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LA CONTRADDIZIONE VERA

Giovanni Duns Scoto tra le necessità della metafisica


e il discorso della filosofia pratica
BIBLIOTHECA SERAPHICO - CAPUCCINA
72

LUCA PARISOLI

LA CONTRADDIZIONE VERA
Giovanni Duns Scoto tra le necessità della metafisica
e il discorso della filosofia pratica

ROMA 2005
ISTITUTO STORICO DEI CAPPUCCINI
In copertina: Laurum Metaphysicum. Particolare da una stampa di Leonardo Gaultier.
Roma, Museo Francescano, inv. Nr. 674/2°

ISBN 888-88001-27-1

Edizioni Collegio San Lorenzo da Brindisi

Istituto Storico dei Cappuccini


Circonv. Occidentale 6850 (GRA km 65.050) – 00163 ROMA
Tel. O6.66.05.21 – Fax 06.66.05.25.32
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INDICE

INTRODUZIONE p. 7

CAP. 1 – APPROCCIO GENERALE ALLE CONTRADDIZIONI VERE p. 23


I. Credere alle contraddizioni vere rifiutando quelle false 23
II. Un’interpretazione unitaria di fede e ragione 36
III. Un panorama ontologico non-riduzionista 47
IV. Precisazioni sulla relazione inclusiva tra l’Esistenza e la Realtà 60
V. La trascendenza afferma le contraddizioni vere 69

CAP. 2 - LA RELAZIONE COME COSA 79


I. Divergenze tra l’ontologia scotista e quella aristotelica 79
II. I principi primi nell’analisi metafisica descrittiva 83
III. Volontà e auto-movimento dell’anima 86
IV. La metafisica della contingenza come struttura del reale
alternativa alla necessità aristotelica 88
V. Rendere conto delle relazioni nella Scolastica: la relazione
come “cosa” secondo Scoto 92
VI. Ockham e Auriolo cercano di superare Scoto 106

CAP. 3 – UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 111


I. Una premessa 111
II. Libertà della volontà e prescienza divina: limiti della bivalenza 112
III. Ulteriori argomenti scotisti nei commentari logici 123
IV. L’ontologia dei mondi 146

CAP. 4 – RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA PARACONSISTENTE 153


I. Filosofia pratica 153
II. Il Decalogo 176
III. Velle e nolle, la fattualità della norma 188
IV. Sviluppi del riconoscimento di genuini dilemmi morali 197

BIBLIOGRAFIA 203

INDICE DEI NOMI E TEMATICO 215


INTRODUZIONE

Il semble bien que la contradiction logi-


que absolue ne se produit jamais, et que les
choses, les idées ne s’opposent jamais si
complètement qu’il soit impossible de les
unir en certains cas pour une fin commune.
Fr. Polhan, La logique de la contradiction,
Paris 1911, 58-59

Mi sono impegnato per la prima volta in una riflessione da presentare ad


un pubblico sul tema del rifiuto della logica classica da parte di Scoto in
occasione del XII Congresso internazionale di Logic, Methodology and Philosophy of
Science, che ha avuto luogo ad Oviedo nei giorni dal 7 al 13 agosto 2003. Il titolo
era prudente, Some Scotist Reasons to prefer a Non-Classical Logic. On John Duns
Scotus’ Practical Philosophy, i contenuti forse lo erano meno: mi resi conto allora
della difficoltà di esprimere compiutamente l’idea di un approccio filosofico che
si ponesse in rotta di collisione con la logica classica, che accantonasse l’uni-
versalità del principio di contraddizione o di quello di bivalenza, e aspirasse ad
una razionalità capace di inverare una concezione del mondo non-riduzionista e
ricca dei dati della fede. Non era tanto l’anti-riduzionismo e la considerazione
dei dati della fede a porre problema; certo il riduzionismo è di moda nella
filosofia del XX secolo dopo l’esperienza pur passata del positivismo logico, e
non sono molti i filosofi che incorporano i dati della fede in una esplicita
strategia filosofica, come certamente fa il calvinista Alvin Plantinga. Ma già nel
XVIII secolo il vescovo anglicano Joseph Butler si era fatto campione dell’anti-
riduzionismo, affermando che ogni cosa è ciò che è, e non un’altra cosa, e nel
XX secolo il filosofo morale George E. Moore lo aveva esplicitamente ripreso
in epigrafe dei suoi Principia Ethica. Ciò che era veramente problematico era
contestare un principio come quello di contraddizione che nel corso dei secoli
del pensiero occidentale si è imposto come una evidenza incontestabile, e a
difetto di questa evidenza, come una pre-condizione necessaria di ogni discorso
non-completamente-vuoto. E questo a dispetto di tanti esempi di pensatori
delle piú differenti scuole filosofiche che offrivano come persuasivi argomenti
che prima facie violavano il principio di contraddizione.
Non riuscii in quella stessa estate a partecipare al congresso internazionale
di logiche paraconsistenti, che si era tenuto a Toulouse alla fine del mese di
8 INTRODUZIONE

luglio: forse lí l’uditorio sarebbe stato piú sensibile ad un tentativo di contri-


buire, pur con un ben piccolo mattone, alla storia del pensiero paraconsistente,
ossia alla storia di tutte le varie riflessioni filosofiche che rifiutano la formula-
zione rigida del principio di contraddizione. E qui merita di essere detto subito
che con ‘logica classica’ intendo quel paradigma dominante che si impone dalla
fine del XIX secolo con l’opera di George Boole, con il suo libro Laws of
Thought 1 e che si impone nel XX come standard normale (nel senso attribuito a
«normale» dallo storico della scienza Thomas Kuhn): sebbene anche Aristotele
abbia difeso il principio di contraddizione, è in questo contesto contemporaneo
che esso assume una forma rigida e formalistica. Ora, Scoto non aveva certo di
fronte i partigiani della logica classica, ma gli interpreti odierni di Scoto si muo-
vono in un contesto culturale in cui la logica classica è un paradigma domi-
nante, che pretende di delimitare i confini della razionalità (fatto che i soste-
nitori della paraconsistenza negano decisamente) 2. In un senso Scoto poteva
formulare alcune strategie paraconsistenti senza troppo preoccuparsi di violare
un paradigma dominante, dato che all’epoca il paradigma dominante era quello
dei filosofi cristiani, non quello degli averroisti latini, preoccupati della necessità
causale e della determinabilità delle variabili del mondo. Per me, invece, pro-
porre oggi una interpretazione paraconsistente di Scoto significa ancor prima di
esaminarne il testo difendere la possibilità razionale di una logica paraconsi-
stente, dato che il paradigma culturale dominante ne nega la stessa possibilità.
Un pensatore paraconsistente rifiuta almeno due cose: primo, che ogni
contraddizione, lessicalmente definita come una coppia formata dalla pro-
posizione A e dalla sua negazione, sia falsa (si dà almeno una contraddizione
vera, ed è un ulteriore problema filosofico determinare quali siano le contrad-
dizioni vere); secondo, che se si ammette una contraddizione, allora qualunque
proposizione è dimostrabile come vera (ex falso sequitur quodlibet). Nel corso
delle mie letture del testo scotista, che avevo affrontato nel tempo, condotto da
chiavi di lettura via via differenti, avevo maturato la persuasione che Scoto
fosse un pensatore paraconsistente: se da un lato ripeteva incessamente che Dio
era vincolato dalla contraddizione, sembrava poi che questo vincolo si riducesse
a ben poca cosa, visto che Scoto non vedeva contraddizioni laddove molti altri
ne avrebbero visto fiorire a distesa. Non era contraddittorio che Dio mutasse
realmente il Decalogo; non era contraddittorio che Dio fosse uno e trino; non era
contraddittorio che la forma esistesse senza la materia nel mondo naturale; l’ubi-

1 George E. Boole, An Investigation of the Laws of Thought, London 1854, trad. it. Torino 1976.
2 Rinvio per esempio a Newton C. A. da Costa, O Conhecimento Científico, São Paulo
19992, ma anche a N. C. A. da Costa, Logiques classiques et non classiques, Paris 1997.
INTRODUZIONE 9

quità e la compresenza puntiforme degli angeli non contraddiceva la loro indivi-


dualità personalistica; non era contraddittorio che Dio potesse mutare il passato;
non era contraddittorio che Dio salvasse Giuda e dannasse Pietro (azione
combinata che stride con la coppia concettuale prima facie di giustizia e amore);
uno strumento principe della sua metafisica, la distinzione formale (o non-iden-
tità formale), non era certo contraddittoria, ma essa afferma che cose identiche
sono diverse 3, e poco vale invocare una qualche speciale proprietà divina, come
la Sua infinità, perché per Scoto la distinzione formale non è confinata alla
teologia, essa appartiene alla metafisica 4; e Scoto, come qualunque altro pensatore
cristiano – e ebreo, e musulmano – , ammetteva senza problemi che Dio è asso-
lutamente fuori dal mondo (è trascendente) e che Dio agisce nel mondo (con i
miracoli, per esempio), e sebbene questo sia pacifico per un credente, nondimeno

3 Efrem Bettoni, Duns Scoto filosofo, Milano 1966, 124-127: Bettoni colloca la sua analisi
della distinzione formale nel contesto dell’antropologia scotista, evocando le soluzioni sulla
natura dell’anima di san Bonaventura e di Enrico di Gand, che Scoto rifiuta (si veda il testo
in Reportata parisiensia, II, d. 16, q. unica, con la distinzione formale tra intelletto e volontà
asserita al n. 18 – la d. 16 non è presente in Lectura e Ordinatio). Come nota anche Josep-
Ignasi Saranyana, La filosofía medieval, Pamplona 2003, 353, si gioca qui il tema del rapporto
tra essere ed esistere, che Scoto discute in termini diversi da quelli di Goffredo di Fontaines
o di Egidio Romano, per esempio quando afferma nella Lectura, II, d. 12, q. unica, § 76, che
la materia è “medium” (termine chiave per asserire la violazione del principio di contrad-
dizione), e, § 79, che solo gli angeli o un intelletto perfetto possono conoscerla, mentre il
nostro intelletto, colpito dal peccato originale, non può accedere alla sua conoscenza. La
realtà della materia è assicurata nella totalità dei mondi possibili, essa è un dato paracon-
sistente degli oggetti individuali del mondo attuale (Bettoni cita in proposito dall’Opus oxo-
niense, II, d. 12, q, 1, n. 16 – non presente nell’Ordinatio: la semantica del passaggio è svilup-
pata parallelamente nella Lectura ai §§ 49 (tertium datur, per l’incompossibilità di due alter-
native)-51, e §§ 67-68 – l’idea aristotelico-averroista che l’unitarietà è data dal passaggio dalla
potenza all’atto (VIII, c. 6, 1045a 27-31; com. 15, com. 16) è cosí rifiutata, attraverso un
lessico e una semantica paraconsistenti). Per queste tematiche si veda anche Quaestiones meta-
physicorum - per cui rimando all’ed. St. Bonaventure, VII, q. 8-10, 47-62, ex n. 3-4 (sulla
generazione della materia, della forma, e del composto); IX, q. 1-2, 27-29, ex n. 5 (sul-
l’opposizione tra potenza e atto; Scoto indica le essenze come essere possibile, un’equi-
valenza che sfocia nel realismo modale, oppure in un nominalismo che non gli appartiene di
certo – e del quale si farà invece carico Ockham).
4 Del resto, per Scoto ogni distinzione rigida tra teologia e filosofia è sistematicamente
fuorviante: la teologia è quella branca della filosofia che analizza Dio. Non ci si lasci
ingannare dalle sue polemiche contro i “philosophi” (simili a quelle sostenute da altri fran-
cescani e da altri scolastici): qui il termine “filosofi” indica una particolare famiglia di filo-
sofi, un poco come l’espressione “filosofi analitici” nel XX secolo non indica solo i filosofi
che usano un metodo analitico, ma una particolare famiglia di filosofi che si sono auto-
etichettati o che sono stati etichettati in questo modo.
10 INTRODUZIONE

