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DI

SANT'AGO STI NO
ALBERTO PINCHERLE
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EDIZIONI ITALIANE ROMA


LA FORMAZIONE TEOLOGICA
Proprietà 1 (
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« V A I R O N E » per l'arie tipografica -ROMA


AVVERTENZA

II presente lavoro non è se non il rifacimento — che, per

quanto mi riguarda, verrei sperare definitivo — di una disorganica

serie di articoli pubblicati tra il 1930 e il 1934 nella rivista Ricerche

Religiose (dal 1934 Rcligio) diretta da Ernesto Buonaiuti. Quegli

articoli erano a loro volta il risultato dello smembramento di un

lavoro più vasto, concepito in origine come complemento e chiari-

mento di un volume di sintesi ; ma i più di essi vennero riscritti

via via, perchè, come suole accadere, nel proseguire lo studio mi

venne fatto di approfondire meglio alcuni punti, tener conto di

pareri altrui e, insomma, ripensarci su. Perciò non mancano in

essi le ripetizioni e, se non vere e proprie contraddizioni, differenze

di vedute. Siccome poi sullo stesso problema continuai a riflettere

anche dopo il 1934, mi ero dato, nell'estate del 1938, a preparare

una stesura finale di questo saggio, in vista di una sua pubblica-

zione integrale negli Annali della Facoltà di Lettere e di Filosofìa

- della R. Università di Cagliari. Riuscii però a preparare e conse-

gnare soltanto la prima parte, che infatti è apparsa sul volume IX

(1939), grazie alle cure che vi dedicò l'amico e collega carissimo pro-

fessor V. Pisani. Questa pubblicazione, l'ho potuta vedere soltanto

al mio ritorno in Italia.

Continuai però ad attendere a questo stesso lavoro, non appena

potei avere i numerosi appunti presi e l'altro « materiale » prepa-

rato, durante l'autunno e l'inverno 1938-39. Ebbi allora l'occa-

sione di discutere vari punti con l'illustre abate del Mont-César, dom
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B. Capelle, che quelli articoli aveva recensito in modo assai lusin-

ghiero mentre contemplavamo quella Lovanio che, inconscia del

futuro, mostrava ancora le tracce del passato martirio. Poi,

stabilitomi non molto lungi da Losanna, grazie alla cortesia e allo

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squisito senso di ospitalità e solidarietà tra studiosi dei colleghi di

quella Università, e in particolare del prof. Meylan, ebbi la fortuna

di poter usufruire della Biblioteca della Facoltà Teologica, oltre che

della Cantonale e Universitaria. Così condussi a termine il mio

lavoro.

Il manoscritto, con gli altri scartafacci e i pochissimi libri che

potei racimolare, mi seguì nel Perù. Ricordo ancora l'espressione

di meraviglia con cui un amico, a Londra, poco prima della mia par-

tenza, commentò la speranza, che gli avevo manifestata, di poter

pubblicare colà un lavoro siffatto. In realtà, non fu possibile trovare

un editore che se ne incaricasse per suo conto ; ed anche più impos-

sibile, se si può dire, il farlo stampare a mie spese. Accolsi pertanto

con piacere l'offerta di pubblicarlo nuovamente, capitolo per capitolo,

nella rivista « Sphinx », organo dell'« Instituto Superior de Lingui-

stica y Filologia » dell'Universidad Mayor de San Marcos, nel quale

insegnavo ; con l'intesa che di ogni capitolo si sarebbe fatta una tira-

tura a parte così che, alla fine, ne sarebbe risultato un volumetto.

Per la sbadataggine di un'impiegata, ciò non fu fatto. D'altronde,

apparsi i primi tre capitoli (tradotti in spagnolo e alquanto rimaneg-

giati) in tre-fascicoli di quella rivista (numeri 8, 9 e 10-11-12), tra

il dicembre 1939 e il novembre 1940, e quando avevo quasi ultimato

la traduzione del resto, l'Istituto perdette l'autonomia di cui godeva

e Sphinx dovette cessare le pubblicazioni.

Solo qualche anno più tardi mi si presentò l'occasione di ripren-

dere il lavoro tante volte interrotto, quando cioè, in seguito allo


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amichevole intervento del 'prof. Rodolfo Mondolfo, il manoscritto

mi fu richiesto, per prenderne visione, da un'importante casa e8i-

trice di Buenos Aires. Ma oramai, dopo tanti anni di lontananza

e di angosce per le sorti della Patria sempre amata e desiderata,

oltre che di familiari ed amici, tornava ad arridermi la speranza,

già quasi certezza, di un prossimo ritorno.

Era naturale, per contro, il timore che queste pagine, nel

frattempo, fossero invecchiate e, con il progresso degli studi, dive-

nute superflue. Ho quindi cercato di conoscere, per quanto pos-

sibile, le pubblicazioni apparse in questi anni di guerra, e delle

quali nel Perù non si aveva notizia neppure indiretta. In parte, e

specialmente per ciò che si è venuto facendo negli Stati Uniti,

potei compiere questo lavoro di aggiornamento durante un breve,

6
ma fruttuoso, soggiorno presso la Harvard University, di cui ero

stato alunno venticinque anni prima e dove mi vennero concesse,

grazie anche alla cordialità di G. La Piana e di G. Salvemini,

le maggiori facilitazioni per l'uso della magnifica biblioteca ; in

parte, e tra difficoltà ben note agli studiosi italiani, nelle varie

biblioteche di Roma. E mi sembra di poter dire, ora, che questa

indagine — limitata all'idea che Agostino s'è fatta del cristiane-

simo come religione di salvezza e per conseguenza alla sua conce-

zione del peccato, della redenzione, del libero arbitrio, ecc. e che

perciò non pretende di rendere superflui tutti gli altri scritti rela-

tivi alla formazione ed all'evoluzione spirituale di Sant'Agostino —

nonostante qualche probabile lacuna nell'informazione bibliografica,

può ancora essere pubblicata.

Le conclusioni cui essa giunge potranno sembrare non nuove,

ed alcuni le troveranno probabilmente molto, troppo, « conserva-

trici ». Esse divergono alquanto da quelle che ho esposto nel

volume su ricordato. Sono dunque, in tutti i sensi del termine,

una retractatìo. Ma su quello che è l'oggetto del presente studio

si è svolta, soprattutto in Italia, una vivace, e talvolta aspra, pole-

mica, provocata da uno scritto di Ernesto Buonaiuti, che, tradotto

in inglese, ha avuto anche all'estero una notevole risonanza. Allo

inizio delle mie ricerche, io avevo creduto di poter concordare

completamente con lui e recare anzi qualche nuovo argomento p

sostegno della sua tesi.

Ora, questa coincidenza di vedute rimane circa !a conclusione


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%eneraiissima, cioè che, tra gli anni 396 e 397, si produsse nelia

mente di Sant'Ag isnno ..n lanib'amento importante a proposito di

certi essenzialissimi punti di teologia. Ma, su ciò, vi è accordo

tra molti studiosi, compresi vari che sono prettamente cattolici.

Circa il modo, invece, in cui taie mutamento va configurato e

sulla diffìcile questione degli influssi che Agostino risentì in quegli

anni decisivi, io mi vidi orWigate a divergere sempre più /tetta-

mente da colui che mi fu maestro di • Storia del Cristianesimo nella

Università di Roma ; e nel quale, per grandi e gravi che possano

essere la diversità di atteggiamenti spirituali e le riserve o le

critiche relative a certe posizioni da lui assunte, tutti siamo d'ac-

cordo nel ravvisare lo storico di più vasta erudizione e di più

profonda genialità, che l'Italia moderna abbia avuto in questo campo.


Egli amava atteggiarsi a maestro — come, nell'ambito degli studi

•storico - religiosi, ne aveva pienamente il diritto ; ma con genero-

sità e larghezza d'idee, non comuni, rispettava, anzi apprezzava,

le personalità dei, discepoli che, maturando, acquistavano una loro

indipendenza di giudizio e di atteggiamenti.

Ma bisognava andare oltre quelle polemiche. A tal fine, mi era

apparso da tempo che si rendesse necessaria una ricerca condotta

con la più assoluta obbiettività, cioè con severo rigore di metodo,

seguendo il criterio cronologico : leggere e rileggere attentamente,

cercando di spremerne fuori, per così dire, tutto ciò che. potevano

darci di utile, le opere di Sant'Agostino nell'ordine stesso in cui

con maggiore probabilità possiamo ritenere che furono pensate e

scritte, e tenendo conto delle connessioni che esistono tra esse. 11

che significa, poi, seguire in genere l'ordine stesso delle Retracta-

tiones, quando si abbiano presenti tutte le indicazioni che esse ci

forniscono.

Ho visto con piacere che questo criterio è stato adottato anche

da altri studiosi recenti, a proposito di problemi diversi, e con buoni

frutti. Senonchè oggi, quando questo metodo si' viene applicando,

già ormai da parecchi anni, anche ad un Aristotele, adottarlo per

Sant'Agostino può sembrare cosa ovvia e perfino banale. Non era

così quando ho incominciato. Se poi i risultati del lungo studiare

e meditare nort hanno nulla di sensazionale, io per mio conto non

me ne lamento, nè trovo che sia stato perduto il tempo impiegato,

mentre non mi illudo che possano soddisfare tutti. Molte questioni


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resteranno controverse, e alcuni punti non si potranno considerare

mai come chiariti del tutto : perchè la loro soluzione è questione

di apprezzamento e perchè nonostante gli sforzi che si possano

fare, resterà sempre un certo campo aperto alle ipotesi, come è

inevitabile, quando si tratta di ficcare lo sguardo nella vita di una

anima, e così grande e ricca come quella di Agostino. Ma appunto

per ciò, sono tanto più affascinanti i problemi e tanto più varie le

possibilità di risolverli ;*e anche l'errore è meno inutile che mai,

se in qualche modo ci permette, esso pure, di avvicinarci a Lui.


Poco dopo aver pubblicato il suo primo scritto, De pulchro et

apto, Agostino si decise al gran passo, di trasferirsi a Roma. Sa-

peva che i retori non vi mancavano, ma aveva coscienza del suo

valore e dovette contare sul probabile appoggio di lerio, cui

aveva dedicato il suo libro, e su quello, immancabile, dei suoi

correligionari manichei (1). Il suo stesso trattato di estetica non fu

probabilmente che un tentativo di applicare, dando loro veste filo-

sofica, le idee della setta cui aveva dato la sua adesione (2). Ma,

dopo vicende ben note, si presentò a Simmaco : il ricchissimo e

nobilissimo senatore, capo del partito pagano, ascoltò il retore pro-

vinciale e diede il giudizio favorevole, che procurò a questi la no-

mina alla cattedra di Milano. Gli amici manichei che presentarono

Agostino a Simmaco, difficilmente si saranno proclamati aperta-

mente seguaci di una setta proscritta ; è più probabile che si pre-

sentassero piuttosto come « filosofi », aderenti in qualche modo al

partito della reazione anticristiana (3). Ma non dobbiamo neppu-

re esagerare il contrasto tra l'esaminatore e l'esaminato, vedendo in

quest'ultimo già l'autore della « città di Dio » (4). E possiamo forse

anche supporre che Simmaco non vedesse, malvolentieri l'occa-

sione di collocare sulla cattedra imperiale qualcuno che dovesse

a lui questo posto e potesse in qualche modo aiutarlo a controbilan-

ciare la crescente influenza di S. Ambrogio.

Quanto ad Agostino, forse già si affacciavano alla sua men-

te i primi dubbi e le prime difficoltà contro il manicheismo, sia

sotto l'aspetto scientifico sia sotto quello etico ; e forse a lui pure,
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anche per questo riuscì gradito l'allontanarsi da Roma. Tuttavia,

se allora si inclinò verso lo scetticismo accademico, questo dovet-


te sembrargli non incompatibile con ciò che vi era di essenziale nel-

la dottrina di Mani, cioè il dualismo. Perchè, dall'osservare nel-

l'uomo l'anelito costante verso il Vero e il Bene, insieme con l'im-

possibilità di raggiungerli, si poteva dedurre che nella natura uma-

na bene e male sono commisti insieme ; e che un solo Dio non po-

teva aver creato un essere dotato di tendenze contraddittorie. Quin-

di, la fiducia di Agostino nel manicheismo, scossa per ciò che ri-

guarda quella che è la parte esteriore, e come il rivestimento, del-

la dottrina, dovette invece mantenersi, se pure non rafforzarsi, in

un primo momento, quando egli si mise a studiare le dottrine de-

gli Accademici. Non è illogico anzi il supporre che Agostino cer-

casse d'interpretare lo scetticismo accademico da un punto di vi-

sta manicheo, o di spiegare filosoficamente il manicheismo appog-

giandosi su teorie che avevano illustri precedenti classici.

Sarebbe fuori di luogo rifare qui la biografia di Agostino ed

esporre ancora una volta il processo graduale della sua conversio-

ne, analizzandone i motivi e cercando di disfare e sbrogliare tutti

i fili che, a volte nascondendosi ai nostri occhi, formano il tessuto

complesso del racconto delle Confessioni. Influirono su questo pro-

cesso anche motivi di ordine pratico, ai quali pare non rimanesse

insensibile neppure Santa Monnica (5). Agostino apprezzò i van-

taggi che gli potevano dare un matrimonio vantaggioso e amici in-

fluenti ; et?be le sue ambizioni mondane ; avrebbe gradito un po-

sto di certa importanza nell'amministrazione dell'Impero. Ma tut-

te queste considerazioni, sia che le facesse spontaneamente, sia che


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gli fossero suggerite da altri, non fecero, al più, che fomentare e

affrettare lo sviluppo di una crisi tutta interna e spirituale, L'ori-

gine i d! questa, per quanto ci è dato penetrare nella psicologia di

Agostino, va cercata in quel contrasto tra le aspirazioni dell'ani-

ma sua fantasiosa e assetata di bellezza e purità, e la sua sensua-

lità sempre accesa (in relazione, — è probabile — con quella stes-

sa fantasia così vivace e ardente) : contrasto che aveva provocato

le crisi precedenti. In questa incertezza, in queste angosce, può

avere arriso ad Agostino, in qualche momento, una filosofia scet-

tica e pessimista : egli può aver pensato, a tratti, che meglio vale-

va rinunciare alla ricerca del vero, e, annullato il valore di tutte

le scienze e distrutte le basi della vita morale, stordirsi nell'attività

pratica. Ma non pare che questa si sia presentata mai come una

10
conclusione. Dovette essere più uno stato d'animo momentaneo,

che un convincimento maturato.

Le esigenze d'ordine morali erano in lui troppo forti, e rinasce-

vano più prepotenti ad ogni suo atto di debolezza.

Quella che alcuni biografi — seguendo una delle versioni che

egli stesso dà della sua conversione (5 bis) — hanno voluto isola-

re come una « fase scettica » nello sviluppo spirituale di Agosti-

no, dovette essere in realtà un periodo di dubbi e di lotte inter-

ne, non un'epoca di accettazione piena di una .filosofia, che sod-

disfacendo l'intelletto infondesse anche tranquillità e serenità a

tutta l'anima. Lo scetticismo accademico dovette dapprima appa-

rire ad Agostino come consono con le dottrine di Mani : ma al

tempo stesso alimentare nuovi dubbi relativamente allo stesso ma-

nicheismo. Ma insieme, doveva riuscire difficile rinunciare all'i-

dea di una vittoria del Bene sul Male, mentre, d'altra parte, l'as-

serita impossibilità per l'uomo di giungere alla conoscenza della

verità non era una prova sufficiente dell'inesistenza di questa.

La crisi si chiuse con la lettura dei libri neoplatonici (6) e la

famosa « scena del giardino ». Su questa crisi di Agostino, come

sull'attendibilità del racconto delle Confessioni e sul carattere del-

la conversione, si è discusso moltissimo. Io vorrei solo presentare

qui alcune considerazioni. In primo luogo, non conviene dimenti-

care -- anche chi elimini qualsiasi elemento sovrannaturale — che

si tratta di ricostruire un processo psicologico dei più sottili e deli-j

cati : ogni nostro tentativo di analizzarlo e di ricostruirlo non può


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non essere alquanto schematico e perciò, anche qualora riuscisse

a non trascurare nessun elemento, avrebbe sempre qualcosa di

arbitrario. In secondo luogo, non va perduto di vista che all'inizio

dell'attività filosofica di Agostino vi fu la lettura dd\'Hortensius

ciceroniano : di un'opera cioè, che riecheggiava il Protrettico di

Ariste'01», quell'« Aristotele perduto », tuttora platonizzante, noto

agli antichi ma a noi rivelato da indagini recenti. Di qui, e ricor-

dando che gli Accademici erano i continuatori della tradizione pla-

tonica, dovette venire malgrado tutto ad Agostino l'idea che all'a-

nima umana, purificandosi da tutte le scorie, non dovesse essere im-

possibile giungere alla scoperta del Vero. Anche il sentire in sé

l'aspirazione ad una vita più alta e più nobile dovette parere ad

11
Agostino una prova convincente di tale capacità. Ma quell'aspira-

zione andava favorita e sostenuta : con il sottrarsi alle tentazioni,

con la fuga dal mondo, con il rifugiarsi, dalle tempeste della vita

pratica, agitata da ambizioni e preoccupazioni, nel porto sicuro

della filosofia (7).

Ma appunto la riluttanza sempre maggiore ad accettare lo

scetticismo accademico, doveva portare con sè anche l'abbandono

definitivo del manicheismo. Dovette fare profonda impressione,

allora, nell'animo di Agostino anche l'argomento di Nebridio (8);

un Dio, che può essere vinto, anche momentaneamente, dalle forze

del male, cessa di essere assoluto, non è più Dio. A poco a poco,

il dualismo manicheo appariva assurdo ; e, grazie all'interpreta-

zione allegorica, anche i racconti biblici, oggetto di tante critiche

da parte manichea, si rivelavano invece pieni di sublimi ammae-

stramenti etici. Restava il problema del male; particolarmente

difficile da risolvere per chi non sapeva ancora decidersi a conce-

pire Dio — l'unico Dio — come assolutamente incorporeo. La

lettura dei libri neoplatonici, e la conoscenza dell'ascetismo cristia-

no, con i racconti di San Simpliciano e, poco dopo, di Ponticiano,

ebbero allora un'influenza decisiva.

Ma va ancora osservato, a proposito di questa crisi agostinia-

na, quanto è difficile il determinare in essa momenti successivi

e il segnalare dei cambi nètti di orientamento. Qualsiasi presenta-

zione di questo processo, che si voglia tentare con il proposito di

non allontanarci troppo dalla verità, non sarà mai abbastanza ricca
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di sfumature.

Un esempio, ce lo dà la relazione che corre tra gli avvenimenti

esteriori e lo sviluppo interno. Alle ambizioni mondane, succede il

progetto di realizzare l'abbandono del mondo, di ritirarsi in una

specie, si direbbe con termine moderno, di « convento laico » ;

qualcosa tra una Tebaide, che fosse centro di vita intellettuale

oltre che religiosa, e una « Platonopoli » (l'ideale di Piotino) con

un colorito ascetico-cristiano. Ma il momento in cui Agostino sì

preparò a realizzare questo progetto era quello stesso in cui si pote-

va già considerare come ormai inevitabile il conflitto aperto tra

Valentiniano II e Massimo, e si era fatto più acuto il contrasto tra

l'imperatrice madre Giustina e Sant'Ambrogio. E' allora che Ago-

12
stino, allegando le cattive condizioni della sua salute, si ritira nella

solitudine di Cassiciaco. Sarebbe senza dubbio ingiusto ed eccessivo

attribuire l'allontanamento di Agostino dall'insegnamento e da Mi-

lano a un calcolo opportunistico e al timore di prendere un atteg-

giamento netto nella grave crisi politica. Ma sarebbe alquanto ardi-

to, credo, l'affermare a priori che questa situazione non esercitò

alcun influsso su Agostino, per lo meno nel senso che esso contri-

buì a farlo decidere : anche in quanto potè accrescere in lui la

ripugnanza per la politica attiva e il desiderio di abbandonare una

volta per sempre quel terreno infido.

Non è possibile, infatti, ravvisare nel ritiro di Cassiciaco sol-

tanto l'aspetto ascetico, farne un atto di rinuncia totale al mondo

,e aile sue attività. Si oppone a ciò il fatto che precisamente allora,

in quei pochi mesi di Cassiciaco, comincia l'attività letteraria pro-

priamente detta di Sant'Agostino. E' come se tutte le sue ambizioni

precedenti si fossero trasferite del tutto al campo della cultura. E

ciò potè ben essere dovuto, in parte, all'influsso di circostanze

esterne, il quale venne a sovrapporsi, ad aggiungersi e quasi a

confondersi, a quello della sua lotta spirituale. Dall'uno e dall'altro

— il secondo senza dubbio più forte, il primo forse con maggiore

prontezza — venne ad Agostino l'impulso di dedicarsi a una forma

superiore di attività, dandosi a quella vita contemplativa, che -tanto

nella « letteratura protrettica » quanto negli scritti dei neoplatonici

era presentata come la forma più nobile di esistenza, anzi la sola

veramente degna dell'uomo.


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Così anche quell'interiore irresolutezza, quell'oscillare tra

l'aspirazione al successo materiale e alla vita filosofica, giunse al

suo termine. Tornò insomma a predominare nella mente di Ago-

stino l'entusiasmo giovanile per la filosofia, destato già dalla lettura

dell'Hortensius, ma ora fatto più forte e più intimo dalla maturità

e consapevolezza raggiunta dopo una lunga lotta con se stesso; e

con una rinnovata e prepotente vitalità che lo spingeva a scrivere.

Non rinuncia, dunque, ad esercitare un'azione sugli altri ; non ri-

nuncia nemmeno, quindi, a continuare ad essere un maestro. Ma

sembra non desiderare per sé altro alloro da quello, più duraturo

di tutti, che procurano le opere dell'ingegno ; non dare alla sua vita

altro scopo che la disinteressata contemplazione del Vero, nella

perfetta tranquillità d'animo del sapiente. E di questo vero è parte

13
integrante, essenziale, il cristianesimo. Ma un cristianesimo che,

nel suo pensiero, coincideva perfettamente con la filosofia da lui

accettata, e alla quale sì accedeva attraverso le arti liberali, come

propedeutica necessaria. Di qui anche il progetto di quella che è

stata chiamata, a ragione o a torto, l'« enciclopedia » di Agostino,

i Disciplinarum libri (9). Per mezzo dei quali egli desiderava, senza

dubbio, anche acquistare fama; ma questa, come i vantaggi con-

seguenti, non era da lui ambita, ormai, se non come ricompensa

della sua opera di studioso, di uomo dedito alla vita contemplativa.

Si opera in questo momento una vera « conversione », proprio nel

senso etimologico del termine : la sua vita -prende una direzione

nuova.

Ma qui è da fare un'altra osservazione. Molti, quasi tutti, i

biografi e in genere gli studiosi di Sant'Agostino si domandano a

questo punto se la sua conversione fu di natura filosofica o religio-

sa, se fu conversione al neoplatonismo o al cristianesimo. Posto il

problema così, con un vero aut, aut, le soluzioni tendono natural-

mente ad essere nette, taglienti, e sempre con una certa intonazione

polemica. In realtà, il problema in quei termini è posto male, come

oramai si comincia a riconoscere (10). Perchè, nello stabilire una

opposizione recisa, quasi una incompatibilità assoluta, tra cristia-

nesimo e neoplatonismo, noi forse ci lasciamo guidare un po' troppo,

dal nostro modo di considerare quest'ultimo; e non possiamo di-

menticare che Piotino e Perfino scrissero contro i cristiani. Ma,

nel IV secolo, contavano anche gli elementi di cultura comuni a


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tutti coloro che avevano ricevuto un certo grado di educazione ;

contava la tradizione della letteratura protrettica ; e contava anche

tutto ciò che del pensiero antico, e di platonismo e neoplatonismo,

per tale modo e per sforzo cosciente di alcuni maestri, era già pene-

trato ne! pensiero cristiano (li).

E d-'altra parte, era tuttavia vivo nella coscienza cristiana il

problema, se tale cultura, pagana d'origine e di modi e tale ancora

di spiriti in alcuni suoi cospicui rappresentanti, fosse compatibile

con la vera fede. Agostino, sul quale influivano poderosamente e

la sua formazione retorica ed esempi antichi e contemporanei, sem-

bra, almeno per ora, non avere dubbi in proposito. I disciplinarum

libri vanno, perciò considerati anche sotto questo aspetto, di uno

sforzo cosciente per inserire nel cristianesimo il più e il meglio della

14
cultura antica, mettendola al servizio della Verità e di Dio, dei

quali, del resto, le menti superiori dell'antichità avevano avuto già

qualcosa di più che un vago sentore. Nel fonte battesimale di Mi-

lano, Agostino scendeva, entusiasta e convinto; ma — se si può

dire — vi faceva entrare con sé anche Piatone e Cicerone.

Quei primi scritti di Agostino sono uniti tra loro da nessi

strettissimi. Se ognuno si occupa di un problema determinato o *

insiste sopra un punto speciale, è perché essi si completano a vi-

cenda : i motivi fondamentali sono identici, il pensiero è identico.

E in ciascuno, quand'anche solo per via di accenni, è in realtà tutto

l'insieme dei problemi filosofici che forma l'oggetto della tratta-

zione. Ma questi scritti di Cassiciaco sembrano concepiti già come

parti di un complesso, e destinati a essere letti e studiati tutti in-

sieme.

Il Cantra Academicos (12) è, prima di ogni altra cosa, un

« Protreptico », una esortazione alla filosofia. La felicità può con-

sistere. secondo alcuni, anche nel solo ricercare la verità, senza

trovarla ; ma Agostino' reagisce contro lo scetticismo degli accade-

mici, falsi filosofi che abusivamente si richiamano all'autorità di

Piatone. A dir vero, però questo scetticismo non è che un accor-

gimento, uno stratagemma difensivo contro gli stoici. L'autentica

dottrina di Piatone si è perpetuata, è giunta fino ai pensatori con-

temporanei di Agostino : i neoplatonici (13). Così egli può combat-

tere lo scetticismo accademico e . al tempo stesso salvare il suo Cice-

rone. La verità può essere conosciuta (e dimostrare la ragionevolez-


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za di questa fiducia nelle capacità dell'anima umana è per lui un'esi-

genza fondamentale) ; conoscerla è possedere Dio ; nel possesso di

Dio è la felicità. Chè la sapienza è divina sapienza, e al tempo

stesso il sapiente la trova in sé; ma soprattutto è modus animi (14),

predominio della ragione sulle passioni, cioè moralità, senza la

quale non è possibile conoscere il vero. A questa eticità superiore,

alla purificazione dello spirito, conduce anche il cristianesimo, che,

esso pure, pratica e promuove la vita ascetica : pertanto cristiane-

simo e vera filosofia sono sostanzialmente concordi, e hanno comu-

ne anche l'avversario : lo scetticismo, che è tutt'uno con il pessi-

mismo, con la dottrina dei manichei. Tra la filosofia platonica (ben

15
diversa dalla « filosofia di questo mondo » contro cui S. Paolo e

tutte le Scritture sacre ci mettono in guardia) Agostino non ravvisa

alcuna differenza di sostanza. L'àiòv [iéXXwv del Vangelo è il

xóauo? VOYJTÓ; dei neoplatonici, la vita dei Padri nel deserto

è il S-etopTjTixóc- |3fo{ dei filosofi (15). Tale appare ad Agostino

il genere di vita condotto a Cassiciaco : a diventare perfetto filo-

sofo occorre intensificare l'attività spirituale, rivolgerla a fini sempre

più alti, subordinando anche gli studi meramente letterari — pur

senza trascurarli del tutto — alla ricerca della verità, per mezzo

della filosofia. Nemmeno il dogma trinitario presenta difficoltà ad

Agostino (16), perché anche per lui Dio è trascendenza assoluta, il

Cristo è il Logos divino e al tempo stesso umano in quanto la ra-

gione non è, in ogni uomo, se non una particella, una scintilla, di

quello stesso Logos divino ; e purché essa ragione umana si ricordi

della sua origine e del suo fine, e si purifichi da ogni carnalità, non

vi sono ostacoli al suo ricongiungimento con Dio. Gesù ha additato

la via. Ma anche i grandi filosofi hanno conosciuto il vero, e pos-

seduto Dio e conseguito la felicità.

E il De beata vita sembra scritto specialmente per dimostrare

questa sostanziale identità tra religione cristiana e vera filosofia

(neoplatonica); lo dimostrano, tra l'altro, l'accettazione del dogma

trinitario e la chiusa con la citazione del verso di S. Ambrogio

(sacerdotis nostri), che fa riscontro in maniera assai significativa

alla dedica a Manlio Teodoro (16 bis). Ci spieghiamo così la parte,

molto importante, che in questo dialogo è fatta a Monnica (17),


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personaggio reale ma, al tempo stesso, starei quasi per dire sim-

bolico (primo passo verso quell'idealizzazione e sublimazione di

lei che tocca l'apice nelle Confessioni, dove essa è reale e ideale

a un tempo). Monnica rappresenta, non tanto la donna incolta, che

ragiona col semplice e schietto « buon senso » ; -quanto il cristiane-

simo, ossia ciò che Agostino chiama ancora fede ingenua nell'auto-

rità e che arriva di primo acchito, e inconsapevolmente, alle con-

clusioni stesse cui il ragionamento condurrà il filosofo. Ma questi

vi giunge mediante la ragione ; e in ciò consiste la sua superiorità

sul semplice credente. Il quale, se non è in grado di giustificare

razionalmente la sua fede, vive però, attenendosi ai precetti della

religione, una vita moralmente buona; e così adempie alla prima

e più importante delle condizioni indispensabili affinché la ragione

16
possa elevarsi a riconoscere la trascendenza, unicità, bontà e prov-

videnza di Dio. La beatitudine consiste nell'unione con Dio, cum

Deo esse, ma tale unione non ha nulla di mistico; è invece tutta,

o quasi, intellettuale. Né troviamo accenni alla redenzione : anche

\'admonitio quaedam quae nobiscum agii ut Deum recordemur (18)

ncn o conseguenza di un atto di Dio, che nella sua misericordia si

protenda, per cosi dire, in soccorso del credente nella preghiera ;

non è insomma il risultato di un atto d'amore; è soltanto consc

guenza del fatto che l'anima umana partecipa in qualche modo della

natura divina e, pur nell'imperfezione di questa vita, non dimen-

tica la propria origine. Del resto, se così non fosse, l'uomo non

potrebbe neppure aspirare alla conoscenza della verità, ad ammi-

rare l'ordine che regna nel creato e a riconoscere nel Creatore il

Sommo Bene.

Parallelamente, nel De ordine, con un rafforzamento dei mo-

tivi polemici antimanichei, troviamo l'esaltazione della vita contem-

plativa. A qualche accenno di sapore prettamente cristiano (Deum

colant, cogitent, quaerant, fide, spe, cariiate subnixi) fa tuttavia

riscontro il concetto che Agostino ha ancora della morale evangelipa

come inferiore all'etica ragionata dei filosofi : la Regola aurea è

un vulgare proverbium. Tanto ancora egli, pure riconoscendo l'i-

dentità della mèta ultima, subordina l'autorità, e la fede delle masse

che si contentano del dettame oramai proverbiale, alla ragione e

al filosofare cosciente. Dalla prima è possibile elevarsi alla seconda,

e ciò è anzi necessario, perché non si può comprendere l'ordine


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che regna nell'universo, senza possedere la cultura, che richiede

l'ordine degli studi.

Solo con uno sforzo grande e costante si arriverà ad appren-

dere le varie disciplinae, ordinate in modo da condurre a Dio. Chè

la filosofia, secondo una dottrina abbastanza diffusa (19), conside-

rata come suprema, tra le arti e le scienze, nel De ordine è collo-

cata appunto in cima alle altre disciplinae (grammatica, dialettica,

retorica, musica, geometria, astronomia) e completa il numero tra-

dizionale delle sette arti liberali (20).

Così il De ordine ci si rivela come strettamente collegato, non

solo con i due scritti precedenti, ma con la serie dei disciplinarum

libri, tanto da non far parere assurda l'ipotesi che fosse concepito

come una specie di introduzione, in cui esporre le conclusioni e i

17
fini dell'opera, alla « enciclopedia », di cui Agostino andava com-

piendo, e in parte colorando, il disegno. Questa doveva essere

appunto la grande opera, destinata a condurre la ragione umana

dai primi elementi della scienza fino a Dio : intuito, sì, dalla sem-

plice fede, ma dimostrato e compreso dalla filosofia (21); la grande

opera alla quale Agostino, mutando ambizioni, aveva pensato di

legare il proprio nome. E' sempre un fatto degno di nota che,

appunto nei giorni in cui si preparava a ricevere il battesimo — e

questa non era per lui una formalità vana — egli attendesse alla

redazione dei primi cinque libri De musica; chi di ciò si stupisse,

mostrerebbe di non aver inteso bene la vera natura e lo scopo di

questo scritto, che si rivela chiaro quando lo inquadriamo nel com-

plesso dell'attività di Agostino in questo periodo.

Il De ordine si chiude con la dottrina del ritorno dell'anima

su sé stessa e con l'affermazione ch'essa è immortale. A dimostrare

l'immortalità, strettamente congiunta con l'immaterialità, dell'anima

sono destinati i due libri dei Soliloquia nonché gli altri due, il De

immortaìitate animae e il De quantitate animae. La prima opera

si apre con la famosa preghiera, su cui s'è tanto scritto e discus-

so (22). Il carattere neo-platonico di questa preghiera è stato rico-

nosciuto da tutti coloro che l'hanno studiata ; essa è però allo stesso

tempo una preghiera cristiana, nella quale è vivissimo, per esem-

pio, il senso della paternità di Dio. Ma questo riconoscimento non

deve poi trascinarci a ridurre il neoplatonismo di questa preghiera

a pura apparenza superficiale ; quello che dobbiamo riconoscere


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ormai è, allo stato degli studi, ripeto, l'esistenza di un neoplatoni-

smo cristiano, il cui principale rappresentante fu appunto quel

Mario Vittorino, l'esempio e gli scritti del quale furono così potenti

sull'animo di Agostino (23). Ma appunto per ciò è inutile, mi sem-

bra, sforzarsi di voler trovare nella preghiera dei Soliìoquia quello

che non c'è né ci può essere ancora ; e, se vi fosse, non sapremmo

spiegarci più la sua assenza in opere posteriori (24). Del resto

ritroviamo nei Soliloquia l'identificazione del mondo intelligibile con

il « mondo venturo » e la dottrina della luce intima, del raggio

divino che è nell'anima umana. Il De immortalitate animae riprende

quello che è anche^l tema dei Soliìoquia (24-bis).

Ma la terza di queste opere, il De quantitate animae, merita che

vi fermiamo sopra l'attenzione, non solo per gl'intenti polemici

18
antimanichei, bensì anche per gli accenni al cristianesimo. L'anima

è simitis Deo, pertanto incorporea ; deve sottrarsi al dominio degli

oggetti sensibili, che le sono inferiori, per aspirare alla sua vera

patria; la religione cristiana c'insegna appunto a disprezzare tutto

ciò ch'è corporeo, ed a staccarci da questo mondo sensibile, affin-

che possiamo ritornare simili a Dio, quali siamo stati creati. In ciò

consiste la salvezza dell'anima, la sua redenzione. A questo con-

cetto si contrappone quello del peccato, che ne è il presupposto.

Agostino parla infatti di « uomo vecchio » e di « uomo nuovo » e

mostra così di aver presente la caratteristica terminologia di San

Paolo. Ma fino a qual punto, e in che modo, ne ha inteso e assi-

milato il pensiero, e in che cosa consistono ora per lui il peccato,

la redenzione e quel soccorso divino che ad ottenere quest'ultima

egli dichiara indispensabile? Il peccato, realtà misteriosa che col-

pisce di riverenza e di timore e addirittura fa sbigottire Agostino,

è bensì per lui una violazione della legge divina ; ma esso consiste

nel volgersi alle cose carnali, agli oggetti sensibili, a quel mondo

della materia, che ancora una volta è identificato col mundus hic di

cui parla il Vangelo e contrapposto a quello delle realtà intelligibili

(e questo, dunque, è considerato ancora identico ali' àubv fiiXXwv).

Che l'anima umana si trova dinanzi due vie. Può, accostandosi

alla materia, degradarsi fino a diventar simile all'animale ; e può

altresì — ecco in che consiste la redenzione — elevarsi, per ratio-

nem atque scientiam, e divenire sempre più simile a Dio, ritraen-

dosi dal mondo sensibile per ritornare a sé stessa. L'abrenuntio,


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che Agostino ha pronunciato nel ricevere il battesimo, implica

appunto l'impegno di sottrarsi al dominio degli oggetti sensibili,

per innalzarsi alla conoscenza razionale di Dio : alla quale non

può non pervenire chi cerchi per puro amore della verità, pie caste

ac diligenter. Si tratta di ritornare alla natura propria dell'uomo,

per cui è al disopra di tutte le creature e inferiore a Dio solo; di

risplasmarsi secondo quell'immagine di Dio, che il creatore ha

posto in noi e che è quanto noi uomini abbiamo di più prezioso.

Questa purificazione, questo ritorno dell'anima a sé stessa, non è

possibile senza un aiuto divino. Ma tale aiuto è da Agostino stesso

paragonato alla creazione : il suo paolinismo non arriva ancora

al punto da indurlo a meditare sulla morte e la risurrezione del

Cristo. E, in sostanza, l'indispensabile aiuto divino è già in noi,

19
poiché in noi è il modello cui dobbiamo conformarci ; si tratta sol-

tanto di ricordarcene. In ciò consiste il soccorso, largito a tutti.

Preoccupato di combattere i manichei, Agostino mostra che, imma-

teriale come l'anima umana che gli somiglia, Dio creatore del mondo

continua a manifestare la sua clemenza verso il genere umano. Se

il peccato fu un piegare verso gli oggetti corporei, la redenzione

sta nello staccarsene, nel purificarsi dalle passioni. E questa è cosa

difficile, ma non impossibile : basta che l'uomo si ricordi della pro-

pria natura e usi quel soccorso divino che trova in sé stesso, cioè il

libero arbitrio che Dio gli ha -dato (25). Da questo dipende che

l'uomo si possa conformare al modello celeste secondo il quale è

stato fatto ; e perciò l'aiuto che egli riceve da Dio è tanto mag-

giore quanto più egli procede sulla via della sapienza. Evodio,

rimasto in fondo all'anima ancora manicheo, e per il quale l'ap-

prendere è un crescere dell'anima (quindi materiale), domanda ad

Agostino come si spieghi che il bambino, venendo al mondo, non

sappia nulla. Ed Agostino gli risponde con la dottrina della remi-

niscenza. Ma ciò non toglie che l'anima possa compiere un pro-

gresso continuo, attraverso i sette gradi della sua purificazione (26).

Lo stesso concetto, che la sapienza si possa ottenere mediante

un progressivo perfezionamento morale ispira i due trattatelii De

moribus, redatti anch'essi da Agostino durante il suo nuovo sog-

giorno in Roma (27). La felicità, cui l'uomo anela, consiste nel

possesso del bene più alto a cui possa aspirare : un bene, dunque,

superiore all'uomo e tale che non possa essere perduto. Rispetto al


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corpo, il massimo bene è l'anima ; per questa, è tale la virtù ; essa

si raggiunge seguendo Dio. E a farci conoscere Dio soccorre per

prima — poiché si tratta di apprendere — l'autorità, ossia la Sacra

Scrittura; poi la ragione. Il De moribus Ecclesiae cathoìicae è

quindi in gran parte dedicato a dimostrare — altro evidente mo-

tivo antimanicheo — l'accordo tra l'Antico ed il Nuovo Testamento

e il valore dell'interpretazione allegorica. Giacché i cristiani hanno

di Dio un concetto ben superiore a quello dei manichei.

L'amore dell'uomo si volge -a Dio, a Cristo che è virtù, verità

e sapienza; la virtù è amore sommo di Dio, e di tale amore le

quattro virtù cardinali non sono che aspetti diversi. Prima tra esse,

e sopra le altre lodata da Agostino, è la temperanza, con l'eser-

cizio della quale ci si spoglia dell'» uomo vecchio » e si riveste il

20
nuovo. Anche qui dunque ritroviamo il linguaggio di S. Paolo; del

quale Agostino ricorda con altri i due passi, in cui la cupiditas è

detta origine di tutti i mali (/ a Timoteo, VI, 10) e in cui l'apostolo

mette in guardia contro la filosofia. Ma a tale proposito Agostino

insiste sopra le parole et elementa huius mandi (Ai Colossesi, II, 8)

per trame la conferma che non il filosofare per se stesso, bensì

l'amore per le cose sensibili è pernicioso ai cristiani. Anzi, non si

possono neppure chiamar tali coloro, l'oggetto del cui amore sia

altro da Dio. Ora, la temperanza ha come propria funzione il far

disprezzare ogni attrazione esercitata dal mondo corporeo, o dalla

vanagloria, per dirigere invece l'amore a ciò ch'è invisibile e divino.

Che il mondo sensibile può sedurre l'anima fino a farle credere

reale solo ciò che ha corpo, o se pure essa riconosca per fede

l'esistenza di realtà incorporee, a pensarle e raffigurarsele per mezzo

di immagini tratte dall'ingannatrice esperienza dei sensi. All'esal-

tazione della temperanza segue quella delle altre virtù, e la glori-

ficazione della Chiesa. Mater christianorum verissima, essa insegna

a venerare Dio, eterno, evitando il culto delle creature e di tutto

quanto è fatto, mutevole, corporeo — è questo il solo modo di evi-

tare l'infelicità — e ad amare il prossimo, nel che è la fonte di

tutte le virtù : la Chiesa fornisce così i rimedi a tutti i mali onde

le anime soffrono, per i loro peccati (28).

Così nel De moribus manichaeorum, dopo aver insistito sulla

trascendenza e unicità di Dio — dimostrate anche argomentando in

base alla ratìo numerorum (29), Agostino può contrapporre il falso


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e superficiale ascetismo manicheo a quello della Chiesa cattolica,

che è in possesso della verità ; e contrapporre altresì alle azioni

immorali, compiute perfino dagli « eletti » manichei, la virtù dei

fedeli e l'eroismo dei martiri di Cristo.

E' chiaro, da tutto ciò, che cosa Agostino intenda in questi

scritti per cupiditas e come egli interpreti San Paolo. Insomma,

il suo sforzo è tutto diretto ad affermare il sostanziale accordo tra

la filosofia e la religione (e la prima, cioè la ratìo, è considerata

superiore alla seconda, \'auctoritas), nonché la bontà e l'ordine

dell'universo, insieme con la trascendenza e la provvidenza di Dio.

Agostino polemizza continuamente con i manichei — cioè con se

stesso, quale era nel momento in cui s'iniziò il processo della sua

conversione — e perciò ritorna continuamente sul problema che

21
10 assillava, e di cui nel manicheismo stesso aveva creduto di trovare

la soluzione : qullo del male. Di esso discute lungamente nei primi

capitoli del De moribus manichaeorum ; e in polemica con essi è

condotta la dimostrazione del libero arbitrio, che s'inserisce logi-

camente — e non soltanto cronologicamente — a questo punto

dell'attività letteraria e dell'evoluzione spirituale di Agostino' (30).

11 libero arbitrio dell'uomo rientra anch'esso nell'ordine dell'uni-

verso, dipende da quella stessa suprema legge dalla quale il mondo

è governato.

In che consiste, infatti, il fare il male? Non certo nel solo

agire contro la legge, poiché vi sono azioni, in sé malvagie, che

essa permette; d'altronde l'adulterio, per esempio, non è certo

male perché vietato ma vietato in quanto è un male. E' interes-

sante l'ossequio tutto romano, per la legge e l'ordine costituito

che dà vivezza alla discussione, il cui scopo, beninteso, è sol-

tanto di condurre alla conclusione che esiste una legge eterna, mo-

dello alle umane, contingenti e mutevoli. Essa è la summa ratio;

in forza di essa è giusto che tutte le cose siano ordinatissime ; essa

mantiene l'ordine dell'universo. Per questa legge, per questo ordi-

ne, l'uomo, dotato di ragione, è superiore agli animali ; e nell'uomo

l'ordine medesimo esige che predomini la ragione. Male è dunque

la violazione dell'ordine, l'appetito smodato cui la ragione non frena.

Ora, colui che giunge ad attuare il predominio della mens sulla

libido è il sapiente. Ma questo potere sulle passioni è stato con-

cesso alla ragione dalla legge eterna ; dunque la ragione è più forte
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della libido, e del corpo. Quindi, se la mens si degrada sino a

farsi compagna e complice degli appetiti, ciò avviene perché essa

lo ha voluto, di propria spontanea e liberissima iniziativa. E' per-

tanto giusto che in tal caso la mens sia punita.

A Evodio si presenta tuttavia ancora qualche difficoltà : è giu-

sta la sofferenza del sapiente, non quella dello stolto. E Agostino

gli risponde in due modi. Prima di tutto, cerca di annullare quella

distinzione : tu, gli dice, presupponi per certo e chiaro che noi

non siamo mai stati sapienti prima di questa vita; in realtà è un

problema assai grave, e da trattarsi a suo luogo, se prima di unirsi

al corpo l'anima non abbia vissuto un'altra sua vita, e se abbia

vissuto secondo sapienza. Agostino non pensa a una vera trasmi-

grazione delle anime, ma soltanto a una loro preesistenza, nel

•

22
mondo delle idee : dottrina della quale Agostino non è ben sicuro,

e che non sa se e in che modo possa conciliarsi con il cristiane-

simo (31). Perciò preferisce ricorrere a un secondo ordine di argo-

menti. Bene superiore a tutti gli altri è la buona volontà, che ci

fa desiderare di vivere con rettitudine e onestà e giungere alla

sapienza suprema, e alla quale si riducono tutte le virtù cardinali.

Dipende dunque da noi il vivere moralmente, cioè l'essere felici,

o no : perchè alla volontà cattiva tiene dietro necessariamente l'in-

felicità, in virtù di quella eterna legge divina, per la quale secondo

la nostra volontà siamo meritamente premiati o puniti. La volontà

buona consiste appunto nell'amare quella legge eterna ed immuta-

bile, nel preferire cioè i beni superiori e non transeunti ai contin-

genti e materiali; sicché coloro i quali preferiscono i secondi sono

giustamente puniti.

L'umanità si divide così in due categorie : coloro che inten-

dono e servono la legge superiore, gli oirouSatoi, starei per dire,

0 meglio yvcixTctxof, e che sono pertanto sciolti da ogni legge tem-

porale, beati ; e gli altri, cpaùXoi, uXtxof, tJ>ux""^, sottomessi e alla

legge temporale e all'eterna, onde discende ogni giustizia, ma inca-

paci d'intenderla ; e infelici. La legge temporale impone di amare

i beni temporali, tra i quali sono la famiglia e la patria; sua

caratteristica è la coazione, l'imporsi col timore delle pene. Per

contro, la legge divina è legge di libertà. E' chiaro, che Agostino

ha presente qui anche la discussione paolina sul valore della legge,

nelle lettere ai Calati e ai Romani ; e infatti la libertà cristiana è


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da lui intesa qui in modo perfettamente consono al suo concetto

dell'« uomo vecchio » e dell'« uomo nuovo ». La conclusione ultima

è che il male consiste per l'uomo nell'essere soggetto a quelle cose,

che dovrebbero essere sottoposte a lui; e pertanto il male non è

nelle cose stesse, bensì nell'uso che ne viene fatto, cioè, in sostan-

za, esso dipende dalla nostra volontà.

Evodio si dichiara vinto : gli uomini fanno il male a causa del

loro libero arbitrio. Ma egli chiede ancora se conveniva che Dio

lo concedesse. Senza di esso, infatti, noi non saremmo stati capaci

di peccare; se dunque Dio ce lo ha dato, egli è in certo qual

modo l'autore primo delle nostre malefatte. Così il dialogo ritorna,

un po' inaspettatamente, proprio a quella domanda fondamentale,

2;
che Evodio ha formulato fino dal principio : Die mihi, quaeso te,

utrum Deus non sii auctor mali? (32).

Siamo di nuovo al problema che assilla l'animo di Agostino, e

che egli dice di aver voluto risolvere seguendo prima l'autorità poi

la ragione. Con ciò, egli applica alla propria vita il principio enun-

ciato nel detto profetico : nisi credideritis, non intellegetis (33). E'

chiaro però che con quel ritornare alla questione iniziale, Agostino

intendeva aprirsi l'adito a una nuova trattazione del problema che

egli infatti promette di dare. Il che significa che non gli pareva di

avere completamente debellato i manichei, e che qualche cosa nella

sua dimostrazione lo lasciava ancora scontento, per quanto certo

di poter giungere a una soluzione soddisfacente.

Neppure è senza significato, che per definire il rapporto tra

l'auctoritas e la ratio Agostino senta ora il bisogno di rivolgersi

proprio alla Scrittura; quando, in altri luoghi dello stesso primo

libro De libero arbitrio (34) egli ha anche dichiarato essere im-

possibile, ad uomini che desiderano di comprendere, il cercar

rifugio nell'autorità. Agostino si viene accostando maggiormente

alla vita della Chiesa, desidera aderire ad essa più strettamente, ser-

virla come apologista. Gli avversari restano sempre i manichei; ma

ora, in Africa, per combatterli, e con una confutazione che sia acces-

sibile a tutti, abbandona il campo della discussione filosofica e la

forma del trattato dialogato, per quella del commento ai libri sacri,

di cui ormai egli ha un concetto più alto. E scrive appunto il De

Cenesi contra manichaeos.


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Gli si presenta subito una grave questione. I manichei, leggendo

che « in principio Dio creò il cielo e la terra », chiedono che cosa

facesse Dio prima della creazione e per qual motivo egli si sia

deciso a creare. Era il problema, cui il loro mito dava pure una

risposta. Ma per un ingegno filosoficamente educato, è questo il

problema del rapporto che intercede tra Dio e l'universo, tra la

eternità e il tempo : problema che travaglierà a lungo la mente di

Agostino. Ora, egli risponde che in principio non significa « all'inizio

del tempo», bensì in Christo, cum Verbum esset apud Patrem;. e

che, del resto, anche ammettendo la prima interpretazione, il tempo

stesso, opera di Dio, non poteva esistere prima della creazione.

Ma si accontenta di ciò e abbandona subito questo argomento, per

ribattere le altre obiezioni dei manichei. Infatti, quella prima dif-

24
Scoltà tendeva soltanto ad avvalorare il mito manicheo della crea-

zione, e questo, anche quando si accolga semplicemente come un

mito, implica i principi dualistici su cui si fonda tutto il loro sistema,

che Agostino vuole confutare. Si tratta dunque, per lui, di dimo-

strare la bontà e perfezione del creato, giustificando il male che

esiste nel mondo e nell'uomo, soggetto a morire.

Ma, quando insistono sulla debolezza, le sofferenze e la morta-

lità dell'uomo, i manichei commettono un errore fondamentale : essi

considerano infatti l'uomo quale è dopo il peccato. E questo è con-

sistito nella superbia, cioè nell'allontanamento da Dio. Nel peccato

di Adamo e nella sua condanna si manifesta infatti ciò che si veri-

fica ancora oggi. In un primo momento, si ha la suggestione, attra-

verso le raffigurazioni del pensiero o dei sensi che possono suscitare

— ma anche non suscitare — una passione. Può anche darsi che

questa trovi a sua volta un freno nella ragione. Ché se invece

questa, con o senza lotta, acconsenta alla passione, allora l'uomo

è veramente scacciato dal paradiso, perde cioè ogni felicità. Vi è

dunque la possibilità di non peccare e il libero arbitrio è riaffer-

mato, mentre la storia e le condanne del serpente e dei progenitori

significano che non possiamo subire tentazioni se non attraverso

quella ch'è la parte materiale di noi, nonchè le difficoltà e i dolori

provocati dal resistere alle tentazioni stesse, dal far sorgere, in

luogo della cattiva la consuetudine buona, dall'affaticarsi per giun-

gere alla conoscenza della verità.

Quindi Agostino confuta le obbiezioni dei manichei contro la


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Bibbia. Egli osserva che i cristiani sanno interpretare allegorica-

mente i passi che quelli tacciano di antropomorfismo, e sono ben

lungi dal considerare Dio come esteso, cioè corporeo. L'espressione,

che l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio si riferisce sol-

tanto all'uomo interiore, dotato d'intelletto e di ragione, il quale

può essere chiamato anche uomo spirituale. Tale egli fu creato

quando Dio gl'insufflò lo « spirito di vita ». Quindi, nel Paradiso

l'uomo era spirituale e solo dopo esserne stato scacciato divenne

animale. E perciò, noi creati dopo il peccato percorriamo la via

inversa : animali dapprima, seguendo l'Adamo spirituale che è

Cristo, ricreati e nuovamente vivificati, veniamo reintegrati nel Pa-

radiso. Questo ritorno si compie gradatamente, progressivamente,

ed è facoltà dell'uomo l'iniziarlo, anche se forse non il condurlo a

25
termine. Il corpo spirituale, perduto da Adamo, potrà essere riac-

quistato da coloro che sappiano rendersene degni. Il peccato di

Adamo ed Eva è stato punito da Dio trasformando il loro in un

corpo mortale, che ospita un cuore mendace; ma la somiglianza

tra la condizione di Adamo dopo il peccato e quella di tutto il

genere umano non implica l'impossibilità di giungere al bene. Vi

sono infatti uomini, i quali anche in questa vita, riescono a odiare

ed eliminare i pensieri falsi e mendaci, effetto della loro condizione

mortale, e meritano con ciò che il loro corpo venga trasformato in

angelico e degno del Paradiso.

Agostino infatti sa che vi è un processo di rigenerazione, stabi-

lito dalla Provvidenza e di cui i sette giorni della creazione sono

il simbolo. Questi sette giorni significano le sette età del genere

umano : da Adamo a Noè, da Noè ad Abramo, da questi a Davide,

l'epoca dei re, quella dalla cattività babilonese a Cristo ; col Vangelo

ha inizio la sesta età che, a differenza dalle altre, non comprende

un numero fìsso di generazioni, sicchè la sua durata è ignota ; e la

settima giungerà improvvisa, quasi vespera, quae utinam nos non

invernat, ma seguita però dal mattino, cum ipse Dominus in ciart-

iate venturus est (35). Ma gli stessi sette giorni simboleggiano altresì

le varie tappe della vita spirituale, della nostra ascensione a Dio.

Agostino le ha già descritte nel De quantitate animae (36). Vi sono

senza dubbio tra questi due luoghi delle differenze, ma identico

è in entrambi il concetto fondamentale della possibilità di una pro-

gressiva purificazione interiore e di un'ascesa graduale verso la


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perfezione morale, la sapienza, la conoscenza e il possesso di Dio

in cui consiste la beatitudine. E ciò, almeno per quando riguarda

l'inizio e le prime tappe del processo, per mezzo delle sole forze

umane. E' infatti certamente degno di nota che Agostino, parlando

della redenzione e graduale purificazione dell'anima, non accenni

affatto al battesimo. Non meno notevole è poi che il grado nel

quale l'uomo può dire di se stesso : mente servìo legi Dei, carne

autem legi peccati (Rom., VII, 25) sia soltanto il terzo; mentre —

se il passaggio dell'indicativo al congiuntivo desiderativo significa

qualche cosa — egli personalmente si considera già arrivato al

quarto (37).

Il problema dei rapporti tra \'auctoritas e la ratio torna a pro-

porsi nel De magisiro. Qui la lunga discussione sul linguaggio con-


duce a concludere che le parole altro non sono che signa delle co-

se, le quali sole contano : tutto ciò che esse significano ci è già noto

in una certa misura. E tale notizia si può avere per i soliti due

modi, la differenza tra i quali è espressa da Agostino ricorrendo

ancora una volta allo stesso testo di Isaia, VI, 9. Il credere è più

ampio che l'intellegere o lo scire; però il credere anche ciò che

propriamente non si sa, è utile.

Tutto ciò che è compreso intellettualmente è conosciuto; vero

conoscere è quindi soltanto Vintellegere; ma a ciò le parole possono

servire soltanto come richiamo. Senonchè ora per Agostino, cono-

scere non è più soltanto un ricordare; le parole non risvegliano in

noi idee apprese in una conoscenza anteriore. Esse bensì rimet-

tono per così dire in azione quella mens che possiede la verità in

quanto è stata deposta in essa da Dio, in quanto cioè vi è nella

anima dell'uomo come una particella, o un raggio, della verità e

sapienza divina (38), .cioè del Logos : Cristo, che abita e vive nel-

l'interno di ogni uomo e si rivela a ciascuno esattamente nella mi-

sura in cui questo ha saputo compiere la propria purificazione mo-

rale, nella misura cioè in cui ciascuno è disposto ad accoglierlo, se-

condo la propria volontà buona o cattiva. In queste parole, così ce-

lebri, è contenuta — mi sembra — una nuova giustificazione dell'in-

terpretazione data più sopra, dell'affermazione agostiniana che è ne-

cessario all'uomo, per redimersi, un soccorso divino. Infatti, se-

condo lo stesso De magistro, bisogna distinguere le cose sensibili

e le intelligibili o, per parlare come la Bibbia, carnali e spirituali.


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Le prime, o sono oggetto di una sensazione diretta e immediata,

oppure non si apprendono se non in quanto si presti fede alle

parole altrui. Le altre, invece, che vediamo con l'intelletto e con

la ragione, noi parlando le abbiamo presenti in quella luce spiri-

tuale che c'illumina internamente : chi ascolta, per poco che riesca

a sua volta a purificare il proprio occhio interiore, le contempla

anch'egli, in realtà, anzichè farsene soltanto una pallida immagine

attraverso le altrui parole. In questo senso si deve intendere che

Cristo è il solo maestro, come dice la Scrittura (39) ; le cui afferma-

zioni sono cosi dimostrate e chiarite nel loro autentico significato

dalla filosofia. La quale rappresenta dunque un grado di conoscenza

superiore e più completo, ma il cui contenuto non è diverso dal-

l'altro. Praticamente il credere ci porta allo stesso risultato dello

27
intellegere; ma questo soltanto ci permette di dimostrare, e pertanto

conoscere veramente, la dottrina contenuta nella rivelazione. Di pari

passo, la dottrina della conoscenza si è modificata; e troviamo qui

una spiegazione del conoscere più conforme alla dottrina della crea-

zione dell'uomo per opera di Dio (40).

Dall'inizio della sua conversione al cristianesimo, Agostino è

andato dunque approfondendo via via la sua esperienza, affron-

tando i problemi che gli si presentavano, preparando un'apologetica

antimanichea e rivolta a dimostrare la perfetta consonanza tra la

filosofia e il cristianesimo. Ma proprio in omaggio a quella concor-

danza egli lascia cadere qualcosa delle sue dottrine d'un tempo e

attenua in gran parte il vigore con cui aveva sostenuto la subordi-

nazione dell'auc/orzYas alla ratio. Nel De quantitate animae (41)

egli aveva osservato che il credere magnum compendiimi .est et

nallus labor, e aveva lasciato sdegnosamente questa via facile e

comoda agli imperitiores : che, se volessero arrivare all'intelligenza

razionale, si smarrirebbero; mentre coloro che non si contentano

di credere e non riescono a frenare la nobile ambizione di percorrere

la via più ardua, hanno anche forze sufficienti a superare le dif-

ficoltà. Invece ora, nel De magistro, il credere resta bensì solo

un passo verso la conoscenza vera ; ma Agostino ammette che non

tutto può essere conosciuto; e, in ogni modo, dichiara di saper

molto bene quam sit utile credere etiam multa quae nescio.

Si osserverà forse che si tratta d'una differenza solo di tono, di

una questione di forma più che di sostanza; di una semplice sfu-


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matura. Tuttavia, questa differenza non è trascurabile. E per di

più, siamo arrivati a un momento, nel quale Agostino ritiene di

poter esporre il suo pensiero integralmente e in forma sistematica.

NOTE

(1) Sul senso della dedica a Jerio, v. H.-T. Marrou, Saint Augustin et

la fin de la culture antique, Paris 1939, p. 163. Sul manicheismo del De pul-

chro et apio, anche R. Jolivet. Saint Auffuistin et le néoplaionisme chrétìen,

Paris (1932), p. 35.

(2) Non riesce a convincermi J. Guitton. Le temps et l'étetnité chez

ì'iotin et saint Augustin, Paris 1933, pp. 92 sgg., 102 sgg. ecc.

(3) Con ciò non si vuoi dare un giudizio d'insieme sul manicheismo,

gl'influssi cristiani sul quale sono stati mese' in luce sempre più da recenti

scoperte e studi. Ma neppure si può trascurare l'impiego nei manicheismo

greco-latino di una terminologia filosofila, testimoniata da Alessandro di

28
Licopoli e dallo stesso Agostino; o l'aspetto « scientifico » delle spiegazioni

che davano dei fenomeni celesti; o il carattere razionalista delle obiezioni

che i manichei facevano alla Bibbia e anche al Corano, riferite da S. Agostino

e da fonti copte e musulmane.

(4) Vorrei cosi precisare maggiormente ciò che il Marrou, o. c. p. 399,

osserva circa l'affinità della formazione culturale dei due uomini.

(5) In una molto cortese recensione al mio Scuri'Agostino d'Ippona il

prof. Tescari (in Convivium, 1930, p. 475) muove varie obiezioni a ciò che a

proposito di Monnica e della madre di Adeodato avevo scritto, forse con

espressioni che — trascinato da giovanile ricerca d'una certa scioltezza di

stile — andavano un po' al di là del mio pensiero. Ma, quanto alla so-

stanza, devo dirgli che non mi ha convinto. Si potrà forse, per riguardo ad

Agostino; dire col Jolivet — del resto, ben più severo di me nel fondo —

che per un giudizio definitivo « nous manquons des renseignements néces-

saires » (o. c., p. 85) sebbene questa non sia che una supposizione, di

fronte al chiaro racconto aelle Confessioni, al quale dobbiamo pure attenerci.

Il Tescari muove a me e ad altri un appunto circa l'interpretazione di Con/.

VI, 13, 23: cuius aetas ferme biennio minus quam nubilis erat. Dopo aver

citato Coni IX, 9, 19, Virgilio (Aen. 7, 53) Ovidio (iMeram. 14, 335) e Cice-

rone (Pro Cluent, 11) il Tescari conclude « che pur nel passo delle Confes-

sioni, ohe ha scandalizzato tanti ,la parola nubilis non abbia significato di-

verso dai passi citati (e dall'altro passo di Agostino'stesso) e^valga da ma-

rito ». E gli potrei rispondere che in Con/. IX, 9, 19 non è affatto indicato

quanti anni avesse Monnica quando andò sposa: che « con ogni verisimi-

glianza » fosse « sui ventanni » è mera supposizione del Tescari, fondata


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sul fatto che Monnica mori di 55 anni, quando Agostino ne aveva 32. Ma

ciò non prova nulla, perché come il Tescari osserva nella nota della sua

traduzione a cui mi rimanda, Agostino aveva una. sorella, e un fratello,

Navigio, di lui maggiore, ma di cui non sappiamo se fosse il primogenito e,

anche in questo caso, perché dovremmo supporlo nato durante il primo anno

di matrimonio? Ma è invece da aggiungere che proprio nei passi citati dal

Tescari (e Coni. IX, 9, 19 è chiara reminiscenza vergiliana) nubilis è accom-

pagnato da un'altra determinazione (plenis arrnìs: Agostino e Virgilio che

aggiunge matura; le due idee unite pure in Ovidio; grandis: Cicerone) a indi-

care appunto l'idea di un pieno sviluppo; mentre proprio in Coni. VI, 23

questa ulteriore determinazione manca. Piuttosto, mi chiederei questo: se

Agostino tace il nome della madre di Adeodato, sarà proprio per disprezzo

— come si suppone in genere — o non piuttosto per 'delicatezza?

(5bis) De util. cred., 1: racconto che Guitton, o. c. p. 250 ritiene ispirato

da una tesi; cfr. c. II, nota 32.

(6) Quali fossero questi libri, si è discusso 'di recente con una certa

vivacità, specic tra W. Theiler (Porphyrius und Augustin, Halle 1933) e il

p. Henry (Plotin et l'Occident, Louvain 1934). Per mio conto, ritengo più

plausibile la soluzione data ora da P. Courcelle, Les lettres grecques en

Occident de Macrobe a Cassiodore, Paris 1943, pp. 159-176) secondo il quale

l'espressione platonicorum libri indica veramente parecchie opere di vari

autori quindi almeno il IleplxaXoò di Piotino e il De regressu animae di Por-

fido nella traduzione di Mario Vittorino, oltre, probabilmente, a un trattato

di Mantio Teodoro che il Courcelle (p. 124 sgg.) propone suggestivamente


d'identificare con l'uomo immanissimo tylo turgìdus (Conf. VII. 9, 131 che

pose in mani d'Agostino le opere dei neoplatonici.

(7) II trovarsi questa metafora due volte in scritti agostiniani poste-

riori alla conversione (c. Acori. II, 1, 1; De b. vita, 1. 1) e il confronto con

altri scrittori ha fatto pensare a G. Lazzati (L'Aristotele perdalo e gli scrittori

cristiani, Milano 1938) che essa derivi in qualche modo, dal Protrettico di

Aratotele. Può dcir^i. Comunque, ha tutta l'aria di essere un'espressione

corrente. Cfr. anche le osservazioni del Marrou, o. c p. 213 sg, a proposito

della « sorte de xoi\rfj philosophique », della « tradition scoli-are représentée

par tonte une letterature de florilège» et de marmele » da cui «pestìo dipende

Agostino.

08) Su costui, v. ora il breve articolo di John J. Gavigan, St. Augutìne's

ìriend Nebridius in Catholic Hìstorical Review, XXXII, 1 (Aprile 1946),

pp. 47-58.

(9) Sulla concezione agostiniana della iym'nrtMc; itaiSela e le fonti di essa,

e in particolare le varie liste delle scienze e il fatto di aver omesso in

De ordine, II, 12, 35; 16, 44; 18, 47 l'aritmetica; cfr. Marrou, o. c., specie

pp. 191-197 e 213-217. Ma quanto al problema del perché Agostino non co-

minciò, a redigere un De astronomia, e quasi certamente non vi pensò nep-

pure, conviene non solo constatare, come fa il Marrou (p. 249), che Agostino

probabilmente non si dedicò allo studio di quella scienza (l'astronomia ma-

tematica), ma aipprofortdire l'altra osservazione dp. 196 sg.) relativa all'imba-

razzo che Agostino mostra ogni qualvolta ne parla: esso non traduce solo

« la crainte toujours presente de voir le lecteur confondre la science ma-

thématique et son usage superstitieux », ma la resipiscenza di chi, per un


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momento, vi prestò fede. Non ho potuto vedere, neppur io, il lavoro di De

Vreese, Augustinus en de astrologie, Maastricht 1933, che anche il Marrou

conobbe solo attraverso la recensione in PhiloI-Wochenschr., 1934, col. 4555.

(10) Mi associo quindi a quanto, recensendo l'opera di Suor Mary Pa-

tricia Garvey (Saint Augurine: Christian or Neo-Platonist? From his retreat

at Cassiciacum until his ordination al Hippo, Milwaukee, Wisc., Marquette

Univereity Press, 1939) scrive O. Amand, in Revue bénédìctine, 111 (1940),

p. 166: « Pantant d'une question mal posée, qui ne tient pas compte de l'atti-

tude philosophique, intellectualiste, du passionné de verità qu'était l'ex-pro-

fesseur de rhétorique la réponse est nécessairement deficiente. C'est une

gageure de vouloir séparer en lui [Agostino] le croyant, le chrétien sincère

et ardent de Cassiciacum et l'ami de la sagesse, le quéteur du vrai, celui

qui a écrit et pratiqué: Intellectum valde ama. Avec Jolivet, Grabmann,

Boyer, Gilson et d'autres, je reconnais volontiers qu'il n'y a pas de con-

tradiotion majeure entre les Dialogues et les Contessions et que l'Augustin

qui se recueille dans la maison de campagne près de Milan est un chrétien

qui a soumis son initelligence a la vérité divine se manifestant dans les

Ecritures et dans l'Eglise. Mais je refuse a rédiuire au minimum, comme le

fait S Garvey, l'influence preponderante du néo-platonisme sur l'esprit spé-

culatif et avide d'explioation rationnelle de notre converti ... Dresser la foi

chrétienne en antagoniste irréductible de la métaphysique et de l'éthique

de Plotin, c'est indùment sirnplifier les données de fait ».

(11) E' quanto mi ero sforzato di mettere in chiaro fin dal 1930 flcfr.

nota 13) e viene ora confermato da studi recenti: p. e. G. de Plinvat, Péìage,

ses écrits, sa vie et sa rélorme, Lausanne 1943, specialmente pp. 84 sg., 131 sg.

30
Si confronti anche, per la tradizione protrettica, il lavoro cit. del Lazzati,

oltre, s'intende, gli scritti fondamentali del Bignone; e le osservazioni del

Marrou, cit. alla n. 7; inoltre Courcelle, o. e , p. 169 sg. e p. 397: «la con^ •

venskxn d'Augustin est a la foie une conversion au néo^platonisme et au

christianisoie ».

(12) Di questa, come di varie altre opere di Agostino fino al De vera

religione ha dato eccellenti analisi anche A. Guzzo (Agostino dal « Contro

Academicos » al «De vera religione», Firenze [1925]); buone osservazioni

ha anche, tra altri, J. Guitton, o. e. Superfluo avvertire che non sempre mi

è possibile consentire in tutto con questi autori, o con altri.

Avverto anche, una volta per tutte, che cosi in questa, come nelle note

successive, indico soltanto quei passi che hanno più diretto e immediato

riferimento con il testo ; ma che di ciascuno scritto agostiniano è da tener

presente l'insieme e l'intonazione generale; ossia anche ciò che, a volte, per

brevità di esposizione, viene sottinteso.

Del C. Acati, si veda: 1, 1 e 2; 8, 25 (la exercitatio); II, 1, 1; 2, 5-6; 3, 9>

8, 14; HI, 1, 1; 9, 20; 17 Sgg.

(13) Agostino <riechegigi|a cosi una tradizione di scuola, comè anche

— secondo osserva Courcelle (o. e., ,p. 165 sg.) — riproduce una formula

scolastica ih C. Acad. IIi, 18, 41 (Agostino tanto simile a Piatone, che si po-

trebbe credere fossero vissuti insieme, o meglio, che questo fosse rivissuto

in quello). Cfr. altresì Solit, I, 4, 9 dove sono messi ancora insieme Piato et

Plotinus; e così d'altra parte Aug. Ep. VI, ad Nebridium: « epistokis tuae...

illae mihi Christum, illae Platonem, illae Plotiniìm sonabunt ». Il prof. Tescari,

nella recensione citata (p. 474), mi attribuiva evidemtemejnte la tesi del-.


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l'Alfaric, non avvedendosi che proprio di neo-platonismo cristiano (o, se si

vuole, di cristianesimo neoplatonico) io intendevo parlare. Cfr. anche e. II,

n. 3.

(14) De b. vita, IV, 33.

(15) Cfr. De ordine, I, 11, 32; II, 2, 7; 4, 17.

(16) Cfr. De b. v. IV, 35

(16bis) L'aver messo insieme questi due personaggi è significativo:

anche Mantio, studiosissimus di Piotino, venera in Ambrogio il vescovo; è

it modello del neoplatonico cristiano, che Agostino si propone d'imitare. Ciò

suppone la piena inserzione della cultura antica nel cristianesimo.

(17) Cfr. De b. v. I. 10-12; 19; 35; anche De ord., I, 11, 31; II, 20, 52.

(18) De b. v., IV, 35.

(19) Macrobio, Sa/. I, 24, 21; VII, 15, 14; cfr. Ammonio, In Isag. Porph.

cit. da Courcelle o. e., p. 16: la definizione aristotelica della filosofia come

(20) De ord., II, 4, 13 — 5, 14, cfr. II, 12, 35 — 16. 44; 18. 47; cfr. Marrou,

o. e., pp. 191, 216 sg. ece.

, (21) De ord. I, 10, 29; II, 5, 15-16; 7, 21-24; 8, 25; 9, 26-27; 17 45-46, eco.

17, 45-46, ece.

(22) Solil., I, 1, 2-6.

(23) Courcelle, o. e., p. 128: « L'exemple de Mantius Théodorus montre

qu'il existait, a la mort de Théodose, outre le néo-platonisme pai'en a la

manière de Macrobe, un néo-platonisme chrétien: la lignée de Marius Vi-

31
ctohnus, qui cherohait a accomoder les données de la raison et de la foi.

La voie tracée par les travaux de Théodorus n'a pas èie suivie seulement

par Augusta...». Cfr. note 11 e 13.

(24) Non vi è dubbio che le apparenze sembrano favorire l'interpreta-

zi.one che ravvisa già in Sol. 1, 1, 2-6 la dottrina della grazia: Agostino

implora da Dio che gli concada di pregarlo bene, che gli dia la fede, o il

valore, o la scienza, se l'ima o l'altra di esse è mezzo per trovarlo. Ma, si

noti bene, che trovano Dio coloro che si rivolgono già a lui (SI fide te inve-

niunt qui ad te teiugiunt); e che Dio non abbandona chi lo cerca (Tu enim

si deseris, peritui; sed non deseris, quia tu es suramum toonum, quod nemo

recte quaesivit et minime inveuit). E' bensì velo che Dio è cercato da tutti

coloro che Egli fa che lo cerchino (Omnis autem recte quaesivit quem tu

quaerere fecisti), ma appunto la frase denota che Agostino non ha in mente

un numero ristretto di eletti, non pensa a una esclusione; e d'altra parte

l'azione divina si riduce anche qui (Pater p'gnoris, qua admonimur redire

ad te...;.Deus quem nemo quaerit nisi admonitusl a\\'admonitio quaedam del

De beata vita (cfr. n. 18); che già si nota qui il ricorso al «pulsate et ape-

rietur vobis » (facis ut poilsantibus aperiaitur...; pateat mihi pulsanti ianua

tua); e che, finalmente Agostino chiede a Dio che gli insegni il cammino per

giungere a lui, null'altro (Deus, qui nisi mundos verum scire voluisti... quem

nemo invenit, nisi purgatue...; nihil aliud scio nisi fluxa et caduca spernenda

esse, certa et aeterna requirenda. Hoc facio, Pater, quia hoc solum novi; sed

onde ad te perveniatur, ignoro). E accanto a questa va tenuita presente

l'altra, più breve, invocazione di Solil. II, 6, 9 (Deus, Pater noster, qui ut

oremus hortaris, qui et hoc quid rogaris praestas, siquidem oum te rogamus,
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melius vivimus melioresque sumu»; exaudi me palpitantem. in his tenebris

et mihi dexteram porrige. Praetende mihi lumen tuum, revoca me ab erro-

ribus; te duce in me redeam et in te). Il vero seneo di tutte queste espres-

sioni appare quando si prendano nel loro contesto e si mettano a raffronto

con quelle, analoghe, di opere posteriori. Ma è chiaro che Agostino non chiede

qui a Dio che lo liberi da un peccato, e meno ancora originale; il loro carat-

tere è nettamente intellettualistico; e si veda com'è chiaramente espressa l'idea

del « regreesus animae ». Gli autori che, dopo aver riconosciuto il carattere

neiplatonizzante di questa preghiera, sentono il bisogno di sottolinearne, pole-

micamente, l'aspetto cristiano, lo fanno in parte perché suggestionati ancora dal

libro dell'AMaric, e in parte per quell'opposizione artificiale tra neoplatoni-

smo e cristianesimo, che l'Alianc ha pure contribuito ad accentuare, e che

non risponde alla mentalità ideila maggior parte dei cristiani colli del IV e

del V secolo.

(24-bis) II De immortaJitate animae fu scritto quasi come primo abbozzo

di un terzo libro di Soliloquio (cfr. Retract. I, 2, 1); il De guanti/aie animae,

redatto a Roma, sembra invece alquanto, sebbene di poco, posteriore ai due

libri De moribus.

(25) Cfr. Solil. I, 1, 4: Deus... cuius legibus arbitrium animae liberum

est e De quant. an., 80, cit. alla n. 30.

(26) De quant. an., 3; 4 (ideoqu e bene p r a e c i p i tu r e tìam

in my S'te r i i s ut omnia corporea contemnat universoque hai c

mu ndo renuntiet, qui ut videmus corporeus est, quisquis se talem

teddi desiderai, qualis a Deo faotus est, id est similem Deo) cfr. ancora Soli}.

I, 1, 4 (qui f ecisti hominem ad imaginem et similìtadinem tuam, quod qui se

32
ipse novit agitoseli) con un'interpretàzìone del testo biblico che è superfluo

sottolineare; 24; 34 (magnam omnino ... quaestionem moves, in qua iantum

nostrae sibimet opiniones adversantur. ut tibi anima nullam, mihi — Ago-

stino — cantra omnes artes seicum attulisse videatur; nec aliud quidquam

esse id quod dicitur discere, quam remìnisci et reaandari); 55 (quamobrem...

'ibenter in eo sermone demoror, quo admonetur anima ne se ultra quam ne-

cessitas cogìt reiundat in sensus, sed ab his potias ad se ipsam colligat et

repuerascat — cfr. Mati. XVIII, 3 — quod est novum hominem fieri vetere

exuto, a quo incipere propter neglectam Dei ìegem certa est necessìtas,

quo neque vefitus neque secretius quidquam divinis scripturis contfnetur.

