacità, ma anche perché illustra in modo curioso l’importanza annessa
al tema della possibilità nei discorsi deliberativi ed esortativi.

Gli exempla

Tra i loci adatti al discorso esortativo non manca quasi mai quello
degli exempla. Oltre agli argomenti di ragione, l’oratore che esorta deve
fare ricorso agli esempi, perché, come osserva Quintiliano, «le
esperienze già compiute guidano molto facilmente gli uomini
all’assenso»!’. Anche Cicerone scrive: «Entrambi (l'oratore che vuole
persuadere e quello che vuole dissuadere), per amplificare la
dimostrazione, abbiano abbondanza di esempi recenti, perché sono i più
conosciuti, o di esempi antichi, perché hanno maggior autorità» (Utergue
vero ad augendum habeant exemplorum aut recentium, quo notiora sint, aut
velerum, quo plus auctoritatis habeant, copiam)''. Gli esempi hanno una
grande forza persuasiva. Basta ricordare come Agostino, durante la crisi
della conversione, dopo aver sentito da Simpliciano il racconto di tanta
gente che aveva abbracciato la vita monastica, si chiedeva: Tu non poteris,
quod isti, quod istae? '?,

° Ambr., Abrah. 2, 4, 17-18.


10 Quint., inst. or. 3, 8, 36.
ll Cic., part. or. 96.
‘2 Aug., conf. 8, 11, 27.
58 N. CIPRIANI

La prosopopea

Nelle esortazioni è frequente il ricorso alla figura di pensiero detta


prosopopea o personificazione. Quintiliano la considerava un elemento
tanto importante nel discorso deliberativo da dare al capitolo, che tratta il
nostro tema, questo titolo: de suasoria el prosopopoeia. Di essa scriveva: «Le
prosopopee mi paiono di gran lunga il genere più difficile, perché in esse
alla restante fatica della suasoria si aggiunge anche la difficoltà di
riprodurre il carattere»! della persona introdotta a esortare o a
dissuadere. La prosopopea, infatti, è una figura di pensiero che consiste
nel mettere l’esortazione o la consolazione sulla bocca di un personaggio
ormai morto o di una realtà astratta (come per esempio la filosofia o la
continenza), che si presenta nelle vesti di una matrona.
Famosa è la prosopopea con cui Boezio apre la sua opera De
consolatione philosophiae. Un esempio meno famoso si trova anche nelle
Confessioni di Agostino. Nel libro VIII egli racconta che mentre nel
giardino di Milano si tormentava nel decidere se convertirsi o no, da una
parte era trattenuto dalle antiche passioni e dall’altra era sollecitato dalla
continenza. Scrive: «A trattenermi erano le frivolezze delle frivolezze e le
vanità dei vaneggianti, antiche amiche mie, che mi tiravano di sotto la
veste di carne e sussurravano a bassa voce: “Tu ci congedi?”, e: “Da
questo momento non saremo più con te eternamente?” E quali cose mi
suggerivano con ciò che ho chiamato “questo e quell’altro”, quali cose
mi suggerivano, Dio mio!... Quali sozzure non suggerivano, quali
infamie! Ma io udivo ormai molto meno che a metà la loro voce. Anziché
contrastare, diciamo così, a viso aperto, venendomi innanzi, parevano
bisbigliare dietro le spalle e quasi mi pizzicavano di soppiatto mentre
fuggivo, per farmi volgere indietro lo sguardo. Così però mi attardavano,
poiché indugiavo a staccarmi e scuotermi da esse per balzare ove tu mi
chiamavi. L’abitudine, tenace, mi diceva: “Pensi di poterne fare a meno?”
Ma la sua voce era ormai debolissima. Dalla parte ove avevo rivolto il viso,
pur temendo a passarvi, mi si svelava la casta maestà della continenza,
limpida, sorridente senza lascivia, invitante con verecondia a raggiungerla
senza esitare, protese le pie mani verso di me per ricevermi e stringermi,
ricolme di una frotta di buoni esempi: fanciulli e fanciulle in gran
numero, moltitudini di giovani e gente di ogni età, e vedove gravi e
vergini canute. E in tutte queste anime la continenza, dico,
non era
affatto sterile, bensì madre feconda di figli... Con un sorriso
sulle labbra,
che era di derisione e incoraggiamento insieme, sembrava
dire: “Non

15 Quint., inst. or. 3, 8, 49.


IL DISCORSO DEI. GENUS DELIBERATIVUM
59

potrai anche tu ciò che fecero questi giovani e queste donne? E gli uni e
le altre ne hanno il potere in se medesimi o nel Signore Dio loro? Il
Signore Dio mi diede ad essi. Perché ti vuoi reggere su di te e non ti
reggi? Gèttati in lui senza timore. Non si tirerà indietro per farti cadere.
Gèttati tranquillo, egli ti accoglierà e ti guarirà”. Io arrossivo troppo,
udendo ancora i sussurri delle frivolezze; ero sospeso nell’esitazione,
mentre la continenza riprendeva quasi a parlare: “Chiudi le orecchie al
richiamo della carne immonda sulla terra, per mortificarla. Le voluttà
che ti descrive sono difformi dalla legge del Signore Dio tuo”»!,

Il finis movendi animos

Il fine proprio del discorso deliberativo o esortativo non è tanto quello


di convincere (persuadere) che una cosa è buona e vantaggiosa, quanto
piuttosto quello di accendere l’animo, per spingere all’azione. L’oratore
che esorta a prendere una decisione o a fare qualcosa non si può
accontentare di insegnare (docere) l’onestà, l’utilità e la possibilità di ciò
che propone. Dopo aver mostrato la bontà e la possibilità della cosa
proposta, gli rimane il compito più importante: spingere (movere) chi
ascolta o legge ad abbracciare la cosa proposta e ad agire. Scrive
Quintiliano: «Quanto ai sentimenti [adfectus], ìl genere della suasoria
richiede che vi si ricorra come in nessun altro; spesso infatti si tratta di
suscitare o spegnere l’ira, e di spingere gli animi alla paura, al desiderio,
all’odio, alla pacificazione. Qualche volta bisogna muovere anche alla
commiserazione sia che dobbiamo persuadere ad aiutare degli assediati sia
che piangiamo la distruzione di una città alleata. Inoltre, nelle assemblee
conta moltissimo l’autorità dell'oratore»". Cicerone da parte sua distingue
il caso in cui si debba incitare da quello in cui si deve reprimere un
sentimento. Se si devono incitare gli animi, suggerisce di ricorrere alle
sententiae adatte a soddisfare le passioni, a saziare l’odio o a vendicare le
ingiustizie subite; se invece è necessario calmare gli animi, si deve
richiamare l’attenzione sull’incostanza della sorte, sull’incertezza del
futuro, sui rischi che si corrono. Questi avvertimenti (admonitiones), osserva
infine, si possono fare in ogni parte del discorso, ma soprattutto nella
perorazione finale".

l1 Aug., conf. 8, 11, 26-27.


'5 Quint., inst. or. 3, 8, 12.
16 Cic., pari. or. 96.
60 N. CIPRIANI

Dispositio e elocutio
zione) del
Cicerone a proposito del principium (esordio, introdu
tivo scrive: «Gli esordi nei discorsi delibera tivi devono
discorso delibera
infatti, non si presenta nell’atto di supplicare il
essere brevi. L’oratore,
uno che
giudice (come avviene nelle controversie giudiziarie), ma come
e propone. Perciò deve proporr e con quale intenzione parla, cosa
esorta
vuole, e di che cosa parlerà, esortando ad ascoltare il suo breve discorso».
Osserva poi che «tutto il discorso deve essere semplice e grave, più
ricercato per le idee espresse che per la forma verbale» (tota autem oratio
simplex et gravis et sententiis debet ornatior esse quam verbis)". La dispositio di
questo tipo di discorso, pertanto, prevede prima un breve esordio, poi la
propositio, accompagnata talvolta dalla divisio, quindi la dimostrazione dei
vari punti sopra indicati (honestas, utilitas o necessitas e possibilitas o facilitas),
rafforzata con gli esempi, e infine una peroratio in forma di esortazione.
Non c’è una narratio come nel discorso giudiziario. Quanto alla elocutio
adatta a questo tipo di discorso, nella parte centrale, dedicata alla
dimostrazione, predomina il genus submissum adatto all’insegnamento
(docere), mentre nella parte esortativa prevale il genus grande, che ricorre
alle figure e alle idee adatte ad accendere gli animi.

Le esortazioni nei Padri

Nei Padri abbondano i discorsi che esortano a praticare le virtù. Ne


ricordiamo solo alcuni. Sulla pazienza abbiamo un discorso di Tertulliano,
di Cipriano e di Agostino, che hanno molti elementi in comune tra loro,
anche se si distinguono l’uno dall’altro per lo stile e il contenuto. Anche
sulla verginità abbiamo numerosi discorsi esortativi: oltre la Exhortatio
virginitatis di Ambrogio e il De sancta virginitate di Agostino, è interessante,
soprattutto dal punto di vista della inventio, la Epistula de castitate attribuita
a Pelagio".
Come primo esempio di discorso esortativo offriamo la struttura del De
bono patientiae di Cipriano". È un discorso realmente tenuto ai fedeli in
tempo di persecuzione.
Esordio: la pazienza è necessaria agli ascoltatori del discorso (81).

7 Ivi, 97.
18 PLS 1, 1464-1505.
19 CSEL 3, 1.
IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
61

I - La vera pazienza non è quella dei pagani ($ 2), ma quella che


abbiamo in comune con Dio ($ 3-5), con Cristo (8 6-9) e con ì patriarchi e
i profeti (10): in questo consiste anche il suo bonum.
Il - L'utilitas, anzi la necessitas, della pazienza risulta dalla condanna del
peccato di Adamo e dalle difficoltà della vita; essa è necessaria per
raggiungere il premio della fede ($12-13); conserva il bene compiuto
($14); suo [rutto sono l’unità e la pace ($15); è necessaria nel dolore e
negli altri mali del corpo per evitare altri mali ($17); gli esempi di pazienza
offerti da Giobbe e Tobia ($18).
III - Il valore della pazienza risplende maggiormente, se si considerano
i mali che reca l’impazienza ($19) (locus a contrario).
Perorazione: «Dopo aver esaminato i benefici della pazienza e i mali
dell’impazienza», l’oratore termina esortando a essere pazienti nelle
persecuzioni e a lasciare la vendetta al futuro giudizio di Dio nell’attesa
fiduciosa del ritorno di Cristo ($20-24).

Epistola de castitate (PLS I, 1464 — 1505)

È uno scritto attribuito a Pelagio, sul quale ho richiamato già


l’attenzione, perché in essa l’insegnamento retorico ha lasciato tracce
profonde proprio per quanto concerne la inventio e la dispositio. Sì
presenta come epistola, e difatti si rivolge a una persona ben precisa, pur
senza farne il nome, ma ha tutti i caratteri del discorso esortativo.
Nell’esordio anzi l’autore esplicitamente dichiara di voler fare
un’esortazione, anche se teme di fare un lavoro superfluo data la virtù del
giovane destinatario”. Dopo aver sottolineato l'importanza della castità
come il fondamento della santità e giustizia, si preoccupa di darne una
definizione per scartare l’idea riduttiva che ne hanno le persone più
grossolane”’; la divide poi in due specie: la castità verginale e quella
vedovile, dichiarando di voler parlare della prima (propositio), mostrandone
prima il bonum e poi il premium (utilitas).

Il bonum della castità

La bontà della castità risulta anzitutto dal fatto che Dio stesso è casto,
quindi amplectenda res homini, quae Deo digna est. Altra ragione che mette in
risalto il bomum della castità sta nel fatto che ne sono dotati i ministri di
e
Dio: nel cielo gli angeli e sulla terra i sacerdoti, che non devono assistere

0 Ep. de castitate 1.
a vi, 2.
N. CIPRIANI
62

nti; infine ricorda che tutti gli


offrire il sacrificio a Dio, se non sono contine
dopo la risurrezione, saranno come gli Angeli e conclude
uomini,
i aliquem exhibere,
l'argomento: vide ergo quanta beatitudo sit, ita se in praesent
iam Sutun temporis
ut el Deo el Dei ministris possit similis inveniri et normam
bonum castitatis”.
possideret *,. Quindi fa una ampli ficatio ad augendum

La possibilitas

della
A questo punto passa a mostrare la possibilitas, anzi la facilitas,
esse custodiam,
custodia della castità: neque enim dicere fas est castitatis onerosam
quae multo diffficilius amittitur quam tenetur. Porta quindi ragioni a conferma
dell’affermazione: difficilius enim a nolente amittitur, quam a volente servatur e
termina dicendo: Quis igitur castitatem servare iam dubitet, cuius bonum pronum
(i.e. facile) non minus videre esse, quam magnum?”.