è contraddittorio agli occhi di chi accetti la logica classica (Pascal, nel XVII seco-
lo, opponeva il Dio (impersonale) dei filosofi al Dio della Bibbia (personale):
Scoto non si sarebbe posto neppure il problema, avrebbe detto che i filosofi
seicenteschi che Pascal aveva in mente non avevano nozione propria di Dio).
Per evitare di perpetuare nel lettore un fraintendimento su quella che io
considero la necessità di introdurre la nozione di contraddizione vera in Scoto e
in tanti altri pensatori cristiani, voglio riportare subito un esempio accademico
tratto dalle analisi di un grande storico della filosofia, Paul Vignaux, grande
esperto di Scoto e tanto partecipe della sua impresa filosofica da coniare l’e-
spressione «humanisme théologique» per la filosofia scotiana. Vignaux diceva
paradossale questa espressione, perché era ben cosciente che la parola francese
«humanisme» era stata usata da piú di un secolo per liquidare il valore della
religione, non-humanitaire per definizione 5: se l’avesse detta una contraddizione
vera avrebbe fatto sorridere i difensori francesi dell’humanisme, ammicanti rispet-
to all’ennesima contraddizione (ovviamente falsa) del discorso religioso. Ma
l’esempio è la sua lettura di Francesco di Meyronnes 6, scotista convinto soste-
nitore delle formalitates, che nel Prologo al suo commento alle Sentenze afferma
la validità universale di due regole, ossia 1) di due contraddittori, uno è necess-
riamente vero, e 2) due contraddittori non possono essere contemporaneamenti
veri («de quolibet est affirmatio vel negatio vera, et de nullo eorum ambo si-
mul») 7. Per difendere queste due regole contro chi pretende che per Dio la
seconda regola non valga, Francesco di Meyronnes invoca la distinzione for-
male, da lui dettagliata in quattro punti 8. Agli occhi di Vignaux, sembra del tutto
legittimo per Meyronnes assumere la validità universale del principio di contrad-
dizione, grazie all’uso della distinzione formale. Ma come è possibile difendere il
principio di contraddizione con una nozione contraddittoria ? La distinzione for-
male permette di dire diverse cose che sono identiche, realmente identiche e for-
malmente distinte; le persone della Trinità sono formalmente distinte, e realmente
identiche, ma se la distinzione formale delle persone divine fosse assolutamente
non-reale, allora grand adieu al dogma trinitario; la distinzione formale è medium tra
la distinzione reale e quella di ragione (e si deve assolutamente evitare che di-
penda dal nostro intelletto in una prospettiva cattolica), lessico aristotelico per

5 Forse, non abbastanza umanitaria, potrebbe precisare René Girard (si veda Je vois
Satan tomber comme un éclair, Paris 1999).
6 Paul Vignaux, L’Etre comme perfection selon François de Meyronnes, in Etudes d’historie
littéraire et doctrinale 17 (1962) 259-318, poi in De saint Anselme à Luther, Paris 1976.
7 Paul Vignaux, De saint Anselme à Luther, 254-255.
8 Paul Vignaux, De saint Anselme à Luther, 257-258.
INTRODUZIONE 11

dire che si dà medium tra due contraddittori. Non dico che Vignaux dovesse accu-
sare Meyronnes di incoerenza (perché in una prospettiva paraconsistente incoe-
renza non c’è), ma come non notare la paradossalità di una nozione costruita in
violazione del principio di contraddizione (come notava all’epoca il feroce
nominalismo logico di Ockham) per difendere il principio di contraddizione?
Ebbene, Vignaux, e molti altri come lui 9, non poteva notarlo perché il solo
fatto di pensare che si dessero contraddizioni vere gli doveva sembrare assurdo,
irrazionale e non-filosofico: almeno per dato cronologico, non poteva, come
farò io nel seguito, farsi forza delle tesi (pur minoritarie, anzi piú che minori-
tarie) di Lorenzo Peña che ci assicurano che esiste un principio di Super-Con-
traddizione, per cui valgono le due regole enunciate da Meyronnes (e questo
vale soprattutto nella sfera divina), ma che la formulazione classica del principio
di contraddizione è inficiata, dato che esistono anche piccole-contraddizioni, e
alcune di esse sono vere, altre sono false. La distinzione formale, per esempio, è
una piccola-contraddizione vera con cui Meyronnes difende il principio di
Super-Contraddizione. Ma se non si distingue tra due specie di contraddittori, a
partire da due tipi di negazione, la strategia di Meyronnes sarà ridicolizzata da
ogni difensore della concezione classicista: la risata di Rabelais spazzerà via le
sottigliezze di Scoto, di Meyronnes e di ogni difensore delle formalitates,

9 Léon Veuthey, Jean Duns Scot. Pensée théologique, Paris 1967, 58-59, non riscontra
contraddizione nella distinzione formale, dato che vi sarebbe identità reale delle persone
nella sostanza divina, e distinzione reale tra le Persone divine tra di loro. L’essenza divina e
le persone divine sarebbero poi formalmente distinte. In questa lettura aristotelizzante
(“sous des aspects différents”), si salva il principio di contraddizione al prezzo di rendere il
tutto inintelligibile, non certo meno pio, ma comunque inintelligibile: o questo ragionamen-
to si può predicare di qualunque persona, ed allora diviene una banalizzazione della Trinità
(ogni uomo è realmente identico nell’umanità ad ogni altro uomo, ma questo-uomo-qui è
realmente diverso da quell’uomo-là), oppure la sostanza divina è radicalmente separata dalle
persone divine, ed allora si dà una Quaternità (secondo un pericolo già agitato da Gioac-
chino da Fiore contro Pietro Lombardo), oppure la sostanza divina è un flatus vocis, con
approdo al Triteismo. Evidentemente Veuthey rigetterebbe ognuna di queste deduzioni, for-
se sta pensando alla regola di Boezio “non habet locum distinctio, ubi non est ex diversis
unio” (De trinitate, c. 3) – la quale però presuppone che il fatto della Trinità sia già spiegato - ,
ma l’ossequio al principio di contraddizione mi pare le rendano inevitabili, e con esse il fatto
che il filosofo razionalista releghi la Trinità nel deposito delle favole mitologiche religiose.
Ciò che sorprende, ed è determinato dalla massiccia dominanza del paradigma classicista, è
che ragionamenti di questo tipo non turbano né il credente (che in realtà pensa che la Trinità
sia un Mistero), né il non-credente (che la ritiene una favola per cui non vale troppo agi-
tarsi). Evidentemente, si può sempre rifiutare l’opzione paraconsistente e restare nel solco
della sfera classicista: cosí recentemente Richard Cross, The Metaphysics of Incarnation: Thomas
Aquinas to Duns Scotus, Oxford 2002. E’ una strada alternativa a quella seguita in questo libro.
12 INTRODUZIONE

nonostante l’onesta e attenta ricostruzione di Vignaux, perché la distinzione


formale è una contraddizione in termini. Lo scotista usa uno strumento con-
traddittorio per difendersi dall’accusa di violare il principio di contraddizione10:
l’ironia di Rabelais non farebbe altro, ieri come oggi, che smascherarne il vano
tentativo di difendere delle verità di fede, che risultano cosí a piú forte ragione
delle falsità, o se si preferisce delle proposizioni non-difendibili. Quanto è piú
chiara la dottrina della potenza assoluta divina di tanti scotisti se si accetta
l’esistenza di contraddizioni vere: quanto è piú facile accettarla se ci si muove
nel solco interpretativo dei mondi possibili proposto negli anni ’80 e ’90 da
Knuuttila e de Vos. Solo affermando l’esistenza di contraddizioni vere (la dis-
tinzione formale, l’Eucaristia, la Trinità, la relazione come cosa, ..) ci si libera
della risata classicista e si afferma la piena razionalità della logica non-classica
che si aggira nelle pagine scotiane: si badi, si può benissimo credere alla distin-
zione formale e al principio classico di contraddizione, ma questo produce l’im-
magine del teologo o del pensatore religioso che si tiene le sue credenze reli-
giose, nonostante che la ragione, cui proclama di aderire, ne mostri l’infon-
datezza. Mentre per Scoto i fatti della fede erano costitutivi del mondo di cui
voleva dare conto metafisicamente, per un teologo contemporaneo non sareb-
be piú cosí: la teologia diventa diversa dalla filosofia perché tratta di tesi che la
ragione filosofica dimostra essere false, diventa un «eccellente» ghetto dell’argo-
mentare. Per un medievale non era proprio cosí.
Ma quello che mancava a Vignaux erano le fonti filosofiche (e l’impegno
ontologico 11 di seguirle) capaci di mostrare che esiste un’altra razionalità

10 Giulio Basetti-Sani avanza una spiegazione spirituale per la scelta scotiana di avva-
lersi dello strumento della distinzione formale (Liberalità e fecondità dell’amore nella meditazione
trinitaria di Duns Scoto, in La vita spirituale nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, Assisi 1966, 185,
188-189). Da un lato, si deve prendere atto, come già osservava Etienne Gilson, che “Scoto
si è voluto tenere fuori della tradizione dionisiana”, per evitare i pericoli del nominalismo e
una maggiore forza della negazione sull’affermazione, e Basetti-Sani osserva che Scoto si
discosta in questo modo sia dalla tradizione di Oxford (con Roberto Grossatesta), sia da san
Bonaventura, che “dava gran peso all’autorità dello Pseudo-Dionigi”. Dall’altro, si deve con-
siderare l’esperienza fatta da Scoto dell’uso della tradizione dionisiaca fatta dal suo con-
temporaneo Eckhart, per cui Basetti-Sani evoca “i pericoli e le tragiche conseguenze che ne
erano risultati in Eckhart e nella Scuola mistica domenicana renana”. Insomma, è proprio
per evitare i pericoli dell’intellettualismo esasperato e consumare l’apologia della natura
d’amore divina che Scoto consacra la non-identità formale come uno strumento principe
della metafisica (mentre in san Bonaventura essa resta limitata al discorso trinitario e teolo-
gico). Ed approda cosí, aggiungo io, alla razionalità paraconsistente.
11 Mutuo l’espressione “impegno ontologico” da un libro di Michele Marsonet, Logica
e impegno ontologico, Milano 1981. Come si vedrà nel seguito, la mia opzione è quella per una
INTRODUZIONE 13