Vellem hinc plura dicere, ac me ipsum constringere, dum tibi quasi praecipio,

ut minii aliud agerem quam redderer mihi, cui me maxime debeo atque ita

Deo fieri, quod ait Horatius, — Sat. II, VII, 2-3 — amicum mancipium Do-

mino. Quod omnino fieff noa potestr. itisi ad eius teiormemur imaginem,

quam nobis ut pretiosissimum quidd\am et carissimum custodiendam dedit,

dum nos ipsos nobis tales dedit, qualibus nihil possit praeter ipsum ante-

poni. Hac autem actione nihil mihi videtur operosius et nihil est oessationi

similius; neque /amen eam suscipere aut impìere animus potest, nisi eo ipso

adiuvante cui redditur. Unde fit ut homo eius dementita neiormandus sii/,

cuius bonitate ac palesiate lormatus est); 80 (v. nota 30).

(27) Appunto, in Roma, doveva apparire tanto più urgente e necessario

ad Agostino rendere evidente il suo distacco definitivo dal manicheismo.

(28) De moribw Ecclesiae catholicae, 3 (Unde igitur exordiar? ab au-

ctoritate an a rottone? Naturae quidem orda ita se habet, ut curn aliqui<i

discimus, ralionem piaecedat auctoritas); 4; 12 (quid beneficentias, quid ìibera-


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lius divina providentia dici potest, quae a legibus su'is hominem lapsum,

et propter cupiditatem rerum morlalium iure ac merito mortalem sobolem

propagantem, non omnino deseruil?) 14-17; 26-29; 30; 39; 56-59 (sull'accordo

tra il V. T. e il N. T, ece.); 22; 25; 36 (Dicit ergo Paulus radicem omnium

malorum esse cupiditatem, per quam eliam lex vetus primum hominem lapsum

asse significat. Mone/ Paulus ut exuamus nos velerem. hominem et induamus

novum. Vali autem ìntelKgi, Adam 'qui peccavi/ veterem hominem, illum

autem quem suscepit in sacramento Dsi Filius ad nos liberandos, novum

Omne iffitur oflicium tempeiantiae est exuere veterem hominem et in Deo

renovari; id est, cQntemnere omnes corporea? illecebras laudemque popu-

larem, totumque amorem ad invisibiiia et divina conterre); 37; 38 (cautissime

apos/o/us, ne ab amore sapientiae deterrere videretur, subiecit: « et elemeràa

huiua mundi ». Surt enim qui desertis virtutibus et nescientes quid sii Deus,

et quanta maiestas semper eodem modo manentis naturae, magnum aliquid se

agere putant, si universam isiam corporis molem, quam mundum nuncupa-

mus, curiosissime intentissfmeque perquirant... Tali enim amore plerumque

decipitur (l'anima), ut aut nihil pulet esse, nisi corpus; aut etìamsi auctori-

tate commota Icleatur aliquid esse incorporeum, de ilio (amen nisi per ima-

gines co/iporeas cogitare non possit, et tale aliquid esse credere, qualìs lallax

corporis sensus intliyil); 62. ece. •

(29) P. e. De mar. manich. 20 (docet enim ratio... Deum esse incorrupti-

bilem, incommutabìlem, inviolabilem, in quem nulla indìgentia, nulla imbe-

cillilas, nutla miseria cadere possit) e 24.

(30) Ma già in De qutant. an., 80 aveva addirittura negato che potesse

3.

33
esservi qualsiasi difficoltà nel conciliare l'affermazione del libero arbitrio

umano con quella dell'onnipotenza divina: Deus igitur summus et verus lege

inviolabili et incorrupta, qua omne quod condidit regit, subicit animae cor-

pus, animam sihi, et sic omnia sibi, nèque in uììo actu eam deserit sive poema

sive proemio, la enim iudicavit esse pulchernmum, ut esset quidquid est

quomodo est, et ita naturae gradibus ordinaretur, ut considerantes unhrei-

sitatem nulla olienderet ex ullo parte deformitas, omnisque animae poena et

omne praemium conterrei semper aìiquid propoztione iustae pulcritudini dì-

spositionique rerturi oamium. Datum est enim animae lìberum arbitrhun, quod

qui nugatoriis ratiocinationibus labelactane conantur, usque adeo caeci sunt,

ut ne ista ipsa quidem vana atque sacrilega propria voluntate se dicere

intelligant. Nec /amen ita ìibentm arbitrium animae datum est, ut quodlibet

eo moliens ullom partem divini ordinis legisque pertwbet. Datum est enim

a saplentissimo atque invictissimo totius creaturae Domino.

(31) Per chi come me ritiene molto probabile che Agostino andasse de-

bitore di molte delle sue cognizioni e idee filosofiche a uno scritto di Mantio

Teodoro che trattava appunto, tra l'altro, dell'anima umana e della sua origine

e natura (è l'ipotesi del Courcelle, o. c., p. 124 egg.). vi sarebbe qui un altro

segno del suo progressivo allontanarsi da Teodoro, allontanamento di cui

Courcelle (p. 127) segnala una prima tappa già nel De ordine.

(32) De libero arbitrio, I, 1; 6; 15; 21; 24 («/fa istuc dicis, quasi liquido

comper.um habeas nwnquam nos fwsse sapfentes; adtendis enim tempus ex qua

in hanc vitam nati sumus. Sed cum sapientia in animo sit, ut rum ante

consortium hu ius c o r p o r i s alia quada m vita v ix e i i t

animus, et an aliquando sapiealer vixerit, magna quaestio est, magnum secre-


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tum et suo consideiandum loco); 25; 27; 28-30 (Itaque, cum dicimus volun-

tate homines esse miseras. non ideo dicimus, quod miseri esse velini, sed quod

in ea voluntate sunt, quam etiam eis invitis miseria sequatur necesse est):

31; 32 (Recte iuctitcas, dummodo illud inconcussum teneas ... eos qui tempo-

rali legi serviunt non esse posse ab aeterna tiberos, unde omnia quae ìusia

sunt, ìusteque variantur, exprimi dicimus; eos vero qui legi aeternae per

bonam voluntatem haerent, temporolis legis non indigere, satis... intelligis);

lubet igitur aeterna lex avertere amorem a temporalibus, et eum mundoitum

convertere ad aeterna); 34-35.

(33) /saia VI, 9 nei Settanta: in De lib. arb. I,«4. «

(34) 6 e 12.

(35) De Genesi c. MOJI., I, 1-2; 3 (Deus enim fecìt e,l lempora. Et ideo

ante quam tacerei tempora, non erant tempora ... Et si tempus cum caeJo et

terra esse coepit, non potest inveniri tempus quo Deus nondum lecerat cae-

ium et terrarii)- 26 (In omnibus, ... cum mensuras et numeros et ordinem

vides, artificem quaere. Nec alium invenies. nisi ubi summa mensuia ci sum-

mus numerus et summus orda est, id est Deum); 28 (Sed tamen noverimi [i

manichei] in catholica disciplina spirituales fideles non credere Deum forma

corporea definitum: et quod homo ad imaginem Dei iactus dio/tur, seoun-

' dum interiorem hominem dici, ubi est ratio et intellectus); 29 (hic illis primo

dicendum .est quod multum errant qui posi pecca tum considerarti ho-

minem, cum in huius vitae mortalilatem damnatus est et amisit perfectionem

illam qua factus est ad imaginem Dei), 30-31: 34; 35-43; II, 6; 8; 10 (et ideo anima-

'f~m hominem prius agimus omnes, qui de ilio posi peccatum nati sumus, d'enec

34
assequamur spirltalem Adam, id est Dominum nostrum' Jesum Christum, qui

peccatimi non lecit; el ab ilio recreati et vivificati, restituamur in paradi-

sam); 11 (spiritus autem hominis in Scriptum dicitur ipsius animae potentia

rationalis); 12; 21 (etiam minc in unoquoque nostrum nihil aliud agitar, cum ad

peccatum quisque delabitur, quii m tunc tw-tum est in illis tribus, serpente,

muliere et viro. Nam primo fit suggestio sive per cogita.tion.em sive per sen-

sus corporis... quae suggestio cum faota luerit, sì cupiditas nostra non mo-

vebitur ad peccandum, excludetur serpentis astutia; si autem mota fuerit,

quasi mulieri iam persuasiim erit. Sed aliquando ratto virìliter etiam comino-

tam cupiditatem retrenat atque compescit... Si autem ratio consentiat, ... ab

omni vita beata tamquam de paradiso expellitur homo. Iam enim peccatiim

imputatur etiamsi non subsequatur lactum, quoniam rea tenetur in consen-

sione conscientia); 22; 32; 41-43.

(36) De q. a., 70-76.

(37) De Gen. c. Man. I, 41; 43.

(38) Non si tratta, però, di identità di natura tra l'anima dell'uomo e la

divinità: affermare la qual cosa saiebbe, secondo Agostino, ricadere per un

verso nel manicheismo e commettere un gravissimo peccato: Et ipse spiritus

hominis cum aliquando errat et aliquando prudenter sapit, mutabilem se esse

clamat: quod nulla modo de natura Dei fas est credere. Non autem potest

maius signum esse superbiae, quam ut dicat se humana anima hoc esse quod

Deus est (De Gen. c. man. II, 11).

(39) Matteo, XXIII, 10.

(40) De magisiro, 37: « Quod ergo intelligc id etiam credo; at non omne

quod credo, ìd etiam intelligo. Omne autem quod intelligo scio; non omne
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quod credo scio (cfr. Soliloquio, I, 3 (8): omne autem quod scimus, recle tar-

lasse etiam credere dìcimur; at non omne quod credimi*», etiam scire). Nec

ideo nescio quam sii utile «edere etiam mui.a quae nesdo »; 38 (De universis

autem quae intelligimus, non loquentem qui personal foris, sed intus ipei

menti praesidentem consulimus veritatem (cfr. Confessioni, XI, 5, 7), verbis

iortasse ut consulamtta admoniti. lile autem qui consulftur docet, qui in inte-

riore nomine habitare d'ictus est Christus, id est incommutabilis Det Virtus

aique sempiterna Sapientia, quam quidem omnis rationalis anima consulit, sed

tantum cuique panditur, quantum capere propter propriam sive bonam sive

malam voluntatem polest); 39, 40 (Cum vero de iis agitar, quae mente conspici-

mus, Id est intellectu ataue rattorte, ea quidem loquimur quae praesentio con-

iuemuir in lila ulteriore iuce verifatis, qua ipse qui dicitur homo interior illu-

stratur et truitur; sed tunc quoque noster auditor, si et ipse secreto ac simplici

oculo videt, novit quod dico sua contemplatone, non verbis meis. Ergo ne

hunc iquidem doceo vera dicens, vera intuentem; docetur enim non verbis

meis, sed ipsis rebus Deo intus pendente manilestis).

(41) De q. a., 12, cfr. 76.

35
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II

Fin dagli inizi dell'attività letteraria di Sant'Agostino, ci è dato

cogliere un fenomeno caratteristico. In una produzione così vasta —

tanto da passare in proverbio — sono scarsissimi gli scritti che non

abbiano carattere occasionale o la cui composizione non sia stata

provocata da una polemica. Per di più, la composizione dei trattati

puramente teorici e sistematici, fu interrotta continuamente, e tenne

occupato l'autore per moltissimi anni (1). E' un fatto, questo, il

quale si ripete con una tale costanza, che, se si trattasse di un feno-

meno naturale, si potrebbe forse essere indotti a parlare di una

« legge ». E chissà non sia effettivamente, una legge o un ritmo

spirituale : quelli propri del genio e della santità di Agostino, in

perpetua tensione tra la filosofia, intesa come pura teoria, e l'apo-

stolato, l'anelito di ricavare dalla propria esperienza ciò che me-

glio possa servire all'edificazione altrui. Ma, approfondendo di più,

si scopre anche ciò che unisce intimamente questi due diversi

aspetti della mente e dell'operosità di Agostino. La filosofia, infatti,

fu per lui non solo il complemento e il coronamento della cultura

intellettuale, ma un mezzo per ottenere la purificazione dell'anima

e al tempo stesso la culminazione della fede. Filosofo per vocazione,

nel senso che i problemi filosofici furono per lui assai più che un

oggetto di speculazione intellettuale, bensì qualcosa di profonda-

irente radicato nella vita, qualcosa che rispondeva a un'esperienza,

Agostino (per quanto molti sembrino ancora volerlo considerare

come tale) non fu mai il « filosofo di professione » — e meno che


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mai il « professore di filosofia » — che si dedica alla costruzione

meramente intellettuale, logica, razionalistica, di un sistema che possa

37
scomporsi nelle sue varie parti e ricomporsi poi, come certi giocat-

toli meccanici. Perciò in ogni circostanza, la lotta contro l'errore,

allo stesso modo che la ricerca e l'esposizione sistematica della ve-

rità, non ebbero per lui un valore meramente intellettuale e teorico.

Essi rispondono a una preoccupazione intima, a un'esperienza di

vita; e perciò è in primo luogo il frutto di questa esperienza che

Agostino desidera far conoscere, affinchè riesca di vantaggio ad

altri.

Perciò egli concepì, durante il processo della sua conversione,

e nel momento immediatamente successivo, il progetto della grande

opera, o serie sistematica di scritti, destinati ad esporre le varie

discipline della lyxuxAtoj rcaiSefa, che fossero però al tempo stesso una

iniziazione alla filosofìa, ed elevassero così gradatamente fino alla

vetta, dove la vera filosofia e la vera religione si congiungono nella

contemplazione e nell'adorazione della Verità Suprema. Iniziata ap-

pena l'attuazione del suo programma, si accorse però, e lo raf-

forzarono in tale convincimento anche le circostanze della sua vita,

ch'era indispensabile, prima, combattere i manichei. L'esecuzione del

progetto pertanto dovette essere rimandata. Ma, più tardi, Agostino

dovette sentirsi in grado di riprenderlo e attuarlo. Una volta chia-

riti i problemi più ardui della filosofia, dimostrate le sue attitudini

di apologista nella polemica diretta, e la sua idoneità come esegeta,

Agostino certo pensò che sarebbe bastato riunire e svolgere armo-

nicamente i pensieri sparsi nei suoi scritti anteriori, per comporre

un'opera sistematica e di ampio respiro. Essa avrebbe potuto eli-


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minare, non solo gli errori degli accademici e dei manichei, ma al-

tresì le prevenzioni dei fedeli contro la filosofia e la cultura tradi-

zionale in genere, e quelle dei pagani colti contro il cristianesimo.

E' noto quanto questo problema della conciliazione tra la cultura

antica e la religione cristiana affaticò e preccupò Sant'Agostino, sug-

gerendogli finalmente l'ideale di una cultura specificamente cristiana,

che tuttavia non rinnega, anzi mette a profitto l'antica. Anche a

questo proposito converrebbe forse studiare lo sviluppo delle sue

idee per mezzo di un esame degli scritti di lui secondo l'orarne

cronologico. Ne risulterebbe, credo, che questo svolgimento fu in

funzione del suo modo di considerare il problema, per lui fonda-

mentale e che lo tormentò fin dalla gioventù, quello cioè della na-

tura e dell'origine del male e del peccato (2).

38
L'accordo tra la cultura antica, con la sua filosofia, ed il cri-

stianesimo, è segnalato già fin dall'inizio del De vera religione. Re-

ligione vera è infatti quella che riconosce e venera un solo Dio,

ravvisa e adora in lui l'unico creatore e conservatore dell'universo.

Ora, i filosofi antichi hanno riconosciuto la falsità del politeismo,

pur continuando a frequentare i templi, perchè non ardivano opporsi

alle credenze del volgo ; tuttavia, se Piatone fosse vivo oggi e un

discepolo l'interrogasse, riconoscerebbe sicuro che certe verità può

averle insegnate soltanto la sapienza divina. Tanto più condanna-

bili sono perciò quei pensatori moderni, tutti dediti alle cose tem-

porali e sensibili, i quali hanno sempre in bocca il nome di Pia-

tone, ma tradiscono l'insegnamento del maestro. E' chiaro qui

il nesso con il Cantra Academicos. Insomma, soggiunge Agostino,

se Socrate e Piatone rinascessero ora, riconoscerebbero subito nella

dottrina e nella prassi della Chiesa quelle verità che essi compresero,

ma non osarono propagare, e si farebbero cristiani (bastando a ciò

modificare poche espressioni) così come hanno fatto i più tra i loro

seguaci recenti (3).

Ritorna in questo libro la dimostrazione del libero arbitrio, che

Dio ha concesso agli uomini perchè, da liberi, sarebbero stati mi-

gliori servi, che non da schiavi. La condizione presente dell'uomo,

soggetto a morire, è effetto di una disposizione amorevole di Dio,

come un ammonimento rivolto all'uomo, perchè si rivolga verso

la Verità eterna. Ed il libero arbitrio, permettendo che la volontà

inclini verso beni inferiori, è l'unica causa del male, che pertanto
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non è una vera sostanza (4). E ritorna la distinzione tra l'auctoritas

e la ratio, ma nella forma che abbiamo veduto già nel De ma-

Bistro (5). Ritorna altresì la distinzione delle sette età dell'uomo,

corrispondenti ai sette gradi della vita spirituale ; e con essa quella

interpretazione di S. Paolo che pure abbiamo trovato nel De quan-

tìtate animae. Vè l'uomo esteriore' o terreno, cioè il « vecchio

uomo » paolino, e il nuovo, interiore e celeste ; ciascuno dei due

ha il suo posto nell'ordine del creato. Ma il primo si corrompe,

muta, in due modi : per forza propria, tendendo cioè a beni ancora

inferiori, che sono pene ; o per un progresso del secondo, cioè del-

l'interiore, e allora esso si rifà migliore, riacquista la sua primitiva

natura nel giudizio finale, acquistando così l'immutabilità (6). Un

passo, questo, dove anche più che l'intenzione polemica antima-

>

39
nichea è interessante e importante l'uso della terminologia giuridica :

il rivestire il corpo celestiale nel giudizio-finale è effetto di una vera

e propria restituito in integrum. Pena del peccato di Adamo è stata

la trasformazione del suo corpo, e per conseguenza del nostro, da

celestiale e incorruttibile in mortale e soggetto alle malattie. Ma ciò

non implica la condanna di tutto il genere umano; che anzi, la

pena è puramente medicinale, rivolta ad ottenere che l'uomo, con-

siderando appunto la sua fralezza, s'induca a dirigere il suo amore

alla verità suprema. La redenzione consiste, anche qui, nel sottrarsi

al dominio delle cose visibili per entrare in quello delle spirituali ;

dunque dipende, in primo luogo, dalla volontà dell'uomo; e Ago-

stino riafferma vigorosamente l'ordine del creato e la bontà e bel-

lezza di tutte le cose. E così, partendo dalle sensazioni stesse che

abbiamo del mondo intorno a noi, e giudicando delle stesse sen-

sazioni, siamo condotti a trovare che cos'è il bello e l'arte. Il fon-

damento di essa è in una aequalitas o similitudo, di cui acquistiamo

coscienza attraverso la memoria di ciò che altra volta ci è piaciuto

o dispiaciuto ; ma questa stessa aequalitas, e la ipsa vera et prima

unitas, si comprendono con la mente, non si percepiscono con i

sensi (7).

Si tratta dunque di una legge, superiore a tutte le cose sen-

sibili, misura comune di tutte, universale e assoluta, mentre la nostra

mente umana è mutevole. Essa è quindi superiore alla nostra mente,

è la verità stessa, è Dio, cui l'anima si ricongiunge, quando, par-

tita dalla visione del mondo sensibile sale ai gradi più alti della
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contemplazione spirituale, anziché fermarsi alla humana delectatio (8).

Anche le apparenze sensibili possono dunque ricondurci alla verità

suprema; Agostino ricorda ciò che S. Paolo (Romani, I, 20) dice

degli invisibilia Dei. Non vi è quindi nulla, neppure i vizi, che non

possa in qualche modo rincuorare gli uomini a conseguire la virtù ;

sono dunque essi che fanno il contrario di quello che dovrebbero,

e antepongono il mezzo al fine; ma coloro che desiderano vera-

mente il fine, non si lasciano sedurre dalla curiosità né si rivolgono

a cose esteriori, ben sapendo che la conoscenza certa è quella che

è in noi (9).

Siamo ricondotti così alla dottrina del De magistro; alla luce

della quale vanno esaminate le frasi famose intorno al « ritornare

in se stesso » e alla « verità che abita dentro dell'uomo » ; frasi

40
che basterà leggere con tutto il contesto per fare giustizia di tanti

fraintendimenti e vedere che, come nel De magistro le parole, qui

sono tutte le cose, e gli stessi vizi, che possono guidare l'anima

a ritornare su se stessa; l'anima, superiore a tutto ciò ch'è nel

mondo e a sua volta inferiore a Dio. E Dio è la verità, e di questa

ha deposto i germi nell'anima umana. Contro questa dottrina Ago-

stino non vede altra possibile obiezione che non si riassuma nella po-

sizione dello scetticismo ; e questa egli combatte con l'argomento tra-

dizionale : dubita pure di tutto, non dubiterai di dubitare. Et si cer-

tum est te esse dubitantem, quaere unde sit certum; non illic tibi, non

omnino solis huius lumen occurret, sed lumen verum quod illuminat

omnem hominem venientem in hunc mandum (10). Nelle quali

parole vi sarà forse anche un'allusione al manicheismo; ma è più

certa e degna di nota quella al Cristo, Logos divino che illumina

l'anima umana e depone in lei quelle verità, che essa scopre tor-

nando in se medesima (11).

Questo processo della palingenesi morale, che va di pari passo

con la conquista progressiva della verità, è dunque concesso a tutti.

Ognuno è in grado di sottrarsi al dominio delle cose sensibili, di

far perire in sè l'uomo esteriore e carnale, e di far progredire in-

vece l'uomo interiore; trasformandosi così in quel perfetto cri-

stiano, che appena sfiora il mondo su cui pone i piedi, non si ad-

dolora per la morte di nessuno, non si lascia vincere o affliggere da

alcun dolore o fatica ; ama il prossimo, ma non si preoccupa troppo

della sorte di ciascuno ; e vive nel mondo, come in una dimora prov-
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visoria (12). Nulla vince, nulla turba profondamente questo cristiano

perfetto, nella raffigurazione del quale sembra di veder confluire

elementi del cristianesimo primitivo derivati direttamente dalla pre-

dicazione evangelica, ed elementi che risalgono alla speculazione teo-

logica di un Clemente Alessandrino o di un Origene, ai quali risale

in ultima analisi questa raffigurazione dello yvwatixój cristiano, la cui

imperturbabile beatitudine ha pur qualcosa di stoico (13). A questo

vertice della perfezione religiosa e morale si arriva seguendo la

ragione e constatando quanto sian vani e fuggevoli i beni terreni,

di cui non possiamo restar paghi. Si aspira a una libertà superiore

ed ecco segnata la via che conduce dalla ricerca del piacere e dalla

superbia all'amore di Dio e all'esercizio di ogni virtù. Dio ha dato

all'uomo la facoltà di scegliere tra bene -e male ; per aiutare l'uomo,

41
la Provvidenza ha disposto due guide, l'autorità e la ragione. La prima,

antecedente in ordine di tempo ma subordinata alla ragione, è —

secondo l'immagine di S. Paolo (14) — come il latte dei bambini, cui

tiene dietro il cibo solido, cioè la dottrina che permette di ravvisare

nell'Antico Testamento la prefigurazione del Nuovo. Ma non c'è

alcun contrasto tra l'una e l'altra guida : i miracoli ora sono ces-

sati, per volere della Provvidenza ; ma anche alla fede nell'autorità

non si perviene, se non spogliandosi prima d'ogni superbia (15).

Questo è appunto ciò che gli eretici non sanno fare. Eretici sono

coloro che non condividono la fede ortodossa nella Trinità e sono

perciò esclusi dai sacramenti cattolici. Alcuni, come gli ofiti e i

manichei, ne hanno di propri, altri no, come i fotiniani e gli aria-

ni, che tuttavia sono anch'essi fuori della Chiesa, così come i

giudei, qui in vetere nomine remanserunt, e gli scismatici. Ma que-

sti ultimi vanno distinti dagli eretici, perché si sono volontaria-

mente allontanati dalla Chiesa, la quale avrebbe potuto tollerarli. In-

fatti soltanto coloro i quali si rendono intollerabili o non si vogliono

correggere vengono espulsi dall'aia del Signore, prima che sia ve-

nuto il momento della separazione finale. Altrimenti la Chiesa tol-

lera gli uomini carnali, così come la paglia non va separata dal gra-

no prima del tempo (16). L'accenno alla parabola evangelica (17),

di cui Agostino farà così largo uso nella polemica contro i donatisti,

merita di essere osservato con attenzione; e tutto questo tratto fa

pensare ad una qualche conoscenza che Agostino avesse già al-

lora dell'opera dì S. Ottato di Milevi (18). Ma certo non convie-


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ne esagerare; ed evidente esagerazione sarebbe il ravvisare già

in germe in questi passi qualcosa come la distinzione delle due città.

Basta infatti pensare come per Agostino, ora, l'essere carnale o

spirituale dipenda dalla volontà di ciascuno. Sia questa distinzione,

sia la condotta prescritta ai buoni se accade loro di essere espulsi

dalla Chiesa per le macchinazioni dei malvagi, sia infine anche la

funzione attribuita alla stessa eresia nell'economia della vita cristia-

na (19), appaiono semplici corollari della dottrina che nell'ordine

dell'universo rientra anche il male, di cui Dio è ordinatore, ma

vero autore è l'uomo, dotato di libero arbitrio.

Ma è pure significativa nel De vera reìigione la tendenza a

vedere nel Cristo assai più il Logos, la Sapienza divina, il Rive-

latore e il Maestro, che non il Redentore, il Crocifisso e Risorto ; a

42
considerare il suo ministero in terra soprattutto come insegnamento

ed esempio che conferma con la sua autorità suprema dottrine de-

dotte da principi razionali ed esposte da Agostino (20). Tuttavia men-

tre nel De quantitaie animae la perfezione sembra ancora raggiun-

gibile su questa terra (21) qui, nel De vera religione, Agostino affer-

ma che il vecchio uomo sopravvive accanto all'antico e la perfe-

zione non si consegue se non dopo la morte del corpo. Come

tutte le cose create da Dio, anche la materia e il corpo sono buoni.

Ma per quanto Agostino tendesse con tutte le sue forze a combat-

tere il manicheismo, non era facile neppure per lui sottrarsi all'in-

clinazione di vedere nella materia, in quanto non-essere, il male.

Tale propensione, così come l'impulso verso l'ascetismo, gli doveva

essere suggerita da quella stessa filosofia cui aveva dato la sua ade-

sione (22).

La redenzione dal male e dalla materia gli si presenta ancora

sotto un aspetto tutto intellettualistico : il bene è il vero cui la ragione

tende quando si ricorda della sua origine e ritorna su se stessa. E ciò

dipende interamente da essa ; purché l'uomo lo voglia, può ottenerlo.

Così si comprende che nella professione di fede con cui il

De vera religione (23) si chiude sia affermata esplicitamente la so-

miglianza tra la ragione umana e la divina, cioè il Verbo, seconda

persona della Trinità, per mezzo del quale furono create tutte le

cose, buone, da Dio supremamente buono. Il problema dell'eresie

nella Chiesa (e perciò dell'unità di questa) non è se non un aspetto

del più vasto problema dell'esistenza del male nel mondo. Perciò
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Agostino non è meno attratto da due altre questioni : quella della

creazione (24) e il dogma della Trinità : ossia problemi che è ine-

vitabile affrontare quando ci si chiede come e perché esiste nel

mondo il male.

Nel De vera religione, egli li affronta o tocca tutti ; se qualche

volta abbiamo l'impressione di trovarci di fronte a dottrine male ac-

coppiate, o a qualche incertezza, ciò importa poco. L'interessante è

constatare l'orientamento generale del pensiero di Agostino, e il fatto

che egli credeva di essere giunto a una formulazione completa

e definitiva di esso.

Ci spieghiamo, così, il fatto che in questo momento Agostino,

dopo un intervallo abbastanza lungo, tornasse a dedicarsi ai suoi

libri sulle disciplinae. Ma è altrettanto significativo, almeno per chi

43
studia la sua formazione spirituale in quegli anni, che fra tutta la

serie di quegli scritti, vari dei quali incompiuti (25), egli non si sia

dedicato se non al De musica, aggiungendo, ai primi cinque libri,

di carattere meramente manualistico, il sesto (26).

Agostino vi espone una teoria della purificazione graduale della

anima, in parte ripetendo, in parte sviluppando, motivi che ci sono

già familiari attraverso il De vera religione. Conseguenza del peccato

originale è che l'anima, la quale prima dominava interamente il corpo,

ora può abbandonarsi alla tentazione di rivolgersi ad esso, e rima-

nerne contaminata e diminuita, mentre il progresso dell'anima con-

siste nel dirigersi verso Dio. Diminuzione, e per contro aumento,

o regresso e progresso, dell'anima, sono entrambi necessari, ma

solo in quanto sono conseguenza di una scelta completamente li-

bera. Col dirigersi verso il bene superiore, l'anima assicura anche

la salute del corpo benchè non possa, pur così facendo, impedire

ch'esso sia mortale : la perfezione assoluta non è conseguibile in

questa vita e non si avrà se non dopo la risurrezione. Tuttavia an-

che durante la vita terrena l'anima può prepararsi alla perfezio-

ne, vincendo la resistenza oppostale dal corpo e contrastando o

domando i carnale?, motus. Essa è, insomma, in grado di liberar-

si dal peccato, benchè soggetta ancora alla pena ; e Cristo appun-

to, assumendo non il peccato ma la condizione dell'uomo peccatore,

con la sua passione e la sua morte ammonì gli uomini a sop-

portare la morte e a evirare la superbia, a fuggire cioè il pecca-

to di Adamo e a tollerarne la conseguenza, ossia la trasmutazio-


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ne del corpo stesso di Adamo di perfetto in corruttibile e morta-

le. Il peccato originale è dunque possibilità di peccare, di rivolgersi

al mondo — inferiore — della materia, che cade sotto i sensi, e tro-

varvi diletto, da parte dell'anima, relegata ora in un corpo tendente

a ribellarsi a lei e condannato alla morte ; ma anche in questo è da

ammirare il piano della Provvidenza, che ha lasciato tuttavia l'anima

libera di scegliere tra ciò ch'è superiore e inferiore. Perchè l'anima

sia capace di frenare le passioni, è necessario il soccorso della mise-

ricordia divina; ma tale bontà di Dio si manifesta già nell'incarna-

zione di Cristo, venuto ad insegnare all'uomo come si possa conse-

seguire la perfezione. L'aiuto divino e l'azione del Cristo, conce-

pita anche qui come piuttosto esemplare, o ammaestratrice, che

propriamente redentrice, sono dunque intesi in questo libro come-

44
nel De vera religione. Lo stesso passo della lettera Ai Romani (VII,

25), — citazione la quale mostra già la maggiore importanza che

Agostino attribuiva ormai alla Sacra Scrittura — è applicato agli

uomini non ancora giunti alla perfezione — pertanto, non all'apo-

stolo. Esso è, inoltre, interpretato alla luce di una preoccupazione

escatologica, quale poteva suscitare il ricordo di I Corinzi, XV : Ago-

stino pensa a difendere e giustificare razionalmente la resurrezione

dei corpi ; nel che si manifestano a un tempo, l'avversione al mani-

cheismo, e un distacco dal neoplatonismo puro (27).

Il corpo è essenzialmente buono : mortale, certo, ma la morte

stessa è soltanto pena del peccato commesso dai primi progenitori,

dotati di libero arbitrio. Questa pena permane, e così il male si per-

petua nel mondo, ma solo in quanto l'anima, risentendo l'influsso

del corpo mortale, indulge e cede ad esso; però l'anima è capace

di affrancarsi dal dominio dei sensi, sottomettendosi a Dio, e pre-

parare la restituzione anche del corpo alla perfezione primitiva (28).

Un'ampia parte della trattazione è appunto destinata a chiarire

che l'anima, rivolgendosi ai beni inferiori, si allontana da Dio, e in

ciò appunto consiste il peccato, la cui origine è la superbia. Eppure

amare chi solo può appagare le aspirazioni dell'anima stessa, non

può essere difficile. Ritroviamo anche il ritratto del perfetto cristiano,

come cmouSalos o yvwa-uxój Segue poi una serie di esortazioni.

Dalla passione per i beni inferiori, vincendo la consuetudine cat-

tiva che le resiste, l'animo può liberarsi mediante uno sforzo per

seguire le virtù, e specialmente la temperanza. Esse sono tutte con-


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tenute nel precetto di amare Dio e il prossimo; e senza di esse è

impossibile raggiungere la felicità. Dobbiamo quindi ammirare la

Provvidenza di Dio onnipotente, creatore e conservatore dell'uni-

verso, e dell'ordine che si ammira in ogni sua parte. Questo sviluppo

costituisce la materia degli ultimi capitoli del libro, dedicato « multo

infiormioribus... quam sunt illi qui unius summi Dei consubstantialem

et incommutabilem Trinitatem... duorum Testamentorum auctorita-

tem secuti venerantur et colunt eam credendo, sperando et diligendo.

Hi enim non scintillantibus humanis ratiocinationibus, sed validis-

simo et flagrantissimo caritatis igne purgantur ». (29). Riappaiono qui

due motivi antimanichei : in primo luogo, l'unità inscindibile delle

due parti della Bibbia- in secondo, l'importanza attribuita alla fede.

L'autorità non è proprio collocata al disopra della ragione, nel

45
senso, che questa debba sottomettersi a quella, però il seguirla non

è considerato come cosa propria di menti inferiori (30) : il che è

senza dubbio interessante. Infatti, il razionalismo appare ora ad

Agostino una caratteristica degli avversar;. Del resto, egli ha già

riconosciuto nel De magistro (31) che il credere, se anche non dà

la conoscenza perfetta, è nondimeno utile. E appunto contro il razio-

nalismo manicheo Agostino scrive ora, divenuto prete in Ippone

Regio, il De utilitate credendi.

E' questa una delle opere in cui Agostino mette a profitto la sua

esperienza personale, dandole un valore normativo, a uno scopo

di edificazione ; ma non è senza importanza che ciò coincida con il

sacerdozio. Ma su di lui influirono anche (e del resto sono stretta-

mente connesse con lo scopo principale) il desiderio di combattere

manichei, che lo consideravano un transfuga e mostravano di com-

patirlo, facendo apparire la sua conversione al cristianesimo come

dovuta a un indebolimento delle sue capacità intellettuali ; e quello

di provare non soltanto la sincerità della sua conversione, ma il

modo in cui si era compiuta, affinchè tutti intendessero ch'egli non

era indegno del suo ufficio ecclesiastico. Questa intenzione di Ago-

stino, che si manifesta anche nell'insistenza con cui egli sottolinea

che al manicheismo non ha mai dato un'adesione totale, si è purifi-

cata dai motivi personali ; e il racconto ch'egli fa della sua conver-

sione si trasforma in un invito ad Onorato, e ai lettori, di seguirlo

per la medesima via. La realtà della sua vocazione è così dimostrata

nel più nobile dei modi.


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Perchè Agostino era divenuto manicheo? Precisamente per aver

creduto di potersi affidare alla ragione, disconoscendo l'autorità. Ma

in realtà questo non era stato che l'accettare l'autorità di alcuni

maestri, la cui insipienza gli apparve chiara quando egli slesso ap-

prese a impiegare la ragione. Il racconto che egli fa della sua vita

interiore è pertanto straordinariamente interessante, anche perchè

si ricollega a quelli che sono i motivi fondaméntali dell'opera (32).

Se nel De vera religione contrassegno della religione vera è il

monoteismo, qui, nel De utilitate credendi egli prende le mosse dal-

l'anima : non vi è religione, e tanto meno vera, senza la credenza

in un'anima immortale (33). Ma questa anima è soggetta ad errare,

finche non abbia trovato la verità, cui tuttavia essa anela, anche se

irretita nell'errore e come sommersa nella stoltezza. Naturale è dun-

46
que il rivolgersi a maestri, e tra questi, professanti opinioni diverse,

a coloro che hanno acquistato maggior fama e più largo seguito (34).

Nè c'è da vergognarsi per questo : bisogna distinguere il credulus

dal credens. Ma è colpa grave insegnare la religione a un indegno,

qui fleto pectore accedit. La fiducia dunque è reciproca : come il

maestro crede alla buona fede e alla capacità dello scolaro, questi

dimostrerà la sua buona fede credendo al maestro. D'altronde,

dovremmo negare la religione a coloro che non sono capaci di per-

venire alla- conoscenza del Vero? Non sarà meglio condurli grada-

tamente ai misteri più alti? E che male verrà agli altri, agli intelli-

genti, se da principio seguiranno la stessa via? (35). Ma agli stolti,

sarà sempre meglio attenersi ai precetti dei saggi che governarsi da

sè. E affinchè lo stolto possa riconoscere il sapiente, ché da sè non

potrebbe, ha provveduto Dio ; perciò per prima cosa la Chiesa cat-

tolica inculca la fede. Essa è il primo passo verso la purificazione

dell'anima, condizione indispensabile alla conoscenza del vero (36).

La ragione non ha perduto dunque qui la sua preminenza ; ma Ago-

stino riconosce la necessità di fare posto nella Chiesa a tutti, agli

stolti non meno che ai sapienti. Cui la ragione fa difetto, abbia alme-

no la fede : chi non arriva da sè alla sapienza, alla moralità e alla

comprensione di Dio, troverà almeno la norma della propria con-

dotta, e pertanto il mezzo per purificarsi e redimersi, nei precetti

della Chiesa e nella regola della fede. E d'altra parte questa puri-

ficazione morale è necessaria a tutti. Vale la pena di rilevare che,

da vero ecclesiastico, Agostino non ha più di mira un gruppo ari-


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stocratico e necessariamente ristretto di filosofi immersi nelle loro

meditazioni, ma si preoccupa anche della massa degl'incolti, che

pregano con umiltà.

Ma questa umiltà è necessaria anche ai sapienti. Agostino si

ricorda di quanto era manicheo e polemizza contro i suoi antichi

compagni di fede, che accusano 1' Antico Testamente : coloro che

credono di trovarvi contraddizioni, assurdità, immoralità non sono

•che degli stolti. I veri sapienti, sanno che la Scrittura Sacra deve

essere interpretata allegoricamente. L'interpretazione allegorica è

necessaria per l'Antico Testamento, in quanto esso è la Legge,

fatta per i servi (ma utile) ; il rapporto tra legge e grazia è da Ago-

stino concepito analogamente a quello tra autorità e ragione. L'au-

torità, insomma, dice sotto il velame dell'allegoria le stesse verità

47
che la ragione scopre da sé : credere è mettersi sulle orme del

sapiente, che ci mostrano la strada verso Dio. Il quale, nella sua

somma indulgenza e liberalità, ci ha facilitato il compito, avvicinan-

dosi a noi, mediante l'incarnazione. E quale autorità può essere

più salutare e insegnarci meglio il modo di staccarsi dal mondo per

rivolgere il nostro amore a Dio? Che Dio abita nell'anima umana:

ma per riconoscerlo, per accostarci alla verità ed essere sapiente,

è necessario che l'anima sia pura (37).

La rivendicazione dell'autorità è dunque fondata ancora sugli

stessi argomenti che si trovano nelle opere anteriori; anzi, per

certi rispetti, il De utilitate richiama i De moribus. L'immoralità

è l'errore; Agostino dice ad Onorato ch'egli non cessa « gemitibus...

vel edam... fletibus Deum deprecare ut te ab erroris malo libe-

rei » (38) : singolare parafrasi del Pater noster! Ma qui, ciò che

interessa non è tanto che l'azione del Cristo sia considerata soprat-

tutto come quella di un maestro, bensì il richiamo alla preghiera

dominicale, e il manifestarsi di certe preoccupazioni proprie di un

ecclesiastico.

Con il De utilitate crederteli, presenta vari punti di contatto il

De duabus animabus. Anche qui, Agostino riconosce di essere stato

manicheo, ma attribuisce il suo errore prima di tutto, a inespe-

rienza giovanile e alla facilità di essere sedotto da false immagini

di bene ; poi all'orgoglio, pure caratteristicamente giovanile, lusingato

dalle facili vittorie che la sua abilità di retore gli permetteva di

riportare nelle discussioni con cristiani incolti. Anche qui, come nel
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De utilitate credendi, egli polemizza bensì con i manichei, ma pensa

ai suoi amici rimasti tali, e li esorta e prega Dio perché si conver-

tano. E anche qui ritiene necessario, per intendere la Bibbia,

rivolgersi ad interpreti autorizzati (39). L'argomentazione è popo-

lare, tutta fondata, in primo luogo, sulla differenza tra le cose sen-

sibili e le spirituali : tra queste è la vita. Ora, le anime indubbia-

mente vivono, onde non si possono attribuire se non all'autore

della vita. Altro principio fondamentale di questo libro è che i

« vizi » non sono che « difetti ». Da che segue, che il peccare

dipende dalla nostra volontà (40). E' notevole, che più volte Ago-

stino accenni alla necessità di una illuminazione divina per ben

ragionare, anzi a una verità che è come scritta da Dio nell'anima

di ciascuno, ma si riconosce solo qualora nella propria uno si

48
prepari a leggere con sguardo purificato dall'umiltà (41). Ugual-

mente interessante è che anche qui effetto del peccato originale è

soltanto la trasformazione del corpo umano da immortale in mortale,

onde deriva la difficoltà a tenersi lontani dalle cose sensibili e car-

nali. Di questo peccato, dunque, gli uomini continuano a portare

la pena (42), alle cui conseguenze nondimeno possono sottrarsi,

riconoscendo il bene superiore e la giustizia e aderendovi con ferma

volontà.

Il medesimo ordine di idee si ritrova nel secondo libro De libero

arbitrio (43). L'indagine riprende al punto in cui era rimasta sospe-

sa, al termine del primo dialogo (44) : perché Dio ha detto all'uomo,

col libero arbitrio, la possibilità di peccare? Evodio non è ancora

in grado di rispondere alle obiezioni dei manichei : egli crede, ma

non comprende. Crede che il libero arbitrio sia stato dato all'uomo

da Dio, il quale è giusto, e giusta cosa è che i cattivi siano puniti

e i buoni premiati ; da Dio, dal quale proviene tutto ciò che è bene

(cioè anche l'uomo, che volendo può vivere secondo giustizia). Ma

con ciò, osserva Agostino, la questione è risolta : se infatti la li-

bertà ci fosse stata data da Dio allo scopo di farci peccare, sarebbe

ingiusto punirci (45). Senonché Evodio risolleva subito il proble-

ma con un'altra comanda : perché all'uomo non è stata data sol-

tanto la volontà del bene? Al che Agostino gli fa osservare, che

non si può chiedere se Dio dovesse o no darci una cosa ; al con-

trario, dal fatto che una cosa è buona, dobbiamo concludere ch'essa

viene da Dio. Onde i tre oggetti della ricerca : se Dio esista ; §e da
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lui vengano tutti i beni; se il libero arbitrio sia un bene (46).

La dimostrazione di Dio si fonda sulla superiorità della ragione.

I « sensi del corpo » infatti percepiscono ciascunp un singolo aspetto

delle cose, mentre il « senso interno » giudica di loro tutti (46 bis). A

questo punto si fermano le bestie ; ma l'uomo possiede la ragione,

la quale è superiore anche a tale senso interno che giudica delle

sensazioni, perché essa intende non solo se medesima, bensì la

sapienza, che la trascende. Tuttavia, osserva Evodio, non basta

dimostrare l'esistenza di un'entità superiore alla ragione : Dio si

può chiamare solo l'Essere al quale nulla è superiore. Ma Agostino

replica che gli basterà allora dimostrare l'esistenza di qualche cosa

di eterno e immutabile, superiore alla ragione, e che questa scopre

da sé : esso sarà Dio, o, ammesso che vi sia qualche cosa che tra-

49
scenda anch'esso. Dio sarà quest'ultimo : comunque, Dio esiste (47).

Né importa qui ricercare che nessi esistano precisamente tra questa

dimostrazione di Agostino e quella di S. Anselmo.

Possiamo distinguere gli oggetti che vengono percepiti solo

individualmente, e ciò che viene sentito da tutti senza per questo

subire alcuna mutazione. Ma ciò che veramente si mantiene iden-

tico a se stesso, pur essendo percepito da tutti mediante la sola ra-

gione, e che si mantiene tale, indipendentemente anche dal fatto di

essere percepito o no, è la ratio et veritas numeri : a differenza da

quanto si verifica nel mondo delle cose sensibili, sette e tre fanno

e faranno sempre dieci (48). Ma ciò che costituisce i numeri è l'u-

nità, che non è percepita dai sensi e non si trova nei corpi (49).

Agostino esalta quindi l'importanza dei numeri come verità intelli-

gibili : e del resto anche la Scrittura mette insieme sapientiam et

numerum (50). Ma, la sapienza, è una? Molte sono le scuole filo-

sofiche, e ognuna pretende di aver ragione ; ma tutte cercano ugual-

mente il bene, un bene; e quindi ricercano la sapienza, senza la

quale non esiste beatitudine. Questa a sua volta consiste nel sommo

bene, identico alla verità. Quanto al rapporto tra sapienza e nume-

ro, Agostino lo dimostra con l'interpretazione allegorica di un passo

della Scrittura e con un'immagine, che egli stesso riconosce non

adeguata : ma, insomma, è un fatto che entrambi sono veri e im-

mutabilmente tali (51). Vè dunque una verità assoluta, tale che

non noi la giudichiamo, ma secondo essa giudichiamo le cose. E

con ciò, la dimostrazione è compiuta. S'è trovato infatti qualche


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cosa di immutabile ed eterno, superiore alle nostre menti, e a cui

nulla è superiore. Questo qualche cosa è la verità : dunque la verità

è Dio. Qui è opportuno ricordare il dogma trinitario : il Padre è

consustanziale al Figlio, al Logos. La sapienza è dunque il Cristo,

è la verità che rende liberi coloro i quali a Cristo si mantengono

fedeli (52).

Il male, il peccato, è dunque una deviazione intellettuale. Ma

la verità, che'mfus docet, ci ammonisce di continuo; la sapienza,

cioè il Logos divino, c'impone il ritorno a noi stessi. E' ben vero

che noi siamo mutevoli nel corpo e nell'anima ; ma tutto ciò che

muta ha una sua forma, che riceve, ma non può dare a se stesso;

e poiché all'infuori di corpo e anima non esiste se non Dio, dob-

50
biamo concludere che tutto è stato creato da Dio e che ogni cosa

è governata dalla Provvidenza, autrice di tutti i beni (53).

Resta da dimostrare che il libero arbitrio sia un bene. Ma se

tutto è da Dio, tutto è bene ; vi possono essere beni di cui si può

usare male, ma che non per ciò cessano di essere tali. Beni dell'a-

nimo di cui non si può fare .malo uso sono le virtù. Ora, come la

ragione conosce sé stessa, cosi la volontà usa se medesima, può

rivolgersi a Dio, aderire a lui (e in ciò consiste la beatitudine), e

può rivolgersi ai beni mutevoli e inferiori. Ma questa scelta è volon-

taria e quindi giustamente retribuita. Ma, se non procede da Dio,

donde viene il moto della volontà per cui pecca? Per un momento,

Agostino avverte il pericolo di «cadere nel manicheismo, e sente

il bisogno di combatterlo. Il peccato è un « difetto », una diminu-

zione di essere e dipende dall'uomo ; ma, se cade, per risollevarsi

l'uomo ha bisogno dell'aiuto di Dio. Questa affermazione, però,

va intesa, ricordando che per Agostino, ora, il Cristo è quella Verità

e quella Sapienza, la quale, anche per mezzo degli oggetti esteriori,

ammonisce l'uomo a ritornare a sé stesso. Quindi le virtù sona

in potere dell'uomo ; la « mano di Dio tesa dall'alto » censiste nel-

rilluminazione dell'intelletto. Dio agisce sull'uomo in quanto Egli

è la Verità. E l'opera del Cristo è ancora soprattutto quella di un

maestro. Ma al tempo stesso è evidente che Agostino vuole anche

mostrare la necessità della fede, ed egli insiste sul valore détt'aacto-

rìtas e della Chiesa (54). Tuttavia, si rende conto che non è giunto

ancora ad una soluzione del problema che lo tormenta; e rimanda


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Evodio (e con lui il lettore e, ciò che più importa, sé stesso) a un

altro dialogo (55).

NOTE

(1) Mi riferisco — come è facile comprendere — particolarmente ad

opere come il De doctrina christiana, il De Timitate, ì\ De consensi! evan-

gelistarum, il De Genesi ad litteram e anche il De civitate Dei, che pure, come

è noto, fu suggerito all'autore da considerazioni di carattere polemico; cfr.

Retractationes, II, 4 (30); 15 (41J; 16 (42J_; 24 (50); 43 (69). Nulla più interes-

sante che, fondandosi eu questi e altri dati forniti dallo stesso Agostino, l'an-

dare investigando, per mezzo di una minuziosa analisi interna, le tracce dei

vari momenti in cui furono composte le diverse parti di queste opere, o delle

loro varie edizioni (v. p. es.. per Jl De doctrina christiana, d. D. de Bruyne,

in Rev. bénéd. XXX, 1913, p. 294 sgg.: teei che si regge indipendentemente di

quella relativa all'/fa/a versio).

51
(2) Sarebbe ingiusto non menzionare qui, anche a costo di ripetermi,

l'opera del Marrou. Non latte le sue conclusioni sono completamente con-

formi a quelle cui i miei studi mi hanno condotto; ma spesso il disaccordo

è più che altro apparente, questione di sfumature; si vedano, p. e., le eue

osservazioni circa il carattere poco sistematico della filosofia agostiniana,

a pp. 183 e 193, o sulla tendenza di S. Agostino all'apostolato, p. 382. Alcuni

punti, in cui dissento da lui, saranno segnalati via via. Ma probabilmente è

proprio il non aver tenuto conto dello sviluppo del pensiero agostiniano, ciò

che forma il punto debole dello scritto del Marrou; alle cui ricerche sono

venute ora ad aggiungersi quelle del Courcelle, o. c., pp. 153-182.

(3) De v. religione, 1; 4; 6; 7: Socrate e Piatone « paucis mutatis veirbis

atque sententi^ chiistiani fierent (cfr. c. I, n. 13) aicut plerique recentìorum

nostrorumque tempcrum platonici fecerunt ». Agostino ha in mente senza dub-

bio Mario Vittorino e Mantio Teodoro. Cfr. però anche De civ. Dei, XXII,

27; « Singula quaedam dixerunt Pialo atque Porphyrius, quae si inter se com-

municare potuissent, radi eesent fortafce christiani ».

(4) De v. telig., 21-44, specialmente 27 « Usque adeo peccatum volun-

tanum est malum, ut nulìo modo sit peccatum. ai non sit voluntarium... Po-

stremo, si non voluntaie male iacimus, nemo obiurgandus est omnino aut

monendus, quibus sublatis christiana lex et disciplina omnis religionis aufe-

ratur necesae est... Et qùoniam peccati non dubium est, ne hoc quidem dtcbi-

tandum vìdeo, habere homines liberum voluntatis arbìtrium. Tales enim ser-

vos suos meliores esse Deus iudicavit, si ei libenter servivent »; 29: Quod

vero corpus hominis... post peccatum iactum «ed/ imbecillasum et morti desti-

natum, quamquam iusta vindicta peccati sit, plus tamen ctementiae Domini
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quam severitatis ostendit. Ita enim.nobis suadetur a corporis voluplatibus ad

aeternam essentiam veritatis amorem rtastrum oportere convitti; 39: vitìuan

ergo animae est quod fecit et dilficultas ex vitto poena est quam patitui; et

hoc est forum malum. Facere autem et pati non est substantia; quaproptei

substantia non est malum.

(5) De v. tei., 13; 14: « ilio omnia, quae primo credidimus, nihil nisi au-

ctor,itatem secati, partim sic intelliguntur, ut videamus esse certissima, partim

sic, ui videamus fieri posse atque ita fieri oportuisse ». A questo ultimo gruppo

appartengono l'Incarnazione, la Passione, la Morie e Resurrezione di Cristo.

Inoltre, 45-47; 51-52.

(6) D. v. rei., 48 sgg., specie 50: « Sicui autem isti ambo nullo dubitante

ita sunt, ut unum eorum, id est v&terem atque terrenum, possit in hac tota

vfiia unus homo agere, novum verum et caelestem nemo in hac vSta possit nisi

cum vetere — noim et ab ipso incipiat necesse est — et usque ad visibìlem

martem cum ilio, quamvis eo deficiente, se prondente, perduret; sic pro-

por-tione universum genus humanum, caius tamquam unius hominis vita est

ab Adam usque ad finem huius saeculi; ita sub divinae providsntiae 1 g bua

admìnìstratur, ut Jn duo genera distributum appareat. Quorum in uno est

turba impiorum, terreni hominis imaginem ab initio saeculi usque ad finem

gerentiwn; in altero series populi uni Deo dediti »; 73-74: « Ha renascitur inte^

rior homo et exterior corrumpitur de die in diem. Sed interior exteriorem re-

spidt et in sua comparatione ioedum videi, in proprio tamen genere pul-

crum...»; 77: « Corrumpitui autem homo exterior aut profectu interioris aut

delectu suo. Sed proiectu interioris ita corrumpitur ut totus in melius re-

tormetur et rest-ituatur in i nte g r u m in novissima tuba, ut ìam

52
non corrumpa/ur neque corrumpat. De/ectu au/em suo in pulchritudinea cor-

ruptihiliores, id est poenarum ordinem, praecipitalur. Nec miremur quod adhuc

pulcritudinem nominai nihil enim est ordinatimi quod non sit pulchium.

Nel passo del c. 50 la distinzione è tra il popolo d'Israele, e l'Israele

spirituale suo successore da un lato, dall'altro la massa dei pagani: bisogna

quindi resistere alla tentazione di vedervi come un'anticipazione dell'idea

deJJe « due città ».

(7) De v. rei., 29; 51; 54; 55: Porro ipsa vera aequalitas ac similitudo,

atque ipsa vera et prima unitas, non oculis carneis neque ulìo tali sensi*, sai

mente inue/Jecta conspicitur (cfr. Rom., I, 20); 56.

(8) De v. rei., 57-59 (cfr. per legge terrena e l'eterna, 58).

(9) De v. rei., 101: Quid est autem unde homo commemorari non possit

aa virtmtes capesse/trias, quando de ipsis vitiis potest?; 103: coloro che « fines

ipsos desiderant, prius curiosilate carent, cognoscente* eam esse certam co-

gniiionem qua e in tua est» (cfr. note 10 e 46).

(10) De v. rei, 73; 72: Quid igilnr restat, unde non possit anima recor-

dari primam pulciitudinem quam reliquit, quando de ipsis suJs vltiìs potest?

(cfr. 101: cit. alla n. 9); ... Ita ilio bom\as a summo usque ad extremum nulli puf-

critudini, quae ab ipso solo esse posset, invidii, ut nemo ab ipsa veritate deicia-

tur, qui non excipìatur ab aliqua effigie verilatis. Quaere in carpari® voluplate

quid teneat, nihil aliud invenies quam convenientiam; nam sì resistentia pa-

rlunt dolorem, convenienza pariunt voluptatem. Recognosce ìgitw quae sit

summa convenientia; noli loras ire, in te ipsum redi, In interio.

re ho m i ne habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inve-

neris, transcende et te ipsum. Sed memento cum te transcendis, ratiocincntem


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animam te trascendere: illuc ergo tende, unde ipsum tumen rationis accendi-

tur. Qua enim pervenit omnis bonus ratiocinator, nisi ad veritatem? Cum ad se

ipsam veritas non utique ratiocinando pervenidt, sed quod ratiocinantes cppe-

tunt ipsa sit. Vide ibi convenientiam qua super/or esse non possit, et ìpse con-

veni cum ea.

(11) Cfr. Joh. I, 9 e, per l'allusione al manicheismo, De Geni c. man. I, 6.

(12) .De v. rei., 91: Quamquam temporalia non diligat, ìpse recte utitur tem^

poralibus, et pro eorum sorte hominibus consuìit, si aequaliter non potest om-

nibus... Tractat enim tempori deditos tanto melius, quanto minus ipse obììgatas

est tempori. Cum itaque omnibus, quos pariter diligit, prodesse non possft,

nisi coniunctioribus prodesse malit irtiustud est. Animi autem convincilo maior

est quam locorum aut lemporum quibus in hoc carpare gignimur, sed ea ma-

xima est quae omnibus praevalet. Non ergo iste afillgitur morte cuiusquam,

quoniam qui tato vn'mo Deum diligit, novit nec sibi perire quod Deo non perii;

92: In omnibus autem officiosis laboribus, falurae quietis certa exspectatione,

non Irangitur.

(13) Cfr. le osservazioni di E. Bréhier, Histoire de la philosophìe, I, 2,

p, 506 sg. (Parigi 1934).

(14) / Cor-., Ili, 2.

(15) De v. rei., 93: Quem ergo delectat Ubertas, ab canore mutabilìum

rerum liber esse appetat; et quem regnare delectat, uni omnium regnatori

Deo subditus haereat, plus eum diligendo qunm se'pisum. Et haec est per-

lecta iustitia, qua polius potiora et minus minora dtligimus; 45; 51.

53
(16) De v. re/., 8j 9: possit enim eoa — scismatici — area dominion usque

ad teiniMs ultimae ventilationis va/ut paìeas sustinere, nisi vento superbtalei

nìmia levitate c,essìasent; 10: la chiesa cattolica per talum orbem valide lateque

diffusa... carnales suos... tamquam paleas tolerat... Sed quia in hac area pro

voluntate quisque vel paleo vel frumentum est, taindki suistìnetur peccatum

aut error cuiuslibet, donec aat accusatorem inventai, aut provasi opìnionem

pertinaci animositate delendat; 50. Circa gli ofiti, cfr. De Gen. c. mun., 39.

(17) Mati.. XIII. 31 etc..

(.18) V. oltre, cap. III.

(19) De v. rei. 11; 15: l'eresia è utile ad verum quaerendum carnales et

ad verum aperiendam spiritales cathoticos eccitando.

(20) De v.-rel., 32: Tota itaque vita eius in terris per hominem quem su-

scipere dignilus est, disciplina mo rum fuit. Re&urrectio vero eius ...

nihil hominis perire naturae, cum omnia salva sunt Deo, sofia indicavit et

qu&madmodum cuncta servìant Creatori suo, sive ad vindictam peccatorum,

sive ad hominis lìberationem, quamque lacile corpus animae servicot, cum

ipsa subicitur Deo.

La stessa osservazione fa Plinvat, a proposito di Pelagio (o. c., p. 79).

(21) Cfr. De quanf. an., 76; 79; 80. Tuttavia, in De Gen. c. man., I, 41

la settima età comincia col Giudizio; ofr. II, 43, dove afferma « nullum malum

esse naturale, sed omnes naturae bonas esse... in quantum sunt... sed distin-

ctionis gradibus ordinatas ».

(22) Cfr. E. Bréhier, o. c., p. 461 ag.

(23) De v. rei., 113.

(24) Alcuni capitoli de. De v. rei., p. e. 36, non sono che commento al
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Genesi.

(25) Retract. I, 5 (6); cfr. Marrou, o. c., App. C. pp. 570-579.

(26) II problema della "composizione del 1. VI De musica è stato risolle-

vato da Marrou (o. c., p. 580 egg.), il quale osserva che vi sono tra questo e i

primi cinque, differenze di tono e di idee, che non si possono spiegare soltanto

invocando la diversità della materia. Il 1. VI è più filosofico, più religioso, più

ecctesiastico; p. e, mentre nei primi cinque si citano versi di autori pagani,

qui l'unico verso studiato è di Sant'Aimbrogio, e di contenuto religioso: Deus

crea/or omnium; inoltre nel 1. VI vi sono numerose citazioni bibliche, che man-

cano negli altri; in terzo luogo, Agostino nel 1. I palla della musica come di

una scienza nobile e bella, mentre nel VI la disprezza come cosa vana e pue-

rile; infine, appare evidente in quest'ultimo la preoccupazione di non scanda-

lizzare le anime semplici, di ricordare loro che ciò che importa è la carità, per

cui sono superiori ai dotti imbevuti di cultura umana. Esaminata quindi la

testimonianza di Retract., I, 5 (6) « eodem sex libros iam baptizatus iamque

ex Italia régreseus in Afeicam scripsi; incoaveram quippe tantummodo isiam

apud Mediolanium disciplinam », trova che essa costringe a collocare la com-

posizione del libro VI verso la fine del 387 o poco dopo, « car il est difficile

de supposer qu'Augustin ait pu encore s'occuper du De musica après son or-

dination (printemps 391) ». L'intervallo è quindi troppo breve per giustificare

tali differenze; e anche quelle che esistono tra il 1. VI De musica e il De vero

religione. La soluzione si troverebbe quindi nell'Epistola CI, del 408-09, con

54
la quale Agostino accompagna l'invio a Memorie di un esemplare del solo VI

libro, « quem emendatum repperi » in luogo di tutti e sei, « quos emendaturum

me esce promiseram », ma non potè farlo, perché troppo occupato. Agostino

avrebbe dunque riveduto e corretto il 1. VI prima del 408: il che lascia tutto

it tempo necessario per giustificare il cambiamento di tono osservato. Ma,

quanto alle modificazioni introdotte in questa « seconda edizione », il Marrou

non sa essere preciso; e si limita all'ipotesi che il riferimento possa essere

consistito nell'aggiunta del cap. 1, (che-è forse quello in cui « s'affirment le

. plus brutalement les traits caractéristiques de la mentalité ecclésiastique ») e,

forse, della conclusione, 17 (59).

Ma in realtà le differenze non sono poi tanto grandi. Per ciò ohe riguarda

le citazioni bibliche, lo stesso fenomeno si osserva, quasi nelle stesse propor-

zioni (e conviene considerare anche la materia trattata) nei vari libri De Ubero

arbitrio-, e quelle di De mus. VI non sono più numerose, né in senso assoluto

né in senso relativo, di quelle che si leggono in altri scritti anteriori all'ordi-

nazione sacerdotale di Agostino: De moribus Eccìesiae Cqtholicae, de Genesi

c. manichaeos, De vera religione. Il diverso modo di considerate la musica, e-

spiega, quando si tenga presente il concetto, tante volte espresso e commen-

tato da Agostino nelle opere di questo periodo: tutte le cose sono buone, ma

ciascuna nel suo ordine. Di modo che la musica può essere presentata al tempo

stesso come nobile ed elevata per chi è all'inizio della propria elevazione spi-

rituale, e come vana e puerile per chi si sia già innalzato fino al sapere filo-

sofico. La cura di non offendere le anime semplici si ritrova pure in altre

opere antediori aJ 391. Resta il tono generale, religioso o « ecclesiastico » che,

secondo Marrou, si trova condensato nel cap. 1. Soppresso questo, « le livre


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VI parait bien plus en harmonie avec les precèdente: le ton religieux y est

moine apparent; il ne s'affirme que de facon progressive a mesure qu'on avance

et qui est conforme au projet d'Augustin d'alJer a corporeis ad ìncorporalìa ».

Ma non dovrebbe sorprendere di trovare affermato con maggior forza il punto

di vista e il proposito dell'autore nel preambolo del libro, lo scopo del quale

è annunciato già alla fine del libro precedente. E d'altra parte, circa il tono e

la finalità dei primi cinque libri, è proprio il Marrou che (p. 302 sgg. e 307)

ha fatto notare che in quel procedimento per corporalia ad incorporano rien-

trano anche tutti quegli sviluppi tecnici, i quali servono come una specie di al-

ìeiuimento, di ginnastica preparatoria: exercitatìo animi. E' dunque abbastanza

naturale che, nei piimi 5 libri siano citati poeti pagani e solo nel sesto un au-

tore cristiano, con un verso di contenuto filosofico, che il libro stesso si pro-

pone di chiarire.

Ma vi è di più. Marrou pensa che la « seconda edizione » non possa

essere stata fatta da Agostino se non dopo il 391. Ma allora, ci si può doman.

dare per che ragione, dedicando nelle Retractationes una notizia speciale al

1 VI De musica, Agostino l'abbia co,locata prima di quella destinata al De

utilitate credendi (I, 13 [14]), nella quale l'indicazione che Agostino la

scrisse apud Hipponem Regium presbyter ha per scopo evidente di

segnalare che si tratta della prima opera di lui, posteriore al sacerdozio. Che

se poi, si volesse supporre una revisione compiuta dopo la consacrazione epi-

scopale, allora, come apparirà da tutto il presente studio, le differenze tra

il VI e i libri precedenti dovrebbero essere ben più gravi.

Ma esaminiamo ora l'Ep. CI. Il vescovo Memorio ha chiesto ad Agostino

i libri De musica, e questi gli ha promesso di correggerli e mandarglieli (1; ed.

55
Goldbacher, C. S. E. L. XXXIII, p. 539); ma non ha potuto tener fede alla pro-

messa, a causa delle molte occupazioni. E fa la storia della loro composi-

zione: iltitio nostri olii... volui per iata, quae a nobis desiderasti, scripta pro-

ludere, quando conscripsi de solo rhythmo sex libros et de mele scribere alios

forsitan isex, fateor, disponebam, cum inihi otium fu'turum sperabam. Sed postea

quam mihi curarum ecclestiasticarum sarcina imposita est, omnes illae deliciae

fugere de manibus, ita ut nunc vix ipsum codicem inveniam... Sextum sane

librum, quem emendatum repperi, ubi est omnis fiuotus 'caeterorum, non distuli

mittere cantati tuae » (3 e 4, ibid. p. 542). Dunque, la redazione dei sei libri

è tutta anteriore al sacerdozio. Ma intanto, Agostino espone il suo modo di

pensare presente, da vescovo: tutti questi studi, la cultura pagana e le disci-

plinae, eccetto forse la storia, non valgono nulla, se non in quanto mezzo per

la formazione di una cultura cristiana e nell'ambito di questa: « per eum (Fi-

lium) namque praestatur, ut ipsae etiam, quae liberales discipdinae ab eis, qui

in libertatem vocali non eunt (cfr. Gai., V, 13) appellanitur, quid in se habeant

liberale, noscatur ». E' chiaro, che quei primi cinque libri ormai non rispon-

dono più a questo punto di vista, e dunque non meritano di esser letti: « su-

periores quinque vix filio nostro et condiacono luliano... digni lectione vel

cognitione videbuntur » (2 e 4 ibid. pp. 540 e 542).

Agostino si è trovato in una situazione un po' delicata: un vescovo gli

ha manifestato il desiderio di leggere il De musica, opera di gioventù e della

quale non è soddisfatto. Dapprima pensa di rivederla; ma glie ne manca il

tempo. Non ricorda bene quando la scrisse e ha l'impressione di aver com-

posto i 6 libri tutti incieme. Ma il VI gli appare, in confronto degli altri, tol-

leraibile; può essere inviato a un vescovo. Dunque, dice Agostino, sarà stato
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riveduto.

Quando però nel 427 Agostino si mise di proposito a ripercorrere con

là mente tutta la sua carriera di scrittore, la memoria lo aiutò meglio; e tut-

tavia, accanto al ricordo della redazione dal De musica in due momenti di-

stinti, agì su lui anche l'altro, della composizione in una volta sola, ricordo

tenuto desto probabilmente — se possiamo argomentare dall'analogia con altri

casi simili — dalla stessa Ep. CI. Da ciò le due notizie delle Retractationes.

Nella seconda delle quali riappare anche l'idea che « ipse sextus maxime in-

notuit, quoniam res in eo cognitione digna versatur ». E dunque tanto più

strano, che Agostino, occupandosi due volte di questo libro, non menzioni mai

di averne fatto una revisione tale, da meritare veramente il nome di « seconda

edizione ».

Ciò non esclude tuttavia una possibilità, che forse un esame dei mano-

scritti potrebbe mettere in chiaro; e cioè, che nel trascrivere il 1. VI per in-

viarlo a Memorio, egli vi intioducesse qua e là qualche modificazione lieve, di

cui potrebbe essersi conservata traccia nella tradizione. D'altra parte, le

somiglianze con il De vera religione, il De maffistro e il secondo libro De lì-

bero arbitrio sono tali, da obbligarmi a respingere l'ipotesi che il sesto libro

del De musica abbia potuto essere redatto, o riveduto a fondo, molto dopo il

391. E lo stesso Marrou finisce con l'essere della stessa opinione. In conclu-

sione, quindi, non vedo che vi siano ragioni sufficienti per rigettare l'assegna-

zione dei primi cinque libri al 387-88 e del sesto al 390-91. Lo spazio di tempo

intercorso è tale, da dar ragione delle differenze, e per di più questa datazione

è la più conforme ai dati forniti dalle Retractationes, della cui esattezza non

vi è ragione di dubitare, come confermano anche ricerche recenti.

56
Ho già indicato più sopra che il fine e il carattere fllosofico del

I. VI è annunciato chiaramente dalla conclusione del 1. V. Ecco il testo (De

mus., V, 28) : « Sed iam si nihil habes quod contradicas, finis sit huius disputa-

tionis, ut deinceps quod ad hanc partem musicae attinet quae in numeris teon-

porum est, ab his vestigiis eius ssnsibilibus ad ipsa cubilia, ubi ab omni cor-

pore aliena est, quanta valemus sagacitate veniamus ». Anche dopo le analisi

di cui sono stati oggetto quei primi cinque libri, è opportuno segnalare le

riflessioni intorno all'unità in V, 13. Per quanto riguarda la superiorità della

ratìo salì'auctorìtas, è interessante osservare que, sebbene la realizzazione eia

alquanto imperfetta (ofr. le giuste osservazioni di Marrou, p. 309 sgg.): Ago-

stino, nel dialogo tra maestro e discepolo, si sforza di precedere secondo la

tradizione e di far si che l'alunno venga scoprendo il vero da sé: cfr. IIi,

5 e 19: « M. Sed iam mihi dicas velim, utrum hie quae dieta sunt cognitis

assentiaris. •— D. Cognovi et assentioi. M. Mihdne credens, an per te ipse

vera esse perspiciens? — D. Per me ipse sane, quamvis dicente te vera haec

esse cognosco». Si ofr. inoltre i versi in IV, 4 sgg., p. es.: « Beatus est bonus,

fruens enim est Deo »; « Malus miser, sed ipse poena fit sua ».

(27) Ad Agostino non sfuggiva che ila conciliazione tra filosofia e cri-

stianesimo esigeva alcune correzioni, anche se non molte, al sistema neo-

platonico (cfr. De v. rel., 7, cit. alla n. 3); ma a giudizio dei neoplatonici pa-

gani, come Massimo di Madaura (Epist. ad Aug. XVI, 4) egli si era già allon-

tanato dalla loro scuola.

(28) De musica, VI, 7: Mirare potius quod aliquid in anima corpus po-

test. Hoc enim fortasse non posset, si non peccato primo corpus illud quod

nulla molestia et summa facilitate animabat et gubernabat, in deterius commu-


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tatum et corruptioni subiaceret et morti; quod tamen habet sui generis puJ-

critudinem et eo ipso dignitatem animae satis commendat, cuius nec plaga nec

morbus sine honore alicuiue decoris meruit esse. Quam plagam sumoia Dei

Sapientia mirabili et ineffabili sacramento dignata est adsumere, cum hominem

sine peccato, non sine peccatoris conditione suscepit. Nam et nasci humanitus

et pati et mori voluit; nihil horum merito sed excellentissima bonitate, ut nos

caveremus magis superbiam qua dignissime in ista cecidimus, quam co-ntume-

lias, quas indignus excepit, et animo aequo mortem debitam solveremus, si

propter nos potuit etiarn indebitam suetinere... anima vero istis quae per corpus

accipit carendo fit melior, cum sese avertit a carnalibus sensibue et divinis sa-

pientiae numeris reformatur » (cfr. Eccl. VII, 26); 13: Conversa ergo a Domino

suo ed eervum suum necessario deficit conversa item a eervo suo ad Dominum

euum necessario proficit et praebet eide,m servo facillimam vitam et propiterea

minime operosam et negotiosam ad quam propter summam quietem nulla de-

torqueatur attentio ... Haec autem sanitas tum firmiesima erit atque certis-

sima cum pristinae stabilitati certo suo tempore atque ordine hoc corpus fuerit

restitutum, qua.e resurrectio eius ante quam plenissime intelligatur salubriter

ereditar. Oportet enim arVmam et regi a superiore et rsgere inferiorem. Supe-

rior illa solus Deus est, inferius illa solum corpus, si ad omnem et totam ani-

mam intendas... Quare intenta in Dominum intell'get aeterna eius et magis est,

magisque est etiam ipse servus in suo genere per illam Neglecto autem Do-

mino intenta in servum. carnali qua dicitur cincupiscentia sentit motus sucs

quos ille exhibet et minus est; 14: « Ccnvertenti autem se ad Dominum, maior

cura oritur ne avertatur: done;c carnalium negotìorum requieecat impetus, effre-

67
natus consuetudine diuturna et tum.ultuae.is recordationibus conversioni eius

sese inserens; ita, seddtie motibus 6uis quibus in exteriora provehebatur, agit

otium intrinsecus liberum, quod significatur sabbato; sic cognoscit solimi Deum

esse dominimi suum cui uni summa liberiate servitur. Non autem illoe carnales

molue ut cum libet exeerit, ita enim cum libet extinguit. Non enim sicut pecca-

tiuii in eius potestate est, ita etiam poena peccati. Magna quidem ree est ipsa

anima, nec ad opprimendos lascivoe motus suos idonea sibi remanet. Valentior

enim peccat, et posi peccatum divina lege facta imbeciilior minus polene est au-

ferre quod facit; cfr. la citazione di Rom. VII, 24; 29: Quae vero superiora eunt,

nisi ili.i in quibus eumma inconcussa immuUbilis deterna manet aequaililas? ;

30: Ita peocantem hominem ordinavit Deus turpem non turpiter. Turpte enim

factus est voluntate universum amittendo quod Dei praeceplis oblemperans poev

sidebat et ordinatue in parte est ut qui legem agere noludt, a lege agatur.

Quidquid autem legitime, utique iuste, et quidquid iuste non utique turpiter

agitur; quia et in malis operibue noetris opera Dei bona sunt »; 33: in queeta

condizione l'uomo rimane fino alla resurrezione, in conseguenza della pena sta-

bilita dalla legge giustissima di Dio: « In qua tamen noe non ita deseruit, ut

aon valeamue recurrere et a carnalium sensuum delectatione, misericordia

eius manum porrigente, revocari. Talis enim delectatio vehementer

infigit memoriae quod trahit a lubricis sensibus » — e così domina l'anima, indu.

cendoia a seguire i phantasmala scambiati per la verità (cfr. 32). « Haec autem

animae consuetudo facta cum carne, propler carnalem affectionem, in scriptu-

ri* divinis caro nominatur. Haec menti obludatur (Rom. VII, 25)... Sed in

epirilalia menie suspensa atque ibi fixa et manente etiam huius coneuetudinis

impetus frangitur et paulatiirv repressus extinguitur. Maior enim erat cum


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sequeremur; non ta-m£n omnino nullus, sed certe minor, est cum eum refrena-

mue atque ita certis segressibus ab omni lasciviente motu, in quo defectus

essentiae est animae, delectatione in rationis numeroe restituta, ad Deum tota

vita nostra convertitur, dans corpori numeros sanitatis, non accipiene

inde laetitiam: quod corrupto exteriore homine et eius in melius commu-

tatione continget; 44: Haeccine (le cose terrene) amare facile est animae,

in quibus nihil nisi aea;ialitatem ac similitudinem appetii, et paulo diligen-

lius- considerans vix eius extremam umbram vestigiumque cognoscit; et Deum

amare difficile est, quem in quantum potest, adhuc saucia el sordida cogilans.

nihil in eo inaequale, nihil sud dissimile, nihil disclusum locis, nihil variatum

tempore suspicatur?... Iaboric6ioi est huiois mundi amor. Quod enim in ilio

anima quaerit, constantiam ecilicet aeternitatemque non invemit...; 45; 46:

Non igitur numeri qui sunt infra rationem et in suo genere pulchri sunt,

sed amor inferiorie pulchriludinis animam polluit: qoiae cum in illa non modo

aequalitatem... sed etiam ordinem diligat, amittit ipsa ordinem suum, nec

tamen exceesit ordinem rerum... Aliud enim est lenere ordinem, aliud ordine

teneri. Tenel ordinem, se ipsa loia diligens quod supra se est, id est Deum,

socias autem animas lamquas se ipsam (cfr. 43: la Scrttura insegna ad amare

Dio e il prossimo; 40 e 54: l'origine del peccato è la superbia)... Quod autem

itla sordidat non est malum, quia etiam corpus creatura Dei est (ecco, ancora

una volta, un motivo animanicheo; cfr. anche 57, a proposio della creazione)

et specie sua quamvis infima decoratur, sed prae animae dignitale con,lem-

nitur... A dilectione aulem proximi tanta quanta praecipitur certissimus gra-

dus fri nobis ut inhaereamue Deo et non teneamur tantum ordinatione illiue,

sed nostrum etiam ordinem inconcussum certumque teneamus ». V. in generale

&8
47-53. Si osservino inoltre le citazioni bibliche e specialmente le allusioni alla

resurrezione, attraverso i riferimenti a Rom. Vili, 11; / Cor. XIII, 12 e XV, 54.

