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Caterina

14 ottobre 2019

De consolatione philosophiae
Severino Boezio

Molte sono state le volte nella storia in cui il destino dei veri discepoli della
filosofia si è rivelato ostile. Ricordiamo gli stessi Socrate oppure Seneca.
Grande è la responsabilità di detenere un sapere pericoloso, potente, mer-
aviglioso come quello che può conferire la filosofia. Sicuramente non fu
rosea nemmeno la sorte di Severino Boezio, condannato da Teodorico alla
pena capitale nel 524. Durante l’incarcerazione, però, Severino Boezio de-
cise di lasciarci unìopera che poi sarebbe stata letta e studiata fino ai giorni
nostri: de consolazione philosophiae.
In quest’opera Boezio decide di ridare alla filosofia di nuovo un potere ter-
apeutico e di allontanarla dalla scena politica, tendenza che invece aveva
assunto la filosofia in lingua latina. La consolazione della filosofia segue il
modello del Crotone platonico. Dove è Socrate, in carcere, ad intrattenere
un colloquio con le leggi che hanno il compito di dissuaderlo dall’evasione,
che sarebbe un torto alla polis alla quale lui deve tutto. Nei cinque libri che
compongono il dialogo non c’è davvero un esplicito riferimento al cris-
tianesimo, nonostante ci siano dei riferimenti biblici. In ogni caso, lo scritto
è pervaso dall’insegamento neoplatonico che sicuramente è compatibile
con la dottrina cristiana.

All’inizio del libro l’animo di Boezio è vittima dell’influenza del male del
turbamento, non a caso è il filosofo stesso che addirittura arriva a consid-
erare potenti e fortunati gli uomini malvagi, scorgendo un enorme con-
trasto la sua fortuna avversa e l’ordinato equilibrio del cielo. E’ nel libro
secondo, invece, che inizia l’opera benefica della filosofia, che tenta di
prepararlo alla ricezione di precetti più importanti esortando Boezio a non
affidare la sua felicità alla fortuna, così mutevole ed instabile: il mondo è
governato dalla divina ragione. Sarà solo durante il libro terzo che la
filosofia svelerà all’uomo la via per la felicità, che sicuramente non risiede
nelle condizioni che solitamente ricercano gli uomini: le ricchezze, onori,
potere, gloria o piaceri del corpo, conducono soltanto le persone ad
adottare soluzioni abberranti.

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L’uomo che cerca ricchezza dovrà sottrarla a chi la possiede, chi invece
desidera gli onori dovrà disonorarsi umiliandosi servilmente e così via. In-
teressante è anche l’influenza che hanno le riflessioni del filosofo su Dante,
che nell’inferno così reciterà:
Per veder ogni ben dentro vi gode
L’anima santa, che ‘l mondo fallace
Fa manifesto a chi di lei ben ode,
Lo corpo, ond’ella fu cacciata, giace
Giuso in Cieldauro;
Ed essa da martiro
E da esilio venne a questa pace

Nel quarto libro Boezio chiede alla filosofia da dove venga il male che at-
tanaglia il mondo: lei gli risponde che i beni dei cattivi non sono veri beni,
ma anzi, tutt’altro, sono invece le infelicità dei buoni ad essere utili per la
loro salvezza.
La domanda fondamentale che viene posta è proprio si Deus est, unde
malum? (se esiste Dio, da dove viene il male?) qui la filosofia afferma che è la
Provvidenza a governare tutto, la volontà divina, che spesso però gli uomi-
ni confondono col fato, che invece è solo la contingenza relativa alle cose
mutevoli.
L’argomento forse più interessante dell’opera, però, è esposto nell’ultimo
libro: è qui che si parla della provvidenza divina e ci si chiede come sia
compatibile con il libero arbitrio. La riflessione che fa Boezio a riguardo è
chiara: la provvidenza non deve essere erroneamente interpretata come previ-
denza, perchè Dio si trova di fatto a conoscere le tutte le cose mediante un
presente che mai trapassa, non un futuro che verrà. E’ come osservare un
vascello sapendo già quale sarà la sua rotta: la conosciamo ma non possi-
amo influenzarla, così anche Dio non limita la nostra libertà. Ogni effetto
nasce da una causa, Dio conosce tutte le cause e simultaneamente tutti gli
effetti: poiché è la volontà umana a dar luogo agli effetti, lui la conosce,
non per questo però annulla la libertà del volere.

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