La utilitas della castità

Infine passa a trattare la utilitas, ma invece di parlare del premio o della


mercede che nel cielo è riservata ai casti, ritiene che non sarà affatto
difficile persuadere non solo i fedeli che sperano nel premio eterno, ma
anche gli increduli e i pagani che devono preferire la continenza al
matrimonio”. E poiché la bontà di una cosa non si riconosce se prima non
si conosce la causa del contrario, ritiene di dover prima enumerare le
miserie del matrimonio: quapropter oportel nos nupliarum prius explicare
miseria sel tunc de singularitatis prosperitate dissere; non quo nuptias haereticorum
more damnare velimus, sed quo eminens virginitatis bonum evidentius
demonsiremus. Quantum sil pudicitiae commodum sentiat qui matrimonii casus
tota intentus mente conspexerit °. Chiaramente qui l’autore della lettera
ricorre al locus communis de nuptiis, sul quale siamo informati da Girolamo,
che da esso aveva attinto tante idee nell’Adversus Iovinianum allo scopo di
esaltare la verginità’. Terminata la infinita serie di disgrazie che possono
capitare a chi si sposa, l’autore fa un’altra amplificatio: cogita ergo quanta
illorum beatitudo quantague felicitas sit, qui ab huiusmodi casibus liberi sint...
quid prodest diligi, quod semper haberi non poterit?"®,

2 Ep. de cast. 3, 1-4,


25 Ivi, 3, 5-6.
24 Ibid.
5 Ivi, 4,1.
% Ivi, 4, 2.
7 Ivi, 4, 3-9.
2 Ivi, 4, 10-13.
IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
63

Dopo aver mostrato così (con i loci intrinseci) la possibilità e l'utilità


della castità, annuncia di voler dimostrare la tesi del bonum castitatis con
l'autorità della Scrittura, ossia ricorrendo ai loci extrinseci: Sed dicis mihi: haec
quidem vera ratio est el experimentis pluribus comprobata, sed mihi non sufficit,
nisi eam etiam Scripturarum auctoritate firmaveris et eorum testimoniis bonum
castitatis ostenderis. Incomincia dagli esempi biblici (accipe ergo legis exempla),
ricordando prima tre esempi dell’Antico Testamento, in cui è
raccomandata la castità”, poi gli esempi del Nuovo Testamento, a
cominciare dal verginale concepimento e nascita di Cristo, la perpetua
verginità di Maria, la castità di Giovanni Battista e dei discepoli,
soffermandosi soprattutto su Cristo, che tutti i cristiani sono chiamati a
seguire e a imitare”. Altra prova della tesi è data dalla dottrina della
Scrittura: Dices forsitan: haec quidem vehemens ratio est, sed exemplis potius,
quam doctrinae consolidatione munitur; ego aulem etiam doctrinae auctoritatem
desidero. Quindi passa a trattare una serie di passi biblici, incominciando da
quello del vangelo, in cui Cristo chiede ai discepoli di rinunziare a se stessi
e a prendere la propria croce per seguirlo“. Tratta poi un altro passo, in
cui gli apostoli, sentendo le parole di Cristo sulle dure esigenze del
matrimonio, gli dicono: Si talis est causa viri cum muliere, non expedit nubere.
E Gesù risponde: Non omnes capiunt hoc verbum, sed quibus datum est... el sunt
spadones, qui seipsos castraverunt propter regnum caelorum (Mt. 19, 10-12).
L’autore pelagiano si impegna a interpretare la frase in modo da
contrastare la dottrina agostiniana della grazia: pensare che la castità sia
un dono di Dio sarebbe ricadere nel fatalismo dei pagani, credere in un
Dio non imparziale, togliere il premio e rendere vana ogni esortazione. Se
non si vuole sbagliare, non bisogna allontanarsi dalla lettera della
Scrittura: verbum dixit datum, non castitatemquam aliunde sperare non possumus,
quia, cum habemus, naturaliter habemus. L'altra frase invece è intesa nel senso
che: Hi ergo soli regnum caelorum accipiunti, qui se possessionis eius causa
castraverunt! Questo, protesta, non vuol dire condannare il matrimonio, sed
tantum regni gloriam illis, non vitam, si tamen omnia mandata servare poterint,
denegasse censetur . È un testo importante, perché vi appare chiara la
distinzione pelagiana tra la vita eterna e la gloria del regno di Dio, che
alcuni studiosi si ostinano a non riconoscere, nonostante la chiara
testimonianza di Agostino.

2 vi, 5, 1-5.
% Ivi, 6, 14.
Sl Tui 7.
3 Ivi, 8, 1-2.
N. CIPRIANI

1 Cor. 7, lss.,
Dopo l’esame dei testi evangelici, passa a commentare
le sue idee sul matrimonio e verginità. Il
testo in cui l’Apostolo espone
lungo, si estende per due capitoli. Incomincia
commento, molto
sulla volontà dell’autore: antequam ad apostoli verba veniam,
chiedendosi
matrimonio] consuleretur
primum quaero quid causae fuerìt, ut de ea re [cioè del
licere nemo dubitaba t, tam naturae testimonio, quam etiam
apostolus, quam celebrare
legis exemplis. Nonostante che la liceità del matrimonio risulti evidente,
tangere (1 Cor. 7,1). La
però, l’Apostolo dice: Bonum est homini mulierem non
ppo
ratio non permette che si riferisca alla donna di altri, come purtro
e
alcuni hanno inteso, ma si riferisce alla propria. Per una miglior
intelligenza del testo, comunq ue, è bene sapere che l’Apost olo tratta
successivamente delle donne sposate, delle vedove e delle vergini. Quanto
alle sposate l’autore della lettera argomenta (locus a minore ad mais): Et si
bonum est homini susceptam iam in matrimonio feminam non contingere, quanto
melius est omnino non nosse. In realtà, l’Apostolo, che aveva invitato alla
astensione, concede l’uso del matrimonio existente necessitate, cioè quando
c'è il pericolo della fornicazione: Morbo igitur fornicationis medicinam
quodammodo apostolus nuptias dedit... ilis tantum concessisse cernitur apostolus
nuptias, quos fornicaturos formidabat ex improvidentia... post orationis
continentiam ad matrimonii usum eos redire permisil, si tamen incontinentiae
necessilas exegisset, per non dare occasione al diavolo tentatore. Segue una
amplificatio: animadvertat ergo prudentia tua, quale bonum sil, quod ab oratione
retrahit, quod a Christi corpore ad tempus removet, prendendosela con quelli
che cercano nella Scrittura passi contrastanti, per sostenere il proprio
lassismo: O humanae pravitatis ingenium! Quando de divitiarum contemptu et de
virginitatis bono agitur, quae in novo testamento praecipue commendentur, ad
vetera exempla confugitur, quando autem de nuptiarum iniemperantiam in lege
veteri evidentius expressa, ad defensionem novi recumunt. Et ita fit, ut inter
utrumque nec novum videantur tenere, nec velus. Îl versetto 1 Cor. 7,7: Sed
unusquisque proprium habet donum a Deo, serve a ribadire l’opposizione alla
dottrina della grazia, perché si virginitas Dei potius dono confertur, quam
propria voluntate, servatur ergo praemio caret. Nullum enim donum est, quod
mereatur premium.
Passa quindi alle vergini, per le quali l’Apostolo dice di non aver
precetti da dare da parte del Signore ma solo consigli (1 Cor. 7,25). È un
testo sul quale aveva insistito Gioviniano per dichiarare superflua la
verginità. Perciò l’autore della lettera ha cura di precisare che il consiglio
non si deve né sminuire né disprezzare, perché viene dal Signore.
L’Apostolo prosegue: Existimo, hoc esse bonum propter instantem necessitalem,

3 vi, o.
IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
65

quoniam bonum est homini sic esse (1 Cor. 7,26). L’esegeta si sofferma a descrivere
le grandi difficoltà che nel tempo presente incontra il cristiano che vuole
davvero seguire Cristo. Il matrimonio rende tutto più difficile! Per questo
si appella alla coscienza del destinatario: Obsecro te... nemo se iam ex eo
christianum perfectum putet, quo eum vulgus magnificat, et quo pessimis melior esse
videatur. Quanto al versetto 1 Cor. 7, 27: Vinctus es uxori? Noli quaerere
solutionem. Solutus es ab uxore? Ne quaesieris uxorem, l’autore ammonisce:
nemo evidentis sententiae intellectum falsa interpretatione corrumpat, nec quisquam
existimet se ex hoc iam huius loci sublerfugisse contemplum, quo eum aliter quam
veritas exigit sentiat. Qui l’Apostolo chiaramente esorta alla verginità: grandis
huius sententiae vis est, quae ita solutum ligari non vult, ut vinclum non patitur
solvi... de illis proprie loquitur, qui esse poterant continentes. L'Apostolo non
proibisce il matrimonio, ma osserva: tribulationem autem carnis habebunt
(1 Cor. 7, 28) e quindi conclude: quid boni iam nuptiis remanet, nescio, quando
etiam in illa substantia tribulantur, in qua sola videbantur habere laetitiam...
L’Apostolo oppone anche la brevità del tempo per escludere il desiderio
del matrimonio e spingere alla verginità almeno per il timore della morte!
Termina il capitolo con un'esortazione alla verginità accennando ai loci
della utilitas e honestas. hoc autem ad utilitatem vestram, non ut laqueum iniciam
vobis, sed ad id quod honestum est (1 Cor. 7, 35). Apostrofa quindi l’Apostolo:
O Apostole! Nec excusatio tua sine nuptiarum morsu profertur; nam si hoc quod
dicis, est utile, ergo inutile erat quod illi desiderabant; et si hoc quod dicis tu
honestum est, quid intelligendum est, quod contra tuam visum fuerit venire
doctrinam? Ricorre a una comparatio: l’Apostolo ha fatto questa esortazione
alla verginità in un tempo in cui sia i giudei che i pagani erani nemici della
castità, cosa avrebbe fatto, se fosse vissuto ai nostri giorni? Maiore, ut opinor,
fiducia luxuriosae voluptatis inpudentiam reprendisset. Conclude l’esegesi
alludendo allo status legalis delle leges contrariae. Sic a nobis intelligenda est
Scriptura, ne alicubi sibi videatur esse contraria ”*.
Nel capitolo XI passa alla confutazione (refutatio) delle obiezioni
avanzate contro la verginità «dai cristiani voluttuosi e amanti più della
lussuria che di Cristo». Costoro si appellano al comando del Creatore:
crescite et multiplicamini, nonché agli esempi dei Patriarchi. Al che l’autore
osserva: Video enim iuxta hanc defensionem non modo virginitatis statum
destrui, verum etiam omnem pudicitiam, nuptiarum quoque modestiam
inpugnari. Nam si vetera nobis exempla sectanda sunt, non solum nubere et
concubinas habere, verum etiam fornicari licebit. Fatta questa premessa,
avverte: Sed antequam per ordinem quae proposita sunt refutemus et, non
convenire iam nobis certa ratione monstremus, illud ante omnia nosse te cupio: ai

34 Ivi, 10.
66 N. CIPRIANI

cristiani non è lecito vivere né come vissero gli uomini ante legem né
co
quelli post legem, perché ora siamo nel tempo della grazia. Nell’Anti
Testamento sono avvenute o sono state dette molte cose in mysterio
futurae veritatis. Per la morale si deve prestare attenzione soprattutto alla
dottrina del Nuovo Testamento”. Risponde quindi a un’altra obiezione:
Quomod stabit mundus, quomodo humani generis origo consistet, sì procreationis
causa non fuerit? La risposta è netta e ironica insieme: Satis provide et
rationabiliter et prudenter! Hoc ergo Christus non vidit, quando omnibus
voluntate castratis generaliter maxime praemium promittendo, omnes sine dubio
esse tales optavit! Neque enim gratiosus aut personarum acceptor fuisse
credendum est, ul eius praemii, cuius aliquantos esse dignos voluerit, non omnes
optaverit. Inoltre, perché preoccuparsi del mondo, in cui siamo solo
pellegrini? Come può un cristiano essere sollecito per il mondo, se Cristo
ci ha detto di odiarlo? Dio ha creato il mondo, non certo perché sia
eterno! Tutto è destinato a passare. Quid ergo ad tuam sollecitudinem revocas
quod in Dei pendet arbitrio? L’Apostolo non pensava certo alla sorte del
mondo quando disse: «Voglio che tutti gli uomini siano come sono io».
Respinte queste prime obiezioni, ritorna alla questione che aveva
interrotto: Revertamur nunc ad illam, quam superius intermisimus quaestionem,
cuìî licet iam satis videatur esse responsum, in eo quo ostendimus, Christianis
exempla veterum non omnimodo posse congruere, sed lucidius est, sì eam per
species singulas personarum obiectam. Riprende la prima obiezione: crescete
e moltiplicatevi. La diversità dei sessi non è stata creata da Dio solo per la
fecondità. Ci sono stati uomini celibi nell'Antico e nel Nuovo Testamento.
Perché non crediamo che già al presente possiamo vivere come dopo la
risurrezione? Giustamente l’ordine di procreare fu dato quando la terra
era deserta, ma oggi a stento ci sostiene! Del resto, colui che diede
all’inizio quel precetto, poi con l’esempio e la parola ha esortato alla
verginità. Infine, molti precetti antichi oggi sono proibiti, come il
matrimonio tra fratelli”, Un’altra obiezione riguarda Abramo che tenne
moglie e tuttavia piacque a Dio e meritò di essere il primo patriarca. La
risposta è articolata: anzitutto, come insegna l’Apostolo, il matrimonio di
Abramo rimanda al mistero di Cristo e della Chiesa; in secondo luogo, il
mondo era ancora deserto; in terzo luogo gli uomini di quel tempo non
erano gravati da tanti precetti, che non potessero osservare pienamente
nel matrimonio, come oggi; in quarto luogo, non poteva essere loro di
pregiudizio una cosa che non era stata ancora sconsigliata né con i

5 Ivi, 12.
% vi, 13.
9” Ivi, 14.
IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
67

consigli né con gli esempi, ma era stata comandata. Infine, se Abramo


piacque a Dio, non avvenne perché ebbe una moglie ma piuttosto
per la
sua obbedienza”.
Particolare importanza è data all’obiezione che viene dall’ammo-
nizione di guardarsi da coloro che proibiscono il matrimonio (1Tim. 43),
di cui aveva abusato Gioviniano per dire che S. Paolo si contraddiceva
quando esortava alla verginità, ma anche i Manichei e i Marcioniti, che
parlavano di un dio del matrimonio e un altro della verginità. Nos vero
eundem confitemur, et non damnamus nuptias, nec incontinentes nubere prohibemus,
sed exemplo Apostoli tam continentibus pudicitiae et castitatis bonum suademus,
quam si qui se incontinentes dixerint, nuptiarum eis remedia concessa ab eodem
Apostolo non negamus ”.
Nell’ultimo capitolo“ abbiamo una lunga esortazione finale con il
ricorso alla figura retorica della personificazione della pudicizia e della
lussuria, ciascuna che invita a mettersi dalla sua parte. Esorta a guardarsi
dalle tentazioni diaboliche, ricordando che è molto stolto certis incerta
praeponere et in sobolis posteritate sperare, se non vuoi rimanere senza figli,
genera per Dei verbum Deo filios: cave enim, ne dum habere carnales filios
concupiscis, ipse Dei filius esse non possis. Ilam magis suadeo progeniem diligas,
quae absque ambiguitate tecum semper in caelestibus sedibus perseveret... Non
temere di offendere i genitori, se non ti permettono di acquisire il
meglio, non ti vogliono veramente bene. In questo caso essi ti sono più
nemici che genitori e comunque dobbiamo sempre preferire Cristo ai
genitori. Il cristiano sulla terra non è mai in pace, soffre sempre
persecuzione, ma se vinceremo, saremo anche coronati. Non devi temere
di essere diseredato, perché avrai una maggiore eredità nel regno dei
cieli. Si Christum diligis, dilige Christi bonum. Si Deum amas, serva in quo vel
maxime Deus gaudetl, serva integritatem, serva pudicitiam, habeto intra te
castimoniam, cuius orationum suffragio tibi, si quid forte deliqueris, remillatur...
Pudiciltia enim omnium bonorum mater est; haec nonnumquam cum prole sua
aut amittitur aut tenetur. L’esortazione termina con l’elogio del giovane
destinatario e l’appello al senso dell’onore: Vicislis senes moribus, et
longaevos animi maturitate superasti. Quid plura? Paene solus es temporibus
nostris, te si luxuria non vicerit, in cuius genere viliorum multiplex origo versatur.

a vi, 15.
39 Tvi, 16.
‘° Tui, 17.
CAPITOLO NONO

LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO

Di questo genere di discorso, detto di controversia, ci siamo già


interessati in generale, parlando sia della distinzione dei tre genera
causarum che degli status rationales e legales. Vediamo ora quali sono i loci
più adatti al discorso di questo genere, in riferimento alle diverse parti del
discorso e agli status.