(29) De mus. VI, 59, cfr. 1.

(30) Cfr. De mus. Ili, 30 e VI, 13 (cit. alla n. 28) e anche 52.

(31) De mag., 37 e 40 (c. I n. 40) e anche De quanta, an. 17 e 76.

(32) De util. cred.. 2: Mosti enim, Honorate, non aliam ob causaâ„¢ nos in

tales homines incidisse nisi quod se dicebant terribili auctoritate separata

mera et eimplici ratione eoe, qui se audire vellent, introducturos ad Deum

et errore omni Jiberaturos. Quid enim me aliud cogebat annos fere novem,

spreta religione quae mihi puerulo a parentibus insita era/, homines illos sequi

ac diligenter audire, nisi quod nos superstitione terreri et fidem nobis ante

rationem imperari dicerent, se autem nullum premere ad fidem nisi prius

discussa et enodata ventate,.. Sed quae rursum ratio revocabat, ne apud eoa

penitus haererem, ut me in ilio gradu quem vocant « auditorem » tenerem, ut

huius mandi spem atque negotia non dimitterem, nisi quod ipsos quoque

animadvertebam plus in refellendis aliis disertos et copiosos esse, quam in

suis probandis firmcs et certos manere? 3: Cessino i manichei di dire che

la luce mi ha abbandonato. Che luce era in me « cum vitae huius mundi

eram implioabus, tenebrosam spem gerens de pulcritudine uxoris, de pompa

divitiarum, d-3 inantiate honorum ceterisque noxils et perniciosis voluptatì-

bus? Haec enim omnia, quod te non latet, cum studiose illos audirem, cupere

et sperare non desistebam. Neque hoc eorum doctnnae tribuo ». 20: « Ut enim

a vobis trans mare, abscessi, iam cunctabundus atque haesitans, quid mihi

tenendum, quid dinkttendum esset — quae mihi cunctatio in dies maior

oboriebatur, ex quo illum hominem, cuius nobis adventus, ut nosti, ad


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explicanda omnia quae nos movebant quasi de caeio promittebatur, audivi,

eumque excepta quadam eloquentia talem qualem ceteros esse cognovi —

iationem ipse mecum habui magnamq'ue deliberationem iam in Italia con-

stitutus, non utrum manerem in illa secta in quam me incidisse paenitebat,

ned quonam modo verum inveniendum esser, in curus amorem suspiria mea

nulli melius quam libi nota eunt. Saepe mihi videbatur non posse inveniri

magnique fluctus cogitationum mearum in academicorum sullragium fe-

rebantur. Saepe rursus :ntuens, quantum poteram, mentem humanam tam

vivacem, tam sagacem, tam peispicacem non putabam latere veritatem, nisi

quod in ea quaerenda modus lateret, eundemque ipsum modum ab aliqua di-

vina auctoritate esse sumendum. Restabat quaerere, quaenom ilio esset au-

ctoritas, cum in tantis dissensionibus se quisque illam traditurus polliceretur.

Occurrebat igitur inexplicabilis silva, cui demum inseri multum pigebat: atque

inter haec sine ulla requie cupiditate inveniendi veri animus agitabatur. Dìs-

suebam me tamen magis magisque ab istìs, quos iam deserere praeposueram.

Restabat autem aliud nihil in tanti« periculis quam ut divinam providentiam

iacrimosis et miserabilibus vocibus, ut opem mihi ferret, dep'recarer. Atque

id seduJo faciebam: et iam fere me commoverant nonnullae disputationes Me-

diolanensis episcopi, ut non sine spe aliqua de ipso Vetere Testamento multa

quaerere cuperem, quae, ut scis, male nobis commendata execrabamur. Decre-

veramque tamdiu esse calechumenus in ecclesia, cui traditus a parentibus

eram, donec aitt invenirem quod veliem aut mihi persuaderem non esse quae-

rendum. Opportunissimum ergo me ac valde docilem tunc invenire posset, qui

poseet docere. Hoc ergo modo et simili animae tuae cura sit ».

59
Questo racconto, specie se messo a raffronto con quello del De beata

vita, 1 e con le Confessioni, è tanto interessante, che nessun serio biografo

e critico di Agostino ha potuto prescindere dal farne oggetto di esame. A me,

sono sempre parsi notevoli questi fatti: 1. Agostino insiste sul fatto che il

cristianesimo gli venne inculcato fin dall'infanzia, da entrambi i genitori: non

vi è cenno di una speciale influenza di Monnica, la quale non ha qui la

funzione che aveva, viva, nel De beata vita, e non è ancora esaltata come

nelle Confessioni; 2. la fase scettico-accademica di Agostino segue al suo

distacco ideale dal manicheismo, ma non ancora alla sua rottura definitiva

con questo; 3. non vi è nessuna menzione della lettura àell'Hortensìus; 4. nep-

pure vi sono menzionati i libri neoplatonici: in conseguenza di che, tutto U

periodo del filosofare di Agostine si riduce appunto all'accademismo, e la

conversione appare come un passaggio dal manicheismo, abbandonato gra-

datamente, al cristianesimo; 5. in questa maniera di raffigurare la conver-

sione di Agostino, acquista maggior risalto la figura di Sant'Ambrogio, da

cui egli è stato indotto ad accettare l'Antico Testamento in virtù dell'mter-

pretazione allegorica; 6. la ricerca del vero si identifica con quella di un'a-u-

torità che guidi ad essa.

In confrorlo con il De beata vita colpisce inoltre il non trovar men-

zione di Mantio Teodoro, che nel De beata vita era ricordato accanto ad

Ambrogio; ma è vero che anche di questo non si fa i) nome. E' invece ricor-

dato l'attaccamento di Agostino al mondo, però, a differenza dal De beata vita

e dalle Confessioni, esso è presentato non quale causa di esitazioni a dedi-

carsi al!a vita contemplativa, bensì come contemporaneo all'adesione al ma-

nicheismo. Agostino dice esplicitamente ohe non la considera una conse-


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guenza del manicheismo, ma lascia intravedere che va imputato a questa

dottrina falca, la quale non è stata capace d'indurlo a compiere quella Pu-

rificazione spirituale, che nel cristianesimo gli è stata possibile ee non facile.

Tutto ciò colpisce tanto più, quando consideriamo certe somiglianze anche

formali: (p. e. la frase incidi in homines, De b. v., 4; De util cred., 2; Confess.

ITI, VI, 10: si direbbe che per certi avvenimenti della sua vita Agostino, abbia

presto trovato l'espressione adeguata in una formula, che gli rimase impressa

nella mente, e ricorse poi sempre).

Ma è anche evidente, che non si può affermare, con ii Guitton (o. e.,

p. 253) che nel De util. cred. Agostino « laisse de còté toute son histoire

morale, pour ne garder que l'histoire intellectuelle ». Direi piuttosto che l'ele-

mento dottrinale e il morale sono ancora connessi, ma i) secondo è subordi-

nato al primo, e considerato soltanto in funzione dell'« illuminazione » del-

l'anima: che è un fatto intellettuale, e non di fede. Ma è ancora più im-

portante che il racconto in esame mostri, come dice lo stesso Guitton « quelle

simplification Augustin pourrait atre lenté de faire subir a sa pensée, lorsqu'il

veut démontrer qu'il est utile de croire»: insomma — e. credo, involontaria-

mente — serve ad una tesi. Ora, Agostino ci dice altresì di aver concluso

che non gli restava se non sperare nell'aiuto dellh Provvidenza, e pregare.

Ma questa preghiera parte da lui, è lui che ha deciso di farla e di continuare

nella ricerca; ma il soccorso divino si limita a questo: non vi è nessuna in-

dicazione di un vero e proprio piano provvidenziale p*r trarre Agostino alla

fede; e, ripeto, Monnica non ha qui nessuna funzione. Più ancora che le dif-

ferenze materiali, conta, mi pare, il diverso atteggiamento spirituale. Certo

non si possono dimenticare i fini di questa operetta: attirare Onorato, impie-

60
gando quegli argomenti che sono più suscettibili di far presa nell'animo suo,

e dei suoi simili; e respingere le accuse dei manichei. Ma l'atteggiamento

spirituale rivelatoci da questo racconto, e differentissimo da quello delle

Confessioni, si spiega completamente solo mettendolo in relazione con le

dottrine esposte nel resto del De util. cred.: l'armonia tra le varie parti è

completa.

(33) De util. cred., 14: Nemo dubitat eum, qui veram religionem requi-

rit, aut tam credere immontalem esse animarti, cuti prosit ilio, religio, aut etiam

id ipsum in eadem religione velie invertire... Animae ìgitur causa vei solius

vel maxime, vera, si qua est, religìo constituta est ».

(34) De util. cred., 15: Fac nos repperisse alias aliud opinante^ et di-

versitate opinionum ad se quemque tfahere cupientes. Sed inter ho» texcej-

lere lamae interim celebratale quosdam atque omnium paene o c-_

cupatione p apulo rum. Utrum isti verum teneant, magna quaestio

est; sed nonne prima sunt exptorandi ut, quamdiu erramus, sìquidìem homines

Humus, cum ipso genere humano errare videamur? Che poi le chiese siano

frequentate anche da moltissimi imperiti, non è un buon argomento (16). Ti-

midamente, ed espresso in modo ancora imperfetto, collegato con il concetto

del consenso universale, fa qui capolino l'argomento dell'universalità della

Chiesa.

(35) De util. cred., 22-25.

(36) De 'liàl. cred., 27: Nemini dubium homines ,aut stultos aut sa-

pientes esse. Nunc autem sapientes .vocò non cordatos et ingeniosos homines,

sed eos, quibus inest, quanta messe homini potest, ipsius hominis Deique fir-

missime percepta cognitio atque huic cognitioni vita moresque congruentes...


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Ouis mediocriter intellegens non piane viderit stultis uttìius atque salubrius

esse praeceptte obtemperare sapientium quam suo iudicio vitam degere?... Porro

recla saiio est ipsa virtus. Cui autem hominum virtus nisi sapientis animo prae-

sto est? Solus igitur sapiens non peccai. Sluìluta ergo oainis peccai, nisi in iis

iactis, in quibus sapienti obtemperaverit: a recla enim raitione talis iacta pro-

iiciscuntur; 29: Huic igitur tam immani dillicultati (che lo stolto riconosca il sa-

piente), quoniam de religione quaerimus, deus solus mederi potest: quem nisi

et esse et humanìs mfntibus opitulari credimus, nec quaerere quidem ipsam

veram religionem debemus (si cfr. il De vera religione)... Recte igitur catholicae

disciplinae motestate institutum est, ut accedentibus ad religionem fides persua-

deatur ante omniq. Si noti, anche qui, l'apparire dell'argomentazione ricavata

dall'uso ecclesiastico.

(37) De util. cred., 4: Reprehendentes Manichaei catholicam fidem et ma-

xime Vetus Testamentum discerpentes et dilaniantes commovent imperitos...

Et quia sunt ibi quaedam quae subolfendant animos Jgnairos et neglegertt&s

sui — quae maxima turba est — populariter accusari possunt: defendi au-

tem populariter propter mysteria, quae his continentur, non a multia admodum

possunt. — Perciò Agostino fissa (5-8; cfr. De Gen. c. Man., e De vera relia.,

46 e 98-99; ma qui Agostino è molto più allegorista) le norme principali del-

l'in terpretazione allegorica: quella usata appunto da Amtorogio (cfr. 20 cit. «

n. 32; 9: Nec illam legefn necessariam esse dicimus nisi eùs, quibus est adhuc

utilis servitus, ideoque utiliter esse latam, quod homines, qui revocari a pec-

cai/a rottone non poterant, 'tali lege coercendi erant, poenarum scìlicel ista-

rum, quote videri ab stultis possunt, minis atque terroribus; a quibus grafia

Christi cum liberai, non legem illam damnat, sed aliquando vos obtemperare

•

91
suae charltati, non servire timori legis invitat. !psa est gratia, id est benefi-

ciani, quod non intelligunt sibi venisse divintlus qui adhuc esse cupiunt sub

vincuìis legi'S. Quos merito Pautus obiurgat tamquam ìnfideles, quia a servi-

iute, cui cetio tempore {ustissima Dei disposìtione aubiecti erant, iam per do-

minuw nostrum lesum se liberatos esse non credunt... In quibua /amen legis

praeceplis atque mandatis... tanta mysteria continentur, ut omnis pius intelli-

gat nihil esse perniciosius quam quicquid ibi est accipi ad litteram... Si os-

servi come la lettura di S. Paolo non abbia ancora presentato ad Agostino i

problemi teologici essenziati, che gli rivelerà poi. 31: Nam ego credere ante

raiionem, cum percipiendae rationì non sii idoneus, 01 ipsa fide animum exco-

lere excipiendis semìnibua veritatts non solum saluberrlmum iudico, sed tale

omnino sìne quo aegris anìmis sahus redire non possit; 33: cum enim sapiens

sit Deo ita mente coniunctus (cfr. 13: «Testar, Honorate ... puri s animts

in hab i tan te m Deum »), ut nihil interponatur, quod separet — Deus enim

esi veritas nec ullo pacto sapiens quisquam est, si non veritatem mente contin-

gal — negare non possumus inter stultitiam honunis et sincerissimam Del

veritatem medium quiddam interpositam esse hominis sapientiam. 'Sapiens

enim, quantum datura est, imitatur Deum: homiJii autem siu/fo ad tmitandum

salubriter nihil est homine sapiente propinquius... Cum igitur et homo esse/

imitandus et non in homine spes ponendo, quid potuit indulgentius et libera-

iius diviniius fieri, quam ut ipsa Dei sincero aeterna incommutabilìsque sa-

pienAa, cui nos haerere oportet, suscipere hominem dignaretur? 34: Haec est,

crede, saluberrima aucloritas. haec prius mentis nostrae a terrena inhabitatione

suspensio, haec in verum Deum ab huius mundi amore conversio. Sola est au-

ctoritas, quae commovet stultos, ut ad sapientiam lestinent... Sed id nunc agi-


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tur, ut sapientes esse possimus, id est 'inhaerere veritati:: quod profecto sor-

didus anìmus non potest. Sunt autem sordes animi... •amar quarumlitoeti rerum

praeter animum et Deum: a quibus sordibus quanto est quisque purgatior,

tanto verum lacilius intuetur... homini vero non valenti verum intueri, ut ad

id fiat idoneus puigarique se sinat, auctoritas praesto est Cfr. anche l'esorta-

zione finale ad Onorato, 36: Dio non è l'autore del male. Ciò che Agostino

ha imparato dai manichei, lo ritiene: ma presso i cattolici ha appreso « Deum...

non esse corporeum, nullam eius partem corporeis oculis posse sentiri, nihil

de substantia eius atque natura ullo modo esse violabile aut commutabile aut

compositicium aut fictum ».

(38) De util. cred., 33.

(39) De duabus animabus, 1: Muffa enim eranf, guae lacere debut, ne tam

facile ac diebus paucis religionis verissimae semina mini a pueritia salubriter

insita (ofr. De uiil. cred., 2 cit. alla n. 32) errore vel Iraude falsorum lallacium-

ve homir,um eiiossa ex anime pellerentur; 11: Sed me duo quaedam maxi-

me, guae incautam illam aetatem facile capiunt, per admirabiles adtrivere

circuitus: quorum est unum famili<iritas nescio quomodo repens quadam ima-

gine bonitatis tamquam sinuosum aliquod vinculum multtpliciter collo ìnvo-

lutum; alter-nm, quod quaedam noxia victoria paene mihi semper in disputa-

tionibus proveniebat disserenti cum imperitis, sed tamen fidem suam certatim

ut quisque posse/ deìendere molientibus, christianis; 23-24; 9: hortarer... ho-

mines... nihil nos iam quasi comperile praesumeremus, sed quaereremus po-

t;us magistros qui sententiarum istarum, quae nobis inter se pugnare videren-

ìur, pacem concordiamque monstrarent. Per un preannuncio di questo scritto,

v. De v. relig., 17.

62
(40) De dinib. anim., 1: Nam primo a/innarii m ilio, duo genera ... si me-

cum sobrie diligenterque considerassem mente in Deum supplici et pia, (or-

lasse mihi satagenti apparuisset nuJ/eun esse qualemlibet vitam, quae non eo

ifiso quo vita est, &l in quantum omnino vita est, ad summum vitae fontem

principiumque pertineot: quod nihil aliud quam sammum et solum et verum

Deum possumus conliteri. Ouapropter Ulas animas, quae a manichaeis vocan-

tur malae, aut carere vita et animas non esse neque quidquam velie seu nolle,

appetere ve/ lugere, aut si viverenl, ut et animae esse possent et aliquid tale

agere quale illi opinarentur, nulla modo eas nisi vita vivere; ai si Christum

àixisse constarei, ut constai, « ego sum vita », nihil esse causae, cur non om-

r.es animas, cum animae nisi vivendo esse non passini, per Christum, id est

per vitam, crealas et conditas fateremur; 5; 7; 9: Nam et nos /or/asse implo-

rato in a ux i I i o De o, (cfr. n. 47) facile videre possemus aliud esse

vivere, aliud peccare et quamquam vita in peccatis in comparatone iusiae vi-

tae mora appellata sii (I Tim.'V, 6) utrumque /amen in nomine uno posse inve-

niri, ut simul sii vivus atque pecca/or. Sed, quod vivus, ex Deo, quod peccator.

non ex Deo... cum Dei condiloris omnipolentiam insinuare volumus, gitam pec-

catoribus dicamus, quod ex Deo sin/... cum autem malos arguere pioposilum esl,

recte didtnus non estia ex Deo. 10: Etenim anima quamvis sit immortalis, tamen,

quia mors eius tite dicitur a Dei cognitiono aversio, cum se convertit ad Deum,

meritum est aeternae vitae consequendae, ut alt aeterna vita, sicul dictum est,

ipsa cognitio. Convergi autem ad Deum nemo, nisi ab hoc mundó se averterli,

potest; 14: Non igitur nisi voluntate peccalur... Definìtur itaque hoc modo: vo-

luntas est animi molus cogente nulla ad aliquid vel non amittendum vel adi-

piscendum; 15: Prius efiam peccalum definiamus, quod sine volumi/aie esse
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non posse omnis pie ns apu d \ae di v i n i tu s conscriptum

legit. Ergo peccalum est voluntas relinendl vel consequendi quod iustitia

velat et unde liberum est abstinere; 19: ifa enim nunc constituti sumus ut et

per carnem vo/uptófe adfici et per spirilum honeslate poasimus... Possumus

enim melina et multo expeditius inteìlegere duo genera rerum bonanim, quo-

rum tamen neutrum ab auctore Deo sii alienum, animam unam ex diversis

adncere partibus, infenore ac superiore, vel quod rccte ita dici potest, exte-

riore atque inferiore, /sta sunf duo genera, quae sensàbilium et intelligibilium

nomine paulo ante traciavìmus, quae camelia et spiritalia libertlius et lamilia-

rius nos vocamu». Sed lactum esl nobis dilllcile a carnalibus abstinere, cum

panis verissimus nosler spiritalis sii. Cum labore namque nunc comedimus pa-

nem. Neque enim nulla in supplicio sumus peccato transgressìonis morlales ex

immortalibus facti.

(41) De duab. anim. 16: quisquis secreta conscientiae euae legeeque

divinas penitus naturae inditas agud animum intus, ubi ex,pressiores certiores-

que sunt, consoilene...; cfr. i paesi nelle note 39 e 40.

(42) Qfr. il paseo del c. 19 riferito nella n. 40.

(43) P. Alfaric (L'évolution intellectuelle de Saint Augustin, Paris 1918,

484 sgg., note) ne ha segnalato minuziosamente punti di contatto col De mu-

sica; ma dell'uno e dell'altro ha alquanto anticipato e spezzettato, secondo a

me pare, la composizione. Conviene considerare anche le eomigiianze con il

De vera religione, segnalate dal Dòrries, o. c.

Che sia così, è naturale, perché l'intervallo di tempo fra queste opere è

minimo. Per me, è significativo che proprio con il De duobus animobus si ri-

presentò ad Agostino il problema della libertà dervolere.

63
(44) V. il cap. precedente.

(45) De lib. aib., II, 3: Si enim homo aliquod bonum est, et non potesi

nisi cum vellet recte facere, debuit habere liberam voluntatem, sine qua recte

fscere non posset. Non enim quia per ili,mi etì-am peccatur, ad hoc eam De-um

dedisse credendum est. Satis ergo causae est, cur dari debuerit, quoniam sine

iìla homo recte non pote6t vivere.

(46) De lib. arb., II, 4-7. Da notare 4: Donabit quidem Deus, ut spero,

ut libi valeam respondere, vel potius ut ipse libi, eadem, quae su/nima om-

rium magistra est, veritate intus docente, respondeas. Cfr. 38 e 41. De mag.,

38 e 40; De vera rei., 101 e 72; De MI. cred., 33 e 15; De duab. anim., 15:

citati rispettivamente nelle note 52 e 53; e. I, n. 40; e II, nn. 10, 34, 37, 40.

(46 bis) A proposito del «senso interno» si veda: R. Mondolfo, La teo-

ria del sentido interioì en San Agustin y sus antecedentes griegos, in Insula

(Buenos Aires). I (1943), num. 2. .

(47) De lib. arb., II, 13-14 « Cuoi ergo eam ndturam quae taniutn est nec

vivit nec inteìlegit praecedat ea natura, quae non tantum est sed etìam vivit

nec inteìlegit, sicuti est anima bestiarum, et rursus tianc praecedat ea quae

simul est et vivit et inteìlegit, sicat in homine mens rationalis; num arbitra-

ria in nobis, id est, in hìs quibus natura nostra completar ut homines stmus,

aliquid inveniri posse praestantius quam hoc quod in hi& tribus tertio loco

posuimus?... Quid? ai aliquid invenire potuerimus, quod non so/um esse non

dubites, sed ipsa nostra rottone praestantius, dubiiabisne illud, quidquid ets,

Deum dicere?»; (Ev.): «Non enim mihi placet Deum appellare, quo meo ratio

est interior, sed quo nullus est superior »; (iAug.): «Sed quaeso te, si non in-

VF.neris esse aliquid sapra nostram ralionem, nìsi quod aeternum atque in-
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commutabile est, dubitabisne hunc Deum dicere?... (ratio) si nulla adhibito

corporis instrumento... sed per se ipsam cernii aeternum aliquid et incommu-

tabile, simul et se ipsam interiorem et ilìum oportet Deum suum esse talea-

tur... mirti satis erit ostendere esse aldquid huiusmodi, quod aut fateberis

Deum esse, aut si aliquid supra est, eum ipsum Deum esse concedes. Quare

sive supra sit aliquid sive non sii, manifestum erit Deum esse, cum ego quod

promisi esse supra rationem e o d e m i p s o ad i uv a n t e monstravero »

cfr. De duab. anim., 9 n. 40: implorato in auèilio Deo: l'aiuto divino coesiste

nel fatto che la verità, la quale risiede netl'anima, si fa manifesta, cfr. i passi

"cit. alla n. 46.

(48) De lib. arb. II, 15-21; per l'esempio, cfr. 34, n. 52 e Coniess., VI, 6.

(49) De ìib. arb. II, *22: Vnum vero quisquds verissime cogitot, profecto

invenit corporis sensibus non posse sentiri; quidquid enim tali sensu attin-

gitur, iam non unum, sed multa esse convincitur... Ubicumque autem unam

noverim, non utique per corporis sensum 'itovi, quia per corporis sensum non

novi nisì corpus... Porro si unum non percepimus corporis sensu, nullum nu-

merum eo sensu percepimus, eorum dumtaxat numerorum quos inteìligentia

cernimus. La legge che regge i numeri non si comprende rasi in luce inte-

riore conspicltur, quam corporalis sensus ignorat (ibid., 23).

(50) Eccl., VII, 26, cit. in De lib. arb. II, 24.

(51) De lib. cab. II, 25; 26: Num aliud putas esse sapientiam nisi veri-

totem, in qua cernitur et tenetur summum bonum? Nam UH omnes quos com-

memorasti diversa sectantes, bnnum appettimi et ntalum fugiunt; sed pro-

pterea diversa sectantur, quod aliud alii videtur bonum... In quantum igtlur

64
omnes homines appetunt vitam beatam, non errant... Ut ergo constat nos

beatos esse velie, ila nos coniiteii velie esse sapientes, quia nemo sine sapien-

tia beatus est. Nemo enim beatus est nisi summo bona, quod in ea ver/tate,

quam sapientiam vocamus, cernitur et tenetur... Sicut ergo ante quam beali

sumuis, mentibus tamen nostris impressa est no/io beatilaiis... ita etiam prius

quam sapientes simus, sapientiae notionem in mente habemus impressam...

Si summum bonum omnibus bonum est, oportet etiam veritatem in qua cer-

ni'tur et tenetur, id est, sapientiam, omnibus unam esse communem »; 28-29:

Abbiamo dimostrato che la sapienza esiste. Ma vi sono verità che tutti am-

mettono: verità morali e altre « Manitestiss-imum est Agitar omnes has, quais

regulas diximus et lumina virtutum, ad sapientiam peri/nere... Quam ergo ve-

rde afgue incommutabiles sunt regulae numerorum... tam sunt verae atqu&

incommutabiles regulae sapientiae; 30: (adtingit a fine usque ad finem lorliter

et disponit omnia suaviter [Sap. Vlii, 1]); ea potentia, qua lortiter a fine

usque ad finem adtingit, numerus tarlasse dicitur; ea vero qua disponit omnia

suaviter, sapientia proprie iam vocatur, cum sit utrumque unius eiusdemque

sapientiae; 32: Sed quemadmodum in uno igne consubstantialis, ut ita dicam,

sentitur iulgor et calor, nec separari ab invicem possunt, tamen ad ea calar

pervenir, quae prope admoventur, iulgor vero etiam longius latiusque difiun-

ditui; sic intelligentiae potentia, quae inest sapientiae, propinquiora ferve-

scunt, sicuti sunt animate rclìonales, ea vero quae remotiora sunt, sicuti cor-

pora, non attingil calore sapiendi sed persuadi! lumine numerorum. Quod

libi iortosse obscurum est. Non enim ulla visìbilis similitudo invisibili rei

potest ad omnem conveniiam coaptari. Ma in ogni modo, illud certum mani-

lestum est, utrumque (la sapienza e il numero) verum esse et incommutabili-


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ter verum.

(52) De lib. arb., II, 34: Et iudicamus haec secundum illas interiores re-

gulas ven'tafite; q<uas communiter cernimus; de ipsis vero nullo modo qw/.s*

iudical. Cum enim quis dixerit aeterna temporalibus esse potiora, aut septem

et trio decem esse, nemo dicit ita esse debuisse, sed lantum ila esse cogno-

scens, non exanùnalor corrigit sed tantum laeitatur inventar. Si autem esset

aequalis mentibus nostris haec veritas, mulubilis etiam ipsa esset. Mentes

enim nostrae aliquando eam plus videat, aliquando minus, et ex hoc iatentur

se esse mutabiles, cum illa in se manens nec proficiat cum plus a nobis vi-

detur, nec deficiat cum minus, sed integra et incorrupta et conversos laetificet

lumine et aversos puniat caecitate... Quare si nec interior nec aequali® est, restat

ut sii super/or atque excellentior; 37: Haec est libertas nos/ra, cum isti' sub-

dimur veritali, et ipse esl Deus noster, qui nos liberai a marle, ed est, a con-

ditione peccati. Ipsa enim Veritas, etiam homo cum hominibus loquens, ait

credentibus sìbi [/oh., VIIi, 31]. Nulla enim re iruitur anima cum liberiate,

nisi qua iruitur cum securitate. Nemo autem securus est in iis bonis quae

palesi invìtus amiUere; veritalem 'autem atque sapieniiam nemo amitlil in-

vilus; 38: De foto mundo ad se conversis qui diligunt eam, omnibus proxi-

ma est, omnibus sempiterna; nullo loco est, nasquam deest; f o r i s a dmo-

nrìl, inlus docet; cernentes se commutai omnes in melius, a nullo

in deterius commuta tur; nullus de ill,a iudicat, nullus sine illa iudicat bene,

39: Tu autem concesseras, si quid supra mentes nostras esse monstrarem.

Deum te esse coniessurum, si adhuc nihfl esset superius... Si enim aliquid est

excellentius, ille potius Deus eslf si autem non est, iam ipsa Veritas Deus

est. Sive ergo illud sit, sive non sit, Deum tamen esse negare non poteris...

65
Nam si te hoc movet, quod apud sacroaanctam disciplinam Chrtati in tìdem

recipimus, esse Patrem sapientiae, memento ripa etiam hoc in tidem (rccepisse,

quod aeterno Patri sii aequali» quae ab ipso genita est Sapientia. Cfr. De

Vera relig. 58 e 60-66.

(53) De lib. arb., II, 41: Quoque enim te verteris vestigiis quibmsdam

quae operibus suis impressa loquitur libi et te in exteriora relabentem, ipsis

exterioribua formis retro revocat, ut quidquid te delectat in carpare et per

corporeos iìlicit sensus videas esse numerosum et quaeras unde sii et in te

ipsum r edeas atque inteìligas te id quod attingis sensibus corporis proba-

re aut improbare non posse nisi apud te habeas quasdam pulcritudinis leges, ad

quas referas quaeque puìcra sentis exterius. Non ciccarre davvero iruaisteie

su questo, e simili passi, per mostrare l'affinità col De vera religione: anche,

qui la Sapienza, che è il Logos divino, è-quella stessa che c'impone il ritorno

a noi stessi e insieme la « slavissima lux purgatae mentis (ibid., 43) ». V. anche

45: Hinc etiam comprehendìtur omnia providentia gubernari. Si enim omnia quae

suri/, torma penitus eubtracta nulla erunt, torma ipsa incommutabilis, per quam

mutabilia cuncta subsistunt, ut formarum suarum Jiumeris impleantur et agan-

tut, ipsa est eonrni providentia: non enim ista essent, si ilio non esse/,-

46: Quamobrem quanlacumque bona, quamvis magna, quamvis summa, nisi ex

Dea esse non possunt.

(54) De lib. arb. II, 52: Voluntas ergo quae medium bonum est, cum

inhaeret incommutabili bona, eique communi non proprio siculi est... veritas,

tenet homo bealam vitam; eaque ipsa vita beata, id est animi attedio inhae-

zentis incommutabili bona [cfr. il cum Deo esse dei dialoghi di Cassieiaco]

propriuan et primum est hominis bonum; 53: Voluntas autem aversa ab im-
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mutabili et communi bona et conversa ad proprium bonum, aut ad exterius

aut ad inferius pecca/.- L peccato è dunque l'« aversio » della volontà ab in-

commutabili bona et conversio ad mutabilia bona; quae lamen aversio atque

convers/o, quoniam non cogitur, sed est voluntaria, digna et iusta eam mise-

nae poena co^sequJ/ur; 54: Si enim motus iste, id est aversio voluntatis a

Domino Deo sine dubitatone pecco/um eis/, num possumus auc/orem peccati

Deum dicere? Non erit ergo iste motus a Deo. Unde igitur eri/? Ita quaerenti

libi, si respondeam nescire me, tarlasse eris tristior: sed tamen vera respon-

derim. Sciri enim non potest, quod nihil est... Omne autem bonum ex Deo;

nulla ergo nalura est, quae non su'/ ex Deo. Motus ergo ille aversionis, quod

iatemur esse peccatum, quoniam deìeclivus molus est, omnis autem deiectus ex

nihilo est, vide qua pertineat, et ad Deum non pertinere ne dubftes. Qui ta-

men deiectus, quoniam est voluntarius, in nostra est positus palesiate. Si enim

times illum, oportet ui nolis; si aulem nolis, non erit... Sed quoniam non sìcut

homo sponte cecidi/, ita eliam sponte surgere potest, porrectam nobis desuper

dexteram Dei, id est, Dominum nostrum lesum Chrislum fide firma t&neamus et

exspectemus certa spe et cariiate ardenti desideremus.

(55) Evodio sa come rispondere a chi non vuoi credere: costui deve di-

mostrare di essere incredulo in buona fede. De lib. arb. II, 5- Tum ego demon-

strarem quod cuivis faciliimum puto, quanto est aequius, cum sibi de occultis

animi sui, quae ipse nosset, vellet alterum credere qui non nosset, ut etiam

ipse lantorum virorum libri®, qui se cum Filio Dei vixisse lestalum litleris re-

liquerunt, esse Deum crederei... et nimium stullus esse/ si me reprehenderet

quod illis crediderim, qui sibi vellet ut crederem »; cfr. De u/;'I. cred. 23-24.

66
Ili

Agostino ci si è mostrato finora, tra l'altro, animato da un gran

fervore di combattere il manicheismo. Ma la polemica si è svolta

per lo più indirettamente, in ogni modo non mai contro un avver-

sario determinato, quasi campione della setta. Sotto questo rispetto

è dunque una novità \'Ad Fortunatum, che viene così ad essere

la prima delle opere direttamente polemiche di Agostino. E tro-

viamo pure qui, per la prima volta, quell'argomento contro i mani-

chei, del quale egli, nelle Confessioni, attribuisce la paternità all'a-

mico Nebridio (1). Ma nel resto l'argomentazione sostanzialmente

non muta. Bisogna distinguere due generi di mali, il peccato, che

è volontario e opera dell'uomo, e la pena del peccato, la quale

risale a Dio, che è giusto e ha dato all'anima umana il libero arbi-

trio, affinché tutto il creato le fosse sottomesso, purché essa volesse

servire Dio. Quindi l'uomo può redimersi seguendo, volontaria-

mente, i precetti di Cristo. Il peccato di Adamo è opera del suo

libero arbitrio ; dopo di lui il genere umano pecca perché il corpo

è mortale e tutto l'uomo è reso più suscettibile di lasciarsi sedurre

dai beni inferiori e a poco a poco si avvezza al male e perde la

capacità di resistere. Ma quando la grazia ispira all'uomo l'amor

divino, la sua anima è resa capace di liberarsi da quella consuetu-

dine malvagia da cui prima era come avvinta ; e quindi può volgersi

verso la giustizia e con ciò procurare l'elevazione del corpo, la

quale sarà completa nella resurrezione.

In tale modo Agostino interpreta ancora San Paolo. Quella che


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si trasmette all'uomo è la mortalità, cioè la pena del peccato. Se

così non fosse, verrebbe meno — gli sembra — la giustizia oppure

67
si attribuirebbe a lui l'origine del male, come fanno appunto i mani-

chei. Tuttavia non si affaccia ancora alla sua mente, neppure

come un dubbio, l'idea che nella lettera ai Romani l'apostolo possa

parlare di sé, e non degli uomini in genere : perciò i passi dell'e-

pistola, che sono presenti al suo spirito, Agostino li interpreta in

relazione a / Corinzi, XV. Ciò gl'impedisce d'intendere, anche in

questo scritto, la grazia divina in modo diverso da come ha fatto

nelle sue opere precedenti, e di vedere in essa molto più che l'illu-

minazione dell'intelletto; così egli, in conformità con questo modo

di pensare, si riferisce assai più ai precetti di Cristo, che non alla

espiazione e redenzione operata da lui (2).

Non dissimili da queste sono, relativamente ai problemi del

male, del peccato e della redenzione, le idee esposte nel De fide

et symbolo. Ritroviamo anzitutto la distinzione tra coloro che si

contentano di credere e gli « uomini spirituali » che non solo cre-

dono, ma intendono pienamente il contenuto della fede e hanno

il cuore puro (3). A proposito della remissione dei peccati, Ago-

stino ricorda due volte il passo famoso di S. Paolo, Rom. VII, 25,

inteso del resto • ancora come riferito a tutti gli uomini, non alla

persona dell'apostolo. Ma ivi si parla solo di « mente » e di « car-

ne » ; perciò Agostino deve spiegare che lo spiritus, parte razionale

dell'anima, è lo stesso che la mens e che l'anima che desidera,

beni carnali e temporali può essere chiamata carne. Questa resiste

allo spirito, non perché tale sia la sua natura, ma perché in natura

si è trasformata la consuetudine al male, in conseguenza del peccato


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di Adamo. Ciò non toglie che l'anima purificandosi, possa sotto-

mettersi allo spirito, e questo a Dio, benché più lentamente. Il

risultate ultimo sarà la purificazione anche del corpo, restituito

anch'esso alla sua natura originaria, che è buona ; ma ciò avverrà

soltanto più tardi, con la resurrezione (4).

Il raffronto con gli scritti precedenti di Agostino ci assicura che

questo ravvicinamento della dottrina della redenzione con la resur-

rezione, e specialmente questo interpretare i capitoli centrali della

epistola ai Romani attraverso il c. XV della I ai Corinzi, non è

una novità e non può essere spiegato col fatto che egli sta ora com-

mentando il Simbolo della fede dove questi punti sono vicini.

Ma a proposito della resurrezione, è notevole come Agostino

riaffermi qui la sua fede in essa contro le obiezioni di filosofi ed

*.

68
eretici (5). Questo preoccuparsi degli eretici non è cosa nuova in

lui, ma ora egli vi pensa in modo particolare e li passa in rassegna

paratamente, a proposito dei singoli articoli del Credo. In primo

luogo vengono coloro che negano l'onnipotenza di Dio Padre, in

quanto non attribuiscono a lui la creazione della materia (6).

Appaiono qui i motivi antimanichei, evidenti anche nel passo

intorno al peccato, e poco doco, a proposito di Dio e della nascita

verginale del Cristo (7). A proposito del Verbo, sono segnalati

sabelliani e ariani (8); e trattando dell'Incarnazione, ripetuto il

concetto che l'opera del Cristo è quella di un maestro, v'è un

accenno ad Apollinare (9). Quindi, venuto a parlare della Passione,

Resurrezione ed Ascensione in cielo di Cristo, Agostino manifesta

di nuovo la sua cura di combattere i manichei ed ogni forma di

dualismo, anticipando quello che dirà occupandosi della resurre-

zione (10), nonché la sua ansia di dimostrare la possibilità per il

corpo umano, di riacquistare la perfezione primitiva. Come nell'o-

pera del Cristo egli segnala l'esempio, e attribuisce la massima im-

portanza alla Resurrezione ed all'Ascensione, così per lui la reden-

zione del genere umano consiste nella purificazione dell'anima, che

causa anche quella del corpo.

Ma, nello stesso tempo, accanto alle indiscutibili somiglianze

ideali con le opere precedenti, il De fide et symbolo ci presenta

qualche cosa di nuovo. Anzitutto, anche se su qualche particolare

si possa o voglia rimanere incerti, vi è il fatto della assai maggiore

familiarità con gli scrittori cristiani dell'Africa (11) e una più viva
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conoscenza delle condizioni di quella Chiesa : la precisione con

cui è segnata la distinzione tra scismatici ed eretici (12) mostra che

Agostino conosce ora degli scismatici reali, e che anche delle varie

eresie — a parte i manichei — egli ha una nozione più concreta.

Anche le citazioni bibliche, come vedremo meglio tra poco, si fanno

più numerose.

Del resto, il De fide et symbolo — redatto con molta cura,

come prova la paludata classicheggiante solennità del periodare e

l'uso delle clausole metriche — è il discorso che Agostino, presbi-

tero, pronunciò di fronte ai vescovi adunati a concilio in Ippona,

in secretario Basilicae Pacìs, \'8 ottobre 393. La disputa con .For-

tunato, l'opera cioè che secondo le Retractation.es precedette imme-

diatamente questo discorso, ebbe luogo il 28 e il 29 agosto del 392.

69
Ma questo intervallo si riduce alquanto, se pensiamo che la reda-

zione per iscritto de,\\'Ad Fortunatum avrà richiesto un certo tempo,

e così pure la preparazione del De fide. Dalle Retractationes (\3)

è difficile ricavare qualche dato positivo : le espressioni eodem tem-

pore e per idem tempus, impiegate con una certa frequenza in

questa parte del I libro, non sono che formule, ed equivalgono

all'altra: adhuc predyter o equivalenti (14).

Conviene perciò considerare l'insieme del I libro delle Retrac-

tationes e il suo ordine. Il primo libro enumera altre 10 opere ante-

riori ali episcopato ; ma poiché anche della data di questo si discute,

dobbiamo contare anche altri cinque scritti, tutti anteriori alle

Confessioni, per le quali si può accettare la data del 397-8 (15). Per

quanto alcune di queste opere posteriori al De fide abbiano potuto

essere iniziate parecchio tempo prima della loro pubblicazione, e

quindi si possa essere indotti a collocare la loro redazione nello

stesso torno di tempo in cui Agostino preparava il suo discorso

solenne, restano sempre, tra il Cantra Fortunatum e il De fide

alcuni mesi, poniamo sei o sette, di inattività letteraria : cosa tanto

più notevole, se la paragoniamo alla fecondità del periodo prece-

dente e a quella del successivo. E appunto quest'ultima, insieme

con la produzione degli anni 391-392, c'impedisce di credere che

questa sospensione dell'attività letteraria di Agostino si possa attri-

buire unicamente al fatto che le sue mansioni sacerdotali lo abbiano

assorbito completamente. Se invece consideriamo che In questi mesi

egli può aver incominciato a preparare qualcuno degli scritti pubbli-


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cati posteriormente all'ottobre 393, e se esaminiamo questi ultimi

e i caratteri nuovi che presentano, allora tutto si fa chiaro. Quei

mesi furono senza dubbio un periodo di raccoglimento e di prepa-

razione durante il quale Agostino, divenuto uomo di Chiesa e posto

in più immediato contatto con la vita religiosa del popolo, si accinse

a rimediare alla lacune ch'egli avvertiva nella sua preparazione (16).

In questo lavorio di adattamento alle nuove condizioni in cui si

veniva svolgendo la sua attività e ai nuovi compiti che gli venivano

imposti, anche come scrittore, molte cose dovettero essere sottopo-

ste a revisione, e su parecchi punti egli dovette mutar di parere.

La produzione letteraria successiva di Agostino ci fornisce la con-

ferma di questa tesi e ci presenta parecchie novità.

Al più profondo ed intimo attaccamento alla Chiesa — di cui

70
son segni la maggiore preparazione teologica e la più viva preoc-

cupazione di combattere le eresie — si accompagnano una modifi-

cazione del metodo esegetico e l'ardente desiderio di accostarsi al

popolo. Il De Genesi ad litteram liber imperfectus ci offre la prima

di queste novità. Esso s'inserisce nella polemica che dalla sua

conversione in poi Agostino conduce contro il manicheismo e tanto

circa il male e il peccato quanto a proposito dei rapporti tra fede

e ragione — ma circa questi ultimi forse insistendo un po' mag-

giormente sull'ossequio dovuto all'autorità della Chiesa (17) — ripete

considerazioni che già conosciamo. Ma è innegabile che il metodo

dell'interpretaziune è mutato, e costituisce una novità degna di

nota (18). Ora, se si ha presente ciò che Agostino stesso ha detto

nel De atilitate credendi (19), nulla esser più pericoloso dell'accet-

tare alla lettera ciò che è detto nella Scrittura, questo mutamento

richiede pure una spiegazione. Egli stesso non ci dice altro se non

che, quando volle sperimentare le proprie forze in questo negotio-

sissimo ac difflcilìimo opere era ancora, in fatto d'esegesi biblica,

un novizio (20). Può darsi che, a un certo punto della sua lotta

contro il manicheismo, egli abbia ritenuto utile di rinunciare alla

comoda interpretazione allegorica, per prendere la via più difficile e

precludere così agli awersari ogni scampo, dimostrando che, anche

presi alla lettera, Vecchio e Nuovo Testamento sono lungi dal

contraddirsi, giacché, come Scritture entrambe rivelate, non possono

contenere che la verità. Ma questa non è ancora una risposta sod-

disfacente, in quanto non ci spiega né come Agostino sia giunto


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a constatare l'utilità di quel cambiamento di metodo, né perché

esso sia avvenuto proprio in quel momento. L'ipotesi ch'egli,

entrato invece nella « vita vissuta » della Chiesa, abbia sentito il

bisogno di aderire più strettamente alla regola di fede e di studiare

la Scrittura per se stessa — e non più soltanto per trovare in essa

la conferma di quanto la sua filosofia dimostrava — ci permette

di pensare che proprio da questa rinnovata e approfondita lettura

della Bibbia gli sia venuta l'idea di mutare il metodo della polemica

e di attenersi anche nell'esegesi a quel modo più semplice, ch'era

necessario adottare nella predicazione al popolo.

E infatti Agostino si rivolge ora anche ai semplici fedeli, non

soltanto a quel pubblico colto cui sono evidentemente destinate le

71
opere da lui scritte finora. 11 De Sermone Domini in monte ha tutta

l'aria di essere la rielaborazione di una serie di sermoni, tenuti

forse ai catecumeni. Egli ricorre ancora, è vero, all'interpretaziòne

allegorica, cercando significati riposti e facendo qualche lambiccata

speculazione sui numeri (21), ma il tono è generalmente semplice

e discorsivo, né mancano le allusioni di carattere locale, i riferimenti

al punico e le spiegazioni alla buona di termini difficili (22).

Non sono venute meno le preoccupazioni antimanichee e Ago-

stino cita, per confondere questi avversari, un libro non canonico,

ma da loro tenuto in onore : gli Acta Thomae (23). Ma egli ricorda

accanto a questi anche altri ei etici e scismatici, i quali si vantano

d'essere i più veri, anzi i soli cristiani, perché patiscono persecu-

zioni (si tratta senza dubbio dei donaìistO e risponde loro che non

v'è giustizia dove non esistono la canta e la retta fede e la disci-

plina (24). Ricaviamo da tutto questo l'immagine di un Agostino

che ha ormai molto maggiore familiarità con la Bibbia (25) ed è

molto più legato con la vita ecclesiastica.

Pure, la concezione del peccato e della redenzione è rimasta

la stessa. I bisogni fisici e la mortalità sono una pena ; il peccato

è opera della libera volontà umana, un cadere verso i beni inferiori,

reso più facile dalla consuetudine. Resistere è difficile, ma non im-

possibile; il precetto della carità, il dovere d'aiutare gli altri, deve

essere tanto più osservato da chi desidera per sé l'aiuto divino.

Il quale consiste nei precetti stessi del Vangelo. Se gli apostoli

hanno potuto conseguire la perfezione in questo mondo, non è


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escluso che vi possano pervenire altri ; ma una perfezione assoluta

non sarà raggiunta se non con la resurrezione. E anche il celebre

inciso Romani VII, 25, come gli altri passi che Agostino cita, è

interpretato nella maniera che conosciamo. La fiducia di Agostino

nei princìpi che lo hanno guidato fin qui e ispirato in tutta la sua

polemica contro il manicheismo è tutt'altro che scossa : ma sembra

di scorgere, nell'insistenza con cui quei passi ritornano sotto la

sua penna, un certo bisogno, ancora da lui non bene avvertito, di

vedere più chiaro, di comprendere più a fondo (26).

Ciò che Agostino dice degli scismatici nel De sermone Domini

può far pensare ch'egli avesse in mente i donatisti. Ad ogni modo,

anche se ciò non apparisse dimostrabile, 'sta di fatto che l'inizio

della polemica — ed è una novità importante, anche se si voglia

72
vederne il preannuncio già negli accenni del De vera religione (27)

— cade precisamente in questo periodo. Del 392 è la lettera a

Massimino di Sinitum (28), in cui troviamo già l'argomento che la

circoncisione dell'Antico Testamento, — prefigurazione del batte-

simo — era unica, e quello cavato dalla parabola dei grano. En-

trambi derivano probabilmente da Ottato di Milevi. All'accusa che

i donatisti rivolgevano ai cattolici, di ricorrere cioè alla forza

pubblica, Agostino risponde implicitamente, in quanto rinuncia

all'appoggio dell'autorità ; mentre nella proposta di tenere una

disputa in regola non è forse avventato scorgere un riflesso delja

vittoria da lui riportata nella discussione pubblica con Fortunato.

Ma l'inizio della controffensiva cattolica contro il donatismo

è segnato appunto dal concilio di Ippona. E in relazione con esso

è da porre senza dubbio il Psalmus abecedarius cantra partem

Donati, in cui l'influsso di S. Ottato di Milevi è evidentissimo.

Nonostante la sua scarsa originalità e il mediocre interesse che

presenta dal punto di vista teologico, questo Psalmus (interessante

e assai studiato sotto 1 aspetto letterario e metrico) costituisce però

un documento importante, perché ci mostra Agostino sollecito di

condurre una attiva propaganda tra il popolo. Ma accanto ad esso,

lo scrittore che si era tanto distinto nella confutazione del mani-

cheismo sentì il dovere di preparare un'opera più seria, e avendo

potuto leggere uno scritto del fondatore della setta redasse il

Contra epistolam Donati. Il poco che sappiamo di quest'opera

perduta mostra che Agostino era tuttora non bene al corrente di


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questioni come quella del battesimo degli eretici e continuava ad

usare codici della Bibbia di origine italiana (29). Assieme a cotesti

scritti, e sempre in relazione con il concilio d'Ippona, è da porre

con ogni probabilità anche l'Enarratio in Ps. XXXV dove, nono-

stante la distinzione tra scisma ed eresia, Donato e il recentissimo

Massimiano sono considerati come eretici, insieme con Ario (30).

Che l'inizio della polemica antidonatista cada in questo mo-

mento della vita di Agostino, non è certamente un caso. Sembra

infatti strano che egli non avesse alcuna notizia dello scisma ante-

riormente al concilio d'Ippona. E' vero che i dissidenti erano rari

a Tagaste, e numerosi invece a Ippona, dove anche si associarono

ai cattolici nel domandare che fosse confutato Fortunato (31); ed è

vero altresì che la stessa gerarchia cattolica per parecchio tempo,

73
prima del concilio d'Ippona, non aveva agito energicamente. Ma

il primo di questi argomenti vale soltanto per il periodo successivo

al ritorno di Agostino dall'Italia; sembra però incredibile che per

anni, mentre visse in Cartagine, egli ignorasse completamente l'esi-

stenza dello scisma che travagliava la Chiesa africana e aveva dato

tanto da fare anche alle autorità civili. Può darsi che allora egli lo

considerasse con indifferenza ; e può darsi che tale indifferenza

continuasse anche dopo il battesimo e il ritorno in patria, allorché

la sua preoccupazione più viva fu quella di combattere le dottrine

alle quali si sentiva rinfacciare di avere un giorno aderito e che

ora egli detestava con tutta l'anima. Ma se il donatismo cominciò

ad attrarre l'attenzione di Agostino in Ippona, non dobbiamo di-

menticare che ivi egli si stabilì quando fu chiamato al sacerdozio ;

se il suo disinteresse per lo scisma cessa nel momento stesso in

cui i vescovi decidono di combatterlo, questa è una conferma del

fatto che, da questo momento in poi, Agostino incomincia a par-

tecipare attivamente alla vita della Chiesa.

Colpi contro i manichei non mancano del resto neppure nel-

\'Enarratio in ps. XXXV (32), e la polemica viene ripresa nel

Cantra Adimantum, che tuttavia non presenta grande interesse.

Vè qualche punto di contatto con il De sermone Domini in monte,

in ispecie il racconto tratto dagli Acta Thomae, con somiglianze

anche verbali (33). Vi ritroviamo il solito argomento principe (34)

di cui abbiamo segnalata l'apparizione nel Contra. Fortunatum;

ma su tutti gli altri punti che hanno richiamato sin qui la nostra
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attenzione — contrasto tra l'« uomo vecchio » e l'« uomo nuovo »

e tra carne e spirito, distinzione tra peccato e pena, perfezione

conseguita in terra dagli apostoli, ecc. — non vi è nulla di nuovo

da segnalare (35). Può colpire, forse, il fatto che l'autorità è tuttora

subordinata alla ragione; ma questo affermare che si ricorrerà

soltanto alla ragione è comune ad ogni polemica che si proponga

di convincere l'avversario o per lo meno un lettore senza pre-

concetti (36). Nuovo è qui soltanto il metodo seguito nella pole-

mica, il quale consiste nell'esporre tutte le antitesi tra il Vecchio

e il Nuovo Testamento segnalate dall'avversario, per confutarle

minutamente una per una; anzi, Agostino indica altre antitesi, ma

che conducono a conclusioni del tutto diverse da quelle dei ma-

nichei.

74
Agostino si muove ora a tutto suo agio attraverso le varie parti

della Bibbia e le citazioni si affollano numerose sotto la sua penna.

E' questa un'altra delle novità che riscontriamo in questo periodo,

specialmente a partire dal De sermone Domini in monte, e anche

dal De fide et symbolo (37). In pari tempo, il problema dei rap-

porti tra l'Antico e il Nuovo Testamento, che gli si ripresenta nel

confutare Adimanto, lo spinge ad accogliere il concetto di S. Paolo,

che la legge è stata il pedagogo del tempo della schiavitù e a rav-

visare nell'Antico Testamento la prefigurazione del Nuovo (38) ; e

ciò a sua volta trattiene Agostino dal continuare il tentativo iniziato

nel De Genesi ad litteram e lo respinge verso l'interpretazione alle-

gorica : ma soprattutto lo avvia verso uno studio rinnovato, e più

accurato e approfondito, del pensiero di S. Paolo.

NOTE

(1) Acta contro Fortunatum, 7: « Si Deus nihil pati poluit a gente tene-

bra rum, quia inviolabilis est, eine causa bue nos misit ut nos hic aerumnaa

patiamur. Si autem pati adiquid potuit, non est inviolabilis »; 9: « Si enim poteet

aliquid nocere ei, non est inviolabilis. Si non potest ei aliquid nocere, quid ei

tactura erat gens tenebrarum?»; eh. C. Adìmantum, 28, 1: «Quid ergo incor-

ruptibili Deo iactura erat gens tenebrarum, si cuoi ea pugnare noluisset? », da

cui più direttamente sembra derivare Con/ess., VII, 2, 3. Ecco dunque un'altra

« formula » che rimane fissa; cfr. cap. II, n. 32.

(2) C. Fortun., 15: « Contraria isba quae te movent, ut adveisa sentiamus,

propter peccatum nostrum, id est propler peccalum hominis contigerunt. Nam

omnia Deus et bona fecit et bene ondinavit; pecoatum auteoi non fecit et hoc
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est solum quod dicitur malum, voluntarium nostrum peccatum. Est et alimi

genus mati, quod est poena peccati. Cum ergo duo sint genera nxalorum, pec-

catum et poena peccati, peccatum ad Deum non pertinet, poena peccati ad

vindicem pertinet. Etenim, ut bonus est Deus, quia omnia constituit, sic iustus

est, ut vindicet in peccatum. Cum ergo omnia sint ordinata, quae videntur nobis

nunc adversa esse, merito contigli hominis lapsi, qui legem Dei servare no-

luit. Animai- enim ragionali, quae est in homine, dedit Deus liberum arbitrium.;

sic enim possel habere merita, si voluntate, non necessitate, boni essemus. Cum

ergo oporteat non necessitate, sed voluntate bonum esse, oportebat ut Deus

animae darei liberum arbitrium. Huic autem animae obtemperanti legibus suia

omnia subiecit sine adversitate, ut ei celera quae Deus condidit servirent, ei et

ipsa Deo servire voluisset; si autem ipsa noluisset Deo servire, ut ea, quae illi,

serviebant, in poenam eius converterentur, quare si recte omnia a Deo ordinata'

suni, et bona sunt, et Deus non patitur miiium »; 16: «Peccando enim ad/versi

eramus a Deo, tenendo autem praee&pta Christi reconcìliamur Deo, ut qui in

peccatis mortui eramus, servantes praecepta eius vivificemur...; 22: Liberum

voluntatis arbitrium in ilio homine fuisse dico, qui primus fonnatias est. lile

sic factus est, ut nihil ounnitno voluntati eius resisterei, si vellet Dei praecepta

75
servare. Postquam autem libera ipse voluntate peccavit, nos in necessitateli

praecipitati eumus, qui ab eius stirpe deecendimus... Hodie namque in actio-

nibus nostris antequam consuetudine aliqua implicemur, liberum habemus ar-

bitrium faciendi aldquid vel non faciendi. Cum autem ista liberiate fecerimus

aliquid, et facti ipsius lenuerit animam perniciosa dulcedo et voluptas. eadem

ipsa consuetudine sua sic implicatur, ut poste» vincere non possit quod sibi

ipsa peccando tabricata est... et hoc est, quod aUversus animam pugnat, consue-

tudo facta cum carne. Ipsa est nimirum carnis prudentia, quae quamdiu ita est,

legi Dei subigi non potest, quamdiu prudentia carnis est; sed intuminata anima

desinil illa esse camis prudentia... Sed... illa cainie prudentia id est consue-

,tudo facta cum carne, cum fuerit mene nostra intuminata et ad arbitrium divi-

nae legis totuni hominem sibi Deus subiècerit, pro illa consuetudine animae

mala facil consuetudinem bonam... Quamdiu ergo portamus imaginem terrena

hominis. id est quamdiu secundum carnem vivimus, qui vetus etiam homo

nominatur, habemus neceesiialem consuetudirus nostrae, ut non quod volumus

laciamus (cfr. Rom., VII, 15). Cum autem gialia Dei amorem nobis divinum

inspiraverit et nos suae vo/un/afi subditos fecerit... ab ista lege liberami!!,

cum iusli esse coeperimus... Ex ipso (Adamo) enim omnes sic nascimur quia

terra soimus, et in tenam ibimus propter meritum peccati primi hominis; pro-

pter aulem gratiam Dei, quae nos liberat a lege peccati et mortis, ad iustitiaon

conversi liberamur, ut postea eadem ipsa caro, quae nos poenis torsit in pec-

catis manentee, subiciatur nobis in resurrectione, et nulla aidversitate nos qua-

liat, quominus legem et divina praecepta servemus.»

(3) La dottrina cattolica è stata formulata nel Credo, « ut incipientibus

atque lactantibus (cfr. / Cor., Ili, 2) eis, qui in Christo renati sunt, nonduim
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Scripturarum divinarum idUigentissima et spirituali tractatione atque cograilione

roboratis, paucis verbis credendum constitueretur, quod multis verbis exponen-

dum esset proficientibus et ad divinam doctrinam certa humilitatis atque cha-

rilatis firmitate surgentibus. Sub ipsis ergo verbis paucis in symbolo conetitu-

tis, plerique heretici venena sua occultare conati sunt; quibus restitit et resi-

stit divina misericordia per spiritales viros qui catholicam fld'em non lantum

in illis verbis accipere et credere, sed etiam Domi.iio revelante intellegere

atque cognoscere meruerunt (De tìdfe et symboìo, 1); cfr. 20, trattando della

Trinità; « verum haec dici possunt facile et credi: videri autem nisi corde

puro quomodo se habeant oìmnino non possunt »; si osservi però che ora

l'aactoriìas è rappresentata solo dal Credo: vuoi dire che la Scrittura, con

la sua interpretazione, appartiene ormai alla ratio?

(4) De f. et symb., 23: « Et quoniam tria sunt quibus homo constai, spiri-

tus anima et corpus, quae rursus duo dicuntur, quia saepe anima simul cum

spiritu nominatur, — pars enim quaedam eiusdem rationalis, qua careni be-

stiae, spiritus dicilur — principale nostrum spirilus est... Hic enim epiritus

eliam mens vocatur, de quo dicil apostolus \Rom., VII, 25). Anima vero, cum

carnalia bona adhuc appetii, caro nominatur, et resistil spìritud, non natura sed

consuetudine peccalorum... Quae consuetudo in naturam versa est secundum

generationem mortalem peccato primi hominis... Est autem animae natura per.

fecta cum spiritui suo subdilur et eum sequitur sequentem Deum... sed non

tam cito anima subiugatur spiritui ad bonam openationem, quam.cilo spiritus

Deo ad veram fidem et bonam voluntatem, eed aliquando tardius eius impetus,

quo in carnalia et lemporalia diffluit, refrenatur. Sed quoniam et ipsa munda-

tur, reciipiens stabilitatem naturae suae dominante spiritu, quod sibi caput est,

76
ruius caput est Christus, non est desperandum etiam corpus restituì naturae

propriae, sed utique non tam cito quam anima, sicut neque anima non tam cito

quam spiritus, sed tempore opportuno in novissima tuba (clr. I Cor. XI, 3; XV,

52) ...et ideo credimue et in carnìs resurrectionem, non tantum quia reparatur

anima, quae nunc propter carnaies affectiones caro nominatur, sed haec etiam

visibilis caro, qoiae naturaliter est caro, cuius nomen anima non propter natu-

ram sed proptes carnaies affecliones accepit, haec ergo visibilis quae proprie

dicitur caro credenda est resurgere ».

(5) De i. et symb., 24; Resurget igitur corpus secundum christianam fidem,

quae fallare non potest. Quod cui videtur incredibile, qualis nunc sit caro ad-

tendit, qualis autem futura sit non considerat; quia ilio tempore immutationis

angelicae non iam caro erit et sanguis, sed tantum corpus (ofr. / Cor., XV, 50\.

... Philosophi au'tem, quorum argumentis saepiu*, resurrectioni ca.rnis resistitur,

quibus asserunt nullum esse posse terrenum corpus in caeio, omne corpus in

omne corpus converti et mutari posse concedunt >5. Cfr. 13 alla n. 10.

(6) De i.et symb., 2.

(7) De 1. et s., 7: « Ex quo iam spiritalibus animis patere confido nullam

•.ialuram Deo esse posse contrariam»; cfr. relativamente a Maria Vergine,

9 e 10.

(8) De i. et s., 3: « Sicut enim verbis nostris id agimus, cum verum lo-

quimur, ut noster animus innotescat audientibus... sic illa Sapientia, quam

Deus Pater genuit, quoniam per ipsam innotescit dignis, animis seoretissimus

Pater, Verbum .eiùs convenientissime nominatur »; 5: « Hac igitur fide catho-

lica et illi excluduntur, qui eundem dicunt Filium esse, qui Pater est... Exclu-

duntur etiam illi, qui creaturam dicunt esse Filium, quamvis non talem, qualea
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«unt ceterae creaturae ».

(9) De i. et s., 6: « Christus hominem indutus, per quem vivendi e\em-

pìum nobis daretur, hoc est via certa, qua perveniremus ad Deum »; 8: « Sed

quisquis tenuerit catholicam fidem, ut lotum hominem credat a Verbo Dei esse

susceptum, id est corpus animam spiritum, satis contra illos munitus est...

Cum homo excepta forma me'mbrorum non distet a pecore nisi rationuli spì-

ritu, quae mens etiam nominatur (cfr. 23, alla n. 4) quomodo sana est fides qua

creditur quod id noetrum susceperit Dei Sapientia, quod habemus commune

cum pecore, illud autem non susceperit, quod intustratur luce sapientiae et

quod hominis proprium est? ». Questa allusione ad Apollinare, il cui errore

sedusse per un momento Alipio (Coni., VII, 19, 25) va aggiunta a quelle elencate

da Courcelle, o. c., p. 188, n. 4.

j (10) De i. et s., 13: Solet autem quosdam offendere vel impios gentiles

vel haereticos, quod credamus adsumptum terrenum corpus in caelum. Sed

gentiles plerumque philosophorum arg-umentis nobiscum agere student, ut

dicant terrenum aliquid in caeìo esse non posse... (/ Cor., XV, 44). Non enim

ita jdictum est quasi corpus vertabur in spiritum et spiritus fiat, quia et nunc

corpus nostrum, quod animale dicitur, non in animam vereus est, et anima

factum; sed spiritale corpus intellegitur, quod ita spiritui subditum est, ut

caelefeti habitationi conveniat omni fragilitate ac labe terrena in caelestem

puritatem et stabilitatem mutata atque conversa ».

(11) Nell'articolo in Ricerche Religiose, VII (1931) p. 45 accennai a una

possibile reminiscenza di Tertuiliano, nel passo del De fide, 17, in cui A/gostino

tratta della Trinità; e al fatto che la più rigorosa distinzione tra eresia e scd-

77
eina, in confronto con il De vera religione (ce. 9 e 10) potesse essergli etata

suggerita dalla lettura di S Cipriano. Soggiungevo che maggior luce su questo

punto sarebbe potuta venire dalle ricerche di H. Koch sulla « sopravvivenza

di Cipriano », di coi ta stessa rivista aveva intrapreso la pubbticazione. Il

Koch raccolse il mio invito: e poco dopo espose le conclusioni a cui era

giunto (dn Rie. Rei., Vili, 1932, pp. 317-337) e che a mia volta riassunsi e com-

mentai brevemente (ibid., IX, 1933, p. 399 sg.). H Marrou, al quale il lavoro del

Koch è efuggito, non da (o. e. pp. 420-21) che indicazioni molto sommarie: anzi

sembra non accorgersi neppure che sotto il nome di HHarius, nelle citazioni di

Agostino, si nasconde, come è ora universalmente riconosciuto, accanto a

Ilario di Poitiers, anche l'Ambrosiastro.

Secondo il Koch, è possibile che S. Agostino conoscesse Tertulliano, pro-

babile che conoscesse S. Otiato e possibile che risentisse qualche influsso di

S. Cipriano (Testimonia e lettere; quanto al De unitaie vi sono argomenti in

pro e in contro) quando scriveva il De fide et symbolo; mancano tracce d'ogni

influsso_di Tertulliano e S. Ottato negli scritti anteriori; e di essi, soltanto il

De magistro, il De vena religione e il De utilitale credendi offrono qualche

indizio circa la possibilità che Agostino conoscesse il De dominica oratione e

il De unitale ciprianei (oltre l'ep. 33, nel De util. cred.). Invece, nel De sermone

Domini in monte l'utilizzazione del De dominica oratione è sicura, quella del

De unitale piobabile; ed è fuori di dubbio l'influsso tanto di Cipriano quanto

di Ottato (quest'ultimo, già segnalato da un pezzo) sul Psalmus abecedarius

contro partem Donali. Come si vede, la ricerca è rimasta incompleta riguardo

a Tertulliano i ma i risultati del Koch sono tali da giustificare la conclusione

esposta nel testo. L'indagine delle conoscenze patristiche di Agostino andrebbe


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però proseguita metodicamente: ofr. e. VII, nota 25.

(12) De i. et s. 21: Haeretici de Deo ialsa sentiendo ipsam fidem violoni;

schismatici outem discissionibus iniquis a fraterna cariiate dìssiliunt, quaaivis

ea credanl quae credimus. iQuapropter nec haerelici peitinent ad ecciesiam

catholicam, quoniam diligit Deum, nec schismatici, quoniam diligit proxrmum.

Cfr. anche la n. precedente.

(13) flettaci. I, 16 (17).

(14) Retract. L 3; 11 (12); 16 (17); 18 (19): per idem tempus; 15 (16); 2&

(21); 21 (22): eodem tempore (presbyterii mei); 4: inter haec; 12 (13): rune.

Cfr. 13 (14): lam vero apud Hipponem Regium presbyter; 14 (15): adhuc pre-

sbyter; 15 (16); 20 (21); 21 (22) cit.; 22 (23): cuni presbyter aditine essem.

(15) Nel II libro delle Retractationes, le Confessioni occupano il sesto

posto; all'ottavo sta il Goffra Feìicem manichaeum, al venticinquesimo il

Contro litteras Petiliani, scritto circa il 401. Qualunque sia il momento, tra i

termini estremi del 395 e dell'agosto 397 OHI Concilio di Cartagine) in cui si

voglia collocare la consacrazione episcopale di Agostino, l'ordine cronologico

delle Retractationes resterebbe tutto sconvolto, qualora si accettasse per il

Contro Feìicem la data indicata dai manoscritti, ossia il dicembre 404. Fin dal

Ib08 però, P. Monceaux propose di considerare l'indicazione de; VI consolato

ili Onorio, nei mss. del C. Pel., come un errore, leggendo invece: IV: il che ci

porterebbe al 398 e permetterebbe di collocare le Confessioni poco prima, come

anche per altri indizi propone un sempre crescente numero di studiosi.

(16) Cfr. l'ep. XXI a Valerio, in cui Agostino chiede che gli conceda

tempo fino alla prossima Pasqua per potersi dedicare allo studio delle Scrit-

78
ture; e non è affatto necessario supporre che questa « vacanza » gli venisse

prorogata.

(17) II libro 6d apre con una esposizione della fede cattolica secondo

l'ordine stesso del Credo, che per ciò stesso rivela un'affinità con il De fide.

Circa il male, il peccato e il libero arbitrio, cfr. 1: « esse autem omnia quae

fecit Deus bona valde, mala vero non esse naturala, sed omne quod dicitur

inalimi au.t peccatum esse aut poenam peccati. Nec esse peccatum nisi pravum

liberae voluntatis assensum, cuoi inclinamur ad ea quae iustitia vetat et unde

libertim est abstinere, id est non in rebus ipsis, sed dn usu earum non legitìmo.

Usus autem rerum est legitimus, ut anima in lege Dei maneat, et uni Deo ple-

nissinla dilectione subdecta sit et cetera sibi subiecta sine cupiditate aut libidine

ministret.... Poena vero peccati est, cum ipsis creatane non sibi servientibus

cruciatur anima, cum Deo ipsa non servit; quae creatura Oli obteruperabat,

cum ipsa ototemperabat Deo »; 5: « Quaedam ergo et facit Deus et ordinat,

quaedam tantum ordinat. lustos et facit et ordinat, peccatares autem, in quantum

peccatores sunt, non facit sed ordinat tantum ».

Circa la fede e la ragione: 1: « De obscuris naturalium terum quae omni-

potente Deo artifice facta sentimus, non adfirmaAdo sed quaerendo tractan-

dum est in libris maxime quos nobis divina commendat auctoritas, in quibus

temeritas adserendae incertae dubiaeque opinionis difficile sacrilegii crimen evi.

lat: ea tamen quaerendi dubitatio catholicae fidei metas non debel excedere »;

3: « Sed quoque modo se hoc habeat — res enim secretissima est et humanie

coniecturie impenetrabilis — illud certe accipiendum est in fide, etiamsi modus

nostrae cogitationis excedit, omnem creaturam habere initium tempusque ipsum

eese creaturam ac per hoc et ipsum habere initium nec coaetemum esse Crea-
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tori », parole in cui è manifesta l'intenzione di opporsi al manicheismo; 28: Se

Dio ha potuto in qualche punto adattare il racconto aile necessità umane, « ut

ipsa depositio, quae ab infirmioribus animis contemplatione stabili videri non

poterat per eiusmodì ordinem sermonis exposita quasi istis oculis cerneretur »,

pure chi sceglie l'una o l'altra di due interpretazioni possibili, dovrà guardarsi

dal fare affermazioni temerarie e ricordarsi (30) « se hominem de divinis ope-

ribus quantum permittitur quaerere ».

(18) Si osservino le differenze — e anche certe somiglianze — tra De

ufi/, cred., 5 (Secundum historiam ergo traditur, cum docetur, quid scriptum aut

quid gestum sit; quid non gestum sed tantummodo scriptum quasi gestum sit.

Secundum aetiologiam, cum ostenditur quid qua de causa vel factum vel dictum

sit. Secunidum analogiam. cum demonstratur non sibi adversari duo Teetamenta,

vetus et novum. Secundum allegoriam, cum docetur non ad litteram esse acci-

pienda quaedam quae scripta sunt, sed figurate intelligenda), e De Gen. ad liti,

lib. imp!., 2 (Historia est cum sive divinitus sive humanitus res gestae com-

memorantur; allegoria, cum figurate dieta intelleguntur; analogia, cum Veteris

et Novi Testamenti congruentia dem,onstratur; aetiologia, cum causae dictorum

factorumque redduntur). Ma, dopo aver fatto supporre che egli intenda offrire

un commento completo, poiché osserva che il Genesi può essere spiegato in quei

quattro differenti modi, Agostino si affretta a soggiungere: «Secundum histo-

riam autem quaeritur quid sit " in principio " » e poi non abbandona più l'in-

terpretazione letterale. ,

(19) De util. cred., 9; v. cap. II, n. 37.

(20) Retract. I, 17 (18).

79
(21) Cosi p. e. — e scelgo questo passo per la sua importanza intrinseca —

a proposito delle Beatitudini: esse sono otto e rappresentano i vari gradi, o

fappe, deha vita spirituale. De Serm. Dom., I, 10-12: « Incipit enim beatitudo

ab humilitate... dum se divinae misericordiae subdit anima, timens poat

hanc vitam ne pergat ad poenas... Inde venit ad divinarum Scripturarum

cognitionem, ubi oportet eam se mitem praebere pietate, ne id quod im-

peritis videtur absuirdum vituperarsi au-dea-t et pervicacibus concertationi-

bus efticiatur indocilis. Inde iam incipit scire quibus nodis saecuii huius

per carnalem consuetudinem ac peccata teneatur: itaque in hoc tercio gra-

du, in quo scientia est, lugetur amissio summi boni, quia inhaeretur ex-

tremis. In quarto aiitem gradu labor est, ubi vehementer ìncurabitur «i. sese

animus avellat ab eis quibus pestifera dulcedine innexus est: Mc ergo esu-

ritur et sititur iustitia... Quinto autem gradu perseVerantibus in labore datur

evadendi consiliutn: quia nisi quisque adiuvetur a superiore nullo modo sibi

est idoneus ut sese tantis miseriarum implicamentis expediat; est autem Ju-

stum cornsilium ut qui se a potentiore adiuvari vult adiuvet infirmiorem, in quo

est ipse potentior. Sexto gradu eet cordis munditia... valens ad contem-

pìandum summoim illud bonum quod solo puro et sereno intellectu cernì po-

test. Postremo est septima ipsa sapientia, id est contemplatio veritaUs paci-

ficans totum hominem et suscipiens similitudinem Dei. Octava tamquam ad

caput redit, quia consuimnatum perfectumque ostendit et probat: itaque in

prima et in octava nominatimi est regruim caelorum. Septem sunt ergo quae

perficiunt: nam octava clarificat et quod perfectum est d'emonetrat. Videtur ergo

mihi etiam septiformis operatio Spiritus Sancii de quo Isaias loquitur (XI, 2-3)

his gradibus sententiisque congruere. Sed interest ordinds: nam ibi enumeratio
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ab exceilentioribus coepit, hic vero ab inferioribus. Ibi namque incipit a Sa-

pientia et desinit ad timorexn Dei... Quapropter si gradatim tamque ascendentee

iiumeremus, primus ibi est timor Dei, secunda pietas, tertia scientia, quarta

fortitudo, quintum oonsilium, sextus intellectus, septima sapientia. Timor Dei

congruit humilibue... Pietae congruit mitibus ... Et dsta quide.m in hoc vita

possunt campieri, sicut completa esse in apostolis credimus. Nam iila orn-

nimoda in angelicam formam mutatio, quae posi hanc vitam promittitur. nullis

verbis exponi potest... Haec octaiva sententia quae ad caput redit perfectumque

hominem declarat, significalur fortasse et cirCoimcisione octavo die in Veteri

Testatnento et Domini resurrectione post sabbatum, qui est utique octavus

idemque primus dies, et celebratione octavarum feriarum, quas in regenera-

tione novi hommis celabramus, et numero ipso Pentecostes. Nam septenario

numero septies multiplicato, quo fiunt quadraginta novem, quasi octavus ad-

ditur, ut quinquaginta compleantur et tamquam redeatur ed caput, quo die

missus est Spiritus Sanctus ». E per altri esempi, ofr. I, 31; II, 6-7, etc.

(22) De serm. Dom. II, 18: « cuius rei significandae gratia, cum ad ora-

tionem stamus, ad orientem convertknur »; I, 23 (racha); II, 47 (mammona).

(23) I, 65; cfr. anche II, 78-79 ecc.

(24) De Serm. Dom. I, 13-14: « Ubi autem sana fides non est, non potest

esse iustitia, quia iastus ex fide vivit. Neque schismatici aliquid sibi ex ista

mercede promittant, quia similiter ubi charitas non est, non potest esse iusti-

tia: « dilectio enim proximi malum non operatur ». — Prapter me: proptei

eoe additum puto, qui volunt de persecutionibus et de famae suae turpitudine

gioriari, et ideo dicere ad se pertinere Christum, quia multa de illis

80
mala, CUBI et vera dicantur, quando de illorum errore dicuntur; et si aliquando

etiam nonnulla falsa iactantur, quod de temeritate hominum plerumque acci-

dit, non tamen propter Christum ista patiuntur. Non enim Qhristum sequitur,

qui non secundum veram fidem et catholicam disciplinami christianus vocatur.

(25) Agostino registra anche qualche variante, p. es. In II, 30 a M/. VI,

13: ne nos inieras; inducas; paliaris induci. Agostino sembra conoscere

quest'ultima solo attraverso una tradizione orale (« multi autem precando ita

dicunt»), benché sia in Cipriano, de domi/i, orai., 7, CSEL III, 1, p. 271: ne passus

iueris (patiaris) nos induci (induci itos); ma si confronti altresì la variante

(if) àipfli; fijxa? elaevexHTJvai (vei àrev- vel XOCTEV- ) a Lc. XI, 4 considerata ge-

neralmente come di origine marcionita. Streeter (The tour Gospels, Londra

1924, p. 276) non riconosce però come maicicnita l'altra variante, a Lc. XI, 2

èX"éTtù rà Ttveùjxa crou TÒ &fio\> lip' •fifià^ xaì xaSapiadcrco ^jxài;, di 162, 700,

Greg. Nyss., Max. Taur., perché dal commento di Tertulliano ( Adv. Marc., IV,

26, CSEL 47, p. 509) non risulta sia degli eretici da lui combattuti; e lo stesso

si può dire di questa. Varrebbe dunque la pena di studiarla, anche perché è

questo l'unico luogo di Agostino in cui si trovi. Gir. C. H. Milne, A recan-

struction of the OId - latin text or texls of the Gospels used by Saint Aagastine,

Cambridge 1926, p. 15. Altre varianti in II, 74 a Mt. VII, 12, ecc. La conoscenza

del greco e i criteri che Agostino adotta nello stabilire il testo, sono ancora

quelli di un principiante.

