Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
PATRISTICI
18 Nello Cipriani
Roma 2013
SUSSIDI PATRISTICI 18
ISBN: 978-88-7961-113-8
Nello Cipriani
Non è facile per noi oggi valutare nella giusta misura l’importanza
riconosciuta alla retorica nell’antichità greco-romana. Uno storico della
cultura antica, H.-I. Marrou, nella prefazione di una sua opera famosa di
quella cultura dava la seguente definizione: «Una cultura essenzialmente
letteraria, fondata sulla grammatica e sulla retorica e tendente a formare il
tipo ideale dell’oratore»'. Anche un altro storico della letteratura antica a
proposito della cultura antica ha scritto: «Il rapporto fra retorica e prosa
letteraria a Roma era molto più stretto di qualunque cosa concepibile ai
nostri giorni. In età ellenistica e romana la retorica era la forma più alta di
educazione e formazione professionale... sia gli scrittori antichi sia la
maggior parte dei loro lettori erano passati attraverso parecchi anni di
formazione retorica»?.
Di tale cultura possiamo farci un’idea diretta leggendo la lettera che il
senatore Volusiano scrisse a Agostino, per porgli alcune domande e
obiezioni sulla religione cristiana. Prima di esporre i quesiti di carattere
teologico, egli informava il vescovo che in un incontro di amici avevano
discusso sulla partizione della retorica, enumerando e definendo le
singole parti: «Eravamo - dice — parecchi amici riuniti e ognuno diceva la
sua secondo il proprio ingegno e le proprie tendenze. Il tema della
discussione era la distribuzione della materia nel discorso. Parlo con uno
che se ne intende, poiché una volta tu hai insegnato anche questa
disciplina. Si proponevano e si esponevano i seguenti argomenti: in che
cosa consista la forza dell'invenzione, quanta fatica esiga la disposizione,
quanta la grazia dei tropi, la bellezza delle figure e inoltre quale sia lo stile
oratorio appropriato al carattere e alla natura del soggetto. Alcuni erano a
loro volta fautori dell’arte poetica e la innalzavano al cielo»’, Anche
Agostino in una lettera a Nebridio, dopo aver trattato temi filosofici,
! H.-I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1958", 4. Dello
stesso autore ricordiamo un'altra opera importante per la conoscenza della cultura
antica: Histoire de l’éducation dans l’antiquité, Paris 1948.
? A.D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori, storici e filosofi
latini, Bologna 1963, 6.
* Volusiano, in Aug., ep. 135, 1.
2 N. CIPRIANI
‘*Aug., ep. 3, 5.
® Eumenio, Discorso per l'inaugurazione della scuola, 8, 1- 2, in Panegirici latini, a cura
di D. Lassandro e G. Micungo, Torino 2000, 173
‘ Giovanni Crisostomo, Contro i detrattori della vita monastica, a cura di L.
Dattrino, 3, 5, Roma 1996 (Collana Testi Patristici 130), 153.
LA CULTURA ANTICA E LA RETORICA
3
Il corso degli studi era articolato in tre periodi: nella scuola primaria
(ludus litterarius) ì ragazzi dai sette ai dodici anni di età apprendevano a
scrivere e a fare i calcoli con il magister ludi; nella scuola secondaria il
grammaticus insegnava recte loquendi scientiam et poetarum enarrationem ai
ragazzi dai 12 ai 15-16 anni; nella scuola superiore, agli adolescenti dai 15 ai
19-20 anni di età, il rhetor insegnava l’ars oratoria, accompagnando
l’insegnamento teorico con la lettura dei classici, oratori e storici, proposti
come modelli alla imitazione degli alunni, e con diversi esercizi
preparatori. L'obiettivo era quello di sviluppare le doti naturali di
eloquenza, che sono presenti più o meno in tutti gli uomini, fino alla
perfezione mediante l’insegnamento di un sistema di regole e praecepta,
forniti dall’ars rhetorica, e mediante esercitazioni ispirate ai classici.
16 Quint., inst. or. 3, 5, 1: Facultas orandi consummatur natura, arte, exercitatione, cui
partem quartam adiciunt quidam imitationis, quam nos arti subicimus.
17 Platone, Phoed. 269d.
18 ]d., Menone 70a.
!9 Vedi Plot., enn. 2, 9, 15-16.
"0 Cic., part. or. 18, 64.
2” Id., top. 21, 87.
6 N. CIPRIANI
soliti esaminare le loro doti naturali [ingenia] in questi tre punti: memoria,
intelligenza e volontà. Quanto più un fanciullo ha la memoria tenace e
facile, quanto più la sua intelligenza è penetrante ed il suo gusto al lavoro
ardente, tanto più ci si dovrà felicitare delle sue doti naturali... Nella
prima di queste tre cose: capacità naturali, dottrina e uso [ingenium,
doctrina, usus] sì considera di che cosa sia capace ciascuno con la sua
memoria, intelligenza e volontà. Nella seconda, la dottrina, si considera
che cosa ciascuno abbia raccolto nella memoria e nell’intelligenza,
lavorando con amorosa volontà. La terza cosa, l’uso, è proprio della volontà,
che sì serve delle cose contenute nella memoria e nell’intelligenza, sia per
riferirle come mezzi ad altre cose, sia per compiacersi e riposarsi in esse
come in un fine raggiunto»””.
Interessanti sono le osservazioni fatte da Quintiliano sulla maggiore o
minore importanza dei diversi requisiti pedagogici, per raggiungere la
perfezione nell’eloquenza. Nel libro II della Institutio oratoria, dopo aver
presentato la retorica come arte e come virtus, si chiede se per
l’acquisizione della virtù siano più importanti le doti naturali o la dottrina.
La risposta è articolata: «So che spesso si discute se all’eloquenza giovi di
più il talento naturale o la dottrina. Invero, il problema non riguarda
affatto l’oggetto della nostra opera, poiché non si può creare un perfetto
oratore se non sulla base di entrambe le cose; ritengo tuttavia
importantissimo spiegare come vorremmo fosse impostata la questione su
questo punto. Immaginiamo infatti di sottrarre completamente uno dei
due elementi all’altro: il talento naturale [natura] anche se senza la cultura
[doctrina] varrà molto, mentre senza talento non potrà esservi alcuna
cultura. Qualora invece si uniscano dando pari contributo, riterrei che in
oratori mediocremente dotati di ambedue abbia maggior peso il talento
naturale, e che, invece, quelli completi debbano più alla cultura che alle
doti innate». Illustrava le sue affermazioni con un paragone: «A una terra
priva di qualsiasi fertilità anche l’agricoltore più abile non gioverà affatto,
mentre da una terra buona nascerà qualcosa di utile, anche se nessuno vi
metterà mano; ma in un suolo fertile farà di più l’agricoltore che non la
fertilità del terreno per se stessa»””, Erano idee espresse già da Cicerone: i
precetti della retorica, senza le adeguate doti naturali, non saranno mai
sufficienti a fare un grande oratore, ma sono necessari a chi vuole
raggiungere la perfezione oratoria.
Simile alla precedente è la questione trattata da Agostino nel De
doctrina Christiana sulla maggiore o minore utilità degli insegnamenti
teorici rispetto agli esempi orali o scritti di altri oratori. Egli scrive: «A
colui che vuole parlare non solo con sapienza, ma anche con eloquenza,
giacché sarà certamente di maggiore utilità se è capace di
fare ambedue le
cose, raccomando di ascoltare o di leggere e di sforzarsi
di imitare con
l’esercizio gli uomini eloquenti Piuttosto che studiare i maestri dell’arte
retorica»’!. Le ragioni le aveva esposte poco prima: «Se qualcuno ha
ingegno fervido e acuto, imparerà l’eloquenza più facilmente
leggendo e
ascoltando uomini eloquenti che studiando i precetti dell’el
oquenza»,
giacché «non mancano opere ecclesiastiche, leggendo le quali
un uomo
ben dotato, anche se non ha questa espressa intenzione ma sia attento
soltanto alle idee, resta penetrato anche dallo stile, soprattutto se, non
contento di leggere, si eserciterà anche a scrivere, a comporre dettando e
esporre ciò che sente secondo la regola della pietà e della fede. Se poi
manca un tale ingegno, neanche le regole della retorica possono venire
apprese e se, inculcate con grande fatica vengono comprese in parte, non
sono di grande giovamento»’. Questa posizione di Agostino era una
novità destinata a far sentire il suo peso nella formazione dei chierici.
coloro che non sono in grado di recuperare la salute. Inoltre, è chiaro che
rientra nella medesima tecnica scorgere ciò che è persuasivo e ciò che è
apparentemente persuasivo, proprio come rientra nella dialettica
riconoscere il sillogismo vero e il sillogismo apparente»”. La concezione
aristotelica della retorica appare chiara nella seguente affermazione: «La
retorica è una sorta di ramificazione della dialettica e della scienza etica,
che è giusto definire politica»®.
Un giudizio altrettanto positivo e vicino alla concezione aristotelica si
legge nel De ordine di Agostino. Dopo aver esaltato la dialettica come la
disciplina disciplinarum, quae docet docere et docet discere, capace di dimostrare
tutto il valore della ragione, quid velit e quid valeat, l’ex retore convertito
presenta la retorica così: «Ma spesso gli ignoranti, per raggiungere la
persuasione su questioni riguardanti il vero, l’utile e l’onesto, non
seguono la verità, che possono raggiungere solo pochi spiriti eletti, ma
piuttosto le proprie idee e consuetudini. Si rese quindi necessario non solo
istruirli secondo le loro capacità, ma spesso e soprattutto suscitare i loro
sentimenti [commoveri]. La ragione chiamò retorica questa parte destinata
a tale funzione. Essa, più in forza della necessità che della purezza, con la
ricchezza delle piacevolezze che sparge sul popolo, cerca di portarlo a
volere liberamente il proprio bene»’. Risulta dunque chiaro il carattere
popolare e politico della retorica; essa mira a persuadere circa il vero,
l’utile e l’onesto a partire da premesse accettate da tutti e ricorrendo
anche ai sentimenti dell’animo e agli abbellimenti del discorso, per trarre
gli ascoltatori dalla parte dell’oratore.