rispetto a quella classica, capaci di mostrare che l’esistenza di contraddizioni


vere può essere accolta in un sistema di logica formale, e quindi è perfettamente
razionale. Per di piú, questi pensatori contemporanei paraconsistenti non
introducono la nozione di contraddizione vera perché devono risolvere dei
problemi posti dalle verità di fede: essi propongono l’esistenza di contraddizioni
vere indipendentemente dalla sfera divina, per ragioni se si vuole assolutamente
laiche. Non c’è nulla di strumentale nella scelta di un filosofo cristiano che
afferma l’esistenza della distinzione formale (contraddizione vera), dato che
essa può essere condivisa per ragioni ontologiche non-divine. Sono queste fonti
contemporanee che propongo agli storici della filosofia e delle idee, perché
possano innanzittutto ammettere che non è irrazionale credere in contrad-
dizioni vere, e che quindi non è burlarsi di Scoto attribuirgli questa tesi, anzi.
Solo cosí si potrà poi leggere il testo scotiano indipendentemente dal pregiu-
dizio classicista e avviarsi per comprendere che l’incoerenza sistematica degli
scotisti diventa coerenza superiore se si affinano le distinzioni lessicali del loro
linguaggio. La paraconsistenza è nei testi, basta essere sufficientemente liberi
dal dogma classicista per poterla vedere.
Insomma, personalmente non riuscivo proprio a ripetere, come fanno
molti interpreti, che Scoto rispetta il principio di contraddizione (usualmente
inteso): nel piú grande rispetto per le sue strategie filosofiche, capaci di inverare
il dato della fede in uno schema razionale unitario che va dal colore del
computer con cui scrivo alla processione dello Spirito Santo, mi pareva che la
nozione di principio di contraddizione in Scoto fosse pickwickiana. Come i
membri del Circolo Pickwick, i protagonisti del famoso romanzo di Charles
Dickens, mutavano il significato delle parole, mi pareva che anche in Scoto il
principio di contraddizione venisse sottoposto ad una cura pickwickiana. Dato
che per Dio niente è veramente contraddittorio, allora egli può essere anche
vincolato dal principio di contraddizione, tanto da uscirne assolutamente
libero 12. Mentre san Pier Damiani disprezzava la logica del suo tempo, Scoto la

ontologia “overpopulated”, contro la quale Quine ebbe a dire, nel suo celebre saggio On
What There Is, pubblicato per la prima volta sulla Review of Metaphysics 2 (1948) 21-38, “it
offends the aesthetic sense of us who have a taste for desert landscapes”. Questo non è
certo il principale argomento del nominalista Quine contro le ontologie sovrappopolate, ma
gli si potrebbe ritorcere che il suo senso estetico trova la predicazione migliore di fronte ad
un pubblico deserto.
12 Pareva che il rapporto di Dio al principio di contraddizione fosse quasi-parallelo a
quello di Humpty Dumpty ed Alice, due personaggi di Lewis Carrol impegnati in una
discussione sul significato delle parole che potrei parafrasare cosí: se Alice, custode del
principio di contraddizione, reclamava una violazione del principio da parte di Humpty
14 INTRODUZIONE

seguiva, ma il risultato era lo stesso, un’esaltazione assoluta dell’onnipotenza


liberissima di Dio: san Pier Damiani non faceva slittare pickwickianamente il
significato delle parole 13, Scoto sí 14.
Non era una lettura completamente falsa di Scoto – mi pare –, ma non era
neppure soddisfacente: il mio interesse per le logiche paraconsistenti non
nacque solo da questa situazione, ma certo ne ricevette un impulso vigoroso.
Avevo avuto la chance di incontrare Lorenzo Peña in un convegno a Santiago de
Compostela, in cui mi aveva confortato nelle mie analisi giusnaturalistiche, e la
sua generosità mi aveva permesso di disporre di un buon numero delle sue
pubblicazioni: l’interesse e l’ammirazione per il suo lavoro mi spinse a leggerne
altre, e mi incamminai a comprendere Scoto sotto la suggestione dell’essenzia-
lismo ontologico contrapposto all’essenzialismo aletico di Aristotele. Passai poi

Dumpty, quest’ultimo replicava che le sue parole avevano un significato diverso da quello
inteso da Alice, e che essendo lui il padrone delle parole, non c’era altro da aggiungere. Con
il pericolo che un’Alice troppo affezionata al principio di contraddizione era condotta a
dubitare dell’autorità di Humpty Dumpty. La storia della filosofia moderna include questa
stessa vicenda a proposito di Dio e dei credenti: la decristianizzazione della filosofia
occidentale mi pare un dato sociologico ben piú che teoretico.
13 Vi è chi ha osservato che san Pier Damiani non è privo di ambiguità nella sua
difesa della possibilità divina di cambiare il passato (L. Moonan, Impossibility and Peter
Damian, in Archiv für Geschichte der Philosophie 62 (1980) 146-163, osserva che Damiani era
spinto dall’intento di rimettere i dialettici nella loro giusta dimensione e di non togliere la
speranza di perdono al peccatore (162), potremmo dire alla maniera del ramo secco che
dovrebbe fiorire, celebrato da Wagner in musica. Sono osservazioni pregnanti, ma non
escludono che san Pier Damiani sia un precursore della paraconsistenza, anzi). Resta il
fatto che è il capostipite di una tradizione che considera le leggi naturali come mere
regolarità, ma la sua posizione è sostanzialmente chiara e categorica per imporsi come un
riferimento da sfruttare per i difensori a venire dell’onnipotenza senza limiti divina, tra cui
Gilberto di Poitiers: mi riferisco al saggio di Simo Knuuttila, Possibility and Necessity in
Gilbert of Poitiers, in J. Jolivet, A. de Libera, Gilbert de Poitiers et ses contemporains, Napoli
1987, in particolare 208-211.
Mi pare che abbiano completamente sottovalutato l’importanza di san Pier Damiani
G. Priest, R. Routley, First Historical Introduction: A Preliminary History of Paraconsistent and
Dialethic Approaches, in Paraconsistent Logic: Essays on the Inconsistent, München 1989, 19.
Certo, san Pier Damiani non si esercita in esercizi logici, e disprezza la dialettica elle-
nizzante, tuttavia merita molta piú attenzione di quanto non gliene tributino Priest e
Routley, che sono affetti da un certo strabismo verso la teoria dialettica del socialismo
reale.
14 Le analisi di san Pier Damiani hanno spesso la finezza dell’accetta, e piuttosto che
tagliare il capello in quattro hanno la tendenza a polverizzarlo. Si tratta di un altro mondo
retorico rispetto alle esasperate riflessioni analitiche di Scoto.
INTRODUZIONE 15

ad altri esponenti della paraconsistenza, Richard Routley, e Graham Priest, di


cui non apprezzavo un certo soggettivismo morale, ma le idee di contraddizioni
vere e quella di teoria gradualista della verità sostenuta da Peña 15 mi restavano
non completamente persuasive a contatto con il contesto scolastico, e temevo
di incappare nell’anacronismo. Mi premeva piú di un discorso teoretico l’esi-
genza storica di mostrare come nel Medioevo vi fosse un’anima della filosofia
cristiana che non accettasse il paradigma greco come modello di razionalità: la
teoria francescana del diritto naturale mi spingeva in questa direzione, l’onto-
logia realista delle norme mi spingeva verso un giusnaturalismo caratterizzato
da un radicale impegno ontologico; affascinato dalla teoria modale di Scoto
letto da Knuuttila e de Vos, i suoi mondi possibili visti attraverso la lente del
realismo modale mi presentavano un legame insospettato tra la metafisica di
Lewis o quella di Chisholm e quella medievale di Scoto, suggerendomi che vi
erano eccellenti ragioni per aderire al realismo modale (la realtà di tutti i mondi
possibili, non solo del mondo attuale) anche senza far intervenire i fatti della
fede, seppure Scoto mostrava che il realismo modale spiega persuasivamente i
fatti della fede. Ero affascinato dal fatto che nel XX secolo certi autori rigorosi
e tenaci avessero sostenuto delle tesi ontologiche che almeno in parte richia-
mavano quelle di Scoto, solo che quest’ultimo le aveva messe consapevolmente
al servizio della fede cristiana. Mi intrigava che un interprete di Lewis potesse
variare certi dettagli della sua posizione (introducendovi la nozione di persona
metafisica, per esempio 16) e ricavarnarne delle eccellenti ragioni in favore del

15 Mette bene in luce le differenze che corrono tra Priest (che rifiuta una concezione
gradualista della verità) e Peña (che pone una differenza gradualista della verità) lo stesso
Lorenzo Peña, Graham Priest’s “Dialectheism” – is it althogether true?, in Sorites 7 (1996) 28-56.
Essi sono accomunati nell’accettare l’esistenza di contraddizioni vere, ma la loro divergenza
è di tale sorta che non mi sento di potere decidere in maniera categorica se l’approccio
scotiano sia riconducibile alla strategia di Priest oppure a quella di Peña. Preferisco sotto-
lineare che l’approccio scotiano è reso completamente intelligibile se gli si riconosce un
approccio paraconsistente, e questo mi pare un punto cruciale per lo storico della filosofia.
Mi pare di poter dire, però, che vi sono tracce di un approccio gradualista della verità nel
testo scotiano, anche se esse non sono forse decisive per dire che Scoto è un precursore
della strategia di Peña: bisogna però sottolineare che l’oggettivismo morale scotiano è diffor-
me dalle scelte di filosofia pratica di Priest, anche se mi pare da escludere che il suo
relativismo morale discenda dalla sua posizione teoretica sulle contraddizioni vere. La
filosofia pratica di Scoto mi pare ben piú vicina a quella propugnata da Peña, e come guida
di lettura io mi rifaccio frequentemente alle griglie elaborate da Peña.
16 Per una breve introduzione all’importanza di questa nozione, A. D. Conti, I
presupposti metafisici del concetto di persona in Scoto, in Etica e persona. Duns Scoto e suggestioni nel
moderno, Bologna 1994. Per una lettura delle tensioni dialettiche veicolate dalla nozione di
16 INTRODUZIONE

patrimonio della fede cattolica. Soprattutto mi sembrava che si aprissero nuove


prospettive sul rapporto tra fede religiosa e filosofia razionale: forse le tesi
ultime di Scoto potevano essere giudicate errate, ma il parallelismo con molta
filosofia del XX secolo mi mostrava che erano razionalmente fondate. La sua
consapevolezza di una unitarietà tra fede e filosofia non era un relitto di un
modo di pensare medievale (e datato): anche oggi vi sono filosofi che consa-
pevolmente, come Plantinga, o inconsapevolmente, come Lewis, mostrano che
la ragione non è in quanto tale alternativa alla fede. Scoto, nel Medioevo,
riteneva che gli argomenti filosofici che spiegavano il patrimonio della fede e la
nostra percezione del mondo esterno ci mostrassero una razionalità superiore a
quella della logica classica.
Mi interrogavo sulle ragioni della divergenza tra san Tommaso e Scoto, e
maturai la convinzione della fruttuosità di una analisi filosofica che si cura in-
nanzittutto della possibilità dei dati fattuali, e poi rinvia alla scoperta della verità
degli stessi dati attraverso altri argomenti – distinti dalla possibilità razionale.
Preferivo nettamente la filosofia di Scoto a quella di san Tommaso, ma non
percepivo quest’ultima come falsa, né quella di Scoto come vera: non mi andava
per nulla di disprezzare san Tommaso, non mi andava per nulla di fare lo sco-
tista che scimmiottasse i peggiori tomisti che furono capaci di gettare alle orti-
che ogni filosofia non conforme al modello originale prescelto. La soluzione era
offerta da tante teorie degli scopi della metafisica: la metafisica spiega i fatti a
partire da un certo sistema assiomatico, asserirli come veri è un’altra faccenda.
Due grandi metafisici del XX secolo, Robin Collingwood 17 e David Lewis 18,
sostenevano una tesi di questo tipo: quando mi resi conto che Scoto aveva
costruito tutta la sua riflessione filosofica su una procedura a due tappe, prima
mostrare la possibilità razionale del fatto, poi asserire se esso si dà veramente, la
mia emozione fu grande. Questo permetteva di introdurre un discorso perfet-
tamente razionale nella materia teologica (è possibile che si dia la Trinità ?), ma
al tempo stesso tagliava le unghie alle preteste veritative del puro discorso razio-
nale (se la Trinità è possibile, anche la Quaternità lo è), per consegnare ad argo-
menti non meramente logico-razionali la verità della Trinità (oppure la sua