(26) Cfr. De serm. Dom., I, 15: In caelis dictiim puto in spiritalibus fir-

mamentis, ubi habitat sempiterna iustitia; in quorum comparatlone terra dicitur

anima iniqua... Sentiunt ergo iam istam mercedem, qui gaudent spiritalibus

bonis; sed tunc ex orimi parte perficietur, cum etiam hoc mortale induerit
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Jmmortalitatem [cfr. / Cor., XV, 53-54]; I, 34: Nam tua sunt quibus impletur pec-

catum: suggestione, delectatione, et conseasione. Suggestio sive per memo-

riani fit, sive per corporis sensus... Quo si fruì delectaverit, delectatio illa

refrenanida est... Si autem consensio facta fuerit, plenum peocatum erit... Tria

ergo haec... similia sunt illi gestae rei quae in Genesi scripta sunt, ut quasi

a serpente fiat suggestio et quaedam suasio; in appetitu autem carnali, tam-

quam in Èva, delectatio; in ratione vero, tamquam in viro, consensio. Quibus

peractis, tamquam de paradiso, hoc est de beatissima luce iustitiae, in mortem

homo expellitur; iustissime omnino. Non enim cogit qui suadet. Et omnes na-

turae in ordine suo gradibus suis pulcrae sunt; sed de superioribus, in qui-

bus rationalis animue ordinatus est, ad inferiora non est declinaadum. Nec

quisquam hoc facere cogitur; et ideo, si fecerit, iusta Dei lege punitur; non enim

hoc committdt invitus; I, 54-55: Quibus laboriosi uè et operosius dici aut cogitari

potest, uibi omnes nervos industriae suae animus fia'elis exerceat, quam in vi-

tiosa consuetudine superanda?... Verumtamen in his laboribus cum quisque

difficultatem patitur et per dura et aspera gradum faciens circumvallatur

variis tentationibus... timet ne aggres&a implere non possit, arripiat conei-

Uum, ut auxilium mereatur. Quod est aulem aliud consilium, nisi ut infinni-

tatem aliorum ferat, et ei quantum potest opituletur, qui sibi divlnitus desi-

derat subveniri?; II, 23: lile etiam non abeurdus, immo et fidei et spei nostrae

convenjentissimus intellectus est, ut caelum et ternam accipiamus spiritum et

camem. Et quoniam dicit apostolus « mente pervio, ecc. », [Rom., VII, 25] vi-

81
demus factam voluntatem Dei in mente id est in spirito; e um autem absorpta

fuerit mors in victoriam et mortale hoc induerit immortalitatem [/ Cor., XV,

54-55], quod flet carnis resurrectiqne atque illa immuta tione quae promittitui

iustis, secun,dum eiusdem «postoli praedicationem, fiat voluntas Dei in terra

sicut in eoeJo; id est, ut quemadmodum spiritua non resistit Deo, sequene et

faciene voluntatem eius, ita et corpus non resistat spiritui vel animae, quae

nunc corporis infirmitate vexatur, et in carnalem consuetudinem prona est,

quod erit suimmae pacis in vita aetema, ut non solum velie adiaceat nobis, sed

etiam perficere, bonum... [cp. Rom. VII, 18] quia nondum in terra sicut in

caalo, id est nondùìn in carne sicut in spiritu facta est voluntas Dei. Narù et in

miseria nostra fit voluntae Dei, cum ea patimur per carnem quae nobis morta-

litatis iure debentur, quam peccando meruit nostra natura. Sed id orandum

est, ut... quemadmadum corde condelectamur legi secundum interiorem ho-

minem, ita etiam corporis immutatione facta, buic nostrae delectationi nulla

pars nostra terrenis doJoribus seu vohiptatibus adversetur; inoltre II, 44; 56;

I, 78, ecc. e anche I, 10-12 cit. alla n. 21 ecc.

Con il passo I, 15 cfr. De Genesi c. Man. II, 21 cit. a cap. I n. 35.

(27) Cfr. c. II, nota 16 e gli accenni analoghi nel De fide et symbolo.

(28) Epist. 23 cfr. Monceaux, Hist. liti, de I Air. chret., VII C1923), pp. 129

sgg. e 279.

(29) Cfr. Retract. I, 20 (211); e 5 y<8), a proposito di Eccli. XXXIV,

(XXXI), 30.

(30) Enarratio in Ps. XXXV, 9; Monceaux, o. c., pp. 153 e 286, meglio

.che Zarb, in Angelicum, XXIV 1947), 47-69.

(31) Poesid., V;/a August., 6.


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(32) Nello stesso cap. 9.

(33) Cfr. Contro Adimantum, XVII, 2; De serm. Dom. in m., I, 65.

(34) C. Adim., XXVIII, 1; cfr. la n. 1.

(35) C. Adim., V, 2; XIV, 1; XVH, 2-5; XVIII, 1; XX, 2; XXVI.

(36) Ofr. C. Adim., XVII, 2; « indoctos et impios... qui quoniam non sunt

idonei videre ista, mole potius auctoritatis urgendi sunt.

(37) Non mi è stato possibile — nelle condizioni in cui ho dovuto lavorare

nel Perù, senza avere a mia disposizione neppure la raccolta del Migne —

procedere a una nuova rilevazione; e qui, me n'è mancato il tempo. D'altra

parte, sebbene qualche citazione e allusione mi sarà quasi certamente efug-

gita, come suole accadere, e sebbene una verifica sia sempre desiderabile e

opportuna, non credo che un nuovo computo (dal quaQe vanno naturalmente

escluse le citazioni ripetute) potrebbe alterare i risultati da me ottenuti in

maniera tale da costringere a modificare le conclusioni esposte nel testo.

Comunque, chi volesse procedere a questa iodaigine, sobbarcandosi a un

lavoro che esige attenzione e pazienza (più di quanta non ne abbia in questo

momento io stesso) ma che considero utile, dovrebbe altresì curare non solo

di raggruppare le citazioni e allusioni bibliche secondo i vari libri da cui sono

tolte, ma altresì in certi casi, come per le Epistole paoline, per capitoli o gruppi

di capitoli, e persine per versetti, secondo gli argomenti; e, nel preparare gli

indici percentuali, tener conto della lunghezza dei diversi scritti di Agostino.

Ripeto pertanto che i dati qui sotto riassunti debbono considerarsi sola-

mente come provvisort. Con questa avvertenza, ecco i risultati principali:

82
)) fino al Contra Fortunatum; i soli scritti agostiniani ohe coiiteagono un nu-

mero apprezzabile di citazioni biibliohe sono, in ordine crescente, De vera re-

ligìone (56), De moribus Ecclesiae catholicae (75), De Genesi contra Manichaeos

libri lì (81, escluse quelle della stessa Genesi). Se si consideri la diversa am-

piezza 'delle varie opere, le citazioni appaiono proporzionalmente molto più ab-

bondanti nel De fide et synibolo (85). Però, pur con l'avvertenza che si tratta

di dati soggetti a revisione, vi è un vero salto quando dagli scritti esaminati

si passi aìl'Enarratio in ps. XXXV (52; si consideri la sua brevità in confronto

col De vera religione), al De sermone Domini in monte (280, escluse quelle

di Ma». V-VII) e al Contro Adimantum (168). 2) le citazioni da S. Paolo man-

cano in De lib. arb. I e II; in alcuni scritti, raggiungono invece un numero ab-

bastanza elevato (De mor. Eccl. catti., 48; De Gen. e. Man., 36; De v. relig., 17;

De fide et symb., 43; De serm. Dom.. 116: Eniir. in ps. XXXV, 14; C. Ad/m., 45).

Quanto ai paesi di San Paolo più interessanti per la nostra indaigine,

1 Cor. XV è citato con maggior frequenza in De serm. Dom., Enair. in ps. XXXV

e C. Adìm., e ancor più in De fide et symb., che in opere anteriori (De vera

rei.. De mor. Eccl. cafh. De Gen. e. Man. e De mus. VI). Ho trovato citazioni

di Rom. VII, 25 in De Gen. e. Man., De mu». VI (2 volte), De fide et symb. (2),

De serm. Dom., Enarr. in ps. XXXV. E' interessante osservare che nel C. For-

tunatum questo versetto è citato, insieme con Gai. V, 17 e VI, 14, ma da For-

tunato, non da Agostino.

Comunque, il fatto che negli scritti posteriori al C. Fortunatum la cono-

scenza che Agostino ha della Scrittura e l'uso ch'egli ne fa si siano notevot-

mente accresciuti — il che è stato rilevato del resto anche da altri — mi sem-

bra posto ormai fuori discussione; come pure il fatto che, da questo momento,
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la sua attenzione è attratta sempre più dall'epistolario paolino.

(38) C. Adim., XII, 5; XIV, 3; XV, 2; XVI, 2-3; XXIII-XXIV.

83
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IV

Ecco dunque Agostino intento a rileggere e spiegare agli amici

che gli fanno cerchio intorno, la Lettera ai Romani. Non è assurdo

supporre che fin dall'inizio pensasse di poterne ricavare una volta

o l'altra un vero e proprio Commento in forma di libro. Sta di

fatto che, su preghiera dei compagni e forse in vista di un'elabo-

razione ulteriore, mise intanto per iscritto le dilucidazioni che

veniva dando via via (1). Queste si riferiscono, evidentemente, ai

passi che lo colpivano maggiormente, e in relazione con i problemi

che Ip assillavano. Quali fossero, lo dimostra il fatto che l'interpre-

tazione dei capitoli centrali dell'Epistola, dal V all'VIII, occupa

poco meno di metà di quest'opera. Dovunque intravede il pericolo

di cadere nel dualismo, o di stabilire un'antitesi troppo netta tra

l'Antico Testamento e il Nuovo, Agostino corre ai ripari (2). Ma so-

prattutto, egli si oppone recisamente a coloro, secondo i quali

San Paolo avrebbe inteso negare all'uomo il libero arbitrio. La

preoccupazione principale di Agostino è dunque ancora quella di

combattere il manicheismo.

Gli stadi della vita spirituale sono ora quattro, descritti in

termini molto più strettamente religiosi e scritturali di prima ; l'an-

tico linguaggio intellettualistico e di sapore filosofico è messo da

parte. Le quattro tappe, per cui passano nel loro cammino verso

la redenzione, così l'individuo singolo come l'intero genere umano,

sono : prima della legge ; sotto la legge ; nella grazia ; nella pace.

Nel primo stadio, prima della legge, siamo completamente vittime


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e schiavi della carne e delle sue passioni. Esse scompariranno

del tutto soltanto nell'ultimo stadio, ma non in questo mondo,

85
bensì con la resurrezione, quando saremo rinnovati del tutto. In-

fatti, se iì peccato consiste nel non condiscendere alle passioni, sotto

l'impero della Grazia e con l'aiuto di questa, l'uomo è già capace

di non peccare ; però i desideria carnis per se stessi, in quanto

conseguenza della natura mortale del nostro corpo in seguito al

peccato di Adamo, non cesseranno se non quando il corpo stesso

avrà riacquistato l'immortalità (3). E questa spetta a tutti coloro

che, con la loro fede, si siano resi degni della Grazia, la quale

rafforza il libero arbitrio, sicché l'uomo così aiutato è in grado non

solo di volere il bene, ma altresì di compierlo.

E' nel libero arbitrio dell'uomo l'ottenere, mediante la fede,

questo aiuto della grazia, elevandosi così dallo stadio sub lege a

quello sub gratta. Quindi, la concessione della grazia implica una

chiamata da parte di Dio, però giustificati non sono tutti i chia-

mati, ma soltanto quelli secundum propositum, ossia coloro, dei

quali Dio nella sua prescienza sa che avranno la fede. Questa tut-

tavia dipende interamente dall' uomo. Se di predestinazione si

tratta, questa è nettamente post praevisa merita o, per essere più

esatti, post praevisam fidem. Agostino infatti tiene ad escludere

una giustificazione in virtù delle sole opere. E ciò è senza dubbio

molto notevole ed importante. Nel pensiero di Agostino, in questo

momento della sua vita e del suo sviluppo spirituale, Dio non

elegge le opere, bensì soltanto la fede ; ma, ripeto, questa a sua

volta dipende tutta dall'uomo. Quindi, in fondo la concessione

della grazia è rimunerazione di un merito, di un atto d'umiltà,


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tale essendo da parte dell'uomo il riconoscere ch'egli per se ipsum

surgere non valere. A coloro che, liberamente credono e pregano

il Liberatore, Dio concede lo Spirito Santo e la capacità di operare

il bene. Si tratta dunque di un premio concesso a chi vuole cre-

dere, così come l'abbandono da parte di Dio, che trae seco l'operar

male e la pena, punisce la cattiva volontà dell'incredulo (4). Dio,

perfettamente giusto, non agisce con l'arbitrarietà di un tiranno,

traendo dalla stessa argilla i vasa in honorem e quelli in ignomìniam.

Perciò l'uomo, dopo avere preso di sua volontà la deliberazione,

se credere o no, non ha alcun diritto di lamentarsi di Dio. Il

solo momento in cui potrebbe dubitare della giustizia divina è quello

in cui l'uomo si trova ancora sub Lege; ma egli a questo punto

è ancora troppo ignorante per poter giudicare delle cose spiri-

86
tuali. Finché è ancora « argilla », l'uomo è troppo immerso nelle

cose di questo mondo, troppo « fango », per poter chiedere a Dio

ragione del suo operare ; non appena si eleva allo stadio succes-

sivo e diventa vaso in honorem, la giustizia di Dio gli si manifesta

chiara e incontestabile (5).

Affermare tale giustizia è appunto ciò che ora più preme ad

Agostino. Questa nuova lettura dell'Epistola ai Romani — fatta

metodicamente e con ferma volontà di afferrarne il significato pro-

fondo — gli fa sentire tanto più vivo il bisogno di conciliare l'esi-

genza, impostagli dal testo sacro, di rendere a Dio il vero merito

di ogni opera buona compiuta dall'uomo, con l'altro, di non attri-

buirgli un agire arbitrario e di non far risalire a lui l'origine del

male. Difendere e mantenere il libero arbitrio dell'uomo è per

Agostino tanto più necessario, in quanto il suo testo lo porta a

sottolineare il contrasto tra la materia — il corpo, questa carne

mortale e agitata dalle passioni — e lo spirito. Del resto, questo

era un motivo suggeritogli già dalla filosofia ch'egli conosceva e

accettava; ma che poteva anche ricondurre a un dualismo peri-

coloso, quando fosse venuto a mancare il correttivo, l'idea della

bontà del creato e di tutte le cose, ciascuna nel proprio genere e

ordine. Perciò Agostino insiste tanto su questa idea. Però ora egli

si trova di fronte al testo biblico. Fino a questo momento, egli è

stato sempre sorretto dalla tranquilla fiducia, che la vera religione

sia in perfetto accordo con la filosofia, e che questa abbia rag-

giunto tutte le verità contenute nel cristianesimo. Ora invece, con


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ia partecipazione più piena ed attiva alla vita della Chiesa, la

speculazione agostiniana si accentra intorno a un testo scritturale,

che gli presenta il problema della salvezza sotto un aspetto in

gran parte nuovo, non più intellettualistico, ma strettamente reli-

gioso. Per il momento la grazia rimane, in fondo, per Agostino

un'illuminazione della mente, la quale corona e rende efficace lo

sforzo dell'uomo per elevarsi verso il mondo spirituale, sottraen-

dosi all'impero delle cose sensibili ; il passaggio dell'uomo da car-

nale a spirituale è effetto di un cambiamento che dipende intera-

mente dalla sua volontà. D'altra parte, sta di fatto che Agostino

ora parla di predestinazione. Se non che, abbiamo veduto questa

predestinazione quale sia ; e il vero problema, quello del rapporto

tra la predestinazione, la prescienza e l'onnipotenza di Dio, ancora

87
gli sfugge ; così come non ha ancora una visione chiara di tutte

le conseguenze del peccato originale. Quindi non si può dire, che

Agostino non abbia modificato in nulla il suo modo di pensare, ma

neppure si può parlare di un cambio .completo e radicale. Indub-

biamente nuovo in lui è questo sforzo di accostarsi al pensiero di

San Paolo, non più attraverso dottrine filosofiche, ma direttamente.

E questo, anche quando non vi fosse assolutamente null'altro, è

già molto. E si potrebbe dire che è moltissimo, o persine tutto,

quando si considerino le conseguenze di questa novità ; ma esse

sono, se guardiamo a questo preciso momento dello sviluppo di

Agostino, soltanto potenziali. Ebbe Agostino allora coscienza della

importanza di questo cambiamento, si da sentire d'aver fatto un

gran passo avanti e una notevole conqusta? Purché non si pre-

tenda di attribuirgli la previsione di ciò che avvenne dopo, direi

di sì. Infatti, nonostante tutti i punti deboli della dottrina da lui

appena elaborata, nonostante la sua poca coerenza, l'essere ancora

piuttosto una giustapposizione di elementi nuovi e vecchi, che non

riescono a combinarsi e comporsi in un tutto veramente saldo e

armonico ; di questa dottrina elaborata nel leggere la lettera Ai

Romani Agostino sembra essere ora perfettamente soddisfatto.

Infatti, si accinse subito a scrivere un ampio commento siste-

matico all'Epistola. Non ne rimane altro che un frammento, ossia

la Epistolae ad Romanos inchoata expositio. Egli stesso racconta

come e perché si accontentò di pubblicarlo (6). Il pensiero che vi è

esposto, come è naturale, corrisponde perfettamente a quello che


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abbiamo or ora constatato. La grazia è quella che rimette i pec-

cati ; ma sarebbe ingiusto che Dio non perdonasse a coloro che si

pentirono ; il pentimento d'altronde deve essere accompagnato dal

fermo proposito di non ricadere e dalla coscienza che per evitare

il peccato è necessario l'aiuto divino, Dunque, la grazia precede

il pentimento ; essa è un ammonimento che Dio manda, una vocalio

rivolta a tutti gli uomini in quanto esseri ragionevoli : insomma,

essa è in fondo un'illuminazione della mente, per cui l'uomo, pec-

catore seguace dei beni terreni, si ravvede del proprio errore (7).

L'Expositio inchoata non andò più in là del primo libro; dal

canto suo, la Expositio quarundam propositionum rappresenta sol-

tanto un primo tentativo, forse destinato in origine a circolare solo

tra una cerchia di amici poco più larga del gruppo che prese parte

88 *
a'.la lettura del testo e alle discussioni su di esso. Però non è

avventata l'ipotesi che il materiale da Agostino raccolto, o forse

una prima stesura del commento stesso ad alcuni passi tra i più

significativi, sopravvive ancora. Agostino stesso infatti ci racconta

che le sue 83 Quaestiones (De diversis quaestionibus LXXXIII),

« dispersae... per cartulas multas » furono da lui fatte raccogliere

quando era già vescovo ; che però aveva incominciato a redigerle

subito dopo il suo ritorno in Africa, « nulla servata ordinatione »

ma solo per rispondere a domande che gli venivano rivolte (8).

Anche nella raccolta pervenuta sino a noi risulta impossibile tro-

vare un criterio che spieghi l'ordine in cui sono disposte. Al con-

trario, si prestano a una suddivisione in gruppi, ognuno dei quali

possiede una certa unità, un certo legame ideale, che si lascia

scorgere abbastanza chiaramente. Così, se soltanto consideriamo

gli argomenti trattati, vediamo che in un primo gruppo si discorre

spesso della natura dell'anima, di Dio come creatore, dell'origine

e della natura del male, del libero arbitrio (9). Appare evidente

in questo gruppo lo scopo di combattere il manicheismo (10). Un

esame interno più accurato permetterebbe forse di stabilire paral-

lelismi di espressioni o di pensiero con questa o quell'opera di

Agostino, e quindi arrivare a una datazione, almeno approssima-

tiva, mentre l'avversione al manicheismo per sé sola, non basta.

Ma un tale esame, per quanto interessante, ci condurrebbe ora

troppo lontano ; e d'altra parte l'ipotesi — che si presenta spon-

tanea — che queste Quaestiones siano precisamente le prime re-


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datte da Agostino subito dopo il suo ritorno in patria, è avvalorata

dal fatto che solo nella qu. 27 troviamo una citazione biblica, solo

nella qu. 29 commentato un passo di San Paolo, mentre ancora

la qu. 31 è intorno a un luogo di uno scrittore pagano (11). Per

di più, a partire dalla quaestio 51, troviamo tutto un gruppo che

tratta, quasi senza eccezione, di materia biblica. Ma di nuovo non

solo manca in esso qualsiasi ordine sistematico, ma anche il

tentativo di considerare le varie questioni disposte secondo l'or-

dine dei libri della Bibbia non dà completa soddisfazione. Infatti,

si passa bensì dal Genesi all'Esodo al Cantico dei Cantici e a un

Salmo ; ma più innanzi ecco tre questioni suggerite da Matteo (e

collocate in un ordine contrario a quello dei luoghi che commentano)

interporsi tra un gruppetto di due e un altro di tre, che si riferi-

89
scono a Ciovanni; e mentre in opnuno di essi è seguito l'ordine dei

passi nel Vangelo, i due gruppi riuniti non formano una serie (12).

Però il fatto di poter isolare un intero gruppo di questioni di ca-

rattere nettamente esegetico, a noi potrebbe bastare, dopo quanto

abbiamo osservato, per considerarle come non anteriori al pe-

riodo in cui Agostino si è dedicato, dopo la sua ordinazione sacer-

dotale, a un rinnovato e approfondito studio della Scrittura. Non

è forse da escludere che troviamo qui un residuo (anche se ridotto

a semplici tracce) dell'attività iniziale di Agostino nel campo della

predicazione. Comunque, è chiaro che le varie questioni sono di-

sposte secondo un ordine che è, sia pure in maniera approssima-

tiva, quello cronologico : e ciò sembra tanto più probabile in

quanto è da supporre che tale sarà stato, press'a poco, anche

quello in cui le varie cartulae furono trovate e disposte al mo-

mento della loro pubblicazione.

Tanto più significativo e tanto meno sorprendente appare dun-

que il fatto che questo gruppo di questioni sia seguito da altre,

destinate a commentare passi di S. Paolo; e che tre di esse, con-

secutive, e disposte nell'ordine del testo, si riferiscano alla lettera

Ai Romani (13). E' dunque da supporre che devono essere presso

a poco contemporanee agli altri due scritti sulla medesima epistola,

testé esaminati ; e ne risulta almeno la possibilità, che rappresen-

tino, almeno in parte, lavori preparatori per il grande commento,

che. come sappiamo, Agostino si era accinto a scrivere (14).

Perciò queste tre Quaestiones meritano di essere esaminate con


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una certa cura. La qu. 66 presenta anch'essa la distinzione dei

quattro stati, ante Legem, sub Lege, in gratìa, in pace, con le solite

spiegazioni (15). E' notevole che Agostino ritiene che fino a Rom.

VII, 23 parli l'uomo sub Lege (l'Apostolo non si riferisce dunque

a se' stesso). In tale uomo, la consuetudo carnalis e la mortalità,

conseguenza del peccato di Adamo, sone ancora più forti della vo-

lontà di non peccare. Per vincere, occorre la grazia del Libera-

tore, onde l'uomo riconosce che suo è il cadere, non però

il risollevarsi ; e deve ancora lottare contro la mortalità della carne,

che Adamo si meritò per il suo peccato, ma non può vincere. Alla

prudentia carnis che tende verso i beni temporali e impedisce alla

anima di adempiere i precetti della legge, si contrappone la prudentia

9»
spiritus, la quale fa rivolgere l'anima verso i beni superiori e an-

nulla le passioni e la prudentia della carne. Ai piaceri carnali ce-

dono Dunque coloro che sono ancora « nella carne » ; ma anche

chi è già al terzo stadio, sub gratia, avverte in sè, benché non si

lasci vincere, quella lotta, che è destinata a cessare solo nello stadio

successivo e finale, con la resurrezione (16).

La qu. 67 commenta Rom. Vili, 18-24 e anch'essa contiene

qualche dichiarazione interessante per noi. Il peccato di Adamo ha

trasformato l'uomo sottoponendolo all'inganno, che è pena del

peccato d'Adamo, stabilita da Dio : ma temporaneamente, in vista

della redenzione futura. Infatti col peccato l'uomo ha perduto il

segno della somiglianza con Dio ed è rimasto semplicemente crea-

tura, cioè non perfettamente e autenticamente figlio di Dio. Ma

anche di coloro che non sono ancora figli di Dio non si deve

disperare : costoro, che pure non hanno ancora la fede e sono

soltanto creature, crederanno anch'essi e saranno liberati dalla

morte, così come gli altri che già credono e sono figli di Dio, ma

senza che ciò appaia, perché ancora non è giunta la resurrezione.

E' notevole qui che, ponendo se stesso e altri già nel novero dei

« figli di Dio », Agostino mostri così di considerarsi come già per-

venuto al terzo grado, allo stadio cioè sub gratìa. Ma non meno

notevole è che in questo momento egli concepisce la redenzione

come concessa, — o per lo meno accessibile — a tutti (17).

Più lungo discorso richiede la quaestio sequente, 68, su Rom.

IX, 20-21. Agostino comincia col riprendere certe intepretazioni


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erronee : mentre la celebre domanda di S. Paolo è rivolta contro

la « curiositas » (18), alcuni empiamente vogliono sostenere che l'a-

postolo in quei versetti, non abbia fatto altro che cercare una scap-

patoia : sentendosi incapace di dare una spiegazione soddisfacente,

S. Paolo secondo costoro avrebbero cercato di distogliere anche gli

altri dal ricercare il vero. I manichei, poi, sostenevano che quel

versetto 21 era un'.interpolaziene introdotta nelle lettere dello

Apostolo, dalle medesime persone che, secondo gli stessi manichei,

avrebbero introdotto nel testo dell'apostolo le citazioni dell'Antico

Testamento. Contro tutti costoro, Agostino rileva che le parole

dell'apostolo si riferiscono non già ai " santi " o " spirituali " che

posseggono la verità, ma ai "carnali ", ai " fangosi e terreni "

che, non ancora rigenerati, portano tuttavia in sé l'immagine di

91
Adamo : coloro stessi ai quali, non essendo ancora " figli di Dio "

si applica (come egli ha detto nella quaestio precedente) il termine

di " natura " : insomma, coloro che non sono ancora giunti allo

stadio sub gratìa, ma sono rimasti al secondo, sub lege. In-

fatti, dopo il peccato di Adamo, gli uomini sono formati secondo

la carne, e divenuti pertanto una sola "massa" di fango, che è

" massa " di peccato. Ora, avendo perduto col peccato ogni me-

rito, e non essendo i peccatori, quando la misericordia divina s'è

allontanata da loro, degni d'altro che di dannazione, come può

l'uomo che appartiene a questa " massa " chiedere a Dio che

risponda alle sue domande? Per conoscere la giustizia divina, bi-

sogna liberarsi da questa condizione di " fango " e diventare figli

di Dio. Tali si diventa, grazie alla misericordia divina, quando si

crede in Lui : il semplice desiderio di conoscere i segreti della giu-

stizia e misericordia divina non basta. Infatti tale conoscenza ricom-

pensa i meriti, che si acquistano con l'aver fede ; mentre a sua

volta la grazia, concessa attraverso la fede, non rimunera alcun

merito precedente dell'uomo, che finché rimane nel secondo stadio

non è che un peccatore. Cristo, dice ora Agostino, è morto per

gli empii e i peccatori, affinché noi fossimo chiamati alla fede, ma

non in virtù di alcun merito anteriore ; e credendo acquistassi-

mo dei meriti. Bisogna quindi incominciare dalla fede, perché i

precetti dì Cristo, che inducono i credenti a staccarsi'da questo

mondo materiale, purifichino i loro cuori : quando l'uomo si sia

purificato, allora conoscerà i segreti della grazia e della giustizia,


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e saprà se vi siano meriti arcani. Infatti Dio opera secondo la sua

volontà sovrana : ha compassione di chi vuole e indurisce il cuore

di chi vuole. Ma questa volontà di Dio è razionale e giusta ; quindi

essa tiene conto di meriti nascosti e segretissimi, così che anche se

i peccatori costituiscono una sola massa, pure vi sono tra loro certe

differenze ; alcuni, sebbene non ancora giustificati, sono degni di

esserlo, altri no.

Ora, ci deve essere una ragione di tale differenza. E nondi-

meno tutto dipende da Dio e dalla sua misericordia : non basta il

pentirsi, non basta il desiderio, se Dio non viene in- aiuto; lo

stesso desiderio è suscitato in noi da Dio. Infatti, l'uomo non

può volere qualche cosa senza aver sentito uno stimolo, ricevuto

un invito, un richiamo, che gli può essere rivolto sia dall'interno,

«

92
sia dall'esterno (per mezzo di parole o di segni). Così è Dio che

causa in noi il volere. La parabola del banchetto conferma questa

interpretazione : vi è dunque una vocatio rivolta all'uomo, che è

libero, e della quale si può dire che crea la volontà buona o cat-

tiva, prima che esista ogni merito. Chi risponde alla chiamata, non

può attribuire a se stesso il fatto di essere stato chiamato ; chi

non risponde, si acquista un merito negativo, per cui è punito giu-

stamente (19).

La giustizia di Dio : questo è il punto che Agostino Hene a

difendere, evidentemente contro i manichei (20). Pertanto egli

tiene a far rilevare che il peccato è conseguenza unicamente d'un

atto dell'uomo, ha le sue origini nel libero arbitrio. E, data quella

sua concezione della vocatio, il rivolgersi a Dio, il credere a Cristo,

diventa un. atto del tutto volontario, libero, autonomo dell'uomo;

la redenzione consiste nella purificazione dell'anima, nello staccarsi

cioè dal mondo materiale, seguendo i precetti evangelici. Così, gli

occultissimo merita, non si intendono se non come meriti futuri

che uno si acquisterà credendo, e che sono tuttavia già noti alla

prescienza divina, ma ad essa sola ; in tal senso, possono dirsi

occultissimi. Agostino si sforza di avvicinare le sue concezioni,

maturate e conservate per tanti anni, al pensiero dell'apostolo, ma

in fondo non le modifica sostanzialmente. Il pensiero che si mani-

festa in queste quaestiones è ancora in sostanza lo stesso che abbiamo

trovato nell'Expositio quarundam propositionum. E delia soluzione

data alle difficoltà che gli si presentavano, Agostino deve essere


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rimasto così soddisfatto, che egli abbandonò, è vero, l'idea di

scrivere un grande commento a Romani; ma per qualche tempo

non sentì il bisogno di ristudiare questa lettera (21).

Non mancano nelle questioni successive affermazioni dello

stesso genere di quelle che abbiamo veduto or ora. Così nella

qu. 70, a proposito di / Corinzi, XV, 54-56. Agostino ribadisce il

concetto che « morte » significa la « consuetudine carnale » che,

desiderando beni terreni, resiste alla buona volontà, cioè allo spirito

illuminato e vivificato. Questa è la condizione in cui l'uomo si

trova, onde ha bisogno dell'aiuto che Dio gli porge mediante gli

angeli e gli uomini buoni ; ne sarà liberato con la resurrezione

allorché egli avrà rivestito il « corpo spirituale » e la volontà buona

non troverà quindi più ostacoli. Tale era stato creato Adamo; ma

93
dopo il peccato di lui, il genere umano ha meritato la morte (22).

E allo stesso modo, sebbene in una forma abbreviata, direi di

ellissi, la quale a prima vista può forse indurre a una interpreta-

zione differente, mi pare che Agostino si esprima altresì nella qu.

76, su Ciacomo II, 20 (23). E infatti ancora nella quaestio 82,

troviamo il concetto di una giustizia suprema e assoluta, che è di

Dio, e un'affermazione del libero arbitrio (24).

Questa, della libertà del volere, è ancora la preoccupazione fon-

damentale per Agostino, che vi ritorna sopra nel L. Ili del De

libero arbitrio. Al principio del quale sembra posto nettamente il

problema del rapporto tra prescienza e onnipotenza di Dio, ossia

tra la prescienza divina e la predestinazione, o il libero arbitrio

umano. Evodio, anche ammesso il libero arbitrio, vuoi sapere

donde sorga la tendenza della volontà verso i beni inferiori ; in-

fatti se questo moto dell'anima fosse necessitato, la responsabilità

morale dell'uomo svanirebbe. Al che Agostino replica che si tratta

d'un movimento volontario, ed Evodio si dichiara convinto. Ma

propone una difficoltà più grave : come si concilia questa libertà

umana con la prescienza divina? Quest'ultima non si può negare

e d'altra parte, ciò che Dio conosce, deve realizzarsi. Ecco il

dubbio che, dice Evodio, ineffabiliter me movet. Agostino scorge

il pericolo di ricadere nuovamente nel manicheismo, e questo ti-

more lo ispira durante tutta la discussione. La sua argomentazione

è alquanto complicata; ma, nonostante l'abuso della dialettica for-

malistica, e il perdersi in disquisizioni sottili che in realtà non fanno


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progredire la ricerca, quella preoccupazione fondamentale appare

evidente. Dopo quella schermaglia preliminare, si torna ad affron-

tare la questione in tutta la sua gravità. Dio è nello stesso tempo

giusto e presciente ; ma con che giustizia punirebbe peccati, il cui

realizzarsi è necessitato? Oppure ci sono cose di cui Dio ha pre-

scienza e che non si realizzano necessariamente? Oppure si può

non attribuire al Creatore ciò che accade di necessità? E qui tro-

viamo finalmente la distinzione che aspettavamo : quella tra la pre-

scienza di Dio e la sua onnipotenza. L'apparente contraddizione

tra la libertà umana e la prescienza divina, osserva ora Agostino,

non dipende dal fatto che si tratta di prescienza di Dio, ma sempli-

cemente dall'essere prescienza, conoscenza previa di cosa certa e

rale. In tal modo, la prescienza di Dio può paragonarsi alla previ-

94
sione o prescienza dell'uomo. Allo stesso modo che tu — egli dice a

Evodio — con la tua prescienza conosci ciò che un altro farà vo-

lontariamente, così Dio, senza obbligare nessuno a peccare, prevede

coloro che peccheranno per loro volontà. Inoltre, la prescienza di

Dio si può paragonare anche alla memoria dell'uomo. Allo stesso

modo che tu con la tua memoria non obblighi le cose del passato

a essersi realizzate, così Dio con la sua prescienza non obbliga

a realizzarsi le cose future. Pertanto Dio può castigare con tutta

giustizia peccati di cui egli ha prescienza, ma non è l'autore (25).

Questa argomentazione è interessante, perché in esse s'intrav-

vede già come un'anticipazione delle profonde analisi psicologiche

che sono caratteristiche delle opere .posteriori di Sant'Agostino e

giustamente celebri. Però è evidente che, animato dalla preoccu-

pazione di opporsi ai manichei e ribattere le obiezioni che essi pote-

vano sollevare, egli non ne vide altre, o non se ne preoccupò molto.

La sua ansia di combattere i manichei si fa evidente, quando lo

vediamo insistere sull'ordine e la perfezione dell'universo e fondare

la sua interpretazione della salvezza su questi concetti. L'anima del-

l'uomo, legata al corpo mortale, è ora incapace di nutrirsi del Verbo

divino, cibo di ogni natura razionale : essa, ora, non sa più sfor-

zarsi di comprendere le cose invisibili, se non per mezzo di conget-

ture che ricava dalle cose visibili. Perciò il Verbo si è reso visibile

mediante l'Incarnazione. Gli uomini, in seguito al peccato di A-

damo, erano soggetti al demonio : dominazione non fondata sulla

forza, ma pienamente giuridica, perchè, essendosi Adamo dato al


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demonio, questi ha continuato a possedere il genere umano, così

come al possessore di buona fede spettano i frutti dell'albero. Per-

ciò il Verbo non ha neppur esso ricorso alla forza, bensì provocando

il consenso dell'uomo, allo stesso modo che il demonio aveva otte-

nuto il consenso di Adamo. Cristo è dunque venuto a rivelare il

bene, come un maestro. Ma si tenga presente, aggiunge Agostino,

che ogni difetto è qualche cosa che si contrappone alla natura della

cesa divenuta difettosa, e che pertanto questa natura in sé rimane

buona, e quindi va lodata; quanto più, dunque, il suo Creatore!

Da biasimare sono soltanto i difetti stessi, e i peccati. I quali, dun-

que, in quanto si contrappongono a Dio, sono volontari (26).

Evodio è tuttavia soddisfatto solo fino a un certo punto. Se

non è la prescienza di Dio quella che fa peccare gli uni e non pec-

95
care gli altri, egli tuttavia vorrebbe sapere la ragione di questo

diverso comportarsi degli uomini. E se la causa è nella volontà,

allora qual'è la causa della volontà? Al che Agostino risponde che

questo ricercare continuamente la causa della causa è un desiderio

sfrenato di conoscere, una cupidigia non dissimile dall'avarizia,

radice di tutti i mali (cfr. / Tim. VI, 10). Del resto, questa cupi-

digia non è che una volontà cattiva : ecco dunque la causa di

ogni male. Ma poi, dopo un'argomentazione piuttosto verbalistica,

e in cui in sostanza Agostino dice soltanto che, qualunque sia la

causa della volontà, è solo il determinarsi di questa verso il bene

o il male che merita premio o castigo, egli riconosce che si rimpro-

verano all'uomo anche azioni commesse per ignoranza. E questa

osservazione, avvalorata anche da citazioni di passi biblici cruciali,

conduce Agostino a considerare la condizione dell'uomo dopo il

peccato di Adamo. La sua debolezza, la sua incapacità di essere

buono è una pena, e certamente giusta poichè viene da Dio ; quindi

pena di un peccato. Infatti questa incapacità di scorgere il vero

non può essere qualche cosa di inerente alla natura umana, ché

altrimenti, se il peccare fofcse per l'uomo cosa naturale, non sa-

rebbe più imputabile, ossia non sarebbe peccato. Ma quando par-

liamo di libera volontà di fare il bene, ci riferiamo alla condizione

in cui l'uomo è stato creato. Ma non si può dire che la condanna

dell'umanità per la colpa dei progenitori sia ingiusta; tale sarebbe

infatti soltanto se nessuno fosse in grado di sottrarsi all'errore o

alla passione. Invece Dio è sempre presente, e in molti modi chiama


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a sé l'uomo ; da lui dipende l'ascoltare questa chiamata, o il

respingerla. In quest'ultimo caso, l'uomo si rende direttamente col-

pevole, per avere rifiutato la salvezza che gli è stata offerta. Infatti

le azioni commesse soltanto per ignoranza, o l'incapacità di operare

il bene, pur volendo, si chiamano peccati solo per metonimia, in

quanto hanno la loro origine sul peccato del progenitore. Quindi

il termine « peccato » ha due sensi, uno proprio e l'altro estensivo,

allo stesso modo che anche « natura » si usa talvolta nel senso

di « natura viziata », come p. es. S. Paolo in Ephes. II, 3. Ma,

insomma, alla ignorantia e alla difficultas che l'ostacolano, l'anima

umana può sempre sottrarsi, sicchè la sua condizione gravosa, la

sua pena, dovrebbe tradursi piuttosto in un'incitamento a rispondere

all'appello che Dio continuamente le rivolge. Così Agostino è tratto

96
ad occuparsi dell'origine dell'anima. Tra le diverse ipotesi, egli

rimane incerto e vorrebbe che ognuno, riconoscendo che si tratta di

quesfione oscura e dubbia, rispettasse le opinioni altrui (27). Ma

l'importante è che, se l'anima è incolpata non a causa di ciò che

essa ignora o di cui è incapace ma per non aver voluto sapere o

agire, Dio la punisce giustamente (28).

Nell'insieme, come si vede, e se prescindiamo dalla discus-

sione, per quanto importante, intorno alla prescienza, non troviamo

qui posizioni dottrinali nuove, in confronto con gli altri scritti di

questo periodo (29). Però questo stesso problema della relazione

tra prescienza divina e libertà umana sembra presentarsi. ad Ago-

stino piuttosto per la necessità di respingere argomentazioni e obie-

zioni dei manichei, che per un'esigenza completamente interiore

sorta dalla riflessione intorno alla dottrina di San Paolo. E siccome

egli ripete le spiegazioni date nei commenti già esaminati, vi è

ragione di credere che, per il momento, queste gli sembrassero del

tutto convincenti.

Ma c'è ancora qualche cosa di nuovo. Agostino affronta un

problema che non gli si è ancora presentato. A qua! fine, dato l'or-

dine e la perfezione del creato, vengono al mondo quei bambini

che muoiono nell'atto stesso del nascere, incapaci quindi di deter-

minarsi in un senso o nell'altro? E quale sarà la sorte di queste

anime? Egli non esita ad affermare che vi può essere una vita

intermedia tra il peccato e l'operare bene, e così una vita ultra-

terrena intermedia tra il premio e la pena. Vè anche — sog-


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giunge — chi si domanda a che giovi il battesimo degl'infanti ; i

quali, se muoiono subito e non hanno potuto acquistarsi né colpa

nè merito, non dovrebbero essere, in giustizia, né condannati né

premiati. Che Agostino si prospetti ora queste difficoltà è partico-

larmente interessante, quando si ricordi quale importanza l'argo-

mento tratto dal battesimo degl'infanti assunse poi nella con-

troversia con Pelagio. Ed egli risponde che il Battesimo è l'in-

troduzione alla vita cristiana, cioè alla via verso la perfezione,

fondata sulla conoscenza del bene e l'adesione, libera, a questo.

Nel battesimo conta la fede la quale è prestata agli infanti dai

genitori. Da ciò ognuno può arguire quanto valga la fede propria : e

questo basta per giustificare la prassi della Chiesa (30) nel battez-

zare gli infanti. Ma non è meno importante che Agostino si preoc-

97
cupi di difendere tale prassi. Come non è senza importanza che

anche in questo libro egli si occupi delle eresie (31) ; per non

parlare delle citazioni di San Paolo e del carattere più strettamente

religioso e meno intellettualistico che anche la sua polemica contro

il manicheismo è venuta assumendo. ,

Accanto alla lettera Ai Romani era naturale che attirasse la

attenzione di Agostino quella Ai Calati, a commentare la quale egli

i si accinse in questo stesso torno di tempo, forse come 'esercizio

preparatorio al Commento a Romani, oppure con l'intenzione di

redigere un commentario completo a S. Paolo. Anche qui ritro-

viamo i-quatro stadi già segnalati, anche qui l'Apostolo è conside-

rato in realtà giunto ormai a quello sub gratìa, anche qui il con-

cetto che Agostino ha della grazia è sostanzialmente quello di una

illuminazione intellettuale per cui l'uomo è messo in grado di eser-

citare con piena efficacia il suo libero arbitrio. La grazia pre-

senta alla volontà umana i beni superiori e spirituali che si con-

trappongono a quelli materiali e sensibili, affinché la nostra volontà

(che non può non rivolgersi a ciò che più la diletta, e se le due

attrattive sono eguali rimane incerta), così illuminata, scelga i

primi beni e non i secondi. E neppure la spiegazione circa la

necessità della grazia, quando la si consideri da vicino, presenta

alcunché di nuovo (32).

Lo studio di S. Paolo ha dunque posto Agostino di fronte a

qualche problema nuovo. Lo ha spinto soprattutto a considerare

la salvezza dell'anima non più come un graduale elevarsi alla cono-


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scenza della verità, ossia, intellettualisticamente (anche ammettendo

che per lui la purificazione era condizione preliminare e indispen-

sabile per tale elevazione) bensì in modo più specificamente reli-

gioso, in termini di grazia, di fede, di giustificazione. Com'era na-

turale, egli cercò eli adattare il sto pensiero a questo nuovo modo

di vedere, muovendo evidentemente dalla convinzione in lui ben

radicata che nelle conclusioni ultime vera religione e vera filosofia

coincidono. E poiché in base a questo concetto, il male morale e

l'errore sono a loro volta identici, egli ha potuto mantenere la sua

concezione del mondo come ordine e del peccato come violazione

di quest'ordine e quindi totalmente volontario da parte dell'uomo,

e di Dio, supremamente buonp in quanto creatore e supremamente

giusto in quanto punisce. Dalla giustizia divina egli fa dipendere

98
anche la condizione, dell'uomo, che nonostante sia dotato di anima

razionale può peccare e anzi in certi stati non può farne a meno :

e la pena cui' l'intero genere umano è sottoposto, da quando

il corpo è stato reso mortale. In tutto questo, non c'è — come

abbiamo notaio — nessun cambiamento. Ma quell'antico ottimismo,

per cui Agostino si mostrava così sicuro che gl'indotti affidandosi

all'autorità e i più sapienti in virtù della ragione avrebbero tutti

egualmente potuto assurgere a una certa conoscenza di Dio e del

vero, si è alquanto attenuato. Egli non parla più con l'antico

calore, della voce divina che risuona nel cuore di ogni uomo ; am-

mette che alla chiamata di Dio l'uomo possa non rispondere, anzi

proprio per dimostrare che la salvezza è possibile (e quindi il pec-

cato volontario e la pena meritata e Dio giusto), riconosce che al-

cuni si salvano, sottraendosi all'impero della carne. E' chiaro — an-

che se Agostino non lo dice esplicitamente — che ciò rende tanto

più necessaria l'adesione alla Chiesa e la partecipazione ai suoi sa-

cramenti. Il professore di retorica e di filosofia si è cambiato in

apologista e a questo, che continuava a ispirarsi in concezioni filo-

sofiche, si sono aggiunti in lui l'ecclesiastico e l'esegeta. Non è

difficile concludere che l'esercizio del ministero sacerdotale e la

più piena, diretta e assidua partecipazione alla vita sacramentale

della Chiesa abbiano contribuito ad attenuare quell'ottimismo di

un tempo, per cui Agostino si sentiva sicuro di essere del numero

degli eletti. Ma questo cambiamento è avvenuto attraverso la lettura

e la meditazione delle Epistole di San Paolo. E si tratta di un


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cambio che non ha nulla di brusco, di rivoluzionario, e non è

ancora nemmeno molto considerevole; però fu un cambiamento ef-

fettivo ed ebbe conseguenze importanti.

NOTE

(1) Cfr. Retract. I, 22 (23), 1.

(2) Expositio quarundatn proposìtionum ex epistola ad Romainos, 9: « ira »

d; Dio significa in re.altà « castigo » e d'altronde di quest'ira parla non solo

l'Antico ma anche il Nuovo Testamento (a Rom. 1I, 5)-, 11: S. Paolo non stabi-

lisce alcun contrasto tra le due parta della Bibbia, però la Legge ei deve

interpretare allegoricamente (a Rom., II, 29); 49: l'apostolo non permette af-

fatto 'di concludere, dualisticamente « tamquam ex adverso principio al'quam

naturam, quam non condidit Deus, inimicitia» adversus Deum exercere » (a

Rom. Vlii, 7); 53: è falso che vegetaJi e minerai5 siano dotati di sensibilità

99
(a Rom. Vili, 19-20 e 23); 54: solo agli stolti possono sembrare inutiti certe

tribolazioni, ohe invece Dio ci manda per il nostro bene (a Rom. Vili, 27).

(3) Expos. quarr. propp., 13-18 (a Rom. Ili, 20): « Quod autem dicit " Quia

non iustificabitur in lege... " » et caetera similia, quae quidam putant in con-

tumeliam legis obicienda, sollicite satis legenda sunt, ut neque lex ab Apostolo

improbata videatur, neque homini arbitrium libenim -sit ablatum. Itaque quat-

tuor istos gradue hominis distinguamus, ante Legem, sub Lege, in gratia, in

pace. Ante legem, sequimur concupiscentiam camis; sub Lege, trahimur ab

ea; sub gratia, nec sequimur eam nec trahimur ab ea; in pace, nulla est con-

cupiscentia carnie. Ante Legem ergo non pugnamus, quia non solum concupi-

scimus et peccamus, sed etiam approbamus peccata. Sub Lege pugnamus, sed

vincimur; fatemur enim mala esse quae facimus, et fatendo mala esse, utique

nolumus facere, sed quia nondum est gratia superamur. In isto gradu ostendi-

tur nobis quomodo iaceamus et dum surgere volumus et cadimus, gravius

affligimur. Inde hic dicitur « Lex subintravit ut abundaret delictum » (Rom.,

V, 20). Inde et quod nunc positum est « per Legem enim cognitio peccati ».

Non enim ablatio peccati est; quia per solam gratiam aufertur peccatum.

Bona est ergo Lex quia ea vetat quae vetanda sunt. et ea iubet quae iubenda

sunt. Sed cum quisque illam viribus siiis se putat implere, non per gratiam

Liberatoris sui, raihil ei prodest ista praeeuinptio; immo etiam tantum nocet,

ut et vehementiori peccati desiderio rapiatur et in peccatis etìam praevaricator

inveniatur. « Ubi enim non est Lex, nec praevaricatio ». (Rom. IV, 15). Sic

ergo iacens cum se quisque cognoverit per se ipsum S'urgere non valere, im-

ploret Liberatorie auxilium. Venit ergo gratia quae donet peccata praeterita

et conantem adiuvet et tribuat charitatem iustitiae et auferat metum. Quod cum


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fit, tametsi desideria quaedam camis, dum in hac vita sumus, advérsus spi-

ritum nostrum pugnant ut eum ducant in peccatum, non tamen his desiderite

consentiens epiritus, quoniam est fixus in gratia et chiaritale Dei, desinit pec-

care. Non enim in ipso desiderio pravo, sed in nostra consensione peccamus.

Ad hoc valet quod dicit idem apostolus « Non ergo regnet peccatum in vestro

mortali corpore ad obediendum deeideriis eius » (Ro. VI, 12). Hinc enim osten-

dit esse desideria, quibus non obediendo, peccatimi in nobis regnare non si-

nimus. Sed quoniam ista desideria de carnis mortaiilate nascuntur, quae

trahimus ex primo peccato primi hominis, unde carnaliter nascimur, non finien-

tur haec nisi resurreotione corporis immutationem illam quae nobis promittitur

meruerioiue, ubi perfecta pax erit, cum in quarto gradii constituemur. Ideo outem

perfecta pax, quia- nihil nobis resistei non resistentibus Deo... Liberum ergo

arbiitrium perfecle fuit in primo nomine, in nobis autem ante gratiam non est

1iberum arbitrium ut non peccemus, seid tantum ut peccare nolimus. Gratia

vero efficit ut non tantum velimus recte facere, sed etiam possimus, non vi-

ribus nostris, sed Liberatoris auxilio, qui nobis etiam perfectam pacem in re-

surreclione Iribuel (Cfr. per i 4 stadi, C. Fortun. 22 al e. m, n. 2); 21: « Deue per

giatiam dedit, quia peccatoribus dedit, ut per fidem iuste viverent, id est ope-

rarentur. Quod ergo bene operamur, iam acoepta gratia, non nobis sed illi

tribuendum est, qui per gratiam nos iustificavit » (a Rom. IV, 4) ; 30: « Data

est Lex ad ostendendum quantis quamque arctis vinculis peccatorum costrinee-

rentur qui de suis viribus ad implenidam iustitiam praesumebant » (a V, 20).

Nel lerzo sladio « homo iam mente servit Legi Dei, quanwis carne eerviat

legi peccati. Non enim obaudil desiderio peccali, quamvis adhuc sollicitent

concupiscentiae et provocent ad consensionem donec vivificetur etiam corpus

100
et absorbeatur more in victoriam (cfr. / Cor. XV, 55). Quia enim non consenti-

MUS desideriis pravis, in gratia sumus, et non regnai peccatum in nostro mor-

tali corpere.» (35; a VI, 14). Ma nel secondo stadio, l'uomo « peocatis vincitur

dum viribus suis iuste vivere conatur sine adiutorio liberantis gratiae Dei. In

libero autem arbitrio habet ut credat Liberatori et accipiat gratiam, ut iam

ilio qui eam donai liberante et adiuvante non peccet, atque ita desinai esse

*ub Lege » (44, a VII, 19-20); «In eo enim est damnatio, quod oblemperamus

et eervimus desideriis pravis carnalibue. Si autem existant et non desint talia

desiderili, non tamen nis obediamus, non captivamur et sub gratia iam Bumus »

(45; a VII, 22).

(4) Expos. quarr. propp. ex Ep. ad Rom., 55: « Manifestum est non iueti-

ficatos nisi vocatos, quamquam non omnes vocatos, sed eoe qui secundum pro-

poeitum vocati sunt... Non enim omnes qui vocati sunt, secundum propositum

vocati sunt: hoc enim propositum ad praescientiam et ad praedestinationem Dei

pertinet, nec praedestinavit aliquem, nisi quem praesciverit crediturum, et se-

cuturum vocationem suam» (a Vlii, 30); 60: « Respondemus praescientia Dei fac-

tum esse, qua novit etiam de nondum natis qualis quisque futuru« sit... nisi

quisquam credat in eum et in accipiendi voluntate permaneat, non accipit donum

Dei, id est Spiritum Sanctum, per quem diffusa cariiate bonum possit operari.

Non ergo èlegil Deus opera cuiusquam in praescientia, quae ipse daturus est,

sed fidem elegit in praescientia, ul quem sibi credituruin esse praescivit, ipsum

elegeril cui Spiritimi Sanctum darei... Quod ergo ctedimus, nostrum est; quoti

autem bonum operamur, illius est qui credentibus in se dal Spiritum Sanctum...

Quod si vocatue vocantem secutus fuerit quod est iam in libero arbitrio, mere-

bitur et Spiritum Sanctum... in quo permanerie... merebitur eitàam vi'tam aeter-


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nam » (a IX, 16); 62: «In bis quos damnat, infidelitas et impieta® inchoat

poenae meritum... bona per donum Dei operemur et mala per supplicium; cum

tamen nomini non auferatur liberum voluntatis arbitrium, sive ad credendum

Deum, ut consequatur noe misericordia, sive ad impietatem, ut consequatur

suppHcium» (a IX, 19 sgg.).

(5) Expos. quarr. propp. ex epist. ad Rom., 62: « Quamdiu figmentum es,

inquit, et ad massam luti pertines, nondum perductus ad spiritalia ul sis spi-

ritalis omnia iudicans et a nemine iudiceris, cohibeas le oportel ab huius-

modi inquisitione et non reepondeas Deo » (a IX, 21). Per le discussioni su que.

sto passo, v. più avanti, cc. VI e VII.

(6) Retract. I, 24 (25), 1.

(7) Epist. ad Rom. inch. expos., 8: « Gratia esl ergo a Deo patre et Do-

mino nostro lesu Christo, qua nobis peccata remittuntur, quibus adversabamur

Deo; pax vero ipsa qua reconciliamur Deo » (cfr. Expos. Epist. ad Gol., 3, cil.

alla n. 32); 9: «Sed hoc piane iustum est apud Deum: quia vere iustum est ut

ii quos peccatorum suorum paenilet, eo tempore quo nondum poenarum mani-

festus terror apparet, misericorditer separentur ab iis qui defensiones pecca-

torum suorum pertinaciter exquirentes nulla paenitentia corrigi volunt. Iniu-

etum est enim ut cum hi« dUi ad consortium poenale copulentur qui vocantem

Deum non spreverunt et peccanles displicuerunt sibi, ut quemadmodum ille

peccata eorum, sic etiam ipsi odissent soia. Ea enim demum est humanae iusti-

tiae disciplina, non in se amare nisi quod Dei est et odisse quod proprium est,

nec approbare peccata sua nec in eis alium improbare, sed se ipeum; nec putare

«atis sibi esse ut sua peccata displiceant, nisi etiam vigilantissima deinceps in-
tentione vitentui; nec in eis vitandis vires suas existimare sufficere, nisi divini.

tus adi uve tur. lustum est ergo apud Deum ut ign osca tur talibus qoiaecum-

que antea connmi&erunt... lusta est ergo gratia Dei et grata iustitia, Am in eo

quoque etiam paenitentiae meritum gratia praecedat, quod neminem peccati

eui paeniteret, nisi admonitione aliqua vocatioruis Dei ».

(8) Retract., I, 25 (26), 1.

(9) De diversis quaestic,nibus LXXXIII, qu. 1 Utrum anima a se ipea sit;

7, quae proprie in animante anima dicatuo 3, Utrum per se anima moVeaitur;

9, Utrum corporea sensibus percipi veritas possit; 13, Quo documento consftet

homines bestiis anteceUere; 3, Utrum Deo auctnre sit homo delerior; 4, Quae

sit causa ut sit homo deteriori 6, De malo; 10, Utrum corpus a Deo sit; 21,

Utrum Deus auctor mali non sit; 22. Deum non pati necessitatemi 24. Utrum

peccatum et reote factum in libero sit voluntatis arbitrio.

(10) La stessa preoccupazione potrebbe ravvisarsi nella qu. 14: Non fuisse

corpus Christi phantasma; e con essa formerebbero idealmente un gruppo le

16- De Pillo Dei, la 18: De Tramiate, e la 23: De Patre et Fiìio.

(11)' Qaestt. 27, de Providentia (Luca II, 14); 29, Utrum aliquid sit sursum

aut deorsum in universo (cfr, Coloss. Ili, 2); 31, Sententìa Ciceronis, quemad-

modum virtutes animi ab ilio davisae ac definitae sunt (Cic., De invenf., 2).

(12) Quaest. 51, De nomine facto ad imaginem et similitudinem Dei

(Gen. I, 26; V, 3); 52. De eo quod dictum est « Paenitet me feci&se hominem »

(Gen. VI, 6); 53, De auro et argento quod Israelitae ab Aegyptiis acceperant

(Ex. Ili, 22; XII, 35); 54, De eo quod .scriptum est « Mihi autem adhaerere Deo

bonum est» (Ps. LXXII, 28); 22, Do eo quod scriptum est « Sexaginta sunt re-

ginae, etc. » (Cani. VI, 7); 56. De annis quadraginta sex aedificati Templi
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(loh. Il, 20-21); 57, De centum quinquaginta tribus piscibue (loh. XXI, 11);

58, De lonanne BaptLùta; 59, De decem virginibus (Mati. XXV); 60. De eo quod

scriptum est «De die autem ilio et hora nemo scit » (Matl. XXIV, 36); 61. De

eo quod scriptum est in Evangelio « Turbas Dominum in monte pavese de pa-

nibus quinque » (Mail. XIV, 15, 21); 62, De eo quod scriptum est in Evangelio

< Quia baptizabat lesus plures quam loannes, etc. » (loh. IV, 1); 63, De Verbo;

64, De mul'iere Samaritana; (loh. IV, 91; 65, De resurrectione Lazari (loh. XI,

44). Si noti che la qu. 79 è su Eso, VII, Vili e la qu. 33 GU Mal. V, 32.

(13) Quaestt. 66, a Rom. VH-VIII, 11; 67, a Rom. Vili, 18-24; 68, a Rom.

IX, 20; 69, a / Cor. XV, 28; 70, a / Cor. XV, 54-56; 71, a Gai, VI, 2; 72; a

Tir. I, 2; 73, a Philipp. II, 7; 74, a Golosa. I, 14-15; 75, a Hebr. IX, 17. Si noti il

poeto assegnato a Tito. La qu. 76 è su /ac. II, 20; la qu. 82 su Hebr. XII, 6.

(14) S. Zarb, Cronologia operum S. Augustini, in Angelicum, X, 1933,

p. 395 dichiara che « ordo inter ipsas quaestione« servatire non est chronolojji.

cus sed systematicus, ita priores quinquaginta quaeetiones Glint potius philo-

sophicae, aliae vero sunt potius quaee'tiones bibìicae, atque inter se ordinati tur

secundum ordinem Sacrorum Librorum »; il ohe è vero, come si è visto, sol-

tanto in senso molto lato, come riconosce lo stesso autore con quel potius.

Marrou, o. c., p. 168, n. 4 riconosce che « un certain nombre des Diversae

Quaestiones LXXXIII doit ètre rapporta a la mème période (cioè gli anni 386-

391); il est difficile de decider lesquelles; j'utilise celles qui ont une portée

pnilosophique » e cita le quaestt. 12, 31, 33, 35, 29. Poi, trattando di Agostino

come esegeta, osserva a p. 382, n. 4: « je ne dis rien dea 83 Questiona diverses

102
dont la rédaction s'est prolongee jusqu'à a 396. Les questions d exégèse et de

doctrine y abondent, mais il est difficile de dater chacune delles».

Ora è evidente che sarebbe difficile, anzi forse impossibile, trovare nel-

l'interno di ciascuna quaeslio gli elementi per una datazione precisa. Ma poiché

l'ordine di esse non è che apparentemente sistematico, se ci proviamo invece

a considerarlo come cronologico, vediamo che tutto si spiega, in relazione con

la stessa evoluzione spirituale di Agostino.

(15) Si osservi del resto che la distinzione dei quattro stadi si trova già

nella qu. 61, 7:« In toto enim saeculo generis humani tertium tempus est quo

fidei christianae gratia data est. Primum est ante Legem, secundum sub Lege

tertium sub gratia. Et quoniam quartum adhuc restat ,quo ad plenissimam pa-

cem larusalem caetestis venturi sumus, quo tendit quisquis recte credit in

Christum, propterea se dicit turbam illam reficere Dominue, ne deficiant in via »,

Nella qu. 55, che secondo la mia ipotesi dovrebbe essere press'a poco contem-

poranea all'inizio della polemica antidonatista, troviamo il concetto della sepa-

razione dei buoni dai malvagi in fine saeculi, cioè precisamente uno dei prin-

cipali argomenti di Agostino contro i donatisti.

(16) De div. quaest. LXXXI1I, qu. 66, 1: « Ubi ergo non est gratia Libera-

toris, auget peccandi desiderium prohibitio peccatorum. Quod quidem ad hoc

utile est, ut sentiat anima se ipsam non sibi sufficere ad extrahendum se de

servitute peccati, atque hoc modo detumescente atque extincta omni superbia

subdatur Liberatori suo, sinceriterque homo dicat « adhaesit anima mea post te»

(Ps. 62, 9) quod est iam non esse sub lege peccati sed in lege iustitiae »;

4: « Ad primam acticmem demonstrandam, i*ta testimonia interim occurrunt

(Kom. V, 12-13;. VII, 8 segg.) ...manifestum est quod superius ideo dicebat mor.
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luum et non deputari, quia non apparebat antequam Lege prohibente ostendere-

tur»; 5: «Ad secundam actionem ista testimonia conveniunt (Som. V, 20; VII, 5,

7-8, 9-11, 14 seg.; 20-23). Huc usque sunt verba homini« sub Lege constìtuti non-

dum sub gratia; qui etiamsi nolit peccare, vincitur a peccato. Invaluit enim

consuetudo camalis et naturale vinculum mortalitatis, quo de Adam propagati

sumus. Imploret ergo auxilium, qui sic positue est, et noverit suum fuisse

quod cecidit, non suum esse quod surgit. Iam enim liberatue agnoscens gra-

tiam Liberatoris sui dicit: « Miser ego homo... (Rom. VII, 24); 6: «Et incipiunt

iam verba hominis sub gratia constituti, in actione quam tertiam demonstravi-

mus, quae habet quidem reluctantem mortalitatem carnis. sed non vincentem

atque captivantem ad consensionem peccandi... « In similitudinem carnis paec.

tati»: non enim caro peccati erat, quae non de carnali delectatione nata erat;

sed tamen inerat ei simili ludo peccati carnis, quia mortalis caio erat; mortem

autem non meruit Adam nisi peccando... Sic et prudentia camis dicitur. cum

anima pro magnis bonis temporalia bona concupiscit Quamdiu enim appetitus

talis inest animae, legi Dei subiecta esse non potest; id est, non potest implere

quae Lex iubet. Sed cum spiri lai ia bona desiderare coeperit et temporalia con-

temnere, desinet esse carnis prudentia et spiritui non resistet. Eadem namque

anima, cum inferiora appetii, prudentiam carnis habere dicitur; cum superiora,

prudentiam spiritus; non quia prudentia carnis substant:a est, qua induitui

anima vel exuitur, sed ipsius animae affectio est, quae omnino e.sse desinet,

cum se totam ad superna converterit... « Si tamen. inquit, Spiritus Dei habitat...

vita est propter iustitiam » (Rom. VIIi, 9-10). Mortuum corpus dicit, quamdiu tale

est ut indigentia rerum corporalium molcstet animam et quibusdam motibus

ex ipsa indigentia venientibus ad appetenza terrena sollicitet. Quibus tamen,

103
quamvjs existentibus, mene ad illicita facienda non consentii, quae iam servii

legi Dei et sub giatia constituta est. Ad hoc enim valet quod supra dictum est

« Mente servio... » (Rom. VII, 25). Et ille homo nunc descrifcitur esse sub gratia,

qui nondum habet perfeclam pacem, quae corporis resurrectione et immutatione

est futura »; 7: « Restai ergo ut de ipsa pace dicat resurrectionie corporis, quae

quarta est actio... Si ergo Spiritus... (Rom. Vili. 11). Hic et de reeunectione

corporis evidentissimum leetimonium est, et satis apparet, quamdiu in hac vita

Bumus, non deesse molestias per mortalem carnem neque titillationes quasdam

delectationum carnalium. Quamvis enim non cedat qui sub gratia constilutus

mente servii legi peccati, tamen carne servii legi peccati. Illis gradibus homine

nerfecto, nulla substantia invenitur nxilnm; neque Lex mala est quae ostendit

homini in quibus peccatorum vinculis iaceat, ui per liciom imploralo Liberatorie

auxilio et solvi et erigi et firmissìme constitui mereatur. In prima ergo actione,

quae est ante Legem, nulla pugna est cum voluplatibus huius saeculi; in se-

runda, quae sub Lege est, pugnamus sed vincimur; in tertia, pugnamus el vin-

cimus; in quarta, non pugnamus, sed perfetta et aeterna pace requiescimus.

Subditur enim nobis quod inferius nostrum est, quod propterea non subdebatur,

quia superiorem nobis deserueramus Deum ».

(17) De div. quaeat. 83, qu. 67, 3: « Vanitati » ergo « creatura subiecta est,

non sponte ». Bene additum est: non sponte. Homo quippe sponte peccavi*, sed

non sponte damnatus est. Peccatum itaque fuit spontaneum, centra praecep-

tum Tacere veritatis; peccati autem poena subiici fallaciae. Non ergo sponte

creatura subiecta est venitati « sed propter eum qui subiecii eam in spe », id

est, propter eius iuetitiam atque clementiam, qui neque impunitum reliquil pec-

catum ,neque insanabilem voluit esse peccanteoi » (a Rom. Vili, 20): 4: «Quia
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et ipsa crealura » (Rom. Vili, 21), id est, ipse homo, cum iam -signaculo ima-

ginis propler peccatimi amisso remansit tantummodo crealura, « el ipsa » itaque

« creatura », id est, et ipsa quae nondum vooalur filiorum forma perfecla, sed

tantum vocatur crealura, « liberabitur a servitute interilus ». Quod itaque ait

« et ipsa liberabitur » facit intelligi, « et ipsa » quemadmodum et nos, id est et

de ipsis non est desperandoim qui nondum vocantur filii Dei quia nondum cre-

d'derunt, sed tantum creatura; quia et ipsi credilurd sunt el liberabuntur a ser-

virtuite interitus, quemadmodum nos qui iam Dei filii sumus, quamvis nondum

apparuerit quid erimus » (a Rom. Vili, 21).

(18) Sulla curiositas in senso deteriore, e la disistima di Agostino per

essa, a partire dal De veto religione v. Marrou, o. e., pp. 148 egg. 350 sgg.

(19) De div. quaest. LXXXIII, qu. 68, 1: «Cum videatur apostolus corri-

puisse curiosos... de hoc ipso illi quaestionem movent et in ea sententia non

desinunt esse curiosi qua obiurgata est ipsa curiositas; et impii quidem cum

contumelia, ut rlicant apostolum in solvenda quaestione defecisse et obiurgasse

quaerentes quia non pelerat quod quaerebatur exponere. Nonnulli autem

haeretici qui non decipiunt nisi cum scientiam quam non exhibent pollicentur,

et adversantes- Legi et Prophetis quaecumque de illis apostolus sermoni suo

inseruil falsa et a corruptoribus immissa esse criminantur, etiam hoc inter

ipsa quae interpolala dicuni numerare maluerunt et negare Paulum dixifl-

s*: », etc. 2: « Non enim apostolus hoc loco sancloe prohibuit a quaerendo, sed

eoe qui nondum sunt in charitate radicati et fundati, ut poesint comprehendere

cum omnibus sanctis latitudinem, longiludìnem, altitudinem et prolundum et

celera quae in eodem loco (Efes. IH, 18-19) exsequìtur. Non ergo prohibuit a

quaerendo qui ddcit « spiriluales... » et illud praecipue « Nos autem... » (1 Cor.

104
II 15 e 12). Quos ergo prohibuit, msi luteos atque terrenos, qui nondum m-

Uinsecus regenerati atque nutriti imaginem illius hominis portant, qui primus

factus est de terra terrenus [ibid. XV, 47-49)? Et quia ei a quo factus est noluit

ottemperare, in id lapsus est unde factus est meruitque po6t peccatum

audire: « Terra es... » (Ge/;. Ili, 19). Talibus igitur hominibus dicit Apo-

stolus « o homo... ». Quamdiu. ergo figmentum es, nondum perfectus filius,

quia nondum hausisti plenissimam gratiam qu-i nobis data est potestas fi-

lios Dei fieri, quo poesis audire « iam non dicam... (/oh. XV, 15); tu quis

es... » et velis Dei nosse consilium? ». 3: « Et ut manifestum sit, non san-

clificato spiritui, sed carnali luto ista dici, vide quod sequitur « aut non

habet... ». Ex quo ergo in paradiso natura nostra peccavit, ab eadem divina

providentia, non secundum caelum, sed secundum terram, id est non secundlun

spiritum sed secundum carnem (cfr. De serm. Dom. in monte, II, 23 cit., c. III.

n. 26) mortali generatione formamur et omnes una massa luti facti sumus, quod

est massa peccati. Cum ergo meritum peccando amiserimus, et misericordia

Dei remota nihil aliud peccantibus nisi aeterna dannatio debeatur, quid sibi

vult homo de hac massa, ut Deo respondeat et dicat « Quare sic me fecisti? ».

Si vis ista co-gnoscere, noli esse lutum, sed efficere filius Dei per illius

misericordiam, qui dedit potestatem filios Ded fieri credentibus in nomine eius;

non autem, quod tu cupis, antequam credant, divina nosse cupientibus. Mer-

ces enim cognitionis meritis redditur, credendo autem meritum comparatur.

Ipsa autem grafia quae data est per fidem, nullis nosiris meritis praecedenti-

bus data est. Quod est enim meritum peccatone et impii? Christus autem pro

impiis et peccatoribue mortuus est ut ad credendum non merito sed gratia

vocarerhur, credendo autem merita collocaremus (Var.: « compararemus »).


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Peccatoree igitur credere iubentur, ut (« et ») a peccatis credendo puigentur

(« purgantur »). Nesciunt enim quid recte vivendo visuri sint. Quapropter cum

videre non possint, nisi recte vivant, nec recte vivere valeant, nisi credant;

manifestum est a fide incipiendum ut praecepta quibus credentes a saeculo

hoc avertuntur, cor mundum faciant, ubi videri Deus possit... Quapropter

recte dicitur hominibue in vetustate vitae manentibus et propterea tenebio-

sum oculum animae gerentibus « o homo... » Expurga vetus fermentum, ut

sis nova conspersio (/ Cor. V. 7) et in ea ipsa non adhuc parvulus in Christo

ut lacte potandus sis (cfr. / Cor. Ili, 2) sed perveni ad virum perfectum.

Tum demum recte et non praepoetere audies, si qua sunt de animarum se-

cretissimis meritis et de gratia vel iustitia, secreta omnipotentis Dei ». 4:

« Ex eadem ergo massa, id est peccatorum, et vaea misericordiae protulit,

quibus eubvertiret, cum eum deprecarentur filii Israel; et vasa irae, quorum

«upplicio illos erudirei, id est Pharaonem et populum eius; quia quamvis

eeeent utrique peccatores et propterea ad unam massam pertinerent, aliter

tamen tractandi erant qui uni Deo ingemuerant... Prorsus cuius vult miseretur

et quem vult obdurat; sed haec voluntas Dei iniusta esse non polest. Venit

enim de occultiseimis meritis; quia et ipsi peccatores cum propler generale

Beccatum unam massam fecerint, non tamen nulla est inter illos diversitas.

Praecedit ergo aliquid in peccatoribus, quo, quamvis nondum sint iustificati,

digni efficiantur iustificatione; et item praecedit in aliie peccatoribus, quo

digni sint obtusione. Habes eundem aposto.um alibd dicentem: (Rom. I, 28).

Quod eos dedit in reprobum sensum, hoc est quod induravit cor Pharaonis;

quod autem illi non probaverunt Deum habere in notitia, hoc est quod òigni

extiterunt qui darentur in reprobum sensum ». 5: « Tamen verum est quia " non

105
volentis neque currentis... " (Rom. IX, 16)... Quia etiamei levioribus quisque

peccatis aut certe quamvis gravioribus et multis, tamen magno 'gemitn et

dolore paenitendi, misericordia Dei dignus fuerit, non ipeius est, qui si relin-

querelur interirei, sed miserentis Dei, qui eius precibus doloribusque subve-

nit. Parum est enim velie, nisi Deus misereatur; sed Deus non miseretui, qui

ad pacem vorat, nisi voluntas praecessent... Et quoniam nec velie quidquam

quisquam polest, nisi admonitus et vocatus, sive intrinsecus, ubi nullus homd-

num videi, sive extrinsecus per sermonem sonantem, aut per aliqua signa

vieibilia, efficitur ut etiam ipsum velie Deus operetur in nobis (cfr. Philipp.

11, 13). Ad illam enim coenam, quam Dcminus dicit in Evangelio praeparatam,

nec omnes qui vocati sunt venire volueruiU ,neque illi qui venerunt venire

possent nisi vocarentur (cfr. Luc., XIV, 16-26). Itaque nec illi debent sibi

tribuere qui venerant, quia vocati venerunt, nec illi qui poluerunt venire

debent alleri tribuere, sed tantum sibi; quoniam, ut venirent, vocati erant in

libera voluntate. Vocatio ergo ante meritu.m voluntatem operatur. Proplerea,

et si quisquam sibi tribuil quod venit vocatus, non sibi ^Tolest tribuere quod

vocatus est. Qui aulem vocatus non venit, sicut non habuit meritum praemii

ut vocaretur, sic inchoat merilum supplicii cum vocatus venire neglexeril ».

(20) De div. quaest. LXXXI1I, qu. 68, 6: « Haec autem vocatio, quae sive

in singulis hominibus, sive in populis, atque in ipso genere humano per leim-

porum opportunilates operatur, allae el profundae ordinationis esl... Illud ta-

men constantissima fide retinendum, neque quidquam Deum iniuste facere,

neque ullam esse naturam quae non Deo debeat id quod est: quia Deo debetur

omne decus el pulcriludo el congruentia parlium, quam si penilus persecutus

fueris el usque ad omnes reliquias de rebus detraxeris, remc-net nihil ». Per
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la differenza tra pulcritudo e congruentia partiuim, cfr. Contessio-ni, IV, XIII, 20.

(21) Nessuna delle altre Questioni si riferisce a questa epistola. E' vero

che il Commentó completo rimase incompiuto; ma non c'è ragione di du-

bitare che ciò fosse dovuto a una ragione diversa da quella indicata nelle

Retractationes.

(22) De div. quaest. LXXXIII, qu. 70; « Morte significari arbitror hoc

loco carnalem consuetudinem, quae resistil bonae voluntati deieclatione tem-

poralium fruendorum. Non enim diceretur " Ubi est, mors, contentio lua?

(/ Cor. XV, 55) si non reeliti-sset et repugnasset. Istius contentio etiam ilio loco

describitur " Caro concupiscit... " (Gai. V, 17). Fit ergo per sanclificationem

perfectam ut omnis carnalis appetitus spirilui nostro illuminato et vivificato,

id est bonae voluntati, subiciatur. Et sicul nunc videmus multis puerìlibus

deleclationibus nos carere, quae nos pueros, si denagarentur, acerrime cru-

ciabant, ita dedendum est de o,mni carnali delectatione futurum esse, cum

perfecta sanctilas lolum hominem reparaveril. Nunc autem quamdiu est in

nobis quod resistat bonae voluntati, auxilio Dei per bonos homines et bonps

angelos indigemus ut donec eanetur vulnus nostrum non ita molestet ul perimat

eliam bonam voluntatem. Hanc autem mortem peccato meruimus, quod pec-

catum erat ante omnimodo in libero arbitrio cum in paradiso nullus dolor

denegatae delectationis (var.: denegata delectatione) voluntati bonae homi-

nis re-sislebat, siculi nunc... Ergo " aculeus mortìs peccatum " est: quia pec-

cato facta esl deleclatio, quae iam possit resistere bonae voluntati et cum

dolore cohiberi. Quam delectationem, quia in dafectu est animae deterioris

effectae, iure morlem vocamus. Virtus autem peccati lex: quia multo scele-

ratius el flagitiosius quae lex prohibet comm;ttuntur, quam Gi nulla lege

106
prohiberen'tur ». E' superfluo rilevale le somiglianze con gli scritti che venia-

mo esaminando ; ed è chiaro che si tratta qui del passaggio dal terzo al

quarto dei gradi da Agostino descritti e distinti.