LE QUAESTIONES INFINITAE
ricorda che «molti hanno tessuto lodi della cenere e dello sterco con
grande verità e abbondanza»'.
Occorre comunque qui accennare ad altri fenomeni, che portarono
all'ampliamento dei temi trattati dalla retorica. Cicerone aveva scritto libri
di filosofia in uno stile più retorico che filosofico, ispirato cioè all’ideale
oratorio del copiose ornateque dicere. I retori da parte loro avevano
teorizzato che ogni causa determinata può e deve essere generalizzata,
ossia che il caso particolare deve essere riportato all’universale. Attraverso
questa via la retorica accolse dalla filosofia moltissimi temi, detti loci
communes: sulla virtù, sulla fama, sui vantaggi e svantaggi del matrimonio,
sui doveri dei genitori verso i figli e dei figli verso i genitori e così via.
Risulta pertanto utile la distinzione fatta da Cicerone tra le quaestiones
finitae (determinate) e quelle infinitae (indeterminate): le prime, dette
propriamente causae (in greco ypotheseis), trattavano temi legati a una
persona o una categoria di persone, poste in particolari circostanze di
tempo e di luogo; le quaestiones infinitae, invece, erano dette propriamente
proposita (in greco iheseis) e trattavano temi generali di etica, politica e
fisica. Nei Topica Cicerone distingue la causa dal propositum con queste
parole: «La causa tratta persone, luoghi, tempi, azioni e circostanze
determinate in tutto o in parte; la tesi non è determinata se non da uno o
più punti, ma non i più importanti. Pertanto la causa non è che una parte
della tesi e ogni questione concerne qualcuna delle circostanze che
costituiscono la causa, una, più e talvolta tutte»”. Per fare qualche esempio:
si ha una causa, quando si discute se Cicerone è degno di lode per la sua
condotta nell’affrontare la congiura di Catilina; si ha un propositum o tesi,
quando ci si chiede se i tiranni, che conculcano la libertà dei cittadini,
sono degni di stima o no. Un altro esempio: abbiamo una causa quando si
discute se è bene che Tizio o Caio si sposino; è una tesi quando sì chiede
in generale se è bene sposarsi o se è opportuno o doveroso che il saggio si
sposi.
La generalizzazione della causa, per cui un caso particolare viene
riportato a una questione generale, viene spiegata dal Lausberg così:
«L’oratore ha per lo più presente nella memoria la trattazione delle
quaestiones infinitae, perché ha imparato a scuola le quaestiones infinitae. Si
troverà spesso nella condizione di usare come argomento o come
3 H. Lausberg, Elementi di retorica, tr. it. di L. Ritter Santini, Bologna 1969, 58.
‘ Fui, 59.
18 N. CIPRIANI
’ Cic., top. 21, 81-82: Quaestionum autem, quacumque de re, sunt duo genera, unum
cognitionis, alterum actionis. Cognitionis sunt eae, quorum finis est scientia, ul si quaeratur
a nalurane ius profectum sit an ab aliqua quasi conditione et pactione. Acionis aulem
huiusmodi sunt: “Sitne sapientis ad rem publicam accedere”.
‘]d., top. 22, 86: Actionis relicuae sunt, quorum duo sunt genera, unum ad officium,
alterum ad motum animi vel gignendum vel sedandum planeue tollendum. Ad officium sic,
ut cum quaeritur suscipiendine sint liberi? Ad mouendos animos cohortationes ad
defendendam rem publicam, ad laudem, ad gloriam, quo ex genere sunt querellae,
incilationes miserationesque flebiles, rursusque oratio cum ad iracundiam restinguens, tum
metum eripiens, tum exsultantem laetitiam comprimens, tum aegriludinem abstergens. Haec
cum in propositi quaestionibus genera sint, eadem in causas transferuntur.
‘Aug., conf. 10, 10, 17.
LE QUAESTIONES INFINITAE
19
cose»®, Ma già in una delle sue prime lettere si era servit
o della triplice
distinzione delle questioni teoriche, per illustrare in
qualche modo il
mistero trinitario (cf. ep., 11,4). L’idea era stata trattata anche in Divo.
quaest. 83, 18. È probabile che la distinzione delle questi
oni teoriche e
pratiche, insegnata dalla retorica, abbia ispirato anche
Clemente
Alessandrino nell'ideazione della sua trilogia: Protrettico, Pedago
go e Maestro.
In greco logos non è solo il discorso, è anche il Logos divino, Cristo
. Egli
dapprima esorta alla religione, suscita cioè nell’animo sentimenti di
pietà
e timor di Dio (protrettico); poi insegna gli officia, cioè ciò che è
conveniente e doveroso fare per vivere virtuosamente (pedagogo); infine
introduce alla vita intellettuale, cioè insegna quelle verità, trattate nelle
questioni teoriche (maestro)°. L’influsso della retorica qui ipotizzato è
confermato da un’altra pagina del Pedagogo, dove Clemente parla del logos
setikòs (vituperatio) e poi del logos protreptikòs e apotreptikòs (esortativo e
dissuasivo).
La quaestio coniecturalis
non si chiede se l’anima esiste, perché per gli antichi era una cosa
scontata, essendo un animal tutto ciò che è vivo, ossia è un essere che ha
un’anima. Si chiede invece unde sit anima nel duplice senso dell'origine e
della composizione; e ancora si chiede: cur corpori data sit 22 Per rispondere
a queste questioni ricorre ai loci della causa efficiente, della causa
materiale e di quella finale. Rientra tra le questioni congetturali anche la
questione della resurrezione, trattata da Tertulliano nell’Apologeticum. Egli
prima porta un argomento retorico, ad hominem: se ì pagani credono nella
reincarnazione, ritengono cioè possibile che le anime passino da un corpo
ad altri corpi, tanto più o a fortiori possono tornare ad animare i propri
corpi. Poi indica il perché (ratio) di questa restituzione nella destinatio
iudicii, ossia nel fatto che il giudizio finale deve riguardare l’anima e il
corpo insieme, perché ambedue in vita hanno operato il bene o il male.
Quindi mostra la causa efficiens nella potenza di Dio: colui che ti ha creato
dal nulla, può anche farti risuscitare. Infine, porta analogie prese dal
mondo della natura, in cui ci sono tanti esempi di cose che muoiono e
risorgono"’. Sempre a proposito della risurrezione dei corpi un altro
esempio di quaestio coniecturalis, ampiamente sviluppata, è offerto da
Ambrogio in De excessu fratris, 11, 50-91.
La quaestio (de)finitionis
Sul modo di fare una definizione nei Topica si legge: «Quando si vuole
definire una cosa o si cerca la natura di una cosa [quid sit], se ne deve
spiegare la nozione, la proprietà, la divisione e le partizione. Vi si aggiunge
anche la descrizione che i Greci chiamano charactèr. La nozione si cerca
così: se è giusto ciò che è utile a chi è più potente; la proprietà così: la
tristezza ricade solo nell'uomo o anche negli animali. Per la divisione si
cercano le specie di una cosa (i tre generi di beni, le specie animali),
mentre per la partizione si cercano le parti (quali sono le parti del diritto,
le parti di un paese). Quanto alla descrizione, ci si chiede quali sono le
caratteristiche di un avaro o di un adulatore»!!,
Il discorso fatto da Cicerone nei Topica era rivolto agli avvocati, che
cercano definizioni utili alla causa e gli esempi da lui suggeriti rispondono
a questa esigenza. La dialettica invece insegnava criteri più rigorosi per
definire una cosa. Nell’epoca patristica ebbero grande risonanza le
Categorie di Aristotele e l’Isagoge di Porfirio. Istruito probabilmente dalle
due opere, Agostino nel De quantitate animae discute a lungo sulla corretta
definizione dell’uomo e della sensazione. Egli scrive: «Una definizione
non può contenere né di più né di meno di quanto si è inteso
determinare, altrimenti è difettosa [vitiosa]. Sì prova che è immune da
difetti mediante la trasposizione [conversio] dei termini. Ciò risulterà più
chiaro con gli esempi». Se definisco l’uomo animal mortale, do una
definizione difettosa. La prova sta nel fatto che se faccio la trasposizione e
dico che ogni animale mortale è uomo, la definizione risulta difettosa per
eccesso di estensione, perché anche la bestia è animale mortale. Se però
definissi l’uomo: animale razionale, mortale e grammatico, avrei una
definizione difettosa per minore estensione. Me ne rendo conto facendo
la trasposizione: è infatti giusto dire che ogni animale razionale, mortale e
grammatico è uomo, ma non è vero l'inverso, perché molti uomini, che
non sono grammatici, risultano esclusi da questa definizione".
Allo stesso modo tratta poi la definizione della sensazione. La
definizione: omnis sensus passio corporis est animam non latens (la sensazione è
la modificazione del corpo che non sfugge all’attenzione dell’anima) è
difettosa, perché si estende più di quanto dovrebbe. Include infatti
modificazioni del corpo (come la crescita dei capelli o delle unghie) che
non sfuggono all’anima razionale, ma sfuggono ai sensi. Io so che i capelli
mi sono cresciuti non perché li vedo crescere con i miei occhi, ma perché
faccio un ragionamento, una induzione (coniectatio): un mese fa erano
corti, ora sono lunghi. Per avere una buona definizione della sensazione,
perciò, devo aggiungere un elemento che restringa il contenuto, come
quando dico che sensus est passio corporis quae per seipsam non latet animam.
Con l’aggiunta di per seipsam si scartano tutte quelle modifiche del corpo
che conosco con la ragione e non con il senso".
La quaestio qualitatis
La questione sulla qualità di una cosa (quale quid sit) può presentarsi
sotto una duplice forma: semplice o comparativa (aut simpliciter aut
comparate). Esempio di una questione in forma semplice: Si deve
desiderare la gloria? (expetendane sit gloria?). Esempio di questione in
forma comparativa: la gloria deve essere preferita alle ricchezze?
(Praeponendane sit divitiis gloria?). Ci sono tre tipi di quaestio qualitatis in
forma semplice: il primo genere, de expetendo fugiendoque, si usa soprattutto
nel genus deliberativum. Esempi: si devono ricercare le ricchezze? si deve
de science religieuse
2 F, Refoulé, Julien d'Eclane, théologien et philosophe, in Recherches
52 (1964), 238.