persona, che l’autore considera “ambiguità”, “non priva di risvolti paradossali” e “contrasto
disperatamente privo di soluzioni”, mentre io leggo come geniale svelamento della paracon-
sistenza ontologica, Osvaldo Rossi, La persona in Duns Scoto: da creatura a “ultima solitudo”, in
G. Lauriola, Scienza e filosofia della persona in Duns Scoto, Alberobello 1999, 239.
17 Robin G. Collingwood, An Essay on Metaphysics, Oxford 1940, edizione con intro-
duzione di Rex Martin, Oxford 1998.
18 David Lewis, On the Plurality of Worlds, Oxford 1986.
INTRODUZIONE 17

falsità). Grazie ad un invito di padre Luigi Brena, esposi queste mie idee nel
convegno dei giovani ricercatori in memoria di Carlo Giacon, tenuto a Padova
nel 2000, dove presentai una relazione dal titolo chilometrico Dalle modalità
dell'essere all'irrealtà del tempo passando per i futuri contingenti: il prezzo della rinuncia al
tomismo in margine ad alcune annotazioni di Carlo Giacon sul b. Duns Scoto 19. L’espres-
sione chiave era «prezzo della rinuncia»: ogni spiegazione metafisica mira a
spiegare il piú grande insieme di fatti, a me pareva che la metafisica di Scoto
fosse estremamente soddisfacente nel suo spiegare i fatti della fede cristiana e i
fatti della fenomenologia esperienzale in modo unitario, ma il prezzo era
costituito da ipotesi assiomatiche e conclusioni contro-intuitive, tra cui l’irrealtà
del tempo 20. Certo, mi pareva che l’ago della bilancia pendesse in favore di
Scoto, mi pareva che alla fine le conseguenze indesiderabili potessero essere
meglio comprese e riqualificate, ma l’idea era che ogni metafisica ci presentava
un prezzo da pagare, un prezzo ontologico. Facevo allora l’esempio del tomista
Harm J. M. J. Goris 21 che quando analizza l’interpretazione modale offerta da
Simo Knuuttila della filosofia scotiana, la sviluppa a partire dalle tesi onto-

19 Poi pubblicata l’anno dopo, in A. Fabriziani, a cura di, Tomismo ieri e oggi, Gregoria-
na, Roma, 2001.
20 Da questo ne conseguirebbe anche l’ipotesi del viaggio nel tempo, soggetto su cui
Scoto non si sofferma affatto. Ma per una rassegna sulla letteratura in merito a questa possi-
bilità, peraltro sostenuta da autorevoli (ma minoritari) filosofi come Kurt Gödel e David
Lewis, si veda Paul J. Nahin, Time Machines: Time Travel in Physics, Metaphysics and Science
Fiction, New York 19982.
Fornisce delle indicazioni preliminari al dibattito medievale sulla realtà del tempo
Anneliese Maier, Das Problem der Zeit, in Metaphysiche Hintergründe der spätscholastichen Natur-
philosophie, Roma 1955, poi tradotto in Scienza e filosofia nel Medioevo. Saggi sui secoli XIII e XIV,
Milano 1984, ma offre anche una preziosa testimonianza di Guglielmo di Alnwick sulla
posizione di Scoto, secondo la quale “tempus licet habeat esse extra animam materialiter,
formaliter tamen, secundum esse formale, dependet ab anima” (De Tempore, ms. Vat. lat.
1012, fol. 96 rb, citato da Maier a pagina 191 della traduzione italiana). Si noti, come chiarirò
nel seguito attraverso la semantica di “formaliter”, che questa frase mi pare vada interpretata
nel senso che il tempo è indipendente dal nostro intelletto nel mondo attuale e che rispetto
ad ogni mondo possibile è invece dipendente dall’intelletto, ossia in assoluto è soggettivo (e
per Dio non esiste, dato che Dio esiste necessariamente in tutti i mondi possibili) mentre nel
mondo attuale fa parte inevitabilmente della nostra esperienza empirica (noi non possiamo
cambiare il passato, confinati come siamo al mondo attuale, mentre per Dio questo limite è
banalmente insussistente).
Su Guglielmo di Alnwick e il problema del tempo si deve vedere il recente volume di
Guido Alliney, Time and Soul in Fourteenth Century Theology. Three questions of William of Alnwick
on existence, the ontological status and the unity of time, Firenze 2002.
21 Harm J. M. J. Goris, Free Creatures of an Eternal God, Nijmegen 1996.
18 INTRODUZIONE

logiche 1), la negazione della modalità aristotelica, e 2), l’essere che si predica
egualmente di ciò che si realizza come di ciò che non si realizza, per giungere
sino alle sue estreme conseguenze, approdando a 3), all’irrealtà del tempo 22. A
questo punto, già diffidente nei confronti di questa “strana” metafisica scotiana,
non può che considerare: “however, one should add that on Scotus’ model,
time also loses its reality”. Per Goris si tratta di una riduzione all’assurdo della
posizione scotiana. Per lui è meglio quindi dimenticare questo castello di tesi
supposte scotiane nel solco del realismo modale, e ne consegue una debolezza
fatale dell’alternativa scotiana alla soluzione tommasiana, tra l’altro da lui
magistralmente illustrata. Per me, invece, il punto è che la soluzione scotiana
richiede la completa assunzione di 3), che è una tesi necessariamente scotista,
ed è un prezzo che sono ben felice di pagare per credere nel realismo modale.
Se in un senso Scoto non ha esplicitamente negato la realtà del tempo, Goris ha
visto bene nel considerare che uno scotista conseguente jusqu’au bout non può
che approdare a tale negazione. Se l’irrealtà ontologica del tempo ci appare un
prezzo troppo alto, allora non possiamo che concordare con Goris: ma se
siamo disposti ad accettare 3), allora la soluzione scotista si oppone diretta-
mente a quella tommasiana.
La mia interpretazione di Scoto poteva apparire radicale, insomma, perché
ero disposto a pagare un forte prezzo ontologico per un armamentario
metafisico capace di annullare confini pre-determinati tra verità di fede e verità
di ragione, una costruzione piú propria dell’epoca moderna che non di quella
medievale, come hanno visto bene i critici dell’idea che alcuni sostenessero una
dottrina della ‘doppia verità’ 23: molto piú semplicemente, costoro, chiamiamoli
gli averroisti latini, credevano che la verità fosse svelata dalla filosofia, mentre la
religione forniva credenze non analizzabili filosoficamente. In termini contem-
poranei, per costoro la verità filosofica era warranted, quella religiosa no, ossia il
contrario di quella che ha cercato di mostrare oggigiorno Alvin Plantinga 24.
Non trovavo nulla di assurdo nell’irrealtà del tempo, anche se non ritenevo né
che Scoto l’avesse dimostrata, né che fosse dimostrabile da uno scotista. Piut-
tosto, date certe premesse metafisiche attribuibili a Scoto, l’irrealtà ne era una

22 Harm J. M. J. Goris, Free Creatures of an Eternal God, specie alle pagine 257-262.
23 Su questo concetto si veda pure Anneliese Maier, Das Prinzip der doppelten Wahrheit,
in Metaphysiche Hintergründe der spätscholastichen Naturphilosophie, poi tradotto in Scienza e filosofia
nel Medioevo. Saggi sui secoli XIII e XIV.
24 Merita di essere ricordata la sua trilogia sulla giustificazione razionale, che si apre
con Warrant: the Current Debate, New York 1993 e Warrant and the Proper Fonction, New York
1993, e si chiude con Warranted Christian Belief, New York 2000.
INTRODUZIONE 19

conseguenza: o si conservavano quelle premesse e si credeva in tale irrealtà,


oppure si riteneva assurda tale irrealtà e si respingevano le premesse. L’unità
dell’argomentazione razionale, a dispetto delle divisioni secolari tra teologia e
filosofia oppure della frammentazione del sapere filosofico tipico del XX seco-
lo («filosofia di ...» e non piú «filosofia» tout court), mi pareva un fatto da spiegare
che valeva molti asserti ‘inusuali’. E del resto, nella storia del cristianesimo,
quanti mistici hanno mai creduto allo spessore ontologico del tempo ? E Scoto
non era forse cristiano e immerso in una cultura cristiana ?
Mentre riprendevo e facevo mie tesi già esposte in letteratura (come la tesi
secondo cui Scoto nega il principio di bivalenza 25, risalente almeno al prete
polacco Michalski 26, conterraneo e contemporaneo di Lukasiewicz, strenuo
assertore delle logiche polivalenti), mi mancava il passo piú radicale da com-
piere, che pure la mia lettura di Scoto lasciava planare nell’aria che traspariva
dalle mie argomentazioni. Dopo essermi attardato a lungo sulla filosofia pratica
francescana, nelle sue ramificazioni politiche, giuridiche, morali, mi pareva che
proprio nella sfera normativa si celassero delle buone ragioni per rifiutare il
principio di contraddizione: non osavo ancora veramente lanciarmi su una
negazione metafisica di questo principio classicista.
Molte cose me ne hanno dato l’ardire: un prezioso consiglio dello storico
del pensiero economico, politico e normativo (e non solo) Giacomo Tode-
schini, con cui parlai delle mie idee e dei miei progetti, e che mi consigliò di
leggere un libro di Louis Jacobs, Teyku – scoprii cosí che si dà l’esistenza nella
tradizione talmudica di dilemmi morali genuini, ossia di contraddizioni vere; un
seminario dedicato al pensare francescano, tenuto su invito di frate Pio Murat
presso la Fraternità dei Cappuccini di Parigi, in cui, con la soddisfazione
enorme di essere avvolto dalla partecipazione dell’uditorio, ho sviluppato le
strategie lanciate nella relazione di Oviedo – in quell’occasione esposi le rifles-
sioni sul pensare francescano di Orlando Todisco, e i suoi scritti sono stati per
me un’occasione importante di immergermi nella specificità della filosofia
francescana, e vorrei dire che vedo nella sua espressione «lo stupore della
ragione» la cifra di una contraddizione vera, quella di una ragione chiamata a