1. L'exordium

Incominciamo dall’esordio (exordium), che talvolta viene chiamato


anche principium e prooemium (dal greco prooîimion). Nell'esordio l'oratore
non deve avere altro obiettivo se non quello di preparare il giudice (o
l’ascoltatore) a essere ben disposto o favorevole alla propria causa. Ciò si
ottiene se l’oratore mira a rendere il giudice benevolo, attento e disposto a
capire (benevolum, attentum et docile)’. Per quanto concerne i loci adatti a
questa parte del discorso, Cicerone indica che si deve iniziare dalle
persone o dai fatti in discussione, tenendo presente che la persona può
essere quella propria dell’oratore, del proprio cliente, del giudice o
dell’avversario. La captatio benevolentiae sì ottiene parlando dei propri
meriti, della posizione sociale o di qualche virtù, in particolare della
liberalità, del senso del dovere, della giustizia e della buona fede. Negli
avversari al contrario bisogna rilevare i vizi opposti. Inoltre bisogna
indicare ciò che ci unisce ai giudici al presente o nel futuro; se sono stati
suscitati contro di noi sentimenti di odio o di sfiducia, si devono eliminare
o diminuire queste impressioni cancellandole, attenuandole, contrapponendo
i propri meriti o chiedendo pietà. Per essere ascoltati con intelligenza e
attenzione, bisogna prendere lo spunto direttamente dai fatti,
riassumendo il genere e la natura della causa, definendo e dividendo, per
aiutare a comprendere chi ascolta, evitando la confusione delle parti.
L’attenzione si ottiene ancora sottolineando l’importanza del caso trattato
per l’interesse di tutti. Se risultano utili, non si devono trascurare neppure
le circostanze: la data, il luogo, l’arrivo di qualcuno, un'interruzione, una

! Quint., inst. or. 4, 1, 5.


70 N. CIPRIANI

parola pronunciata dall’avversario. Infine valgono per l’esordio tutti i


suggerimenti dati per l’amplificazione’. | -
Secondo Quintiliano la differenza tra l'esordio e | epilogo sta nel fatto
che all’inizio si deve ricercare la misericordia del giudice parcius et
modestius, mentre nella perorazione è lecito dare libero sfogo ai
sentimenti, ricorrendo alla prosopopea, facendo risuscitare i morti e
facendo apparire gli esseri cari agli accusati. Non si deve tuttavia
dimenticare la violenta apostrofe con cui Cicerone aggredisce Catilina
all’inizio della prima orazione, pronunciata contro l’autore della congiura.
C'è un’altra osservazione da fare: alcuni retori distinguono due tipi di
esordio: uno diretto, nel quale si chiede esplicitamente la benevolenza e
l’attenzione; l’altro, chiamato insinuazione, nel quale l’oratore si
introduce furtivamente nell’animo del giudice o perché la causa non è
abbastanza onesta o perché gode di poco favore tra la gente o perché il
giudice è già stato conquistato dalla parte avversa o anche perché gli
ascoltatori sono ormai stanchi. In questi casi si dovrà promettere di avere
le prove e di poter eludere le prove contrarie, promettendo che il
discorso sarà breve. Per facilitare la composizione dell’esordio,
Quintiliano fa la sintesi dei loci propri di questa parte del discorso,
suggerendo agli oratori principianti che «al momento di parlare
l'oratore consideri che cosa sta per dire, davanti a chi, a favore di chi,
contro chi, in quale tempo, in quale luogo, in quale situazione, che cosa
pensa il pubblico, qual è la probabile opinione del giudice, prima che
incominciamo a parlare; infine che cosa desideriamo o che cosa
temiamo»?
Quanto alla elocutio, Quintiliano insegna che nell’esordio non devono
apparire parole rare, metafore troppo audaci, termini arcaici ormai
desueti o usati solo dai poeti. Lo stile però non deve somigliare a quello
dell’argomentazione né a quello della narrazione; non deve essere
neppure troppo ricercato e troppo ornato; deve avere un tono semplice
e naturale: Debet in se continere sententiarum et gravitatis plurimum, splendoris
et festivitatis el concinnitudinis minimunt. Un'ultima raccomandazione riguarda
la brevità dell’esordio, «affinché il discorso non paia cresciuto solo nel
capo e non stanchi i giudici nella parte con cui
deve prepararli».

2 Cic., part. or. 28-30.


*Quint,., inst. or. 4, 1, 28.
‘Ivi, 4,1, 5.
5 Ivi, 4, 1, 58. 60.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
71

L'exordium nelle apologie dei Padri

Abbiamo già accennato alla peculiarità dell’esordio dell’


Apologeticum di
Tertulliano. In esso l’autore ricusa i giudici ordinari, chiamati a dichiara
re
la colpevolezza o l'innocenza dei cristiani, perché sono prevenuti
nei loro
confronti e li odiano per il solo fatto che sono cristiani. Poiché l’odio
chiude la bocca alla difesa, Tertulliano non incomincia per ingraziarsi i
giudici né supplica il loro perdono: nihil de causa deprecatur; il suo obiettivo
è quello di far giungere la voce della verità alle orecchie di tutti attraverso
la via segreta di uno scritto.
Di 10no ben diverso è l’esordio dell’ Apologia di Atenagora. Essa già nel
titolo si presenta come una supplica per i cristiani, perché, come osserva
Quintiliano, quando ci si rivolge agli imperatori per chiedere giustizia, ci si
deve presentare nelle vesti di supplicanti, appellandosi alla loro clemenza
e umanità". In effetti Atenagora rivolge la sua petizione agli imperatori
Marco Aurelio Antonino e Lucio Aurelio Comodo, ricordando le loro
conquiste militari ma soprattutto il fatto che sono filosofi e che governano
il mondo con giustizia. Incomincia il discorso con una vera captiatio benevolentiae.
«Il vostro impero, o grandi fra i sovrani, <è tale che> un popolo si governa
con certi costumi e leggi e un altro con altri e a nessuno di loro a causa
della legge o della paura della giustizia è impedito di amare ciò che fu dei
padri, anche se si tratta di cose ridicole». Ricordate le strane credenze di
alcuni popoli dell’impero, continua: «Sia voi che le vostre leggi approvate
tutti costoro, ritenendo da una parte cosa empia e nefanda non avere
alcuna considerazione di Dio, dall’altra che sia necessario che ciascuno si
rivolga agli dèi che vuole, affinché, per timore della divinità, si tengano
lontani dal commettere giustizia». A questo punto richiama l’attenzione
sull’ingiustizia patita dai cristiani: «A noi invece — e non vi dispiaccia, come
succede ai più, il sentirlo dire — si porta odio a causa del nome. Ma non
sono i nomi meritevoli di odio ma il delitto di castigo o di pena».
Amplifica quindi il discorso, tornando a contrapporre le virtù degli
imperatori e l’ingiusto trattamento dei cristiani: «Proprio per questo,
ammirando il vostro essere uniti, cortesi, pacifici e filantropi verso tutti, i
privati vivono nell’uguaglianza dei diritti e la città, a seconda del loro
merito, godono uno stesso onore, e tutto l’impero per la vostra saggezza
gode di pace profonda. Con noi che siamo chiamati cristiani non vi
comportate allo stesso modo, anzi, sebbene non commettiamo ingiustizia e
proviamo più di ogni altro sentimenti di pietà e giustizia verso la divinità e
il vostro impero, veniamo perseguitati, poiché ci attaccano per il nome».

$ tvi, 5, 13, 6.
72 N. CIPRIANI

L'esordio termina alla fine del secondo capitolo, con la supplica che gli
imperatori siano giudici imparziali: «Mentre mi accingo a comporre
un’apologia della nostra dottrina, è necessario supplicare voi, grandissimi
imperatori, di essere per noi uditori imparziali e di non essere
condizionati, fuorviati da una comune ed insensata diceria, ma di rivolgere
anche alla nostra dottrina il vostro amore per la scienza e la verità. Voi non
commetterete errori a causa dell'ignoranza e noi, liberati dalle insensate
voci dei più, cesseremo dall’essere combattuti».

2. La narratio

Nel discorso giudiziario (oratio iudicialis) la narratio è la parte che di


solito segue l’esordio. Ho detto di solito, perché, come vedremo, non
sempre è presente. In generale la narratio è definita «l’esposizione di fatti
realmente accaduti o che si danno per avvenuti» (rerum gestarum aul ut
gestarum expositio). L'esposizione dei fatti realmente accaduti è quella
propria delle cause civili e delle storie, mentre l’esposizione dei fatti dati
per accaduti è propria delle commedie, delle favole o dei componimenti
che sì declamano nelle scuole. Secondo Mario Vittorino, infatti, ci sono
diversi generi di narratio. Uno è quello, in cui è contenuta la causa stessa
che si discute e la ragione della controversia. Un secondo tipo è quello
estraneo alla causa (extra causam), ma che contribuisce alla causa e sì fa aut
criminationis causa (per stabilire a chi spetta accusare) aut similitudinis
(quando si narra un fatto simile a quello trattato) aut delecialionis aul
amplificationis (quando si fa un racconto solo per rendere più bello e
piacevole il discorso). Questo genere di narratio è considerato una digressio.
C'è infine un terzo genere di narratio, detta extra oratorem, perché è propria
dei poeti e degli storici. Costoro narrano /abulae, se raccontano fatti non
veri né verosimili; narrano storie, se raccontano fatti realmente accaduti in
passato; narrano argumenta, se raccontano fatti inventati ma verosimili,
come avviene nelle commedie o negli exempla ficia’.
Quintiliano osserva che la maggior parte degli autori di retorica
pensano che la narratio sia sempre indispensabile, ma ci sono buone
ragioni per ritenere che sia un’idea sbagliata, In molti casi è sufficiente la
propositio, con cui si dichiara l'oggetto del discorso. Ciò avviene quando
non c’è niente da narrare o perché il giudice conosce i fatti o perché si
tratta di una questione giuridica®. L'apologista Atenagora, per esempio,
terminato l'esordio, scrive: «Ci attribuiscono tre delitti: ateismo, cene

’ Mar. Victorin., exp. in Rhet. 1, 19.


® Quint., inst. or. 4, 2, 4.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
73:

tiestee e unioni edipodee»”, passando subito a respingere le accuse, senza


alcuna narrazione. Questa osservazione è importante, perché molti, che si
interessano al carattere retorico di uno scritto patristico, credono di dover
trovare la narratio in ogni tipo di discorso, mentre, come avverte
Quintiliano, non è sempre presente neppure nei discorsi giudiziari. La
narratio è utile quando la ricostruzione dei fatti costituisce essa stessa una
prova a favore dell’accusa o della difesa. L’accusatore non si limita a
formulare l’accusa (hai ucciso), ma racconta i fatti in modo da provare
l’accusa. Ugualmente il difensore non si limita a respingere l'accusa (non
ho ucciso), ma ricostruisce i fatti in modo da dimostrare la sua estraneità
ai fatti, la legittima difesa o altre circostanze favorevoli. La narratio quindi è
sempre partigiana, cioè è fatta sempre in vista della utilitas causae. Osserva,
infatti, Quintiliano: «La narrazione non è stata inventata unicamente per
informare il giudice, ma soprattutto per portarlo sulle nostre posizioni»,
Quanto alla ratio narrandi, ossia al modo di narrare, tutti i retori
vogliono che la narratio del discorso giudiziario sia chiara, breve e
verosimile, cioè credibile e convincente. La chiarezza e l’intelligibilità si
ottengono anzitutto usando termini propri e non traslati, espressivi, non
volgari ma neppure ricercati o poco usati; in secondo luogo mettendo
bene in luce i fatti, le persone, le circostanze, i luoghi e le cause", ossia
ricercando i loci propri della narratio: quis, quid, cur, ubi, quibus auxiliis,
quomodo, quando. Quanto alla brevità bisogna dire tutto ciò che è
necessario e sufficiente, senza dilungarsi troppo, ma senza neppure cadere
nell’eccessiva brevità, che crea oscurità. Ad ogni modo la virtus più
importante della narratio è la credibilità, che si ottiene se non si dice
niente di inverosimile, se si indicano le cause e le ragioni dei fatti narrati,
se il carattere delle persone si accorda con i fatti che si vuole far credere;
lo stesso dicasi per le circostanze di luogo o di tempo'*. Insomma, nella
narratio del discorso giudiziario devono apparire tutte le circostanze che
saranno sviluppate poi nella probatio”. La differenza tra la narratio e la
probatio sta nel fatto che la prima è una prova presentata sotto forma di
racconto continuato, mentre la seconda è una confirmatio fatta
argomentando a partire dai fatti appena accennati nella narratio". In essa
infine si devono evitare le digressioni, l’apostrofe, ossia rivolgere la parola

* Atenagora, Supplica peri cristiani 3, 1; tr. it. di C. Burini, Roma 1986 (Collana
Testi Patristici 59).
1° Quint., inst. or. 4, 2, 21.
"vi, 4, 2, 36.
12 Fui, 4, 2, 52.
15 vi, 4, 2, 55.
i vi, 4,2, 79.
74 N. CIPRIANI

a persona diversa dal giudice, la prosopopea, l’argomentazione e la ricerca


di emozioni. Anche la elocutio (il linguaggio e lo stile) della narratio
giudiziaria è diversa da altri tipi di nanmatio, soprattutto quella fatta
delectationis causa, della quale Quintiliano dice che 6«va abbellita come ogni
- . . .
altra parte del discorso con ogni grazia e attratuva»