Giuliano, in Aug., c. Jul. imp. 5, 27.
CAPITOLO QUARTO
I TRIA GENERA CAUSARUM E GLI STATUS
Abbiamo trattato prima le questioni indeterminate a motivo della loro
importanza e frequenza negli scritti patristici. Si deve però ricordare che
l’arte retorica si interessava soprattutto alle causae o questioni determin
ate.
Parlando della retorica di Aristotele, abbiamo già accennato ai tre generi
di cause che venivano trattati nella polis greca: il genus iudiciale, il genus
deliberativum e il genus demonstrativum o laudativum. Qui però appare
un’alua teoria retorica importante, quella degli status. Lo status viene
definito così da Cicerone: «La confutazione dell’accusa, nella quale si ha il
respingimento del crimine, poiché in greco si dice stasis, in latino si
chiama status: è la posizione, su cui innanzitutto insiste la difesa, giunta
per così dire allo scontro, per respingere l’attacco dell’accusa». Da
Quintiliano sappiamo che al posto del termine status i retori parlavano
anche di constitutio 0 caput causae (punto capitale). Gli status si trovano
soprattutto nelle cause giudiziarie, ma si possono trovare anche nelle
deliberazioni e nelle lodi.
Status rationales
Gli status sono di due generi: rationales e legales. 1 razionali sono di tre
specie: a — infitialis o coniecturalis è lo status in cui il difensore nega che sia
avvenuto il fatto di cui uno è accusato. Per esempio, contro l’accusa: hai
fatto questo furto (/ecisti hoc furtum), il difensore, se può, si difende
rispondendo semplicemente: non feci. Negare il fatto è senza dubbio la
difesa migliore possibile. b — Lo status (de) finitionis si ha quando l’accusato
ammette di aver compiuto il fatto, ma respinge che possa essere definito in
un certo modo: /eci, sed non hoc feci. Per esempio, uno ammette di aver
rubato, ma non di aver compiuto una rapina a mano armata, che è un
furto molto più grave. c - Si ha infine lo status iuridicialis o qualitatis
quando l’accusato ammette il fatto di cui viene accusato ed è d'accordo
anche sulla definizione del delitto, ma si difende sostenendo di averlo
fatto giustamente o legalmente: feci, sed iure feci. È dunque il difensore o
colui che risponde all’accusa che stabilisce lo status causae.
Quintiliano al riguardo dava utili consigli ai giovani che incominciano
a fare gli avvocati: «Imparino anzitutto che ogni causa prevede un metodo
96 N. CIPRIANI
Status legales
Oltre gli status rationales, dicevamo, ci sono quelli legales, che riguardano
le legitimae disceptationes, ossia le dispute sull’interpretazione delle leggi.
Esse hanno luogo quando lo scritto è ambiguo, di modo che di un testo si
possono dare due o più sensi diversi (status ambiguitatis); oppure si oppone
allo scritto la volontà o l’intenzione dello scrittore (st. scripti et voluntatis);
oppure a una legge se ne oppone un’altra (st. legum contrariarum)®.
12 Tvi, 4, 3.
13 Jvi, 46.
li vi, 6,11.
15 vi, 7, 1-2.
16 Ivi, 7, 8-14.
17 Ivi, 9, 1-20.
8 Ivi, 10,1.
19 Jvi, 10,2 - 27.
1 TRIA GENERA CAUSARUM E GLI STATUS 29
% Fui, 28, 3.
1 vi, 35, 1.
CAPITOLO QUINTO
GLI STATUS LEGALESE L’ESEGESI DEI PADRI
Con la lettura dell’Apologeticum di Tertulliano abbiamo illustrat
o la
teoria degli status rationales. Vediamo ora di chiarire la teoria degli
status
legales. Essì ricorrono soprattutto nei processi penali, quando l'accusa e
la
difesa sono in disaccordo sul significato da dare a un testo della legge e
ciascuno cerca di dimostrare che il testo non dice quello che gli fa dire
l’avversario. La discussione allora è detta legitima disceptatio o disceptatio in
scriptis. La discussione interpretativa può riguardare non solo il testo di
una legge, ma anche un testamento, un patto, un contratto o qualunque
scritto. Anche questi status sono di diverso genere: 1 — nello status scripti et
voluntatis (o anche sententiaeo intentionis) sì cerca di conoscere la volontà o
l’intenzione dell’autore dello scritto nel redigere il testo. Ci si chiede:
dobbiamo dare più valore alle parole o alla intenzione del legislatore?
(verbane plus an sententia valere debeani); 2 — nello status ambiguitatis la
discussione nasce non tanto dalla difficoltà di cogliere l’intenzione del
legislatore, quanto piuttosto dall’ambiguità delle parole stesse: la legge si
presta a diverse interpretazioni a causa della formulazione linguistica; 3 -
nello status delle leggi contrarie (legum contrariarum) il problema
interpretativo nasce dall’esistenza di leggi in contrasto tra loro, una legge
contraddice un’altra; 4 — si ha infine lo status ratiocinationis o syllogismi,
quando sì cerca di stabilire la voluntas del legislatore argomentando per via
di analogia: ciò che una legge dice di una cosa o di una categoria di
persone si può dire analogamente di un’altra?
Sul modo di trattare gli status legales nelle causae giudiziarie siamo
informati da Cicerone nelle Partitiones oratoriae (XXXVIII, 132 - XXXIX,
138). L’Arpinate scrive che i precetti sullo status di ambiguità sono comuni
ai due avversari che disputano sull’interpretazione di uno scritto. Ciascuno
di essi sostiene che la propria interpretazione è conforme alla saggezza del
legislatore; ambedue diranno che l’interpretazione dell’avversario è
assurda, inutile, ingiusta, vergognosa e perfino in contrasto con tutti gli
altri testi; al contrario ciò che egli sostiene lo scriverebbe, ma in modo più
chiaro, ogni legislatore prudente, giusto e saggio. Dirà inoltre che la
propria interpretazione non ha niente di capzioso o di pericoloso, mentre
32 N. CIPRIANI
N
Scrittura è Dio stesso, che non può sbagliare né contraddirsi. Perciò viene
escluso per principio lo status delle leggi contrarie. Sono invece tenuti
presenti gli altri status, quello dell’ambiguità e quello dello scritto e della
volontà. Un chiaro esempio di questo modo di leggere la Scrittura si ha
nel De induratione cordis Pharaonis, uno scritto attribuito a Pelagio‘.
L’autore esclude la possibilità che nella Scrittura ci siano affermazioni
contraddittorie sulla trasmissione del peccato originale con queste parole:
Deus autem omnipotens verax absque infirmitatis macula praescius, qui nullius
potentia inclinatur, iustus iudex omni pietate repletus, quo modo poterat sibi
contraria promulgare mandata ?. Riconosce invece che nella Scrittura ci sono
testi oscuri e ambigui, invitando a non scandalizzarsi di questo. Suggerisce
poi il modo per risolvere le ambiguità, ricorrendo ai testi più chiari, che
non hanno bisogno di alcuna interpretazione’.
Anche Agostino nella polemica contro i Manichei, che insistevano sulle
contraddizioni presenti nella Scrittura tra i libri dell’Antico e del Nuovo
Testamento, diceva: «Avendo io dunque replicato queste argomentazioni e
avendo in tal modo mostrato, dopo averli messi a confronto, che questi
due passi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento non sono in contrasto
[non esse contraria], cosa potrà fare Adimanto?»”. Sempre nella stessa opera
ricorreva anche allo status scripti et voluntalis. «È sufficiente collegare
all’interno del suo discorso tutto questo passo della lettera paolina,
affinché appaia chiaramente il motivo [cur], per cui l’Apostolo abbia detto
ciò, e di converso la malafede di costoro, che scelgono alcuni testi della
Scrittura, con i quali ingannare gli inesperti, isolandoli dal contesto che li
precede e li segue, grazie al quale si potrebbero invece capire la volontà e
l’intenzione dello scrittore»®.
Ma probabilmente in nessun altro scritto patristico appare con
maggiore chiarezza l'influsso delle teorie e esercitazioni retoriche sugli
status legales come nell’opera di Giuliano d’Eclano, riportata da Agostino
nell’Opus imperfectum. Tutto il secondo libro dell’opera non è che una
disceptatio tra i due polemisti sull’interpretazione di Rom. 5, 12ss. e altri
passi della Scrittura. Agostino si era appoggiato su quel testo della Lettera ai
Romani per affermare la dottrina del peccato originale. Il vescovo
pelagiano si oppone a tale interpretazione, anzitutto con una praescriplio,
in cui afferma che la dottrina del peccato originale è contraria alla
giustizia e quindi non può essere insegnata dalla Scrittura: «È stato già
mostrato che nulla si può provare per mezzo delle Scritture sante che non
abbia la garanzia della giustizia; perché, se nella legge di Dio si ha l’ideale
perfetto della giustizia, vuol dire che la legge divina non lascia spazio alla
nemica della giustizia, ossia all’ingiustizia, e quindi non può l'autorità
giustificare quello che la ragione condanna. Se ammettiamo in Dio la
mancanza della giustizia, comincia a traballare tutta la maestà divina,
essendo Dio talmente giusto che la dimostrazione dell’ingiustizia
equivarrebbe alla dimostrazione della non esistenza di Dio. Abbiamo già
concluso che noi adoriamo nella Trinità un Dio giustissimo, ed è apparso
irrefutabilmente che da Dio non può essere imputato ai bambini un
peccato fatto da altri»°.