25 Sebbene non faccia riferimento a Scoto, A. Metha, Impossibility of Two-Valued Logic to


be Universally Valid, in Sorites 12 (2001) 55-59, collega la libertà della volontà alla necessità di
disporre di piú di due valori di verità. Questo argomento non è letteralmente scotiano, dato
che Scoto adotta direttamente un discorso il cui la doppia negazione non afferma e la
bivalenza trova continue eccezioni senza teorizzarne l’impiego, ma è terribilmente scotista.
26 Mi limito a rinviare a Konstanty Michalski, Le problème de la volonté à Oxford et à Paris
au XIVe siècle, in Studia Philosophica 2 (1937) 233-365. Questo scritto è stato raccolto insieme
ad altri lavori dello stesso autore in La philosopie au XIVe siècle. Six études, Frankfurt 1969.
20 INTRODUZIONE

dire tutto che alla fine tace nell’amore; la decisione di lanciarmi sul terreno
dell’ontologia, perché Lorenzo Peña, di cui ammiravo l’impegno giusnaturalista
e il realismo assiologico 27, mi aveva convinto con il suo El ente y su ser, la cui
copia conservata alla Sorbonne ho tanto consultato, che l’approccio paracon-
sistente è un filo costante nella storia della filosofia occidentale; ma la stessa
decisione mi era stata anche favorita da Gabriele De Anna, in tante discussioni
personali, e con l’invito di parlare della concezione scotista della relazione
all’Università di Padova, costringendomi ad elaborare un testo che confluisce in
questo libro, perché la relazione come res è un modello di contraddizione vera -
non l’ho persuaso della bontà teorica della scelta paraconsistente, ma ho tratto
profitto dal suo acume critico; la grande disponibilità concessami nell’utilizzare
le risorse della Bibliothèque Franciscaine della Fraternità dei Cappuccini di
Parigi, che mi ha dato la possibilità di verificare la portata delle mie ipotesi di
lettura scotista con un continuo ripensamento delle fonti scotiane; l’amichevole
offerta da parte di Franco Crispini, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia
all’Università della Calabria, di tenere un ciclo seminariale all’interno dei suoi
corsi, permettendomi cosí di fruire di un favorevole ambiente di lavoro che mi
ha accompagnato nella conclusione della stesura del mio lavoro, ambiente in cui
mi sono giovato dell’interesse e dell’attenzione di Francesca Bonicalzi, alla cui
sollecitazione devo certe mie analisi sulla metafisica ‘angelica’ scotiana del tem-
po e dello spazio, nonché delle lunghe e piacevoli discussioni con Giuliana
Mocchi; infine, il sostegno di Antonella, che con le sue critiche spietate da stu-
diosa aristotelica mi ha mostrato il prezzo da pagare per abbracciare una scelta
paraconsistente, e mi ha indicato che la difesa sincera di una tesi vale qualunque
critica. Oggi, sono persuaso che si danno contraddizioni vere, insieme ad altre
contraddizioni false: Scoto ci mostra una strategia di ricognizione di contrad-
dizioni vere che è diversa da quella di altri autori, ed è su di essa che mi voglio
soffermare.
Questo libro non è un’analisi completa della filosofia di Scoto in chiave
paraconsistente; è solo, e spero di esservi in parte riuscito, una proposta di
lettura paraconsistente di Scoto, focalizzata su alcuni punti tematici. Cerca di
proporsi ad un pubblico di storici della filosofia, fra cui molti storceranno il
naso di fronte ad una stravagante tesi sulla contraddittorietà del reale, anzi sulla
necessaria contraddittorietà del reale; cerca di proporsi alla limitata schiera di
partigiani della paraconsistenza, e spero che non saranno troppi quelli che non
ameranno la continua evocazione della sfera divina e della sua azione del mon-

27 Voglio qui citare due opere fondamentali nella produzione teoretica di Peña,
Fundamentos de ontología dialéctica, Madrid 1987, e Hallazgos filosóficos, Salamanca 1992.
INTRODUZIONE 21

do; cerca di rivolgersi ad un pubblico piú largo, perorando la causa di una


diversa concezione della razionalità, che non sia quella rigidamente riduzionista
e classicista che relega il dato religioso nella superstizione e nelle stravaganze
private dei singoli (che possono comunque essere variabili manipolabili nel
discorso pubblico della politica). A quest’ultimo pubblico vorrei ricordare che
Perelman ha proposto una nouvelle rhétorique negli anni ’50 capace di superare la
logica cartesiana, e al suo interno il principio di contraddizione 28: io, piú che
lanciarmi in formalizzazioni matematiche di cui non sono capace, cercherò di
offrire un piccolo contributo per mostrare che lo sforzo geniale di Perelman
permette di comprendere meglio tanta parte di storia del pensiero umano,
troppo spesso accantonato perché catalogato nel discorso religioso, quindi non-
filosofico. Spero che la lettura dei mistici e degli autori spirituali possa apparire
in una nuova luce a quanti avranno accettato l’esistenza di contraddizioni vere:
la letteratura mistica non diventerà certo filosofia, dato che non accetta una
forma retorica tecnica che è quella dell’argomentazione razionale, ma non sarà
piú distante dalla filosofia di quanto lo è una prosa di Leopardi o un teorema
matematico. Sono diversi tentativi razionali di approdare al vero: io spero di
mostrare che l’argomentazione razionale può occuparsi di Dio, delle norme,
dell’arte, del linguaggio, della felicità umana, del progresso economico,
dell’arretratezza culturale, oppure di tanto altro ancora. Ne è nemica l’ideologia
che non solo pretende di dimostrare tesi vere, ma che il cammino per giungervi
è uno ed uno solo: già è tragico prendere il falso per vero, come dimostrano i
feticci politici di ogni segno che hanno caratterizzato la vita sociale del XX
secolo, ma rende l’errore immutabile la pretesa che il cammino al vero è uno ed
uno solo. L’argomentazione razionale di Scoto può essere molto utile al
credente e al non-credente, ed è una apologia del patrimonio della fede cristia-
na: di sicuro, scontenterà chi crede nel dogma classicista del principio di con-
traddizione, al quale forse nella forma rigida attribuitagli dalla logica formale nel
XX secolo neppure Aristotele aveva veramente creduto 29.

28 Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle


rhétorique, Paris 1958, trad. italiana Trattato dell’argomentazione, Torino 1966. In riferimento poi
al discorso normativo della sfera giuridica si veda di Perelman, Logique juridique, nouvelle
rhétorique, Paris 1976.
29 Quando mi era già inoltrato nelle mie ricerche su Scoto, ho scoperto un eccellente
libro di Enrico Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo 1987, in cui
mostra la vitalità non-dogmatica della dialettica antica e pone illuminanti collegamenti con lo
sviluppo delle moderne logiche paraconsistenti. Come lettore di Scoto, prendo partito in
maniera esplicita dell’approccio paraconsistente; come lettore di Berti storico della filosofia,
22 INTRODUZIONE

Infine, vorrei ricordare la razionalità “classica” di Guillaume Tusseau, che


ha letto con sagace simpatia e ferma critica la versione finale del mio mano-
scritto, e sebbene non abbia potuto rendere giustizia in questo mio volume a
tutte le sue osservazioni, ognuna di esse mi sarà di grande utilità per sviluppi
futuri e per difendere i contenuti di questo libro.

*********

Voglio dedicare questa mia incursione nelle analisi scotiane ad Antonella,


che mi ha accompagnato in un periodo gravido di contraddizioni false della mia
vita, e mi ha aiutato a vedere in una luce ancora piú vivida quella contraddizione
vera che parte dall’amore divino e si consolida nell’amore tra le nostre due
persone che si amano, la nostra minima esperienza del desiderio divino vult alios
condiligere 30. Offrendomi un fine unitario in me stesso, Antonella ha dato a noi
due un fine comune: questo libro sia la testimonianza del mio ricordo felice per
quello che ci ha uniti, e di una fede comune nella promessa del Cielo per la
nostra famiglia. Perché Dio può veramente cambiare il passato, e a me ha dato
il dono di amare ed essere amato in Antonella.

Arcavacata di Rende,
festa del B. Giovanni Duns Scoto 2004

mi sento confortato nel fatto di avere tentato un collegamento con la piú recente riflessione
contemporanea.
30 Camille Berubé, nell’Introduction historique del suo L’amour de Dieu selon Jean Duns Scot,
Porète, Eckhart, Benoît de Canfield et les Capucins, Roma 1997, 13 (ma anche nell’ultima riga,
219), individua in questa espressione latina la cifra intima del disegno provvidenziale divino,
“le plus simple et le plus grandiose qu’on puisse concevoir”.
CAPITOLO PRIMO

APPROCCIO GENERALE
ALLE CONTRADDIZIONI VERE

Deus nullum obligat ad impossibilem; et ideo si sit


aliquis rudis, qui non possit concipere quid est natura, et
quid persona, non est necesse quod habeat actum
explicitum de articulo pertinente ad essentiae unitatem, et
personarum Trinitate distincte .. sed sufficit quod si non
potest talia intelligere, quia nec terminos, quod credat
sicut Ecclesia credit
Opus oxoniense, III, d. 25, q. 1, n. 6

Non sunt impossibilia simpliciter .. scilicet .. includant


contradictionem, quae sola dicuntur esse impossibilia
Deo apud quem non est impossibile omne Verbum ; hoc
est omnis conceptus possibilis in intellectu, qualis est
omnis conceptus in quo non includitur contradictoria
Quodlibet, q. 10, n. 16

I. Credere alle contraddizioni vere rifiutando quelle false

Lo scopo di questo mio saggio è ad un tempo storico e teoretico: una rico-


struzione di storia delle idee e una perorazione in favore della rinuncia all’accet-
tazione incondizionata del principio di contraddizione. Spesso, quando si
avanza una tesi teoretica prima di procedere alla ricognizione storica, si rischia
di fornire una ricostruzione “troppo” orientata. Detto piú brutalmente, si
rischia di trovare ciò che si è immesso nel proprio sacco sin dall’inizio. Tuttavia,
nel caso presente, mi trovo di fronte ad una credenza incondizionata, che è
stata nutrita ed è attualmente sostenuta, verso una tesi che per molti si con-
fonde con la stessa razionalità: questa tesi venne enunciata chiaramente da Ari-
stotele, il quale affermò che una proposizione e la sua negazione (la cui unione
forma lessicalmente una contraddizione) non possono essere contemporanea-
mente e sotto lo stesso aspetto vere (condizione per cui la coppia potrebbe dirsi
vera). Vi è stato chi ha negato la validità di questa tesi, ma lo ha fatto procla-
mandosi “irrazionalista”, asserendo la superiorità del pensiero non-razionale al
modello di razionalità classica – a mo’ di esempio, gli echi acerbamente pole-
24 CAPITOLO PRIMO

mici di san Pier Damiani contro la filosofia dei suoi contemporanei oppure le
asprezze di Ibn Qudama contro la teologia speculativa sembrano andare in
questa direzione (anche se poi la contestazione di quelli stessi stili filosofici può
essere recuperata in una difesa di un’altra e superiore razionalità) 1; vi è stato
poi chi non si è veramente posto il problema della violazione del principio di
contraddizione oppure della bivalenza proposizionale, ed ha invece puntato a
costruire un sistema filosofico ai suoi occhi razionale e vero senza curarsi
troppo delle pur presenti contraddizioni vere – per citare la produzione di un
grande filosofo del XIX secolo, mi pare sia questo il caso della dialettica hege-
liana; un numero ben minore di pensatori hanno negato principio di contrad-
dizione e/o di bivalenza proclamandosi “razionali” in questa loro scelta – si va
dai dialoghi platonici del Parmenide e del Sofista2, si passa per Nicola Cusano e la
sua coincidenza degli opposti 3, per arrivare sino ai cultori di logica formale
contemporanei che hanno posto nel cuore stesso del tempio logico una drastica
limitazione alla validità universale del principio di contraddizione. Lorenzo
Peña ha cercato di scrivere una storia dei pensatori razionalisti che nella storia
della filosofia occidentale negano la validità universale del principio di contrad-
dizione nel suo El ente y su ser 4: anche in altri contesti di tradizione culturale e di
elaborazione filosofica si danno tradizioni consapevolmente paraconsistenti, è il
caso per esempio della logica giainista che tenta la conciliazione tra la logica
dell’idealismo buddhista e la logica del realismo braminico 5. Insisto su questo