Esempi di narrationes nei Padri

Anche nei Padri s'incontrano i diversi tipi di narratio. Oltre a quella


propria del discorso giudiziario, in cui si narrano i fatti che sono oggetto
della causa, troviamo la naratio che racconta fatti inventati (exempla ficta),
allo scopo di dimostrare qualcosa, come quelli che si leggono in Agostino
(Acad., 3, 15, 34 e 16, 35); troviamo ancora la narratio che racconta fatti
realmente accaduti in passato come esempio morale: vedi Agostino (Ss. 32,
3), in cui è narrato il duello tra David e Golia, per far risaltare la piena
fiducia risposta in Dio dal giovane David.
Nell’Herxameron Ambrogio ci ha lasciato un tipo di narratio vicino a
quello giudiziario, anche se propriamente parlando non lo è, perché ha lo
scopo di mostrare che «spesso i cani fornirono per smascherare i colpevoli
prove così evidenti d’un assassino, che per lo più si suole prestar fede alla
loro muta testimonianza». In essa si possono notare, oltre i loci propri della
narratio, anche le sue virtù: la chiarezza, la brevità e la verosimiglianza dei
fatti narrati. Ecco la narratio di Ambrogio: «Narrano che ad Antiochia, in
una parte della città piuttosto fuori mano, sul far del giorno venne ucciso
un uomo che aveva insieme un cane. Autore dell'assassinio era stato un
soldato che aveva agito a scopo di rapina. Protetto dal chiarore ancora
incerto dell'alba, si era diretto verso un’altra zona. Il cadavere giaceva
insepolto, si era raccolta una folla di curiosi, il cane con pietosi guaiti
piangeva la disgrazia del suo padrone. Ora avvenne che colui che l’aveva
ucciso — come solitamente agisce l’astuzia dell’ingegno umano -, per
assicurarsi una prova d’innocenza contando temerariamente sulla garanzia
derivante dal mostrarsi in pubblico, si accostò a quel circolo di gente che
stava a guardare e in atteggiamento di commiserazione si avvicinò al
cadavere. A questo punto il cane, interrompendo per un istante il suo
lamento doloroso, s’incaricò della vendetta e, afferratolo, lo tenne stretto
e, ripetendo il suo lamentevole guaito quasi a conclusione di quel tragico
evento, strappò lacrime a tutti senza eccezione e conferì credibilità alla sua
dimostrazione, perché in mezzo ad una folla numerosa aveva afferrato

15 Ivi, 4, 2, 103.
16 Jvi, 4,2, 116.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO 75
quello solo senza lasciarlo andare. Di conseguenza, sconvolto perché non
poteva togliere di mezzo un testimone così evidente del fatto invocan
do
motivi di ogni odio, d’inimicizia, di ritorsione, non poté negare più a
lungo il suo delitto»'’,
Un esempio di narratio veramente propria di un discorso giudizia
rio,
invece, si legge nella Seconda Apologia di Giustino. Dopo aver detto
nell’esordio di essere stato costretto a fare questo discorso, Giustino dice:
«Ma vi annuncerò i fatti perché vi sia manifesta la causa di tutto quello che
è accaduto sotto Urbico» e incomincia a narrare: «Una donna viveva con
un marito dedito completamente alla dissolutezza; anche lei, in
precedenza, era dissoluta. Dopo aver conosciuto gli insegnamenti di
Cristo, lei rinsavì e cercò di persuadere il marito a diventare temperante,
presentandogli gli insegnamenti, e annunciando la punizione che sarebbe
avvenuta per coloro che non vivono saggiamente e con mente retta.
Quello, però, persistendo nelle sue scostumatezze, a causa delle sue azioni
si alienò la moglie, ecc.»!'"', Anche Agostino (Ep. 91, 8) offre un esempio di
narratio giudiziaria, in cui narra le violenze compiute dai pagani contro i
cristiani nella città di Calama.

3. Propositio e partitio

Di solito i retori insegnano che alla narratio devono seguire la


propositio e la partitio. Quintiliano, però, afferma che non sempre è
indispensabile fare ricorso alla propositio: «Può succedere infatti che
anche senza la proposizione il contenuto della questione risulti
sufficientemente chiaro, specie se la narrazione termina dove inizia la
questione, al punto che talvolta alla narrazione si unisce la
ricapitolazione generale che di solito si trova nelle prove: “Se questi fatti
si sono svolti come ho esposto, o giudici, l’aggressore è stato sconfitto, la
violenza è stata vinta dalla violenza o meglio l’audacia è stata sopraffatta
dal valore”». A volte la proposizione «è davvero utile, soprattutto quando
il fatto non può essere difeso, e la questione si riduce ad aspetti di
diritto... serve anche nelle cause poco chiare o complesse e non sempre
solo al fine di renderle più trasparenti, ma talvolta anche perchè
facciano maggior impressione sui presenti»". |
Quanto alla partitio, essa è definita da Quintiliano come «la enumerazione
ordinata delle nostre proposizioni o di quelle dell'avversario o di quelle di

‘7 Ambr., Hexameron, 4; tr. it. di G. Banterle, Milano-Roma 1929, 24,


18 Just. Mart., apol; tr. it. di C. Burini, Roma 1986 (Collana Testi Patristici 59).
19 Quint., inst. or. 4, 4, 24.
76 N. CIPRIANI

dissensi. C'è chi la


entrambi». Anche sulla necessità della partitio ci sono
sempre indispensabile per rendere più chiara la causa e il giudice
ritiene
pericolosa, se poi ci si
più attento, mentre alti ritengono che può essere
dimentica di trattare tutti i punti previsti”. Essa comunque deve essere
di
sempre breve, in modo da dire solo ciò che è necessario, senza parole
commento; deve essere anche perfetta , cioè deve enumer are tutte le parti
o trattate.
della causa, indicando gli status e le altre questioni che sarann

Esempi patristici

Un chiaro esempio di propositio e pantitio si ha nell’Apologeticum di


Tertulliano. All’inizio del capitolo IV il difensore dei cristiani annuncia
l’oggetto del suo discorso: de causa innocentiae consistam, nec tantum refutabo
quae nobis obiciuntur, sed etiam in ipsos retorquebo quae obiciunt. Quindi passa
alla pantitio: Respondebimus ad singula, quae in occulto admittere dicimur, quae
palam admittentes invenimur. La propositio e la partitio sono utili non solo nei
discorsi giudiziari, ma anche negli altri tipi di discorsi, soprattutto in quelli
esortativi e nei trattati.

4. La confirmatio

Nel discorso giudiziario la confirmatio o probatio è la parte del discorso,


in cui si dànno le prove di quanto è stato esposto nella narratio e nella
propositio. Anche la narratio, come sì è visto, mira a dare credibilità alla
causa sostenuta, ma lo fa esponendo i fatti, non argomentando.
L’argomentazione, quindi, è l’aspetto peculiare della confirmatio. Gli
argumenta, come abbiamo detto, sono le rationes quae fidem faciunt e che si
trovano nei loci. Cicerone chiama propriamente ratio quella addotta
dall’imputato per respingere l’accusa e che, se non ci fosse, non potrebbe
neppure difendersi; chiama invece firmamentum (armatura) l’argomento
portato contro la ratio e senza del quale l’accusa sarebbe insostenibile”.
Agostino, per esempio, usa il termine firmamentum, per indicare
l’argomento principale e più forte, sul quale si fonda Giuliano d’Eclano
per respingere la dottrina del peccato originale, ossia Ez. 18, 20: «Colui che
ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l’iniquità del padre,
né il padre l’iniquità del figlio». Il conflitto o lo scontro tra ratio e
firmamentum mette in luce il nodo della questione, che Cicerone chiama

Ivi, 4,5, 1-2,


I Cic., part. or. 103.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
77

disceptatio, in cui di solito si cerca che cosa si discute e si deve giudicar


e”,
Naturalmente gli argomenti, usati nella confirmatio, variano a seconda
degli
status causae. la constitutio coniecturalis ha i suoi loci e i suoi
argumenta, diversi
da quelli della constitutio definitiva, iuridicialis, translationis © legalis.

I loci dello status coniecturae o infitialis

Nello status della congettura l’accusato, se è possibile, deve anzitutto


negare il crimine che gli viene addebitato e poi deve ribattere le prove
addotte dall'accusa. L’accusatore, invece, deve esporre gli argomenti che
provano il crimine, sviluppando i loci già accennati nella narratio. Cicerone
riconduce queste prove a due capitoli principali, quello delle causae e
quello degli eventus. Sotto il nome di causa, però, rientrano cose molto
diverse. Da un lato ci sono le cause efficienti, cioè quelle che con la
propria forza (vi sua) producono un effetto: il fuoco produce la fiamma.
Dall’altro lato ci sono le cause che non producono l’effetto vi sua, ma
senza di esse non si ha l’effetto. Per esempio le cause materiali rientrano
in questa categoria: una statua non si può fare senza il legno o il marmo o
un altro materiale. Tra le cause efficienti si distinguono quelle che
agiscono da sole e per sé sole e quelle che dànno solo un aiuto. Per
esempio, i filosofi concordavano nel dire che la sapienza rende felici, ma
discutevano se la sapienza fosse da sola sufficiente a rendere felici. Per gli
Stoici chi è sapiente è senz'altro felice; secondo i Peripatetici per essere
felici sono necessari anche i beni del corpo e in qualche misura anche
quelli di fortuna o esterni. Nel secondo tipo di cause alcune sono in riposo
(quietae): locus, tempus, ferramenta et cetera generis eiusdem, altre in qualche
modo preparano l’effetto (praecursiones) e creano certe circostanze che
favoriscono l’evento. Proprio da questo tipo di cause, che esistono da
sempre, gli Stoici fanno dipendere il destino”. Di tutte queste cause
Cicerone (Pan. or. 10, 34- 11, 40) ha fatto un lungo elenco.
Lo stesso Cicerone nel De inventione parlava di loci ex cawusis, loci ex
personis e loci ex facto ipso. Tra i primi distingueva la impulsio e la ratiocinatio.
Si agisce per impulsionem, quando si agisce per uno scatto d'ira, di odio o di
gelosia; sì agisce invece per ratiocinationem, quando l’azione è premeditata,
per vendicarsi o per rubare. Oltre i moventi, si devono considerare le
persone. La congettura poggia su argomenti verosimili, ossia su cose che
di solito avvengono. Per esempio è verosimile che un giovane possa aver
commesso uno stupro, se è un poco di buono, incline alle avventure, e un

"I Ivi, 104.


! Cic., top. 58-59.
78 N. CIPRIANI

violento. Invece è inverosimile che un bambino o una donna o un vecchio


abbia soffocato con le mani un adulto forte e robusto. Quindi, per trovare
Ja causa di un crimine, bisogna tener presenti anche i loci ex persona, che
abbiamo abbondantemente considerato nel trattare l’elogio: l’età, il sesso,
le forze fisiche, i rapporti di parentela o di amicizia, il carattere,
l’educazione e i costumi, ecc.
Oltre i loci ex causis ed ex personis, nello status coniecturae si devono
esaminare gli eventus, cioè i fatti che hanno preceduto il crimine, quelli
che lo hanno accompagnato e seguito: quid sit ante rem factum, quid in ipsa
re gerenda, quid postea consecutum. Per esempio, se il sospettato di un delitto,
in precedenza aveva espresso qualche minaccia, se da tempo covava un
odio profondo verso la vittima, se qualche giorno precedente il delitto sì
era aggirato nei dintorni della casa o del negozio della vittima; se al tempo
in cui è avvenuto il delitto si sono sentite grida, rumori o si sono visti
movimenti sospetti; se dopo il delitto l’accusato è stato visto fuggire,
pallido o insanguinato, in stato confusionale. Molti sono i loci che si
possono trovare nel compimento del crimine (in gestione negotii): il luogo
(se è solitario o frequentato, lontano o vicino, se è privato o sacro), il
tempo, l’occasione, il modo (prudentia e imprudentia: inscilia, casus,
necessitas), le facultates, cioè i mezzi che facilitano o rendono possibile
un'azione, gli strumenti. Come sì vede, l’esposizione dei loci varia da un
manuale di retorica all’altro, anche se la sostanza è sempre la stessa.
Sul maggiore o minore valore probativo dei loci Cicerone scrive: «I
sospetti sono confermati soprattutto quando nel reo sì trovano motivi di
volere (moventi) e i mezzi per compiere un delitto» (his fere rebus facti
suspicio confirmatur, cum et voluntatis in reo causae reperiuntur et facultates)”'.
Ma sono importanti anche i segni e gli indizi: «Alcuni effetti sono come i
segni del passato e le tracce lasciate dall’azione. Sono essi che fanno
nascere di più i sospetti e sono come i testimoni muti dei crimini». Hanno
maggiore forza probativa delle cause, perché queste possono essere
comuni a tanti che non hanno niente a che fare con il crimine, mentre gli
effetti rimandano solo all’imputato. Gli indizi possono essere diversi:
l’arma del delitto, le orme dei piedi o delle mani, oggi si ricorre all’esame
del DNA, oggetti portati via dal luogo del delitto, telefonate, biglietti
scritti, ecc... Interessante è il consiglio dato da Cicerone: nel caso che non
si troiano indizi l'avvocato accusatore deve insistere sui moventi e sulla
possibilità dell’azione, ricorrendo anche al locus communis: l’accusato non è
così stupido da lasciare i segni in modo da farsi accusare. A questo
argomento il difensore risponde con un altro locus communis. l’audacia si

2 Cic., part. or. 113.


LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
79

allea con la temerarietà, non con la prudenza”. Ovviamente, oltre che con
i loci intrinseci, la causa coniecturalis sì tratta ricorrendo anche ai testimoni
(testes), ma di questi e della loro maggiore o minore credibilità abbiamo
già parlato in precedenza.

La defensio

Abbiamo esaminato gli argomenti che deve trovare l'avvocato che


sostiene l’accusa. Ora vediamo gli argomenti che deve produrre il
difensore. È l’aspetto che a noi interessa di più, perché i Padri non ci
hanno lasciato tanto discorsi di accusa quanto di difesa (apologie).
Cicerone scrive che la difesa deve incominciare togliendo forza
(infirmando) o confutando le cause, e questo si fa ricorrendo al locus ex
personis, dicendo che ci sono i moventi per commettere il crimine, che non
sono di tanta importanza, che sono comuni ad altre persone, oppure che
l’imputato non è come è stato descritto per il suo carattere, la sua
educazione, la sua vita, che non aveva tali passioni o che non erano così
forti. Poi l’avvocato difensore deve passare a confutare gli argomenti
fondati sulle /facultates, dicendo che l’imputato non aveva tante forze, non
aveva i mezzi necessari né aiuti da altri o che le circostanze di tempo e di
luogo non erano favorevoli; deve anche confutare i sospetti suscitati dagli
effetti o indizi, esaminandoli uno per uno e dimostrando che non sono
segni irrefutabili dell’azione e che si potevano trovare anche se non ci
fosse stato il crimine. Infine deve dimostrare che non ci sono testimoni o
che gli eventuali testimoni non sono attendibili”.