Dopo aver accusato di manicheismo i sostenitori del peccato originale,
li presenta come «ribelli alla pietà e alla ragione... stolti, impudenti ed
empi, perché infamano le Pagine sante che citano per provare il crimine
della divinità»!'. Ripete quindi la praescriptio, accennando allo status legalis
dello scritto e dell’intenzione: «Rimanga dunque fisso nell’animo del
prudente lettore massimamente questo: in tutte le Scritture sacre è
contenuto solo ciò che i cattolici intendono ad onore di Dio, come viene
illustrato dalla luce di frequenti sentenze. Se in qualche passo
un'espressione troppo dura solleva una questione, è certo senz'altro che
l’autore di quel testo non ha inteso ciò che è ingiusto, ma deve
interpretarsi secondo l’apertura che viene dall’evidenza della ragione e
dallo splendore degli altri passi in cui non c’è iniquità»''. Poco dopo
accenna allo status ambiguitatis. Riferite le parole dell’Apostolo in
discussione, dice dell’avversario: «Che tu abusi dei tuoi fiancheggiatori e ti
nascondi dietro l’ambiguità delle parole lo capisce ogni persona erudita
che abbia letto le nostre opere. Quanto al resto del volgo, del quale il
Profeta dice a Dio: “Tu tratti gli uomini come pesci del mare”, esso rimane
ingannato perché si accoda e ignaro di salutari distinzioni, crede che si
possa congiungere nella realtà tutto quello che vede associato nelle parole.
Ma che cosa sia logico, che cosa assurdo, che cosa ci porti a dedurre da
certe premesse la legge inespugnabile e veneranda della dialettica, non lo
giudicano se non le persone più dotte e attente»', Come l'avvocato in
tribunale Giuliano bolla l’interpretazione della Scrittura fatta dall’avversario
come blasfema e offensiva di Dio, folle e contraria alla ragione. Gli dice
13 vi, 2, 57.
li Ivi, 2, 64.
5 vi, 2, 98.
16 Fui, 2, 150.
7 Fui, 2, 216.
18 Fui, 2, 232.
9 vi, 2, 234.
20 Fui, 2, 236.
36 N. CIPRIANI
! Cic., top. 2, 8.
? H, Lausberg, Elementi di retorica, 30.
38 N. CIPRIANI
dell’arte retorica e perciò sono detti anche artificiales (in greco ènteknoi). 1
loci extrinseci, invece, sono cercati al di fuori della cosa, del negotium e della
persona, oggetto del discorso, e perciò sono detti inartificiales o artis
expertes, sine arte (in greco àteknoi), perché l’arte retorica non insegna come
trovarli, anche se insegna il modo di farli valere.
Parliamo prima dei loci extrinseci. Essi sono principalmente i testes o ì
testimonia, intesi come «tutto ciò che viene assunto da una circostanza
esterna alla causa per darle credibilità»*. E poiché la forza persuasiva di un
testimonium risiede nell’auctoritas del teste, questi loci sono divini e umani. I
testimonia divina per ì pagani erano le divinazioni, gli oracoli, gli auspici, le
vaticinazioni, i responsi dei sacerdoti, degli aruspici e dei presagi e sonni
(coniectorum)*. Per i cristiani naturalmente i testimonia divina sono le parole
della sacra Scrittura. Esempio classico è la raccolta di testimonia biblici in
tre libri, fatta da Cipriano e dedicata a Quirino.
Quanto ai testimonia umani possono essere orali o scritti (leggi,
convenzioni, promesse, giuramenti, confessioni). Il loro valore o peso
dipende dalla maggiore o minore auctoritas del testis, che a sua volta si
misura in base alla sua virtù, ingegno, erudizione, condizione sociale, età,
esperienza, ecc. Le testimonianze umane si possono ottenere in piena
libertà (ex voluntate) o con forza (ex necessitate): tormenta, verbera, ignis o
anche semplicemente con minacce, che provocano gravi perturbationes
animi (metus, ecc). Un locus ab extrinseco, molto considerato fino a diventare
un locus communis e tra i più utilizzati nelle causae, è quello della fama vulgi,
che Tertulliano definisce quoddam multitudinis testimoniuni.
Tloci intrinseci
o
12 H, Lausberg, Elementi di retorica, 31.
loci a re vedi Quint., inst. or. 5, 10,
1ì Quint., inst. or. 5, 10, 94. Peri loci a personae ì
23-31 e 5, 10, 32.
CAPITOLO SETTIMO
Insegnamento retorico
Vediamo in primo luogo quali sono i loci che la retorica suggerisce per i
discorsi del genus laudativum. Nelle Partitiones oratoriae Cicerone incomincia
dando un primo orientamento! e avvertendo che le rationes laudandi
vituperandique non valgono solo ad bene dicendum ma anche ad honeste
vivendum. Il motivo di tale affermazione sta nel fatto che in una persona si
deve lodare tutto ciò che è connesso con la virtù e biasimare tutto ciò che è
connesso con il vizio. Il fine proprio del genere laudativo, infatti, è
l’esaltazione della honestas da una parte e il biasimo della disonestà
(turpitudo) dall’altra. L’elogio o il biasimo di una persona si fa narrando ed
esponendo ragioni o fatti senza alcuna argomentazione, perché l'oratore si
preoccupa più di toccare i sentimenti dell'animo che di portare prove o
rafforzarle. In effetti, non si propone di provare ciò che è dubbio, ma
amplifica ciò che è certo o è dato per certo. Quindi valgono i precetti che
l’arte retorica dà a proposito della narratio' e della amplificati@.
Nel capitolo seguente passa a indicare la dispositio del discorso di lode
(laus), che deve seguire la triplice distinzione dei beni fatta da Aristotele:
si lJodano prima i beni esterni, poi quelli del corpo e quindi quelli
dell’anima, che sono i più stimati. Si inizia dal locus a genere (stirpe) breviter
modiceque, avvertendo che, se l’origine era disonorevole, si tralascia; se era
umile, si passa sotto silenzio, oppure se ne fa un accenno, per accrescere la
gloria della persona lodata; se è il caso, poi, si trattano i loci delle ricchezze
e risorse economiche e sociali. Quindi si passa ai beni del corpo, tra i quali
la bellezza è quello che rimanda di più alla virtù. Infine si giunge all’elogio
delle virtù narrando i fatti o gesta, la cui esposizione può essere fatta in tre
modi: aut enim lemporum servandus est ordo, cioè o si segue l’ordine
cronologico, aut in primis recentissimum quidque dicendum, o si comincia dai
fatti più recenti, come hanno fatto Omero nell’Odissea e Virgilio nell’Eneide,
aut multa et varia facta in propria virtutum genera sunt digerendo, oppure si
espongono i fatti secondo i diversi generi di virtù*.
Virtù e vizi
Nei Padri, oltre che vere e proprie laudes, cioè discorsi fatti in una
pubblica assemblea per elogiare un martire o un santo, troviamo anche le
vite dei santi, che appartengono propriamente al genere delle biografie,
ma che assumono sempre un carattere encomiastico. A partire dalla metà
del IV secolo, infatti, si scrivono sempre più numerose vite di santi, che
non si distinguono molto dalle laudes tanto per il loro contenuto e lo
scopo, sempre elogiativo, quanto perché si richiamano, in modo più o
meno esplicito, alla tradizione biografica. Ciò risulta soprattutto nelle
introduzioni, quando lo scrittore ricorda i precedenti modelli letterari, a
volte si rivolge al destinatario, che gli ha chiesto di scrivere la biografia,
esalta la grandezza del personaggio, dicendosi indegno o incapace di fare
l’elogio delle sue virtù (è la figura retorica della tapeinosis), dichiara di
voler raccontare solo ciò che è degno di fede, ecc. Tutti questi elementi si
ritrovano, per esempio, nella parte introduttiva della vita di Ambrogio,
scritta dal diacono Paolino. Per quanto concerne le laudes o encomi veri e
propri dei santi, comunque, occorre notare che gli oratori, pur mostrando
di conoscere molto bene i loci propri del genere, spesso protestano di non
voler seguire l'insegnamento retorico, perché ispirato da una mentalità
pagana, ma di volersi ispirare alle virtù proprie del vangelo.
ll Ivi, 35-36.
48 N. CIPRIANI
12 vi, 38.
13 Ibid.
IL DISCORSO DEL GENUS LAUDATIVUM O LODE
49
Maria) fu istruito sulla vera conoscenza della fede, che poi mise
per iscritto
nel Simbolo o Spiegazione della fede. Incoraggiato dalla visione, forte
come un atleta lascia il deserto, entra in un tempio pagano, da cui scaccia
satana, e converte con i prodigi il suo sacerdote. Arriva finalmente in città,
accompagnato da una grande folla. Esalta la sua povertà: «Quando si era
dato alla filosofia, si era spogliato come di un peso di tutto quello che
aveva e non gli rimaneva perciò nulla di ciò che è necessario per vivere né
terreni né patria né casa». Interessante è l’osservazione di carattere
letterario che qui fa il Nisseno: «Se il racconto della sua vita è solo
espositivo ed è presentato in forma semplice, il fatto che il mio discorso
abbia tralasciato volutamente quelle esagerazioni dei fatti, suggerite di
solito da una certa ricercatezza artificiosa, proprio questa è la
testimonianza e una prova che io non esagero di proposito quando
ricordo i suoi miracoli, perché sono convinto che basta il ricordo delle sue
gesta per una lode perfetta».
L’elogio prosegue con il racconto delle numerose conversioni ottenute
con i suoi discorsi, della costruzione di un tempio, della mediazione di pace,
dei miracoli del lago, per mostrare la saggezza di Gregorio nel dirimere le
contese, saggezza superiore persino a quella di Salomone"', e la potenza
taumaturgica superiore a quella dei Profeti Elia ed Eliseo". Pregato di
recarsi a Comana per fondare una chiesa, ispirato da Dio, tra i tanti
candidati scelse come vescovo un carbonaio, votato poi all'unanimità".
Racconta quindi la tragica beffa di due ebrei, che durante il viaggio, uno si
finse morto e l’altro supplicò Gregorio di pensare alla sua sepoltura. Avendo
Gregorio cedutogli il mantello per la sepoltura, si mise a sghignazzare alle
sue spalle, ma quando si volse al finto morto, si accorse che era morto
davvero. L’oratore, quasi in difesa del Santo, osserva: «Se questo episodio,
operato dalla fede e dalla potenza del Santo, può sembrare disumano,
nessuno si disorienti, ma pensi a Pietro», che guarì lo storpio ma condannò
a morte Anania"”’. Gregorio continua a predicare e a far miracoli, ma arriva
la persecuzione. Per evitare di essere arrestato, fugge nel deserto, «per
portare conforto al suo popolo e aiutare tutti quelli che combattevano per la
fede». Terminata la persecuzione, lascia il deserto, per continuare l’opera
della evangelizzazione e promuovere il culto dei martiri.