1 Per questo pensatore islamico vissuto nella seconda metà del XII secolo rinvio a
George Makdisi, Ibn Qudama’s Censure of Speculative Theology, Cambridge 1962: il tratto saliente
di Ibn Qudama è la riduzione draconiana degli argomenti interpretativi legittimi, fissati alla
cosiddetta “interpretazione letterale” (xvii-xviii). Makdisi sottolinea le analogie tra Tertul-
liano e Ibn Qudama nelle argomentazioni anti-dialettiche (xix).
Il lettore italiano dispone di una recente e sintetica visione d’insieme alla filosofia
islamica dovuta a Massimo Campanini, Introduzione alla filosofia islamica, Bari 2004, e per il
pensiero islamico in generale Giovanni Filoramo, a cura di, Islam, Bari 2002.
2 Segue il percorso da questi dialoghi alla nascita della teologia negativa ed a Cusano

Carlos Steel, Beyond the Principle of Contradiction? Proclus’ “Parmenides” and the Origin of Negative
Theology, in M. Pickavé, a cura di, Die Logik des Transzendentalen, Berlin 2003.
3 Si veda la recente edizione bilingue del primo libro del De docta ignorantia, a cura di J.

M. Machetta, C. D’Amico, Acerca de la docta ignorantia, Buenos Aires 2003.


4 Lorenzo Peña, El ente y su ser, Leon 1986. Si veda pure anche la semplice ma interessante

lista di pensatori paraconsistenti in Introducción a las lógicas no clásicas, México 1993, 14.
5 Per una introduzione generale al pensiero giainista, si veda Carlo Della Casa, Il

giainismo, Torino 1993 (specie il capitolo terzo sulla dottrina, segnata da quello che l’autore
chiama “arcaico realismo” – a pagina 46 – e che si può vedere come un atteggiamento di
realismo estremo ricorrente nei pensatori paraconsistenti, tra cui Alex Meinong – di cui è
APPROCCIO GENERALE 25

termine “consapevolmente”: non si tratta di accettare come “male inevitabile”


un momento contraddittorio nella propria riflessione filosofica, bensí di affer-
mare la propria scelta paraconsistente indicando la necessità di credere che si
diano delle contraddizioni vere, anzi un certo insieme ben definito e deter-
minato di coppie di contraddittori veri (mentre un altro grande insieme di con-
traddizioni sono banalmente false). Questa storia inizia nella filosofia occi-
dentale con Platone, che innanzittutto ha consegnato ai metafisici il problema
dell’ultrarealismo 6, degli universali ante rem, di cui cercherò di mostrare il legame
con l’approccio paraconsistente, dato che mentre il rapporto mimetico (rappre-

centrale la teoria degli oggetti contraddittori che sono (Uber Gegenstandtheorie, 1904, tradotto
in inglese in Roderick Chisholm, Realism and the Background of Phenomenology, Glencoe 1960,
76-117) e il cui pensiero è stato analizzato in un classica raccolta di studi di Richard Routley
– e il nostro Duns Scoto). Si vedano i classici cenni sulla logica non-classica in Th.
Stcherbatsky, Buddhist Logic, ristampa New Delhi 1996, I, 17, 415, 530 (si noti come la stessa
affermazione del principio di contraddizione da parte della scuola classica buddhista celi
differenze consistenti con il significato del principio aristotelico, alle pagine 410-413, tanto
che si potrebbe dire che si tratti di un problema innanzittutto di costanza dell’identità delle
cose); poi Satis C. Vidyabhusana, History of the Mediaeval School of Indian Logic, New Delhi
1977 (19091), b. I, ch. I-II, specie 24-25. In questa stessa opera si menziona Nagarjuna (68-
70), che ha ricevuto l’onore da parte di Graham Priest di essere lungamente discusso nel suo
Beyond the Limits of Thought, Oxford 2002: si tratta di uno dei maestri fondatori di una delle
ramificazioni piú intellettualistiche del monismo estremista buddhista, e i suoi lavori non
sono normalmente catalogati tra la produzione logica stricto sensu del buddhismo, che si
inaugura un paio di secoli dopo di lui, nel VI secolo. In ogni caso, come il gianismo in
un’altra prospettiva e prima del buddhismo stesso, la scuola di Nagarjuna si pone nella
prospettiva della posizione mediana, e il medio tra i contraddittori conduce verso posizioni
paraconsistenti (tra a e non-a si dà un terzo *a). Ma resta il fatto che egli è piú considerato
un distruttore dei sistemi altrui che il propositore di un sistema proprio (Buddhist Logic, 28-
29), tanto da essere considerato un nichilista presso gli stessi buddhisti.
Per un’introduzione generale alla riflessione filosofica indiana, Giuseppe Tucci, Storia
della filosofia indiana, Bari 1977.
6 Nel seguito non esiterò ad attribuire a Scoto una posizione realista in materia di

universali, senza remore nel parlare per lui di una posizione quasi-platonica, con le
distinzioni su cui mi soffermerò a tempo debito. Esiste però una tradizione metafisica che
legge Scoto come scetticheggiante, e nega che egli sia un realista metafisico, giudizio tanto
piú appropriato quanto piú “realista metafisico” è assunto come sinonimo di “tomista”. Ma
questo atteggiamento filosofico è diffuso al di là del cerchio dei tomisti: si può cosí
attribuirgli l’idea che la verità sia una costruzione, non già una scoperta (F. Bottin, Giovanni
Duns Scoto e Robert Musil. Mondi possibili e irriducibilità dell’esperienza, in Etica e persona. Duns Scoto
e suggestioni nel moderno, Bologna 1994, 202), pur riconoscendo francamente che “non sembra
facile accostare le formalitates della filosofia scotista al relativismo contemporaneo” (Etica e
persona, 203). Anzi, è francamente impossibile.
26 CAPITOLO PRIMO

sentativo, ideale) tra l’universale e l’individuo presta il fianco all’argomento del


Terzo Uomo, il rapporto partecipativo lo esclude, ma apre lo spazio della pre-
senza (reale) dell’universale nell’individuo pur essendo all’individuo del tutto
esterno (essendo non-individuale) – da cui una biforcazione, o sottigliezze con-
cettuali e lessicali, oppure l’arditezza radicale e esplicita di operare una scelta
paraconsistente. Se vogliamo indicare un momento originario della problema-
tica paraconsistente, dobbiamo rivolgerci ai passaggi del Sofista e del Parmenide
che hanno tanto arrovellato gli interpreti 7. Peña riscontra prima in Platone una
teoria compiuta dei ‘gradi di esistenza’ 8: in essa si ritrova la tesi per cui il piú
vero è anche il piú reale, la tesi di participazione delle proprietà nel soggetto, il
principio forte del terzo escluso (‘o p, oppure assolutamente non-p’, ovvero
una formulazione che ammette gradi intermedi di verità, mentre la formu-
lazione classica del terzo escluso si presenta come ‘o assolutamente p, o assolu-
tamente non-p’, un tertium non datur che non ammette gradi intermedi). Poi, nei
dialoghi tardivi, Sofista e Parmenide appunto, Platone afferma la tesi di vere e
proprie contraddizioni vere 9. Conclude efficacemente Peña: “Platón acepta la
conclusión de que la participatión acarrea contradicciones, sin por ello verse
compellido a rechazar la noción de participatión” 10. Altro è l’atteggiamento di
Aristotele, che pone l’identità tra l’essenza e l’esistenza 11, mentre Avicenna, tra-
dotto e diffuso in latino nel mondo occidentale in quanto percepito come ago-
stinizzante, lancia nel medioevo un’idea fondamentale 12, quella per cui
l’esistenza è un predicato dell’essenza 13 (idea che apre ai gradi della realtà, sino
ai mondi possibili di Scoto). Ma mentre l’ontologia avicenniana viene recepita

7 Mi limito a delle indicazioni sommarie: per il Sofista, Denis O’Brien, Le Non-Etre,

Sankt-Augustin 1995; per il Parmenide, Alain Séguy-Duclot, Le Parménide de Platon ou le jeu des
hypothèses, Paris 1998; per una visione generale, Enrico Berti, Contraddizione e dialettica negli
antichi e nei moderni, Palermo 1987; Monique Dixsaut, Métamorphoses de la dialectique dans les
dialogues de Platon, Paris 2001.
8 L. Peña, El ente y su ser, 40-41.
9 L. Peña, El ente y su ser, 45-46.
10 L. Peña, El ente y su ser, 49.
11 L. Peña, El ente y su ser, 75-80.
12 Utile è la lettura del breve e denso A.-M. Goichon, La philosophie d’Avicenne et son

influence en Europe médiévale, Paris 1984 (ma conferenze tenute nel 1940).
13 L. Peña, El ente y su ser, 93-145. Tutta l’ampia trattazione merita di essere letta, anche

se i paragrafi piú propriamente consacrati ai rapporti tra essenza e esistenza sono alle pagine
109-120, 124-140.
Djémil Saliba, Etudes sur la métaphysique d’Avicenne, Paris 1926, 78, osserva che Avicenna
riprende una tesi di Alfarabi.
APPROCCIO GENERALE 27

da Scoto epurata da ogni traccia di idealismo 14 e con un’accettazione dell’ultra-


realismo 15 colorata da un penchant per la paraconsistenza 16, egli ne rigetta radi-
calmente quello che percepiva come il suo necessitarismo 17, ponendosi quindi
sulla falsariga di Al-Ghazali contro Averroé 18: quest’ultimo pretendeva che la tesi
di Avicenna derivasse da un fraintendimento grammaticale sulla lingua araba, Al-
Ghazali la faceva invece propria associandola ad un ferreo volontarismo, segnato
dall’onnipotenza divina e dal suo potere di porre in essere le cose 19. Scoto farà
suo l’Avicenna massicciamente colorato di volontarismo da Al-Ghazali 20.
Infine, dobbiamo condurre il nostro sguardo sino ad oggi verso i partigiani
delle logiche formali paraconsistenti, pochi e agguerriti, lo stesso Lorenzo Peña,
Richard Routley, Graham Priest, Newton da Costa, Nicola Grana, per indicare i
piú noti. Quello che mi preme sottolineare è che, sulla falsariga di questi autori,
scelgo come oggetto della mia ricerca non la semplice negazione del principio

14 Avicenna era idealista, come nota giustamente Goffredo Quadri, La filosofia degli

arabi nel suo fiore, Siena 1939, ora Milano 1997, 131, nel senso che arrivava a svalutare la
dimensione empirica della realtà, influenzato dal neo-platonismo.
15 G. Quadri, La filosofia degli arabi nel suo fiore, 132.
16 Per esempio, in Quaestiones metaphysicorum, VII, q. 18, 47-49, ex n. 8, Scoto

argomenta che la dimensione universale (che dice indeterminationis) dell’oggetto individuale


non è determinata né dalla sola res, né dal solo intelletto possibile e conclude “est ergo
natura in potentia remota ad determinationem singularitatis et ad indeterminationem
universalis; et sicut a producente coniungitur singularitati, ita a re agente et simul ab
intellectu agente coniungitur universalitati”. Infine, suggerisce che questa sua posizione, dal
netto sapore paraconsistente, è quella di Avicenna (Metaphysica, V, c. 1, ma soprattutto
Logica, pars 3, f. 12r: “animal est in se quoddam .. in se autem huius nec est universale nec
est singulare”), “natura de se non est universalis nec particularis, sed tantum natura” (per un
confronto con Al-Ghazali si può vedere la sua Logica pubblicata da Ch. F. Lohe in Traditio
21 (1965) 225-290).
17 Si veda G. Quadri, La filosofia degli arabi nel suo fiore, 143-144: “e quello che la volontà

sposa, quel giudizio è per lei necessità .. E fino a che non si manifesta questa necessità la
volontà non ha la forza di decidersi”. Del resto, Avicenna arriva ad attribuire una necessità
d’azione anche a Dio (129-130, 152).
18 Averroè, L’incoerenza dell’incoerenza, Torino 1997, 360, 362-363; B. H. Zedler,

Destructio destructionum philosophiae Algazelis, Milwaukee 1961, 301, 303-304.