(23) De div. quaest. LXXXIII, qu. 76, 1 : «Locue iste epistolae eundem

eensum PauJi apostoli, quomodo sit intelligendus exiponit... Cum enim bona

opera commendai Abrahae, quae eius fidem conutata sunt, satis o&tendit Pau-

lum apostolum non ita per Abraham decere iustificari hominem per fidem sine

operibus, ut si quis crediderit non ad eum pertineat bene operari; sed ad hoc

potius ut nemo meritie priorum operum arbitreturee pervenisse ad domumiusti-

h'cationis, quae est in fide... Apostolus Paulus dicit posse hominem sine ope-

ribus, sed praecedentibus, iustificari per fidem. Narn iuS'tificatus per fidem quo.

modo potest nisi iuste deinceps operari quamvis antea nihil operatus iuste

ad fidai iustificationem pervenerit, non merito bonorum operum, sed gratia

Dei, quae in ilio iam vacua esse non potest cum iam per dilectionem bene

operatur? Quod si cum crediderit mox de nac vita decessit, iustificatio fidei

manet cum ilio, nec praecedentibus bonis operibus, quda non merito ad iUam,

sed gratia, pervenit; nec coiisequentibus, quia in nac via esse non sinitur ».

Qui che cosa Agostino intenda per gratia non è definito: ma dal modo in

cui si esprime in tutto il passo e nell'intera quaestio è chiaro che non vi può

essere differenza sostanziale d'indirizzo tra essa e la qu. 68.

(24) De div quaesi. LXXXlli, qu. 82, 2: «Omnis ista hominum iustitia, quam

et tenere animus humanus recte faciendo potest, et peccando amrttere, non

iraprimeretur animae nisi .esset aliqua inpommutaibilis iustitia, quae integra

inveniretur a tustis, cum ad eam converterentur, integra relinqueretur a pec-

cantibus, cum ab eius lumine averterentur. Quae iustitia incommutabilds utique


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Dei est, nec eam porrigeret ad Llustrandos ad se converecs si res humanas non

curaret Deus ».

(25) De lib. arb. Ili, 1: « (Evodio) cupio per te cogrioscere, unde ille

motus existat, quo ipsa voluntas avertitur a communi atque incommutabili

bono, et ad propria veJ aliena vel infima atque omnia commutabilia convertitur

bona ». 4: « Quomodo est igitur voluntas libera, ubi tam inevitabilis apparet

Tiecessitas? » 7: « Mihi si esset potestas ut essem beatus, iam profecto essem:

volo enim etiam nunc, et non sum, quia non ego, sed il!e me beatum facit. .

(Agostino): non enim posses aliud sentire esse in potestate nostra, nisi quod

cum volumus facimus. Quapropter nihil tam in nostra potestate quam ipsa vo-

luntao est ». Invecchiame e moriamo senza volere: in tal caso poetiamo parlare

di necessità. « Quamobrem quamvis praesciat Deus nostras voluntateg futuras,

non ex eo lamen conficitur, ut non voluntate aliquid velimus... Cum igitur prae-

scius Deus sit futurae beatitudini^ tuae... non tamen ex eo cogimur sentire, quod

absurdissimum est et longe a veritate seclusum, non te volentem beatum

futurùm. Sicut autem voluntatem beatitudinis, cum esse coeperis beatus, non

Ubi aufert praescientia Dei, quae hodieque de tua futura beatitudine certa

est, sic etiam voluntas culpabUis, si qua in te futura est, non propterea vo-

.untac non erit, quoniam Deus eam futuram esse praescivit ». 8: « Quomodo

ergo non potest aliud fieri quam praescivit Deus, si voluntas non erìt, quam

voluntatem futuram ille prae«civerit?... Si enim necesee est ut velit [homo],

unde volet cum voluntas non erit?... Voluntas ergo erit, quia voluntatis est

praescius [Deus]. Nec voluntae esse poterit, si in potestate non erit. Ergo

et potesta tis est praescius. Non igitur per eius praescientiam mihi potestas

107
adimitur, quae propterea mihi certior aderii, quia ille cuius praescientia noa

fallitur adfuturam mihi esse piaescivit ». 9 (Evodio): « Nam et iuBtum Deum ne-

cesse est ut fateamur, et praescium. Sed scirevellem qua iustitìa puniat pecca-

ta, quae necesse est fieri; aut quomodo non sit necesse fieri quae futura esse

praescivit, aut quomodo non Creatori deputandum est quidquid in eius crea-

tura fieri neceeee est». 10: (Agost.) « Sicut itaque non sibi adversantur haec

duo, ut tu praescientia tua novene quod alius sua voluntate factuius est, ita

Deus neminem ud peccandum cogens praevidet tamen eoe qui propria volun-

tate peccabunt ». « CJur ergo non vindicet iustus, quae fieri non cogit prae-

scius? Sicut enim tu memoria tua non cogis facta e««>e quae praeterierunt.

sic Deus praescientia sua non cogit facienda quae futura sunt... Quorum autem

non est malus auctor, iustus est ultor »

(26) De Ub. arb. Ili, 12: « Quaprop'ter non te islud iam moveat, quod vitu-

perantur animae peccatrices, ut dicas in corde tuo melius fuisse si non essent.

In sui enim comparatione vituperantur, dum cogitatur quales essent, si pec-

care noludssent ».13: « Illud quoque moneo caveas, ne forte non dicas melius

fuisse ut non essent, sed dicas aMter fieri debuisse. Quidquid. enim tibi vera

ratione melius occurrerit, ecias fecisse Deum tamquam bonorum omnium

conditorem ». — 14: « Nam ita quidam cum ratione verissima videant melio-

rem esse creaturam quae quamvis habeat liberam voluntatem Deo tamen sem-

per infixa numquam peccaverit, intuentes peccata hominum, non ut peccare

desinant, sed quia facti sunt dolent.. Non cllament, non euccenseant, quia

neque ipsos ideo coégit peccare, quia fecit, quibus potestatem utrum vellent

dedit... »; 15: « Nam neque ab iLa creatura quam praeecivit Deus non eolum

peccaturam, sed etiam in peccandi voluntate mansuram, abstinuit laigitatem


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bonitatis suae, ut eam non conderet. Sicut enim melior est vel aberrane equus,

quam lapis propterea non aberrane quia proprio motu et sensu caret, ita eet

excellentior creatura quae libera voluntate peccai, quam quae propterea non

peccait, quia non habet libéram voluntatem »; 18: « Ex ilio igitur quod etiam

ingratus faabes quod vis, Creatone lauda bonitatem; ex .ilio autem quod pateris

ingratus quod non vitì, Ordilnatoris lauda iUstitiami». 21: « Omnia tamen

eo ipso quo sunt, iure laudanda sunt; quia eo ipso quo eunt, bona sunt.

Quanto enim ampliue esse amaveris, tanto amplius vitam aeternaìn desidera.

bis»; 26: A chi dicesse che, allora, alla perfezione deiL'univenso sono neces-

sari anche i peccati « respondetur non ipsa peccata vel ipsam miseriam

perfectioni universitatis esse necessaria, sed animas in quantum animae sunt:

quae si velint peccant, si peccaverint, miserae, fiunt ». —• 27 « Hanc tamen cor-

ruptibilem carnem etiam peccatrix anima sic ornat ut ei speciem decentissi-

mam praebeat, motumque vitalem. Habitatìoni ergo caelesti talis anima non

congruit per peccatum; terrestri autem congruit per supplicium ». — 30: II

Verbo « illos (scil.: angelos) intrinsecus pascens per id quod Deus esjt nos

lorinsecue admonens per id quod nos sumus » è cibo di ogni anima razionale;

ma quella umana è •: ad hoc dìmin,utionds redacta, ut per coniectuxas rerum

v;sibilium ad intelligenda visibilia nitéretur », perciò esso « cibus rationalis

creaturae factus est visibilis non commutatione naturae suae, sed habitu

nostrae, ut visibilia sectantes ad se invisibilem revocaret ». Prima di Cristo,

il demonio dominava tutto il genere umano (31) « tamquam suae arboris fru-

ctus, prava quidem haibendi cupiditate, sed tsmen non iniquo possidendi iure

(questo passo merita forse di essere segnalato ai giuristi, che studiano l'evo-

108
luzione del diritto romano nell'età post-costantmiana e le influenze cristiane:

cfr. p. es. E. Alberbario, li possesso romano, in Bull. Istit. Dir. Rom., XL, 1932,

p. 5 segg.; anche: '( malitiosa quidem nocendi cupidilate, sed tamen iure

aequissimo)... Ita faclum est ut neque diabolo per vim, eriperetur homo, quem

non ipse vi, sed persuasione caperat; et qui iuste plus humiliatus est, ut

servirei cui ad maJum consenserat, iuste per eum coi ad bonum consensit li-

beraretur; quia minus iste (l'uomo) in consentiendo, quam ille in male sua-

dando peccaverat ». — 37: Òmnis autem natura rationa/lis, cuna libero volun.

tatis arbitrio condita, si manet in fruendo summo atque incommutabili bono,

procul dubio laudanda est: et omnis quae tendit ut maneat, etiam ipsa lau-

danda est;omr.is autem quae non in eo manet et non vult agere ut ma-

neat, in quantum ibi non est et in quantum non id agit ut ibi sit, vituperanda

est. Si ergo laudatur rationalis creatura quae est facta. nemo dubitai lau-

dandum esse qui fecit; eri si vituperatur, nemo dubitat eius conditorem in

Jpea eiusi ivitupeiriatìone laudar^. Cum enim propterea vituperamue hanc,

quoniam summo et incommutabili bono, id est, Creatore suo fruì non vult,

iilum sine ulla dubitatone laudamus ». — 38: « Nullius autem vituperatur vi-

tium, nisd cuius natura laudatur». — 41: « Vitium autem... non aliunde malum

est, nisi quia naturae adversatur eius ipsius rei cuius est vitium ». — 43: « Si

cogit verissima ratio. sicuti cogit, ut et vituperentur peccata et quidquid recte

viluperatur ideo vituperetur quod non est ita ut esse debuit, quaere quid

debeat natura peccatrix et invenies recle factum, quaere cui debeat, et inve-

nies Deum. A quo enim accepit posse recte facere cum velit, ab eo accepit ut

sit etiam misera si non lecerli, et beata si tecerit ». —"Ì4: «Quia enim nemo

superat leges omnipotentis Creatoris, non sinitur anima non reddere debitum.
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Aut enim reddit bene utendo quod 'accepit, aut reddit amittendo quo bene

uti noiuit. Itaque si non reddet faciendo iustitiam, reddet patiendo miseriam...

si non reddil faciendo quod debet, reddet patiendo quod debet ». — 45: Deus

autem nulli debel aliquid, quia omnia gratuito praestat. Et si quisquam dicel

ab ilio aliquid deberi meritis suis, certe, ut esset non ei debebatur. Non enim

erait cui deberelur. Et tamen, quod merilum est converti ad eum ex q\io es,

ni ex ipso etiam meliar sis, ex quo habes ut sis?... Omnia ergo illi debent,

primo quidquid sunt, in quantum naturae sunt; deinde quidquid melius pos-

mt esse, si velint, quaecumque àcceperunt ut velini et quidquid oportet eaa

esse. Ex eo igilur quod non accepit, nullus reus est; ex eo vero quod non

facit quod debet, iuste reus esl. Debet autem, si accepit et voluntatem liberani

et sufficientissimam facullatem >•.. •— 46: « Usque adeo autem dumi non facil

quisque quod debet, nulla culpa est condiloris... Si enim hoc debei quisque

quod accepit, el si homo factus est, ut necessario peccet, hoc debet ul peccet.

Cum ergo peccai, quod debet facit. Quod si scelus est dicere, neminem na-

tura sua cogit ut peccet. Sed nec aliena. Non enim quisquis dum id quod non

vult patitur peccat... Quod si neque sua neque aliena natura quis peccare

cogitur, restat ut propria voluntate peccelur. Quod si tribuere volueris Con-

ditori, peccantem purgabis, qui nihil praeter sui Conditoris instituta commisit,

qui si recle defendilur, non peccavit; non est ergo quod tribua« Conditori.

Laudèmus ergo Conditorem, si potest defendi peccator, laudemus si non potest.

Si enim iuste defenditur, non est peccatori lauda autem Conditorem. Si autem

defendi non potest, in tantum peccator est, in quantum se a Creatore avertiti

lauda ergo Creatorem ».

109
(27) Si sa che su taie questione Agostino respingendo tanto la dottrina

manichea guanto quella di Origene si mantenne a lungo incerto tra le varie

opinioni inclinaudo poi sempre più verso il Iraduciamsmo di Tertulliano, come

è ammesso generalmente dagl'interpreti del suo pensiero, tra cui Gilson

\Intrcrduction a l'elude de Si. Augwtin, Parie 1929, p. 65). Curioso che il Gil-

son non ricordi tra le fonti agostiniane né De Genesi ad liti. X, né l'Epistola

T.XC; né sembra distinguere bene tra l'Ep. CXI De anima et eius origine

i il trattato in 4 libri contro Vincenzo Vittore ,il cui titolo esatto è (cfr.

C.S.E.L., 60) è De natura et origine animae.

(28) De Ut. uri). ///, 47 (Evodio): Sed taaten scire vehem, si fieri potest,

quate illa natura non peccai, quam non peccaturam praescivit Deus, et quare

ista peccet quae ab ilio peccatura praevisa est. Non enim iam pulo, ipsa Dei

praescientia vel isiam peccare vel illam non peccare cogi... Sed nolo mini

respondeatur "voluntas"; ego 'enim causam quaero ipsius voluntatis ». —

48: (Agostino) « avariila cupiditas est; cupiditas porro improba voluntas eSt.

Ergo improba voluntas malorum omnium causa est». — 49: «Sed quae tan-

dem esse poterli ante voluntatem causa voluntatis? Aut enim et ipsa volun-

ias est, et a radice ista voluntatis non recedilur; aut non est voiuntas et

peccatum nullum habel. Aut igitur ipsa voluntas est prima causa peccandi

aut nullum peccatum est prima causa peccandi. Nec est cui recte impuletur

peccatum nisi peccami; non est ergo cui recle imputetur, nisi volenti... Deinde,

quaecumque illa causa esl voluntatis, aut iusla profeclo est, aut industa. Si

iusta, quisquis ei obtemper,averit non peccabiti si iniusta, non ei obtemperet

et non peccabit » (cfr. 50). — 51: «Et tamen quaedam etìam per ignorantiam

facla improbantur et corrigenda iudicantur {/ Tim. I, 13; Ps. XXIV, 7; Rom.


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VII, 19; Ga7. V, 17). Sed haec omnia hominum sunt, ex illa mortis damnalione

venientium; nam si non est isla poena hominis, sed natura, nulla ista pec-

cata sunt ». L'uomo ora « non est bonus nec habel in potestate ut bonus sii,

sive non videndo qualis esse debeat, sive videndo el non valendo esse, qna-

lem debere esse se videi: poenam isiam esse quis dubitet? Omnis autem

poena si iusta est, peccali poena est, et supplicium nominatur; si autem iniusta

est poena, quoniam poenam esse nemo ambigit, iniuste aliquo dominante no-

mini imposita est. Porro quia de omndpotentia Dei et iuslilia dubitare de-

mentis est, iusta haec poena est, et pro peccato aliquo pendilur. Non enim

quisquam iniuslus dominator aut subripere hominem poluit, velul ignoranti

Deo, aut extorquere invitd, tamquam invalidiori, vel terrendo vel confligendo,

ut hominem industa poena cruciare!. Relinquitur er.go, ut haec iusta poena

de damnatione hominis veniat ». — 52: « lila esl enim peccati poena iustìssi-

ma, ut amittat quisque quo bene uti noluit, cum sine ulla posset difficultate,

si vellet... Nam sunt re vera omni peocanti animae duo ista poenalia, ìgnoran-

tia et difficultas. Ex ignorantia dehonestat error, ex difficultate cruciatus

affligit. Sed approbare falsa pro veris, ut erret invitus, et resistente atque

torquente dolore carnalis vinculi non posse a libidinosis operibus temperare

non est natura instituti hominis sed poena damnati. Cum autem de libera

voluntate recle facieodi loquimur, de illa scdlicet in quo homo faclus est

loquimur ». — 53: Coloro che ritengono ingiusta la propria condanna « recte

fortasse quererentur si erroris et libidini^ nullus hominum victor exsisteret;

cum vero ubique sdt praesens qui multis modis per creaturam sibi Domino

servientem aversum vocet, doceat credentem. consoletur sperantem, diligentem

110
adhortetur, conantem adiuvet, exaudial deprecantem. Non tifo i deputatur ad

culpam, quod invitus ignoras, sed quod negligis quaerere quod ignoras; neque

illud quod vulnerata membra non colligis, sed quod volentem sanare contem-

nis: ista tua propria peccata sunt ». — 54: v Nam iilud quod ignorans quisque

non recte facit et quod recte volens facere non potest, ideo dicuntur peccata,

quia de peccato ilio liberae voiuntatìs originem ducunt. Illud enim praecedens

meruit ista sequentia... Non solum peccatum illud dicimus, quod proprie voca-

tur peccatum — libera enim voluntate et a sciente commi tti tur — sed etiam

illud quod iam de huius supplicio consequatur necesse est ». — 56: « Noa

erit nascentibus animis ignoiantia et difficultas supplicium peccati, sed prt>-

ficiendi admonitio et perfectionis exordium... Quamquam enim in ignorantia

et difficultate nata sit (scil.: anima), non tamen ad permaneiudum in eo quod

nata est aliqua necessitate comprimitur ». — 64: « Non enim quod naturaliter

nescit et naturaliter non potest, hoc animae deputatur in reatum, sed quod

scire non studuit et quod dignam facilitati comparandae ad recte faciendum

operam non dedit ». — 65: « Creator vero eius (scit.: animae) ubique laudatur,

vel quod eam ab ipsds exordiis ad sturami boni capacitatem inchoaverit, vel

quod eius profectum adiuvet, vel quod impleat proficientem atque perficiait,

vel quod peccantem, id est aut ab initiis suis. seee ad perfectionem attollere

lecusantem aut iam ex profectu aliquo relabentem, iustissima damnatione pro

meritis ordinat... Quod ergo ignorat quid eibi agendum sit, ex eo est quod

nondum accepit; sed hoc quoque accipiet, si hoc quod accepit bene usa fuerit.

Accepit autem ut pie et diligenter quaerat si volet. Et quod agnoscene quid

sibi agendum sit, non continuo valet implere, hoc quoque nondum accepit:

praecessit enim quaedam pars eius sublimior ad sentiendum quod recte faciat
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bonum, sed quaedam tardior atque carnalis non consequenter in sententiam

(iuoitur; ut ex ipsa difficultate admoneatur eundem implorare adiutorem per-

fectionis suae, quem inchoationis sentii auctorem, ut ex hoc ei fiat carior,

dum non suis viribus, sed cuius bonitate habet ut sit, eius misericordia

sublevatur ut beata eit ».

(29) Ritengo che P. Alfaric (o. c., p. 412 eg.) avesse ragione di considerare

il terzo libro De libero arbitrio come non redatto di un solo getto. I cc. 13-17,

p. es. hanno tutta l'aria d'e&sere alquanto posteriori ad altri; lo stesso po-

trebbe dirsi dei cc. 50-62 (o forse anche 47-62); di questi ultimi sembrano

essere contemporanei i cc. 63-76.

Ma per me contano le idee manifestate nelle parti più importanti del

libro, e tali sono certo i cc. 31 e 51 sgg., che senza dubbio appartengono al

tempo in cui Agostino si sforzava di approfondire il senso delle epistole

Ai Romani e Ai Calati. Anche se alcune parti dello stesso libro fossero

etate redatte in precedenza, è evidente che le idee in esse esposte corrispon-

devano ancora al pensiero dell'autore al momento della pubblicazione.

(30) Jbid., 66: « Non enim metuendum est, ne vita esse potuerit media

quaedam inter recte factum atque peccaitum et sententia iudicìs media esce

non poesit inter praemium atque suppJicium ». — 67: « Quo loco etiam il-

lud perscrutar! homines solent, saciamentum baptismi Christi quid parvulis

prosit cum eo accepto plerumque monuntur priusquam ex eo quidquam co-

gnoscere potuerint. Qua in re sati« pie recteque creditur prodesse pannilo

eorum fidem a quibus consecrandus offertur. Et hoc Ecclesiae commendai salu-

berrima auctoritas, ut ex eo quisque sentiat quid sibi prosit fides sua, quando

111
in akorum quoque benefiaium, qui propriam nondum habent, potest aliena

commodari » ctr. De quant an., 80: « Cum vero etiam puerorum infantium

consecrationes quantum prosint obscurìssima quaestio est, nonnihil tamen

prodesse credendum est.

(31) De ìib. arb. IIi, 60. Agostino considera qui soltanto quegli eretici che

o non hanno un concetto esatto della trascendenza di Dio (cioè, i manichei) o

non intendono correttamente il dogma trinitario.

(32) Epistoìae ad Galalas expositio, 3: Giatia Dei est qua nobis donantur

peccata ut reconciliemur Deo; pax autem, qua reconciaamur Deo » (a I, 3); 16:

« Destruxit autem superbicim gJonantem de operibus Legis, quae deetrui et

deberet et posset, ne gratia fidei videretur non necessaria, si opera Legis etiam

sine illa iustificare crederentur » (a II, 17); 17: « Mortuum autem se Legi dicit,

ut iamsub Lege non esset, sed tamen per Legem; sive quia ludaeus erat et" tam_

quam paedagogum Legem acceperat, sicut postea manifestai; hoc autem agìtur

per paedagogum ut non sit necessarius paedagogus..., sive per Legem spi-

ritualiter intellectam Legi morluus est, ne sub ea carnaliter viveret. Nam hoc

modo per Legem Legi ut moreretur volebat, cum eis paulo post ait... ut per

eandam Legem spiritualiter iniellectam morerentur carnalibus observationibus

.Legis... Sub Lege autem vivit, in quantum quisque peocator est, id est in

quantum a vetere homine non est mutatus; sua enim. vita vivit, et ideo Lex

supra illum est... Nam iusto Lex posita non est (/ Tim. I, 9), id est imposita.

ut supra illum sit; in illa est, potius quam sub illa; quia non sua vita vivit,

cui coercendae Lex imponitur. Ut enim sic dicani. ipsa quodammodo Lege vivit

qui cvun dilectione iustitiae iuste vivit, non proprio ac transitorio, sed com-

muni ac stabiti gaudens bono (cfr.De lib. arb. II, 19: « manifestimi est ergo ea
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quae non commutamus et tamen sentimus corporis sensibus et non pertinere

ad naturam sensuum nostrorum et propterea magis nobis esse communia quia

in nostrum et quasi privatum non vertuntur atque mutantur... Proprium ergo

et quasi privatum intelligendum est quod unicuique nostrum soli est, et quod

in se solus sentit, quod ad suam naturam proprie pertinet; commune autem

et quasi publicum, quod ab omnibus senlientibus nulla sui corruptione atque

commutatone sentitur »). Et ideo Paulo non erat Lex imponenda, qui dicit

« vivo autem » ete. " ete. Quis ergo audeat Christo Legem imponere, qui vivit in

Paulo?» (a II, 19-21); 46: « Quod autem ait "caro concupiecit " ete. putant hic

homines liberum voluntatis arbitrium negare apostolum nos habere nec intel-

ligunt hoc eis dictum si gratiam fidei susceptam tenere nolunt, per quam solam

poesunt spiritu ambulare et concupiscentias cainis non perficere; si ergo nolunt

eam tenere, non poterunt ea quae volunt facere. Volunt enim operari opera

iustitiae quae sunt in Lege sed vincuntur concupiscentia carnis, quam se-

quendo deserunt graliam fidei... Cum enim charitas Legem impleat. prudentia

vero carnis commoda temporalia consectando spiritali charitati adversetur, quo-

modo poteet legi Dei esse subieota, id est libenter atque obsequenter implere

iustitiam, eique non advsrsari, quando etiam dum conatur, vincatur necesse

éet, ubi invenen! maius cornmodum temporale de miquitate se posse assequi,

quam si custodiat aequitatem? Sicut enim prima nominis vita est ante Legem,

cum nulla nequitia et malitia prohibetur... sic secunda est sub Lege ante gra-

tiam, quando prohibetur quidem et conatur a peccato abstinere se, sed vincitur,

quia nondum iustitiam propter Deum et propter ipsam iustitiam diligit... Tertia

est vita sub gratia, quando nihil tempo-ralis commodi iustitiae praeponitur:

112
quod nisi charitate spirituali, quam Dominus txemplo suo docuit et gratia do-

navit, fieri non potest. In hac enim vita etiamsi existant desideria carnis de

mortasiate corporis, tamen mentem ad consensionem peccati non subiugant.

Ita iam non regnai peccatiim in nostro mortali corpore, quamvis non possit

Disi inhatwtare in eo, quamdiu mortale corpus est. Primo enim non regnai, cum

mente servimus legi Dei, quamvis carne legi peccati, id est poenali consuetu-

dini, cum ex iL'a existunt desideria, quibus tamen non obedimus; poslea vero

ex omni parte exstinguilur... (a V, 17; si osservi come Agostino qui finisca per

commentare Romani): 48: « Agunt autem haec (scil.: opera carnis) qui cupidi-

ta tibus carnalibus consentientes facienda esse decernunt, etiamsi ad implen-

dum facultas non datur. Caeterum, qui languntur huiusmodi motibus et immo-

biles in maiore charitate con&istunt, non solum non eis exhibentes membra

corporis ad male operaradum, eed neque nutu consensionis ad exhibendum con.

. sentientes; non haec agunt et ideo regnum Dei possidebunt. Non enim iam. re-

gBat peccatum in eorum mortali corpore.., quamvis habilet in eorum mor-

tali corpore peccatum, nondum extincto impetu consuetudinis naturaiis, qua

mortaliter nati sumus et propriae vdlae nostrae, cum et nos ipsi peccando

auximus quod ab origine peccati humani demnatdonisque trahebamus. Allud

est enim non peccare, aliud non habere peccatur. Nam in quo peccatum

non regnat, non peccai, id est non obedit deeideriis eius; in quo autem non

existunt omnino i sta desideria, non solum non peccai, sed etiam non habet

peccatum. Quod etiam sd ex multìs partibus in ista vita possit effici, ex omni

tamen parie nominisi in resurreclione carnis alque commulatione sperandum

esl ». (a V, 19-21). 49: « Nam in quibiltì haec regnant, ipsi Lege legitime utuntur

quia non eel illis Lex ad coercendum posita: maior enim et praepollentior de-
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lectatio eorum iuetilia est... Regnant ergo spirituales isli fructus in homine, in

quo peccata non regnant. Kegnant autem ista bona, si tantum deleclant, ut ipca

teneant. animum in tentationibus, ne in peccati consensionem ruat. Quod

enim amplius nos deleotat, secunidum id operemur necesse est: ut, verbi gratia,

occurrit fo'rma speciosae feminae et movet ad deleclationem fornicationis, sed

si plus delectat -pulcriludo iila intima el sincera species caslitatis, per gratiam

quae est dn fide Christi, secundum hanc vivimus el secundum hanc operamur;

ut, non regnante in nobis peccato ad oboedieiidum desideriis eius, sed regnante

iuslitia per charitatem cum magna delectatione faciamus quidquid in ea Deo

piacere cognoscdmus. Quod autem de castitate el de fornicatione dixi, hoc de

celcris inteiligi volui » (a V, 22-23) 54: «Manifestum esl certe secundum id nos

vivere quod sedati fuerimus; sectabimur autem quod dilexerimuG. Itaque si ex

adverso existant duo, praeceptum iustitdae el consueludo camelis, et utrumque

Jiligilur, id sectabimur quod amplius dilexerimus; sd tantumdem utrumque

diligitur, nihdl horum sectabimur, sed aut timore aut inviti trahemur in alteru.

tram partem, aul si utrumque aequaliler etiam timemus, in pericuilo eine dubio

remanebimus, fluctu dilectionis et timoris alternante quassati » (a V, 25). 50:

« Cum carnis et spiritus nominibus a pcena peccati usque ad gratiam Domini

atque iustitiam nos converti oportere praadicerel (scil.: Apostolus), ne dese-

rendo gratiam temporalem qua pro nobis Dominus mortuus est, non pervenia-

mus ad aeternam quietem, in qua pro nobis Dominus vivit, neque initell'igendo

poanam temiporalsm in qua nos Dominus mortasiate carnis edomare dignatus

est, in poenam semipilernam incidamus, quae perseverano adversum Domanum

superbiae praeparala est ».

113
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V

Ne\\'Expositio Epistolae ad Calatas un altro punto colpisce la

nostra attenzione, ed è l'interpretazione del passo II, 11-16, dop-

piamente celebre, per se stesso e nella storia dell'esegesi, il quale

racconta il dissidio tra Paolo e Pietro in Antiochia. Agostino ac-

cetta senza discussione la realtà dell'episodio e nell'attegiamento di

Pietro, sottomessosi al rimprovero di Paolo a lui inferiore, ravvisa

un insigne esempio di quell'umiltà che tutto il commento si pro-

pone d'inculcare. Ma talune frasi hanno un'intonazione polemica,

e lasciano chiaramente divedere che Agostino contrappone qui la

sua esegesi a quella di un altro scrittore, secondo il quale Paolo

avrebbe fatto a Pietro un rimprovero simulato; che se la ripren-

sione da lui rivolta a Pietro fosse stata vera, avrebbe dovuto svol-

gersi in segreto. Anzi, Agostino sembra preoccuparsi di rispondere

ad argomentazioni ricavate dalla condotta di S. Paolo in altre cir-

costanze; e al modo di comportarsi di lui, ispirato dalla carità,

contrappone quello di San Pietro, suggerito da motivi meno

plausibili (1).

La stessa interpretazione del passo indicato, con la stessa into-

nazione polemica, anzi più vivace e precisa, e con la medesima

preoccupazione di confutare argomenti ricavati dall'azione di San

Paolo (2) si ritrova nell'opera composta poco o immediatamente

dopo \'Expositio Epistolae ad Calatas, un trattatello morale, la cui

presenza in mezzo a una serie di opere esegetiche ci sorprende

alquanto: il De mendacio (3). Qui Agostino si pone il duplice


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problema, di definire esattamente la menzogna e di stabilire se

sia vero che il mentire sia in qualche caso lecito e utile o addirittura

115
doveroso (4). La prima questione è trattata piuttosto rapidamente;

alla seconda è dedicato quasi tutto il libro, di cui forma il tema

principale. Vi sono, dice Agostino, alcuni i quali credono che la

bugia sia talvolta buona, e citano a prova esempi tratti dall'Antico

Testamento (Sara, Esau, le levatrici degli Ebrei) ; ma questi esempi

•non provano nulla, perché ciò che è scritto nell'Antico Testamento,

anche se è realmente accaduto, dev'essere inteso in senso figurato.

Invece nel Nuovo Testamento, eccettuate le parabole, non si tro-

vano né racconti allegorici né esempi che autorizzino la menzogna.

Quindi è molto più plausibile l'opinione di coloro che sono contrari

a ogni specie di bugia (5). In seguito, Agostino passa in rassegna-

e discute minutamente tutti i casi in cui il mentire può sembrare

lecito. Non lo seguiremo in questa disamina : la cui conclusione è

che è sempre meglio dire il vero, anche quando la menzogna sia

detta per evitare un danno grave ; giacché nessun male è peggiore

che la corruzione dell'anima. Sarà lecito, egli osserva, commettere

un peccato affine di evitarne un altro, allorché siano in pericolo due

beni entrambi spirituali ; ma allora non è sempre il caso di parlare

di peccato. Quali sono del resto i beni da salvare ad ogni costo?

La pudicitia corporis in realtà non si perde, ove manchi il con-

senso; la castitas animi consiste nella volontà buona e nell'amore del

vero bene, cioè di quello rivelato dalla Verità divina ; la veritas doc-

trinae religionis atque pietatis non è violata se non, appunto, dalla

menzogna. Quindi noi siamo sempre liberi della scelta e poiché la

stessa verità divina c'insegna a preferire la perfetta fede anche alla


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castità del corpo (la quale è nulla senza quella dell'anima ; ed essa

a sua volta consiste in un amore dei diversi beni rispettoso della

loro gerarchia), sappiamo che nessuna menzogna è lecita e che

vano è l'addurre a nostra giustificazione un presunto stato di ne-

cessità. Mentire o dire il vero dipende da noi, come il preferire i

beni inferiori e materiali o quelli spirituali e superiori (6).

Appare evidente che anche in quest'opera Agostino mira a

combattere i manichei, con la riaffermazione sia del libero arbitrio,

sia dell'accordo esistente tra le due parti della Bibbia, quando per

l'Antico Testamento — o almeno per quelle parti di esso che ap-

paiono scandalose — si sappia ricorrere all'interpretazione alle-

gorica. Ma è anche chiaro che Agostino non ha scritto il De men-

dario principalmente con questo scopo e altresì che il problema del-

116
I'« officiosum mendacium » non gli si è presentato che in conse-

guenza di un fatto concreto, quale non può essere altro che quella

interpretazione dell'incidente di Antiochia, alla quale egli si oppone

con tanta forza. E che si trattasse di una questione importante per

Agostino — come lo fu del resto per parecchi altri — ci punto da

indurlo a scrivere un intero libro, si spiega allorché si consideri

ch'egli si trovava ad opporre la sua opinione a quella del più illustre

esegeta del suo tempo, celebre anche come polemista : San Giro-

lamo (7). E infatti, questo dell'interpretazione del contrasto tra

Pietro e Paolo in Antiochia è uno degli argomenti della celebre

controversia epistolare, tra i due grandi Padri latini (8), in cui Ago-

stino osserva appunto che l'esegesi di Gerolamo mette in pericolo

l'autorità della Bibbia. I manichei sostengono già che i passi del

Nuovo Testamento a loro contrari sono falsificati e a mala pena

li possiamo confutare mettendo loro sott'occhio codici antichi e il

testo greco : che avverrà se noi stessi riconosceremo che gli apo-

stoli hanno scritto cose non vere? (9). Ma Agostino sembra an-

nunciare a Gerolamo uno scritto speciale intorno all'interpretazione

dei passi biblici addotti a sostegno della menzogna « doverosa » :

certamente il De mendacio. E sono questi accenni che possono aver

contribuito a far correre la voce che Agostino avesse scritto un'o-

pera polemica contro Girolamo : voci che giunsero anche a Betlem-

me e a Ippona e che Agostino, appena le conobbe, si affrettò a

smentire (10). Anzi, queste voci, e il rispetto per il solitario di Be-

tlemme, contribuirono a indurre Agostino a tenere il suo scritto


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per sé. Veramente, nelle Retractationes (11) dice che esso gli parve

obscurus et anfractuosus et omnino molestus, tanto che pensò di

distruggerlo e che per questo non lo pubblicò, tanto più, in quanto

aveva scritto un'altra opera sullo stesso argomento, il Contra men-

dacium. Però non lo distrusse. Anzi, nel redigere le Retractationes,

Agostino riconosce che il De mendacio, nonostante i suoi difetti, e

ancora utile, anzi necessario, perché contiene cose che non si tro-

vano nel Contra mendacium : del che, dice, si rese conto nel

rileggere tutte le sue opere. Ora, le Retractationes sono all'incirca

del 427, ma il progetto di scriverle alquanto anteriore (12); il Contra

mendacium è del 419 o 420. Dopo averlo scritto, Agostino man-

tenne la decisione di lasciare inedito il De mendacio, ma poi invece

lo pubblicò, tra il 420 e il 427, anno nel quale ne parla come di

117
opera già in circolazione da qualche tempo. Il che significa che la

pubblicazione avvenne solo dopo che Agostino ebbe notizia della

morte di S. Girolamo (30 settembre 420). Né d'altronde si vede per

qual ragione, fuori di quella di non urtare la suscettibilità di Giro-

lamo (13) e di non riaccendere la polemica, Agostino avrebbe man-

tenuto inedito per più di 25 anni questo suo libretto, senza distrug-

gerlo né alterarlo. E' davvero paradossale, che lo scrittore contrario

alla menzogna in tutte le sue forme, sia stato poi, nelle Retracta-

tiones, per lo meno reticente circa le vere ragioni per cui non pub-

blicò il De mendacio : ma è reticenza che costituisce un esempio

di carità.

**

Ci troviamo così di fronte ad un'altra serie di problemi.

Infatti, noi abbiamo veduto Agostino incominciare a informarsi degli

scrittori ecclesiastici e prender loro a prestito argomenti e me-

todi (14). Già in base a questo fatto si pone il problema delle fonti

delle opere esegetiche di lui ; di fronte alla dichiarazione esplicita

ch'egli ha voluto leggere il commento di S. Girolamo all'epistola

Ai Calati, non è possibile sottrarci all'obbligo di ricercare se e fino

a che punto egli abbia utilizzato non soltanto quel commento, ma

anche altri dello stesso S. Girolamo, nonché quelli di altri esegeti.

Per quanto è dato stabilire attraverso una rilevazione parziale (15),

il commento a Calati di Girolamo fu letto e utilizzato da Agostino

non solo a proposito dell'« incidente di Antiochia » ma anche di altri

punti (16).
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Del pari sembra si possa affermare con relativa sicurezza che

Agostino conobbe e in qualche punto ebbe presente il commento di

Mario Vittorino (17). Eppure, una lettura seguita di tutta l'Expositio

agostiniana, condotta tenendo presenti anche i commenti dei pre-

decessori, fa risaltare in piena luce l'indipendenza di Agostino chi

anche là dove ha aderito alle spiegazioni altrui, accoglie bensì il

loro pensiero, ma si mantiene originale. D'altronde, \'Expositio stes-

sa ha tutta l'aria di derivare da un commento orale, anzi si direbbe

qua e là, occasionale e forse addirittura improvvisato : che, a parte

qualche luogo in cui Agostino si addentra in discussioni di alta teo-

logia, l'esegesi procede generalmente piana e semplice, senza le

118
osservazioni filologiche di cui si arricchisce quasi ad ogni passo il

commento geronimiano, e lasciando invece trasparire qua e là la

persona dell'ecclesiastico e il tono del sermone (18).

Un problema ben più grave, anche per le discussioni a cui ha

dato luogo, è presentato dall'Ambrosiastro, il quale commenta l'in-

cidente di Antiochia nello stesso senso di Agostino. Ora questi, po-

lemizzando con Girolamo non solo contesta l'autorità degli esegeti

da lui addotti a sostegno della propria tesi, ma contrappone a co-

storo S. C ipriano e S. Ambrogh (19). Il passo del primo, al quale

evidentemente Apostino si rifensce; è stato ritrovato; non così quel-

lo del secondo. Perciò si presenta spontanea l'ipotesi che non di

S. Ambrogio si trattasse, bensì dell'Ambrosiastro : al quale rimanda

infatti il Goldbacher nell'apparato della sua edizione, indicando il

commento a S. Paolo ; mentre il Baxter costruiva un'ipotesi alquanto

più complicata, tenendo conto allresì di quanto era stato asseri'.o da

aitri circa la conoscenza dell'Ambrosiestrc da parte di Agostino,

a proposito della lettera Ai Romani (20). Ma il problema è reso al-

quanto più complicato dal fatto che del dissidio tra Pietro e Paolo

l'Ambrosiastro si occupa non soltanto nel commento a Calati, ma

altresì in una delle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti.

Conviene prima di tutto ricordare che l'epistola 82 di Agostino

è generalmente assegnata al 405 circa, perciò di un diecina d'anni.

o più, posteriore all'inizio della polemica e ali'Expositio; e che poco

prima del passo riferito Agostino ricorda un'altra volta Ambrogio,

ed esattamente, benché in maniera affatto generica (21). Ma soprat-


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tutto colpisce il fatto che, nel suo Tractatus a Calati l'Ambrosiastro

esamina gli argomenti di Girolamo, ma in particolare quello tratto

dalla circoncisione di Timoteo (22), mentre Agostino si ferma — e

solo per un istante — a confutare l'altro, che cioè se Paolo avesse

voluto rimproverare Pietro davvero e non soltanto quasi per uno

stratagemma, sarebbe ricorso alla riprensione segreta. Quindi, se en-

trambi concordano nell'opporsi all'interpretazione accolta e difesa

da Girolamo, questo accordo è, direi, puramente negativo, in quanto,

pur essendo loro comune il proposito di respingere llinterpretazio-

ne di quello, la confutano in maniera diversa. E' vero che dobbiamo

tener conto anche di quel desiderio di indipendenza, che abbiamo os-

servato in Agostino anche quando utilizza scritti di predecessori.

Ma mi preme aggiungere subito, che, per quanto ho potuto vedere,

119
non s'incontrano nell'Expositio agostiniana altri punti di contatto

con i Tractatus del misterioso contemporaneo di papa Damaso. Alla

circoncisione di Timoteo, Agostino accenna invece nel De mendacio

e più ampiamente nel Contra Faustum e nella ricordata epistola

82 (23). Ora, si comprende benissimo che Agostino, nel commento

a Calati si contentasse di respingere sommariamente l'interpreta-

zione altrui per sostenere la propria, indicando solo l'argomento che

gli pareva perentorio ; mentre poi, nella polemica diretta, doveva

prendere in considerazione tutte le ragioni dell'avversario, che non

aveva certo bisogno di apprendere dall'Ambrosiastro. Il che non to-

glie che Agostino abbia ferse potuto conoscere anche il Tractatus in

Calatas quando scriveva il Contra Faustum. Ma quello che importa

stabilire ai fini del nostro studio, non è tanto se Agostino abbia cono-

sciuto in un'epoca qualsiasi questo scritto dell'Ambrosiastro, bensì

se lo conoscesse nel momento particolare in cui redigeva l'Expositio.

E resta il fatto della nessuna somiglianza tra questa e il Tractatus

Ma l'Ambrosiastro si occupa del medesimo argomento anche

in una delle Questiones : precisamente la LX dell'Appendice nell'ed.

Scuter. In essa, il problema è posto negli stessi termini di Girola-

mo : come mai poteva davvero rimproverare Pietro quello stesso

Paolo il quale, circoncidendo Timoteo, s'era comportato precisamen-

te allo stesso modo di Pietro? E la risposta è identica a quella data

nel Tractatus : se Timoteo, nato di madre giudea, fosse venuto al

cristianesimo senza passare attraverso la Legge, ciò avrebbe dato

scaricalo a tutti i fedeli provenienti dal giudaismo. Ma non troviamo


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menzionati nella Quaestio (né, del resto, nel Tractatus) i cognati di

Timoteo, dei quali parla invece Agostino nella lettera a Girolamo (24).

Per contro la preoccupazione antimanichea da cui Agostino stesso

sembra essersi lasciato principalmente guidare nel combattere Giro-

lamo, è del tutto assente dai due scritti dell'Ambrosiastro. Quanto

alla relazione tra questi due, è da considerare che molte delle Quae-

stiones lasciano chiaramente intravedere il loro carattere di scritti

d'occasione : non sembra quindi inverosimile che la Quaestio LX

sia stata suggerita proprio dal desiderio di contrastare l'interpreta-

zione di Girolamo. Certo non polemizza con l'altro commento,

quello di Mario Vittorino, in cui non vi è traccia di tale spiegazio-

ne (25). Il fatto che detta quaestio, così come la qu. LII, su

Calati V, 17, manchi nella seconda edizione delle Quaestiones, si

120
spiegherebbe qualora si ammettesse che fossero entrambe ante-

riori al Tractatus in Calatas, in seguito al quale l'autore avrebbe

ritenuto superfluo ripubblicarle (26). Ma, concludendo, credo di

non poter rispondere affermativamente al quesito se sia la Quae-

stio sia il Tractatus fossero noti ad Agoslino nel momento in cui

componeva l'Expositio Epistolae ad Calatas.

***

Resta tuttavia da considerare, a proposito della conoscenza dei

Tractatus dell'Ambrosiastro da parte di Agostino e dell'influenza che

essi avrebbero esercitato su di lui, la serie degli scritti relativi alla

lettera Ai Romani. A tal fine non sarà inutile esaminare il pensiero

dell'Ambrosiastro, almeno quale risulta dal commento a Romani.

Incominciamo precisamente dal passo che, per essere citato dallo stes-

so Agostino, ha in certo modo dato origine alla discussione (27). Da

vero commentatore, l'Ambrosiastro segue fedelmente il testo ; e per

primo sottolinea il parallelismo tra l'unico Adamo e l'unico Cristo,

per cui mezzo soltanto il genere umano fu salvato, e che è uno in so-

stanza con Dio Padre. Quindi passa a commentare l'inciso in quo

omnes peccaverunt. Il pronome relativo, maschile, si riferisce evi-

dentemente a Adamo; quindi tutto il genere umano, discendente da

lui, è stato generato sub peccato e tutti gli uomini sono peccatori,

perché Adamo prevaricò e meritò la morte. Ma questa è solo la morte

corporale, cioè la separazione dell'anima dal corpo e non va confusa

con la « seconda morte », quella della Geenna, alla quale siamo bensì

sottoposti in conseguenza del peccato di Adamo, ma solo in quanto


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esso fornisce un'occasione ai peccati personali, che sono la causa del-

la condanna. Da tale seconda morte sono dunque esenti i giusti —

s'intende, quelli dell'Antico Testamento —, sebbene d'altra parte le

loro anime non potessero ancora salire al cielo, a causa appunto del-

la sentenza che ha colpito lo stesso Adamo (28). Vi sono dunque stati

sempre dei giusti, anche se pochi, o per lo meno uomini che non

hanno peccato allo stesso modo di Adamo. Giacché per l'Ambrosiasiro

il peccato fondamentale è l'idolatria e non diverso da essa è lo stes-

so peccato di Adamo, il quale pensò di poter diventare un dio. Nel

suo sforzo per intendere il valore e il significato della legge, egli s'i-

spira a questa considerazioie fondamentale : quello che conta è il rap-

porto che gli uomini hanno o non hanno saputo stabilire con Dio.

'

121
Prima della legge mosaica, esisteva già tra gli uomini la legge natu-

rale ma si riteneva ch'essa valesse soltanto a regolare i rapporti uma-

ni, e s'ignorava che Dio avrebbe giudicato le azioni di ciascuno. Ciò

divenne chiaro allorché fu promulgata la legge mosaica, ma gli uo-

mini avrebbero potuto e dovuto non ignorarlo ; senonché essi abban-

donarono Dio per venerare gli idoli, violando così la prima parte

della stessa legge di natura, che impone di onorare il Creatore e

non attribuire ad alcuna creatura la maestà e la gloria proprie di lui

solo. Così gli uomini peccavano, nella loro stolta illusione di rima-

nere impuniti, e se ne allietava Satana, sicuro che Dio gli avesse

abbandonato l'uomo in possesso, a causa di Adamo. Ma la morte

non regnava su tutti, perché non tutti peccarono « in somiglianza alla

prevaricazione di Adamo », poiché non tutti abbandonarono il Crea-

tore. Coloro che rimasero fedeli a Dio, peccarono anch'essi — per-

ché è impossibile non peccare — ma non contro Dio, quindi su questi

pochi la morte non regnò. Così il regno della morte cominciò ad es-

sere distrutto fra gli Ebrei, che conobbero Dio ; e oggi è distrutto

ogni giorno più fra tutti • i popoli, che in maggioranza si cambiano

da figli del demonio in figli di Dio. Che Dio stabilì di emendare per

mezzo di Cristo ciò che era stato violato per opera di Adamo (29).

Venuta la legge mosaica, si vide che Dio punisce le cattive azioni

degli uomini, ma questi dominati dall'antica consuetudine radicata in

loro, rimasero « carnali » e continuarono a fare ciò che la legge vieta ;

« dominati dal senso della carne », che impedisce di credere alle ve-

rità spirituali della fede, vissero nel peccato, schiavi di esso. Anzi il
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peccato — cioè il demonio — trasse maggior forza dal divieto e,

spingendo l'uomo a contaminarsi sempre più con peccaminosi pia-

ceri, rese ancora più saldo il proprio dominio. L'uomo è incapace,

senza il soccorso della misericordia divina, di ubbidire alla legge e

di resistere al nemico ; ha un corpo corrotto da un difetto dell'a-

nima ed è soggetto al peccato, in quanto il demonio può imporsi alla

sua volontà e dominarla. Il diavolo non aveva questo potere prima del

peccato di Adamo ; ma, dopo che questi ebbe dato ascolto al serpente,

il demonio ottenne il potere di sottomettere l'anima dell'uomo e si-

gnoreggiarla ; perché il corpo dell'uomo — creato tale che, essendo

unito all'anima, non era soggetto alla morte — divenne invece mor-

tale, soggetto a desideri inferiori che si comunicano all'anima e le

sono come un peso opprimente. Ma sin dall'inizio Dio volle pre-

122
disporre un modo di riparare al peccato di Adamo e alle sue conse-

guenze : onde alla legge naturale è subentrata la Legge mosaica e a

questa quella della fede e della grazia. La grazia di Dio, concessa

mediante Cristo,, ha liberato l'uomo dalla seconda morte e dal peccato

rendendolo così capace di servire con l'anima la Legge di Dio, ben-

chè la carne serva ancora la legge del peccato, cioè del diavolo, che

attraverso la carne a lui soggetta presenta ancora all'anima le sue

tentazioni malvage. Ma quando si dice « Legge di Dio » si intendono

tanto la Legge mosaica, esclusa la parte cerimoniale, quanto la ?ra-

zia. Ora, in virtù di questa, l'uomo, tornato alla consuetudine buona e

con l'aiuto dello Spirito Santo, è in grado di resistere alle tentazioni e

al nemico, mentre il corpo vi è ancora soggetto. Ma il corpo non po-

teva essere restituito al suo stato primitivo di immortalità, ostandovi

la sentenza emanata da Dio su Adamo. Pur rispettando la santità

della cosa giudicata, fu trovato dunque un rimedio, che rendesse al-

l'uomo la sua primitiva salute spirituale. In altri termini, all'uomo già

reso incapace di resistere alle tentazioni, è stato restituito pienamente

il libero arbitrio (30).

E infatti Dio, nella sua prescienza, conosce coloro che gli

saranno fedeli, e li elegge in base appunto alla sua prescienza.

Non si tratta dunque di una predestinazione nel senso stretto della

parola ; ma — anche nell'Ambrosiastro come nelle opere di Ago-

stino che abbiamo esaminato — di una predestinazione conse-

guente la previsione dei meriti. L'Ambrosiastro non si nasconde la

difficoltà, che solleva il separare troppo nettamente la prescienza


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dall'onnipotenza, il conoscere dal volere in Dio ; sa — e lo dice —

che le cose non possono svolgersi altrimenti da come Dio le ha pre-

viste. Ma — a parte il fatto che l'argomento cui si interessa real-

mente è molto più la condizione degli Ebrei e la loro conversione

(31) che non il problema della salvezza in maniera generale — egli

si preoccupa straordinariamente di salvaguardare la giustizia di Dio.

Perciò afferma che i decreti con i quali Dio stabilisce la sorte del-

l'uno o dell'altro sono posteriori al suo conoscere in che maniera

si comporterà ciascuno. L'eleggere, cioè il chiamare alla fede co-

lui del quale Dio sa in precedenza che darà ascolto, non è un atto

di favore, per cui, tra due uomini nelle stesse condizioni, Dio ne

sceglierebbe uno in base a una specie di simpatia personale : anzi,

Dio non fa considerazione di persona, ripete l'Ambrosiastro, ricor-

123
dando ancora Rom. II, 11. Tanto forte è in lui questa preoccupazione,

che egli vede addirittura nelle parole del vs. 18, non l'espressione del

pensiero di Paolo, ma parole da lui messe in bocca a un supposto

contraddittore. Insomma, Dio non agisce arbitrariamente, come fa-

rebbe il vasaio ; è vero che noi siamo di fronte a lui come dinanzi al

vasaio la massa amorfa, ma Dio sa bene di chi aver compassione

giustamente. Non solo; ma è longanime, aspetta che coloro i quali

non hanno fede si rendano con la loro pervicacia indegni di ogni

scusa ; e nella sua longanimità prepara questi alla rovina, e i buoni

e credenti alla gloria. Ma tale preparazione consiste appunto nella sua

prescien7a, la Quale pertanto non si può in alcun modo disgiungere

dalla giustizia (32).

Già da questa rapida esposizione è facile vedere in quanti e

quali punti l'esegesi dèll'Ambrosiastro coincida con quella di Agostino.

Sebbene animato da motivi che il secondo non condivide menoma-

mente (l'altissimo valore attribuito alla Legge mosaica, la sorte del

popolo ebraico, insieme con una mentalità di giurista che si manifesta

nel rispetto per l'intangibilità della sentenza regolarmente emanata

e passata in giudicato) pure in sostanza anche l'Ambrosi astro distingue

la storia del genere umano in quattro periodi, che corrispondono a

quelli di Agostino, sebbene non li definisca altrettanto nettamente

né dia loro gli stessi nomi. Ma anche per lui il peccato è dovuto

al dominio esercitato dai sensi sull'uomo, incapace di sottrarsi, senza

l'aiuto divino, e del tutto, asl'impulsi e agli appetiti di natura infe-

riore, che provengono dal corpo mortale. Concedendo all'uomo, dopo


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la grazia- della nuova legge, la capacità di resistere agl'impulsi mal-

vagi — si noti che questa « legge della fede » è la terza, dopo quella

naturale e la mosaica ; facendo della « seconda morte » una pena

speciale per il mancato riconoscimento dell'onore dovuto a Dio ; e

introducendo il concetto di consuetudine buona e cattiva : l'Ambro-

siastro, precisamente come Agostino nelle opere fin qui studiate, fa

del peccato un atto tutto volontario, riconosce come sola conseguenza

del'peccato di Adamo la trasformazione del corpo da immortale in

mortale (la reintegrazione completa appartiene a un quarto stadio) ;

e per conseguenza (si consideri altresì il valore ch'egli attribuisce al-

l'Antico Testamento) l'Ambrosiastro assume un atteggiamento deci-

samente opposto a quello dei manichei, contro i quali, per di più di-

fende la libertà dell'arbitrio umano (33). Con questo modo di vedere

124
collima perfettamente la sua dottrina della predestinazione posi prae-

visa merita, per cui Dio concede il suo aiuto a coloro dei quali sa

fin dall'inizio che non solo si rivolgeranno a lui, ma gli resteranno

fedeli.

Ma per l'Ambrosiastro il peccato è il demonio ; attraverso il corpo

— che, come si è visto, è rimasto mortale anche dopo la redenzione

operata da Cristo, affinchè non venisse annullata la sentenza resa da

Dio su di Adamo — esso esercita il suo dominio sull'uomo, in virtù

di un suo preciso diritto. Quella sentenza di condanna è infatti il

presupposto di tutta l'economia della salvezza. E qui, credo, tocchia-

mo il punto centrale della soteriologia dell'Ambrosiastro, il quale con-

cepisce la redenzione come un autentico riscatto che il Cristo fa del-

l'umanità, passata giustamente e giuridicamente in potere del de-

monio. Adamo, cioè, si è volontariamente venduto; Dio con la sua

sentenza, rendendolo mortale (e cioè ponendolo in una condizione

per cui cede più facilmente alle attrattive dei beni inferiori e alle sug-

gestioni del nemico) ha ratificato quel patto e -messo il demonio stes-

so in grado di esercitare la sua padronanza. Ma nello stesso tempo

Dio ebbe compassione del genere umano e ne predispose il riscatto,

in modo però da non distruggere la sentenza che egli stesso aveva

pronunziato (34). Questo suo modo di vedere spiega la preoccupazio-

ne per la sorte dei giusti morti prima di Cristo (35), la stessa forza

con cui sostiene la lezione dei suoi codici in Rom. V, 14 (36) e quel-

la con cui accentua la contrapposizione delle due leggi di Dio e del

demonio, la quale può anche sembrare ispirata dal manicheismo ; ma


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ad esse l'Ambrosiastro, come si è visto, è recisamente contrario.

In questa concezione, che ci riporta col pensiero ad Ireneo, scrit-

tore del resto che l'Ambrosiastro cita volentieri è, io credo, la

spiegazione dei passi in cui egli sottolinea la solidarietà del genere

umano con Adamo. Il parallelismo tra questi e Cristo dev'essere per-

fetto e come il secondo ha redento in sè l'umanità, così il primo l'ha

contaminata in sè e asservita al demonio. Ma, nell'uno come nel-

l'altro caso, non si tratta dell'umanità intera : l'Ambrosiastro sa che

Cristo non salva se non coloro che hanno, e continuano ad avere,

fede in lui (fede che forma l'oggetto della prescienza divina ma non

è essa stessa puro dono di Dio) ; e così Adamo non ha assoggettato

alla morte spirituale, alla condanna eterna, se non coloro che hanno

peccato a somiglianza di lui.

125
Noi conosciamo il pensiero di Agostino in questo momento della

sua evoluzione spirituale, tra l'ordinazione sacerdotale e la consacra-

zione all'episcopato. E' facile rilevare le somiglianze tra questo suo

pensiero — cioè il suo modo di intendere S. Paolo — e quello

dell'Ambrosiastro. E' facile anche rilevare le differenze (37). In com-

plesso, dunque, lo studio dell'epistolario paolino ha posto ad Ago-

stino dei problemi nuovi, o almeno in termini e sotto aspetti rinno-

vati ; allo stesso tempo, la lettura degli scrittori cristiani anteriori, a

cui si dedica da quando, diventato sacerdote, l'autorità della Chiesa

e la forza della tradizione hanno conquistato per lui un valore più

concreto — ed evidente — lo mette di fronte a qualche opinione da

cui dissente (e che egli non esita a combattere) ma anche ad almeno

uno scrittore, le cui idee in gran parte concordano con le sue.

***

Ma l'Expositio epistolae ad Calatas presenta ancora un punto

interessante. Nel commentare IV, 21 Agostino annota che S. Paolo

stesso chiarisce il significato allegorico dei due figli di Abramo, ma

che l'apostolo non parla di quelli nati al patriarca dopo la morte di

Sara, e questo perché Abramo aveva solo due figli allorché accaddero

i fatti cui allude il passo da interpretare. Molti dùnque, i quali igno-

rano il racconto del Genesi, possono credere che Abramo non avesse

se non due figli ; mentre ne ebbe altri da Chetura (cfr. Cenesi XXV,

1 segg.). Questi furono anch'essi generati da una libera ma non

secondo una promessa di Dio : non possono quindi rappresentare il

seme d'Abramo spirituale. Dunque Isacco è l'erede, e rappresenta il


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popolo del Nuovo Testamento, non solo perché nato dalla libera, ma

perché — cosa ben più importante — generato secondo la promessa.

I figli di Chetura, nati essi pure da una libera, ma non in virtù di

una promessa bensì secondo la carne, non hanno parte dell'eredità

né appartengono alla Gerusalemme celeste ; sono i « carnali » che

stanno materialmente nella Chiesa e ;vi suscitano scismi ed eresie.

D'altra parte la persecuzione che Isacco patì ad opera di Ismaele è

allegoria di quella che tutti coloro che vissero secondo lo spirito eb-

bero a soffrire da parte dei giudei carnali (38). Non è questa un'af-

fermazione dell'idea che i giusti debbono necessariamente patire in

questo mondo ; ma è significativo vedere che la persecuzione di

Isacco è messa in relazione col fatto — a chiarire il quale è destinato

126
tutto l'excursus sui figli di Chetura — che vi sono nella Chiesa uo-

mini i quali le appartengono bensì materialmente, però, quali eretici

e scismatici, non sono figli della promessa, né fanno parte del po-

polo del Nuovo Testamento predestinato presso Dio. Questa idea

si trova anche (e lo abbiamo segnalato) già nel De vera reli-

gione (39), ma espressa in forma differente. Qui poi si presenta con

ben altra profondità, legata com'è strettamente a un'interpretazione

biblica e a una visione completa di tutto il problema della salvezza.

E nulla di simile si trova nelle altre opere esegetiche di Agostino che

abbiamo finora esaminato, nulla di simile negli altri commentatori,

della medesima epistola, che Agostino potè consultare ; e neppure in

S. Ambrogio che nello spiegare gli stessi passi della Genesi parla in

modo affatto diverso (40). Un raffronto invece ce lo offre invece

una delle ultime questioni, la 81 — ossia una di quelle composte

più tardi — del De diversis quaestionibus LXXXIII. In essa, in mez-

zo a una interpretazione tutta allegorica dei numeri 40 e 50, leggiamo

che la Chiesa nel mondo soffre dolori e afflizioni, in attesa della re-

surrezione, con cui cesserà la mescolanza dei buoni e dei malvagi (41).

Qualche cosa di simile troviamo anche in un'opera alquanto po-

steriore, scritta o almeno pubblicata, da Agostino già vescovo, ma

che spiritualmente si dimostra contemporanea a quelle che abbiamo

sopra esaminate, il De agone christiano. Qui l'elenco delle eresie

è più ricco che in scritti anteriori, quali il De vera religione e an-

che il De fide et symbolo (42). Ma ciò che colpisce è l'importanza

attribuita ai concetto della lotta contro il demonio, che costituisce il


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tema fondamentale di questo scritto (43). Questa lotta consiste nel

sottrarsi all'attrazione delle cose sensibili, e la salvezza dipende

ancora principalmente da un atto di fede volontario, perché l'uomo è

dotato di libero arbitrio ; ad esso consegue la purificazione della

condotta e dell'anima, che mette in grado di conoscere la verità,

prima accolta solo per fede. Primo passo verso la purificazione,

dunque è l'accogliere i precetti di Cristo (44). Del resto, abbiamo

dinanzi a noi l'esempio dell'apostolo stesso, S. Paolo (45) che dun-

que in questo scritto Agostino considera ancora come « spiri-

tuale », sub gratìa (46). Nella Chiesa, però, non tutti sono spiri-

tuali e ai buoni sono frammisti i malvagi, fino al momento della se-

parazione (47). E' evidente che il problema dell'eresia e dello sci-

sma, così come quello del potere della Chiesa di rimettere i pec-

127
cati (48) è sempre più ognora allo spirito di Agostino. In fondo, si

tratta sempre di quel problema dell'esistenza del male, che ha affa-

ticato Agostino fin dall'inizio della sua attività intellettuale : e che

ora lo interessa anche sotto questi aspetti particolari, e più propria-

mente ecclesiastici.

E' altresì notevole — soprattutto considerando, per ragioni

che si vedranno in seguito, l'epoca in cui fu composto — che Agostino

professi anche nel De agone christiano le medesime dottrine che

abbiamo trovato nelle opere precedenti l'episcopato e di cui abbiamo

osservato la somiglianza con quelle dell'Ambrosiastro. Anzi questa

affinità è anche maggiore nel De agone christiano dove Agostino

fa proprio anche il concetto della diuturna lotta contro il demonio ;

mentre non si pone affatto un problema che, sembra, avrebbe do-

vuto occupare interamente la sua attenzione, dopo \'Expositio in

Calatas. Giacché la interpretazione ch'egli vi dava — e che poi di-

fese sempre strenuamente — dell'incidente di Antiochia implicava

come conseguenza inevitabile che anche un apostolo, uno spirituale

certo sub gflatia, come Pietro, potesse a volte comportarsi male,

tanto da meritare la giusta riprensione da parte di Paolo. E' una

conseguenza che Agostino riconobbe esplicitamente più tardi (49) ;

ma sorprende che non se ne avvedesse immediatamente.

- Ma, d'altra parte, era poi Agostino così sicuro di stesso, come

gli sarebbe probabilmente piaciuto, non dico di far credere, ma

di potersi credere egli stesso? Si sentiva intimamente tale da po-

ter additare il suo proprio esempio come quello di un uomo che,


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per le virtù della sua sola volontà, dedicandosi interamente alla ri-

cerca del vero e alla meditazione della parola di Dio, si era defi-

nitivamente sottratto all'impero delle cose sensibili, e al dominio

della carne e del peccato? Domande come queste non si scrivereb-

bero neppure, se la risposta dovessimo darla noi : ma essa è data '

invece, in gran parte, dallo stesso Agostino e per il resto, pro-

prio dai fatti. Che il fatto fondamentale, e che ci dice tutto, è che

egli non smise dall'affaticarsi intorno ai testi di S. Paolo, anzi inten-

sificò gli sforzi per afferrarne pienamente il significato.

ifr NOTE

(1) Expos. Ep. ad Gai., 15. « In nu/fam ergo simutationem Paulus lapsus

erat, quia eervabat ubkjue quod congruere videbat, sive ecclesiis gentium

128
sive ludaeorum, ut nusquam auferret consuetudinem quae servata non impe-

diebat ad obtinenrium regnum Dei ... Petrus autem, cum venissel Antiochiasn,

obiurgatus est a Paulo non quia servabat consuetudìnem ludaeorum... sed obiur.

gatue est quia gentibus eam volebal imponere, ... segregabat se a gentibus et

simulate illis consentiebat ad imponendo gentibus ilta onera servitutis, quod-in

ipsiue obiurgationìs verbis salis apparet... Non enim utile erat errorem qui

palam noceret in secreto emendare. Huc accedit quod firmitas et charitas Petri...

obiurgationem talem posteriori^ pastoris pro salute gregis libentissime eusti-

nebat... Valet autem hoc ad magnino, humilitatis exemplum, quae maxima est

disciplina christiana; humililale enim conservatur charitae... Quoniam « ex ope-

ribus legis », cum suis viribus ea quieque Iriibuerit, « non iustifioabitur omnds

caro », id est omnis homo, sive omnes camaliter sentientes. Et ideo illi qui,

cum iam essent sub Leige, Christo crediderunt, oon quia iusti erant, sed ut

iustificarentuT yenerunt ad gratiam fidei ».

(2) De mend., V, 8: « Et ideo de libris Novi Testamenti, exceptìs figuratie

significationìbus Domini, si vitam moresque sanctorum et facta ac dieta con-

sideres, nihii tale proferri potest quod ad imitationem provocet mentiendi.

Simulatio enim Petri et Barnabae non solum commemorata, verum etiam repre-

hensa atque correda est (cfr. « simulate iilis consentiebat », Exp. Ep. ad Gai., 15,

n. 1). Non enim, ut nonnulli putant, ex eadom simulatione etiain Paulue apo-

stolus aut Timotheum circumcidit aut ipse quaedam ritu iudaico sacramenta

celebravit, sed ex illa liberiate sententiae suae qua praedicavit nec gentibus

prode,5se circumcisionem nec ludaeie obesse». — XXI, 43: «Tanta porro caecitas

hominum animos occupava, ut eis parum 'Sit, si dicamus quaedam mendacia

non esse peccata, nisi etiam in quibusdam peccatum dioant eese si mendacium
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recusemus eoque perducti sunt defendendo mendacium, ut etiam primo ilio

genere, quod est omnium sceleratiesimum (quello cioè che " fit in doctrina

religionis ", cfr. 17 e 25) dicant uS'Um fuisse apostolum Paulum. Nam in epistola

ad Galatas, quae utìque sicut ceterae ad doctrinam religionis pietatieque con-

scripta est, ilio loco dicunt eum esse mentìtum, ubi ait de Petro et Barnaba

' cum vidiesem, ete. " (Gai., II, 14). Cum enim volunt Peitrum ab errore atque

ab illa, in quani inciderat, viae pravitate Refendere, ipsam religionis viam in

qua salus est omnibus, coniracta et comminuta Scripturarum aucloritate, conan-

tm evertere. In quo non vident non solum mendacii crimen, sed etiam periurii

se obicere apostolo in ipea doctrina pietatis, hoc est in epistola in qua piae-

dicat evangelium ».

(3) L'ordine in cui gli ultimi scritti precedenti l'episcopato sono ricordati

nelle Retractationes è il seguente. 22 (23) Expasitio quarundam propositionum

ex Epist. ad Rom.; 23 (24): Expositio Ep. ad Galatas; 24 (25): Ep. ad Rom.

expositio inchoata; 25 (26): De diversis quae&ionibus LXXXIII; 26 (27): De

mendacio. Però le « 83 questioni », composte via via, furono pubblicate da

Agostino giù vescovo; e la Expositio inchoata può, in certo modo, consi-

derarsi contemporanea o di pochissimo posteriore all'Expos/h'o quarr. propp.

Si consideri inoltre il modo in cui Agostino si esprime: 22 (23), 1: « liber unus

accessit superioribus opusculis meis»; 23 (24), 1: Post hunc librum exposui;

24 (25), 1: «Epistolae quoque ad Romanos sicut ad Galatas expositionem su-

sceperam ». Evidentemente Agostino considera i due commenti come comin-

ciati nello stesso tempo.

(4) De mend., I, 1: «Magna quaestio est de mendacio, quae noe in ipsis

quotidianis actibus nostris saepe conturbat, ne aut temere accusemus menda-

128
cium, quod non est mendacium, aut arbdtremur aliquando esse mentienrium

honesto quodam et officioso ac misericordi mendacio ». — « Sed utrum sit

utile aliquando mendacium; multo maior magusque necessaria quaestio est »

(IV, 5).

(5) Ibid., IIi, 6: « Contra tili, quibus placet numquam mentienidum, multo

fortìus agunt, utentes primo auctoritate divina... » (cfr. V, 8, cit. alla n. 2);

XXI, 42: « Elucet ilaque diseussis omnibus nihil aliud illa testimonia Scriptu-

rarum monere nisi numquam esse omnino mentiendum, quando quidem nec

ulla exempla mendaciorum imitatione digna in moribus factisque sanclorum

inveniantur quod, ad eas attinet Scripturas quae ad nullam figuratam signi-

ficationem referuntur, sicuti sunt res gestae in Actibus apostolorum. Nam

Domini omnia in Evangelio, quae imperitioribus mendacia videntur, figuratae

significationes sunt » (cfr. 43 cit. alla n. 2; 26).

(6) Ibid., XVIII, 38: « Nemo tamen palesi dicere hoc se aut in exemplo aut

in verbo Scripturarum invenire, ut diligendum vel non odio habendum ullum

mendacium videatur, sed interdum mentiendo faciendum esse quod oderis, ut

quod amplius detestamdum est devitetur... Sed in hoc errant homdnes, quod

subdunt praetiosa vilioribus... Ex sua quisque cupiddtate atque 'consuetudine

metitur malum et id putat gravius, quod ipse amplius exhorreecit, non quod

amplius revera fugiendum est. Ho-c totum ab amoris perversitate gignitur vi-

tium. Cum enim duae sint vdtae noetrae, una sempiterna quae divinitue pro-

mittitur, altera temporalis in qua nunc sumue, cum quisque isiam temporalem

amplius diligere coeperit, quam illam sempilemam, propler hanc quam diligit

putat esse omnia facienda... ». 39: « iam illa desinunt esse peccata, quae proptei

graviora vitanda suscipiuntur... et in rebus sanctis non vocatur peccatum, quod


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ne gravius admiltatur admiltilur. XIX, 40: « Ista eunt autem quae sanctitatis

causa servanda sunt, pudicitia corporis et castitas animae et veritas doctrinae.

Pudiciliam corporis non consentente ac permitlente anima nemo violat; quid-

quid enim nobis invitis nuilamque tribuentibus polestatem maiore vi contigit

in nostro corpore, nulla impudicitia est. Sed permittendi potest esce aliqua ra-

tio, consentiendi autem nulla. Tunc enim consentimus, cum adprobamus et volu-

mu6... Consensio sane ad impudicitiam corporalem etiam caetitalem animi vio-

lat. Animi quippe castiitas est in bona voluntate et sincera dilectione, quae non

corrumpitur nisi cum amamus atque adpetimus quod amandum atque adpeten-

àum non esse veritas docet.... Veritas autem doctrinae, religionis atque pietatìs

nonnisi mendacio violatur, cum ipsa summa atque intima veritas, cuiue est ista

doctrina. nullo modo potest violari: ad quam pertinere... non licebit, nisi cum

" corruplibi/e hoc" induerit " incorruptionem" ete. (/ Car., XV, 33). Sed quia

omnis in faac vita pietas exercilatio est qua in illam lendilur, cui exercitationA

ducatum praebet ista doctrina, quae humanis verbis el corporeorum sacra-

mentorum signaculis ipsam insinuat atque in limai veritatem, propterea et

haec, quae per mendacium corrumpi potest, maxime incorrupta servanda est »;

XX, 41 : « Unde cogimur non opinione hominum quae plerumque in errore est,

sed ipsa quae omnibus supereminet atque una invictìssima est ventate, etiam

pudicitiae corporis perfeetam fidem anteponere. Est enim animi castitas amor

ordinatus non subdens malora minoribus. Minus est autem quidquid in carpore

quam quidquid in animo violari potest »... « Unde colligitur mullo magis animi

caetitatem servandam esse in animo, in quo lulela est pudiciliae corporalis ».

(7) Cosi commenta S. Girolamo Gai. II, 11 sgg. (Comm. in Ep. ad Galatas,

130
P. L. XXVI, 363-4) : « Cum itaque vidisset apostolus Paulus periclitari gratiam

Gruisti, nova bellator vetus ueus est arte pugnamdi, ut dispeneiationem Petri,

qua ludaeos saivari cupiebat, nova ipse contradictionis dispensatione corri-

geret... Quod si putat aliquis vere Paulum Petro apostolo restitisse, et pro

ventate Evangelii intrepide fecisse iniuriam praecessori, non ei stabit illud

quod et ipse Paulus ludaeis ludaeus factus est ete. (cfr. / Cor. IX, 20) et

eiusdem simulaitionis tenebitur reus quando caput totondit in Generis (Act.

XVIII, 18) et facto oalvitio oblationem obtulit in lerusalem (Act. XXIV, 11)

et Timotheum circumcidit (Act. XVI, 3) et nudipedalia exercuit, quae utique

manifestissime de ' caeremoniis ludaeorum sunt... Legerat utique Paulus in

Evangelio Dominum praecipientem (Le. XVII, 3) ».

(8) Aug. ep. 28 (Hierom. 56), 3-4: « Legi etiam quaedam scripta quae tua

dicerentur, in epistolas apostoli Pauii; quarum ad Galatas cum enodare veliee,

venit in manue locus iile, quo apostolus Petrus a perniciosa simulatione revo-

catur. Ibi paitrocinium mendacii susceptum esse vel abs te, tali viro, vel a

quOpiam, si alius illa ecripsit, fateor, non mediocriler doleo, donec refellan-

tur, si forte refelli possimi, ea quae me movent. Mihi enim videtur exitiosissime

credi aliquod in libris sanctis haberi mendacium, id est eos homines, per quoe

iiobie illa Scriptura ministrata est, atque conscripta, aliquid in libris suie

fuisse mentitos. Alia quippe qua&sito est, sitrle aliq,uiando mentiri viri boni,

et alia quaestio est, utrum scriptorem Sanctarum Scripturarum mentiri opor-

tuerit: immo vero, non alia sed nulla quaestio est. Admisso enim semel in

tantum auctoritatis fastigium officioso aliquo mendacio, nulla illorum librorum

particula remanebit, quae non, ut cuique videbitur vel ad mores difficilis vel

ad fidem incredibilis, eadem perniciosissima regula ad mentientis auctoris con.


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sjlium officiumque referatur. Si enim mentiebatur apostolus Paulus... quid

respondebimus, cum exsurrexerint perversi homines prohibentee nuptias, quos

futuros ipse praenuntiavit, et dixerint totum iLud quod idem apostolus de ma-

trimoniorum iure firmando locutus est, propter hominee qui dilectione coniugum

tumultuari poterant, fuisse mentitum?». 5.: «Et ego quidem qualibuscumque virL

bus, quas Dominus suggerii, omnia illa testimonia, quae adhibita sunt adstruen-

dae utilitati mendacii, aliter opor-tere intellegi ostenderem, ut ubique eorum

firma veritas doceretur. Quam enim testimonia mendacia esse non debent,

tam non debent favere mendacio... Ad hanc autem considerationem coget te

pietas, qua cognoscis fluctuare auctoritatem divinarum Scripturarum, ut in eis

quod V'Ult quisque credat, quod non vult, non credat, si semel fuerit persuasum

aliqua illos viros... in scripturis suis officiose potuisse mentiri; nisi forte re-

gulas quasdam daturus es, quibus noverimus1 ubi oporteat mentiri, ubi non

oporteait ».

(9) Cfr. altresì: Aug. Ep. 40 (= Hier. 67), 4-7; Aug. Ep. 73 (= Hier. 110,

4); Aug. Ep. 32 (= Hier. 116), 5, 6, 7, 8, 12, ete. Per l'argomento dell'importanza

che allo scopo di confutare gli eretici, ha il testo greco della Bibbia, v. anche

Aug. Ep. 71 (= Hier. 104), 4; qui con riferimento alla Volgata. La storia di

questa corrispondenza tra Agostino e Girolamo è stata fatta da molti; la cro-

nologia delle lettere presenta punti oscuri o controversi. Si ammette di solito

che l'ep. 28, portata da Profuturo, e che S. Girolamo non ricevette mai, sia la

stessa, da lui scritta ancora da prete, cui Agostino allude nell'Ep. 71, 2: nel-

l'ep. 28 si nomina Alipio, il quale, essendo ancora semplice sacerdote, visitò

Girolamo in Palestina portandogli il saluto di Agostino; ed ora è già Vescovo.