A questo punto, senza alcun preavviso, l’oratore passa a parlare delle
circostanze che precedettero la morte: «Desiderando, prima di morire, di
l1 Fui, 66.
15 Ivi, 70-71.
16 Tui, ‘71-77.
17 Ivi, 79.
50 N. CIPRIANI
vedere convertiti tutti dal culto degli doli alla fede della salvezza, quando
avvertì che l’ora della sua morte era vicina, percorse con diligenza tutto il
territorio circostante, per conoscere quanti fossero quelli che ancora non
avevano abbracciato la fede. E seppe che non rimanevano che 17 pagani,
lo stesso numero di cristiani che c’erano al suo arrivo. È dopo aver pregato
sia per quelli che credevano, per una loro maggiore perfezione,, sia per gli
infedeli, per la loro conversione, passò infine dalla vita di questo mondo a
Dio, raccomandando ai suoi discepoli di non acquistare per lui una tomba
privata»', L’elogio poteva essere concluso così, ma il Nisseno batte un
ultimo colpo d’ala. Quando tutto sembrava finito, scrive: «Ora riprendo il
discorso, per raccontare altri miracoli; narrerò ciò che il mio discorso ha
omesso di narrare per la fretta e che avvenne nei primi tempi del
sacerdozio del Santo». Narra così del suo arrivo in città durante una festa,
dello scoppio improvviso di una pestilenza e della sua scomparsa per
l’intervento miracoloso di Gregorio. Fu proprio questo miracolo a spingere
tanta gente alla conversione. Ho sottolineato la novità letteraria, perché in
genere la lode seguiva l’ordine cronologico dei fatti, mentre qui l'oratore,
giunto alla fine della vita, è tornato indietro, all’arrivo del Santo in città.
18 vi, 92.
1° Vita Cypriani 1, 1-4 (Le citazioni sono tratte dalla tr. it. di M. Simonetti, Roma
1989° [Collana Testi Patristici 6]).
20 Ivi, 2-3.
IL DISCORSO DEL GENUS LAUDATIVUM
O LODE SI
2 Ivi, 4.
22 Tui, 5, 16.
3 Tui, 6.
24 Ivi, 7.
5 vi, 8.
2 fvi, 10.
52 N. CIPRIANI
nascosto in una parte inaccessibile del mondo. Anche se il luogo dove venne
Cipriano, il sacerdote di Dio, era tale, avrebbe potuto esso avere il nome di
esilio?»””’, In realtà il luogo dove fu esiliato Cipriano era davvero ameno,
appartato secondo il suo volere, ma aperto a tutti coloro che lo volevano
visitare. Tra le tante visite ricevute Ponzio preferisce ricordare quella che gli
fece il Signore in sogno, con cui gli comunicava l’accettazione della sua
richiesta della dilazione del martirio": «Che cosa più chiara di questa
rivelazione, che cosa più fausta di questa degnazione? In anticipo gli fu
predetto tutto ciò che poi si verificò». Di nuovo Ponzio è costretto a
difendere Cipriano: «Il motivo della richiesta dilazione dipendeva dalla
necessità di ordinare le proprie cose e disporre le proprie volontà», ossia gli
aiuti da dare ai poveri, nessun'altra ragione”. Con il cap. 14 incomincia
l’ultima parte della vita con il racconto del martirio: «Già da Roma era
venuta la notizia» del martirio di papa Sisto. Ponzio trova anche negli ultimi
giorni di vita motivi per elogiare il vescovo. Scrive: «Non bisogna lasciare
senza lode neppure questo sublime motivo di gloria di così grande uomo».
Cipriano «come gli si offriva l’occasione istruiva i servi di Dio con le
esortazioni del Signore e li rincuorava»”. Arrivò improvvisamente il capo
della polizia, Cipriano fu tenuto sotto discreta sorveglianza per una notte
nella casa dell’ufficiale, mentre tutto il popolo vegliava alle porte della
casa"', «Spuntò finalmente il giorno seguente, quello stabilito, quello
promesso, quello divino, che se pure il tiranno avesse voluto differire non ci
sarebbe riuscito, giorno gioioso per la coscienza del futuro martire». Il
vescovo fu portato al pretorio. Arriva il proconsole, «Cipriano viene
introdotto, presentato, interrogato sul suo nome. Rispose chi era e
- l’interrogatorio finì lî!»"*. Negli ultimi capitoliè narrata con brevità la storia
del martirio”.
“hi, ll.
25 Ivi, 12.
” Ivi, 13. La difesa della persona lodata era prevista dalla retorica. Quintiliano
scrive: «Come la lode utilizzata per questioni concrete richiede delle prove, così
anche quella composta per ostentazione contiene talvolta un’apparenza di
apparato probatorio... Alcune considerazioni, invece, finiranno per sembrare una
difesa. Per esempio, qualora l’oratore, elogiando Ercole, ne scusasse lo scambio di
abito con la regina di Lidia e la lana che secondo la tradizione filò in ottemperanza
agli ordini di quella. Ma tipico della lode è amplificare e abbellire i fatti» (inst. or,
3, 7,4.6).
0 Fui, 14.
I vi, 15.
* Ivi, 16.
3% Ivi, 18.
CAPITOLO OTTAVO
Premessa
La utilitas
differenti a ciascuna
nz categoria e soprattutto non potrà promettere vantaggi
(commoda) materiali e temporali.
I Padri, quando esortano i fedeli a una virtù, in primo luogo
mettono
in risalto il bonum proprium di quella virtù, ossia la ragione per cui quella
virtù è in se stessa buona e degna di lode, insistendo, per esempio, che
quella virtù è propria di Dio, di Cristo o di altri santi, oppure mostran
done
la liceità, giustizia, equità e pietà. Poi passano a mostrarne l’ucilitas, spesso
la necessitas, ossia i vantaggi di ordine spirituale, qual è il premio o la merces
della vita eterna, senza dimenticare ì vantaggi di ordine temporale e
sociale, come la concordia e la pace. Comunque, la utilitas di una cosa
- osserva Quintiliano - si mostra anche quando si dice che è grande,
piacevole e priva di pericoli*.
La possibilitas
o ancora di quali mezzi possiamo servirci, armi, denaro, alleati e altre cose
che rientrano nel genere delle cause» (quibuscum el contra quos, quo tempore
aut quo loco, aut quibus facultatibus armorum, pecuniae, sociorum earumve rerum
quae ad quamque rem efficiendum pertinet, possimus uti, requuirendum est)". Sì
tratta, come si vede, di loci adatti alle suasoriae, che trattano temi di
interesse pubblico. Per le esortazioni di carattere morale il locus proprio è
sempre quello ex causis, che possono essere diverse a seconda della
concezione dell’uomo e dei suoi rapporti con Dio. Per Pelagio
l’esortazione morale deve poggiare soprattutto sulla convinzione che la
natura dell’uomo è buona e capace di acquisire da sola la virtù, a
condizione che ci sia un serio impegno della persona. Con la volontà, la
diligenza e l’esercizio tutto è possibile, senza bisogno di altri aiuti esterni.
Per Agostino invece il credente più che sulle proprie forze deve fare
affidamento sull’aiuto di Dio e quindi sull’umiltà e la preghiera. Il discorso
sulla possibilità morale, perciò, mette in luce il diverso modo di concepire
l’esperienza cristiana.
L’importanza del tema della possibilità nelle esortazioni è messa bene
in rilievo non solo negli scritti di Pelagio e di Agostino, ma anche di altri
Padri della Chiesa. Un curioso esempio lo abbiamo in una paradossale
interpretazione allegorica, che Ambrogio ha fatto delle parole rivolte dal
re d'Egitto ad Abramo. Secondo il libro della Genesi il re avrebbe detto
ad Abramo: «Che mi hai fatto? Perché non mi hai detto che è tua
moglie, ma mi hai detto che è tua sorella? E così me la sono presa in
moglie. Ora ecco a te tua moglie, prendila e vattene via in fretta» (Gn.
12, 18ss.). Il vescovo di Milano commenta: «Immaginiamoci un
intemperante che, contemplata la grazia della castità e attratto dalla sua
bellezza, pensi di doverla seguire, ma poi, non conoscendo le ancelle che
l’accompagnano quando avanza e l’attorniano quando sopraggiunge,
cioè la temperanza, la modestia, il pudore, la frugalità nel cibo, la fuga
dalla dissolutezza, dalla sfrontatezza, dalla insolenza, la rigorosa
prudenza, l'attenta vigilanza, improvvisamente infiammato o dal calore
dell’ubriachezza o dall’ardore della carne o dalla vista di una bellezza
molto attraente, non può trattenersi né resistere alla legge della carne.
Non dirà forse: «Credevo che seguire la castità fosse più facile: essa
supera la mia capacità di sopportare, supera le mie forze. Si trova
raramente uno che possegga tutte queste virtù. Addio castità, vattene
lontano dai confini dei miei sensi. Torna subito di corsa da dove sei
venuta. Non sopporto la tua presenza, sono tormentato da gravi
difficoltà, penando di trattenerti mentre non ne sono capace». È rivolto
Gli exempla
Tra i loci adatti al discorso esortativo non manca quasi mai quello
degli exempla. Oltre agli argomenti di ragione, l’oratore che esorta deve
fare ricorso agli esempi, perché, come osserva Quintiliano, «le
esperienze già compiute guidano molto facilmente gli uomini
all’assenso»!’. Anche Cicerone scrive: «Entrambi (l'oratore che vuole
persuadere e quello che vuole dissuadere), per amplificare la
dimostrazione, abbiano abbondanza di esempi recenti, perché sono i più
conosciuti, o di esempi antichi, perché hanno maggior autorità» (Utergue
vero ad augendum habeant exemplorum aut recentium, quo notiora sint, aut
velerum, quo plus auctoritatis habeant, copiam)''. Gli esempi hanno una
grande forza persuasiva. Basta ricordare come Agostino, durante la crisi
della conversione, dopo aver sentito da Simpliciano il racconto di tanta
gente che aveva abbracciato la vita monastica, si chiedeva: Tu non poteris,
quod isti, quod istae? '?,
La prosopopea
potrai anche tu ciò che fecero questi giovani e queste donne? E gli uni e
le altre ne hanno il potere in se medesimi o nel Signore Dio loro? Il
Signore Dio mi diede ad essi. Perché ti vuoi reggere su di te e non ti
reggi? Gèttati in lui senza timore. Non si tirerà indietro per farti cadere.