19 G. Quadri, La filosofia degli arabi nel suo fiore, 161-162 – Dio “vuole perché vuole”,

173-180 (con rinvio a M. Asin Palacios, La espiritualidad de Algazel y su sentido cristiano, Madrid
1934, I).
20 Mi riferisco alla semantica degli argomenti, anche se poi di fatto Al-Ghazali era

percepito come seguace di Avicenna, a causa del fraintendimento (a causa della premessa in
cui spiega la sua metodologia) della sua Metaphysica – Scoto lo dice sectator di Avicenna in
Quaestiones metaphysicorum, II, q. 4-6, 22, ex n. 3.
28 CAPITOLO PRIMO

di contraddizione: uno scrittore futurista italiano o un artista surrealista francese


negano il principio di contraddizione, facendosi però campioni di una qualche
forma di irrazionalismo. L’oggetto che ricerco, focalizzandomi sulle pagine
scotiste, è la negazione della validità universale di tale principio, che mantiene
una validità locale (altrimenti detto, regionale) in certi ambiti di realtà, non già in
tutti, e che coesiste con l’affermazione universale dell’esistenza di contraddi-
zioni vere. In termini formali, una logica paraconsistente, al fine di evitare la
cosiddetta “esplosione” del sistema che si produce per la classicista 21 deduci-
bilità da una proposizione contraddittoria di qualunque proposizione, esclude
che se A, allora ¬A→B – insomma, rifiuta che ex falso sequitur quodlibet. Se Luka-
siewicz ha ragione nell’indicare che le ragioni piú forti che Aristotele avanza in
favore del principio di contraddizione sono legate alla possibilità della
comunicazione umana, allora è proprio il rifiuto del principio di esplosione che
giustifica la nostra convinzione che il principio di contraddizione abbia una
portata universale 22. Ma se si mostra che non è vero che ex falso sequitur quodlibet,
ossia che la comunicazione umana è perfettamente possibile anche ammettendo
contraddizioni vere (da cui non segue qualunque cosa), allora l’universalità del
principio di contraddizione diventa non-persuasiva.
Scoto dice a proposito della volontà, che realizza contraddizioni vere, “est
possibilitas in voluntate nostra respectu actus volendi – et logica et realis – in

21 Mutuo il termine di “esplosione” dal lessico di Priest, e da lui ricavo la suggestione

di non parlare di logica aristotelica come sinonimo di logica non-paraconsistente che


incorpora il principio di esplosione (si veda Graham Priest, Motivations for Paraconsistency: The
Slippery Slope from Classical Logic to Dialetheism, in D. Batens et alia, a cura di, Frontiers of
Paraconsistent Logic, Baldock UK 2000, 224-225). Lasciando a Priest la responsabilità di
affermare che la sillogistica aristotelica fosse paraconsistente – ma nella convinzione che la
posizione aristotelica fosse ben piú gravida di ricchezza dialettica di quanto l’ingessata vulgata
tardomedievale lasci immaginare – , ritengo comunque preferibile parlare del classicista che
crede al principio di esplosione, considerando che tutti i partigiani della logica classica
contemporanea sono classicisti, e che l’Aristotele logico letto nel medioevo è inteso come
un classicista. In questo senso, discostarsi da Aristotele nel medioevo non significa prendere
posizione sull’Aristotele storico, quanto rifiutare l’Aristotele elaborato nel XII secolo
(Guglielmo di Soissons e la scuola dei Parvipontiniani; si veda pure il rinvio in Graham
Priest, An Introduction to Non-Classical Logic, Oxford 2000, 71, a C. Martin, William’s Machine,
in Journal of Philosophy 83 (1985) 564-572). Per la scuola francescana, opporsi ad Aristotele
significa opporsi a questa immagine medievale, e nel campo logico significa opporsi alla
validità universale del principio di contraddizione: quindi, parlando di Scoto “anti-
aristotelismo” e “anti-classicismo” coincidono.
22 Jan Lukasiewicz, Sul principio di contraddizione in Aristotele, Roma 2003, ed. orig.

polacca 1910, cap. XVII-XX, e la sintesi finale del cap. XXI.


APPROCCIO GENERALE 29

eodem instanti et pro eodem respectu eiusdem”, tanto che questa possibilità è
fattuale in Dio che “unica volitione potest velle opposita obiecta” 23. In altri
termini, l’idea è che la negazione della validità universale del principio di contrad-
dizione è una scelta in favore di un modello di razionalità superiore a quello di chi
gli affida invece una tale validità universale. Già de Vos parlava per Scoto della
difesa originale e consapevole di un nuovo modello di razionalità patrocinato dal
Dottor Sottile, che si riesce a cogliere tanto meglio se si è prima focalizzata
l’opposizione tra la razionalità di Gerusalemme e quella di Atene, in modo da
evitare fraintendimenti come quello di Gilson che riteneva che Scoto desse
troppo spazio alla teologia rispetto alla filosofia 24. In realtà, Scoto propone una
filosofia che non è quella pagana, in alternativa a quella pagana, per lui confutare i
‘filosofi’ indica confutare i ‘filosofi pagani (e paganeggianti)’ e i suoi ‘teologi’ non
sono i nostri ‘teologi’, bensí i filosofi cristiani. Se non si prende atto di questi
possibili equivoci lessicali, ci si invischia nei sistematicamente fuorvianti dibatti
alla Gilson sullo statuto della filosofia cristiana 25, sulla sua possibilità nel rap-
porto tra fede e ragione: come sottolinea de Vos, lo statuto della filosofia cri-
stiana è attestato dall’esistenza degli scritti di Scoto e di altri scolastici medievali.
Nelle analisi scotiane de Vos riconosce come elementi rivoluzionari, nel
senso di motori di un paradigma alternativo, i seguenti: per Scoto l’auto-
evidenza, associata alla non-dimostrabilità, è una superiorità epistemologica –
cosí, il fatto che si possa dimostrare che Dio esiste implica non già una
supremazia della ragione umana, bensí la sua debolezza, dato che per un beato è

23 Lectura I, d. 39, q. 1-5, §§ 53-54. Nella prospettiva paraconsistente e del realismo


modale, questa distinzione 39 è un luogo cruciale, come apparirà nel seguito: io rinvierò
soprattutto alla Lectura rispetto ai luoghi paralleli dell’Ordinatio (testo della d. 39 collocato
come Appendice A) e dei Reportata parisiensia (d. 38 e d. 39 e d. 40) non tanto per ragioni
filologiche, quanto perché di essa esiste un importante commento (e una traduzione inglese)
nel volume collettivo Contingency and Freedom. Lectura I, d. 39, Dordrecht 1994.
24 A. de Vos, Duns Scotus and Aristotle, in E. P. Bos, a cura di, John Duns Scotus (1265/6-

1308). Renewal of Philosophy, Amsterdam 1998, 73-74: “First we have to unhearth the two
philosophies of Athens and Jerusalem and, second, we can handle and solve their
discrepancies in terms of a new type of rationality and Duns was advocating that type of
rationality”.
25 Non intendo affatto dire che si tratti di dibatti non-interessanti, anzi al livello della

storia della cultura sono particolarmente istruttivi: un esempio di questa dimensione


culturale mi sembra sia Paul Vignaux, Philosophie chrétienne et théologie de l’histoire, in L’Homme
devant Dieu. Mélanges offerts au Père Henri de Lubac, III, Paris 1964. Due articoli storiografici che
possono introdurre al dibattito sono Jean Beaufret, Sur la philosophie chrétienne, e Jean-
François Courtine, Gilson et Heidegger, entrambi raccolti in M. Couratier, Etienne Gilson et nous:
la philosophie et son historien, Paris 1980.
30 CAPITOLO PRIMO

auto-evidente che Dio esiste, e quindi non-dimostrabile 26 – de Vos riassume


questo difetto filosofico dei tempi moderni (l’indimostrabile ha un valore filo-
sofico limitato) nell’espressione “fallacia modale”, oppure “arbitrarietà delle
ipotesi”; a partire della contingenza radicale del creato, Scoto dissocia le nozioni
di “conoscenza certa” e di “necessità” (tutta la conoscenza certa che verte su
fatti umani è relativa alla contingenza, non alla necessità, e la stessa onniscenza
divina verte sulla contingenza) e pure le nozioni di “ragionamento deduttivo” e
“verità” (si può accedere alla verità per intuizione diretta, ed è una modalità
superiore a quella deduttiva, che parte da una situazione di inferiorità di accesso
epistemologico ai dati fattuali) 27. Io, aderendo in pieno alle analisi di de Vos,
vorrei aggiungervi anche l’adesione ad una logica paraconsistente.
L’idea, per noi oggi, è che occorre abbandonare la falsa concezione di certa
filosofia analitica novecentesca che vedeva nella logica un terreno franco di
consenso universale: solo adeguati argomenti ontologici possono spingerci ver-
so un sistema di logica o verso un altro, verso un modello di razionalità o verso
un diverso e altro schema 28. L’ontologia mi pare si debba imporre in quanto
preminente rispetto alla formalizzazione, per l’osservazione forse banale che la
formalizzazione in quanto formalizzazione è un gioco intellettuale avulso da ciò
che vi è; ma ancora di piú della mia impressione, è importante constatare che il
movimento di rifiuto di ontologie misere e di apologie della meta-filosofia sia
sempre piú consistente e diffuso nel mondo filosofico alla fine del XX secolo 29.