Perciò come data dell'ep. 28 si suole indicare il 394-5; ma è evidente che la

131
datazione di essa dipende da quella che si accetti per la consacrazione episco-

pi-ilo di Agostino. Questi poi, accorgendosi che la sua lettera non era giunta a

destinazione, scrisse nuovamente a Girolamo Yep. 40. Cfr. Cavaliere, St. Jé-

róme, II, 47-50; J. Schmid, SS. Bus. Hieronymi et Aur. Augustini Epistolae mu-

tuae, Bonn 1930 (Floriìegium Patristicum, XXXII); D. de Bruyne, La correspon-

dance échangée entre Augustin et Jéróme, in Zeitschr. f. neutestom. Wissensch.,

1932, pp. 233-248.

(10) Cfr. Aug. Ep. 67 (= Hier. 101), 2; 68 (= Hier. 102), 1. Girolamo ha

conosciuto, in una copia, una lettera nella quale Agostino lo invita a scrivere

la sua palinodia (evidentemente l'Ep. 40 di Agostino); Aug. Ep. 72 (= Hier. 105).

(11) Retract. I, 26 (27).

(12) Aug. Ep. 143 ad Marcellinum, 3 (del 412).

(13) Per la suscettibilità di S. Girolamo, cfr. l'Ep. 105 (= Aug. 72). Si noti

che già i Maurini (Vita Augustini, II, 7 e 8) e Tillemont avevano veduto che

il De mendacio è conitemporaneo all'£p. 28; e sottolineano il fatto che nel

Contro mendacium non solo non vi è accenno al libro affine precedente,

ma anzi Agostino « significare videtur se nondum Scripturae testimonia de

mendacio discussisse ». L'allusione all'incidente di Antiochia nel Contro men-

dacium (12, 26) è brevissima e scevra di ogni carattere polemico.

(14) Per Tertulliano, Cipriano e Ottato di Milevi, cfr. e. HI, n. .1.

(15) Tengo a sottolineare che si tratta di una ricerca rapida e limitata

ad alcuni punti, sufficienti allo scopo che mi ero prefisso. Rimane aperto il

campo a chi volesse procedere ad un confronto completo e più minuzioso.

(16) P. es. a I, 1 Girolamo (P. L XXVI, 33C) distingue quattro generi di apo-

stoli («Unum quoti neque ab hominibus est neque per hominem sed per lesum
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Christum et Deum Patrem; aliud, quod a Deo quidem est sed per hominem;

tertium quod ab homine non a Deo; quaitum quod neque a Deo neque per

hominem neque ab homine sed a semetipso ») ; Agostino (v. i, testo a n. 17)

la una distinzione analoga, tralasciando però la quarta categoria. Un incontro

più evidente sembra di poter trovare a proposito di I, 3-5, dove Girolamo

(col. 338 seg.) osserva: « Quaeritur quomodo piaesens saeculum malum dictum

sii. Solent quippe haeretici hinc capere occasiones, ut alium lucis et futuri

caeculi, alium tenebrarum et praesentis asserant conditorem. Nos autem dicj-

mus, non tam saeculum ipsum, quod die ac nocte, annis currit et mensibue,

appellari malum, quam èj/ttovónto? ea quae in saeculo fiant... Unde loannes alt

(/ loh. V, 19); non quod mundus ipse sit malus, sed quod mala in mundo fiant

ab hominibus... ita et saeculum, quod est spatium temporum, non per seme-

tipsum aut bonimi aut malum est, sed por eos qui in ilio sunt aut bonarn

appellatur aut malum »; e Agostino, più brevemente e con allusioni meno cir-

costanziate ai manichei, ma con le medesime preoccupazioni di Girolamo

commenta « Saeculum praesens malignimi propter malignos homines qui in eo

sunt intelligendum est; sicut dicimus et malignam domimi propter malignos

inhabitantes in ea ».

(17) Per es. a I, 1 Mario Vittorino (P. L. VJH, 1147) mette in bocca a

Paolo stesso questa conclusione: « ergo credendum mihi et habenda fides;

et verum evangelium est quod profero»; Agostino dal canto suo commenta:

« Qui ab hominibus mittitur, mendax est; qui per hominem mittitur, potest esse

verax quia et Deus verax potest per homdnem mittere; qui ergo neque ab

132
hominibus neque per hominem sed per Deum mitlitur, ab ilio verax est qui

etiam per homines missos veraces facit », ete. (cfr. n. 16). — A II, 11-16 Mario

Vittorino (col. 1163) annota: «neque Petrus neque ceterd iransierant ad iu.

daicam disciplinam sed ad tempus consenserant; quod quidem aliquoties fit

simulata consensione: verumtamen unde peccabat Petrus? quia non ille ad in-

ducendos ludaeos ista finxerat, ut consentirei illis, quod fecit ipse Paulus et

fecisse se gloriatur, sed ut illos lucrifaceret (cfr. / Cor. IX, 20); sed quod Pe-

trus simulavit quidem, in eo lamen peceavit, quod subtrahebat se timens

eos qui erant ex circumcisione » (coi. 1163); per Agostino, n. 1. — A HI, 10,

dice Vittorino: « Quod autem ddxit « ex operi bus legis » i nielli Bumus esse etìam

opera christianitatis, maxime illa quae saepe apostolus mandai... et caetera

quae in hoc apostolo ad vivendum praecepta retinentur, quaeque opera ab

apostolo omni christiano implenda mandatur. Alia igitur opera legie. scildcet

observationes... inteltigamus» (col. 1169). E Agostino a III, 2: « Sed haec quae.

etio ut diligenter tractetut, ne qnis fahatur ambiguo, scire prius debet opera

legis bipartite esse. Nam partim in sacramentis, paitim veio in moribus acci-

piuntur... Nunc ergo de bis operibus maxime tractat, quae sunt in sacramentis,

quamquam et illa interdum se admiscere significet. Prope finem autem episto-

lae de his separatim tractabit, quae sunt in moribus: et illud breviter, hoc au-

tem diutius». — A IV, 5, Vittorino osserva: « ut filii Dei simus, sed et filii ado-

ptione. Non enim filii ut ipse Filius, sed per Filium filii » (col. 1178) e Agostino

« Adoptionem proplerea dicit, ut distincte intelligamus unicum Dei Filium. Nos

enim beneficio et dignatione misericordiae eius filii Dei sumus; ille natura

est Filiue, qui hoc est quod Pater ».

(18) P. es. a IV, 8-10, dopo aver discusso il problema del male (« procu-
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ratores auctoresque huius mundi nihil faciunt, nisi quantum Dominus sìnit.

Non enim latet eum aliquid, sicut hominem, aut in aliquo est minus potens,

ut procuratores alque auclores, qui sunt in eius potestate, aliquid ipso sive

non permittente sdve nesciente in subiectis sibi pro suo gradu rebus efficiant.

Non eis lamen rependitur, quod de ipsis iuste fit, sed quo animo ipsi faciunt;

quia neque liberam voluntatem rationali creaturae suae Deus negavit, et tamen

polestatem qua etiam, iniustos iuste ordinat, sibi retinuit. Quemi locum la-

tius et uberiue in libris aliis saepe tractavimus ») rimandando, come si è visto,

al De libero arbitrio, soggiunge quest'altra osservazione, interessante dal punto

di vista documentario: « El tamen si deprehendalur quisquam vel catechume-

nus iudaico rilu sabbalum observans, lumultualur ecclesia. Nunc aulem innu-

merabiles de numero fidelium cum magna confidenza in faciem nobis dicunt

" die posi kalendas non proficiscor ". El vix lente ista prohibemus, arridentes,

ne irascantur el limentee ne quasi novum aliquid mirentur » (già utilizzala da

J. Zellinger, Augustin und die Volkstrommtgkeit, Munchen 1933, p. 21).

(19) Ep. 82, 23-24: « Flagilas a me ut aliquem sallem unum ostendam cuius

in hac re sententiam sim secutus, cum lu tam plures nominatim commemorave-

ris qui in eo quod adstruis praecesserunt, petens ut in eo si te reprehendo er-

rantem, patiar le errare cum talibus quorum ego, fateor, neminem legi ». Ma

su sette aulori invocati da Girolamo, quattro sono di un'ortodossia almeno

sospetta (Apollinare, Alessandro, Origine e Didimo); ne restano dunque tre

soli, Eusebio di Emesa, Teodoro di Eraclea, Giovanni di Costantinopoli. Indi

Agostino prosegue: « Porro si quaeras vel recolas, quid hinc senserit noster

Ambrosius, quid noster ilidem Cyprinaus, invenies t'orlasse nec nobie defuisse

133
quos in eo quod adserimus, sequeremur ». Si noti, tra parentesi, come Agostino

sottolinei il suo ricorrere a Padri occidentali e latini.

(20) Goldbacher (ed.), Sancii Aureli Augustiws Epistolae pars II, p. 376

(CSEL 34, Vienna ete. 1898); Hilberg (ed.) S. Eusebii Hieronymi Epistulae, pare

II, p. 414 (CSEL 55 Vienna 1912); Baxter, in Journal oì Theological Studies,

1922, p. 128; 1923, p. 187. V. anche cap. VII, nota 31.

(21) Aug. Ep. 82, 21: « Cur ergo non aperte dicis officiosum mendacium

defendendum? nisi forte nomen te movet, quia non tam usitatum est in eccle-

siasticis libris vocabulum officii, quod Ambrosius noster non timui-t, qui suos

quosdam libros utilium praeceptionum plenos " De officite" voluit apppellare ».

(22) Ambrstr. In Galat., a II, 11: : Reprehensibilis oitique ab evangelica

ventate, cui hoc facium adversabalur. Nam quis eorum duderet Petro apo-

stolo, cui claves regni caelorum Dominus dedit, resistere, nisi alius talis qui

fiducia electionis euae sciens se non imparem constanter improbaret quod ille

sine consiìio fecerat? » — 12-13: « Nam et ipse utique cessit animositati et

audacia» Judaeorum, timens ne per hoc, quod facile est, subreperet scanda-

'um, quod difficile sedaretur; quia et secundum legem purificavit se coactus

et Timotheum circumcidit invitus ». — 14: « Sed hic tota causa reprehensionis

est quod, advenientibus ludaeie ab lacobo, non solum segregane* se ab eis

cum quibus gentiliter vixerat (scil.: Petrus) sed et compellebal eos iudalzare,

causa timoris illorum, ut quid horum verum esset ignorarent gentiles. Sciebant

enim ipsum sscum non quasi ludaeum vixiss;e post autem audientee ab eo

quia ludaeorum instar sequendum erat, haesitabant utique quid esset verum...

Apostolus autem Paulus, quando ad horam cessit. non hoc et suasit, eed rem

se superfluam et inanem tacere clamitavit, propter furorem ludaeorum. Cui


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quidem rei non succubuisset, nisi causa interfuisset, qua audacia ludaeorum

plurimorum se iactaret. Erat autem Timotheus filius mulieris iudaeae, patre

autem Graecp; unde faotum est ut infans secundum Legem minime circumci-

deretur. Insidiabantur ergo, explorantee si eum, qui ludaeus natus erat, incir-

cumcieum assumeret: quod illicitum putabant generi ludaeorum, ooccasionem

quaerentes qua eum eversorem tenerent Legis: hac causa ad horam cesait

furori eorum » (P. L.. XVII, 369-70). Cfr. anche In. I ep. Ad Corinth., IX, 20.

(23) De men.d., 8 cit. a n. 2; ep. 82, 12: « Ergo et Timotheum propterea

circumcidit, ne ludaeis et maxime cognationi eins maternae sic viderentur,

qui ex gentibus in Christum crediderant, detestari circumcisionem sicut ido-

latria detestanda est, cum illam Deus fieri praeciperit, hanc Satanas persuase-

ut »; 17: «• longe ante quam tuas litteras accepissem, scribens contra Faustum

manichaeum... »; C. Faustum, XIX 17: « Inde est quod Timotheum, iudaea ma-

tre et graeco patre natum propter illos ad quos tales cum eo venerat, etiam

circumcidit apostolus atque ipse inter eos morem huiusmodi custodivit. non

simulatione fallaci, sed consilio prudenti; neque enim ita natis et ita in-

stitutis noxia erant ista, quamvis iam non eesent significandis futuri^ neces-

saria... Si autem iis qui ex circumcisione venerant talibueque sacramentis adhuc

dediti erant, ultro vellent, sicut Timotheus, conferre congruentiam, non pro-

hiberentur; verum si in huiuemodi Legis operibue putarent suam spem salu-

temque eontineri, tamquam a certa pernicie vetarentur ». ...Contra hoe [i giu-

daizzanti] apostolus Paulus multa scripsit; nam in horum simulationem etiam

Petrum adductum fraterna obiurgatione correxit ».

(24) Ep. 82, 12: « Ergo et Timotheum propterea circumcidit, ne ludaeis

134
et maxime cognationi eius maternae sic videretur, qui ex gentibus in Christum

crediderant dstestari circumcisionem, sicut idolatria detestanda est ».

(25) Nella prima stesura di questo scritto (cfr. Rie. Rei, Vili, 1932,

p. 135) io mi ero rivolto la domanda, se la Quaestio LX dell'Ambrosiastro non

possa essere etata occasionata precisamente dalle discussioni romane; se, anzi,

essa non sia da identificare con lo scritto contro Girolamo, attribuito ad Ago-

stino, e circolante in Roma; e se, addirittura, lo spunto non fosse offerto dalla

stessa ep. 28 di Agostino stesso. Questo crea qualche difficoltà cronologica,

benché non insuperabile; infatti, volendo mantenere ciò che è detto nel testo,

bisognerebbe ammettere che le Quaestiones della I edizione fossero state com-

poste durante un periodo abbastanza lungo; ohe tra la detta I edizione, il Tra-

ctatus in Romanos (per cui v. sotto), quello In Gtató/us e probabilmente anche

.a II edizione delle Quaestiones l'intervallo fosse invece relativamente piccolo.

In complesso, preferisco per ora lasciare tutti questi problemi da parte. Si os-

servi però che la quaestio 109 « De Melchisedech », sarebbe quella mandata da

Evangelo a Girolamo (cfr. ep. 73) nel 398.

(26) Cfr. A. Souter, nei prolegomeni (p. XII) alla eua edizione delle

Quaestiones (C.S.E.L. 50, Vienna 1908).

(27) Contro duas epiglolas Pelagianomm, IV, 4, 7 (C.S.E.L. 60, p. 528).

(28) Ambrstr. In Rom. V, 12 (P. L. XVII, 96-97): « Quoniam superius Dei

gratiam per Christum datam ostendit secundum ordinem veritatis, nunc ipsum

ordinem unius Dei Patris per unum Ghristum filium eius declarat: ut quia Adam

unus, id est Eva (et ipsa enim Adam est) peccavit in omnibus, ita unus Chri-

stus filius Dei peccatimi vicit in omnibus. Et quia propositum gratiae Dei erga

genus humanum ostendit, ut ipsa primordia peccati osteoderet, ab Adam coe-


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pit, qui primum peccavit, ut providentiam unius Dei per unum reformasse do-

ceret quod per unum fuerat lapsum et tractum in mortem. Hic ergo unus est,

pei quem salvati hanc i 1l i reverentiam, quam Deo Patri, debemus, ipso volente...

Sa ergo soli Deo serviendum dicit, et Christo servire praecepit, in unitate Dei

est Christus nec dispar aut alter Deus.

In quo, idest in Adam omnes peccaverunt. Ideo dicit in quo, cum de mu-

liere loquatur, quia non ad speciem retulit, sed ad genus. Manifestum itaque

eet in Adam omnes peccasse, quasi in massa; ipse enim per peccatum cor-

ruptus quos genuit omnes nati sunt sub peccato. Ex eo igitur cuncti peccatores

quia ex ipso sumus omnes. Hic enim beneficium Dei perdidit, dum praevarica-

vit, indignus factus edere de arbore vitae, ut moreretur.... Est et alia more,, quae

secunda dicitur ingehenua, quam non leccato Adae patimur, std eius occasione

propriis peccatis acquirituj, a qua boni immunes sunt; tantum quod in inferno

erant f sed superiori quasi in libera (custodia?) f, qui ad caelcs ascendere non

poterant. Sententia enim tenebantur data in Adam, quod chirographum in de-

cretis morte Christi deletum est (cfr. Coloss., II, 14). Sententia autem decreti

fuit, ut unius hominis corpus solvereetur super terram, anima vero vinculis

inferni detenta exitia pateretur ».

(29) Id., a V, 13: « In Adam omnes dicit peccasse, siout supra memoravi

et usque ad Legem datam non imputatum esse peccatum; putabant enim se

homines apud Deum impune peccare, sed non apud homines, Nec enim lex

naturalis penitus obtorpuerat, quia non ignorabant quia quod pati nolebant aliis

facere non debebant... Lex naturalis semper est, nec ignorabatur aliquando; sed

putabatur ad tempus tantum auctoritatem habere, non et apud Deum reoc facere.

Ignorabatur enim quia iudicaturus esset Deus genus humanum, ac per hoc non

135
iinputabatur peccatum quasi peccatiim non cognitum eseet apud Deum. in-

curiosum Deum asserentes. At ubi aulem Lex data est per Moyeem manifesta-

tum est curare Deum res humanas et non impune iis futurum qui malefacientes,

quacumque ex causa in praesenti evadunt. Nam utique si inter se, maestra

iustitia vel natura, peccata non inulta ceneebant, quanto magis Deeum, quem

mundi sciebant opificem, haec requisilurum non debuerant ignorare... Sed cum

piaelermiseo Deo figmenta coeperunt in honorem Dei recipere, depravati mente,

partem legis naturali^ quae prima est, calcaveiunt. Quia lex naturalis tres

habet partts, cuius prima haec est, ut agnitus honoretur Creator, nec eiue cla-

ritae et maiestas alicui de creaturis deputetur; secunda aulem pare est moralis,

hoc est ut bene vivatur, modestia gubernante; congruit enim homini habenti

notitiam Creatoris vitam suam lege refrenare, ne frustretur agnitio; tertia vero

pare est docibilis, ut noiitia Creatoris Dei et exemplum morum ceteris tradatur,

ut discant quemadmodum apoid Creatorem meritum collocatur. Haec est vera et

chrietiana prudentia ». A 14: « Quoniam non imputabatur peccatum antequam

Lex daretur per Moysen, sicut dixi, ipsa usurpationis impunitate regnabat

mors, sciens eibi illoe devotos. Regnabat ergo more securitate dominationis

suae tam in hos qui ad tempus evadebant quam in illos qui etiam hic poenas

dabant pro malis suis openbue Omnes enim eoios eeese videbat; quia « qui

facit peccatum, servue est peccati » (loh. Vlii, 34) ; impune iam cedere putan-

les, magis delinquebant; circa haec tamen peccata promptiores quae mundue

quaei licita nutriebat. Quo facto gaudebat Satanas, securue quod causa Adae

relictum a Deo hominem in posseeeionem habebat. Regnabat eigo more in eoe

« qui peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae », qui eet forma futuri,

quod in subiectis monstrabimus. Ilaque non in amnes mortem regnasse mani-


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lestum est, quia non peccaveiunt omnes in similitudinem praevaricationis Adae,

id est non omnes contemplo Deo peccoverunf. Qui autem sunt qui contemplo

Deo pecoaverunt, nisi qui neghcte Creatore servierunt Creaturae, deos sibi

constituentes quos colerent, ad inimiam Dei? Idciico taetabatur in latte dia-

bolus, qui videbat illas imilalores saas efieclos... Et peccalum Adae non longe

est ab idololatria; praevaricavit enim, putans se hominem futurum Deum... Qui

enim intellexit, sive ex traduce, sive iudicio naturali, et veneratile est Deum,

nulli honorificentiam nominis ac maieslatis eius imperliens, si peccavit — quo-

niam impossibile est non peccare — sub Deo peccavit, non in Deum quem iu-

dicem sensit; ìdeoque in huiusmodi mors nion regnavtt. Ini hos autem, sicut

dixi, regnavit, qui sub specie idolorum servierunt diabolo... Maxima enim pars

mundi Deum fore iudicem ignorabat; perpauci autem in quoe non reignavit

mors. In quos autem regnavit, post isiam mortem, quae prima dicitur, a se-

cunda excepti sunt ad poenam et perditionem futuram. In quos autem non

regnavit, quia non peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae, sub spe

reservati sunt adventui Salvatone in libera ... Sicut enim post Legem datam

qui idolis aut forrjicationi servierunt, contemnentes legislatorem, regnavit in

eos morsi ita et ante Legem, qui sensum Legis praesenserunt, honorificantee

auctorem eius, non utique regnavit in eoe more;' propterea enim regnasse di-

'citur quia cognitio unius Deei evanuerat in terris... Primum igitur in ludaea

coepit destrui regnum mortis quia « notus ra ludaea Deue» (Ps. LXXV, 2);

nunc autem in omnibus gentibus quotidie destrtdtur, dum magna ex parte ex

filile diaboli n'unì filii Dei. Itaque non in omnes regnavit mors, sed in eos

qui peccaverunt in simililudinem praevaricalionis Adae, sicut eupra memo-

ravi. Adam autem ideo forma futuri eet, quia iam tum in mysterio decrevit

136
Deue per unum Christum emendare, quod per unum Adam peccatum erat ».

Tutta l'esegesi che l'Ambrosiaìstro fa di questo passo si fonda sulla lezione

« qui peccaverunt » — e perciò egli difende lungamente come originale, invo-

cando anche le testimonianze di Terlulliano, Cipriano e Vittorino, contro

quella dei codici greci (TOÙI; (!•}) àiiapr^aavra?) che del resto, dice, diffe-

riscono anch'essi tra loro. Cfr. Aug. De peccai, mer. et remiss., I, 11, 13.

(30) A V, 20: « Sicut enim nativitas interit, nasi nutrimenta àabeat quibus

iota adolescat, ita et naturale iustitiae ingenium, nisi habeat quod respiciat et

veneretur, non facile proficit, sed aegrotat et supervenientibus cedit peccatis.

Consueludine enim delinquendi premitur, ne crescat in fructum et per hoc

extinguitur. Providenter ergo data estLex in adiutorium, sdcut testatur proprieta;

sed populus veterem consuetudinem sequens multiplicavit peccata ». — A V,

2) : « Sicut per Adam coeptiim peccatum regnavit, ita et per Christum gratia.

Sic autem regnai gratia per iustitiam, si accepta remissione peccatorum iusti-

tiam sequimur; ut videns gratia fructum se habere in bonis quoe redemit, re-

gnet in vitam aeternam, sciens nos futuros aeternos ». — VI, 19: « Ut occasio-

nem nobis auferret timoris accedendo ad fidem quia quasi importabilis nobis et

aspera videretur, ea mensura nos Deo servire praecepit, qua prius famula-

bamur diabolo; cum utique propensius deberet serviri Deo quam diabolo,

quippe qui cum his salus, illic damnatio operetur; medicus tamen spiritalis

non plus a nobis exigit, ne dum praecepta quasi gravia ìugeremus, perpendentes

infirmitatem nostram, maneremus in morte ». — Vft, 5: « Cum in carne sii, est

enim in corpore, negai se esse in carne; quia hic dicitur esse in carne qui ali-

quid sequitur quod lege prohibetur. Igitur in carne esse multifarie intelligitur:

nam omnis incredulus in carne est; id est carnalis; et christianus sub Lege
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vivens in carne est; et qui de hominibus aliquid sperat, in carne est, et qui

male intelligit Christum, in carne est; et si quis christianus luxuriosam habet

vitam, in carne est. Hoc tamen loco in carne esse sic inteilegemus, quia ante

fidem in carne eramus; sub peccato enim vivebamus, hoc est carnalea sensus

eequentes vitiis et peccatis subiacebamus. Sensus autem carnis est non cre-

dere spiritalia, id est: sine commixtione viri virginem peperisse... Manifestum

est quia qui non cred'it sub peccato agit et captivus trahitur ad vitia admit-

tenda, ut fructum faciat morti secundae; lucrum enim lunc facil mors, cum

peccatur. In membris lamen dicit vitia operari, non in corpore, ne occasio

esset male tractantibus corpus». — VII, 11: «Peccatum hoc loco diabolum in-

tellige, qui auctor peccati est. Hic occasionem per legem invenit, quomodo

cr,udelitatem suam de nece ho-minis eatiaret; ut quia Lex comminata est pecca-

toribus, homo instinctu eius prohibita semper admittens, offenso Deo, ultionem

Legis incurreret; ut ab ea quae illi profutura data erat damnaretur. Quia enim

invito ilio data est Lex, exarsit invidia adversus hominem, ut eum amplius

viliosis voluplatibus macularet, ne manus eius evaderei. — VII, 14: « Ego au-

tem » etc. Hominem autem carnalem appellat, dum peccat. « Venditus sub

peccato»: Hoc est venditum esse sub peccato, ex Adam, qui prior peccavit,

originem trahere et proprio deliclo eubieclum fieri peccato... Adam enim

vendidil se prior, ac per hoc omne semen eius subieclum est peccato. Qua-

mobrem infirmum esse ho.minem ad praecepla Legis servanda, nisi divinis

auxiliis muniatur, binc est unde ait «Lex spirituali^ est, ego autem etc.»; hoc

est, Lex firma est et iusta et caret culpa; homo autem fragilis est et paterno,

vel proprio, subiugatus delicto, ut potestate sua uti non possit circa obedien-

137
tiam Legis. Ideo est ad Dei misericordiam confugienduxn ut severitatem Legis

effugiat et exoneratus delictis, de caeteio Deo favente, inimico resistat. Quid

est enim subiectum esse peccato, nisi corpus habere vitio animae corruptuin,

cui se inserat peccatum et impellet homdnem quasi captivum delictis, ut faciat

yoluntatem eius?... Nam ante praevaricationem hominis priusquam se manci-

paret morti, non eiat his (cioè i « satellites Satanae ») potestas ad interiora

hominis accedere et cogitationee adversas inserere. Unde et astutia eius fa-

ctum est, ut confabulatione per serpentem hominem circumveniret. Postquam

autem circurvenit eum et subiugavit, potestatem in eum accepit ut interiorem

hominem pulsaret, copulane se menti eius; ita ut non possil agnoscere quid

suum sit in cogitatione, quid illius, nisi respiciat Legem ». — VII, 18: « Non

dicit, sicut quibusdam videtur, carnem malam; sed quod habitat in carne non

esse bonum sed peccatum. Quomodo inhabitat in carne peccatum, cum non

sit substantia, sed praevaricatio boni? Quoniam primi hominis corpus corruptum

est per peccatum ut poseit dissolvi, ipsa peccati corruptio per conditionem of-

fensionis manet in corpore, robur tenens divinae sententiae datae in Adam, quod

est signum diaboli, cuius instinctu peccavit. Per id ergo quod facti causa manet,

habitare dicitur peccatum in carne, ad quam diabolus accedit, quasi ad suam

legem, et manet quasi in peccato peccatum; quia caro iam peccati est, ut de-

cipiat hominem suggestionibus malis ne homo faciat quod praecipit Lex ». —

VII, 24-25: « Hic quasi legem fidei tertiam inducit potiorem, quam et gratìam

vocat, quae ex lege tamen spirituali originem habet, quia per hanc liberatus

est homo, ut quia Moyses dedit Legem deditque et Dominus, duae dicantur, una

tamen intellegatur quantum ad sensum et providentiam pertinet. lila vero ini-

M-atrix est salutis, haec vero consummatrix. Sed non hanc partem Legis dico
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quae in neomeniis est et in circumcisione et in escis, sed quae ad sacramentum

Dei attinet et disciplinam... Hanc dicit mortem quam supra oetendit in necem

hominis per peccatum inventam apud inferos quae appellatur secunda; corpus

autem mortis est cuncta peccata; multa enim unum corpus sunt, singula quasi

membra uno auctore inventa ex quibus homo ereptue gratia Dei per baptis-

mum supradictam mortem evasit ... « Igitur ego ipee, etc. ». Legem Dei cum

dicit, et Morsi significat legem et Christi. « Ego ipse » id est qui liberatus

sum de corpore mortis... liberatus est a cunctis malis. Remissio enim peccato-

rum omnia tollit peccata. Liberatus ergo de corpore mortis gratia Dei per Chri-

stum, « mente », vel animo, « servio legi Dei, carne autem legi peccati », id est

diaboli qui per subiectam sibi carnem suggesticnes malas ingerit animae ...

^i Mente servio » etc.... Iam enim liber animus et in consuetudinem bonam re-

vocatue Spiritu Sancto adiuvante, ma-Las suggeetiones potest spernere: reddita

est enim illi auctoritas qua audeat resistere inimico... Caro autem quia iudi-

cium non habet neque capax est discernendi (est enim bruta natura) non potest

inimico aditum claudere, ne veniena introeat atque animo contraria suadeat...

Cum autem unus homo carne constet et anima, ex illa parte qua sapit Deo

servii, ex altera eutem qua etolidus est, legi peccati. Si enim homo in eo quod

factus est perdurasset, non esset potestas inimico ad carnem eiue accedere et

animae contraria susurrare. Ut autem totus homo minime reparatus fuisset

Christi gratia ad statum pnslinum (una specie di tes'Atutio in i'r./egruim) sen-

tent'a obstitit data in Adam; iniquum enim erat solvere sententiam iure de-

promptam. Idcirco manente sententia, providentia Dei remedium inventum est,

ut redhibiretur homini ealus, quam proprio vitio amiserat, ut hic sanatus cre-

138
deret quia adversariue eius devictus potentia Christi non auderet transpuncta

sententia primae mortis hominem sibi defendere, adunato genere Adae, ne ad

primae originis redderetur facturam, iam totus permanens immortalis ». Vale

la pena di osservare come, pur non usando un frasario tecnicamente giuridico,

l'Ambrosiastro si ispira a concezioni proprie del diritto. L remedium va in-

teso come un vero e proprio « rimedio giuridico ».

(31) Una considerazione che potrà sembrare molto materiale, ma che pure

ha, aggiunta alle altre, un certo peso, è questa: su poco più di 8 Colonne nel-

l'ediz. dei Maurini che occupa l'intero commento dell'Ambrosiastro a Rom. IX,

poco più di 5 sono dedicate ai vss. 6-28; una e mezza ai ves. 29-33. Le consi-

derazioni fatte nel testo, e del resto banali, sui motivi che ispirano l'Ambrosia-

stro non implicano affatto (è appena superfluo avvertirlo) una mia presa di

posizione anche larvata, nella vexata quaestio dell'identificazione di questo

scrittore.

(32) Ambrostr. a Rom. Vlii, 29: « Istis quos praescivit futuros sibi devotos

ipsos elegit ad promissa praemia capessenda; ut hi qui credere videntur et non

permanent in fide coepta, a Deo electi negentur; quia quos Deus elegit, apud

se permanent ». — a IX, 7: « Hoc est quod vult intelligi, non iam ideo dignos

esse omnes quia filii sunt A.brahae, sed eos esse dignos qui filii promissionis

sunt, id est quos praesciit Deus promissionem suam suscepturos... ». — IX,

11-13: « Praescientiam Dei flagitat in his causis, quia non aliud potest evenire

quam novit Deus futurum. Sciendo enim quid unusquisque illorum futurus

asset, dixit: hic erit dignus, qui erit minor et qui maior erit irtdi.gnus. Unum

elegit praescientia et alterum sprevit; et in ilio quem elegit propositum Dei

manet quia aliud non potest evenire quam quod scivit et proposuit in ilio
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ut salute dignus sii; et in ilio quem sprevit simili modo manet propositum quod

proposuit de ilio quia indignus erit. Hoc quasi praescius, non personarum ac-

ceptor, nam neminem damnat ante quam peccet et nullum coronat antequam

vincat. Hoc pertinet ad causam ludaeorum, qui sibi praerogativam defendunt

quod filii sint Abrahae. Apo&toJus autem consolatur se... Minuit ergo dolorem

suum inveniens olim praedictum quod non omnes essent credituri; ut his solis

doleat qui per invidiam in incredulitate laborant. Possunt tamen credere, quod

ex subiectis aperit. Incredulis lamen praedictis non valde dolendum est, quia

non eunt praedestinati ad vitam^ praescientia enim Dei olim hos non salvandos

decrevit... Praescius itaque Deus malae illos voluntatis futuros, non illoshabuit in

numero bonorum... Sed hoc propter iustitiam, quia hoc est iustum ut unicuique

pro merito respondeatur. ... De iustitia enim Deus iudicat, non de praescien-

t:a... Non est personarum acceptio in praescientia Dei; praescientia enim est

qua definitum habet qualis uniuscuiusque futura voluntas erit, in qua man-

surus est, per quam aut damnetur aut coronetur. Denique quosscit in bono man-

suros frequenter ante sunt mali et quos malos scit permansuros aliquoties prius

sunt boni ». — A 14: « lustus est Deus; scit enim quid faciat nec retractandum

est eius iudicium. Hoc in Malachia propheta habetur: lacob, etc. (Mal. I, 3 cfr.

vs. 13). Hoc iam de iudicio dicit; nam prius de praescientia ait quia maior etc.

(Gen. XXV, 23 cfr. vs. 12), sicut et de praescientia Pharaonem damnavit, sciens

se non correpturum; apostoium vero Paulum persequentem e'.egit, praescius

utique quod futurus eeset bonus. Hunc ergo praevenit ante tempus quia necee-

sarius erat et Pharaonem ante futurum iudicium damnavit, ut crederetur ludi-

139
caturus ». — A 15: « Hoc est " eius miserebor"; cui praescius eiam quod mi-

sericordiam daturus essem, sciens conversurum illum et perinanaurum apud

me.., ei misericordiam dabo quem praescivd posi errorem recto corde rever-

surum ad me.'Hoc est dare illi cui dandum est et non dare illi xui dandum

non est, ut eum vocet quem scdat obaudire, illoim autem non vocet quem sciat

minime obaudire. Vocare autem est non pugnare sed compungere ad recipien-

dam fidem ». — A 16: « Ex hoc utique dantis Dei et non dantis iudicium se-

quendum est, quia non iniuste iudicat, qui omnes salvos vult, manente iusti-

tia: inspector enim cordis scit petentem, an hac mente poscat ut mereatur acci-

pere. Et... propter diffidente®, ut mens eorum medelam consequi possit, ne

putent iudicium Dei iniustum dicentes: Unum vocat et alterum negJigit, sic

arbitrante» excusari posse damnandos, rebus istud potius probemu« quam ver-

bis (esempi di Saul e Davide). — A 18: « Ex persona contradicentis loquitur,

qui quasi putet Deum neglecta iustitia alicui •gratiosum, ut unum e duobus pa-

ribus accipiat, alterum respuat, hoc est unum compungat ut credat, alterum

induret ne credat. Cui quidem ex auctoritate respondet, servata tamen iusti-

tia... ». A 19: « Nec enim competit ei ut iniustus sit, cuius benevolentia tanta

cipparet... Qui ergo tam providus et bonus est, ambigi non debet quia iustus

est». — A 21: « Manifesfum est vasa aliqua fieri ad honorem... alia vero ad

contumeliam...; unius tamen esse substantiae sed differre voluntate opificis in

honore. Ita et Deus, cum omnes ex una atque eadem massa simus in substantia

et cuncti peccatores, alii miseretur et alterum despicit (cfr. n. 29) non sine iu-

stitia... scit enim cuius debeat misereri, sicut supra memoravi ». — A 22: « Ipse

sensus est, quia voluntate et longanimitate Dei, quae est patientia, praepa-

rantur infideles ad poenam: diu enim exupectati conventi noluerunt. Ideo ergo
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exspectati sunt, ut inexcusabiles deperirent. Scivit enim Deus hos non credi-

turos ». — A 23: « Patientia et longanimitas Dei ipsa est quae sicut malos

praeparat ad interitum, ita et bonos praeparat ad coronam; boni enim sunt

in quibus spes fidei est. Omnes enim sustinet, sciens exitum singulorum; ac

per hoc patientia est, quae illos qui ex malo corriguntur aut in bono perseve-

rantee sunt praeparat ad gloriam... Eos autem qui ex bonis fiunt mali et in

coepto malo perdurant, praeparat ad interitum... Praeparare autem unum quem-

que est praescire quid futurum est ». — A 24: .i Hos quos vocavit praeparavit ad

gloriam, sive eos qui prope erant, sive eos qui longe, sciens permansuros in

fide ».

(33) Cfr. Ambrostr. Quaest. Ver. et Novi Test., qu. 52 (II nov. 61, ed. Scu-

ter p. 446), a Gai. V, 19-21, 1: « Qarnem non substantiam carnis eo loco intel-li-

gas, sed actus malos et perfidiam significatam in carne... 2: « Hic itaque error,

quem carnem appellai, concupiscit adversus spiritiim, id est suggerii mala

contra eundem spiritum, qui est lex Dei. Duas enim leges inducit, Dei et dia-

boli... His ergo repugnantibus medius homo est, qui cum consentii spiritui, non

vult caro; cum autem manum dat carni, spernit spiritum, id est legem Dei

contemnit... 3: « Ideo ergo haec apostolus publicat, ut ostendat arbitrio humano

cui rei voluniatem suani .committat, non ut arbitrium libertatis inaniat, sed

doce^arbitrium cui rei se coniungat. Si autein non est voluntatis arbitrium, ne-

que lex diaboli quae est caro, neque lex Dei quae est spiritus, invicem sibi

adversando hominem consiliis sollicitarent. Qui enim sollicitat, suadet; qua

autem suaret non vim inferi, sed ciroumvenit; qui circumvenitur, fallaciis qui-

busdam voluntas eius mutatur. Si autem non esset liberum ajbitrium, nolene

140
homo traheretur ad ea quae non vult », cfr, anche Traci, in Gol., p. es. a

V, 17-18: « Duae leges proponit, eicut facit et in epistola ad Romanos, quae

invicem advereae sunt, unam Dei alteram peccati. Quae ideo in carne signi-

ficatur quia visibilibus oblectatur, cupida peccatorum; ut his sibi adversantibus

mediuc homo non ea quae vult aga-t. Divina enim lex piemit et fugat legem

peccati, consulens homini ut vigorem naturae suae custodiat, ne capiatur ille-

cebris; illa e contra in insidiis agene, lacessit hominem blanditite ut spernat

praeceptum legis divinae. Cum ergo consensent homo legi Dei, contradicit lex

peccati... ». E anche Trac/, in Ephes., a II, 9-10: « Gratia fidei data est, ut cre-

dentes salvemtur. Verum est quia omnis gratiarum actio salutis nostrae ad

Deum referenda est, qui misericordiam suam nobie praestat, ut revocaret er-

rantes ad vitam et non quaerentes verum iter. Ideoque non est gloriandum

nobis in nobis ipsis, sed in Deo, qui nos regeneravit nativitate caelesti per

lidem Christi, ad hoc ut bonis operibus esercitati, quae Deus nobis iam rena-

Us decrevit promiesa mereamur accipere ».

(34) Cfr. TracUn Rom. a V, 12 cit. a n. 28; 14 cit. a n. 29; a VII, 11, 14,

24-25 cit. a n. 30.

(35) Che d altra parte è strettamente congiunta con la cura ch'egli ha

di far rijevare il valore della Legge, a sua volta connessa con l'atteggiamento

contrario al dualismo manicheo.

(36) Cfr. n. 29, in fine.

(37) P. es. Agostino non spinge allo stesso punto la contrapposizione tra

il demonio e Dio — senza dubbio per una preoccupazione antimanichea — e,

non avendo la mentalità giuridica deU'Aoibroeiastro, non insiste affatto sul

concetto di una sentenza divina vera e propria, pure parlando frequentemente


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di pena, ma piuttosto in senso morale. Tanto più degno di rilievo mi pare il

punto in cui anche Agostino fa sua, per un momento, la dottrina del « chiro-

grafo » (cfr. De lib. arb. III. 31 cit. a e. IV, n. 26).

(38) Expos. Ep. ad Galalas, 39 (a IV, 20): «Non autem sufficit quod

de libera uxore natus est Isaac ad significandum populum heredem Novi

Testamenti; sed plus hic valet quod secundtim promissionem natus est. lile au.

tem et de anetila secundum carnem et de libera nasci potuit secundum carnem,

sicut de Cethura, quam postea duxit Abraham, non secundum promissionem sed

secundum carnem s-uscepit filios... Qui filli de libera quidem, sicut isti de ec-

clesia, sed tamen secundum carnem nati sunt non spiritualiter per repromds-

sionem. Quod si ita est, nec ipsi ad hereditatem inveniuntup pertinere, id est

ad caelestem lerusaJem, quam eterilem vocat Scriptura, quia diu filios in terra

non genuit. Quae deserta etiam dieta est, caelestem iustitiam deserentibus ho-

minibus, terrena sectantibus, tamquam virum habente illa terrena lerusalem,

quia Legem acceperat. Et ideo caelestem leruealem Sara significat, quae diu

deserta est a concubitu viri propter cognitam sterilitatem. Non enim tales ho-

mines, qualis erat Abraham, ad explendain libidinem utebantur feminis, sed ad

successionem prolis. (Anche questo inciso, e il fatto di averlo inserito, non è

privo di significato)... Senectus autem parentum Isaac ad eam significationem

valet, quoniam Novi Testamenti populus quamvis sii novus, praedeetinatio ta-

men eius apud Deum, et ipsa lerusalem caelestis antiqua est... Carnales autem

qui sunt in ecclesia, ex quibus haereses et sohismata fiunt, ex Evangelio quidem

occasionem nascendi acceperuat, sed carnalis error quo concepii sunt et quem

141
secum trahunt non refertur ad antiquitatem veritatis; et ideo de matre adule-

soentula et de patre sene sine repromissione nati sunt... Nati sunt ergo tales ex

occasione antiquae veritatis in novitio lemporalique mendacio. Dicil ergo noe

Apostolus secundum Isaac promissionìs filioe esse; et sic persecutionem passimi

Isaac ab Ismaele quemadmodum hi qui spiritaliter vivere coeperant a carna-

libus ludaeis persecutionem patiebantur: frustra tamen, cum secundum Scri-

pturam eiciatur ancilla et filius eius, nec heres esse possit cum filio liberae ».

(39) Cfr. e. II, n. 16.

(40) Cfr. Ambr. De Cain et Abeì, I, 6, 23-24 (C. S. E. L. 32 p. 1, pp. 359-60);

Explan, in Ps. XXXVI, 61 (C. S. E. L. 64, p. 118); De Abraham, II, 72 (C. S. E. L.

J2, p. 1, p. 606).

(41) De div. quaest. LXXXIII, qu. 81, De quadragesima et quinquagesima,

2: « Et ideo ea quae nunc est Ecclesia, quamvis filii Dei cimus ante tamen

quam appareat quid erimus, in laboribus et afflictionibus agit... Et hoc est lem-

pus quo ingemiscimus et dolemus exspectantes redemptionem corporis nostri

(cfr. Rom. Vili, 23), quod Quadragesima celebratur... cum.., non solum credere

quae pertinent ad fidem sed etiam perspicuam veritatem intetlegere mereamur.

Talis Ecclesia, in qua nulhis erit moeror, nulla permixtio malorum hominum,

nulla iniquilas, sed laetitia et pax et gaudium, Quinquagesimae celebratione

praefiguratur ». — 3: « Haec autem duo tempera, idest unum laboris et sollici-

tudinis, alterum gaudii et securitatis, etiam retibus missis in mare Dominus

noster significat. Nam ante passionem de reticulo dicitur misso in mare, quia

lantum piscium ceperunt ut vix ad litus trahendo perducerent. et ut retia rum-

perentur (Luca, V, 6-7). Non endm mòssa sunt in dexteram partem (haibet emm

multos malos Ecclesia huius temporis) neque in sinistra (habet enim etiam
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bonos), sed passim, ut permixtionem bonorum malorumque significaret. Quod

autem rupta sunt retia, charitate violata multas haeresee exiisse significat. Post

resurrectionem vero, cum vellet Ecclesiam futuri temporis praemonstrare, ubi

omnes perfecti atque sancii futuri sunt, iussit mitti relia in dexteram partem

et capti sunt ingentes pisces centum quinquaginta tres, mirantibus discipulis

quod cum lam magni essent, retia non sunt disrmpta ».

(42) De ag. chr., 14, 16-32, 34. Notevole l'ampiezza del e. 28, 31, contro i

Donalisti, «qui sanctam ecclesiam quae una catholica est negant per orbem esse

diffusam (cfr. 13, cit. a n. 47) sed in sola Africa, hoc est in parte Donati po.-

lere arbitrantur » e che i due successivi siano dedicati uno (32) ai luciferiani

l'altro (33) a coloro « qui negant ecclesiam Dei omnia peccata poese dimit-

tere... Isti sunt qui viduas, si nupserint, tamquam adulteras damnant et super

doctrinam apostolicam se praedicant esse mundiores ».

(43) Anche l'Incarnazione è spiegata ora in relazione a questa lotta:

« Coronam victoriae non promittilur nisi certantibus. In divinis autem scriptu-

ris assidue invenimus promitti nobis coronani si vicerimus... Debemus ergo co-

gnoscere quia sit ipse adversarius, quem si vicerimus coronabimur. Ipse est

enim quem Dominus noster prior vicit ut etiam nos in ilio permanentes vinca-

mus... Sed quia naturam nostram deceperat, dignatus est unigenitus Dei Filiue

ipsam naturam nostram suscipere ut de ipsa diabolus vincerelur et quem

semper ipse sub se habet, etiam sub nobis eum esse faceret. Ipsum significat

'Jicens (lolì. XII, 31), non quia extra mundum missus est, quomodo quidam

142
haeretici putant, sed forae ab animis eorum qui cohaerent Verbo Dei et non

diligunt mundum, cuius ille princeps est quia dominatur eis qui diligunt tem-

poralia bona quae hoc mundo visibili continentur, non quia ipse dominue est

huius mundi, sed princeps cupìditatum eorum quibus concupiscitur omne quod

transit, ut ei subiaceant qui neglegunt aeternum Deum et diligunt instabilia et

mutabilia... Per hanc cupiditatem regnat in homine diabolus et cor eius temei.

Tales sunt omnes qui diligimi istum mundum. Miltitur autem diabolus foras,

quando ex tolo corde renuntiatur buic mundo. Sic enim renuntiatur diabolo,

qui princeps est huius mundi, cum renuntiatur corruptelis et pompis et angelis

eius » (De ag. chr., 1). — Si noti il significato del richiamo al battesimo.

(44) De ag. chr. 2: « Habemus magistrum qui nobis demonstrare dignatus

est, quomodo invisibiles hostes vmcantur... Ibi ergo vincuntur inimicae nobis

invisibiles potestates, ubi vincuntur invisibiles cupiditates... Non slmus terra,

si nolumus manducari a serpente. Sicut enim quod manducamue in corpus no-

strum convertimus, ut cibus ipse «ecundum corpus hoc efficiatur quod nos su-

mus, sic malis moribus per nequiliam et impietatem hoc efficitur quisque quod

diabolus, id est similis eius, et subicitur ei, sicut «ubiectum est nobis corpus no-

strum ». — 10, 11: « Deus hominem inexterminabilem (cfr. Sap. II, 23) fecit et ei

liberum voluntatis arbitrium dedit. Non enim eseet optimue si Dei praeceptis ne-

cessitate non voluntate servirei ». •— 11, 12: Certi che discutono l'Incarnazione

(cfr. 1, a n. 40) « non... intelligunt quid eit aeteinitas De'' quae hominem adsum-

psit, et quid sit ipsa humana natura, quae mutationibus euis in pristinam firmi-

tatem revocabatur, ut disceremus docente ipso Domino infirmitates, quas pec-

cando collegimus, recle faciend'o posse sanari. Ostendebatur enim nobis ad

quàm fragilitatem homo sua culpa pervenerii et ex qua fragilitate divino au-
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xilio liberetur. Itaque Filius Dei hominem adsumpsil ». — 13, 14: « Subiciamus

ergo animam Deo, si volumus servituti eubicere corpus noetrum el de diabolo

triumphare. Fides esl prima quae subiugal animam Deo; deinde praecepta

vivendi quibus custodilis spes nostra firmatur et nutritur caritas et lucere in-

cipit quod antea lantummodo credebatur. Cum enim cognitio et actio beatum

hominem faciant, sicut in cognitione cavendus est error, sic in actione cavenda

est nequitia. Errat autem quisquis putat veritatem se posse cognoscere, cum

aàhuc nequiter vivat. Nequitia est autem mundum istum diligere et ea quae

nascuntur el transeunt pro magno habere et ea concupiscere... Itaque prius-

quam mens nostra, purgetur debemus credere quod intellegere nondum vale-

mus». — 27, 29: (loh. Ili, 18): hoc dixil quia iam damnatus est praescientia

Dei qui novil quid immineat non credentibus ».

(45) De ag. Chr., & Dopo aver citato / Cor. IX, 26-27 e XI, 1 : « Quare intel-

legendum est etiam ipsum aposlolum in semetipso triumphasse de potestatibus

huiue mundi; sicut de Domino dixerat, cuius se imitatorem esse profitetur.

Imilemur ergo et nos illum ».

(46) La conseguenza di questo presupposto è che in quasi tulio il capo 7

di Romani l'apostolo parlerebbe non di se stesso, ma a nome dell'umanità non

ancora sub gratia: cfr. De div. quas&i. LXXXIII, qu. 66, 5 cil. a c. IV, n. 16).

(47) De ag. chr., 12, 13: « Sed ecclesia catholica per lolum orbem longe la-

* 143
teque diffusa... criminatores palearum euarum non curat, quia tempus meesis et

tempuG arearum et tempus horreorum caute diligenterque distinguiti crimina-

tores autem frumenti sui aut errantes corrigli, aut invidentes inter epinas

et zizania computat ».

(48) Gfr. De ag. chr. 33, cit. a n. 42.

.(49) Ep. 82, 5: « At enim satìus esl credere apostohmi Paulum non vere

scripeisse quam apostolum Petrum non recte aliquid egiese. Hoc si ila est,

dicamus, quod' a.bsit, satiue esse credere mentiri evangelipm, quam negatum

esse a Petro Christ-um ».

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VI

L'occasione di tornare a meditare sulla lettera Ai Romani fu

offerta presto ad Agostino dalle domande rivoltegli da Simpliciano,

successore sulla cattedra episcopale milanese, di S. Ambrogio, mor-

to il 4 aprile del 397. A quelle domande Agostino si accinse a ri-

spondere nel tempo in cui diveniva prima coadiutore, quindi suc-

cessore del vescovo Valerio. Ed egli deve aver colto tanto più vo-

lentieri l'opportunità che gli si presentava di spiegarsi meglio, in

quanto coincideva con un suo bisogno spirituale (1). Del resto questa

esigenza di chiarirsi sempre più pienamente, con iterate letture e

commenti, i libri fondamentali della Bibbia, sembra essere stata una

delle più appariscenti caratteristiche di Agostino dal giorno in cui

entrò nella carriera ecclesiastica : basta pensare ai commenti alla

Genesi (2).

La prima quaestio del primo libro concerne Romani, VII, 7-25.

Quale sia l'indirizzo del pensiero di Agostino è rivelato fin dall'i-

nizio, dove egli avverte che l'apostolo si è come travestito da uomo

posto sotto la Legge (3). Il problema fondamentale è quello del va-

lore che Paolo attribuisce alla Legge stessa : dopo aver parlato di

« Legge di morte » (Rom. VII, 6 nel testo « occidentale ») egli si

preoccupa che si possa accusarlo di averla incolpata : cosa che non

intendeva affatto di fare, pur dicendo che essa ha fatto conoscere il

peccato. Se prima della Legge il peccato si poteva dire « morto »,

cioè ignorato, dopo la Legge esso venne conosciuto (« rivisse », il

che significa ch'esso era già vivo, ossia noto, nella prevaricazione
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di Adamo). Ma con la legge, essendo ormai conosciuto il precetto,

si aggiunse il fatto della trasgressione volontaria. Bisogna dunque

io

145
distinguere due momenti : prima della Legge, quando il peccato

esisteva ma era « morto», senza la coscienza di peccare; dopo la

Legge, quando il peccato viene commesso con piena coscienza ed è

più grave (4). La proibizione non ha dunque fatto altro che ac-

crescere il desiderio e rendere il peccato più dolce, perchè gli uomini

che non hanno ancora ricevuto la grazia commettono più volentieri

ciò che è vietato : così il peccato ha ingannato gli uomini, promet-

tendo un piacere, che è seguito da gravi pene e inducendoli alla

trasgressione, e alla morte. I1 male non è dunque nella Legge, bensì

in chi ne usa male e la trasgredisce, non sottomettendosi umilmente

a Dio per ottenere a grazia, si dà poter divenire spirituale, capace

di adempiere la Legge. L'uomo spirituale, quanto più si adegua alla

Legge spirituale cioè si eleva a desideri spirituali, tanto più facile e

dilettoso trova l'adempimento, p.erchè illuminato dalla Legge stessa :

la grazia gli rimette i peccati e gl'infonde lo spirito di carità, per cui

ama la giustizia (5).

Ma, poichè Paolo applica a se stesso il termine di « carnale »,

Agostino osserva che questo appellativo può essere inteso in vari

sensi e applicato a diverse categorie di persone. Carnali infatti in cer-

to modo si possono chiamare, come fa l'apostolo con i fedeli di Co-

rinto (I Cor. IH, 2), anche coloro che sono già sub gratia, rinati

mediante la fede e redenti dal sangue di Cristo. Carnali in senso più

stretto e proprio sono altresì coloro che si trovano ancora sub Lege,

schiavi Jel peccato e d: quella dolcezza ingannevole, trasgressori co-

stretti a servire alla passione e nondimeno consci di peccare. Co-


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storo riconoscono la buntà della Legge e vorrebbero conformarsi ad

essa, e tiprovano ii male che fanno, ma, vinti dalla passione, ne

subiscono il dominio. Paolo dunque, parlando in prima persona', si

riveste della personalità di chi non è ancora sub gratta (6). Costui

consente alla Legge, in quanto sa che nella sua carne non dimora il

bene; eppure nelle sue azioni cede al peccato. E questo peccato,

donde viene ? Agostino distingue : v'è un peccato che proviene dal-

la natura dell'uomo in quanto mortale ed è la pena del peccato ori-

ginale di Adamo, con cui veniamo al mondo. L'altro deriva dalla

consuetudine al piacere, è un peccato ripetuto e che noi stessi ac-

cumuliamo vivendo. L'una e 1 altra cosa, natura e consuetudine. si

congiungono insieme e dànno forza invincibile alla passione : questo

è il peccato che Paolo dice abitare nella sua carne ed esercitarvi

146
un dominio dispotico (7). Alcuni, osserva Agostino, credono che

esprimendosi a quel modo Paolo abbia voluto togliere all'uomo il

libero arbitrio ; ma errano. L'apostolo, dicendo che il volere è a sua

portata di mano, riconosce che è in suo potere; ma l'uomo che

non è ancora sub gratta non ha la facoltà di compiere il bene, e

questa è la retribuzione del peccato originale, pena del delitto per cui

fu mutata la natura originaria de!' uomo in mortele, quasi seconda

natura, dalla quale ci libera la grazia di Dio quando ci trova' sotto-

messi ,a lui mediante la fede. Ma chi sta ancora sub Lege è vinto

dalla concupiscenza, che trae forza non solo dalla mortalità che ci

è d'impedimento bensì dalla consuetudine che ci opprime. L'uomo

sotto ,la Legge, di cui Paolo assume la personalità, riconosce dunque

che la Legge è buona, in quanto si rimprovera di contravvenirle,

ma nondimeno non riesce ad ottemperare ai suoi precetti. Si vede

così incolpato per la trasgressione ed indotto ad invocare la grazia

del Redentore. Questo peso opprimente della condizione mortale

si può chiamare legg'i delle membra: legge, perchè sanzionata da

Dio con una sua sentenza a titolo di pena. Essa combatte contro

la legge della mente, e prima che l'uomo sia giunto ad essere sub

gratia lo tiene schiavo di se stesso e del peccato. Perciò l'uomo che

è ancora in questa servitù non deve presumere delle sue forze,

come i Giudei si vantavano delle opere della Legge : chi è ancora

vinto, prigioniero e prevaricatore non ha altra risorsa che invocare

umilmente la benevolenza di Dio e riconoscere che la liberazione

non gli può venire che dalla grazia. Dunque in questa vita mortale
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il libero arbitrio non è capace di far sì che l'uomo possa adempiere

alla giustizia, pur volendo ; ma esiste, e conserva tuttavia quel tanto

di vigore che basta a ottenere che l'uomo si rivolga supplichevole

a Dio, il quale gli dona la forza di adempiere (8).

Paolo dunque, ripete Agostino, non incolpa direttamente la Leg-

ge ; essa impone di fare ciò di cui l'uomo è incapace, se prima non

si sia rivolto a Dio. Perciò alla categoria degli uomini sub Lege, che

sono da essa dominati e puniti come contravventori, si contrappone

quella sub gratia (terzo grado che si aggiunge ai due già segnalati),

i quali sono sottratti al timore della legge e messi in condizione di

eseguirla per amore (9). Perciò la Legge è detta legge di morte

per i Giudei ; i cristiani invece si possono considerare morti alla

legge che condanna. Cioè, alla Legge, senz'altro : perchè il ter-

147
mine si usa più comunemente in quseto senso, e d'altra parte non

ci sono due leggi, come credono i manichei (10); ma la stessa legge

promulgata con Mosè affinchè fosse temuta, con Cristo è diventata

grazia e verità, affinchè fosse adempiuta. Allo stesso modo la Legge

si può chiamare « lettera che uccide / per i Giudei e per tutti coloro

che, privi dello spirito di carità e di amore che è proprio del Nuovo

Testamento, la leggono ma non la. comprendono né eseguiscono :

mentre coloro che sono morti al peccato attraverso il sacrificio di

Cristo sono anche morti alla lettera (11).

I motivi fondamentali sono dunque gli stessi che abbiamo sem-

pre trovato fin qui : in particolare, come era naturale trattandosi di

commentare il medesimo testo, nella qu. 66 del De diversis quaestio-

nibus LXXXHI. Rimanee netta la distinzione dei tre stadi, ante Legem,

sub Lege e in gratia caratterizzati alla stessa maniera. Agostino con-

tinua a pensare che San Paolo dicendosi « carnale » indichi non la

propria persona, ma l'uomo sub lege; però l'apostolo appartiene

alla categoria degli spirituali, i quali ormai vincono le passioni ine-

renti alla carne mortale, sebbene siano ancora soggetti a sentirle.

Sotto questo aspetto [anche se non trovarne qui la metafora della

massa che d'altronde il testo commentato non suggeriva) l'umanità

è veramente una con Adamo : in conseguenza del suo peccato e

per effetto di una sentenza di Dio, essa eredita quella perversione

della sua natura originaria, che è la mortalità*. Ma gli effetti della

colpa di Adamo si limitano a questo : vi è trasmissione della pena,

non del peccato. Il peccato si ha quando l'uomo di fronte alla Legge,


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sentendo di non potersi conformare ai suoi precetti, trascura di fare

ogni sforzo per ottenere il soccorso divino che gli è necessario.

Questa necessità è affermata, e quindi l'uomo non si redime da

solo : è chiaro che Agostino era già arrivato a pensare che l'uomo

vale non in quanto si dedichi alla ricerca della verità ma in

quanto viva nella Chiesa e partecipi dei suoi sacramenti (12). Ma oltre

il rilevare gli effetti che tale partecipazione ha avuto psicologica-

mente sulla persona di Agostino è impossibile andare, perchè non

troviamo traccia nelle sue opere di questo periodo, di una dottrina

dei sacramenti, e anche l'ecclesiologia è in uno stato ancora em-

brionale, non avendo egli anccra sviluppato il concetto della per-

manenza di buoni e malvagi nella Chiesa sino alla separazione

finale.

148
Insomma, per Agostino, in questo momento, non vi è peccato

che non sia individuale; il passaggio dal secondo al terzo stadio

dipende dal volere di ogni uomo, libero di commettere, non sotto-

mettendosi a Dio, un peccato di superbia, o di compiere un atto di

umiltà, invocando la grazia che lo metterà in grado di adempiere i

precetti della Legge con amore anziché per timore, acquistando così

la salvezza in ricompensa di un merito di cui Dio senza dubbio ha

prescienza, anzi lo conosce eternamente, ma che è un merito dello

uomo : i predestinati sono coloro dei quali Dio nella sua prescienza

sa che avranno fede. Il problema dei rapporti tra prescienza e on-

nipotenza di Dio non ha formato ancora l'oggetto di uno studio ap-

profondito.

In questa serie di commenti a S. Paolo, Agostino ha dunque ela-

borato una dottrina, di cui sembra per ora soddisfatto. E il rilevare

qualche oscurità non deve farci dimenticare ch'essa non manca di

coerenza. Di fronte a ogni sistema più o meno intinto di dualismo,

tale dottrina salva l'unità della rivelazione e di Dio, come la sua

trascendenza e la sua giustizia. Certo, può sembrare un'incrinatura

nel sistema che Agostino, ricordando il testo di / Corinzi III, 1-2

ammetta che vi siano uomini « carnali » anche dopo aver ricevuto il

battesimo. Ma egli distingue con sufficiente nettezza questa cate-

goria di « carnali », così chiamati perché non abbastanza progrediti

nella fede, dai « carnali » veri e propri, ancora sub lege. E' anzi

perché egli ha vivissimo il sentimento della diversità tra i rimasti

ne) secondo stadio e coloro che sono pervenuti al terzo, che Ago-
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stino non vuole ammettere che ai già battezzati Paolo applichi la

qualifica di « carnali » nel pieno senso del termine. Non bisogna di-

menticare che, anche in gratia, l'uomo rimane mortale e ha quindi

in sè, come conseguenza inevitabile della mortalitas, la concupiscenza

destinata a estinguersi soltanto nel quarto grado, in pace, quando

con la resurrezione l'uomo riacquisterà il corpo spirituale. Sol-

tanto allora questa pena del peccato di Adamo scomparirà inte-

ramente. Ma forse anche quella distinzione è fatta piuttosto per

salvare i1 sistema ; e forse il riconoscere che si è carnali e che la con-

cupiscenza sopravvive anch.e in gratia, e quindi l'aver continuato a

riflettere sopra un testo che non potè non metterlo per un momento

in imbarazzo, non fu senza conseguenze sullo spirito di Agostino e

sullo svolgimento ulteriore del suo pensiero.

149
Nella seconda quaestio Agostino esamina Romani IX, 10-29.

Come- già nel De diversis quaestionibus LXXX1I I (13), egli comin-

cia con l'affermare che San Paolo non vuole abolire comple-

tamente le opere bensì mostrare che esse seguono, non precedono,

la fede : questa ottiene la grazia che pertanto è condizione del

bene operare, non conseguenza di esso. La grazia poi si comincia

a ricevere quando si comincia a credere, ma non sempre e non in

tutti essa è sufficiente a procurare il regno dei cieli : così accade,

per esempio, nei catecumeni. Si delinea dunque di nuovo la dif-

ferenza tra coloro che non sono abbastanza progrediti nella fede

e gli altri : infatti vi sono nella fede delle gradazioni. Vi è un'ini-

zio, che assomiglia al concepimento, ma non è ancora la nascita.

Nulla si ottiene senza la grazia (14).

Posto così il problema del rapporto tra l'azione di Dio e quella

dell'uomo nella giustificazione, Agostino si prepara a risolverlo.

Le difficoltà sono molte e varie. Si rischia da un lato di attribuire

implicitamente a Dio anche l'origine del male o un procedere

arbitrario e tirannico, contrario alla giustizia ; dell'altro, di ca-

dere in un razionalismo che prescinda dai dati rivelati o li neghi.

La causa profonda dei dubbi in cui si dibatte Agostino deriva ap-

punto dal fatto, che egli attribuisce ora alla rivelazione un valore

infinitamente più grande di quanto non facesse all'inizio della sua atti-

vità di pensatore cristiano. La ferma decisione, di rimanere ade-

rente ai testi biblici e di evitare al tempo stesso pericoli che conosce

per penosa esperienza, lo inducono a non risparmiare gli sforzi. Ra-


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giona così, non esponendo una dottrina già fatta, ma argomentando

in base ai testi che ha sempre presenti, e a contatto coi quali

la fiducia nella soluzione già raggiunta viene alquanto scossa.

Perciò egli procede in maniera che può apparire contorta, e rende

senza dubbio difficile il seguirlo. Assistiamo al lavorio, direi quasi

al travaglio, del suo pensiero che viene faticosamente maturandosi.

Alla mente di Agosting, pur dopo quella premessa, si presenta

un altro testo, Efesini II, 8-9. Ora, egli incornicia con l'osservare

che Giacobbe non poteva essersi acquistato alcun merito con le

opere, prima di nascere; e parimenti Isacco non s'era meritato

di nascere e che Dio promettesse ad Abramo una discendenza.

Il vero « Seme di Abramo », cfàè i redenti in Cristo, sono dunque

coloro che comprendono di essere « figli della promessa », anzi

150
senza insuperbire per i loro meriti attribuiscono l'essere coeredi

'di Cristo soltanto alla chiamata di Dio. Anzi, per escludere i me-

riti dei genitori, i quali avrebbero potuto avere al momento del

concepimento disposizioni diverse, Esaù e Giacobbe furono ge-

melli, concepiti nello stesso istante ; il che, tra l'altro, mostra quanto

siano vane le speculazioni degli astrologi (15). Ma questo serve

ad abbattere la superbia degli uomini, col mostrare che la diversa

sorte dei due gemelli — o piuttosto l'elezione dell'uno — non

può essere dovuta che a Dio, il quale fa la grazia di chiamare ;

chi riceve la grazia compie poi le opere buone. Ma come si con-

cilia tutto ciò con la giustizia di Dio? Come si può parlare di una

« scelta », che non ha potuto essere fatta in base ad alcun merito,

il quale non poteva essere acquistato prima di nascere né di

poter fare alcuna opera buona, e neppure in base ad una diffe-

renza di natura, trattandosi di gemelli? E d'altra parte è chiaro

che, se Dio è giusto, non potè eleggere Giacobbe affine di farlo

buono, prima che fosse tale.

Ed ecco presentarsi nuovamente ad Agostino la soluzione

adottata altre volte : forse Dio, nella sua prescienza, previde la

fede di Giacobbe prima ancora che nascesse? Sicchè, nessuno è

giustificato in base alle opere buone, perché non può fare il bene

se prima non sia stato reso giusto; ma, poiché Dio giustifica in

virtù della fede, e credere è nel libero arbitrio dell'uomo, Dio

prevede questa volontà di credere e, nella sua prescienza, elegge

ancor prima della nascita, colui che giustifica. Ma la debolezza di


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questa risposta appare subito evidente. Infatti, se Dio previde la

fede di Giacobbe, come possiamo escludere che potesse prevedere

anche le opere e che non lo elesse per queste? E come si giu-

stifica il detto dell'apostolo che l'elezione non è dovuta alle opere?

Giacchè, o diciamo che ciò fu in quanto non erano nati ancora,

e dobbiamo riconoscere che mancava loro anche la fede ; o ricor-

riamo alla prescienza di Dio, e questa si estende certamente anche

alle opere. Il problema resta dunque insoluto, se non in quanto

possiamo escludere che l'apostolo volesse farci intendere che la

elezione fosse fatta in base alla prescienza. Eppure, se ritorniamo

al testo, dobbiamo riconoscere che non il proponimento di Dio

rimane fermo in seguito all'elezione, ma che al contrario Questa

dipende dal proponimento ; in altre parole, Dio non si propone

151
di giustificare in quanto trova negli uomini delle opere buone da

eleggere, ma per il suo proposito di giustificare i credenti egli

trova opere che elegge al regno dei cieli. La giustificazione pre-

cede l'elezione, non ne dipende. E allora, se Dio « ci elesse prima

della creazione », come si possono spiegare queste parole, se non

riferendole alla prescienza? La profezia che « il maggiore ser-

virà il minore » va intesa non nel senso di un'elezione di meriti,

i quali si producono solo dopo la giustificazione, ma riferita alla

liberalità di Dio, affinchè nessuno si vanti delle proprie opere.

Agostino ripete quindi il passo Efesini II, 8, da cui ha preso le

mosse (16).

E' dunque lecito chiederci se la giustificazione sia preceduta

dalla fede, che procaccia dei meriti, o no. Ora il testo di S. Paolo

è chiaro : esso parla di Dio che chiama. Senza questa chiamata,

non vi è fede : quindi la misericordia divina precede qualsiasi

merito ; Cristo è morto per uomini che non si possono chiamare

altro che empi. Da Dio « che chiama » dunque Giacobbe ottenne

che Esaù lo servisse. Ma la grazia consiste solo in una vocatio,

che può essere accolta, o no, e che non è pertanto diversa da

quella di cui Agostino ha parlato nei suoi tentativi precedenti (17).

Ma con ciò restiamo sempre allo stesso punto. Agostino se ne

avvede, ed è precisamente la possibilità di opporre resistenza* alla

chiamata quella che lo induce ad esaminare il problema non più

dal punto di vista del giustificato, ma da quello del reietto. Perchè

è stato condannato Esaù? Se dobbiamo escludere tanto i meriti


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delle opere quanto quelli 'della fede, e parimenti anche la prescien-

za, per Giacobbe, dovremo fare lo stesso anche per Esaù ; ma da

altra parte non possiamo ammettere che Dio abbia creato Esaù

al solo fine di « odiarlo », cioè condannarlo, cosa che Dio non

fa per alcuna delle sue creature. Dio non punisce che giustamente,

cioè per una colpa. Ma se ammettiamo questo per Esaù, attri-

buiamo anche a Giacobbe dei meriti reali. O negheremo forse che

Dio sia giusto? Agostino, che ha già riaffermato la sua convin-

zione della bontà del creato, si rifà ancora una volta al suo testo.

Anche S. Paolo ha veduto il pericolo e perciò ha ricordato le

parole di Dio a Mosè. Ma con ciò, ha egli veramente risolto il

problema, o non l'ha piuttosto reso più oscuro? Ché se Dio

avrà compassione di colui per il quale l'avrà avuta, possiamo ben

152
chiederci perchè non l'ha avuta per Esaù, sì da renderlo buono

come Giacobbe. Oppure quelle parole voglion dire che, se Dio

ha per uno tanta compassione da chiamarlo, ne avrà anche tanta

da fare che creda, e, una volta concessagli la fede, lo metterà

anche in grado di compiere opere buone?

Sicchè siamo ancora una volta avvertiti di non insuperbire

per le nostre opere buone : che cosa abbiamo, che non abbiamo rice-

vuto? (18Ì. Ma resta il problema: perchè non fu concessa que-

sta misericordia ad Esaù, ed egli non ricevette una chiamata

tale da ispirargli la fede e renderlo capace di opere buone? Se

ammettiamo che Esaù non volle credere, allora dobbiamo rico-

noscere che al contrario Giacobbe volle, e la fede non fu più

un dono di Dio per lui che ebbe qualche cosa senza averla rice-

vuta. O il pensiero di S. Paolo è che il credere dipende dal nostro

volere, il volere dall'essere stato chiamato, e quindi, tale chiamata

non dipendendo da noi, il dono che Dio fa della fede consiste

precisamente in questa chiamata, senza la quale non si può cre-

dere contro la propria volontà? In tal caso la vocatio sarebbe

condizione necessaria, ma non sufficiente, della nostra fede; e

infatti molti sono i chiamati, pochi gli eletti, cioè coloro che non

disprezzarono l'appello di Dio. Ma che cosa significano allora

le altre parole dell'Apostolo, che il volere e il correre a nulla val-

gono se Dio non usa compassione? Vuoi forse dire che non solo

senza una chiamata non possiamo volere, ma che anche la nostra

volontà a nulla vale, se Dio non ci aiuti a ottenere ciò che ne è


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l'oggetto? Dunque, Esaù non volle e non corse; ma se anche

avesse fatto l'una e l'altra cosa sarebbe giunto alla meta solo

grazie all'aiuto di Dio, che con la chiamata" gli fornì anche il

volere ed il correre ; senonchè, egli, trascurando l'appello, divenne

reprobo. Bisogna dunque distinguere l'atto di Dio che ci dà il

volere, da quello che ci fa ottenere l'oggetto della nostra volizione.

Nel primo, si ha cooperazione tra Dio e l'uomo : egli ci chiama,

ma noi lo seguiamo. Nel secondo, egli solo ci concede di fare il

bene e di conseguire la beatitudine. Ma neppure così è risolta la

questione, perchè, se dipende da noi il seguire o meno la chiamata

di Dio, come avrebbe potuto Esaù scegliere prima di nascere?

E allora perchè fu riprovato, essendo ancora nel grembo materno?

Si torna sempre alle medesime difficoltà. Se infatti ricorriamo

163
nuovamente alla prescienza divina, ecco che la stessa spiegazione

deve valere per Giacobbe e non solo per la sua fede, ma per le

opere (19).

Ma anche una cooperazione dell'uomo con Dio va esclusa,

perché l'Apostolo stesso si è espresso chiaramente in contrario

in un altro luogo, che va tenuto in considerazione nell'interpre-

tare il nostro testo, e lo chiarisce : Filippesi, II, 12-13.

Dunque è Dio che opera in noi anche il buon volere ; chè

se S. Paolo avesse voluto sostenere che la volontà umana non

basta da sola, senza l'aiuto di Dio, a farci vivere rettameme,

avrebbe potuto esprimere lo stesso concetto mediante la proposi-

zione reciproca, cioè che la misericordia di Dio essa pure non

è sufficiente da sola, senza il concorso della volontà umana : cosa

manifestamente assurda. Inoltre è chiaro che la volontà buona

non precede la chiamata, ma questa quella, e quindi il nostro volere

il bene è da attribuire interamente a Dio che ci chiama, poiché non

da noi dipende l'essere chiamati (20).

Ma neppure con ciò le difficoltà sono finite. Infatti se la

chiamata di Dio produce per se stessa la buona volontà, anche pre-

scindendo dal problema della ragione per cui alcuni non sarebbero

chiamati, v'è un testo che Agostino ha ricordato poco prima e che

si ripresenta ora alla sua mente : « molti i chiamati, pochi

gli eletti ». Fedele al suo principio di attenersi alla Scrittura, Ago-

stino si propone ora l'obiezione implicita in questa affermazione, di

cui non mette in dubbio la verità. Ma se gli eletti sono pochi per
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non aver risposto all'appello, e il non rispondere era in loro fa-

coltà, siamo di nuovo al punto di prima. Si può tuttavia fare una

altra ipotesi. Forse coloro che, chiamati così come sono, non ac-

consentono, potrebbero, se chiamati altrimenti, indirizzare la loro

volontà alla fede : sicché è vero che molti sono chiamati e pochi

eletti, in quanto il medesimo appello non produce su tutti la stessa

impressione e pertanto seguono la chiamata di Dio quelli che sono

trovati capaci di accoglierla ; e non è meno vero che il bene ope-

rare è da attribuire a . Dio, il quale rivolse il suo appello nel

modo conveniente a coloro che lo seguirono. La chiamata giunse

bensì anche agli altri, ma era tale che non poterono indursi a

darle ascolto (21).

154
A questo punto, può sembrare già che Agostino abbia tro-

vato, o almeno intravveduto, la soluzione definitiva. Infatti egli non

si rivolge più le domande che ci attenderemmo, e cioè quale è la

ragione per cui alcuni sono chiamati in un modo, altri in un altro ;

e se la chiamata degli eletti fu efficace in quanto Dio ha saputo

nella sua prescienza che essi avrebero creduto. Ma se egli non

pone questi problemi in forma diretta, è perché il suo testo, e il

metodo ch'egli ha già seguito, gl'impongono di riproporli in ma-

niera indiretta : relativamente cioè non agli eletti, ma ai reprobi.