Gèttati tranquillo, egli ti accoglierà e ti guarirà”. Io arrossivo troppo,
udendo ancora i sussurri delle frivolezze; ero sospeso nell’esitazione,
mentre la continenza riprendeva quasi a parlare: “Chiudi le orecchie al
richiamo della carne immonda sulla terra, per mortificarla. Le voluttà
che ti descrive sono difformi dalla legge del Signore Dio tuo”»!,
Dispositio e elocutio
zione) del
Cicerone a proposito del principium (esordio, introdu
tivo scrive: «Gli esordi nei discorsi delibera tivi devono
discorso delibera
infatti, non si presenta nell’atto di supplicare il
essere brevi. L’oratore,
uno che
giudice (come avviene nelle controversie giudiziarie), ma come
e propone. Perciò deve proporr e con quale intenzione parla, cosa
esorta
vuole, e di che cosa parlerà, esortando ad ascoltare il suo breve discorso».
Osserva poi che «tutto il discorso deve essere semplice e grave, più
ricercato per le idee espresse che per la forma verbale» (tota autem oratio
simplex et gravis et sententiis debet ornatior esse quam verbis)". La dispositio di
questo tipo di discorso, pertanto, prevede prima un breve esordio, poi la
propositio, accompagnata talvolta dalla divisio, quindi la dimostrazione dei
vari punti sopra indicati (honestas, utilitas o necessitas e possibilitas o facilitas),
rafforzata con gli esempi, e infine una peroratio in forma di esortazione.
Non c’è una narratio come nel discorso giudiziario. Quanto alla elocutio
adatta a questo tipo di discorso, nella parte centrale, dedicata alla
dimostrazione, predomina il genus submissum adatto all’insegnamento
(docere), mentre nella parte esortativa prevale il genus grande, che ricorre
alle figure e alle idee adatte ad accendere gli animi.
7 Ivi, 97.
18 PLS 1, 1464-1505.
19 CSEL 3, 1.
IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
61
La bontà della castità risulta anzitutto dal fatto che Dio stesso è casto,
quindi amplectenda res homini, quae Deo digna est. Altra ragione che mette in
risalto il bomum della castità sta nel fatto che ne sono dotati i ministri di
e
Dio: nel cielo gli angeli e sulla terra i sacerdoti, che non devono assistere
0 Ep. de castitate 1.
a vi, 2.
N. CIPRIANI
62
La possibilitas
della
A questo punto passa a mostrare la possibilitas, anzi la facilitas,
esse custodiam,
custodia della castità: neque enim dicere fas est castitatis onerosam
quae multo diffficilius amittitur quam tenetur. Porta quindi ragioni a conferma
dell’affermazione: difficilius enim a nolente amittitur, quam a volente servatur e
termina dicendo: Quis igitur castitatem servare iam dubitet, cuius bonum pronum
(i.e. facile) non minus videre esse, quam magnum?”.
2 vi, 5, 1-5.
% Ivi, 6, 14.
Sl Tui 7.
3 Ivi, 8, 1-2.
N. CIPRIANI
1 Cor. 7, lss.,
Dopo l’esame dei testi evangelici, passa a commentare
le sue idee sul matrimonio e verginità. Il
testo in cui l’Apostolo espone
lungo, si estende per due capitoli. Incomincia
commento, molto
sulla volontà dell’autore: antequam ad apostoli verba veniam,
chiedendosi
matrimonio] consuleretur
primum quaero quid causae fuerìt, ut de ea re [cioè del
licere nemo dubitaba t, tam naturae testimonio, quam etiam
apostolus, quam celebrare
legis exemplis. Nonostante che la liceità del matrimonio risulti evidente,
tangere (1 Cor. 7,1). La
però, l’Apostolo dice: Bonum est homini mulierem non
ppo
ratio non permette che si riferisca alla donna di altri, come purtro
e
alcuni hanno inteso, ma si riferisce alla propria. Per una miglior
intelligenza del testo, comunq ue, è bene sapere che l’Apost olo tratta
successivamente delle donne sposate, delle vedove e delle vergini. Quanto
alle sposate l’autore della lettera argomenta (locus a minore ad mais): Et si
bonum est homini susceptam iam in matrimonio feminam non contingere, quanto
melius est omnino non nosse. In realtà, l’Apostolo, che aveva invitato alla
astensione, concede l’uso del matrimonio existente necessitate, cioè quando
c'è il pericolo della fornicazione: Morbo igitur fornicationis medicinam
quodammodo apostolus nuptias dedit... ilis tantum concessisse cernitur apostolus
nuptias, quos fornicaturos formidabat ex improvidentia... post orationis
continentiam ad matrimonii usum eos redire permisil, si tamen incontinentiae
necessilas exegisset, per non dare occasione al diavolo tentatore. Segue una
amplificatio: animadvertat ergo prudentia tua, quale bonum sil, quod ab oratione
retrahit, quod a Christi corpore ad tempus removet, prendendosela con quelli
che cercano nella Scrittura passi contrastanti, per sostenere il proprio
lassismo: O humanae pravitatis ingenium! Quando de divitiarum contemptu et de
virginitatis bono agitur, quae in novo testamento praecipue commendentur, ad
vetera exempla confugitur, quando autem de nuptiarum iniemperantiam in lege
veteri evidentius expressa, ad defensionem novi recumunt. Et ita fit, ut inter
utrumque nec novum videantur tenere, nec velus. Îl versetto 1 Cor. 7,7: Sed
unusquisque proprium habet donum a Deo, serve a ribadire l’opposizione alla
dottrina della grazia, perché si virginitas Dei potius dono confertur, quam
propria voluntate, servatur ergo praemio caret. Nullum enim donum est, quod
mereatur premium.
Passa quindi alle vergini, per le quali l’Apostolo dice di non aver
precetti da dare da parte del Signore ma solo consigli (1 Cor. 7,25). È un
testo sul quale aveva insistito Gioviniano per dichiarare superflua la
verginità. Perciò l’autore della lettera ha cura di precisare che il consiglio
non si deve né sminuire né disprezzare, perché viene dal Signore.
L’Apostolo prosegue: Existimo, hoc esse bonum propter instantem necessitalem,
3 vi, o.
IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
65
quoniam bonum est homini sic esse (1 Cor. 7,26). L’esegeta si sofferma a descrivere
le grandi difficoltà che nel tempo presente incontra il cristiano che vuole
davvero seguire Cristo. Il matrimonio rende tutto più difficile! Per questo
si appella alla coscienza del destinatario: Obsecro te... nemo se iam ex eo
christianum perfectum putet, quo eum vulgus magnificat, et quo pessimis melior esse
videatur. Quanto al versetto 1 Cor. 7, 27: Vinctus es uxori? Noli quaerere
solutionem. Solutus es ab uxore? Ne quaesieris uxorem, l’autore ammonisce:
nemo evidentis sententiae intellectum falsa interpretatione corrumpat, nec quisquam
existimet se ex hoc iam huius loci sublerfugisse contemplum, quo eum aliter quam
veritas exigit sentiat. Qui l’Apostolo chiaramente esorta alla verginità: grandis
huius sententiae vis est, quae ita solutum ligari non vult, ut vinclum non patitur
solvi... de illis proprie loquitur, qui esse poterant continentes. L'Apostolo non
proibisce il matrimonio, ma osserva: tribulationem autem carnis habebunt
(1 Cor. 7, 28) e quindi conclude: quid boni iam nuptiis remanet, nescio, quando
etiam in illa substantia tribulantur, in qua sola videbantur habere laetitiam...
L’Apostolo oppone anche la brevità del tempo per escludere il desiderio
del matrimonio e spingere alla verginità almeno per il timore della morte!
Termina il capitolo con un'esortazione alla verginità accennando ai loci
della utilitas e honestas. hoc autem ad utilitatem vestram, non ut laqueum iniciam
vobis, sed ad id quod honestum est (1 Cor. 7, 35). Apostrofa quindi l’Apostolo:
O Apostole! Nec excusatio tua sine nuptiarum morsu profertur; nam si hoc quod
dicis, est utile, ergo inutile erat quod illi desiderabant; et si hoc quod dicis tu
honestum est, quid intelligendum est, quod contra tuam visum fuerit venire
doctrinam? Ricorre a una comparatio: l’Apostolo ha fatto questa esortazione
alla verginità in un tempo in cui sia i giudei che i pagani erani nemici della
castità, cosa avrebbe fatto, se fosse vissuto ai nostri giorni? Maiore, ut opinor,
fiducia luxuriosae voluptatis inpudentiam reprendisset. Conclude l’esegesi
alludendo allo status legalis delle leges contrariae. Sic a nobis intelligenda est
Scriptura, ne alicubi sibi videatur esse contraria ”*.