La defensio nell'Apologeticum di Tertulliano

Una brillante difesa dei cristiani, accusati di orribili crimini occulti, è


stata fatta da Tertulliano nei capitoli VII-IX dell’Apologeticum. L'apologista
africano per dimostrare la infondatezza delle accuse ricorre ai loci ex
indiciis, ex testibus, insistendo in particolare sulla incredibilità delle dicerie
(fama), ex personis ed ex facultatibus. non ci sono indizi, non ci sono
testimoni, i cristiani per la loro umanità e la loro fede non possono aver
compiuto simili delitti; infine non c’è la prova neanche delle /facultates.
Esaminiamo più in dettaglio i singoli loci.

5 vi, 111-116.
2% Fui, 119-120.
80 N. CIPRIANI

a. Loci ex indiciis

non hanno mai


Le irruzioni, che sono state fatte durante le assemblee,
di trovare prove o indizi: «Ogni giorno ci capita di essere
permesso
nelle nostre
circuit, traditi, colti e bistrattati nelle nosue stesse riunioni,
a cogliere il
stesse assemblee. Ebbene, chi mai di tutti costoro si trovò
le
vagito di un infante? Chi mai fu in grado di fare accertare ad un giudice
labbra sanguinol ente?... Chi mai riuscì a riscontra re nelle mogli alcuna
quali
traccia di immondizia?». Tertulliano qui argomenta ex effectis, tra i
risaltano i signa e gli indicia trattati da Quintilia no (Inst. orat. V, IX).
Inizia dicendo che il signum è una cosa che rimanda a un’altra: il
sangue fa pensare a un omicidio, il fumo a un fuoco; e distingue due tipi
di signum: uno è l’effetto necessario di una causa efficiente, l’altro è un
effetto non necessario. 1 signa del primo tipo in greco sono detti tecméria,
quelli del secondo tipo seméia. È chiaro che se in una causa si presenta il
caso di un tecmérion, il fatto non può essere contestato. Per esempio: se c’è
fumo, c’è stato un incendio; se una donna ha partorito un figlio, è certo
che si è unita sessualmente a un uomo. I signa che interessano le cause
giudiziarie sono soprattutto quelli non necessari, detti in greco eicota € in
latino vestigia e indicia. Questo tipo di segni, avverte Quintiliano, anche se
da soli non sono sufficienti a togliere ogni dubbio, aggiunti ad altre prove
hanno grande forza probativa.

b. Loci ex testibus

Dopo aver negato che siano stati trovati segni o indizi dei crimini dei
cristiani, l’autore dell’Apologeticum passa a negare che ci siano testimoni:
«Chi, essendo riuscito a scoprire simili misfatti, li ha nascosti o sì fece
pagare il silenzio intorno ad essi, pur deferendo i supposti rei al cospetto
dei tribunali? Se sempre ci nascondiamo, quando mai si è potuto divulgare
quel che si suppone che noi commettiamo?». E si spiega meglio. «Diciamo
meglio. Da chi mai avrebbe potuto essere divulgato? Non certo dai rei, ché
è norma comune di tutti i misteri l’impegno assoluto del silenzio. Quale
segreto non avvolge i misteri di Samotracia ed Eleusi? Di quanto maggior
segreto non sarà tutelato quel mistero la cui propalazione incorre
immediatamente nella repressione umana, prima ancora di essere colpita
dalla repressione divina? Se dunque i rei non possono essere essi i
denunciatori di se stessi, dovranno esserlo gli estranei, ma donde mai
sarebbe pervenuta nozione della cosa a questi estranei, dal momento che
anche le iniziazioni più autorizzate tengono lontani i profani e si
sottraggono ai testimoni? Vorrete dire che temono meno la divulgazione
le iniziazioni non autorizzate?».
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO 81
A proposito di queste ultime argomentazioni possiamo osservare
che
esse sono ricavate dal locus ex comparatione e precisamente da quello detto
ex minore ad maius. Sono argomenti frequenti anche in altri scritti patristici,
perciò ci soffermiamo un poco su di essi, Quintiliano scrive: «Si chiamano
argomenti di vicinanza o di confronto quelli che provano le cose maggiori
dalle minori, le minori dalle maggiori, le pari con le pari» (apposita vel
comparativa dicuntur, quae minora ex maioribus, maiora ex minoribus, paria ex
paribus probant). La congettura si può confermare argomentando da ciò
che è più grande: se uno fa un sacrilegio, farà anche un furto; da ciò che è
più piccolo: chi mente facilmente e in pubblico è capace di fare anche
uno spergiuro; o da ciò che è uguale: chi ha ricevuto denaro per dare un
giudizio favorevole, lo riceverà anche per fare una falsa testimonianza.
Tertulliano nel passo sopra citato con l’argomento ex minore ad maius
voleva dimostrare che i supposti crimini dei cristiani non possono essere
stati svelati né dagli stessi cristiani né dagli estranei. Esclude che i delatori
possano essere cristiani con questo argomento: tutti i misteri impongono il
segreto per motivi religiosi; se il silenzio viene osservato nei misteri pagani,
come quelli di Samotracia ed Eleusi, che sono ammessi, tanto più viene
osservato dai cristiani, i quali, essendo la loro religione proibita, rischiano
la repressione. Dopo aver escluso che a divulgare quel che avviene nei
misteri cristiani possano essere gli stessi cristiani, dimostra con lo stesso
genere di ragionamento che non è neppure credibile che a divulgare il
segreto siano gli estranei, perché tutti i misteri ammessi (pi) tengono
lontani i profani, tanto più lo fanno quelli non ammessi (impiù), come
quelli cristiani, per il timore delle conseguenze”.

2°? Questo tipo di argomentazione ha grande importanza nella retorica ed ì


Padri lo utilizzano volentieri anche nelle questioni teoriche con la forma tipica di
tanto magis, corrispondente alla forma più nota come a /ortiori. Per esempio,
sempre nell’Apologeticum Tertulliano dimostra ai pagani che non è assurdo credere
alla risurrezione dei corpi, se è vero che molti di loro credono nella
reincarnazione, ossia nella possibilità che un’anima torni ad animare il corpo di un
altro uomo e poi magari di un altro animale. Se è credibile che anime umane si
avvicendino in corpi diversi, è molto più credibile che tali anime tornino nei corpi
precedenti, dal momento che tornare implica essere quello che furono (apol, 48,
2). Un altro esempio: Pelagio nel capitolo decimo della Ep. de castitate: argumenta ex
maiore ad minus (Briefe, Abhandlungen und Predigten aus den zwei letzten Jahrhunderten
des kirchlichen Althethums und dem Anfang des Mittelalter, von Dr.C.P. Caspari,
Christiania 1890), torna due volte su tale concetto. Prima così: £! si bonum est homini
susceptam iam in matrimonio feminam non contingere, quanto melius est omnino non nosse
(10, 2, Caspari, 138); poi, di seguito, argomenta di nuovo: se l’Apostolo ha esortato
alla verginità in un tempo, in cui sia i giudei che i pagani erano ostili alla verginità,
si nostri temporis fiuisset, quid faceret? Maiore, ut opinor, fiducia luxuriosae voluptatis
82 N. CIPRIANI

c. Il locus communis ex fama

Esclusa la possibilità che ci siano testimoni oculari dei crimini occulti


imputati ai cristiani, Tertulliano passa a ribattere l’unico vero argomento
utilizzato dagli accusatori dei cristiani, quello basato sulla fama, ossia sulle
dicerie della gente. La retorica considerava questo argomento un locus
communis, perché ad esso potevano far ricorso sia l’accusatore che il
difensore. La fama, infatti, riguardo all'accertamento dei fatti, può essere
considerata sia in positivo che in negativo. È considerata positivamente
quando le dicerie della gente sono intese come «il consenso della città e
una specie di testimonianza pubblica». È in questo senso che Agostino
intende la fama quando scrive nel De utilitate credendi: «Vedo di non aver
creduto a nessun altro se non all’opinione consolidata e alla fama di gran
lunga diffusa tra i popoli e le genti, popoli che in ogni angolo della terra
sono stati conquistati dalla fede della Chiesa Cattolica»"". La fama è invece
vista in negativo quando — come osserva Quintiliano —- l’avvocato difensore
dice che la fama e le dicerie non sono se non «voci diffuse prive di
fodamento, nate dalla malignità, accresciute dalla credulità, alle quali può
essere esposto anche l’uomo più virtuoso a causa della cattiveria degli
avversari, che raccontano menzogne», come dimostrano tanti esempi del
passato”.
In effetti Tertulliano dimostra che la fama non merita alcuna fiducia
sia per la sua natura menzognera sia per il modo in cui nasce e si diffonde.
Scrive: «Tutti sanno che cos’è la fama. Virgilio dice di essa: “Più veloce di
ogni flagello è la fama”. Perché flagello [malum]? Perché veloce? Perché
denunciatrice o non piuttosto perché è soprattutto menzognera? Neppure
quando la fama porta in giro qualcosa di vero è immune da menzogna,
perché alla verità o toglie o aggiunge o reca alterazioni. Che più? Essa è di
tal natura da non poter durare se non mentendo, perché finché vive e
vegeta, è raccomandata la mancanza di prove. Quando sopraggiunge la
prova, cessa di esistere, perché allora, trasformandosi in messaggera, non
fa più che trasmettere la verità. Da quel momento, infatti, si conserva e si
trasmette un dato di fatto. Allora non si dice più ad esempio: “Dicono che
questo sia accaduto a Roma” oppure “circola voce che quel tale abbia

inpudentiam repressisset (10, 13, Caspari, 148). Anche Agostino ricorre spesso a
questo tipo di argomentazione. Per dimostrare che il dualismo ontologico è
assurdo, argomenta: Nam si nulla essentia, in quantum essentia est, aliquid habet
contrarium, multo minus habet contrarium prima illa essentia, quae dicitur Veritas, in
quantum essentia est (imm. an. 12, 19).
28 Aug., util. cred. 14, 31.
” Quint., inst. or. 5, 3.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
83

tratto a sorte una provincia”, ma piuttosto: “A Roma è accaduto questo”.


Tutto considerato, la fama, designazione di una cosa incerta, non può
coesistere con la certezza. Alla fama non può credere che lo stolto, dal
momento che il saggio crede solo a ciò che è certo. Tutti possono
constatare che comunque vasto sia l’ambito di diffusione della fama,
comunque piena di sicumera sia la sua asserzione, la sua fonte di origine è
legata ad uno solo. Dopo di che essa serpeggia attraverso la ramificazione
di tutti quelli che ne trasmettono l’eco, sicché la deficienza dell’esiguo
inizio infirma così l’espandersi delle vociferazioni che nessuno va più a
riflettere, se la prima bocca che ha parlato non fu seminatrice di
menzogna. Cosa molto più frequente oggi di quanto non si immagini, data
la gara inventiva dell’ingegno umano, data l’istintiva sospettosità, data la
voluttà non rara, al contrario congenita in molti, nel propalare le
memzogne. Per fortuna interviene il tempo a disvelare tutto, come
attestano gli stessi vostri proverbi, le stesse vostre sentenze, essendo
decreto della divina natura che nulla rimanga a lungo nascosto, neppure
ciò che la fama non ha divulgato. Neppure meraviglia pertanto che da
gran tempo ormai solo la fama pubblica si sia costituita testimone dei
presunti misfatti dei cristiani. È la sola denuncia che voi accampate contro
di noi. Ebbene questa denuncia, che già altra volta si propalò e per tanto
tempo ha cercato di tradursi in opinione comune, la fama pubblica non è
ancora riuscita a trasformarla da calunnia in una prova»”.

d. Loci ex personis e ex facultatibus

Dopo aver mostrato che la fama non offre nessuna prova credibile dei
crimini occulti imputati ai cristiani, Tertulliano continua la sue
argomentazioni contro le accuse ricorrendo al locus ex personis e a quello ex
faculiatibus, per dimostrare che non ci sono né i moventi né gli strumenti,
perché i cristiani commettano tali crimini. In primo luogo si appella alla
“voce della natura”, per sostenere che è assurdo pensare che uno possa
commettere crimini così orrendi con la speranza di ricevere in premio la
vita immortale. D’altra parte, tali delitti sono tanto disumani che nessun
uomo ne sarebbe capace. Rivolgendosi a un ipotetico lettore pagano, gli
dice: «Sei anche tu un uomo come il cristiano. E se tu sei incapace di
perpetrare ciò, non devi neppure crederlo di altri. Anche il cristiano è un
uomo come te»°, Quanto alla mancanza di facultates osserva: «Chi desidera
una iniziazione, suole innanzi tutto ricorrere ai gestori di quelle liturgie

“ Tert., apol. 7.
I Tvis.
84 N. CIPRIANI

sacre per concertare i preparativi della cerimonia». L’iniziando avrebbe


dovuto procurarsi un bambino da uccidere, un pezzo di pane da irrorare
con il sangue, «e poi i candelabri, le lampade, i cani e un’offa da offrire
loro perché ne siano attratti sì da rovesciare i lumi» e infine venire con la
propria madre e sorella, per compiere l’incesto. Insomma, le accuse rivolte
ai cristiani sono destituite di qualsiasi fondamento: degli orribili delitti,
loro imputati, non ci sono indizi, non ci sono testimoni, non ci sono i
moventi né gli strumenti necessari per compierli*”.

e. La controaccusa

Non contento della dimostrazione fatta dell’innocenza dei cristiani,


Tertulliano termina la sua difesa con un’ultima argomentazione, quella
della controaccusa o anticategoria. I pagani accusano i cristiani di quei
crimini, di cui si sono macchiati essi stessi. Scrive: «Per confutare meglio
queste indegne vociferazioni, dimostrerò che quel di cui ci accusate è cosa
vostra, parte palese, parte occulta e che forse voi avete creduto di noi tutto
questo male solo perché voi ne siete rei»".