. E' infatti in relazione a questi che si pone con maggior chiarezza

il problema della giustizia, ossia quello che gli sta particolarmente

a cuore. E' chiaro che la condanna deve essere motivata da un

peccato. Perciò Agostino considera ora il caso di Esaù. Anche il

Nuovo Testamento, egli osserva, ci presenta diversi esempi di fede

e di incredulità, una serie cioè di. casi in cui la medesima chia-

mata agì in maniera differente. Ora, non si può dire che a Dio

onnipotente mancasse il modo di rivolgere ad Esaù un appello

tale da indurlo alla fede. A chi osservasse che ci può essere una

ostinazione tanto forte, da far rimanere sordi a qualunque chia-

mata, è facile rispondere che, se non si voglia negare l'onnipotenza

di Dio, bisogna ammettere che un appello rivolto in modo da non

indurre alla fede — ossia, tale da provocare quella ostinazione —

non può essere che effetto di un abbandono da parte di Dio. E'

logico chiedersi allora se questo stesso indurimento di cuore non

sia già di per se stesso una pena. Siamo sempre di fronte' alla
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medesima esigenza, che Agostino (lo ripetiamo ancora) sente sempre

come un problema vitale, di non attribuire a Dio l'origine del

peccato e del male. Ma con una finezza esegetica che mette a pro-

fitto l'abilità acquistata in tanti anni di pratica della retorica (22),

Agostino confronta ora i due versetti, che parlano l'uno della mise-

ricordia divina e l'altro dell'indurimento del cuore da parte di

Dio. San Paolo dice bensì che la salvezza non dipende dall'uomo

e dal suo operare, ma da Dio che usa misericordia ; tuttavia non

soggiunge che la condanna non dipende dell'uomo che resiste o

recalcitra, ma da Dio che indurisce. Dal confronto dei due testi

risulta chiaro che cosa intende l'apostolo quando dice che Dio

« indurisce chi vuole ». E' semplicemente questo : non gli usa mi-

sericordia. Dio a nessuno dà qualche cosa che lo renda effet-

155
tivamente peggiore; soltanto, non gli concede ciò per cui possa

divenire migliore. Ma è possibile che questo avvenga fuori della

giustizia, indipendentemente da qualsiasi discriminazione di me-

riti? Se ciò fosse, chi non si lagnerebbe di Dio — il quaie spes-

so lamenta che gli uomini non vogliono credere e vivere secondo

giustizia, dichiarando con ciò che essi sono i responsabili — e

non userebbe quelle espressioni che l'apostolo respinge? (23).

Siamo così al culmine di questa lunga, faticosa, tortuosa discus-

sione, che ho creduto necessario seguire nei particolari, precisamente

per assistere da vicino al lento, graduale e tormentoso processo di

sviluppo del pensiero di Agostino. Lo abbiamo visto più volte ritor-

nare sulle medesime posizioni, sì che pare volesse mostrare coi fatti,

urtando ogni volta contro lo stesso ostacolo, che le varie vie che si

presentano sono in realtà vicoli ciechi, all'infuori di una. Si prova

un poco, a questo punto, la stessa sensazione che in certe escursioni

montane, quando dopo la lunga ed inamena ascesa su di un ver-

sante ripido e monotono, si riesce infine ad infilare il vallone che

conduce al colle, che tanti, pur piccoli ed incerti segni, ci fanno

presagire vicino : finchè s'intravedono profili di nuove vette lon-

tane e già ci rinfresca e allieta la brezza che spira dall'opposto

versante. Agostino, proponendosi di salvare la giustizia di Dio, che

gli appare inseparabile dal libero arbitrio umano, ha cominciato con

l'ammettere che l'iniziativa dell'atto di fede per cui gli eletti si sal-

vano, spetti all'uomo. Ma poichè con ciò si finisce per attribuire

la salvezza alle opere, ha dovuto lasciare quell'iniziativa a Dio. Gli


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pesa tuttavia ammettere che i reprobi siano condannati, prima d'ogni

loro positivo demerito, da un atto di Dio ; o una condanna la quale

non sia giusta retribuzione d'una colpa. Ed ecco che l'atto divino onde

agli eletti è concessa la fede si chiarisce come un dono, e il suo « in-

durire il cuore » dei reprobi semplicemente come un non usare mi-

sericordia, un non concedere quel medesimo dono ; quindi, se Dio è

giusto e s'egli non è tenuto ad usare misericordia a tutti, vuoi dire

che ciò che agli uomini è dovuto è soltanto la condanna. Non volendo

nè potendo concedere che Dio costringa i reprobi a peccare, ma at-

tribuendo soltanto a lui l'atto di misericordia che avvia gli eletti alla

fede e alla salvezza, Agostino deve riconoscere nei condannati, che

sono il maggior numero, una spontanea inclinazione al male.

Dio è giusto : il suo aver compassione di chi vuole deve essere

•

156
dunque conforme a quella giustizia. Ma precisamente perchè la giu-

stizia di Dio possa essere posta fuori discussione, bisogna che in

base ad essa tutti gli uomini non meritino altro che la condanna.

Allora è possibile fare intervenire una distinzione : al diritto assoluto

e rigido, Io strictum ius, era stata da tempo contrapposta l'aequiias ;

e se nel diritto classico questo termine significa soltanto « giustizia »

e l'aequitas può volere decisioni più severe di quelle imposte dal

ius, nel IV secolo essa ha già, sembra, incominciato ad acquistare il

significato che nella compilazione giustinianea apparirà ammesso pie-

namente, di mitezza, indulgenza, benignità, che permette di attenua-

re, e anche eliminare del tutto i rigori della legge. E' in virtù di que-

sto sentimento di benevolenza che un creditore può rinunciaTe a esi-

gere il pagamento da parte di uno dei debitori senza che ciò lo

obblighi ad accordare il medesimo trattamento agli altri. Del resto,

Agostino rileva altresì che giustizia ed equità umane non sono che un

pallido riflesso di quelle di Dio. Comunque, l'atto di Dio che usa

misericordia è sempre atto di equità, che dipende interamente dal

suo arbitrio, senza che nessuno abbia il diritto di considerarlo come

un'ingiustizia. Ché di fronte a Dio tutti gli uomini, morti — cioè

peccatori — in Adamo da cui si è diffusa a tutto il genere umano

come un contagio l'offesa fatta a Dio, sono come il mucchio d'ar-

gilla di fronte al vasaio : una massa intrisa di peccato, debitrice di

pena. Nessuna ingiustizia, dunque, da parte di Dio s'egli condona

soltanto ad alcuni il castigo dovuto a tutti. Ma il voler giudicare di ciò

noi uomini è pura superbia : si tratta di equità, cioè di un vero e pro-


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prio atto di clemenza da parte di Dio, che certamente non è nrbi-

trario ma trascende ogni giudizio umano; torna opportuno il ri-

cordare la parabola degli operai nella vigna. Ed è vano l'argomentare

in proposito, o il lamentarsi, come se Dio costringesse qualcuno a

peccare : mentre egli si limita ad elargire la sua misericordia agli

eletti, ed il suo « indurire-» il cuore dell'uomo non è che un rifiuto

di clemenza, ed egli ha dunque pienamente ragione di lamentarsi

dei peccatori (24).

Se dunque qualcuno si turba, pensando al diverso trattamento

fatto ad uomini che provengono dalla medesima massa peccatorum e

ricordando che, se Dio aiuta o abbandona chi vuole, la sua volontà è

onnipotente, a costui è appunto da replicare con le parole di S: Paolo.

Le parole sono evidentemente rivolte ai « carnali », come dimostra già

157
l'immagine stessa del fango di cui fu formato il primo uomo ; e poiché

« in Adamo tutti muoiono », perciò "dice l'apostolo che una è la massa

da cui è tratto anche il vas in honorem. Dunque anche l'eletto co-

mincia con l'essere carnale, per salire poi al grado di spirituale. Ago-

stino che, come noteremo meglio in seguito, ha sin qui polemizzato

contro se stesso e abbattuto con le sue mani l'edificio teologico co-

struito nei precedenti commenti a S. Paolo, cerca ora di conservarne

almeno una parte e di mantenere la distinzione tra i diversi gradi

della vita spirituale. Correlativamente, egli si sforza ancora di man-

tenere Paolo tra gli spirituali ; e non è ancora disposto ad abban-

donare la spiegazione che del termine di « carnali » usato a pro-

posto dei fedeli di Corintp egi ha già dato precedentemente (25).

Ora, dal fatto che quell'epiteto è applicato anche a fedeli, già rinati

in Cristo, ma che l'apostolo considera ancora come infanti da nu-

trire di latte, Agostino argomenta che molto più giustamente si pos-

sono chiamare così quelli che non solo ancora rigenerati o anche

i repr.obi. E tuttavia deve emmettere che carnali sono detti anche

quelli che sono già rasa in honorem (26).

Agostino è ripreso dal suo timore del manicheismo. Perciò non

solo conclude la discussione precedente ripetendo ancora una vol-

ta che Dio è giusto, ma vuole riaffermare anche la sua bontà. L'oc-

casione gli è offerta dal riavvicinamento di due testi biblici ; se-

condo uno Dio non odia nulla, eppure secondo l'altro egli ha odiato

Esaù. Come si possono conciliare le due affermazioni? Anche Esaù

è stato creato da Dio, il quale ama tutte le cose che ha creato e che
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sono tutte buone secondo il posto di ciascuna nell'ordine dell'uni-

verso, e non ne odia alcuna. Nell'uomo anche il corpo è buono, ma

l'anima è superiore; e Dio non odia se non il peccato, che è una

volontaria deviazione, per cui l'anima si dirige verso i beni infe-

riori. L'origine del peccato è pertanto nell'uomo, non in Dio il

quale mandò Cristo a redimere il genere umano giustificando i

credenti. Nei reprobi dunque Dio odia non la propria creatura, ma

l'empietà ; e se egli rifiuta loro la giustificazione concessa agli elet-

ti, in base ai suoi giudizi imperscrutabili, non per questo essi non

hanno una loro funzione nell'ordine del creato (27).

Come si vede, basta che le preoccupazioni antimanichee ripren-

dano il sopravvento, perché Agostino ritorni alle sue concezioni di

un tempo, e faccia quasi della giustificazione un premio. Conseguen-

158
za, sì, di giudizi imprescrutabili, il che è conforme al testo e non

contraddice formalmente al concetto di equità; ma, in fondo, im-

plica un ritorno momentaneo all'idea che anche la giustificazione

sia retributiva.

Poi Agostino spiega perchè non vi è differenza, riguardo alla

salvezza, tra Giudei e Gentili : chè se Dio sceglie i suoi eletti così

fra gli uni come fra gli altri, vi sono evidentemente dei reprobi anche

tra i Giudei e ciò significa che tanto gli uni quanto gli altri meri-

tano la condanna. Unica è dunque la massa dei peccatori ed empi

che proviene da Adamo. Ma se il peccato non deriva da Dio, che

non fece gli uomini peccatori, quale n'è l'origine, e come s'è formata

questa massa ? Ossia, come accade che si verifichi in ogni uomo quella

inordinatio atque perversitas in cui consiste il peccato, per cui tutti

non sono degni, in stretta giustizia, che di pena? Ora Agostino

ha già osservato che la massa peccatorum et impioru.ni proviene da

Adamo ; dopo il peccato del progenitore, gli uomini furono resi mor-

tali. Egli ha cura di sottolineare che quello che importa è la mor-

talità, non il corpo ; il quale, creato da Dio, è per se stesso buono e

mosìra nelle sue membra una tale armonia che l'apostol.> ha potuto

trame un'immagine per illustrare l'unione dei feddi nell'amore.

Il corpo, in sè, non sarebbe quindi di impedimento alia perfezione

spiritu'j'e, giacchè il Creatore ha disposto che le memrif fossero ani-

mate da uno spirito vitale, e al disopra di questo dominasse l'anima,

che deve a sua volta sottomettersi a Dio. Si tratta dunque della

stessa teoria che Agostino ha esposto tante volte, e anche poco più
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sopra. Ma con la trasformazione del corpo umano in mortale, pena

del peccato, s'è verificato anche un altro cambiamento : la concu-

piscenza, che regnava già come pena del peccato, ha penetrato tutta

la massa del genere umano, ha acquistato il dominio della carne,

e con ciò ha diffuso in tutti gli uomini non soltanto la pena, ma

il peccato medesimo. Trasmettendosi di generazione in generazione

la sua natura mortale, l'umanità si trasmette anche questo predo-

minio degli appetiti più bassi, la concupiscentia carnaìis che l'allon-

tana da Dio ed è lo stesso peccato d'origine (28).

Ed ora Agostino si avvede di un altro pericolo.

Anche se si afferma semplicemente — senza attribuire il pec-

cato a Dio— che alla trasmissione della pena si accompagna quella

del peccato, la concupiscentia carnaìis che impedisce all'anima

159
di esercitare il suo primato e rivolgersi unicamente al Creatore,

non si viene a togliere all'uomo la capacità di determinarsi al bene,

non si nega cioè il libero arbitrio? Questa conclusione è quella

dei manichei ed egli l'ha già combattuta. Ma per evitare l'eresia, non

vi è bisogno di affermare la libertà totale di ogni singolo individuo,

così come non è affatto necessario negarla assolutamente. Agostino

ha già ammesso che nell'uomo, dopo il peccato di Adamo, il libero

arbitrio ha subito una diminuzione (29) ; ora egli sarà portato ad

accentuarla, senza con ciò arrivare alla conseguenza estrema di

negare completamente la libertà umana. Bisogna ripetersi che di

ogni nostra azione buona il merito va nettamente a Dio. Gi si

ordina di fare il bene, ma chi può compierlo se non chi è stato

reso capace, cioè giustificato, e in virtù della fede? Ci si ingiunge

di credere, ma chi è in grado di farlo, se non abbia ricevuto una

chiamata, che lo metta come in presenza dell'oggetto della fede

stessa? E chi può far sì che la sua mente sia colpita da una rap-

presentazione tale da indurre la sua volontà alla fede? La volontà

umana è infatti libera, nel senso che essa si volge a ciò che la diletta

e varie sono le cose che possono attrarla ; ma chi può fare che

essa incontri l'oggetto desiderabile e che questo, incontrato, susciti

il desiderio? E' dunque soltanto la grazia che ci ispira e ci con-

cede di essere attratti dagli oggetti che conducono a Dio : il moto

della volontà, il tendere verso il bene, il compiere opere buone,

son tutti doni di Dio. Ma si presenta ora alla mente di Agostino

un testo, che un tempo lo ha indotto a pensare diversamente (30) ;


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un testo, che sembra affermare nella maniera più recisa la priorità

dell'iniziativa umana, seguita da un soccorso divino che ne è

quasi condizionato : « chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete,

bussate e vi sarà aperto » (Matt. VII, 7). Ma il vescovo d'Ippona

constata ora che anche la nostra preghiera è talvolta tiepida, anzi

fredda e vana, a tal punto che in certi casi neppure ce ne ramma-

richiamo : ché se sentiamo dolore di questa frigidità, allora la nostra

è già una vera preghiera. Ammissione ben significativa! E' una

breve frase, ma che c'illumina forse più di ogni altra : possiamo

immaginare, vediamo, Agostino in orazione. La sua preghiera è

immune, ora, da ogni elemento intellettualistico, non è più tenta-

tivo di riconoscere con piena evidenza l'ordine dell'universo e di

inchinare la mente di fronte al Creatore e Ordinatore del tutto, in

I6o
uno sforzo di intelligenza ; bensì slancio di amore, che impetra di

ottenere dal suo stesso oggetto la forza di amarlo e che prega di

poter pregare. E' nella sua stessa esperienza che Agostino trova

la ragione di quel monito divino. Esso significa, per poco che

l'uomo vi rifletta, che anche il pregare, il chiedere, cercare e bus-

sare ci è concesso da Dio, il quale ci ha imposto di farlo, affine

di renderci coscienti di quella verità (31).

Insomma, due punti vanno tenuti fermi : che vi è un'elezione

e che questa, non segue la giustificazione, anzi la precede e ne è

causa. Ma quanto alle ragioni di questa scelta, Agostino non sa

trovarle, ed è disposto a confessare la sua debolezza di fronte a

chi possa saperne di più, benché la sua opinione sia che quelle

ragioni debbano rimanere nascoste agli uomini finché essi fanno

parte della massa damnationis. Nessuna infatti delle ragioni che si

potrebbero addurre è soddisfacente, nessuno dei valori che gli

uomini apprezzano è stimato da Dio: non l'ingegno, che vi sono

fedeli certo intellettualmente inferiori agli eretici, non la moralità

quale è considerata dagli uomini (del resto non può trattarsi che

di un peccare meno, nessuno essendo senza peccato), che vi sono

uomini virtuosi tra gli eretici e i pagani e d'altra parte meretrici e

istrioni che si convertono e valgono più di quelli per fede spe-

ranza e carità. Del resto, anche a questo proposito dell'assoluta

indifferenza di Dio di fronte ai valori umani, S. Paolo ha parlato

chiaro (/ Cor. I, 27). E se, infine, volessimo dire che Dio sceglie

la buona volontà, dobbiamo riconoscere che la volontà stessa si


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determina in base a ciò che l'attrae; e il farglielo incontrare non

è in potere dell'uomo. Con tutto ciò, Dio è giusto, in manièra

assoluta : egli è il creditore, che a suo talento esige o condona il

debito, nella pienezza del suo buon diritto; è il creatore e l'ordi-

ntore del mondo. Non resta che inchinarsi ai suoi giudizi imper-

scrutabili. E la discussione, in qualche punto così tormentosa e

contorta e che in uno almeno ha assunto un tono solenne, termina

con un movimento oratorio, ma parenetico, con un andamento da

sermone (32).

Qualche cosa è dunque profondamente mutato nel pensiero

di Agostino. Ma che cosa, esattamente? Il rispondere con la mag-

gior possibile precisione a questa domanda è condizione indispen-

sabile per poter determinare anche il modo in cui avvenne il cam-

iti t

11
biamento, cioè in virtù di quali influssi esterni e sotto l'impero di

quali esigenze intime il pensiero teologico di Agostino si è venuto

svelgendo fino a questo momento : che è a sua volta condizione

indispensabile per un'esatta comprensione dello sviluppo succes-

sivo della sua teologia.

Se ora torniamo a leggere i passi de\\'Expositio quarundam

propositìonam e specialmente del De diversis quaestionibus LXXXIII

in cui si parla della massa iati, o massa peccati (33), e restrin-

giamo il nostro esame a quelle poche frasi, può anche sembrare

che non vi sia stato nessun cambiamento. Nella 68a delle « 83

questioni » Agostino dice infatti esplicitamente che dopo ii peccato

di Adamo il genere umano si perpetua secondo le leggi delia gene-

razione del corpo mortale e pertanto gli uomini sono diventati una

sola massa di fango, massa peccaminosa, con la quale Dio opera,

come il vasaio con l'argilla. Ma abbiamo anche veduto che Ago-

stino riteneva che l'apostolo abbia negato il diritto di tentare di

rendersi conto del procedere di Dio solo a chi fa parte di questa

massa, è cioè tuttora carnale; e lo abbiamo veduto altresì conclu-

dere che con l'aiuto di questa grazia l'uomo può divenire spiri-

tuale e questo aiuto Dio lo concede a chi vuole, ma in base a dei

meriti, benché reconditi : i quali meriti consistono Dell'ascoltare

la vocatio di Dio, che nella sua prescienza conosce coloro che

avranno fede, e li elegge, sicché il merito vero non è loro, mentre

è propria dei condannati la colpa di non avere ascoltato tale

chiamata.
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Ma questa è per l'appunto la concezione contro la quale Ago-

stino polemizza ora, facendo osservare che se l'elezione fosse

compiuta in base alla previsione relativa alla fede, non vi sarebbe

ragione di non riconoscere una prescienza per quanto conceme

le opere. Non solo; ma caratteristico della qu. 2 del primo libro

Ad SimpKcianum è il voler risolvere il problema considerando gli

eletti ma anche, e soprattutto, i reietti, i dannati. In questi. Ago-

stino aveva scorto una colpa particolare, quella cioè di non aver

seguito l'appello divino ; ora invece egli riconosce che anche in

loro il libero arbitrio è sminuito, in quanto si rivolge spontanea-

mente al male. A una sola vocatio, Agostino ne sostituisce ora due :

una capace di indurre gli eletti al bene, in quanto presenta, e fa

appetire loro, i beni di ordine superiore che li conducono a Dio:

162
l'altra incapace di sostituire altri oggetti di desiderio' a quelli cui

la carne si rivolge naturalmente.

Infatti — e qui tocchiamo il punto essenziale — è mutato nel

pensiero di Agostino il modo d'intendere la natura mortale dello

uomo. Prima, la mortalita!, gli era apparsa semplicemente una pena

del peccato di Adamo, la quale aggravava bensì la condizione dello

uomo ma non gl'impediva in maniera assoluta di elevarsi spiritual-

mente e di passare dallo stadio sub lege a quello sub gratia. La

volontà umana, per determinarsi al bene e volgersi a Dio, incon-

trava, è vero, ostacoli nello stato d'ignoranza e di debolezza in

cui l'essere soggetto a morire ha posto l'uomo; ma si trattava di

una consuetudine, che non era impossibile vincere. Ora, il posto

di questa ignorantia et difficutias è preso da una impotenza che

è totale, finché consideriamo le sole forze umane; in luogo della

consuetudine al peccato è subentrato un peccato autentico, quello

dì Adamo, che con l'atto stesso della generazione si trasmette in

ogni uomo e lascia in lui la sua impronta. E' per tale peccato che

l'uomo merita soltanto la pena, sicché l'elezione è un puro atto

di misericordia, da parte di Dio, il quale giustifica chi vuole, ren-

dendolo atto a credere, e largendogli la fede. Che, se l'atto iniziale

di fede fosse in potestà dell'uomo, allora la logica esige che si

attribuisca la redenzione non più alla sola fede — che acquista

un merito — ma altresì alle opere.

Il monito dell'apostolo, che Agostino aveva inteso come rivolto

agli uomini ancora carnali, ora è considerato da lui come diretto


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anche, almeno, ai catecumeni all'inizio della fede. Il vescovo di

Ippona ritiene però che vi siano diversi gradi nella fede; non

tutti ne hanno quanta è richiesta per ottenere il regno dei cieli.

Egli non dice ancora esplicitamente che anche Paolo può avere

applicato l'epiteto di carnale a se stesso, né si ricorda di avere

attribuito a Pietro un peccato per cui considera che fu giusta-

mente redarguito. Anzi, si direbbe che a quella conseguenza Ago-

stino voglia sfuggire, o per lo meno che un punto gli sia rimasto

ancora oscuro : che se carnali sono i catecumeni, è ancora impre-

cisato il valore del battesimo. Il riconoscimento che questo can-

cella il peccato d'origine, mentre lascia sussistere la concupiscentia

carnalis, non verrà che più tardi. Né si vede per quale ragione

Agostino debba parlare di una doppia vocatio, e di una inefficace,

«3
se non perché di votatio ha parlato già altre volte e, pur mutando,

vuole mantenere questo concetto. Del pari, appena accennata —

ma tuttavia già presente — è un'altra concezione caratteristica:

quella del non valore della moralità degli infedeli.

Il cambiamento è dunque indiscutibile e profondo. Che Ago-

stino ne avesse coscienza nel momento stesso in cui si produsse,

è indubbio, perchè, come abbiamo veduto, egli polemizza con sé

stesso; benché probabilmente non si rendesse conto, per allora, di

tutto ciò che implicava. Ma resta da vedere, nella misura in cui

è possibile, quali cause contribuirono a operare questo cambio.

NOTE

(1) II De diversis quaestionibus ad Simplicianum libri duo è indicato nelle

Retractationes come la prima opera posteriore all'episcopato. Agostino dice

esplicitamente (I, pr.) che le questioni su cai Simpliciano lo interroga erano

state da lui trattate in opere precedenti, ma che egli ha voluto riesaminare

accuratamente i testi di S. Paolo che era stato richiesto di spiegare. Sul valore

delle sue parole, v. oltre.

(2) L'Ad Simplicianum differisce dai commenti alla Genesi, e anche dagli

aitri sulle epistole paoline per essere uno scritto occasionale, provocato dalle

domande di Simpliciano; ma i! fatto che Agostino non si contentò d'inviare

all'amico una copia, o una riproduzione lievemente modificata, di uno degli

scritti anteriori, prova come i problemi sollevati da Simpliciano corrispondes-

sero a esigenze profondamente sentite da Agoslino stesso. Ciò sarebbe vero,

anche qualora, per spiegare com'egli inviasse a Simpliciano alcune delle « 83

questioni » si volesse fare l'ipotesi che le domande rivoltegli dal successore


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di Ambrogio fossero provocate proprio dalla lettura di quaìcuna tra le opere

esegetiche di Agostino stesso.

(3) Ad Simplic. I, qu. 1. 1: Dicendo « ego vivebam sine lege aliquando »

(Rom. VII, 9) « videtur mihi apostolus transfigurasse in se hominem sub lege

positum, cuius verbis ex persona sua loquitur »; cfr. 4, cit. a n. 4; 9, cit. a n. 6;

11, cit. a n. 8.

(4) Ad Simplic. I, qu. 1 ,1: «Et quia paulo ante dixerat "Evacuati su-

mus a lege mortis " ... atque ita per haec verba quasi reprehendisse Legem pos-

set videri, subiecit statim " Quid ergo dicemus? » etc. — 2: « Hic rursus mo-

vet, /si Lex non est peccatum, sed insìnuatrix (var.: inseminatrix) peccati, ni-

hilominus his verbis reprehenditur. Quare intelligendum est, ad hoc datam

esse non ut peccatum insereretur neque ut extirparetur, sed tantum ut demon-

etraretuir quo animarn humanam quasi de innnocentia securam ipsa paccati

demonetrationo ream faceret; ut quia peccatum sine gratia Dei vinci non poa-

«et, ipsa reatus soìlicitudine ad percipiendam gratiam converteretur. Itaque non

ait. pecoatum non feci nisi per Legem, sed " peccatum non cognovi (vs. 7).

Unde apparet concupiscientiam per Legem non insitam sed demonstratam ». —

3: « Consequens autem erat ut quoniam, nondum accepta giatia, concupiscen-

164
tiae resisti non poterai, augerelur etiam; <juia maiores vires habet concupi-

scentia crimine praevaricationis adiuncto, cum etiam contra- Legem facit, quam

si nulla Lege prohiberetur... Erat enim et ante Legem, sed non omnis erat,

quando crimen praevaiicationié adhuc deerat ». —; 4: «Sane qnod ait (vs. 10:

" Tevixdt ") satis signìficavit hoc modo aliquando vixisse peccatum id est nolum

(var.: natimi} fuisse, sicut arbitror, in praevaricatione primi 'hominis quia et ipse

mandatum acceperat... Non enim potest reviviscere nisi quod vixit aliquando.

Sed mortuum fuerat, id est occultatimi, cum mortales nati sine mandato Legis

homines viverent, sequentes concupieeentias carnis sine ulla cognitìone, quia

sine utla prohibilione. Ergo " Ego " inquit " vivebam (vs. 9)". Unde manife-

stat non ex persona sua proprie sed generaMter ex persona velerie (var., om.)

hominis se loqui. " Adveniente auitem " (vss. 9-10). Mandato enim si obe-

diatur utique vita est. Sed inventimi est esse in morlem, dum fit cantra man-

datum, ut non solum peccatum fiat, quod etiam ante mandatum fiebat, sed hoc

abundantius et perniciosius, ut iam a sciente et praevaricante peccetur ».

(5) Ibid. 5: (vs. 11). « Peccatum... ex prohibitione aucto desiderio, dulcius

iactum est et ideo fefeilit. Fallax enim dulcedo est quam piures atque maiores

poenarum amariludines ccnsequuntur. Quia ergo ab hcxminibus nondum spiri-

talem gratiam percipientibus suavius admittitur quod vetatur, fallii peccatum

falsa dulced-ine. Quia vero etiam accedit reatue praevaricationis, occidit ». —

5: (vs. 12): « In malo utente quippe vitium est, non in mandato ipso, quod

bonum est. Quoniam bona est Lex, si quis ea legitime utatur (/ Tim., I, 8).

MaJe autem utitur Lege qui non se subdit Deo pia humiMtate ut per gratiam

Lex possit impieri ». — 7: « " Scimue enimi" inquit "quia" ete. {vs. 14). In

quo satis ostendit non posse impleri Legem nisi a spiritualibus, qui non fiunt
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nisi per /gratiam. Spirituali enim Legi quanto fit quisque simiiior, id est, quanto

ma/gis et ipse in spiritualem surgit affectum tanto eam magis implet, quia

tanto magis ea delectatur iam non sub eius onere afflictus sed eius lumine

vegetatus, quia praeceptum Domini lucidum est i;luminans oculos ete. (Ps.

XVIII, 3-9), gratia donante peccata eit infundente spiritum charitatis quo et non

sit molesta et sit etiam iucunda iustitia ».

(6) Ibid., 7: «Sane, cum dixisset " ego autem carnalis eum " (vs. 14)

contexuit etiam qualis carnalis. Appellati sunt enim ad quendam. modum carna-

les iam eliam sub gratia constiteli, iam redempti sanguine Domini et renati per

fidean quibus idem apostolus dicit (/ Cor, IH, 1-2). Quod dicens utique ostendili

iam renatos fuisse per gratiam qui erant parvuh in Christo et lacte polandi et

tamen eos adhuc carnales vocat. Qui autem nondum est sub gratia, sed sub

Lege, ita carnalis est ut nondum sit renatus a peccato, sed venumdatus sub pec-

calo, quoniam pretium mortiferae voluptatis ampiectitur dulcedinem illam qua

fallitur, et delectatur eliam contia Legem facere, cum tanto magis libet quanto

minus licei. Qua suavitale fruì non polesl quasi pretio conditionis suae 'nisi

cogatucr tamquam emptum mancipium servire libidini. Sentit enim se servum

dominantis cup-iditatis, qui prohibetur et se recte prohiberi cognoscit et tamen

facit ». — 9: « (vs. 15) Hoc enim non vult quod ei Lex; nam hoc vetat Lex.

Consentit ergo Legi non in quantum facit quod illa prohibet sed in quantum

non vult quod facit. Vincitur enim nondum per gratiam liberatus, quamvis

iam per Legem, et noverit se male facere et nolit. Quod vero sequitur et dicit

"Nunc autem " (vs. 17) non ideo dicil quia non consentii ad faciendum pec-

165
catum, quamvis Legi consentiat ad hoc iroprobandum. Loquitur eaim adirnc

ex persona horuinis sub Lege conati-luti, nondum sub gratia, qui profecto tra-

h'tur ad male operandola concupiscentia dominante atque fallente dulcedine

peccati prohibiti, quamvis ex parte nolitiae Legis hoc improbet. Sed p-ropteraa

dicit " non ego operor illud " quia victue operatur. Cupidilas quippe id ope-

ratur, cui superanti ceditur. Ut autem non cedatur, sitcjue mene nominiti ad-

versus cupiditdtum robustior, gratia facit, de qua post dicturus est ».

(7) IbitL, 10: « " Scio enim ", inquit, etc. (vs. 18). Ex eo quod scit, con-

sentit Legi; ex eo autem quod facit, cedii peccato. Quod' Si quaerit aliquis

unde hoc scil quod dicit habitare in carne sua non utique bonum, id est pec-

cai um: unde nisi ex traduce mortali Li Uà et assiduitate voluptatis (var.: voluti -

talis)? lliud est ex poema originaJis peccati, hoc est ex poena frequentati pec-

cati. Cum ilio in hanc vitam uaseimur, hoc vivendo addimus. Quare duo sci-

licet, bamquam natura et consuetudo, coniuncta robustissimam faciunt et in-

victiseimam cupiditatem, quod vocat peccatiim et dicit habitare in caine

sua, id t«t dominationem quandam et quasi regnum obtinere ».

(8) Ibid., Il: « Hi& verbi* videtur non recte intelligentibus velut auferre

libenim arbitrami. Sed quomodo aufert, rum dicit " velie adiacet mirti " (ve.

18)7 Certe enim ipsum velie in potestate est, quoniam adiacet nobis; sed quod

perfioere bonum non est in potestate, ad meritum pertinet originalis peccati.

Non enim est haec prima natura hominis, eed delicti poena, per quam facta est

ipsa moitaldtas, quasi secundn natura, unde noe gratia liberat conditori» sub-

ditos sibi per fidem. Sed istae nunc voces sunt sub Lege hominis constituti,

nondum sub gratia. Non enim quod vudt facit bonum, qui nondum est sub

gratia, sed quod non vult maJum, hoc agii, superante concupiscentia, non
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solum vinculo mortalitatis sed mole consuetudinis roborata ». — 12. « Quid

enim faciline homini sub Lege constituto quam velJe bonum et facere malum?...

Perhibet i-gitur testimonium Legi, quod bona sit, homo sub ea positus et non-

dum gratia liberatus; perhibet omnino eo ipso quod se reprehendit facere con-

tra Legem; et invenit eam bonum eibi esse, volens facere quod illa iubet, et

•concupiscentia superante non valens. Atque ita se praevaricationis reatu im-

plicatum videt, ad hoc ut gratiam Liberatoris imploret ». — 13 (vs, 22). « Legem

appellai in memibris sui» onus ipsum mortalitatis, in quo " ingemiscimus gra-

vati " (// Cor. V, 4)... Quam earcinam prementem et iirgentem ideo Legem ap.

pellat, quia iure supplici! divino iudicio tributa et imposita est ab eo

qui praemonuit hominem dicens (Gen., II, 12)... Haec lex repugnat legd mentis...

et antequam eit quisque sub gratia ita repugnat, ut et captivet eum sub leg«

peccati id est sub semetipsa ». — 14: « Hoc autem totum dicitur, ut demon-

stretur homini captivo non esse praeeumendum de viribus snis. Unde ludaeos

arguebat tamquam de operibus Legis superbe gloriantes cum traherentuir con-

cupiscentia... Humiliter ergo dicendum est homini victo, damnato, captivo et

nec saltem accepta Lege victori sed potius praevaricatori, humiliter exclainan-

dum est " miser ego homo (vss. 25-26). Hoc enira tìestat in ista mortali vita li-

bero arbitrio, non ut impleat homo iustitiam, cum voluerit, sed ut se supplici

pietate convertat ad Eum, cuius dono possit implere ». . .

(9) Ibid. 15: « Quisquis putat sensisse Apostolus quod mala sit Lex (Rotti.

V, 20; VII, 4-6; / Cor. XV. 56: // Cor, IH, 7)... et alia si qua huiusmodi Apo-

ptolum dixasse invenimus, ailtendat ideo esse ista dicta quia Lex augèt concu-
piscentiam ex prohibitione et reum obligat ex praevaricatione iubendo quod

implere homines ex infirmi tate non possimi, miai se ad Dei gratiam pie tate

cOnvertant. Et ideo sub illa esse dicuntur, quibus dominatur. Eis autem domi,

natur quos punii; punii autem praevaricatore* omnes. Porro qui acceperunt

Legem, praevaricaai eam, nisi per gratiam consequantur posse quod iubet. Ita

fit ut non, ilominetur eis qui iam sub gratia suut, implentibus eam per charita-

fem, qui erant sub eius timore damnati ».

(10) Ibid., 16.

(11) Ibid., 17: «Ad ludaeos enim dieta est lex ministratio mortis ad quos

el in lapide scripta est ad eorum duritiam figurandam, non ad eos qui legem

per charitatem implent... Cun " mortui sumus Legi per corpus Chrifiti " (cfr.

vs. 4) si 'bona est lex, Quia mortui sumus legi damnanti (var: dominanti),

liberati ab eo a-ffectu quem Lex punii et damuat. Usitatìus enim vocatur Lex,

quando minatur et terrei et vindicat. Itaque idem praeceptum itimentibus Lex,

est, amanti-bus .gratia... Eadem quìppe Lex quae per Moysen data est ut for-

midaretìUF gratia et veritas per lesum, Chnstum facta est ut impleretur. Sic

•ergo dictuim est " Mortui estis legi ", ac si diceretur Mortui eslis supiplioio

legie per corpus Chrieti ", per quod sunt delicla donata quae legittimo suppli-

cio -costringebant... Lex liltera est eis qui non eam implent per sp.iritum cha-

rilatis, qoio pertinet Testamentum Novum. IlaqUe mortui peccato liberaatur

a littera, qua detinenilur rei qui non implent quod' scriptum est... Lex enim

tantummodo lecta et non intellecla vel non impleta ulique occidit, lune enim

" appeJilatun littjera ».

(12) Come si vede, convengo col Marrou (o. e., p. 162) che in Ippona il

cosiddetto « periodo filosofico » di Agostino è finito. Solo mi pare impossibile,


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come ho già indicalo, far coincidere questo termine con l'ordinazione sacer-

dotale, anziché con il .periodo di studio che seguì. Per di più, si notano anche

nel periodo successivo evidenti sapravvivenze del precedente: le ha segna-

late lo stesso Marrou in alcune pagine (357-368) che sono tra le migliori e le

più equilibrate del suo importante libro.

(13) De dlv. quaeift. jLXXX/j/. qu 76, 1, su /ae. II, 20; cfr e. IV, n. 23.

(14) Ad Simplicianum, I, qu. II, 2 « non ut opera extinguat, sed ut osten-

tat non esse opera praecedentia gratiam, sed consequentia: ut scilicet non se

quisque arbitretur ideo percepisse gratiam quia bene operatue est, sed bene

cpeuari non posse, nisi per .'idem perceperil gratìam. IncipK autem homo per-

cipere gratiam ex quo incipit Deo credere, vel interna vel externa, admonitione

ffiotus ad fidem... Sed in quibusdam tanta est gratia fidei, quanta non sufficit ad

-obtineochiim regnum oaelorum; sicut in catechumenis... In quibsusdam vero

tanta est ut iam cospori Christi et sancto Dei tempio deputentur... Fiunt ergo

ii.'choatìones1 quaedam fidei, conoeptìonibus similes, non tamen sòlum concipi,

sed ettam nasci opus est ut ad vitam perveniatur aetemnam. Nihil tamen

horum sine gratia misericordiae Dei » appunto perché le opere buone seguo-

no, non precedono, la gnazia.

(15) Ubid., 3: « Nemo enim posset dicere quod operibus promeruerat Deum

lacob nondum natus, ut divinitus diceretur " et maior serviet minori ". Ergo

" non solum ", inquit, Isaac promdssus est, cum dicium est " Ad hoc lempus

veniam et erit Sarae filius": qui utique nullis operibus promeruerat Deuro, ut

nasciturus proimitleretur, ut in Isaac vocaretur semen Abrahae, id est, illd

167
pertinerent ad sortem sanctorum quae in Olmeto est, qui se intellegerent filioe

promissioni, no» euperbientes de merilie suis, sed gratiae vocationis (var.:

giatiae vocationi) deputantes quod coheredes essent Christi. Cum enim pro-

missum est ut essent, nihil utkpie meruerant qui nonrìum erant. " Sed et Re-

becca ex uno concubitu habens Isaac patris nostri ". Vigilantissime ait, " ex

uno concubitu " (gemini enim concepii erant), ne vel p a tenue merilis tribue-

retur si quisquam forte diceret: Ideo tajis natus est filius quia pater ita erat

affectus ilio in tempore quo eum sevit in utero matris, aut: Ita erat mater

«iffecta cum eum concepit. Simul enim ambe* uno tempore ille sevit, eodein

tempore illa concepit. Ad hoc commendandum ait " ex uno concubitu ", ut nec

astrologis daret locum, vel eie potius quos genethliacos appellaverunt ».

Questo argomento contro gli astrologi, tratto dalla nascita di due ge-

melli con diverso destino, è già in De div. qitaest. LXXXIII qu. 45, 2; l'esem-

pio di Eeaù e Giacobbe si ritrova in Contess., VII, 6, 10.

(16) Ibitì., 3: « Sed... ad frangendam atque deiciendam superbiam hotninum

ingratorum gratiae Dei et a udenti um gloriari de meritis suis ista commemo-

tantur. "Cum enim nondum nati fuissent... " .(vss. 11-12). Vocantis est ergo

gratia; percipientis vero gratiam consequenter sunt opera bona, non quae gra-

tiam pariant, sed quae gratia pariantur ». — 4: i Unde igitur ista electio, vel

qualis electio, si nondum natis nondumque aliquid operatìs nulla «unt mo-

menta meritorum? An forte sunt aJiqua naturarum?... Si enim bonus factue est

Incob, ut piacerei, unde placuit 'ante quam fieret, ut bonus fieret? Non itaque

eJeclue esl ut fieret bonus sed bonus factus eligi potuit... ». — 5: « An ideo

" eecundum eleclionem ", quia omnium Deus praescius eliam Juluram fidem

vidit in lacob nondum nato? Ut, quainvis non ex operibus suis iustificari quis-
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que mereatur, quandoquidem bene operari nisi iustificatus non polest, tamen

quia ex fide iuslificat gentes Deus, nec credil aliquis nisi libera voluntate, hanc

ipsam fidei voluntatem futuram praevidens Deus etiam nondum natum prae-

scientia, quem iustificaret, elegerit. Si dgilur electio per praescientiam, praesci-

vit autem Deus fidem lacob: unde probas quia non etiam ex operibus elegit

eum? Si propterea quia nondum nati erant et nondum aliquid egerant bonum

seu malum, ila etiam nondum crediderat aliquis eorum. Sed praescientia vide-

rat credilurum. Ila praescientia videre poterat operaturum... Quapropter unde

oelendit apostolus non ex openbue dictum esse '-maior serviet minori"? Si

quoniam. nondum nali erant, non solum non ex operibus sed nec ex fide dicium

est: quia utrumque deerat nondum eatis. Non igilur ex praescientia voluit

intellegi factam electionem minoris, ut maior ei servirei... Quamoorem unde

illa electio facta sdt quaeritur... unde igitur? ». — 6: « Non ergo eecundum ele-

ctionem propositum Dei manet, eed ex proposito electio; id est, non quia inve-

riit Deus opera bona in hominibus quae eligat, ideo manet propositum iueti-

ficationis ipsius, sed quia ili od manet ut iustificet credentee, ideo inveii it opera

quae iam eligat ad regnum caelorum. Nam nisi esset electio non essent electì,

r.ec reote diceretur: " quis accusabit " etc. (Roma. VIIi, 33). Non tamen electio

praecedit iustificationem, sed electionem iustincatio... Unde quod dictum est

'- quia elegil nos Deus... " (Eph. I, 4) non video quomodo sii dictum, nisi prae-

scientia- Hic autem quod ait "non ex operibus, etc. " non electione meritorum

quae posi iustification«m gratiae proveniunt, sed liberalitate donorum Dei vo-

luil intelligi, ne quis de operibus extoll'atur. " Gratia enim Dei... (Eph. li, 8) ".

(17) Ibid., 7: « Quaeritur autem, utrum vel ndes mereatur hominis iustifi-
cationem, an vero nec fidei inerita praecedant misericordiam Del, sed et fides

ipsa inter dona gratiae numeietur. Quia et hoc loco cum dixissel " Non ex ope.

ribus " non ait "sed ex fide "..... ait autem " sed ex vocanite'' (ve. 12). Nemo

enim credit, qui non vocatur. Misericors autem Deus vocat, nullis hoc vel

fidei meritie largiens; quia merita fidei sequuntur vocationem 'potius quam

piaecedunt. " Quomodo " enim " credent quem non audierunt et quomodo

eie. (Rom. X, 14)? ". Nisi ergo vocando praecedat misericordia Dei, nec credere

quisquam potest, ut ex hoc incipiat iustificari et accipere facultatem bene

operandi. Ergo ante om,ne meritum est gratta. Etenim " Ghristus pro impiis

mortue est" (Rom. V, 6). Ex vocante igitur nunor accepdt, non ex ullis meriti*

operimi suorum, ut maior ei servirei ».

(18) Ibid., 8; « Si autem verum est quod non ex operibus, et inde hoc pro-

bat quia de nondum natis nondumque aliqaid operatis hoc dictum, unde nec

ex. fide quae in nondum natis similiter nondum erat, quo merito Esau odio habe-

tur antequam naecatur? Quod enim fecit Deus ea quae diligerei nulla quaestio

eet... Ut autem odisset Esau, niei iniustitiae merito, iniustum est. Quod si con-

cedimus, incipit et lacob iustitiae merito diligi...». — 9: « Vidit ilaque aposto-

lue quid ex his verbis posset animo audientis vel legentis occorrere, statimque

subilcit: " Quid ergo dicemus?... absit '' (ve. 14). El quasi docens quomodo absit:

" Moysi enim dicil ", inquii " miserebor cui micertue ero et misericordiam

piaestabo cui misericors fuero " (ve. 15; £xo. XXXIII, 19).,Quibus verbis solvit

quaeetionem, an potine arctius colligavitV Id ipsuin est enim quod maxime mo-

ve!... cur haec misericordia defuit Esau, ut etiam ipse per illam eesei bonus

quemadmodum per illam bonus factus est lacob. An ideo dictum est (vs. 15;

Exo. XXXIII, 15) quia cui misertus erit Deus ut eum vocet, miserebitur eius
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ul credat, et cui misericors fuerit ut credat, misericordiam praestabit, hoc est

iaciet eum misericordem, ut etiam bene operelur? Unde adìnonemur nec ipeis

operibus misericordiae quemquam oportere gloriari et extolli... Quod ei eam

(scil.: misericordiam) credendo se mentisse quis iactat, noverit eum sibi prae-

stitìsse ut crtederet qui miseretur inspirando fidem, cuiue miserlus eet ut adhuc

infid'eli vooationem imperliret. lain enim discerndlur fidelis ab impio. " Quid

enim habes " inquit " quod non eccepisti. Si autem, ete. " » (I Cor., IV, 7).

(19) Ibid., 10: « Recte quidem hoc sed cur haec misericordia eubtracta est

ab Esau ut non sic vocaretur ut et vocato inspiraretur fides et credens miseri-

cors fieret ut 'bene operaretur? An forte quia noluit?... An quia nemo potest ere.

dere nisi velit, nemo velie nisi vocetur, nemo autem sibi potest praestaQj ut

vocetur, vocando Deus praeelal et fidem, quia sine vocatione non potest quis-

quam credere, quamvis nullus credat invitus?... nemo itaque credit non voca-

tus; sed non omnis credit vocatus. " .Multi enim eun-t vocali, pauci vero e!e-

ctì " (Aflalf. XX, 16): utique it qui vocantem non contempserunt, sed credendo

seculi sunt, volentes aulem sine doibio crediderunt. Quid est ergo qucd

sequitur " Igitur non volentis, etc. "? (vs. 16). An quia nec velie poesumus nisi

vocati, et nihil valet velile nostrum, nisi ut perficiamus adiuvet Deue? Opus esl

ergo velie et eurrere... Non tamen " volentis neque currentis sed miserentis

est Dei " ut quod volumus adipiscamur el quo volumus perveniamus. Noluil

ergo Esau et non cucurrit; sed el si voJuissel et cucurrisset, Dei adiutorio

pervenisset qui ei eliam velie et currere, Tooando, praestaiet, nisi vocatione

contempta reprobus fieret. Aliter enim Deue praestat ut velimue, aliter praeelat

quod voluerhmw. Ut velimue eniin et suum esse voluit et noetrum, suuui vo-

16»
Cdndo, nostrum sequerado. Qucxl autam voluerimus solus praestaf, id est posse

bene agere et semper beate vivere. V«rumtamen Esau nondum oatus nih.il

horum po&set velie seu nolle. Cur ergo in utero positus improbatus est? Redi-

tur enhn ad illae difficullates, non solum sua obscuritate sed etiam nostra tam

muita repetitione molestiores ».

(20) Ibid., 12: « lila etiam verba si diiigenter attendas " Igitur non vo-

lenlifi " (ve. 16) non hoc apostolus propterea tantum dixisse videbitur quod

adiutorio Dei ad id quod volumus perveniamus, sed etiam ex illa intenfcione

qua et alio 'loco dixit " Cum timore et tremore... prò bona voluntate " (fhil. II,

12-13). Ubi satis ostendit etiam ipsam bonam voluntatem in nofais operante

Deo fieri. N*m si propterea soJum diètum est (vs, 16) quia volonta* hominis

«ola non sufficit ut iuste recteque vivamus nisi adiuvemur misericordia Dei,

potest et hoc modo dici: Igitur non miserentis est Dei sed volenti** est homiflis,

quia misericordi,-) Dei sola non sufficit, nisi consensus nostrae voluntatis ad-

darur. At illud manilestum est, frustra noa velie nisi Deus misereatur; illud

autem nescio quomodo dicatur, frustra Deum misereri nisi nos velimus... At

enim, quia non praecedit voluntas bona vocationem, eed vocatio bonam vo-

luntatem propterea vocanti Deo recte tribuitur quod bene volumus, nobis vero

tribui non poteet quod vocamur ». , •

(21) Ibid. 13: «"Multi vocati pauci electi " (MoEt. XX, 16). Quod si ve-

rum ee-t et non consequenter vocationi vocatus obtemperat, atque ut non

obtemperet in eius est posltum voluntate, recte etiam dici potesi: Igitur non

miserentis Dei, eed... An forte illi qui hoc modo vocati non consentiunt, possent

allo modo vocati accomodare fi'dei voluntatem, ut et illud verum sit " Multi

vocatì... ", ut quamvis multi uno modo vocali sint, tamen quia non omnes uno
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modo affecti sunt, illi soli sequantur vocationem qui ei capienidae reperiuntur

idonei; et illud non minus verum sit (vs. 16) qui (scil.: Deus) hoc modo vocavit,

<juomodo aptutm erat eis qui secuti sunt vocationem? Ad alios autem vocatio

quidem pervenit; sed quia talis fuit qua moveri non possent, ne,c eam capere

apti essent, vocati quidem dici potu«runt, sed non electi; et non iam similiter

' verum est: Igitur non miserentis Dei, sed volentis atque currentis est hominis "

quoniam non potesl effectus misericordiae Dei esse in hominis potestate...

lili enim electi qui congruenter vocati; illi autem qui non congruebant neque

contemperabantur vocationi, non electi, quia non secuti, quamvis vocati ».

(22) Marrou (o. c., p. 3, cc. 4 e 5) ha segnalato molto bene tutto ciò che

in Agostino l'esegeta deve al grammaticus che sopravvisse in lui sempre. Sa-

rebbe forse conveniente studiare ora i possibili punti di contatto tra l'esegesi

biblica, nel periodo patristico, e quella giuridica: senza dimenticare che teo-

logi e giuristi avevano ricevuto la stessa formazione durante il periodo degli

studi secondari, sotto la guida del grammatico e del retore.

(23) Ibid. 14: « quis audeat dicere defuisse Deo modum vocandi, quo

•etiam Esau ad eam fidem mentem applicare* voluntatemque coniungeret, in qua

lacob iustificatus esl? Quod si tanta quoque potest esse obstinatio voluntatia,

ut contra .Oflomes modos vocationis obdurescat mentis aversio, quaeritur utrum

de divina poena sii ipsa duritia, cum Deus deserii non sic vocando, quomodo

ad fidem moveri polest. Quis enim dicat modum, quo ei persuaderete ut cre-

derei, etiam omnipotenti defuisse? ». — 15: « " Ergo cuius vult miseretur et

quem vult obdurat" (vs. 18); cum superius non utrumque dicium sit. Neque

enim quomodo dictum est " Non volentis eic." (ve. 16), sic eliam dicium est;

170 »
non nolenti* acque contemnentis, sed obdurantis est Dei. Unde datur intelligi,

quod infra utrumque posuit: " Ergo etc " (vs, 18) ita sententiae superiori posse

congruerc ut obduratio Dei sii nolle mdaereri; ut, non ab ilio irrogetur aliquid

quo sii homo detono:, sed lantum quo sit melior non erogetur. Quod ai fri

nulla distinctione meritorum, quis non erumpet in eam vocem, quarti «ibi obie.

cit apostolus " Dicis itaque.. " (vs. 19)? Conqueritur enim Deus fsaepe de ho-

minibue... quod nolint credere et rette vivere ».

(24) Ihid., 16: Questo è proprio « alicuius occultae atque ab humano mu-

dalo mvestigdbiilis aequitatis, quae in ipsis rebus humanis terreniaque contra-

ctibus animadvertenda est in quibus nisi supernae iustitì.ae qùaedam impres-

sa vastigia teneremus, numquam in ipsum cubile ac penetrale sanctissimum

atque castis&imum spiritalium praectiptorum nostrae infirmilaUs suspiceret at-

que inhiarel intentio... quis non videat iniquitatis arguì neminem posse, qui

quod sitai debetur exegerit? nec eum certe qui quod ei debetur donare volue-

rit? hoc autem non esse m eorum qui debitores sunt, sed in eius cui debe'tur

arbitrio? Haec imago vel. ut supra dixi, vestigium negotiis hominum de fa-

stigio «uramo aequitatis impressiim est. Sunt igitur omnes homines, quando-

quidem ut apostolus ait " in Adom omnes moriiinlar " (/ Cor., XV, 22), a quo

in univereum genus humanum origo ducitur offeusionis Dei, una quaedam

massa peccati suppiicium debens divinae summaeque iuetitiae, quod sive

exigatui eive donetur, nulla est imquitas. A quibus autem exigendum et qui-

bus don andimi sit, superbe indicarti debitores: quemadmodum conducti ad il-

lam vine.am iniuste indignati sunt (cfr. Matth. XX, 11)... Itaque huìue impuden.

tiam quaestdonis ita retundit Apostolus: " O homo, tu quis es, etc." (vs. 20)...

Sic enim respondet Deo cum ei displicet quod de peccatoribus conqueritur


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Deiis, quasi qpemquam Deus peccare cogat, si tantammodo quibusdam peccan-

tibue mìsericordiam iustificationis suae non largiatur et ob hoc dicatur obdu-

rare peccantes quosdam quia non eorum miseretur, non quia impellit ut pec-

cent. Eorum autem non miseretur, quibus misericordiam non esse praebendam

aequitate occultissima et ab humanis sensibus remotissima iudicat. « Inecruta-

bilia " enim sunt " iudicia eius, etc. ' (R&m. XI, 33). Conqueritur autem iuste

de peccatoribus tamquam de bis quos peccare ipse non cogit. Simul etiam ut

hi quorum miseretur hanc quoque habeant vocationem; ut dum conqueritur

Deus de peccatoribus compungantur corde, atque ad eius gratiam convertantur.

luste ergo conqueritur et misericorder ». Sul concetto di .aequiias v, P. Bon-

fante, Storia del diritto romano, 3» ed., Milano 1923, I, p. 370; id., istituzioni

di dir. rom., 8a ediz., Milano 1925, p. 7. Non ho trovato citato questo passo di

Agostino, pure significativo anche dal punto di vista della storia dei concetti

giuridici, neil lavoro di M. Roberti, in Sant'Agostino, Pubblicazione commemo-

rativa del XV centenario della sua morte, Milano 1931 (Rivista di filosofia neo-

scolastica, suppiem. spec. al voi. XXIII).

Vorrei anche richiamare l'attenzione sullo stile alquanto più studiato e

sull'andamento oratorio almeno dei primi periodi del par. 16 in confronto del

resto dell'opera. Agostino li ha certo meditati e studiati più a lungo, forse

anche preparati prima. E' anche questa considerazione che m'induce a chie-

dermi se il suo modo di argomentare in questa quaestio non sia stato adottato

ad arte.

(25) V. sopra, p. 146 e n 6.

171
(26) Ibid, 17: « Srtl si hoc movet quod voi un In ti elus nuUus resistit quJa

cui vult subvenit et quein vult deserit, eum et ille cui subvenit et ille queano

deserit ex eadem massa sint peccatorum... si hoc ergo move*, " O homo, ete. "

(vs. 20)... Eo ipso fortasse satis ostentiti se hominì carnali loqui, quoniam hoc

limufi ipec significat, unde primus homo fonnatus est: et quia " omnes... in

Adam moriuntur " (1 Cor. XV, 22) unam dicit esse conspersionem omnium. Et

quamvis tìiiuil vas fiat in honorem aliud in cnntumeliam, tamen et ilihid quod

fit in honorem necesse est ut carnale esse incipiat atque inde in spiritualem

consurgat aetatem. Quandoquidem iam in honorem facti erant et in Ch risto iam

nati erant, sed tamen quoniam parvuios adhuc alloquitur etiam ipsos carnales

appellai (I Cor. Ili, 1-2)... Quamvis ergo carnales eos esse dicat, tamen iam in

Christo natos et in ilio parvulos et lacte potandos... Ergo iam vasa erant in

honorem facta quibus adhuc tamen recte diceretur " O homo etc. ". Et GÌ talibue

recte dicitur, multo rectius eie qui ve,l nondum ita regenerati eunt, vel etiam

in contumeliam (adi ».

(27) Ibid., 18: « Qui nodus ita solvitur, si intellegamus omnium crealura-

rum esse artìficem Deum. Omnie autem creatura Dei est et omnis homo, in

quantum homo est, creatura est, non in quantum pecoator est. Est ergo creator

Deus et corporis et animi humani. Neutrum horum nralum et neutrum odit

Deue; nihil enim odu eorum quae fecit. Est autem animus praestantior corpo,

re, Dess vero et animo et corpore, utriusque effector et conditor, nec odit in

homine nisi peccatum. Est autem peccatum hominis inordinatio atque perver-

sitas, id est a praestantiore Conditore aversio et ad condita inferiora conver-

sio... homtnee Dei conditione, peccatores p-ropria voluntate... Odit enim Deue

ùnpielatem. Itaque in aliis eam punii per damnationem, in aliis adimit per iu-
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stificationem, quemadmodum ipse iudicat esse fadendum iHi* iudiciis inscru-

tabilibus. Et quod ex numero impicrum qoics non iuetificat facit vaea in con-

tumeliam, non hoc in eis odit quod facit; quippe, in quantum impii sunt,

execrabilee sunt, in quantum autem vaea fiunt, ad aliquem usum fiunt, ut per

eorum ordinatas poenas vaea quae fiunt in honorem proficiant ... Odit enim in

eie impietatem, quam ipse non fecit ».

(28) Ibid., 19: « " Quod et voravit nos inquit " non solum ex ludaeie

sed etiam ex gentibus" (vs. 24), id est vasa misericordiaè quae praeparavit in

gtoriam. Non enim omnes ludaeos, sed ex ludaeis; nec omnes omnino hominee

gentium sed ex gentibus. Una est enim ex Adam massa peccatorum et impio-

tum, in qua et ludaei et Gentes remota gratia Dei ad unam pertinent coosper-

sionem... et ex ludaeis sunt alia vasa in honorem alia in contumeliam sicut ex

Gentibus: sequitur ut ad unam consperisonem omnes pertinere inteMigantur...».

— 20: «"et immutavit vias eourm " (Eccles., XXXIII, 10), ut iam. tamquam

morlales viverent. Tunc facta sst una massa omnium, veniens de traduce pec-

cati et de poena mortalitatis, quamvis Deo formante et creante quae bona sunt.

In omnibus est enim species et compa po corporis. in tanta membrorum con-

cordia, ut inde apostolus ad charitatem obtinenòam similitudinem duceitet; in

omnibus est etiam spirilus vilalis terrena membra vivificans, omnisque natura

hominis dominatu animae et famulatu corporis conditione mirabili temperata;

sed concupiscentia carnalis, de peccati poena iam regnans, universum genue

humanum tamquam totani et unam conspersionem originali reatu in omnia per.

manante confuderat ». ,

173
(29) dfr. ibid, 12 di. alla n. 20.

(30) Cfr. e. I, n. 24.

(31) Ad Simplie., I, qu. 2, 21: «Nulla igitur intentio tenetur apostoli, et

•omnium iustifiqatorum per quos nobis inteliertus gratiae demonstratus est, nisi

ut. "qui gloriatui in Domino glorietur ". {/ Cor., I, 31). Quis enim discutiet

opera Domini, ex eadem conspersione unum damnantis alterum iustificantis?

Liberum voluntatie arbitrium plurimum valet, immo vero est quidem, sed

in venumdatis sub peccato quid valet? " Caro ", inquit " concupiscit ete. "

(Gol. V, 17). Praecipitur ut reote vivamua, hac utique mercede proposita ut in

aeternum beate vivere mereamur, sed quió potest recie vivere et bene operari,

nisi iustificatus ex fide? Praecipitur ut credamus... sed quis potest credere nisi

aliqua vocatione, hoc est aliqua rerum testificatione tangatur? Quis habet in

potestate tali viso attingi mentem suam, quo eius voluntas moveatur ad fidem?

Quis autean animo amplecticur aliquid quod eum non delectat? aut quis habet

in potestate ut vel occurrat quod eum delectare possit, vel delectet cum oc-

currerit? Cum ergo nos ea deieotant quibus proficiamus ad Deum, inspiratur

hoc et praebetur gratia Dei, non nutu nostro et industria au-t operum meritis

comparatur: quìa ut sit nutus voluntatie, ut sit industria studii, ut sint opera

cariiate ferventia, iiie tribuit, ille largitur. Petere iubemur ut accipiamus el

quiaemere ut inveniamus et pulsare ut apériatur nobis. Nonne aliquando ipsa

oralio nostra sic tepida est, vel potius frigida et paene nulla, immo omnino in-

terdum ita nulla, ut neque hoc in nobis cum dolore advertamus? quia si vel hoc

dolemus, iati oramus. Quid ergo aliud ostenditur nobie, nisi quia et petere et

quaerere et pulsare ille concedit, qui ut haec faciamus iubet? ».

(32) Ibid., 22: « Quod si electio hic sit aliqua, ut sic intelligamus quod
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dictum est " Reliquiae... salvae faotae sunt " (/sa., X, 22-23, <rfr. vs. 27) non ut

iustificatorum electio fiat ad vitam aeternam, sed ut eligantur quj iuetificeatur,

certe ita occulta est haec electio ut in eadem conepersione ncbis prorsus ap-

parere non poesit; aut si apparsi quibusdam, ego in hac re infirmitatem meam

fateor... Restat ergo ut voluntates eligantur. Sed voluntas ipsa, nisi aliquid

occurrerit quod delectet atque invitet animum, moveri nullo modo potest: hoc

autem ut occurrat non est in hominis potestate... Et tamen quid dicemus?

" Numquid iniquitas est apud Deum? " (vs. 14) exigentem a quo placet, do-

nantem cui placet? Qui nequaquam exigit indebitum, nequaquam donat alie-

num... Quare itamen huic ita et huic non ita? " O homo, tu quis es? " (vs. 20)..

Debitum si non reddis, habes quod gratuleris; si reddis, non habes quod que-

. raris. Credamus tantum, etsi capere non valemus, quoniam qui universam

creaturam et spiritualem et corporalem fecit et condidit, omnia in numero et

pondere et mensura disponit (Sap., XI, 21). Sed inscrutabilia sunt iudicia eius

et investigabiles viae eius (Rom., XI, 33). Dicamus alleluia et collaudemus

canticum et non dicamus: quid hoc? vel quid hoc? Omnia enim in tempore

•euo creata sum (Ecclus. XXXtX, 19 e 26) ».

(33) Cfr. e. IV, nn. 5 e 19.

173
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VII

Intorno a quel suo cambiamento di opinione, Agostino stessa

ci ha lasciato una serie di dichiarazioni : testimonianze che dob-

biamo considerare attentamente.

Un primo gruppo comprende luoghi delle Retractationes in

cui egli segnala passi delle sue prime opere, che i pelagiani hanno

addotto, o potrebbero addurre, in loro favore. Qui per lo più Ago-

stino o cerca di dimostrare che i pelagiani s'ingannano, e talvolta

rimanda il lettore ad altri suoi scritti, o fa osservare che allora

la loro eresia non era ancor sorta e quindi egli non aveva da pre-

occuparsi di combatterla, specialmente in opere dirette Soprattutto

contro i manichei (1). In sostanza, egli si sforza di dare al lettore

— e a prima vista vi riesce — l'impressione che Pelagio lo citi

abusivamente o lo abbia mal compreso e che in sostanza egli, Ago-

stino, non abbia mai mutato opinione. Ma chi tenga presente lo

scopo primo e il carattere polemico delle Retractationes, specie

nei primi capitoli, non può dare a questo gruppo di dichiarazioni

un peso prevalente, contro le altre.

Che in altri testi, Agostino ammette francamente di avere

cambiato e invita anzi i suoi lettori a fare, come lui, ogni sforzo

per intendere la Scrittura sempre più e meglio. Nel De praedesti-

natione sanctorum (2) egli vuoi dimostrare che la fede per cui si

diventa cristiani è dono di Dio. Coloro i quali dicono che da Dio

la fede riceve solo un incremento, restano pelagiani, anzi dell'opi-

nione che Pelagio stesso dovette rinnegare nel concilio di 'Dio-


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spoli ; se l'inizio della fede è nostro e da Dio essa viene solo

aumentata, questo è la retribuzione di un merito nostro. Ma poco

176
dopo, Agostino riconosce di avere un tempo sostenuto anch'egli

le stesse idee : che cioè la fede non fosse preceduta dalla grazia

ma dalla sola predicazione del Vangelo, libero l'uomo di accon-

sentirvi o no. Tale opinione egli ha esposto in varie opere, scritte

prima del suo episcopato, e tra queste l'Expositio quarundam pro-

positionum che i pelagiani ora si compiacciono di citare. Ma questo

errore è stato corretto nelle Retractatìones, perchè Agostino è stato

indotto a ricredersi, riflettendo intorno a un passo di S. Paolo

stesso ( I Cor., IV, 7) che S. Cipriano ha citato nei suoi Testi-

monia, in un capitolo intitolato De nullo gloriandum, quando no-

strum nihil est : mostrando con ciò di pensare che la fede, quindi

la giustificazione e la salvezza, è dono di Dio (3). I suoi avver-

sari sono dunque rimasti a questo punto : ma se piuttosto che di

leggere i suoi libri per trovare in essi argomenti a loro favore, si

fossero preoccupati di procedere più innanzi nell'intelligenza della

Bibbia e di seguire negli scritti di Agostino i segni del suo pro-

gresso spirituale, avrebbero trovato ch'egli ha risolto la questione

nel primo dei due libri a Simpliciano, di cui ha pure parlato nelle

Retractatìones (4).

Nel De dono perseverantiae, Agostino ammette pure di avere

mutato opinione, quanto alla condizione degli infanti (5). Egli

ricorda altresì come la sua dottrina della grazia si trovi esposta

anche in opere precedenti di molto l'eresia pelagiana, come le

Confessioni, e soprattutto \fAd Simplicianum, in cui per la prima

volta ha mostrato di aver compreso la questione più chiaramente (6).


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La redazione del De dono perseverantiae è di non molto po-

steriore a quella delle Retractatìones (7). In queste, a proposito

de\]TExpositio quarundam propositionum, Agostino dichiara che la

dottrina ivi esposta efa ancora imperfetta e insufficiente, perchè

egli :non aveva ancora approfondito l'elezione della grazia e non

si era preoccupato di porsi il problema se la misericordia di Dio

segua e rimuneri la fede dell'uomo ovvero la preceda e la causi (8).

Ma il luogo che concerne l'Ad Simplicianum è più importante di

tutti, perchè ad esso ci riconducono le testimonianze relative a

quest'opera che abbiamo esaminato finora (9). Ora, a questo pro-

posito Agostino dichiara espressamente ch'egli cercò bensì di sal-

vare il libero arbitrio, ma dovette venire al pieno riconoscimento

del valore della grazia divina ; e di non aver potuto conclu-

176
dere se non riconoscendo la verità di quelle parole di San Paolo

(/. Cor. IV, 7) che S. Cipriano stesso aveva fatto sue e conden-

sato nel titolo di un capitolo dei Testimonia (10).

Se esaminiamo questa serie di dichiarazioni, vediamo che Ago-

stino tende generalmente a darci l'impressione che quel versetto,

la cui considerazione ha illuminato la sua mente, è stato da lui rat-

tamente inteso in quanto contenuto nei Testimonia ciprianei, e in

un capitolo dal titolo così significativo. Tuttavia, una volta (11) egli

allude soltanto alle parole dell'apostolo, tacendo di Cipriano. Con

questo è in singolare contrasto il passo precedente (12), in cui il

massimo rilievo è dato invece all'autorità del vescovo di Cartagine

e il versetto paolino indicato soltanto come una delle testimonianze

da lui addotte ; mentre di nuovo nelle Ritrattazioni è l'apostolo che

viene in prima linea e l'autorità di Cipriano è invocata solo come

sussidiaria.

Un caso analogo ci è presentato dal De dono perseverantiae.

Qui Agostino ricorda che, molti e molti anni prima che l'eresia

di Peiagio sorgesse, un potente antidoto contro di essa era stato

preparato appunto da S. Cipriano, nel De dominici oratione su cui

egli si sofferma a lungo ; pei poi concludere che, se non vi fo&

sero altre prove, il Pcdar zoster basterebbe da solo a dimosirare

vera la sua dottrina della grazia (13).

Ma all'autorità di Cipriano, e sempre a proposito di questo

versetto paolino, Agostino ha già ricorso in un'opera precedente,

il Contra duas epistolas pelagianorum. Peiagio, egli osserva, .ha


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detto di voler fare per Romano ciò che Cipriano ha fatto per

Quirinio con i Testimonia. Ed ecco Agostino passare allora in ras-

segna l'opera del vescovo martire, soffermandosi sul De opere et

deemosynis, sul De mortalitate, sul De bona patientiae. sull'ep. 64,

e sul De dominica oratione; verso la fine, egli ricorda i Testimonia,

indicando il titolo del capitolo che serve a confutare Peiagio, e nel

quale Cipriano ha inserito il versetto della Prima epistola ai

Corinzi (14).

Molte altre volte, invece, il medesimo versetto è usato da Ago-

stino, senza la minima menzione di Cipriano (15) : il quale, anzi,

nella polemica antipelagiana è ricordato da Agostino come una

autorità in suo favore per la prima volta appunto nel Cantra duas

epistolas pelagianorum. Per contro, nel De dono perseverantiae,

177
oltre i luoghi che abbiamo già esaminati, Agostino cita una volta

I Cor. I, 3.1 e un'altra / Cor. IV, 7, in entrambi i casi ricordando

i Testimonia ciprianei; ma almeno una volta questi ultimi sono

citati senza allusione a nessun versetto di S. Paolo, bensì congiun-

tamente con un passo di S. Ambrogio (16). Entrambi questi tracta-

tores excellentissimi divinorum eloquiorum predicarono la grazia

di Dio e insieme esortarono ad adempiere i precetti divini (17).

Questo modo di designare gli esegeti sulla cui autorità Ago-

stino si appoggia ci conduce a un'altra serie di tèstimonianze. Nelle

Retractationes, a proposito de\\'Expositio quarundam propositio-

num. Agostino avverte che egli aveva interpretato Rom. VII, 14

segg. come parole dette dall'apostolo, non in persona propria, ma

come sotto le spoglie dell'uomo ancora nello stadio sub Lege. In

seguito però, dopo aver letto commentatori di grande autorità, com-

prese che quelle parole potevano essere riferite anche all'apostolo

stesso : dottrina che Agostino ha esposto nei suoi scritti antipe-

lagani. E' notevole qui un certo sforzo che Agostino fa per mo-

strare che la dottrina della grazia è in certo qual modo indipen-

dente dall'interpretazione dei versetti su menzionati, e si può ritro-

vare anche ne\\'Expositio quarundam propositionum ; ma subito

dopo egli confessa, come abbiamo visto, che a quel tempo non

si era ancora reso conto deft'electio gratiae (18). La medesima os-

servazione circa il suo primo modo d'intendere il e. VII della lettera

Ai Romani Agostino fa a proposito del De diversis quaestionibus

LXXXIH e anche della prima quaestio déft'Ad Simplicianum (19).


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Non è il caso di sottilizzare sulla diversità dell'indicazione crono-

logica : « dopo » \'Expositio quarundam propositionum, e « molto

dopo » la prima quaestio dellMtf Simplicianum.

Ma il cambiamento' non riguarda soltanto il e. VII di Romani,

bensì, come è naturale, anche Caltti, V, 17. E nelle Ritrattazioni

stesse Agostino ha cura di segnalarlo (20).

Queste non sono tuttavia le sole dichiarazioni che Agostino

ci fa intorno al suo mutato modo d'interpretare quei passi. Nel

Contra lulianum (21) egli considera l'osservazione del suo avver-

sario. Questi lo accusa di avere inteso male tutto il passo Rom.

VII, 14-25. Al che Agostino- replica che nell'interpretarlo come fa

ora, egli non è solo. Anzi, prima non lo aveva capito bene e gli

sembrava assurdo che l'Apostolo, essendo spirituale, potesse artri-

178
buire a se stesso l'essere carnale. Soltanto più tardi, egli aderì

all'opinione di interpetri più acuti e alla verità stessa, che gli si

manifestò chiara. E così fu indotto a intendere il passo in questione

allo stesso modo di Ilario, Gregorio, Ambrogio e gli altri santi e

illustri dottori.

Non solo, ma in quel medesimo Cantra duas epistolas pelagia-

norum a cui anche la considerazione del gruppo di testimonianze

precedente ci ha riportato, Agostino ammette ugualmente di avere

cambiato opinione riguardo al senso del medesimo passo di .Ro-

mani. Senonché, qui, non è l'influsso di alcun maestro che lo ha

condotto a una migliore intelligenza, bensì una riflessione più ma-

tura intorno al testo medesimo (22).

***

Insomma, la menzione o il, riconoscimento di un cambiamento

avvenuto nel suo modo d'interpretare San Paolo, non appare in

nessuna opera della polemica antipelagiana anteriore al Cantra

duas epistolas pelagianorum ; in questo, troviamo le prime ammis-

sioni di tal cambio, e insieme i primi richiami all'autorità di S. Ci-

priano; nelle Retractationes è ricordato ancora Cipriano, insieme

con alcuni esegeti non specificati ; nel De dono perseverantiae, alla

autorità di Cipriano si affianca per la prima volta quella di San-

t'Ambrogio; nel Contra lulianum, Cipriano non è più menzio-

nato, ma in cambio, accanto ad Ambrogio, troviamo ora Ilario e

Gregorio, cioè il Nazianzeno (23). E' quindi soltanto negli scritti

più recenti contro i pelagiani, che Agostino, in parte punto dai


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rimproveri che gli facevano gli avversari — e di cui dovette turbarlo,

non tanto l'accusa d'incoerenza (contro la quale si difende asserendo

il suo buon diritto a progredire nell'approfondimento del significato

delle Scritture), quanto quella di aver introdotto innovazioni, sco-

standosi da quella che secondo i pelagiani stessi era la dottrina

tradizionale; è in questi ultimi scritti che Agostino sente il bisogno

di mettere in chiaro che le migliori autorità sono con lui, e che

anzi il suo cambiamento di opinione fu causato dalla lettura dei

loro commenti (24).

Ora tutto ciò è pienamente conforme al modo di procedere di

Agostino in questa sua polemica, il quale era già noto, ma ha

avuto una nuova dimostrazione da ricerche recenti. Il Courcelle (25)

17»
ha provato che Agostino si mise a studiare il greco (o, se si vuole,

a ristudiarlo, ma questa volta seriamente) qualche tempo prima del

416, e che di una sua conoscenza diretta delle opere dei Padri

greci — Gregorio di Nazianzo, Basilio di Cesarea e Giovanni Cri-

sostomo — non si trovano segni se non a partire dal Contra tnlia-

num (o, per le Omelie del secondo su\\'Hexaemeron, dal De Genesi

ad luterani). Di fronte ai critici dei suoi commenti, e soprattutto

ai suoi avversar! nell'aspra polemica attorno alla Grazia (26), i

quali erano sempre pronti a corroborare le loro asserzioni con la

autorità di numerosi scrittori, Agostino, per evitare la taccia sia

d'ignorante sia di novatore ed eretico, dovette adattarsi ad impie-

gare lo stesso metodo ed a combattere anch'egli a colpi di cita-

zioni. Ma quel modo di discutere era così poco consono all'indole

di Agostino, che egli sembra seguirlo solo di malavoglia, e qualche

volta reagisce : come quando, nel momento stesso in cui ammette

di essersi arreso al parere dì interpreti più di lui dotti e sagaci,

soggiunse : vel potius ipsi veritati (27).

Agostino, in altri termini, non ha dubbi quanto all'ortodossia

delle proprie vedute teologiche, né sente il bisogno di andare cer-

cando qua e là conferme della loro aderenza alla tradizione e al

sentire della Chiesa. Gli basta il fatto ch'esse si fondano su una

interpretazione corretta delle Scritture, la quale, egli pensa, se

esatta, coincide con ciò che la Chiesa universale ritiene; e, se de-

ficiente o superficiale in qualche punto, può essere corretta me-

diante uno studio più approfondito delle Scritture stesse. Per di


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più, in Occidente, fino a Pelagio, nessuno ha messo in dubbio la

ortodossia delle dottrine che egli, Agostino, ha esposto in nume-

rosi scritti ; ora, Pelagio e i suoi amici, specialmente Giuliano,

invocano in loro aiuto l'autorità di scrittori greci ; ma Agostino

ribatte che i Latini, gli Occidentali, fanno anche loro parte di quella

Chiesa che è universale e la cui fede è una sola. Tuttavia, Agostino

avverte la convenienza di verificare se gli autori su cui si appog-

gia Giuliano dicono veramente ciò che questi vuole che essi

dicano, e di mostrare che effettivamente i migliori esegeti sono

d'accordo con lui, e contrari a Pelagio.

Da questo contrasto deriva quella discrepanza tra le varie af-

fermazioni di Agostino, che è facile rilevare, e crea per lo storico

l'obbligo di fare almeno un tentativo per vedere quale, tra questi

180
ricordi, sia il più fedele al vero. Ora, in questo esame, conviene

tener presente che, nei primi tempi della polemica, finchè cioè

Agostino non senti il bisogno di ricorrere anche lui all'autorità e

di giustificare il suo cambiamento di opinione, egli evidentemente

non avvertiva la necessità di parlarne, e quindi di fare uno sforzo

per rammentare com'erano andate precisamente le cose. Insomma,

la menzione di uno scrittore nelle opere tardive non garantisce che

Agostino lo avesse letto già intorno al 395-96, come il silenzio dei

primi scritti antipelagiani non prova che Agostino venisse a cono-

scere lo stesso scrittore soltanto tardi, nel corso della polemica. E'

impossibile e assurdo, anche in vista di quanto abbiamo notato,

cioè degli sforzi che Agostino fece dopo l'ordinazione sacerdotale

per conoscere meglio la letteratura ecclesiastica (28), escludere che

la nuova interpretazione di San Paolo nella qu. 2 del primo libro

Ad Simplicianum potesse essergli suggerita da qualche lettura.