Nel capitolo XI passa alla confutazione (refutatio) delle obiezioni
avanzate contro la verginità «dai cristiani voluttuosi e amanti più della
lussuria che di Cristo». Costoro si appellano al comando del Creatore:
crescite et multiplicamini, nonché agli esempi dei Patriarchi. Al che l’autore
osserva: Video enim iuxta hanc defensionem non modo virginitatis statum
destrui, verum etiam omnem pudicitiam, nuptiarum quoque modestiam
inpugnari. Nam si vetera nobis exempla sectanda sunt, non solum nubere et
concubinas habere, verum etiam fornicari licebit. Fatta questa premessa,
avverte: Sed antequam per ordinem quae proposita sunt refutemus et, non
convenire iam nobis certa ratione monstremus, illud ante omnia nosse te cupio: ai
34 Ivi, 10.
66 N. CIPRIANI
cristiani non è lecito vivere né come vissero gli uomini ante legem né
co
quelli post legem, perché ora siamo nel tempo della grazia. Nell’Anti
Testamento sono avvenute o sono state dette molte cose in mysterio
futurae veritatis. Per la morale si deve prestare attenzione soprattutto alla
dottrina del Nuovo Testamento”. Risponde quindi a un’altra obiezione:
Quomod stabit mundus, quomodo humani generis origo consistet, sì procreationis
causa non fuerit? La risposta è netta e ironica insieme: Satis provide et
rationabiliter et prudenter! Hoc ergo Christus non vidit, quando omnibus
voluntate castratis generaliter maxime praemium promittendo, omnes sine dubio
esse tales optavit! Neque enim gratiosus aut personarum acceptor fuisse
credendum est, ul eius praemii, cuius aliquantos esse dignos voluerit, non omnes
optaverit. Inoltre, perché preoccuparsi del mondo, in cui siamo solo
pellegrini? Come può un cristiano essere sollecito per il mondo, se Cristo
ci ha detto di odiarlo? Dio ha creato il mondo, non certo perché sia
eterno! Tutto è destinato a passare. Quid ergo ad tuam sollecitudinem revocas
quod in Dei pendet arbitrio? L’Apostolo non pensava certo alla sorte del
mondo quando disse: «Voglio che tutti gli uomini siano come sono io».
Respinte queste prime obiezioni, ritorna alla questione che aveva
interrotto: Revertamur nunc ad illam, quam superius intermisimus quaestionem,
cuìî licet iam satis videatur esse responsum, in eo quo ostendimus, Christianis
exempla veterum non omnimodo posse congruere, sed lucidius est, sì eam per
species singulas personarum obiectam. Riprende la prima obiezione: crescete
e moltiplicatevi. La diversità dei sessi non è stata creata da Dio solo per la
fecondità. Ci sono stati uomini celibi nell'Antico e nel Nuovo Testamento.
Perché non crediamo che già al presente possiamo vivere come dopo la
risurrezione? Giustamente l’ordine di procreare fu dato quando la terra
era deserta, ma oggi a stento ci sostiene! Del resto, colui che diede
all’inizio quel precetto, poi con l’esempio e la parola ha esortato alla
verginità. Infine, molti precetti antichi oggi sono proibiti, come il
matrimonio tra fratelli”, Un’altra obiezione riguarda Abramo che tenne
moglie e tuttavia piacque a Dio e meritò di essere il primo patriarca. La
risposta è articolata: anzitutto, come insegna l’Apostolo, il matrimonio di
Abramo rimanda al mistero di Cristo e della Chiesa; in secondo luogo, il
mondo era ancora deserto; in terzo luogo gli uomini di quel tempo non
erano gravati da tanti precetti, che non potessero osservare pienamente
nel matrimonio, come oggi; in quarto luogo, non poteva essere loro di
pregiudizio una cosa che non era stata ancora sconsigliata né con i
5 Ivi, 12.
% vi, 13.
9” Ivi, 14.
IL DISCORSO DEL GENUS DELIBERATIVUM
67
a vi, 15.
39 Tvi, 16.
‘° Tui, 17.
CAPITOLO NONO
1. L'exordium
$ tvi, 5, 13, 6.
72 N. CIPRIANI
L'esordio termina alla fine del secondo capitolo, con la supplica che gli
imperatori siano giudici imparziali: «Mentre mi accingo a comporre
un’apologia della nostra dottrina, è necessario supplicare voi, grandissimi
imperatori, di essere per noi uditori imparziali e di non essere
condizionati, fuorviati da una comune ed insensata diceria, ma di rivolgere
anche alla nostra dottrina il vostro amore per la scienza e la verità. Voi non
commetterete errori a causa dell'ignoranza e noi, liberati dalle insensate
voci dei più, cesseremo dall’essere combattuti».
2. La narratio
* Atenagora, Supplica peri cristiani 3, 1; tr. it. di C. Burini, Roma 1986 (Collana
Testi Patristici 59).
1° Quint., inst. or. 4, 2, 21.
"vi, 4, 2, 36.
12 Fui, 4, 2, 52.
15 vi, 4, 2, 55.
i vi, 4,2, 79.
74 N. CIPRIANI
15 Ivi, 4, 2, 103.
16 Jvi, 4,2, 116.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO 75
quello solo senza lasciarlo andare. Di conseguenza, sconvolto perché non
poteva togliere di mezzo un testimone così evidente del fatto invocan
do
motivi di ogni odio, d’inimicizia, di ritorsione, non poté negare più a
lungo il suo delitto»'’,
Un esempio di narratio veramente propria di un discorso giudizia
rio,
invece, si legge nella Seconda Apologia di Giustino. Dopo aver detto
nell’esordio di essere stato costretto a fare questo discorso, Giustino dice:
«Ma vi annuncerò i fatti perché vi sia manifesta la causa di tutto quello che
è accaduto sotto Urbico» e incomincia a narrare: «Una donna viveva con
un marito dedito completamente alla dissolutezza; anche lei, in
precedenza, era dissoluta. Dopo aver conosciuto gli insegnamenti di
Cristo, lei rinsavì e cercò di persuadere il marito a diventare temperante,
presentandogli gli insegnamenti, e annunciando la punizione che sarebbe
avvenuta per coloro che non vivono saggiamente e con mente retta.
Quello, però, persistendo nelle sue scostumatezze, a causa delle sue azioni
si alienò la moglie, ecc.»!'"', Anche Agostino (Ep. 91, 8) offre un esempio di
narratio giudiziaria, in cui narra le violenze compiute dai pagani contro i
cristiani nella città di Calama.
3. Propositio e partitio
Esempi patristici
4. La confirmatio
allea con la temerarietà, non con la prudenza”. Ovviamente, oltre che con
i loci intrinseci, la causa coniecturalis sì tratta ricorrendo anche ai testimoni
(testes), ma di questi e della loro maggiore o minore credibilità abbiamo
già parlato in precedenza.
La defensio
5 vi, 111-116.
2% Fui, 119-120.
80 N. CIPRIANI
a. Loci ex indiciis
b. Loci ex testibus
Dopo aver negato che siano stati trovati segni o indizi dei crimini dei
cristiani, l’autore dell’Apologeticum passa a negare che ci siano testimoni:
«Chi, essendo riuscito a scoprire simili misfatti, li ha nascosti o sì fece
pagare il silenzio intorno ad essi, pur deferendo i supposti rei al cospetto
dei tribunali? Se sempre ci nascondiamo, quando mai si è potuto divulgare
quel che si suppone che noi commettiamo?». E si spiega meglio. «Diciamo
meglio. Da chi mai avrebbe potuto essere divulgato? Non certo dai rei, ché
è norma comune di tutti i misteri l’impegno assoluto del silenzio. Quale
segreto non avvolge i misteri di Samotracia ed Eleusi? Di quanto maggior
segreto non sarà tutelato quel mistero la cui propalazione incorre
immediatamente nella repressione umana, prima ancora di essere colpita
dalla repressione divina? Se dunque i rei non possono essere essi i
denunciatori di se stessi, dovranno esserlo gli estranei, ma donde mai
sarebbe pervenuta nozione della cosa a questi estranei, dal momento che
anche le iniziazioni più autorizzate tengono lontani i profani e si
sottraggono ai testimoni? Vorrete dire che temono meno la divulgazione
le iniziazioni non autorizzate?».
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO 81
A proposito di queste ultime argomentazioni possiamo osservare
che
esse sono ricavate dal locus ex comparatione e precisamente da quello detto
ex minore ad maius. Sono argomenti frequenti anche in altri scritti patristici,
perciò ci soffermiamo un poco su di essi, Quintiliano scrive: «Si chiamano
argomenti di vicinanza o di confronto quelli che provano le cose maggiori
dalle minori, le minori dalle maggiori, le pari con le pari» (apposita vel
comparativa dicuntur, quae minora ex maioribus, maiora ex minoribus, paria ex
paribus probant). La congettura si può confermare argomentando da ciò
che è più grande: se uno fa un sacrilegio, farà anche un furto; da ciò che è
più piccolo: chi mente facilmente e in pubblico è capace di fare anche
uno spergiuro; o da ciò che è uguale: chi ha ricevuto denaro per dare un
giudizio favorevole, lo riceverà anche per fare una falsa testimonianza.
Tertulliano nel passo sopra citato con l’argomento ex minore ad maius
voleva dimostrare che i supposti crimini dei cristiani non possono essere
stati svelati né dagli stessi cristiani né dagli estranei. Esclude che i delatori
possano essere cristiani con questo argomento: tutti i misteri impongono il
segreto per motivi religiosi; se il silenzio viene osservato nei misteri pagani,
come quelli di Samotracia ed Eleusi, che sono ammessi, tanto più viene
osservato dai cristiani, i quali, essendo la loro religione proibita, rischiano
la repressione. Dopo aver escluso che a divulgare quel che avviene nei
misteri cristiani possano essere gli stessi cristiani, dimostra con lo stesso
genere di ragionamento che non è neppure credibile che a divulgare il
segreto siano gli estranei, perché tutti i misteri ammessi (pi) tengono
lontani i profani, tanto più lo fanno quelli non ammessi (impiù), come
quelli cristiani, per il timore delle conseguenze”.
inpudentiam repressisset (10, 13, Caspari, 148). Anche Agostino ricorre spesso a
questo tipo di argomentazione. Per dimostrare che il dualismo ontologico è
assurdo, argomenta: Nam si nulla essentia, in quantum essentia est, aliquid habet
contrarium, multo minus habet contrarium prima illa essentia, quae dicitur Veritas, in
quantum essentia est (imm. an. 12, 19).
28 Aug., util. cred. 14, 31.
” Quint., inst. or. 5, 3.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
83
Dopo aver mostrato che la fama non offre nessuna prova credibile dei
crimini occulti imputati ai cristiani, Tertulliano continua la sue
argomentazioni contro le accuse ricorrendo al locus ex personis e a quello ex
faculiatibus, per dimostrare che non ci sono né i moventi né gli strumenti,
perché i cristiani commettano tali crimini. In primo luogo si appella alla
“voce della natura”, per sostenere che è assurdo pensare che uno possa
commettere crimini così orrendi con la speranza di ricevere in premio la
vita immortale. D’altra parte, tali delitti sono tanto disumani che nessun
uomo ne sarebbe capace. Rivolgendosi a un ipotetico lettore pagano, gli
dice: «Sei anche tu un uomo come il cristiano. E se tu sei incapace di
perpetrare ciò, non devi neppure crederlo di altri. Anche il cristiano è un
uomo come te»°, Quanto alla mancanza di facultates osserva: «Chi desidera
una iniziazione, suole innanzi tutto ricorrere ai gestori di quelle liturgie
“ Tert., apol. 7.