La constitutio iuridicialis

Sui loci adatti allo status definitionis non c’è altro da aggiungere a quanto
è stato detto a proposito della quaestio definitionis. È bene invece indugiare
un poco sui loci dello status qualitatis o iuridicialis. Come abbiamo già
accennato, questo status si ha quando l’imputato ammette di aver
commesso il crimine, ma si difende dicendo di averlo fatto nel rispetto
della giustizia (feci, sed iure feci). In questo caso la difesa si può fare in due
modi: o dimostrando che il fatto compiuto è in se stesso giusto e retto,
oppure, se questo non è possibile, si può dimostrare che si è agito in
circostanze tali e con motivazioni tali che il giudice non può non tenerne
conto nel giudicare i fatti o per assolvere l’imputato o almeno per
attenuare la pena. Nel primo caso si ha la qualitas absoluta ed è la difesa
migliore, nel secondo caso si ha la qualitas assumptiva, così detta perché la
difesa è cercata non nella giustizia del fatto stesso sotto giudizio, ma in una
ragione esterna al fatto.

Ivi 8.
Ivi, 9.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
85

Qualitas absoluta

Quando si tratta della qualitas absoluta, in cui si dimostra la giustizia o la


rettitudine del fatto sotto giudizio, si ricorre ai (loci aequitatis, da cui sì
ricavano gli argomenti per la difesa o per l’accusa. Vediamo dunque
brevemente, seguendo l'insegnamento di Cicerone, quali sono i (loci
aequitatis. Îl diritto (in latino ius) si divide in due parti principali: diritto
naturale e leggi. Ciascuno di questi, poi, tenendo conto dell'origine, si
divide in diritto divino e diritto umano: il primo si fonda sulla religione, il
secondo sull’equità. Anche l’equità secondo la sua origine è duplice: a
volte si appoggia puramente e semplicemente sulla verità e giustizia, o
secondo l’espressione consacrata, su ciò che è equo e buono in sé; a volte
consiste nel rendere il contraccambio o la pariglia, riconoscendo un
beneficio ricevuto o vendicando un’ingiustizia. Tutto questo è comune al
diritto naturale e alle leggi, ma le leggi possono essere scritte e non scritte.
Quelle scritte sono di diritto pubblico (come la lex, il senatus consultum, il
foedus) o privato (come le tabulae, pactum, conventum, stipulatio). Le leggi
non scritte (come lo ius gentium, il mos maiorum) poggiano sulla consuetudo,
convenzioni e per così dire sul consenso tacito degli uomini. I romani
riconoscevano un grande valore alle leggi non scritte. Secondo Cicerone
«il rispetto dei nostri costumi e leggi è in qualche modo prescritto dal
diritto naturale»’!. In conclusione, avverte l’Arpinate, per trattare questo
genere di cause, «bisogna essere preparati su ciò che nel discorso si deve
dire sul diritto naturale [natura], sulle leggi, sul costume degli antenati, sul
dovere di respingere o di vendicare l’ingiuria, e su tutte le parti del
diritto»*,

Qualitas assumptiva

Anche la qualitas assumptiva può assumere diversi aspetti: 1 - si può


cercare di giustificare un'azione oggettivamente criminosa, adducendo il
motivo dell'utilità: feci, sed profui. Questo genere di difesa si dice comparatio
o compensatio. Esempi: ammetto di aver mentito, ma per il bene della
famiglia; ammetto di aver ucciso, ma per liberare la città dai nemici o lo
stato dall’oppressione di un dittatore. 2 - Un altro tipo di qualitas
assumptiva è la cosiddetta relatio criminis, in cui si cerca di giustificare un
crimine addossando la responsabilità alla vittima (feci, sed meruit reus).
Esempi: l’accusato si difende affermando di essere stato provocato, di aver

3 Cic., part. or. 129-130.


Sui, 181.
86 N. CIPRIANI

subito un'’estorsione, usura, stupro, ecc. dalla vittima; 3 - Un terzo tipo di


qualitas assumptiva sì chiama remotio criminis e si ha quando l’accusato si
difende facendo ricadere la responsabilità del fatto su un altro. Esempio:
un militare, accusato di aver ucciso dei civili innocenti, si difende dicendo
di aver obbedito a un ordine di un superiore.
Oltre a questi tre tipi di difesa, ce ne sono altri meno forti, che
rientrano nel concetto di concessio: a - con la purgatio si ammette di aver
commesso il fatto, ma si respinge la colpa, scusandosi di aver agito con una
voluntas condizionata dalla imprudentia a motivo della inscitia, necessitas o
casus, b - con la deprecatio non sì difende né il fatto né la volontà, ma si
chiede soltanto perdono, facendo appello all'umanità del giudice".

La constitutio iuridicialis nei Padri

Una difesa fondata sulla qualitas absoluta sì può riconoscere nell’ Apologeticum,
quando Tertulliano respinge l’accusa di lesa maestà rivolta ai cristiani,
dimostrando che essi giustamente non partecipano agli atti di culto per gli
imperatori, in primo luogo perché è iniquo costringere al sacrificio
uomini liberi.contro la loro volontà”; in secondo luogo perché sarebbe
giustificata l’accusa del delitto di lesa maestà, se gli angeli o i demòni, per
natura spiriti malvagi, operino qualcosa di buono o abbiano la virtù di
salvare, oppure se i morti possono garantire i vivi. «Se ci si accusa di
dispregio della maestà imperiale è semplicemente perché non li beffiamo,
pregando per la loro salute visto che questa salute non può essere davvero
in mani foggiate col piombo»"®,
Una specie di difesa di qualitas assumptiva della menzogna a motivo di
una compensatio è adombrata e respinta nel De mendacio di Agostino. Egli
scrive: «Stabilire se un’affermazione che giova a un altro non nuoccia a chi
la dice o non gli nuoccia, perché il danno è compensato dal vantaggio che
reca al prossimo, è una grande questione. Se fosse vero questo, ne
seguirebbe che uno può anche procurare vantaggi a se stesso con una
menzogna che non nuoce a nessuno. Sono questioni collegate tra loro; e
se le si accetta, ne derivano conseguenze che lasciano molto sconcertati»”.
Una difesa fondata sulla concessio, nella duplice forma di purgatio e
deprecatio, è fatta da Ambrogio nella Seconda apologia di David", dove insiste

% Ivi, 129-130.
” Tert., apol 28.
% Fui, 29, |
*% Aug., mend. 12, 19.
*° Per la traduzione italiana vedi Ambrogio, Le due Apologie di David, a cura di F.
Lucidi, Milano-Roma 1981.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
87

sulla debolezza propria della natura umana e sulla tentazione a cui sono
esposti i re di abusare del loro potere. Scrive: «È stata proposta alla nostra
attenzione una storia in cui avvengono un adulterio e un omicidio. Infatti
troviamo scritto nel Libro dei Re che David, mentre passeggiava in casa sua,
vide la moglie di Uria che faceva il bagno, se ne innamorò
immediatamente e comandò che gli fosse portata. Poi diede ordine che il
marito della donna, che non aveva alcuna colpa (così almeno ce lo
presenta la Scrittura), fosse opposto ai più feroci guerrieri perché venisse
sopraffatto dalla forza dei nemici. Questi sono i fatti, e nessuno li nega; ma
come possono essere giustificati? Ben a proposito ci ammonisce la lettura
del Vangelo che, anche quando il peccato è evidente, la sentenza del
giudice deve essere improntata ad uno spirito di comprensione e
soprattutto ognuno deve ricordarsi della propria condizione e di ciò che
egli stesso meriterebbe» (2, 5)... «Chi rimprovera il comportamento
specifico, consideri la comune condizione umana. Il comportamento
specifico, infatti, è inerente all’azione particolare, la comune condizione è
caratteristica della natura. Non c’è motivo di scandalo, allora, quando un
comportamento specifico rientra nella genericità di una condizione
comune. Riconosco, infatti, che David fu un uomo e non mi scandalizzo
più: so che è della condizione umana che l’uomo pecchi. Non è di oggi la
debolezza [infirmitas] nella natura umana, ed è più strano che un uomo sia
privo di peccati, che non il cadere nella colpa. Certo, il giusto David peccò
(ve lo dico senza mezzi termini), commise un adulterio e premeditò un
omicidio, lo premeditò e lo condusse a termine. Peccò, come sono soliti
fare i re, ma si pentì e pianse, cosa che i re in genere non fanno. Chiese
perdono, non reso arrogante dal potere, ma conscio della sua debolezza.
Prostratosi a terra, si coprì di cilicio, dimentico della dignità regia e
memore della sua colpa» (3, 7). «Sui motivi che giustificano la
comprensione e il perdono per il peccatore ritorna ancora più tardi: “In
tutti gli uomini la natura è facile a cadere e incline al peccato; è occasione
di colpa, anche per l’uomo di morigerati costumi, un potere senza limiti e
la possibilità che esso offre”... Non c'è quindi da meravigliarsi se anche
David peccò per una erronea concezione del potere, ma molto più degno
d’ammirazione è il fatto che egli sia stato riportato sulla retta via per
merito della fede» (3, 9).

5. La refutatio e le opere polemiche

nella
Abbiamo parlato fin qui della defensio, che consiste interamente
confutazione (refutatio) delle accuse, fatta dall'avvocato difensore. Cc è però
un altro tipo di confutazione, che è comune alle due parti in causa
e difensore) e nel quale, oltre che rispondere alle accuse,
(accusatore
88 N. CIPRIANI

l'oratore fa anche la critica (reprehensio) del discorso dell’avversario.


Quintiliano tratta ambedue i tipi di confutazione, prima la semplice
defensio" e poi la refutatio vera e propria”. In questa seconda parte l’antico
retore fa osservare che nella refutatio vera e propria l’oratore, sia che accusi
sia che difenda, deve in primo luogo esaminare come devono essere
confutate le affermazioni dell’avversario. Se ciò che è affermato è
palesemente falso, è sufficiente negarlo. Non richiede neppure grande
abilità riprendere le affermazioni palesemente superflue e contraddittorie.
È invece proprio di un abile oratore scoprire nel discorso dell’avversario le
contraddizioni meno evidenti, rilevare le cose dette estranee alla causa,
quelle incredibili e quelle che addirittura sono sfavorevoli alla causa
sostenuta‘, Deve inoltre rimproverare (reprehenderée) all’avversario l’oscurità
del suo discorso, la mancanza di eloquenza, l'ignoranza e le insulsaggini;
deve irriderlo e renderlo inviso ai giudici; se è utile alla causa, deve
ricorrere persino agli insulti (convicia © contumeliae) più aspri; altre volte,
per attenuare l’asprezza del conflitto, può ricorrere all’ironia e allo
scherzo. Sempre, comunque, deve rimproverargli di aver taciuto
furbescamente qualche argomento scomodo, che lo ha abbreviato, oscurato
o differito".
In questo secondo tipo di refutatio, come si può vedere, non solo
vengono respinti gli argomenti dell’avversario, ma viene criticato tutto: la
lingua e lo stile del suo discorso, la sua persona, le sue origini, la sua
educazione. L’avversario è considerato il nemico da abbattere; la disputa è
intesa come una sfida e un duello personale, che bisogna vincere,
ricorrendo a ogni mezzo. Ci troviamo, insomma, dinanzi a un discorso
chiaramente polemico, dal carattere “agonistico”.

Il genere polemico nei Padri

Se si eccettua l’Apologeticum di Tertulliano, dal tono piuttosto aspro, le


apologie dei Padri non hanno un tono aggressivo. In qualche caso, anzi,
quando sono rivolte agli imperatori, assumono addirittura un carattere di
supplica, come quella di Atenagora. Ben diverso, invece, è il tono delle
opere polemiche che i Padri hanno scritto contro gli eretici. In queste
opere è fortissima l'eco dell’insegnamento retorico, che era stato ben
assimilato nelle esercitazioni o declamazioni scolastiche. Lattanzio, come

*! Quint., inst. or. 5, 13, 1-14.


Ivi, 5, 13, 1541.
‘3 1vi5, 13, 15-17.
“Ivi, 5, 13, 3841.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO 89

abbiamo già ricordato, riconosceva apertamente che «l’esercizio di quelle


liti fittizie (della scuola) molto ha contribuito a ché ora peroriamo la causa
della verità con maggiore facondia e ingegno oratorio», Anche Girolamo
ricorda le controversie e le declamazioni scolastiche'’, Persino nel Dialogo
contro i Pelagiani ricorda le controversie giovanili e le varie parti del discorso”.

La polemica di Giuliano d'Eclano"

Un'eco vivissima delle controversie scolastiche si coglie nella polemica


antiagostiniana di Giuliano d'Eclano. Egli ricorda la pratica scolastica del
certaminis ludicrum di attaccare tesi inoppugnabili soltanto come esercizio
dimostrativo della propria erudizione”; riferisce gli argomenti nel tipico
stile delle controversie tra i fautori e gli oppositori della medicina”; ci
offre una vivace rappresentazione di un immaginario duello oratorio tra
Agostino e Mani, mentre egli, insieme a tanti altri, assiste divertito allo
spettacolo, in attesa dell’esito del conflitto, pronto ad applaudire il
vincitore e a deridere lo sconfitto", Quanto fosse radicato lo spirito
“agonistico” in Giuliano e quale influsso abbiano esercitato su di lui le
controversie si può constatare anche nei frammenti e nelle notizie, che
abbiamo dell’Ad Turbantium. Qui Agostino veniva esplicitamente invitato a
disputare con lui alla presenza di giudici dotti, giacché, diceva, in una
causa iudicialis deve essere tenuto lontano lo strepito della folla, degli
artigiani, dei soldati, dei giovani studenti e gente simile, perché quello che
conta è la prudentia, la eruditio e la libertas di pochi. Davanti a un simile
consesso, naturalmente gli applausi dei presenti andrebbero tutti a
Giuliano, mentre Agostino confuso non saprebbe più cosa fare, dove
rifugiarsi, come rispondere”. 1 termini costantemente usati da Giuliano
per indicare e qualificare la disputa che l’oppone a Agostino su temi di
teologia, come il peccato originale e la grazia, sono conflictus, certamen,
concertatio, causa: sono gli stessi termini usati da Cicerone per indicare il
genus iudiciale. La disputa teologica è da lui vista come un ideale processo
di appello contro la sentenza emessa da papa Zosimo nei confronti dei

15 Lact., div. ins. 1, 1, 10.


*5 Hier., exp. ep. ad Gal. 2, 11-18: PL 26, 340.
*‘7 1d., Dialogus adv. Pelagianos 1, 28: PL 23, 540. o |
‘8 Per un’analisi più ampia della polemica di Giuliano vedi N. Cipriani, Aspetti
letterari dell’Ad Florum di Giuliano d'Eclano, in Augustinianum 15 (1975), 125-167.
*° Giuliano, in Aug., c. Jul. imp. 4, 75.
0 Tui, 5, 47.
5! vi, 6, 14.
? Aug., c. Tul. imp. 3, 10, 34-35.
9% N. CIPRIANI