Naturalmente, quando si parla d'influssi di questo genere, non

si intendono come una forza che avrebbe spinto Agostino su una

nuova direzione, in maniera quasi necessaria. Si tratta bensì di

determinare se — e, in quanto possibile, fino a che punto — tra

gli autori che Agostino ha senza dubbio letto e apprezzato, ve ne

sia qualcuno eh' egli abbia conosciuto prima di redigere quella

quaestio II e il cui modo d'intendere San Paolo presenti affinità

di pensiero, e magari verbali, con lo scritto agostiniano, tali da

indurci a considerare possibile o probabile che la lettura di questi

autori contribuisse a indurlo a riesaminare le dottrine da lui pre-


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cedentemente accolte e sostenute, ad approfondire lo studio dei

problemi che gli stavano a cuore o a modificare le proprie opinioni.

Ora, degli scrittori che Agostino nomina, Gregorio va senza

altro escluso dalla nostra indagine, perché egli lo conobbe soltanto

molto più tardi del momento in cui il cambio si produsse. Sant'Am-

brogio è menzionato da lui due volte (29), ma, una, in maniera

puramente generica e l'altra, citando un passo, la cui relazione

con l'Epistola Ai Romani è, a dir poco, assai remota, e che perciò

è probabile si presentasse alla mente di Agostino soltanto allora.

Restano così san Cipriano e « Ilario » — ossia l'Ambrosiastro

— ai quali indagini e discussioni moderne, avvalorate, come ve-

dremo, da altre dichiarazioni di Agostino, hanno fatto aggiungere

Ticonio. Ma non dobbiamo dimenticare che Agostino stesso distingue

181
tra il suo mutamento d'opinione relativo al c. VII e quello che

riguarda il c. IX della stessa epistola Ai Romani. Non si vuole

con questa osservazione ignorare o ridurre il nesso esistente tra

questi due capitoli (e, naturalmente, Calati, V, 17) e la loro inter-

pretazione : anzi, va tenuto presente che il nuovo modo d'inten-

dere l'uno fece sentire il suo influsso sull'interpretazione dell'altro.

Ora, col mettere in rlievo che la prima manifestazione del suo nuovo

orientamento è nella qu. 2 di Ad Simplicianum I (e un confrónto

di essa con la qu. 1 dimostra che l'asserzione è esatta), Agostino

sembra voler indicare altresì che il suo cambiamento di opinione

fu causato appunto dalla riflessione intorno a Romani IX. E a pro-

posito di questo capitolo, Agostino segnala anche l'influsso che

circa l'interpretazione di quel capitolo esercitarono su lui passi

come : / Cor. I, 31 e specialmente IV, 7.

Veniamo ora all'Ambrosiastro. E' noto come l'aver trovato

nel Cantra duas epistolas pelagianorum (30) citato, sotto il nome

di Ilario, un passo del Commento dell'Ambrosiastro a Rom., V, 12,

e l'avervi trovato quel termine massa, che si legge nella qu. 2 di

Ad Simplicianum I, portò il Buonaiuti a presentare la teoria, che

ha provocato una lunga controversia. Secondo lui, l'impressionante

somiglianza verbale e ideologica tra quei due passi basta a pro-

vare la dipendenza di Agostino dall'Ambrosiastfo, al quale l'afri-

cano avrebbe attinto la sua dottrina del peccato originale e per

conseguenza quella della Grazia. Inoltre, l'origine remota di queste

dottrine (soprattutto la caratteristica concezione agostiniana del pec-


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cato d'origine) dovrebbe cercarsi in teorie dualistiche, ossia in ul-

tima analisi, nel manicheismo (31).

Buonaiuti però non si pose il problema della data di composi-

zione della qu. 68 del De diversis quaestionibus LXXXIII o dovette

crederla contemporanea — per lo meno idealmente — &\\'Ad Sim-

plicianum, mentre notò la differenza .tra questo, da un lato, e dal-

l'altro, il De libero arbitrio e \'Expositio quarundam propositionum.

E quando il Casamassa gli obiettò, indicandogli il passo di questa

ultima (32), in cui pure si legge lo stesso termine massa, replicò

considerandolo come un commento fatto « in modo del tutto adia-

foro e genericamente edificativo ». Il Casamassa faceva inoltre no-

tare che ndl'Expositio la parola massa è usata nel commentare Rom.

IX, 21, e che era improbabile che l'interpretazione di questo passo

182
potesse influire su quella di V, 12. Ma non ne risulta colpita la

tesi della dipendenza di Agostino dall'Ambrosiastro, il quale usa

quel termine anche nel commento a Rom. IX, 21 (33).

Ma le difficoltà contro cui urta la tesi del Buonaiuti sono prin-

cipalmente di altro ordine, e non lievi. Infatti, la stessa maniera

di pensare dell'Ambrosiastro esclude, che egli possa aver provo-

cato, col suo influsso, quel cambio che abbiamo osservato in Ago-

stino e che egli stesso più tardi riconobbe di aver fatto. Così, per

esempio, è vero che le Quaestiones Veteris et Novi Testamenti

furono per molto tempo attribuite ad Agostino ; ma, prima ancora

che fossero riconosciute come indubbiamente opera dell'Ambrosia-

stro, critici di fine discernimento teologico, quali i Maurini, respin-

gevano tale attribuzione in base al fatto che esse seguono un indi-

rizzo teologico diverso dall'agostiniano, e anzi vi si scorge una certa

tendenza al pelagianesimo (34). E quanto al Commento alle epi-

stole paoline, sarebbe strano che l'opera la quale avrebbe suggerito

ad Agostino le posizioni teologiche da lui strenuamente — e non

senza qualche esagerazione — difese contro i pelagiani, fosse la me-

desima che, secondo ritengono vari critici (35), venne utilizzata dallo

stesso Pelagio. E infatti, nel passo dell'Ambrosiastro citato nel

Cantra duas epistolas pelagianorum, è possibile bensì trovare la

trasmissione del peccato di Adamo al genere umano nel senso in

cui la sostiene Agostino, ma solo a patto di mantenere il passo in

questione separato dal contesto. Noi abbiamo infatti veduto qual

è il vero pensiero dell'Ambrosiastro ; e abbiamo altresì consta-


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tato che esiste un'affinità tra esso e quello di Agostino, espresso

nell'Expositio quarundam propositionum e in altri scritti ante-

riori a\\'Ad Simplicianum. Ciò che non permette più di accettare la

teoria del Buonaiuti è dunque il fatto che con essa rimane inspie-

gato e inspiegabile come mai, se fu l'influsso dell'Ambrosiastro

quello che determinò un cambiamento radicale e profondo in Ago-

stino, di tale influsso si trovano segni indubbi in opere che pre-

cedono quel cambiamento. La difficoltà di attribuire l'abbandono

di certe posizioni esegetiche e teologiche proprio all'esempio di un

autore che le mantiene, mi pare insormontabile.

Ed" eccone una riprova. Abbiamo visto l'importanza che Ago-

stino, parlando del suo cambiamento, attribuisce a / Cor., IV, 7.

Ci si spetterebbe di trovare questo passo, o citato dall'Ambrosiastro

183
nel commento a Romani, o per lo meno interpretalo nel senso in-

dicato da Agostino. Invece, non lo troviamo, e nel commento dello

Ambrosiastro a / Corinzi Agostino non pote trovar nulla che lo

invitasse a riflettere intorno alla Grazia, perché l'esegeta romano

non ricava da quel versetto assolutamente nulla a questo propo-

sito, e si limita a commentarlo in stretto riferimento alla situazione

di Corinto (36). Inoltre, il nuovo modo d'intendere Ai Romani,

VII ha tratto con sè, come conseguenza logica e naturale, una

interpretazione nuova, e analoga, anche di Cal. V, 17-18. Ora, su

questi versetti abbiamo non una, ma due spiegazioni dell'Ambro-

siastro : nel Commento a questa epistola, e in una delle Quae-

stiones della prima edizione (37), soppressa nella seconda, probabil-

mente perché resa superflua dal Commento stesso : il quale del

resto non contiene nulla che non sia già nella Quaestio. Vi leg-

giamo una difesa del libero arbitrio, e un esame di entrambi questi

scritti ce li mostra del tutto conformi a quel modo di pensare del-

l'Ambrosiastro, che abbiamo esaminato e trovato simile a quello

di Agostino in quei suoi primi commenti, o abbozzi di commenti, a

S. Paolo, i quali contengono le dottrine respinte appunto nella qu.

2 del primo libro a Simpliciano.

Ciò non significa che si debba negare ogni e qualsiasi influsso

dell'Ambrosiastro su Agostino. Soltanto, l'azione esercitata da quello

sull'africano va posta, come si è detto, non immediatamente prima

di quella che potremmo chiamare crisi definitiva di Agostino, così

da potersi considerare come causa di questa, bensì in un momento


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alquanto anteriore. AH'Ambrosiastro, Agostino non fu direttamente

debitore né della teoria della trasmissione del peccato originale nel

pieno senso del termine, né delle altre dottrine connesse con

Questa. Gli venne però da quel commentatore un aiuto, e soprat-

tutto un impulso a studiare più seriamente il pensiero di S. Paolo

e ad esaminare il problema dell'elezione dei giusti in relazione

con la prescienza di Dio. La soluzione proposta dall'Ambrosiastro

fu accolta da. Agostino per qualche tempo, ma poi venne da lui

criticata e abbandonata. Fu pure questa, però, una tappa nel

cammino che doveva cpndurlo alla formulazione della sua teologia

caratteristica e definitiva. Può anche darsi, che quella metafora

della massa facesse impressione sulla vividp fantasia di Agostino :

ma soltanto più tardi egli ne ricavò tutte le conseguenze (37 bis).

184
E più tardi ancora. Agostino ricordò una volta dove aveva

letto per la prima volta quel termine che lo aveva vivamente im-

pressionato. E' cosa degna di nota, infatti, che, mentre nella po-

lemica antipelagiana Agostino seguita a citare S. Ambrogio e S. Ci-

priano, e anche S. Ilario, pure di questo passo di « Ilario .> egli

faccia menzione una volta sola. E' insomma più facile pensare che

Agostino rammentasse queste parole di « Ilario » in un momento

nel quale aveva formulato già tutte le sue dottrine, che non l'am-

mettere che queste, e tutto il suo nuovo orientamento fossero effetto

di una lettura del commento dell'Ambrosiastro a Romani.

E veniamo a Ticonio (38). Che questo strano scrittore abbia

esercitato un notevole influsso su Agostino, è cosa nota, per am-

missione di quest'ultimo (39), relativamente all'esegesi biblica, e

in base a indagini di studiosi moderni (40) i quali hanno posto in

rilievo questo influsso relativamente alle idee ecclesiologiche ed

escatologiche, specie per l'interpretazione del millennio. Ora. nel

De civitate Dei, Agostino confessa che, un tempo, è stato anche

egli millenarista (41) : ma tale ass-erzione è stata generalmente con-

siderata come generica e privi; d'importanza, né, che io sappia,

la si è riferita a un momento preciso della sua evoluzione spiri-

tuale, di cui si troverebbero segni negli scritti di lui. Ma tracce

di millenarismo si trovano proprio in una delle « 83 questioni »

che precisamente, secondo il criterio già adottato, dovrebbe essere

stata composta press'a poco al tempo dell'ordinazione sacerdotale

di Agostino (42). Per contro, in parti del De diversis quaestionibus


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LXXXI1I che dobbiamo considerare come posteriori (43), e così pure

nella Enàrratio in Ps. LIV (44) l'affinità con le idee di Ticonio è evi-

dente. Potremo così delimitare, all'ingrosso, tra l'ordinazione sacerdo-

tale e qualche tempo prima dell'assunzione all'episcopaio, il momento

in cui Agostino conobbe gli scritti di Ticonio. Ciò trova conferma

in quello che sappiamo del suo sforzo di acquistare maggior fami-

liarità con le questioni ecclesiastiche e la letteratura teologica. Per

mettersi in grado di meglio combattere i donatisti, Agostino avrà

voluto leggere qualche opera di quel loro singolare scrittore ; così

come, quando si accinge a spiegare epistole di San Paolo, volle

conoscere i commenti dei suoi predecessori.

E infatti, idee affini a quelle di Ticonio si trovano anche nel-

\'Expositio Epistolae ad Calatas, là dove Agostino parla dei figli

185
che Abramo ebbe da Cethura, e delle persecuzione che Isacco patì

ad opera di Ismaele; simboli, i primi, degli uomini carnali che,

pur stando materialmente nella Chiesa, non le appartengono; e la

seconda, del male che gli spirituali sempre soffrono nel mondo

da parte dei carnali. Abbiamo già osservato che considerazioni di

questo genere rappresentano una novità in Agostino (45) e si è

visto, pure che non sono state suggerite da S. Ambrogio : ma ora

possiamo additarne la fonte in Ticonio. Però, il fatto che nella qu. 81

del De diversis quaestionibus LXXXIII Agostino si fonda sui rac-

conti evangelici della pesca miracolosa, (Luca, V ; Ciovanni XXI),

testi cioè che non sono citati nel Liber Regularum, permette di

escludere che Agostino abbia tenuto presente questa tra le opere

di Ticonio (46). Ma non molto tempo dopo, Agostino, ansioso di

approfondire le sue conoscenze bibliche, si dev'essere procurato

snche le Regulae, che fecero su lui profonda impressione. C'ò non

è una semplice congettura, perché trova conferma nella lettera di

Agostino ad Aurelio, che è press'a poco contemporanea all'episco-

pato, e da cui risulta che .egli ha chiesto varie volte all'amico il suo

parere su quel libro singolare (47).

Ora, l'affinità ideale tra il Liber Regularum di Ticonio e la

quaestio 2 del primo libro Ad Simplicianum è impressionante. Anche

Ticonio è contrario alla dottrina che fa consistere l'elezione nella

semplice prescienza che Dio avrebbe avuto della fede degli eletti,

determinantisi in virtù del loro libero arbitrio. Ticonio non ha

dubbi : la prescienza di Dio è strettamente connessa con la sua on-


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nipotenza. Infatti, Dio sapeva, che vi saranno coloro che avranno

fede liberamente, o che non vi saranno. Nel primo caso, non c'è

più discussione, appunto perchè, nel secondo caso, Dio, che non

inganna, non avrebbe promesso. In altri termini, questa promessa

divina non può essere condizionata da un atto libero dell'uomo; se

Dio l'ha fatta, è perché sapeva che l'avrebbe mantenuta : e che

spazio rimane allora alla libera iniziativa dell'uomo? Non vince, se

non colui per il quale vince Dio stesso ; se dunque il vincere non

è cosa nostra, è dovuto alla fede. E ogni opera dell'uomo si riduce

appunto alla fede ; e che cosa abbiamo che non ci sia stato dato?

Da Dio abbiamo l'essere ; a Dio, Salomone riconosce di essere de-

bitore della continenza. Ma vi è di più : in Ticonio troviamo pre-

186
cisamente il versetto di / Cor., a cui Agostino attribuisce un'in-

fluenza decisiva sullo sviluppo del suo pensiero, insieme con l'altro

della medesima epistola, che leggiamo citati nella qu. 2 di Ad Sim-

plicianum I. E, ciò che più importa, entrambi i versetti da Ticonio

sono interpretati proprio nel senso in cui erano adatti a far riflettere

Agostino e ad avviare il suo spirito in una nuova direzione (48).

Pertanto, se vi è un autore che ha potuto avere influenza su

Agostino, sì da indurlo ad assumere un atteggiamento diverso circa

l'interpretazione della lettera ai Romani e delle altre simili, costui

è Ticonio. Ciò a me appare dimostrato sufficientemente : nella mi-

sura, s'intende, in cui influssi di questo genere possono essere og-

getto di una dimostrazione.

Si presentano però due obbiezioni : La prima, ci porta a trat-

tare del terzo autore, che abbiamo dovuto prendere in considera-

zione. Se lo stesso Agostino, parlando dei versetti di / Cor., segnala

San Cipriano e la maniera in cui questi li interpretò nei suoi Testi-

monia (49), non ci sarebbe bisogno di pensare ad altri autori. Però —

pur prescindendo dal fatto che questo influsso di Cipriano su Ago-

stino è menzionato da questi solo nelle opere più tardive della con-

troversia antipelagiana — invano .si cercherebbero negli scritti

del primo le altre affermazioni, in particolare circa il libero arbi-

trio, che troviamo per contro in Ticonio. Non si nega, dunque, che

l'aver trovato il testo / Cor. IV, 7 nei Testimonia, e «otto quel ti-

tolo, possa aver fatto grande impressione su Agostino ; ma non è

facile ammettere che la sola lettura del versetto e del titolo del
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capitolo in cui è incluso, sia stata capace, da sola, di determinare

il cambiamento di opinioni che ci occupa.

L.a seconda obbiezione, che sotto un certo aspetto si ricollega

alla precedente, è che Agostino, il quale contro i pelagiani ricorda

tutti gli scrittori ecclesiastici che sostengono la sua tesi, non no-

mina mai Ticonio a questo proposito. Ma Agostino vuoi dimostrare

che. contrariamente a quanto dicono Pelagio e Giuliano, le teorie

di costoro sono nuove ed eretiche, mentre le sue sono quelle orto-

dosse e tradizionali. Ciò posto, qualunque fosse stata l'importanza

reale dell'influsso che Ticonio aveva esercitato su di lui, Agostino

non poteva commettere l'imprudenza di nominarlo, poichè qualcuno

tra gli avversari avrebbe potuto scoprire che si trattava di un dona-

tista. E tanto meno avrebbe potuto farlo, dopo aver dichiarato

187
che il donatismo non era più uno scisma, bensì una vera eresia.

Agostino avrebbe potuto replicare : non ogni eretico è tale in tutto

e un donatista, eterodosso su certi punti, poteva essere un eccel-

lente testimonio della fede tradizionale per altri. Per di più, Ti-

conk) era un donatista sui generis, che, per difendere i suoi com-

pagni, dava loro torto. Ma con tutto ciò Agostino si sarebbe trovato

in una condizione di netta inferiorità, obbligato a dare spiegazioni

e a difendersi. Né Ticonio era autore di tal fama, che potesse riu-

scire vantaggioso il citarlo, nonostante i suoi errori, come poteva

essere il caso con Origene : Ticonio in realtà, fuori dell'Africa,

doveva essere del tutto sconosciuto.

Sappiamo del resto, che per Ticonio Agostino ebbe grandissima

stima. Per di più, non è neppur vero ch'egli non lo abbia ricor-

dato, e a proposito della dottrina della Grazia. Nel presentare le

teorie di Ticonio, non ho omesso di ricordare un passo nel quale

egli ricorda che Salomone chiama la continenza un dono di Dio.

Ma la frase che precede questa può essere intesa nel senso che la

fede, o almeno l'initium fidei, sia opera umana (50) : sebbene, poi,

un'asserzione di questo genere sarebbe difficilmente conciliabile

con il resto. Ebbene parlando precisamente della terza tra le Re-

gulae di Ticonio, a cui appartiene la frase in questione, Agostino,

dopo averlo lodato, nota che egli non giunse ad affermare « etiam

ipsam... fidem donum Illius esse, qui eius mensuram unicuique

partitur ». Questa osservazione di Agostino risale precisamente allo

inizio della sua polemica antipelagiana ; e appunto per questo egli


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scusa e spiega anche quell'illogicità del donatista, avvertendo che

se egli, Agostino, ha potuto andare più oltre, è stato precisamente

perché la necessità di combattere la nuova eresia lo ha costretto

a una ulteriore e più approfondita riflessione (51). E in queste

parole potremmo trovare anche la spiegazione perché Agostino, più

che su ogni altro punto a proposito del quale mutò opinione nel-

\'Ad Simplicianum, insista sulla questione dell'inftium fidei. Ma è

interessante che Agostino non omettesse di cogliere e segnalare

l'unico punto debole iV tutta l'argomentazione del donatista.

***

Vari autori hanno creduto di poter segnalare una stretta affi-

nità tra la concezione agostiniana delia massa peccatorum et im~

188
piorum, massa peccati, ecc., e quella manichea della fìwXoj. Anzi,

questa sarebbe l'origine di quella ; e la dottrina agostiniana del pec-

cato originale e della grazia sarebbe il risultato non solo della ri-

flessione sui testi biblici e della lettura di commenti, ma di un

ritorno — certo non intenzionale — di Agostino al manicheismo.

Tutto quel suo lavorio intellettuale attorno a S. Paolo avrebbe avuto

come principale conseguenza di ridestare nello spirito di Agostino

idee e sentimenti ivi deposti dal manicheismo, e che la conversione

avrebbe, non eliminato, ma soltanto reso temporaneamente inattivi.

Questa tesi ha avuto una notevole diffusione (52).

Ora, una vera dimostrazione di questa teoria dovrebbe poter

mostrare con una certa precisione il lavorio mentale grazie al quale

la metafora della massa venne ad acquistare per Agostino un valore

espressivo tanto grande da influire a sua volta sul modo in cui Ago-

stino si rappresentò la realtà, che quella metafora adombrava. 'Bi-

sognerebbe farci seguire sui testi le varie tappe di questo processo,

per cui l'idea della massa peccati avrebbe fatto rinascere, per così

dire, quella di Bòlos. Questa dimostrazione non è stata data per

ora. che io sappia : e così la teoria rimane una mera ipotesi, fon-

data su di una semplice intuizione, brillante se si vuole e quanto si

vuole ; ma nulla di più.

Inoltre, sembra a me che tra le due concezioni vi siano diffe-

renze non piccole. La massa peccatorum agostiniana è formata dal

genere, umano dopo il peccato di Adamo : la metafora si riferisce cioè

a tutti gli uomini durante questa vita terrena : degni di condanna,


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ma non ancora, nè tutti, condannati. La Bòlos — che, tra f altro,

viene resa in latino con globus — è invece formata da tutte le « te-

nebre » che dopo il lungo processo di separazione della luce e la

conflagrazione finale, tornano a riunirsi. La mossa agostiniana è

un concetto prevalentemente soteriologico, la Bòlos prevalentemente

escatologico. Riconosciamo la connessione tra questi due aspetti

della religiosità. Ma bisogna pure ammettere che la concezione della

Bòlos implica un dualismo di gran lunga più accentuato di quello

che si possa ritenere venga presupposto da quella massa peccati.

D'altra parte, quel cambiamento, quel nuovo orientamento

spirituale, che avvertiamo nella tante- volte citata qu. 2 del primo

libro di Simpliciano, non dovette essere cosi brusco e violento, né

sembrare ad Agostino che implicasse una rottura così netta col passa-

189
lo, come egli forse se lo rappresentò più tardi e come noi medesimi

siamo forse un po' troppo inclini a supporre. Così si spiega che nel

De agone christìano, posteriore all'episcopato, si trovano ancora dot-

trine esposte negli scritti anteriori a\\'Ad Simplicianum e che questa

stessa opera sia stata pubblicata da Agostino senza considerare quella

differenza, che a noi pare tanto notevole, tra la prima e la se-

conda quaestio del primo libro. Si spiega altresì che Agostino si man-

tenesse fedele alla filosofia che aveva appreso nei libri dei neo-

platonici anche quando pare a noi moderni che il diverso punto

di vista adottato rispetto al peccato originale e aH'iniiiam fidei do-

vesse indurlo a modificare tutta la sua antropologia e, di conse-

guenza, anche gran parte della sua metafisica. Del resto, è fondan-

dosi sulla metafisica neoplatonica che Agostino combatte il manichei-

smo, e chi considera queste due correnti spirituali appoggiandosi

sugli scritti di lui è portato a considerarle.come radicalmente, an-

titeticamente avverse una dall'altra : ma è poi vero che la filosofia

di Piotino fosse del tutto immune da ogni traccia di dualismo? (53).

Ma nella polemica contro i manichei un certo cambio si nota,

però è anch'esso graduale e progressivo. Anche negli scritti ante-

riori all'episcopato, vediamo Agostino da principio impiegare so-

prattutto argomenti di natura schiettamente filosofica, e poi accen-

tuarne sempre più altri, come il ricorrere all'autorità della Chiesa

nell' esegesi dell' Antico Testamento : interpretazione allegori-

ca, ma non senza tentativi di spiegazione puramente letterale.

Nelle opere antimanichee posteriori all'episcopato sono questi ul-


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timi motivi che prevalgono. La questione principale viene ad es-

sere l'opposizione che i manichei stabiliscono tra l'Antico e il Nuo-

vo Testamento, e l'argomentazione viene sempre più ad appoggiarsi

su quel principio dell'autorità della Chiesa, il quale ha trovato la

sua formulazione più piena, e celeberrima, nella dichiarazione del

Contro Epistulam Fundamenti circa l'autorità della Chiesa Cattolica

come ragione per prestar fede allo stesso Vangelo (54).

Ora, dall'inizio della sua conversione, il pensiero di Agostino

ha proceduto costantemente in questa direzione : dalla ragione alla

fede. Da principio, afferma la loro indipendenza, ma concede il

primato alla ragione, ché essa seguono gli spiriti più perfetti, men-

tre per gl'ignoranti basta la fede ; più tardi invece la ragione — certo,

non spogliata di tutti i suoi diritti — è sottomessa alla fede e al-

190
l'autorità. Da principio pare ad Agostino — e i principii intellettuali

si desumono bene dal suo modo di agire — che la perfezione cristiana

possa raggiungersi, non di certo fuori della Chiesa o senza di que-

sta, ma per mezzo di una vita ascetica in certo modo autonoma,

mediante uno sforzo individuale, con la purificazione della mente

e la pietà personale. Più tardi, non solo la necessità di apparte-

nere alla Chiesa è formulata da lui con la più assoluta e intransi-

gente rigidezza, ma vengono accentuate sempre più quelle che oggi

chiameremo la pietà associata, la devozione liturgica. Certo, Agostino

non parla come chi è venuto dopo di lui ; ma questo suo atteggia-

mento è evidente. Chi se ne voglia fare un'idea precisa, non ha che

da considerare come la stessa pietà personale, pur senza sopprimersi,

si modifica, e acquista un significato così nuovo e diverso, che la

sua stessa essenza ne risulta modificata. La pietà ora non ha più

per fine principale la purificazione della propria anima, lo stabili-

re una relazione quanto più immediata e diretta possibile tra essa

e Dio, bensì la lode di Dio nella quale altre anime possano congiun-

gersi con essa, e la confessione degli errori propri, che è un altro

modo di lodare Dio e viene fatta perchè ha un valore esemplare,

serve cioè al fine superiore dell'edificazione di tutti (55).

Queil ' attribuire gradualmente sempre maggior importanza al-

l'autorità procede parallelamente con i progressi di Agostino nello

studio della Bibbia. A questo egli si dedicò con nuovo e alacre

fervore dal giorno in cui, repentinamente e con sua sorpresa, gli

venne conferito il sacerdozio. Allora egli avvertì la necessità di co-


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noscere a fondo la Scrittura, per poterla spiegare chiaramente e

con esattezza, e commentare in maniera degna. Ma a ciò si univa

il desiderio di sentirsi inserito nella tradizione, anello di quella só-

l:da catena, in consonanza perfetta con il sentire della Chiesa. In

difesa della quale Agostino doveva ora combattere contro tutti coloro

che ne minacciavano o insidiavano la compattezza, e quindi — non

più libero, come prima, da scrittore privato, di scegliere i propri

avversar! — anche contro i donatisti. Ma per questo gli era ne-

cessario conoscere bene l'origine e la natura dello scisma e l'og-

getto della controversia.

Tra le opere che Agostino volle leggere, alcune lasciarono nel

suo spirito un'impressione più profonda. Abbiamo cercato di deter-

191
minare quali fossero, e che effetti avessero, nonché la natura

degl'influssi che esercitarono. Ma vi è un punto sul quale conviene

insistere ancora. Le opere che Agostino lesse, e certo quelle che

lasciarono in lui tracce durevoli e lo spinsero a riflettere ulterior-

mente, o a modificare il suo modo di pensare, tutte trattano di San

Paolo. Gli scritti di Agostino, negli ultimi anni del suo sacerdozio

sono in enorme maggioranza, commenti a passi di San Paolo.

Dopo il Cenesi, a spiegare il quale si affaticò nei primi tempi dopo

la sua conversione e in piena polemica antimanichea (e tornò ad

affaticarvisi sopra più tardi, da vescovo) quello che fra tutti gli au-

tori sacri lo attrae di più, gli presenta problemi e gli suscita diffi-

coltà, quello che egli si sforza permanentemente di intendere sempre

più a fondo, è San Paolo.

Ora ciò non è dovuto al caso né ad influenze esterne. In San

Paolo, intorno alla risurrezione dei corpi — da lui difesa contro i

manichei e i. « filosofi » — Agostino leggeva del corpo glorioso e

spirituale. Da ciò era naturale arguire che il corpo umano in que-

sta vita terrena, è, sì, buono, perché creato da Dio, ma senza dubbio

anche imperfetto, se non è suscettibile di essere assunto in cielo. E

ciò, visto che quel corpo è stato creato da Dio, doveva attribuirsi

a qualche cosa di sopravvenuto, a qualche menomazione da esso

subita dopo la creazione di Adamo. Infatti, l'uomo è ora mortale, e

procrea; forse i primi genitori non procreavano? (56). Comunque,

questo corpo è soggetto alla morte, a tante infermità, ai sensi ; costi-

tuisce una remora e un impaccio alla purificazione dell'anima. Tor-


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nava così a presentarsi ad Agostino quell'angosciosa domanda : Unde

malum? per rispondere alla quale aveva tanto meditato, faticato e

sofferto. Ma alla stessa domanda lo riconducevano tutti gli altri

temi che San Paolo gli presentava : efficacia delle opere e della

fede, valore della Legge, contrasto e parallelo tra Adamo e Cristo,

necessità della redenzione, e così via. A questi problemi venivano

ad aggiungersi, e agivano nello stesso senso, quelli suscitati proprio

dalla partecipazione più intensa alla vita della Chiesa e dall' ammi-

nistrare i suoi sacramenti; con l'esistenza di eresìe e scismi, con le

debolezze umane dei suoi fedeli, in una parola, con l'esistenza di

malvagi nel mondo e dentro la Chiesa stessa. E tutto ciò a sua volta

lo riconduceva a San Paolo.

Vi ritornava continuamente, ripetendo le stesse, o assai simili,

192
spiegazioni, ma sotto l'assillo di una insoddisfazione intima, che a

lui stesso forse sarebbe stato difficile chiarire;, finché un giorno,

quello che fu poi per sempre ai suoi occhi il significato pieno

e incontrovertibile del messaggio dell'Apostolo gli apparve evidente.

Vi fu guidato da qualche lettura, o vi giunse da sé? Non mi atten-

terei di rispondere a questa alternativa. Se un'influenza vi fu, e

determinò quel cambiamento tante volte menzionato, ho indicato

quella che a me pare sia la più probabile. Certo è che, sebbene

costretto dalla limitazione della sua preparazione linguistica a con-

tentarsi per allora soltanto di scritti latini, Agostino cercò di leggere

tutto ciò che poteva essergli d'aiuto. Ma si noti che queste letture,

nel suo sforzo di rendersi familiare la letteratura propriamente ec-

clesiastica, non furono ispirate da mero desiderio di ampliare e arric-

chire le sue cognizioni, non furono dettate da ambizioni simili a

quelle del retore né da preoccupazion di erudito.

Che parallelamente a questa evoluzione, di cui a maniera di con-

clusione delle ricerche analitiche, ci sforziamo di segnalare rapida-

mente, e assai imperfettamente, le grandi linee, se ne osserva un'al-

tra, strettamente legata a quella, anzi parte di essa. Riguarda la

stessa concezione della cultura. Il cambiamento, anche a questo

proposito, non poteva essere totale e non giunse, per fortuna, fino

a un totale rovesciamento di posizioni. La primitiva formazione re-

torica di Agostino aveva impresso in lui, tracce incancellabili : e

ciò ebbe importantissime conseguenze. Ma non meno importanti

l'ebbe l'altro fatto, che la cultura di Agostino, durante questo decen-


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nio della sua preparazione teologica, tra il battesimo e l'episcopato,

si fece decisamente, coscientemente cristiana. Ebbe cioè come suo

fondamento la Bibbia e ricevette lo spirito animatore dal Vangelo.

Il De doctrina christiana è evidentemente un tentativo di sin-

tesi, uno sforzo fatto per offrire quell'opera di educazione totale,

di lYxuxXto? Tiatàda. che Agostino, all'inizio della sua conversione

e con mentalità differente, aveva cercato di realizzare a Milano e,

con qualche diversità, nei primi tentativi dopo il suo ritorno in

Africa. Con un titolo, che rivela già per se stesso il cambiamento

operatosi in Agostino durante questo periodo, il De doctrina chri-

stiana rappresenta, in questo'momento, uno sforzo analogo a quello

già fatto da lui con i Disciplinarum libri prima e con il De vera

religione poi. Per la data della sua composizione è evidente che

193
il De dottrina christiana, manuale di formazione del cristiano colto,

è un prodotto di questo sviluppo che stiamo cercando di esporre.

Ma il De doctrina christiana rimase per molti anni incompiuto. Il

secondo libro era finito, quando Agostino scriveva il Cantra Faustum ;

anzi la sua composizione era giunta già oltre la metà del terzo (57).

Solo una trentina d'anni dopo, mentre redigeva le Retractationes,

Agostino si decise a riprendere quela sua vecchia opera : terminò il

terzo libro, inserendovi le regole esegetiche di Ticonio, e vi aggiun-

se il quarto. Molto probabilmente, però, riprese in mano tutta l'o-

pera, correggendo, riscrivendo, facendo cioè quella che merite-

rebbe d'essere chiamata una « seconda edizione » (58). Quello che

interessa noi, però, è il vedere ancora una volta un'opera teorica

di Agostino, in cui doveva manifestarsi una nuova tendenza del suo

autore, rimanere interrotta. Questa volta, però, il nuovo orienta-

mento è il definitivo. Non si può dunque attribuire l'interruzione a

stanchezza o a insoddisfazione o a dubbi sortigli nell'animo durante

la composizione stessa; e neppure alla difficoltà del tema, che non

ne presentava più dal punto di vista teorico, e nemmeno pratiche :

tra le altre cose, Agostino non si proponeva più il gravoso com-

pito di compilare manuali di tutte le discipline. L'ipotesi più naturale,

per spiegare tale interruzione, è dunque che nel frattempo Agostino

avesse posto mano a un'altra opera la quale, in maniera diversa,

servisse allo stesso ideale, ubbidisse allo stesso fine, e in modo che

a lui dovette sembrare più efficace. E quest'opera, che nelle Retrac-

tationes va cercata nelle vicinanze immediate del De doctrina chri-


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stiana,- non sarà certamente il Contra partem Donati; sarà invece,

con tutta sicurezza, le Confessioni (59).

In luogo di occuparsi soltanto di doctrina, cioè di cultura nel

senso intellettuale, Agostino giudicò più efficace, più opportuno, e

forse anche più conforme alla sua qualità di vescovo trattare della

formazione spirituale. Nulla è più significativo, nulla esprime me-

glio la personalità di Agostino, del fatto che il cambio di orientamento

teologico si rifletta quasi immediatamente in un modo nuovo di

concepire la cultura e l'educazione intellettuale ; e che, poi, lo scritto

composto con questo proposito rimanga interrotto, per lasciare il

posto alla redazione dell'opera destinata a inculcare i principii della

formazione più propriamente spirituale; dell'opera che ha per fine

l'edificazione dei fedeli.

194
Abbiamo visto che le Confessioni furono scritte realmente poco

dopo l'assunzione di Agostino all'episcopato (60) e sono quindi an-

che di poco posteriori a quel cambiamento nell'interpretazione di

San Paolo, al quale dobbiamo continuamente riferirci. E chi cerchi

di penetrarne e sentirne veramente lo spirito, si rende conto che le

Confessioni sono appunto il prodotto di una profonda crisi spi-

rituale. Benché in grandissima parte autobiografiche, esse non sono

però aulobiografia, né altro di simile : perché, oltre a tutto quanto

si possa osservare a tale proposito dal punto di vista letterario, c'è

il fatto che nulla è più estraneo allo spirito di Sant'Agostino che il

raccontare la sua vita per mettere in mostra la propria personalità,

o giustificarsi di fronte agli uomini o ribattere accuse diffamatorie

e ingiuste. E se, giudicandole sempre da un punto di vista letterario,

anzi retorico, si potrà trovare che « mancano di unità », (61) pure

è impossibile dubitare dell'intimo spirituale legame tra le varie parti :

il racconto autobiografico, la confessione di Agostino nel suo stato

presente, e il commento del primo capitolo del Genesi, con le que-

stioni filosofiche che vi si riconnettono. Vi si deve aggiungere quel-

la che forma il tema dominante dell'ammirevole e varia sinfonia : la

confessio laudis, che forma un tutto indivisibile con la confessio pec-

cati. Esse si integrano a vicenda : confessare i propri peccati e la de-

bolezza causata dalla concupiscentia carnis è al tempo stesso lodare

Dio, che con la pena stabilì la redenzione. Ma il Creatore non può

essere veramente lodato dalla creatura, se questa non riconosca ap-

pieno il suo essere nulla. Così questi due aspetti della confessio si
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completano e servono allo stesso proponimento. Infatti, la celebre

invocazione iniziale a Dio, in cui trova finalmente quiete il cuore in-

quieto, ha .il suo parallelo in quella ch'é al principio del libro X ; e

il fine delle Confessioni ci si manifesta evidente in quelle parole,

nelle quali Agostino riconosce che, essendo peccatore, confessarsi a

Dio è un dispiacere a se stesso, ed essendo pio, è un non attri-

buire questo a se stesso, perché il Signore è colui che bene-

dice il giusto, dopo di averlo reso tale da empio che era. La con-

fessione dei peccati proprii ha come risultato che si sveglino anche

altri cuori, e si rendano conto del loro stato e della misericordia di

Dio ; e si uniscano nella preghiera in favore di Agostino, così come

195
Agostino-scrive le sue Confessioni a gloria di Dio e per l'edificazione

dei fratelli (62).

Tale è dunque il fine principale delle Confessioni : e il ricono-

scerlo ci chiarisce quel senso corale, associato, liturgico della Chiesa

a cui Agostino è pervenuto. Ma ci ammonisce altresì contro l'er-

rore di intendere quella sua evoluzione come puramente intellet-

tuale. Essa fu sviluppo continuo e graduale, ancorché non uniforme :

e credo aver segnalato i momenti nei quai il movimento appare

più celere e si nota un cambiamento di rotta. Ed essa fu soprat-

tutto tormento, lotta e discussione affannosa con se stesso, per rag-

giungere la verità non solo nell'ordine logico, ma in quello morale e

religioso. Fu sforzo di purificazione ed elevazione interiore. Abbia-

mo visto come pregasse ancora nei primissimi tempi dopo a con-

versione : e in che modo egli parafrasasse, poco dopo il « Padre no-

stro » ; e anche quella sua osservazione posteriore circa la freddezza,

a volte, della preghiera (63) ; e come prega poi, nelle Confessioni.

Teniamo pur conto, quanto è giusto e necessario, degli elementi intel-

lettualistici e anche delle influenze altrui che poterono avere, che eb-

bero di fatto, importanza notevole nel determinare quell'evoluzione ma

facciamo ora la parte dovuta anche ai fattori propriamente ed esclusi-

vamente reliigosi. I quali si associano a quelle preoccupazioni morali,

a quell'ansia verso il bene e la purezza, che appare dominante in

tuta la vita di Agostino e si manifesta, intellettualmente, con la in-

vestigazione appassionata del problema del male. Agostino non fu

un puro filosofo, intento alla conquista esclusivamente intellettuale


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d'una verità capace d'imporsi per il rigore cogente della dimostra-

zione, e per la coerenza tra le varie parti del sistema ; quella verità

ch'egli cercava doveva essere per lui anche luce e calore dell'anima,

doveva parlarle e confortarla. Agostino cercava sopra tutto Dio e la

salvezza dell'anima. Non intende Agostino e non si rende conto

<Jel suo sviluppo spirituale chi non consideri che il termine di questo

suo periodo di formazione è segnato da un'opera nella quale la sua

fede e la commozione per la riconosciuta verità si manifestano in

espressioni liriche. Non intende Agostino chi non ravvisi in lui, in

ogni momento — anche se le esigenze dell'indagine critica costringa-

no a prescindere da ciò nel momento dell'analisi, il che rende tanto

196
più doveroso ridare a questo elemento il suo posto nel momento

ulteriore della sintesi — il mistico. Nascono così l'inno e l'abbandono

a Dio delle Confessioni, con il loro linguaggio poetico nuovo, fog-

giato sui Salmi, e con il loro intento duplice, personale ed edificativo.

Termine e conclusione di questa evoluzione che abbiamo cercato di

spiegare è l'alta opera di poesia e di preghiera in cui Agostino con-

fessa i suoi peccati e rende grazia a Dio.

NOTE

<1) Retract. I, 6, (7), (De moribus); 8 (9), (De libero arbitrio), 2: « De gra-

fia vero Dei, qua suos electos sic praedestìnavit, ut eorum qui iam in eis utun-

tui libero arbiSrio ipse etiam piaèparel voluntates ,nihil in his libris disputa-

timi est propter hoc propesita quaestione », ete.; 3. « Quapropter novi haere.

tici p-elagiani... non se extollant quasi eorum egerim causam., quia moka in bis

Ubris dixi pro libero arbitrio quae illiue disputationis causa poecebat... Quo

testimonio meo in quorlam libro suo Pelagius usus est. Cui libro cum respon-

disseni, titulum libri mei esse volui De natura et gratin »; 4: « quod in aliis

opusculis nostris eatis egimus, ietos inimico? huius gratiae, novos haereticos,

refellentes; quamvis in hie libris, qui noli contra illos omnino, quippe illi non-

dum erant, sed contra maiuóhaeos- conscripti sunt De libero arbitrio, non omni

modo de ista Dei gratta reticuimus »; 9 (10) (De. Genesi e. man."), 2-3; 14 (15),

(De ducbus animabus), 1; 4, 8: « spiritila diligere et iustitia .iubemur et na-

tura po-seumue ». Ibi quaemi polest, cur natura, et non grolla, possumus dixe-

rm. Sed contra manichaeoe de natura quaestio versabatur ».

(2) De p/aed. sancì., II, 3.

(3) Ibìd., 3, 7: « Non sic pius ,atque .humilis doctor ille sapiebat, Cypria-"
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num beatiesimum loquor, qui dixit; In nuli o gloriandum, quando nostrum nihil

sit (Testimonia, IH, 4). Quod ut ostenderei, adhibuit apoetolum lestem dicen-

tern " Quid autem, ete. ". Quo praecipue testimonio etiam ipse convictua sum,

cum similiter errarern, putans fidem qua in Deum credimus non eese donum

Dei «ed a nobie esse in nobis... Quem meum errorem nonnulla opuscula mea

satis indicant, i-rote episcopatum meum ecripta. In quibus est ilìud quod' com-

me.mor,i.stis- in lilteris vestris ubi est Expositio quarundam propositionum ex

Epistola ad Ramanos». Quindi cita RGliact., I, 22 (23), 2.

(4) Ibid. 4, 8: a quia non sicut legére librcs ineos, ita etiam in eis cura,

veruni proficere mecum. Nam si riuassent, invenissent istam quaestionem se-

cundum veritatem divinarum Scripturarum sol'utam in primo libro duorum,

quos ad bea-tae memoriae Simpliclanum scripsi, episcopum mediolanensie eo

r.Jesiae, sancii Ambrosii successorem, in ipso exordio episcopatus mei. Nisi

forle non eoe noverimi; quod si ita est, facile ut noverint. De hoc primo duo-

rum illorum libro in secundo Retraolationum priroum locutus eum. (Relr. II,

I, 1).. Eoce quare dixi superius hoc apostolico praecipse testimonio etiam me

ipeunt fviieee eoe vici uro, cum de hai: re al i ter iaper PM ». . .
(5) De dóno persev., 12, 30: « Si enim quando Hbrós De libero arbitrio

Idicus coepi, presbytrar explicavi, adhuc de damnatione infantium non rena-

scentium et de renascentium liberatione dubìtarem, nemo, ut opinor., esset

tain iniustus atque invidus, qui me proficere prohiberet atqùe in hac du-

bitatione remanendum mihi ease iudicaret ». •. -'

(6) Ibid., 20, 52: « miror eos... nec attendere, ut de aliis hic taceam, 'ipsos

libros noetios et ante quam l'elagiani apparere coepissent conecriptos et editos,

et videre quam multis eorum locis, futuram nescientes, pelagianam haeresiin

caedebamus, praedicando gratiam, qua nos Deus liberat a malie erroribus et

moribus nostris, non praecedentibus bonis meritis nostris, faciens hoc secun-

duni gratuitam misericordiam suam. Quod plenius sapere coepi in ea disputa-

tione, quam scripsi ad beatae memoriae Simplicianum episcopum mediolanen-

sis ecclesiae, in mei episcopatus exordio, quando et initìum fidei donum Dei

efeée cognovi et asserui ». — 21r 55: « Videant ta,men ii... videant, iriquam, utrum

ih primi libri posterioribus partibus eorum duortìm quos mei -episcopatus ini-

tib, ante quam pelagiana haeresis apparerei, ad Simpìicianum médiolanensem

episcopum «cripsi, reinanserit aliquid quo vocetur in dubium, gratiam Dei non

«ecundum merita liostra dari et utrum ibi non satis egerim etiam initium fidei

esse donum Dei et utrum ex iìs quae ibi dicta sunt non consequenter eluceat,

e te i non sit expreeeum, etiam usque in finern pereeverantiam non nisi ab eo

donari, qui nos praedestinavit in suum regnum et gloriani ». —=- Cfr. XX,' 53

$er le Confessioni.

(7) De dono pers., 21, 55: « Quamvis neminem velim sic amplecti opera

mea, ut me sequatur niei in iis in quibus me non errasse perspexerit. Nam

propterea nunc lacio libros, in quibus opuscula mea retractanda suscepi, ut


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nes me ipsum in omnibus me secutum fuisse demonstrem, sed proficienter me

existimo Deo miserante scripsisse ». In 11, 27 cita Retract, I, 9. Quanto ali'Ad

Simpìicianum, il passo del De praed, sancì, che vi si riferisce (cfr. n. 4)

cita esplicitamente Retract. II, 1, e ne dipende; quello del De dono persev

(n. 6) omette tale riferimento forse perché contemparfaneo.

(8)'R&lract., I, 22 (23), 3, 2: « Nondum diligentius quaesiveram nec adhuc-

inveneram qualis sit eleclio gratiae... »; 7 (3): « ssd fidei meritum etiam ipsum

esse donum Dei nec putavi quaerendum esse, nec dixi »; 8 (4): «sed adhuc

quaerendum erat utrum et meritum fidei de misericordia De; veniat, id est

utrum ista miseirtcordia ideo tantummodo fiat in homine quia fidelis est an

eliam facta fuerit iit fidelis eeset ». •,- . --....

(9) Cfr. n. 8. ., -, .

(10) R&iract. II, 1, 3: «In cuius quaestionis solutione laboratum est qui-

dem pro libero arbitrio voluntatis humanae, sed vicit Dei gratia; nec nisi ad

aliud potuit perveniri, ut liquidissima veritate dixisse intelligatur Apostolus:

" Qui« enim te discernit? etc. ". Quod volens etiam martyr Cyprianus ostendere

hoc totum ipso litulo definivit, dicens: "In nullo gloriandum quando nostrum

nihil sit " ».

(11) De praedest, uanet.,'4, 8 (cfr. n. 4)

(12) De praedest. sanct.. 3, 7 (qfr. n. 3).' . . ..'. -'.. '

(13) De dono persev. 2, 4: «legete aliquanto intentius eius (scil.: .oiatio.

nis dominicae) ' expositionem in beati Cypriani rnartyris libro ... De D.dnw'n/cà

oratione, et videte ante qùot annos còntra ea quaé futura erarii Pèfagtanorum

198
veaena zuale eit antìdotum praeparatum » e fino a. 5, 9; 7, 13: «Si ergo

alia documenta non essent, haec dóminica oratio nobis ad causam gr<Hiae quam.

defendìmue sola sufficeret »,

(14) Contro duaa ep. Pelag., IV, 8, 21 —' 9, 26 e spec. 9, 25: «Item ad Qui-

rinum, in quo opere «e Pelagius vult eius imitatorem videri, ait in libro tertio:,

"In, nullo gloriandum, quando nostrum nih.il sii". Cui proposito testimonia

divina subiungens, in ter cetera posuit apostolicum illud, quo istorum maxime

ora daudenda sunt: " Quid enim habes, etc. " \ 9, 26: «nastrimi nUiil esse asse-

rens. propter hoc apoetalum dixisse commemorai " Quid enim, etc."». (C:''S.

E. L. 60, p. 552).

(15) P. e.: De gestia Pelagli, 34; De péccalorum mer. et remiss.,. II, 18, 28 e

30; De spiiUu et litt., 31, 54, 33, 57; 34, 60; anche nello stesso C. durò epist,

pelag. II, 7, 15; IV, 6, 14).

(16) De dono persev., 14, 36; «"qui gloitatur, in Domino glorietur".

"In nullo" enim " gloriandum quando nostrum nihil sit ". Quod vidit fidelis-

eirne Cyprianus et fidentissime definivit, per quod utique praedestinatkmam

certissimam pronuntiavit... his Cypriani verbis procul dubio praedeetinatio,

praedicata est; quae si Cyprianum a praedicatione obedientiae non prphibuit,

nec noe utique debet prohibere ». — 17, 43; « Hic procul dubio contradicitur

Apostolo dicenti: " Quid enim habes etc. ". Contradicitur et martyri Cypriano

dicentì." In nullo gloriandum, etc. "». — 19, 48: « Quid ergo nos prohibet, quan-

do apud aliquoe verbi Dei tractatores legimus Dei praescientiam, et agitur de

vocatione electorum, eandem praedestinationem intellegere?... Puto tamen eis

qui de hàc re sententiae tractatorum requirunt, sanctos... viros, Cyprianum et

Ambrosium.,,, debere sufficere... quia et isti viri, cum aic praedicarent Dei
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gratiam, ut unus eorum diceret " In nullo gloriandum etc. ", alter autem.'"Non

est in potestate nostra cor nostrum et noetrae cagìtationes " (Arubr., De fuga

saectìlì, 1), non tamen hortari et corripere destiterunt, ut fierent praecepta

divina ».

(17) De dono persev. '19, 49.

(18) Retrac*], I, 22 (23), 2: « In quo libro " quod autem ait, inquarti, Sci-

mas quia etc. (Rom. VII, 14), satis oetendit non posse impleri Legem nisi.a

spirituaiibu«, quales facit gratia Dei ". Quod utique non ex persona Apostoli

accìpi voilui, qui iam spiritualis erat, sed hominis sub Lege positi, nondum sub

gratia. Sic enim prius haec verba sapiebam; quae postea lectis quibusdam

divinorum tractatoribue eloquiorum, quorum me moverei auctoritas, consi-

deravi ditigentiue et vidi etiam de ipso apostolo posse intelligi <juod ait

" Scimus etc. " »; <juod in éis libris quos contra pelagianoa nuper scripsi quan-

tum potui diligenter estendi.' In isto ergo libro et hoc quod dictum est " ego

autem, ptc. " et deinde cetera... (vss. 14-25) dixi hominem describi adhuc sub

Lege, nondum sub gratia constitutum, bene facere volentem, sed victium con-

cupiscentia carnis male facientem. A cuius CT-ncupiscentiae dominatù non li-

bérat riisi gratia Dei... Unde quidem iam evertitur haeresis pelagiana...

Sed In illis libris quos adversus eoe edidimus etiam spiritualis hominis iainque

sub gratia constituti meliua intelligi verba ista monstravimus ». Per il seguito,

cfr. n. 19. . .

(Ì9) Rélfaci. I, 25 (26) n. 67: « quod (Rom.'Vn, 14) non sic accipiendum

" epiritualis 'homo iam sub graiia consti'tutus etiam c(e se ipsp non
possit hoc dicere et cetera usque ad eum locum ubi dictiim est " M:«cr ego

homo etc. " (vs. 25), quod poetea didici, sicut sum ante ronle«;us ». — Relracl..

11, 1,2: « In qua illa Apostoli verba " Lex spiritali^ est, etc. " quibus caro

centra spiritum confligere osten/ditur. eo modo exposui, tamquam homo de-

scriba tur adhuc sub Lege, nondum sub gratia, constitutus. Longe enim postes

etiam spiritali* hominie (et hoc probabiliu») et.se posse illa verba co^novi ».

(20) Retracl. I, 23 (24), 5: « sentiebam id quod dictum est " caro concupi-

scit, etc. " ad eoe pertinere qui sub Lege sunt, nondum cub gratia. Adhuc enim

non intellexeram haec verba et illis qui sub gratia sunt, non «ub Lege, pro-

pterea convenire, quia et ipei concupiscentias carnis, contra quas spiritu con-

cupiscunt, quamvis ei« non consentiant, nollent tamen illas habere si pos-

seni ».

(21) C. luiìan. pel. VI, 23, 70: « Quod autem verba apostolica (Rom.

VII, 14-25) ... " me " atfirmae " aliter intellegere, quam totum ipsum capitulum

debel intélligi ", neeciens mihi plurimum tribù». Non enim ego solus aut pri-

nviMì sic ietum locum intellexi, quo evertitur haeresis vestra, quemadmodum

vere intellegendus est; imo vero ego prius eum aliter intellexerajn, vel potiue

non intellexeram, quod mea quaedam illius tempori» etiam «cripta testantur.

Non mihi enim videbatur aposlolue et de se ipso dicere potuisse " ego autem

carnalis sum ", cum ossei spiritali... ego enim putabam dici ista non posse,

atei de iis quos ita haberet carnis concupiscentia subiugatoe, ut facerent quid-

quid illa compelleret, quod de Apostolo dementìs est credere... Sed postea me-

lioribus et intelligeatioribus cessi, vel potine ipei, quod fatendum eut, véritati

ut viderem in illis apostoli vocibus gemitum esse sanctorum contra carnalee

concupiscentiae dimicantium... Hinc factum est ut sic ista intellegerem, que-


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madmodum intellexit Hilarius, Gregorius, Ambrosiue et coeteri Ecclesiae sancii

nolique itoctores qui et ipsum apostolum adversus camale« concupiscentias

quas habere nolebat, et tamen habebat, strenue conflixisse, eundemque ronfii-

ctum suum illis suis verbis contestatum tuwse senserunt ».

(22) C. duas epist. peìag., I, 10, 22: « Vteum autem aliquando etiam mihi

fuerat hominetn sub Le>ge isto apoetoli sermone (Rom. VII, 23-25) describi,

Sed vim mihi pogien isla verba fecerunt, quod ait "numc autem iam non ego

operor iMud " (vs. 17). Ad hoc enim pertìnet quod ail et poetea (Rom., Vili, 1)

et quia non vìdeo quomodo diceret homo sub Lege " condelector " etc. (Rom.,

VII, 22), cum ipsa delectatio boni, qua etiam non consentii ad malum non

timore poenae sed amore iustHiae, hoc est enim condelectari, non nisi gratiae

doputanda sit". Cfr. anche 11, 23 a proposito di Rom. VII, 24.

(23) Agostino lo confondeva con Gregorio di Elvira ancora nel 413 (Ep.

148, 10), poi conobbe i sermoni tradotti da Untino; ma sembra non distin-

guerlo dal Nisseno (C. luì. I, 5, !5; II, 3, 7; I, 5, 19): .cfr. CousrfccUe, o. c.,

p. 189 sg.

(24 Non mi occupo qui di altri passi, in cui Agostino cita vari Padri, ma

non allude al suo cambiamento di opinione: p. e. C. lui. I, 3; II, 6; Op. im-

peri, c. lui., U, 36 e 164.

(25) Courcelle, o. c., pp. 137-153 e 183-194. Questa indagine accurata e

giudiziosa riguarda tuttavia i soli autori greci; e d'altra parte si sa che diffi-

cilmente rilevamenti del genere riescono completi. Perciò continuo a credere

che una raccolta quanto più possibile completa di tutte le citazioni patristiche

200
(esplicite e implicite) nelle opere di/Agostino, dispoeta secondo l'ordine cro-

nologico di queste (coca che ha omesso di fare il Marrou), e previa un'attenta

verificazione della loro esattezza, condurrebbe senza dubbio a risultati inte-

ressanti.

(26) In questo senso mi pare si debbano modificare le conclusioni del

Courcelle, il quale (pp. 145 e 151) sembra attribuire alla polemica contro Pe-

l-agio e i cuoi l'importanza di un fattore solo secondario, in confronto alle eri.

tiche suscitate dai primi libri De Trimiate « alle prime Enarrationes in Pmi-

mos; cfr. però p. 191.

(27) C. lui. VI, 23, 70 cit . alla n, 21.

(28) Or. e. Ili, pp. 69 sgg.

(29) Cfr. note 16 e 21.

(30) C. dura epist. pelag., IV, 4, 7: « Nani sic «t sanctus Hilarius intelle-

xit quod scriptum est in quo omnes peccaverunt; ait enim: in qua, idest Aflam,

omnes peccaverunt, deinde addidit: « manifestum in Adam omnes peccaste,

quasi in massa; ipse enim per peccatum corruptus, omnes quos genuit nati

eunt sub peccato ». Haec ecribens Hilarius sino ambiguitate commonuit, quo

modo intelligendum esset in quo omnes peccaverunt ». Cfr. cap. V n. 26.

(31) E. Buonaiuti, Agostino e la colpa ereditaria, in Ricerche Religiose,

II (1926) p. 401 sgg.: «sant'Agostino ha conosciuto, verso il 395, i Tractatut

oiell'Ambrosdastro e vi ha attinto la metafora pregnante della mosso peccati,

da cui a sua volta ha ricavato, con un riferimento spontaneo alla massa di

fango da cui il ceramista ricava i vasi che vuole (/fom., IX, 21), corroborato

anch'esso del resto dai medesimi Traciatus, la concezione -della insindacabile e

imperscrutabile libertà di Dio nell'elezione dei santi »; Pelagio e ì'Amhrosiastru,


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ibid, IV (1928) p. 11. Cito questi ultimi scritti, che rappresentano la formula-

zione definitiva del pensiero del Buonaiuti, e nei quali si troverà la bibliografia

dei suoi lavori e della polemica che suscitarono.

(32) Expos. quarr. 'propof., 62; cfr. e. IV, n. 5.

(33) «Ita et Deus, cum omnes ex una atque eadem massa simus in sub-

etantia et cunct peccatores, alii miseretur et alterum deepicìt non sine iuetì.

Ua » Cfr. cap. V n. 32.

(34) « Praeterea pelagianam haeresim quaestionee aliquot resipiunt... ve.

luti Quaest. 79, 80, 83 ete. » (AalVAdmonHio dei Maurini, P L. 35, 2205-06).

(35) Cfr. A. I. Smith, The Latin sources of the commentar/ ol Pelogius

on the Epistìe oi SI. Paul io the Rojnans, in Journal ot Theoìogical Studies,

XIX (1917-18) p. 162 segg.; XX (1918-19), p. 55 sgg.; contro, l'articolo del Buo-

naiuti del 1928, cit. stila n. 31. Ma ammette l'influenza dell'Ambrosiaster su

Pelagio G. Plinvat, Pélage, ses écrits, sa vie et sa rélorme, Lausanne (1943),

pp. 86-92, il quale tra l'altro scrìve: « Hilarius n'a pas été autant qu'on le dit

parfoie un dee champions du péché origine!, et il ne faut prendre dans le

«ens absolu que leur prète saint Augustin les deux lignee souvent citée* du

Commentaire de l'Epitre aux Romains sur le péché que " tous, quasi in masso,

on cornmis en Adam". De ce péché... Hilarius «e nie pas certaines conséquen.

ces, mais il en restreint l'influence et en limite la durée », ete. (p. 91). No»

ni convincono invece certe ipotesi di B. Leeming. Augustine, Ambroaiaater and

thè " jnana petditionia ", in Gregorianum, XI, 1930, pp. 58-91.

(36) Ambr«tr. 9 1 Cor. IV, 7 <P. L. 17, col. 215): «"Quid enim !is-

201
bes etc.?•'.'. Nihil illum boni ultra dicit coneecutum, ab aliis, quam ab. eo .acce-

perni, ideo frustra queri; quod enim hahebant, ab Apostolo acceperant. Ad

unum autem videtur loqui, quia ad pattem plebis loquitur. " Si aulem acce-,

pieti, quid etc.? ". Hoc quasi insultatores Apostoli agebant per imperitiam; ut

eadem audientes, quae ab Apostolo iam didicerant, illum eyacuantes, de horum

magisterio gloridrentur ».

(37) Quaest. Veier. et Novi Testamenti, qu. L;. App., 2, ed Scuter, p. 447:

«Duas.enim leges inducit, Dei et diaboli. Unde spirituat, diedi... centra car-

'nem, hoc est contra vitia, repugnare... Lex autem diaboli, qui est error, contra-

dicil per oblectamenta luxuriae et mundana dulcedine. His ergo repugnarttibus

medius homo est, qui cum consentii spiritui, non vult caro; CUBI autem ma-

num dat carni, spernit spiritum, id est legem Dei contemnit ». — 3: « Ideo ergo

haec apostolus publicat, ut ostendat arbitrio humano cui rei voluntatem suant

comminai, non ut arbitrium libertatis inaniat, sed docet arbitrium cui rei se

coniungat. Si autem non est voluntaiLis arbitrium, neque lex diaboli, quae est

cafo, neque lex Dei, quae est spiritus, invicem sibi advetsando hominem con.

«il»*; «ollicitarent. Qui enim sol licitat, suadet; qui autem suadet, non vim

inferi, sed circumvenili qui circumvehilur, fallaciis quibusdam voluntas illi-

muta'tur. Si autem non esset liberum a-rbitrium, nolens homo traheretur ad ea

quae non vult». Traci, in. Gai. a V, 17-18 P. L. 17, col. 388): « Duas leges

proponit,... quae invicem adversae sunt, unam Dei, alteram peccati. Quae ideo

in carne significatur, quia visibilibue oblectatur, cupida peccatorum; ut his

sibi ndversantibus, medius homo non ea quae vult agat. Divina enim lex premii

et fugai legem peccati, consulens nomini ut vigorem naturae suae custodiat,

ne capiatur illecebris; illa e contra in insidiis agens lacessit hominem blandi-


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tile, ut spernat praeceplum legis divinae. Oum ergo consenseril homo legi Dei,

contradicit lex peccati, suadens homdni ne faciat quod imperai lex divina; e

diverso autem lex Dei revocai hominem, ne faciat quod suggerii lex.peccati.

Quod quidem homo non videi esse absurdum: scil enim naturae suae con-

gruere, si faciat quod imperat lex Dei. Deiiique gaudel'quando haec agii, cum

ea qperatur quae suggerii lex peccati, videi se turpem et harret posi faolum.

Ideoque legis spiritus praecepta servanda sunt el carnalia fugienda; ipsa enim

conscientia accusai si ei consentiat, sciens horrori es«e quae suggerii lex

peccali ».

.(37 bis) Cif. aniche l'insdéilere sulla giustizia divina deilfAmbrosiastro

(cfr. cap. V n. 32) e creilo di Agostino nei primi commenti .a Romani (cfr.

cap. IV). ..

• (38) Su lui, mi pennetlo rimandare ai miei. articoli, L'ecclesiologia nella

contrqveisia .donatista e Da Ticanio a Sarti'Agostino, in Ricerche Religiose,

I (1925) pp. 41 sigg. e 443 sgg.; quest'ullimo modificato dal presente lavoro.

ISIon credo, invece di avere sbagliato nello eforzo di stabilire i principi sui

quali dovrebbe basarsi una ricostruzione del Commento. all'Apocalisse; alla

quale ha dato un valido contributo .la dissertazione di laurea (Roma) del

Dr.. Francesco Lo Bue, mentre viene facilitala ora dalla pubblicazione delle

« Omelie pseudo-agostiniane » falla da O. Germain. Morii». Sqnctf Caesarii

episcopi Arelatensis Opera, II, 1942. . . - ...

• (39) E' superfluo ricordare che le regole di Ticonio furono da Agostino

incorporate nel De doctrina christiana. III, 30, 42—37, 56. Sorprende che il

Marrou (o. c., .pp. 384, 444, 480) si occupi di questo scriltore cosi, brevemente.

2.02
(40) V. tra l'altro. T. Haha, TychotiiuS'Studien, Leipzig 1900 {SJudien zur

Gesch. der Theologie und der Kirch'e, VI, 2); Scholz, G/oufee una Unglaute-'in

<ìer Wellgeschichte, ein Kommentar zu Auyuisiins De civliate Dei, Leipzig. 1911;

P. Batiffot, Le catholidsme de Si.. Augustin, Paris 1910, I, p. 110; P. Monceaux,

Hiat. littér. de l'Alt, chrét., V, Pans 1920, p. 174 sgg. A. Dempf, Socrunt Impe-

rium (tr. it., Messina 1933) per questo riguardo dipende interamente da Hahn.

, ' (41) De civ. Dei, XX, 7, 1: « Qui propter haec huiue libri (Apoc. XX, 1

«gg.) verbà primam resurreclionem futuram, auspicati sunt corporaleffii inter ce.

teia, maxime numero annorum mille permoli sunt, ... Quae opimo esset utcum-

que tolerabilis si aliquai- deliciae spiritales in ilio eabbato adfulurae aanctis

per Domini praesentìam crederentur. Nam etiam nos hoc opinati fuimus ali-

quando ». . ':...

(42) De div. quaeat. LXXXIII, qu. 57. 2 (cfr. per il tempo, c. IV, n. 12^

«•Kt autem separatio in fine saeculi... cum regnant iusti primo letnporalitet,

sicut in Apocalypsi scriptum est, deinde in aeternum in illa civitate quae ibi

describitùr ». Cfr. anche De musica, VI, 13. Si osservi altresì che, contraria-

mente a Ticonio, e come Agostino in questa quaestio, anche l'Ambrosiastro è

«chiliastic in tendency»; cfr. A. Souter, A study of Ambrosiaater, Cambridige

1.905, p. 155; id., in Journ. of Theolog. Slud. V (1904), pp. 611-615.

(43) De div. quaest. LXXXIII, qu. 69 (a / Cor., XV, 28), 4: « Regniim enim

eius (scH.: Ghristi) sunt, in quibus nunc regnat per fidem. Aliter-enim dicitur

regnum Christi secundum potestatem divinitalis, secundum quod ei cuncta

creatura subiecta est, et aliter regnum eius dicitur ecclesia, secundum pro-

prietatem fidei quae in ilio est»; 10: «Sane quod dictum est " Tunc et iipse

Filius etc. " quamvis secundum susceptionem hominis dicatur.:. tamen recte
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qnaeritur utrum secundum ipsum tantùm dictum sit, quod est caput Ecclesìae

(cfr. Ephés. V, 23) an secundum universum Christiwn, annumerato corpore et

membris eius (Gai. Ili, 16, 28, 29; / Cor. XII,: 12)... Non dixit: ita et Ohristi, eed

ita et Chrialus, ostendens Christum recte appellari etiam universum, hoc est,

caput cum corpore suo quod est Ecclesia. Et multis Scripturarum locis iriveni-

mus Christunv etiam hoc modo appellari ut cum omnibus suis membris intel-

ligatur, quibus dictum est " Vos estis etc." (I. Cor. XII, 27). Non ergo ab-

surde sic intelligimus " Tunc etc. " ut Filium non solum caput Ecclesiae sed

et omnes cum eo sanctos intelligamus, qui sunt unum in Christo, unum se-

men Abrahae ». .Chi abbia presenti le Regole di Ticonio, avverte subito la

profonda parentela spirituale, anche nel metodo. Altro passo oaratteristico è

in- De div. quaest. LXXXIII, qu. 81 (cfr. c. V, n. 50).

(44) Enarr. in Ps. LIV, 4: « Homines malos quos patitur commemoratu-

rus est, eandemque passionem malorum hominum exercitationem suam dixit.

Nfe putetis gratis esse malos in hoc mundo et nihil boni de illis agere Deum.

Omnis malus aut ideo vivit ut corrigatur, aut ideo vivit ut per illum, bonus

exeiceatur ». Con idee già di Agostino (bontà e ordine del creato, ecc.) e col

concetto del Salmo, si mescola qui, e soggiace a queste espressioni, l'idea

ticoniana che i buoni devono soffrire nel mondo ad opera dei malvagi. Questo

sermone, da P. Monceaux (Hist. Itttér. de l'Alt, ctirét., VII, pp. 148 n. 4, 153-

155, 287) è collocato negli anni 394r96 per la mancanza di accénni aila" ri-

conciliazione di Felicranó e'-Pretestato con'-i Prìmianisti (397) mentre'vi si

àllrfde àJ -concilio di- Bagai (394):' Tra questi : limiti,'sarei in-cline;'ad--
w.date alquanto tardiva. Zarb, in Angt-licum. XXIV (1947) pp. 47-69

pone questa Enoitalio circa la P-aequa del 395.

(45) Cfr. c. V, p. 126 «g. e note 47-50.

(46) Potrebbe trattare! piuttosto delle ExposiUones d/versorum causa-

rum: cfr. l'ari. Da Ticonio a S. Agostino, cit.

(47) Ep. 41, 2, del 396 o 397 (cfr. P. Monceaux, o. c., p. 297): «De Ty-

i honii septem regu.is vel clavibus, sicut saepe iam scripsi, cognoscere quid '

tii)i videatui* expecto ».

(46) TÌCCHI., Liber regni. Ili e VII « Etenim impossibile est sine grafìa Dei

haber-e aliquem gloriam. Una est enim gloria et uno genere semper fuìt. Nemo

enim vicit, nisi cui Deus vicerit, quod non est in Lege, sed qui fecerW; in

fide- autem infirmum facit Deus adverscirium ncstrum. propterea "ut qui glo-.

riatur in Domino glorietur " (I Cor,, i, 31). Si enim quod vincimus nostrum

non est, non est ex operibu* «ed ex fide, et nihil est quod ex nobis glorie-

mur. Nihil endm habemue quod non accepimu« (cfr. / Cor., IV, 7). Si su.

mu*, ex Deo sumus, ut magnitudo virtutis sit Dei et non ex nobis. Omise

opus DOBtrum fides est, quae quanta Inerir tantum Deue opera tur notoiscum.

In hoc gloriatur Salomon scisse se non ex homine «ed ex Dei dono esse

continentiam (Sap., Vlii, 21). ludicio Salomonis credendum est non ex ope-

ribus sed gratia Dei omnes iuetificatoe, qui scierunt opus legis a Deo impe-

trandum quo possent gloriar' » — « Putant enàm superbi et beneficiorum om-

iupotenti6 Dei ingrati sua virtute aliquicl posse et eapientia ditali... Et non

quidem prudentibus divitiae et non scientibue gra.tia. Haec enim non eunt

hi nostra potestate, «ed a Deo conferuntur " Quid enim habes etc., " ». —

« Dicunt eiiim quid-um. qui promissiorum hrmitalem et quae ex Lege est trnn-
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sgreseionem neeciunt, promisisse quidem Deum Abrahae omnes gentes, seA

«alvo Alitero arbitrio, si Legem cuatodissent. Et si peticuia imperitìae quorun-

dam in eor\un salutem patefacere prodeet, sed cum de Deo omnipotente sermr

eet moderari dicenda debemus, ne silenda refutando memoremus et ex ore

nostro aliena licet audiantur. Quare cum tremore loquentes sua cuique pe-

ticula coneideranda relinquimus. Manifestiim est praescisse Deum futuros de

libero arbitrio quos Abrahae promisi!, aut non futuros. Altenmi est fluoruro:

si futuro» finita quaestio eet, si non futuros fidelis Deus non promitteret. Aut

ei hoc est statutarii apud Deum tunc promissos dare si promissi velint, pro-

fecto diceret, ne servus edus " credens quia quod promi«it " Deus " poteos est

et tacere " (Rom. IV, 21) ludiflcaretur Abraham. Promissio autem illa est quae

nihil conditionis incuoii, «in minus nec pronussio est firma nec fide» integra.

Quid' enim stabile remanebit in Dei promissione «ut. in Abrahae fide, si quod

promissum et.creditum est in eorum qui promissi sunt penderet arbitrio? ergo

et Dcus alienum promisit et Abraham incaute credidit » (ed. BurkiH

pp. 19-20, 79, 22).

(49) Cir. nn. 3, 10, 14, 15, 16.

(50) « Omne opus nastnmi fides est, quae quanta fuerit tantum Deus

opertitur nobiscum » cfr. n. 48.

(51) « Non erat (Ticonius) expertue haiic haeresioa, quae nostro tempo;*

exorta muUtum noe... exeiciùt, etc. ... muito vigilaatiojrec diligeaatiarasque

204 *
teddidit, ut adverteremus in Scripturis Sanctis quod istum Ticonium minucr at-

tentum minusque sine hoste sollicitum fugit * (De doclr. chrint. Ili, 33, 46).

(52) E. Buonaiuti, Manichaeism and Auguatine's idea ol massa perditionis,

inHarvard iheoìogical Review, XX (1927); F. C. Burkitt, The Reìigion oi the

Mantchees, Cambridge 1925.

(53) Cfr A H. Armstrong. The Architeclure oi the intellìgible Universe

in the Phuosophy oi Plotinus, Cambridge 1940, p. 86: He (Piotino) varies

t>etween regarding it (la materia) as a purely negative conception, absolute

potency, and as a positivel-y evil, anarchic force with a power of resisting

form. The two ideas are often found combined... "; p. Ili: " When he

is considering matler by itself Plotinus seems irresistibly drawn to regard

it as the principle of evil ».

(54) Su questo cambiamento, v. le considerazioni di E. Krebs.SanM

Augustin, Colonia 1930, p. 125 sgg. Contro ep. Fund., 5: « Promittebas esumi

scientiam veritatis.et nunc quod nescio cogis ut credam. Evangelium mini

fortasse lecturus es... Si ergo invenires aliquem, qui Evangelio nondum cre-

dit, quid faceres dicenti libi: non credo? Bgo vero Evangelio non crederemo

nisi me Catholicac Ecclesiae commoveret auctoritas ».

(55) Da questo punto di vista si dovrebbero, mi pare, confrontare le pre-

ghiere dei Soliloquio con quelle delle Coniessioni, tutte intessule di teeti

biblici, specialmente dei Salmi. A parte le considerazioni propriamente stili-

stiche, già fatte da molti, vorrei segnalare questa tendenza spontanea alla

salmodia, forma di preghiera collettiva, che viene mettendo sempre più pro-

fonde radici nello spirito di Agostino.

• (56) Cfr. Retract. I, 9 .(10), 2; 12 (13), 8 (12) a proposito di De Gen. c.


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man., I, 19, 30 e di De vera rei., 46, 88.

(57) Precisamente a III, 25, 36.

(58) Cfr. c. II, n. 1.

(59) II De doctrina christiana è la quarta opera composta dopo la con-

sacrazione; le Confessioni, la sesta, secondo l'ordine delle Retraofationes.

(60) Per la data delle Comessiom, v. c. Ili, n. 15.

(61) Marrou, o. c., p. 64: « Naturellement il reste possible d'affirmer

qu'ii exisle entre ces trois parties des Con/essio/7s une unite profonde et se-

crète. Mais ceux-là ' méme qui ont réussi a la montrer sont les premiere a

convenir que cette unite est d'ordre psychologique et non littéraire ». E'

inuLile che indichi il mio dissenso.

(62) Contess., I, 1-3; X, 1-4; XII, 38, e'.".

(63) Cfr. c. VI, n. 31.


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IN DI C E

Avvertenza , , pag. 5

CAPITOLO I:

La conversione di S. Agostano - Dai Dialoghi di Cassiciaco al De

magistro , , , » 9

Note al Cap. I,.... » 28

CAPITOLO II:

Dal De vera religione al 1. II De libero arbitrio . . . . » ' 37

Note al Gap. II , ' , » 51

CAPITOLO III:

Dall'Ad Fortunalum al Psalmus abecedarius; le conoscenze patristiche

lo studio della Bibbia e l'inizio della polemica antidonatifita . » 67

Note al Gap. IIi V 75

CAPITOLO IV:

Dall' Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos

ali'Epistolae ad Galatas expostiio » 85

Note al Cap. IV , , , , . . . . . . ' . , » 98

CAPITOLO V:

L'« incidente di Antiochia » e la polemica con S. Girolamo; Agostino,

l'Ambrosiastro e Mario Vittorino circa l'epistola Ai Galati; il

commento dell'Ambrosiastro a Romani; carnali e spirituali nelta

Chiesa, eresia e scisma » 115

Note al Cap. V > 128

CAPITOLO VI:

L'Ad SimplìcSanum ' . . . » 145


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Note al qap. VI , . • . » 164

CAPITOLO VII:

Le testimonianze di Agostino circa il suo cambiamento; l'influsso- dei-

Ambrosi ,i.stro, di Ticonio e di S. Cipriano,- «massa» e «bólos»;

ragione e fede; il De doetrina christiana e le Confessioni . .- » 175

Note al Cap. VIU . , , . . . . . . • » 197

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