I Tvis.
84 N. CIPRIANI
e. La controaccusa
La constitutio iuridicialis
Sui loci adatti allo status definitionis non c’è altro da aggiungere a quanto
è stato detto a proposito della quaestio definitionis. È bene invece indugiare
un poco sui loci dello status qualitatis o iuridicialis. Come abbiamo già
accennato, questo status si ha quando l’imputato ammette di aver
commesso il crimine, ma si difende dicendo di averlo fatto nel rispetto
della giustizia (feci, sed iure feci). In questo caso la difesa si può fare in due
modi: o dimostrando che il fatto compiuto è in se stesso giusto e retto,
oppure, se questo non è possibile, si può dimostrare che si è agito in
circostanze tali e con motivazioni tali che il giudice non può non tenerne
conto nel giudicare i fatti o per assolvere l’imputato o almeno per
attenuare la pena. Nel primo caso si ha la qualitas absoluta ed è la difesa
migliore, nel secondo caso si ha la qualitas assumptiva, così detta perché la
difesa è cercata non nella giustizia del fatto stesso sotto giudizio, ma in una
ragione esterna al fatto.
Ivi 8.
Ivi, 9.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
85
Qualitas absoluta
Qualitas assumptiva
Una difesa fondata sulla qualitas absoluta sì può riconoscere nell’ Apologeticum,
quando Tertulliano respinge l’accusa di lesa maestà rivolta ai cristiani,
dimostrando che essi giustamente non partecipano agli atti di culto per gli
imperatori, in primo luogo perché è iniquo costringere al sacrificio
uomini liberi.contro la loro volontà”; in secondo luogo perché sarebbe
giustificata l’accusa del delitto di lesa maestà, se gli angeli o i demòni, per
natura spiriti malvagi, operino qualcosa di buono o abbiano la virtù di
salvare, oppure se i morti possono garantire i vivi. «Se ci si accusa di
dispregio della maestà imperiale è semplicemente perché non li beffiamo,
pregando per la loro salute visto che questa salute non può essere davvero
in mani foggiate col piombo»"®,
Una specie di difesa di qualitas assumptiva della menzogna a motivo di
una compensatio è adombrata e respinta nel De mendacio di Agostino. Egli
scrive: «Stabilire se un’affermazione che giova a un altro non nuoccia a chi
la dice o non gli nuoccia, perché il danno è compensato dal vantaggio che
reca al prossimo, è una grande questione. Se fosse vero questo, ne
seguirebbe che uno può anche procurare vantaggi a se stesso con una
menzogna che non nuoce a nessuno. Sono questioni collegate tra loro; e
se le si accetta, ne derivano conseguenze che lasciano molto sconcertati»”.
Una difesa fondata sulla concessio, nella duplice forma di purgatio e
deprecatio, è fatta da Ambrogio nella Seconda apologia di David", dove insiste
% Ivi, 129-130.
” Tert., apol 28.
% Fui, 29, |
*% Aug., mend. 12, 19.
*° Per la traduzione italiana vedi Ambrogio, Le due Apologie di David, a cura di F.
Lucidi, Milano-Roma 1981.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
87
sulla debolezza propria della natura umana e sulla tentazione a cui sono
esposti i re di abusare del loro potere. Scrive: «È stata proposta alla nostra
attenzione una storia in cui avvengono un adulterio e un omicidio. Infatti
troviamo scritto nel Libro dei Re che David, mentre passeggiava in casa sua,
vide la moglie di Uria che faceva il bagno, se ne innamorò
immediatamente e comandò che gli fosse portata. Poi diede ordine che il
marito della donna, che non aveva alcuna colpa (così almeno ce lo
presenta la Scrittura), fosse opposto ai più feroci guerrieri perché venisse
sopraffatto dalla forza dei nemici. Questi sono i fatti, e nessuno li nega; ma
come possono essere giustificati? Ben a proposito ci ammonisce la lettura
del Vangelo che, anche quando il peccato è evidente, la sentenza del
giudice deve essere improntata ad uno spirito di comprensione e
soprattutto ognuno deve ricordarsi della propria condizione e di ciò che
egli stesso meriterebbe» (2, 5)... «Chi rimprovera il comportamento
specifico, consideri la comune condizione umana. Il comportamento
specifico, infatti, è inerente all’azione particolare, la comune condizione è
caratteristica della natura. Non c’è motivo di scandalo, allora, quando un
comportamento specifico rientra nella genericità di una condizione
comune. Riconosco, infatti, che David fu un uomo e non mi scandalizzo
più: so che è della condizione umana che l’uomo pecchi. Non è di oggi la
debolezza [infirmitas] nella natura umana, ed è più strano che un uomo sia
privo di peccati, che non il cadere nella colpa. Certo, il giusto David peccò
(ve lo dico senza mezzi termini), commise un adulterio e premeditò un
omicidio, lo premeditò e lo condusse a termine. Peccò, come sono soliti
fare i re, ma si pentì e pianse, cosa che i re in genere non fanno. Chiese
perdono, non reso arrogante dal potere, ma conscio della sua debolezza.
Prostratosi a terra, si coprì di cilicio, dimentico della dignità regia e
memore della sua colpa» (3, 7). «Sui motivi che giustificano la
comprensione e il perdono per il peccatore ritorna ancora più tardi: “In
tutti gli uomini la natura è facile a cadere e incline al peccato; è occasione
di colpa, anche per l’uomo di morigerati costumi, un potere senza limiti e
la possibilità che esso offre”... Non c'è quindi da meravigliarsi se anche
David peccò per una erronea concezione del potere, ma molto più degno
d’ammirazione è il fatto che egli sia stato riportato sulla retta via per
merito della fede» (3, 9).
nella
Abbiamo parlato fin qui della defensio, che consiste interamente
confutazione (refutatio) delle accuse, fatta dall'avvocato difensore. Cc è però
un altro tipo di confutazione, che è comune alle due parti in causa
e difensore) e nel quale, oltre che rispondere alle accuse,
(accusatore
88 N. CIPRIANI
Quintiliano. Secondo i retori tutto ciò che concerne una persona può
diventare un locus per l'elogio o il biasimo: la patria, i genitori, il passato,
le doti fisiche e morali, le capacità intellettuali e le opere realizzate. È
quanto vediamo fare da Giuliano. Agostino viene insultato per la sua
origine: egli è il poenus orator, il poenus scriptor, il tractator poenus, |’ Aristoteles
poenorum o semplicemente il Poenus e il Numida. Non contento di
attaccarlo per la sua origine punica o numidica, lo insulta avanzando
malevole insinuazioni sulla madre, approfittando di quanto si legge nelle
Confessioni. 1 convicia più frequenti però riguardano la persona stessa di
Agostino: è oltraggiato per la sua vecchiaia, per il suo passato di peccatore,
al quale viene associato l’amico Alipio, chiamato vernula peccatorum eius,
viene tacciato di sfrontatezza nel mentire, di ignoranza, di impudenza, di
ottusità mentale («sei meno acuto di un pestello»), di empietà e di paura. I
suoi libri sono giudicati oscuri, difficili e orribili, facilmente confutabili e
degni di essere cancellati e distrutti. Agostino non è solo manicheo e
traducianista, è peggio di Mani; è marcionita; giunge fino al ridicolo di
apostrofarlo: Epicure nostri temporis. Lo paragona ai Cinici, lo chiama
giovinianista e apollinarista, lo accusa di lusingare i bassi istinti popolari.
L'obiettivo che si prefigge è trasparente: come un avvocato in tribunale
vuole suscitare disistima, odiosità ed ira nei confronti dell'avversario e
nello stesso tempo conciliarsi la simpatia dei lettori, mostrando la dignità e
la santità della causa da lui difesa e presentando se stesso come il
campione della verità, vittima di soprusi.
La polemica di Giuliano, oltre che dei precetti dei retori e delle
abitudini acquisite nelle esercitazioni scolastiche, risente anche
dell’imitazione dei modelli classici e cristiani. Nel proemio del libro
quarto dell’Ad Florum, a proposito della dispositio dell’opera, troviamo un
richiamo esplicito alla solemnitas scribentium, aì magna ingenia € ai prisca
nomina. In effetti, nell’Ad Florum, l’opera confutata da Agostino nell’ Opus
imperfectum, ì libri presentano una struttura che chiaramente si ispira ai
classici. L'opera incomincia con un proemio, in cui si ritrovano tutti gli
elementi fissati dalla tradizione letteraria classica: il tema, l’allusione alla
promessa fatta in un’opera precedente, brevi cenni ai sentimenti e alla
situazione personale dell’autore, il nome del destinatario e l’invocazione
«affinché la penna, sotto il patrocinio di una così
di favorire l’opera,
generale
grande autorità, scorra più sicura e felice»’”. Finito il proemio
avversario:
dell’opera, passa con una formula alla confutazione dell
un apostrofe,
Adtoniti ergo, quid contra me scripserit, audiamus, seguita subito da
non potrebbe essere: Quousque simplicitati, qui haec
che più ciceroniana
Si Tui, 1, 22.
5 Tert., Adv. Marc. 1,3, 1.
6 vi, 1,7, 135, 1,1.
57 Jvi, 3,6, 1.
58 vi, 5, 12, 5.
5% R. Braun, Introduction è Contre Marcion, SCh 365, 45-51.
LE PARTI DEL DISCORSO GIUDIZIARIO
93
6. La peroratio
7. Argumenta e argumentatio
"® C. Iulius Victor, Ars rhetorica, XI, Rhetores latini Minores, ed. C. Halm, Lipsia 1863, 412.
CAPITOLO DECIMO
I GENERI LETTERARI