(examen, concilium) sempre


Pelagiani, e in sostituzione di un altro processo
invocato e mai ottenuto. In tale dibattito, fa notare, egli si è assunto
l’onere più pesante che mai sia gravato su un fedele, quello cioè di
difendere la giustizia divina e la verità. Agostino naturalmente è
l’adversarius che ha assunto il patrocinio della Manichaeorum opinio, una
causa tanto volgare da far seriamente dubitare dell’intelligenza e
dell’ingegno del suo difensore. In sintonia con simile impostazione
avvocatesca assume le vesti del combattente che sfida l’avversario a duello;
lo rimprovera di non essersi curato di conoscerlo prima della zuffa; fa
mostra di non ritenerlo alla sua altezza. Sempre nell’ordine di queste
immagini stereotipate di duello oratorio, Agostino è presentato come il
Numida che “armato alla leggera” si fa incontro alla schiera pelagiana;
oppure è rappresentato con compiacimento inseguito per tutto il campo
della disputa, senza che riesca a trovare un luogo dove fermarsi, perché ne
viene scacciato subito dalle armi della nemica verità e che infine trova
rifugio in una grotta scavata da mani tra le oscurità delle questioni.
Giuliano non si accontenta di dimostrare l’ortodossia delle tesi pelagiane e
il manicheismo di fondo del pensiero agostiniano, vuole distruggere il
prestigio morale e culturale, di cui il vescovo di Ippona gode nel mondo
cristiano: «Mostrerò in breve in quale abisso di ignoranza tu giaccia, tu che
eri stimato finora sottilissimo e acutissimo».
A questo atteggiamento di sfida oratoria obbediscono tanti aspetti
della polemica di Giuliano nell’impostazione generale dell’opera, nelle
argomentazioni e soprattutto nelle amplificationes. Il tipo più frequente di
digressione è costituito dai convicia o contumeliae, dalle battute ironiche e
sarcastiche. L'asprezza del dibattito è l'aspetto che maggiormente colpisce
i moderni lettori e che tanto addolorò Agostino. All’inizio del Contra
Tulianum egli scrive: «Se dicessi, o Giuliano, che non mi curo delle ingiurie
e degli insulti, dei quali acceso d’ira hai riempito i quattro libri, direi una
menzogna. Come potrei non curarmene, quando pensando alla
testimonianza della mia coscienza sento di dovermi rallegrare per me e
addolorarmi per te e per quanti sono ingannati da te? Chi mai disprezza
l’oggetto della propria gioia o del proprio dolore?». Senza pretendere di
giudicare la responsabilità morale del vescovo di Eclano e senza
minimizzare la intenzionalità delle sue offese, spiegabili almeno in parte
con la certezza di difendere la verità e con l’esacerbazione dell’animo
prodotta dalla condanna papale e dallo sconforto dell’esilio, non mi
sembra del tutto azzardato riconoscere in questo atteggiamento l’eco
dell’insegnamento retorico e della pratica delle controversie scolastiche.
Abbiamo visto come la lode o il biasimo di una persona potevano
costituire un genere particolare dell’eloquenza antica, ma avevano grande
importanza anche nelle cause giudiziarie, come abbiamo sentito da
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
91

Quintiliano. Secondo i retori tutto ciò che concerne una persona può
diventare un locus per l'elogio o il biasimo: la patria, i genitori, il passato,
le doti fisiche e morali, le capacità intellettuali e le opere realizzate. È
quanto vediamo fare da Giuliano. Agostino viene insultato per la sua
origine: egli è il poenus orator, il poenus scriptor, il tractator poenus, |’ Aristoteles
poenorum o semplicemente il Poenus e il Numida. Non contento di
attaccarlo per la sua origine punica o numidica, lo insulta avanzando
malevole insinuazioni sulla madre, approfittando di quanto si legge nelle
Confessioni. 1 convicia più frequenti però riguardano la persona stessa di
Agostino: è oltraggiato per la sua vecchiaia, per il suo passato di peccatore,
al quale viene associato l’amico Alipio, chiamato vernula peccatorum eius,
viene tacciato di sfrontatezza nel mentire, di ignoranza, di impudenza, di
ottusità mentale («sei meno acuto di un pestello»), di empietà e di paura. I
suoi libri sono giudicati oscuri, difficili e orribili, facilmente confutabili e
degni di essere cancellati e distrutti. Agostino non è solo manicheo e
traducianista, è peggio di Mani; è marcionita; giunge fino al ridicolo di
apostrofarlo: Epicure nostri temporis. Lo paragona ai Cinici, lo chiama
giovinianista e apollinarista, lo accusa di lusingare i bassi istinti popolari.
L'obiettivo che si prefigge è trasparente: come un avvocato in tribunale
vuole suscitare disistima, odiosità ed ira nei confronti dell'avversario e
nello stesso tempo conciliarsi la simpatia dei lettori, mostrando la dignità e
la santità della causa da lui difesa e presentando se stesso come il
campione della verità, vittima di soprusi.
La polemica di Giuliano, oltre che dei precetti dei retori e delle
abitudini acquisite nelle esercitazioni scolastiche, risente anche
dell’imitazione dei modelli classici e cristiani. Nel proemio del libro
quarto dell’Ad Florum, a proposito della dispositio dell’opera, troviamo un
richiamo esplicito alla solemnitas scribentium, aì magna ingenia € ai prisca
nomina. In effetti, nell’Ad Florum, l’opera confutata da Agostino nell’ Opus
imperfectum, ì libri presentano una struttura che chiaramente si ispira ai
classici. L'opera incomincia con un proemio, in cui si ritrovano tutti gli
elementi fissati dalla tradizione letteraria classica: il tema, l’allusione alla
promessa fatta in un’opera precedente, brevi cenni ai sentimenti e alla
situazione personale dell’autore, il nome del destinatario e l’invocazione
«affinché la penna, sotto il patrocinio di una così
di favorire l’opera,
generale
grande autorità, scorra più sicura e felice»’”. Finito il proemio
avversario:
dell’opera, passa con una formula alla confutazione dell
un apostrofe,
Adtoniti ergo, quid contra me scripserit, audiamus, seguita subito da
non potrebbe essere: Quousque simplicitati, qui haec
che più ciceroniana

55 Giuliano, in Aug., c. Jul. imp. 1, 2.


92 N. CIPRIANI

loqueris, religiosorum pectorum et imperitis auribus perstabis illudere? Quem ad


finem sese impudentia effrenata iactabit? Nihil te, cum haec scriberes, censura
doctorum virorum, nihil reverentia futuri iudicii, nihil ipsa litterarum monumenta
moverunt? Patere iam fallaciam tuam et deprehensam teneri non vides? Quid in
primo, quid in secundo opere conscripseris, quem nostrum ignorare arbitranis? È un
evidente plagio dell’esordio della prima catilinaria di Cicerone, che
Giuliano però non manca di sottolineare: Libuit enim prorsus et decuil his te
compellare modis, quibus in parricidam publicum eloquens consul infremuit”'.
Giuliano, infine, non si ispira solo ai classici, ma anche agli autori
cristiani e in particolare ai libri polemici di Tertulliano e Girolamo. Lo
scrittore cartaginese ha un ruolo di primaria importanza non solo nella
formazione della lingua latina dei cristiani, ma influisce fortemente su
tutta la letteratura e la teologia latina. Egli fu il maestro non solo di
Cipriano, che esplicitamente lo riconosceva, ma anche dei successivi Padri
latini. In particolare lasciò ai posteri insuperabili modelli letterari nella
polemica teologica: Adversus Marcionem, Adversus Hermogenem, Adversus
Valentinianos, Adversus Praxean.

La polemica dell'Adversus Marcionem di Tertulliano

L’iniziatore della polemica latina è senza dubbio Tertulliano. Un


esempio è dato dall’Adversus Marcionem, il cui carattere retorico e agonistico
si manifesta continuamente e in diversi modi. L’eco dell’insegnamento
retorico risuona chiaro e forte nell’uso dei termini tecnici, concernenti le
quaestiones, gli status e le argomentazioni. Così all’inizio dell’opera
Tertulliano indica la quaestio principalis, in cui è racchiuso tutto il
contrasto”; poi accenna alla quaestio coniecturalis (an sit e unde sit) e alla
quaestio qualitatis (qualis sit)"; nel terzo libro segnala lo status causaé” e nel
quinto lo status legalis scripti et voluntatis®. Anche le argomentazioni sono
per lo più retoriche, come ha fatto notare R. Braun: dalla praescriptio, alla
praestructio 0 praemunitio, le argomentazioni ex nota, quelle a minore ad
maius, quelle che rivelano le contraddizioni dell’avversario, fino alle
ritorsioni delle accuse.

Si Tui, 1, 22.
5 Tert., Adv. Marc. 1,3, 1.
6 vi, 1,7, 135, 1,1.
57 Jvi, 3,6, 1.
58 vi, 5, 12, 5.
5% R. Braun, Introduction è Contre Marcion, SCh 365, 45-51.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
93

Anche Tertulliano considera il dibattito teologico una contesa


(contentio), uno scontro (congressio) o un alterco (altercatio)”. All’inizio del
primo libro dichiara che «il punto principale e l’intero combattimento
concerne il numero degli dèi». Il verbo congredior, affrontarsi o azzuffarsi,
ritorna qualche pagina dopo per annunciare il passaggio a un altro
argomento”. Poi getta la sfida all’avversario: «Su, dunque, di nuovo al
posto di combattimento!»°. Anche all’inizio del terzo libro avverte: «Da
questo punto comincio la lotta»; poco dopo precisa: «Questi potrebbero
essere 1 primi argomenti, come una scaramuccia, quasi da lontano. Ma da
ora in poi ho intenzione di lottare su precisi argomenti e per dire così a
corpo a corpo»"'. Il discorso non è quasi mai impersonale, raramente sì
rivolge al lettore; quasi sempre apostrofa l’avversario, sul quale riversa ogni
sorta di insulti: Marcione non è solo un eretico, è un eretico
sciocchissimo” e sciaguratissimo; è un eretico barbaro”; è l’anticristo”; è
un armatore del Ponto“ e soprattutto è uno stupidissimo uomo del
Ponto. Bersaglio del sarcasmo del polemista, infatti, non è solo la
persona dell’eretico, ma anche il suo paese natale: paese barbaro e
inospitale, che per ironia della sorte, è chiamato Ponto Eussino, cioè
ospitale.
Per illustrare lo spirito aggressivo di questo genere letterario, credo che
non ci sia niente di meglio che leggere lo psògos, cioè la vituperatio, che sì
trova all’inizio dell’opera. È un brano molto significativo per il nostro
discorso. Tertulliano irride Marcione a motivo della sua patria. Il Ponto
viene biasimato prendendo lo spunto dal nome (locus ex nota), dalla sua
posizione geografica (locus ex situ), dalla rozzezza degli abitanti, dal clima,
ma soprattutto dal fatto che vi è nato Marcione, biasimato a sua volta con
una serie di comparationes con animali feroci. Scrive: «Il Ponto, dunque, a
cui la natura nega di essere eussino, è preso in giro dal suo stesso nome.
Del resto, tu non potresti considerare ospitale il Ponto neppure basandoti
sulla sua posizione geografica, a tal punto è lontano dai nostri lidi più
civili, quasi vergognandosi della sua barbarie. Vi abitano genti ferocissime,

V Tert., Adv. Marc. 1, 9, 6.


1 vi, 1,7, 7.
2 Jvi, 1,9, 2.
3 vi, 3,2, 1.
vi, 3,5, 1.
65 Tui, 5, 8,7.
co Fui, 1, 10, 3.
“Ivi, 3, 8, 2.
8 vi, 5, 1,1.
9 Tvi, 3, 1,1.
94 N, CIPRIANI

se si può abitare in un carro. Incerta la sede, rozza la vita, i congiungimenti


promiscui e spessissimo nudi: anche quando li nascondono, li nascondono
appendendo le faretre al giogo del carro, perché lo si sappia da questi
segni e nessuno li disturbi. Perciò non si vergognano neppure delle loro
armi. I cadaveri dei genitori li tagliano insieme agli animali e li divorano
tutti insieme a banchetto. Quelli che non muoiono in modo da essere
commestibili hanno una morte maledetta. E nemmeno le femmine sono
mitigate dal sesso in modo da rispettare il pudore: tengono fuori le
mammelle, filano la lana con le scuri, preferiscono far guerra che sposarsi.
La rozzezza viene anche dal cielo. Il giorno non è mai aperto, il sole mai
limpido, unica aria è la nebbia, tutto l’anno è inverno, tutto quello che
spira è aquilone. L'acqua torna tale solo per mezzo del fuoco, i fiumi non
esistono a causa del ghiaccio, l’altezza dei monti è aumentata dalla neve,
Tutto è torpido, tutto è rigido, lì niente è caldo se non la ferocia che ha
fornito i miti al teatro, i miti dei Tauri, degli amori dei Colchi e delle croci
del Caucaso. Ma niente è così barbaro e triste nel Ponto quanto il fatto che
lî è nato Marcione, più orribile di uno Scita, più errante di un Amaxobio,
più rozzo di un Massageta, più audace di un’amazzone, più oscuro di una
nube, più freddo dell’inverno, più fragile del gelo, più ingannevole
dell’Istro, più scosceso del Caucaso. E come no? Presso di lui il vero
prometeo, Dio onnipotente, è lacerato dalla blasfemia. Di più, Marcione è
più insopportabile delle bestie di quella regione barbara. Chi è castoro,
che castra la sua carne, come colui che ha eliminato le nozze? Quale topo
del Ponto è tanto roditore come lui che ha rosicchiato i Vangeli? Davvero
tu, o Ponto, hai prodotto una bestia più inaccettabile dai filosofi che dai
cristiani. Giacché quel famoso Diogene cinico diceva di voler trovare un
uomo, andando in giro con la lanterna, mentre Marcione perse il Dio che
aveva trovato, perché gli spense la luce della fede»”,

Altre opere polemiche

Dopo Tertulliano il più famoso polemista tra i Padri latini è Girolamo,


autore di numerose opere di questo genere letterario: Altercatio Luciferiani
el Orthodoxi, Adversus Helvidium, Adv. Tovinianum, Adv. lohannem
Terosolimitanum, Contra Rufinum, Adv. Vigilantium. Anche Agostino è autore
di numerose opere polemiche sia contro i Manichei che contro i Donatisti,
i Pelagiani, gli Ariani, i Priscillianisti e i Giudei.

”Tert., adv. Marc. 1, 1, 3-5.


LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO

6. La peroratio

Il discorso giudiziario termina con la peroratio, detta anche conclusio e


epilogus. Secondo Quintiliano la peroratio si divide in due parti: una in cui
l’oratore fa la ripetizione degli argomenti (detta anche enumeratio,
recapitulatio, in greco anakephalaiosis), un’altra in cui suscita le passioni
(movere animos). Con la ripetizione si vuole rinfrescare la memoria del
giudice e mettere davanti ai suoi occhi tutta la causa, in modo da far valere
nel loro insieme anche gli argomenti, che presi isolatamente sono meno
forti. La enumerazione deve essere breve, evitando di fare un altro
discorso. Decisivo è il modo in cui si fa: è necessario esporre con più forza
le rationes quae fidem faciunt, ricorrendo alle sententiae adatte e variando le
figure. Se la causa non è lunga e complessa, si può anche evitare di
ricapitolare il discorso. Questa parte della peroratio è comune sia all’accusa
che alla difesa”.
Anche la mozione degli affetti è comune alle due parti, ma in modo
diverso: l’accusa deve suscitare le passioni del giudice, la difesa deve
calmarle. Per suscitare lo sdegno del giudice, l’accusa deve sottolineare la
gravità del crimine, la cattiveria e la spavalderia dell'imputato, il dolore
della vittima e della sua famiglia, la minaccia per la società, se il crimine
non venisse adeguatamente punito, la certezza delle prove: è la parte che
si chiama propriamente indignatio, perché in essa l'avvocato dell'accusa
cerca di suscitare lo sdegno del giudice verso il reo e il suo crimine.
L'avvocato difensore, al contrario, dovrà ammonire il giudice a non
condannare un innocente, se le prove contro l’imputato sono deboli e
incerte; dovrà invitarlo alla pietà e alla comprensione, se il fatto non si può
negare, insistendo sulle cause attenuanti: che non c'è stata premeditazione,
che c’era stata una provocazione; che l’accusato si è pentito, ha ben
meritato in passato, ecc. La parte, con cui la difesa cerca di suscitare la
commiserazione del giudice, si chiama conquestio. Ultima osservazione: la
indignaltio e la conquestio, sì ispirano ai loci del patetico, e si possono trovare
non solo nell’epilogo e nell’esordio, ma anche in ogni parte del discorso,
anche se in forma più breve, facendo una amplificatio”.

7. Argumenta e argumentatio

A conclusione dell'esame dei loci adatti ai diversi status di causa,


accenniamo alle osservazioni fatte dai retori sugli argomenti, ricavati dai loci,

"! Quint., inst. or. 6, 1, 1-2.8.


7 Ivi, 6, 1, 51.
96 N. CIPRIANI

e sulla argumentatio, con cui si fa la confirmatio e la refutatio. Innanzitutto gli


argomenti, ossia le rationes quae rei dubiae fidem Jaciunt, sono di due generi:
necessari e probabili. Sono necessari quegli argoment, in cui la conclusione
segue necessariamente da una premessa certa 0 almeno data per certa. Sono
di tre tipi: complexio, enumeratio, simplex conclusio.
La complexio o dilemma è l'argomento che contiene due proposizioni
contrarie (dette corni), delle quali si lascia la scelta all’avversario, per
convincerlo che ha torto qualunque delle due scelga. Si presenta sotto due
forme: una semplice, l’altra necessaria. Si ha una complexio semplice
quando, per esempio, si dice: si hoc est, cur illud facis? sì illud est, cur hoc
facis? o anche: si inprobus est, cur uteris? Si probus, cur accusas? Si ha invece la
complexio necessaria quando si dice: Aut hoc concedas necesse est, aut illud;
l’anima o è mortale o è immortale; il mondo o è finito o è infinito. Si deve
escludere una terza possibilità.
Si ha la enumeratio, quando esposte più cose ed escluse tutte le altre ne
resta necessariamente una sola. Ecco l’esempio addotto nel Contra
Academicos da Agostino, per dimostrare che qualcosa di certo si può
sempre conoscere: «Anche a me che pure sono lento a capire e ancora
stolto, è permesso frattanto di sapere che il bene ultimo dell’uomo, quello
in cui risiede la vita felice, o è inesistente oppure è nell’animo o nel corpo
o in entrambi». Nessuno può dimostrare che questa proposizione è falsa,
perché esaurisce tutte le alternative possibili’. Un altro esempio tratto
dalla polemica di Giuliano d’Eclano contro la dottrina agostiniana della
trasmissione del peccato originale: Certe non peccat, inquam, iste qui nascitur,
non peccat ille qui genuit, non peccat iste qui condidil: per quas rimas inter tot
praesidia innocentiae peccatun fingis ingressum? Quid potuil, rogo, sanctius, quid
verius, quid lucidius, quid brevius formiusque componi quam posi iria sumpla,
quae inimico concedente susceperam, inferre quartum, in quo erat summa conclusio”'.
Poco dopo fa la stessa argomentazione in altra forma: Te enim dante a Deo
Seri hominem et esse coniuges innocentes ac parvulos per se nihil operari, his tribus
sumptis irrefutabiliter inlatum est...”.
La simplex conclusio si ha quando la conclusione segue necessariamente
la premessa (antecedens), che è stata ammessa. Esempi: se ammetti che nel
mondo ci sono quattro elementi, non ce ne sono cinque. Agostino, dopo
essersi servito di argomenti di questo genere per confutare lo scetticismo
degli Accademici, giunge a questa conclusione: «Tramite la dialettica ho
imparato che queste e molte altre cose, che sarebbe troppo lungo

" Aug., acad. 3, 12, 27.


“ Giuliano, in Aug., c. Jul. imp. 2, 27.
Ivi, 2, 28.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO 97

ricordare, sono vere, vere in se stesse, qualunque sia la condizio


ne in cui si
trovino i nostri sensi. Essa mi ha insegnato che, una volta
assunto
l’antecedente di una delle implicazioni che ho or ora enunciat
o (per
conexionem), esso necessariamente trascina con sé la proposizione
connessa, e che invece le proposizioni da me enunciate nella forma
dell’incompatibilità (per repugnantiam) o disgiunzione (per disiunctionem)
hanno una natura tale che, quando si eliminano le altre componen
ti (che
siano una sola o di più), resta qualcosa che dalla loro eliminazione viene
confermato»”. Anche Giuliano d’Eclano riassume il tema degli argomenti
necessari così: Quid vero consequens, quid repugnans quibusque concessis quid lex
enexpugnabilis et reverenda orationi cogat inferri, nisi doctissimus adtentissimusque
non iudicat”.
Mentre con gli argomenti necessari si perviene a una coclusione
assolutamente certa, con gli argomenti probabili si giunge solo a una
conclusione probabile. Questo avviene quando la premessa o esprime ciò
che avviene di solito, oppure ciò che comunemente si pensa (credibile),
oppure ciò che ha una certa somiglianza con ciò che si vuole provare. Un
esempio del primo genere si ha quando si vede un uomo che barcolla e
sragiona e si conclude che è ubriaco. In questo caso il fatto che uno
barcolla e sragiona è indizio o segno che è ubriaco, perché di solito
avviene così, ma la causa potrebbe essere anche diversa, per esempio la
droga. Altro esempio dello stesso genere: uno viene accusato di omicidio,
perché è stato visto uscire dalla casa dell’ucciso macchiato di sangue e con
un coltello in mano; il sangue e l'arma sono “signa”, indizi, che rendono
probabile l'accusa di omicidio, fanno nascere sospetti, ma non
costituiscono una prova certa. L'argomento probabile si dice, poi,
credibile quando si basa su ciò che si crede comunemente. Per esempio si
crede che non ci sia nessuno che non desideri che i propri figli stiano
bene in salute e siano felici. Questo infatti è quanto di solito desiderano i
genitori per i propri figli. Altro tipo di argomento probabile è quello che
prova una cosa sulla base di quanto è giudicato dalla gente, dall’autorità di
qualcuno o di molti o dalla sentenza di un giudice. Il terzo tipo di
argomento probabile, infine, è quello che prova una cosa facendo una
comparatio 0 una similitudo con una conlatio (parabolò) o un exemplum
(paràdeigma). In questo caso il grado di probabilità della conclusione
dipende dalla più o meno grande somiglianza tra ciò che si vuole provare
e il paragone o l’esempio addotto.

" Aug., acad. 3, 13, 29.


7 Giuliano, in Aug., c. ul. imp. 2, 36.
98 N. CIPRIANI

Dopo aver accennato ai diversi generi di argomenti necessari e


probabili, resta da dire qualcosa sulla argumentatio, che è la explicatio o
expolitio argumenti, ossia la formulazione retorica dell’argomento. Già
Aristotele aveva distinto due diverse forme: la epagoghé o induzione e il
sylloghismòs o ratiocinatio. L’induzione era l’argomentazione frequentemente
usata da Socrate, per portare l’interlocutore ad accettare una conclusione,
avvalendosi di esempi e di analogie. Nella induzione la conclusione è tanto
più probabile quanto più le similitudini o gli esempi addotti sono
appropriati e accettati dall’interlocutore. Ecco un esempio: «Se la
costruzione di un edificio, richiede l’opera di un esperto di architettura; se
la cura di una malattia, richiede l’opera di un esperto di medicina; anche
il governo di una città richiede l’opera di un esperto di politica». Chi
accetta i primi due esempi, deve accettare per analogia anche il terzo.
Quanto alla ratiocinatio, essa è l’argomentazione che da premesse
probabili trae una conclusione altrettanto probabile. Secondo Aristotele
l’argomentazione propria della dialettica è il sillogismo, che da due
premesse verosimili ricava una conclusione ugualmente verosimile.
Esempio: «Tutti gli uomini possono sbagliare, tu sei uomo, quindi anche
tu puoi sbagliare». La retorica, però, per rendere meno arido e pesante il
discorso, rifugge dal rigore dialettico e preferisce forme meno rigide e
varie, come l’entimema o l’epichirema, che sono sillogismi ridotti o ampliati.
Si ha l’entimema quando si tace una delle due premesse del sillogismo o
anche la conclusione, perché si dànno per scontate. Dal precedente
sillogismo si fa l’entimema sopprimendo la premessa maggiore e dicendo
semplicemente: «Sei un essere umano, anche tu puoi sbagliare»; oppure:
«Tutti gli uomini sbagliano e anche tu sei uomo». Si ha invece l’epichirema,
quando a una o alle due premesse del sillogismo si fa seguire una prova
(confirmatio), per poi trarre la conclusione. Ecco un esempio tratto dall’Ars
rhetorica di un retore del terzo secolo: Si ostendero, iudices, ab hoc pulsatum
patrem, dubitabitis ab eo iniuriam extraneo factam? Non opinor. A questa
premessa di per sé probabile l’oratore fa seguire una prova: Etenim multi,
quamuvis petulantes in alienos essent, suis tamen temperaverunt; al vero, qui patrem
non manu dico, sed vuliu tantummodo laesit, quid est quod non audere potest?
Credo existimationem impudentiae verebilur, qui crimen impietatis suscipere non
recusavit, aut leges verebilur, qui parente violato non solum humana, verum etiam
divina iura permiscuit. Fatta questa prova della prima proposizione, arriva
alla conclusione: deinde cum ab hoc pulsatum patrem constet, ab eo non videbilur
aliquid iniuriose circa hominem alienum et extraneum commissum?”°.

"® C. Iulius Victor, Ars rhetorica, XI, Rhetores latini Minores, ed. C. Halm, Lipsia 1863, 412.
CAPITOLO DECIMO

I GENERI LETTERARI

Abbiamo affrontato lo studio dell’arte retorica al solo scopo di facilitare


la lettura degli scritti patristici. Tuttavia, come abbiamo potuto notare,
l’insegnamento del retore, diretto a formare il perfetto oratore, non
prendeva in considerazione se non i discorsi che rientravano nei tria genera
causarum: genere giudiziale, deliberativo e epidittico o laudativo. Ora, la
letteratura patristica non conta solo opere riconducibili a questi tre generi,
come le opere apologetiche e polemiche, i discorsi di esortazioni e di
elogi. 1 Padri hanno scritto opere anche in altri generi letterari, come
biografie, lettere, dialoghi, consolazioni, discorsi funebri, storie, commentari,
che non venivano presi direttamente in considerazione nei manuali di
retorica, ma neppure venivano trascurati del tutto. Ne è testimone
Girolamo, il quale, criticando il suo avversario Rufino, lo invitava a leggere
i libri di retorica di Cicerone, dicendogli: «Allora capirai che in un modo
si compone la storia, in un altro i discorsi, in un altro le lettere, in un altro
i commentari» (tunc intelleges aliter componi historiam, aliter orationes, aliter
epistolas, aliter commentarios)’. In effetti Cicerone in diverse opere non
mancava di far notare la diversa eloquenza propria dei discorsi fatti nei
tribunali da quella epidittica dei sofisti, come pure da quella dei trattati di
filosofia e delle opere di storia". Quando parliamo di generi letterari, però,
non ci riferiamo solo agli aspetti stilistici, ma anche e soprattutto a certi
elementi di contenuto e di forma, che distinguono e caratterizzano un
genere dall'altro. Un accenno più pertinente ai generi letterari Cicerone
lo faceva nel De oratore, quando in riferimento alle obiurgationes (richiami),
cohortationes, consolationes, admonita (ammonimenti) o praecepta (insegnamenti),
osservava che la retorica, pur non riservando ad essi un'attenzione
particolare, non li ignorava del tutto, giacché «in tutte le arti, quando si
sono insegnate le parti più difficili, le altre non hanno bisogno di essere
mostrate o perché più facili di quelle o perché somiglianti». In effetti,
come abbiamo visto, le cohortationes (o esortazioni) non differiscono molto

' Hier,, c. Rufinum 1,16: PL 23.


2 Cic., Orator 19, 62- 20, 68.
3 1d., De oratore 2, 50.
100 N. CIPRIANI

dai discorsi deliberativi né le obiurgationes (rimproveri, biasimi) sono del tutto


estranee ai discorsi epidittici.
La questione dei generi letterari era posta in maniera più esplicita da
Quintiliano, che scriveva: «Si discute se i generi siano tre o più. Non c’è
dubbio che quasi tutti gli scrittori antichi, almeno quelli che godono di
maggiore autorità, si siano accontentati di questa divisione, seguendo
l’esempio di Aristotele, il quale però chiama “concionale” il genere
deliberativo. Tuttavia in passato sono stati fatti dei tentativi sia presso
alcuni greci che in Cicerone nei libri di oratore e ora dal pi