26 A. de Vos, Duns Scotus and Aristotle, in E. P. Bos, a cura di, John Duns Scotus (1265/6-
1308), 72-73.
27 A. de Vos, Knowledge, Certainty and Contingency, in E. P. Bos, a cura di, John Duns Scotus

(1265/6-1308), 87. Si badi che il principio “se A conosce p, allora p è necessario” è falso, e
con esso le fondamenta stessa della filosofia aristotelica.
28 Mettendo tra parentesi la mitizzazione della Ragione, che è una forma di

esclusivismo di un unico modello di razionalità che si consolida da Descartes all’Illuminismo


– a dispetto delle critiche alla nozione di Idea come rappresentazione di Berkeley e della
critica radicale che ne ha fatto Hume, mi pare utile vedere la sobria e pacata critica che
conduce l’economista e informatico Herbert A. Simon (La ragione nelle vicende umane, Bologna
1984, ed. orig. Reason in Human Affairs, Stanford 1984) contro tutti i modelli di razionalità
che pretendono di configurarla in maniera indefettibile, negando che la razionalità umana si
costituisca invece attraverso “fragilità” strutturali (quelle che per un filosofo cristiano
derivano dal Peccato Originale, cui allude anche Simon, La ragione nelle vicende umane, 36).
29 Seguo le indicazioni di un classicista come Sergio Galvan, Non contraddizione e terzo

escluso. Le regole della negazione nella logica classica intuizionistica e minimale, Milano 1997, 135. Non
seguo invece la sua ripartizione tra un approccio realista dei partigiani della logica classica e
un approccio costruttivista dei partigiani della logica non-classica (136): ci sono partigiani
della logica classica che sono nominalisti (oggi Quine, nel medioevo Ockham), ci sono
APPROCCIO GENERALE 31

Riprendendo lo scontro medievale tra Averroè e Al-Ghazali, foriero di tanti


accanimenti anche nel mondo cristiano medievale, non si tratta di vedervi il
razionalista Averroè in lotta con il fideista (“irrazionalista”) Al-Ghazali; si tratta
invece di vedervi uno scontro tra un modello di razionalità – incompatibile prima
facie con la fede in un Dio personale trascendente – sostenuto da Averroè, e un
altro modello di razionalità 30 – compatibile prima facie con la stessa fede – soste-
nuto da Al-Ghazali 31. E se Al-Ghazali afferma che un Dio limitato dal principio
di contraddizione non è affatto Dio (ossia, afferma l’esistenza di contraddizioni
vere), non per questo si colloca tra gli irrazionalisti 32: inoltre, non è necessario
professare una fede in un Dio personale trascendente 33, come fanno Al-Ghazali

partigiani della logica non-classica che sono realisti (oggi Peña, a suo modo Routley, nel
medioevo Scoto). Mi pare che lo stesso Galvan usi la sua ripartizione a fini esemplificativi
rispetto all’oggetto del suo libro, le logiche intuizionistica e minimale, tanto che cosí essa
funziona. Non la si deve però generalizzare a tutte le forme di logica non-classica:
nondimeno, Galvan coglie correttamente che l’ultrarealismo (ante rem, ma anche formaliter a
parte rei) si associa all’approccio non-classicista.
30 Non si può trascurare che in un’opera recente Alvin Plantinga (Warranted Christian

Beliefs, Oxford 2000) ha mostrato con efficacia che la credenza in Dio sia razionalmente
costituita e garantita. La premessa generale di questo volume è il suo Warrant and Proper
Fonction, Oxford 1993, in cui difende il modello espistemologico che trae ispirazione dal
filosofo settecentesco Thomas Reid (il quale, tra le altre cose, condanna la concezione
moderna della idea come rappresentazione sotto l’etichetta di way of ideas, che ritiene portata
ai suoi estremi assurdi da Hume e Berkeley – su quest’ultimo ha scritto pagine illuminanti
Hilary Putnam, Ragione, verità e storia, Milano 1985, cap. 3 – ed. inglese 1981).
31 Si veda nella letteratura piú recente, Richard M. Frank, Al-Ghazali and the Ash’arite

School, Durham 1994, o lo studio assai indulgente verso l’islam sciita piú rigido di Farouk
Mitha, Al-Ghazali and the Ismailis, London 2001; e le premesse in George Makdisi, Ibn ‘Aqil.
Religion and Culture in Classical Islam, Edinburgh 1997. Per lo stile polemico e quindi sulla
teoria dell’argomentazione interpretativa, Fatallah Kholeif, A Study on Fakhr Al-Din Al-Razi
and his controversies in Transoxiana, Beyrout 1984, e per un panorama generale Josef van Ess,
The Logical Structure of Islamic Theology, in G.E. von Gruenbaum, a cura di, Logic in Classical
Islamic Culture, Wiesbaden 1970, 21-50.
32 M. Campanini, Introduzione, in Averroè, L’incoerenza dell’incoerenza, 23. La citazione

riportata da Campanini è tratta da O. Leaman, Was Averroes an Averroist?, in Averroism im Mittel-


alter und in der Renaissance, Zürich 1994, 20-21, anticipato da Husayn Ahmad Amîn, Hawla ad-
Da’wah ilâ Yatbîq as-Sarî’ah, Beirut 1984, 89-100. Per le premesse del dibattito sull’onnipotenza
nell’Islam, Albert N. Nader, Le système philosophique des Mu’tazila, Beyrouth 1984.
33 Sembra sostenere che la credenza in un Dio personale (e quindi corporeo) comporti

la violazione del principio di contraddizione Jonathan Barnes, The Ontological Argument,


London 1972, 84. Barnes ne ricava che non si dà un Dio, dato che dovrebbe essere
corporeo e incorporeo; questa può invece essere un’eccellente ragione per liquidare la
formulazione classicista del principio di contraddizione.
32 CAPITOLO PRIMO

o Duns Scoto, per prendere atto che con gli strumenti della logica contempora-
nea si è potuto mostrare che un sistema formale che ammette contraddizioni
vere è perfettamente razionale, ma non della razionalità voluta da Averroè 34
oppure, oggi, da Quine (anche se ovviamente, non lo si è dimostrato: chi vuole
continuare a pensarla come Quine, può tranquillizarsi, non per questo sarà
etichettato dai paraconsistenti come irrazionale 35). E se Al-Ghazali ha un
sistema filosofico diverso da quello di Scoto, questo rinvia al fatto che i due
non trovano persuasivi gli stessi argomenti in favore di questa o quella con-
traddizione vera (ossia una coppia di contraddittori che sono in quanto coppia
veri): per Scoto la Trinità è un fatto reale, quindi Dio è una persona (Uno) e
Dio non è una persona (Trino); per Al-Ghazali, la Trinità non è un fatto reale,
quindi “Dio è una persona e Dio non è una persona” è una proposizione falsa,
non già per essere semplicemente contraddittoria, bensí perché è quella-
contraddizione-lí per cui non si hanno, ai suoi occhi di musulmano sufista,
buone ragioni per riconoscerla vera. Brevemente, ciò significa che tra ogni
autore che accetti una logica paraconsistente come modello di razionalità si
daranno differenze di sistema filosofico in relazione agli argomenti accettati per
stabilire che la contraddizione {x}, composta da una coppia di contraddittori (e
la realtà X ad essa associata, uno stato di cose composto da due contraddittori)
è vera, oppure no. Penso che tutti gli autori che credono in un Dio personale
trascendente e optano per una logica paraconsistente accettino almeno la
seguente contraddizione vera: Dio è nel mondo e Dio non è nel mondo. In altri
termini, l’esistenza di Dio è un’eccellente ragione per rifiutare il dogma (come
dice Routley) della non-contraddittorietà del mondo 36. Ma nelle pagine seguenti
io mi limiterò ad esporre il pensiero di Scoto, e a mostrare ciò che altri
pensatori paraconsistenti possono condividere con lui. Occorre però introdurre
da subito una precisazione: sebbene spesso si leghino il principio di bivalenza
(tertium non datur) al principio di contraddizione, in realtà i due principi non si
implicano necessariamente a vicenda. Giustamente, si dicono paraconsistenti i
sistemi logici che non assumono come tautologia la negazione di una qualunque

34 Scoto non risparmia insulti ad Averroè, come emerge nei testi restituiti in edizione

critica, ma qui voglio ricordare che in Lectura, III, d. 14, q. 1-2, § 81, considera il suo metodo
filosofico truffaldino. Mi pare un giudizio chiaro sul modello di razionalità proposto dal
filosofo arabo.
35 Richard Routley, Relevant logics and their rivals 1, Atascadero Ca 1982, 18: la strategia di

Quine è liquidata come “extraordinarily narrow”, un’ontologia misera.


36 R. Routley, Relevant logics, 58-59: Routley non accoglie Dio nelle ragioni per la sua

scelta paraconsistente, e si limita a sottolineare che la non-contradittorietà del mondo non


può essere decisa empiricamente (62), quindi la sua negazione è empiricamente possibile.
APPROCCIO GENERALE 33

contraddizione, e si dicono paracompleti i sistemi logici che non assumono


come tautologia la formula a∨¬a (o si dà a, oppure si dà la sua negazione) 37.
Sinora ho alluso alle ragioni metafisiche che possono fare optare per una scelta
paraconsistente: mi pare che proprio le ragioni metafisiche (ontologiche e
epistemologiche) possano spingere in questa direzione. Nella riflessione di
Scoto, vi sono anche ragioni per una scelta paracompleta, in particolare nella
riflessione morale: l’analisi del linguaggio e della fenomenologia morali lo indu-
cono a escludere che la doppia negazione equivalga all’affermazione (chi non è
mio nemico non per questo è mio amico), a formulare quindi una semantica
che distingue tra due sensi di negazione, a negare insomma in certi domini il
principio di bivalenza 38. Questo tema ritorna anche a proposito della giu-
stificazione morale di Maria: interrogandosi sulla ragionevolezza dell’Imma-
colata Concezione, Scoto osserva che nel primo istante della sua vita ella non fu
né giustificata (iusta), né non giustificata, dato che dal fatto che non fosse
giustificata, non segue validamente che fosse non-giustificata, “quia neutrum
illorum essentialiter includit” 39. In altri termini, non si applica il principio di

37 Per esempio, la Prefazione di Newton C.A. da Costa in Nicola Grana, Contraddizione e


completezza, Napoli 1990, 9; si veda pure dello stesso da Costa il piú recente O Conhecimento
Científico, São Paulo 1999, 85-96.
38 Gli esponenti della concezione intuizionistica della matematica (detta anche

costruttivismo) negavano che la doppia negazione affermasse, e questo li conduceva a esclu-


dere la dimostrazione per assurdo dall’insieme delle dimostrazioni valide (dibattito sui
fondamenti dell’aritmetica dell’inizio XX secolo). Tuttavia, essi accettavano la formulazione
classica del principio di contraddizione e di bivalenza: per un’analisi della logica intui-
zionistica si veda S. Galvan, Non contraddizione e terzo escluso, specie 109-121.
Nella storia della logica indiana si ritrovano due concetti di negazione, non già
alternativi, bensí contemporaneamente presenti e validi nel discorso logico (si veda Daniel
H. H. Ingalls, Materials for the Study of Navya-Nyaya Logic, New Delhi 1951, 54-55, 68-69; Bani
Sengupta, Negation in Intuitionistic Logic and Navya Nyaya, New Delhi 2001): anche questo
conduce a negare che la doppia negazione affermi, dato che occorre prima saper di quale fra
i due tipi di negazione si tratti.
Per un’analisi del ruolo cruciale di una concezione non-classica della negazione nella
prospettiva paraconsistente, si veda Jean-Yves Béziau, What is Paraconsistent Logic?, in D.
Batens et alia, a cura di, Frontiers of Paraconsistent Logic, 106-107, e soprattutto Lorenzo Peña,
Introducción a las lógicas no clásicas, 47, 85-98. Senza dimenticare Graham Priest, A Defence of a
Dialetheic Account of Negation, in D. Gabbay, H. Wansing, a cura di, What is Negation?,
Dordrecht 1999, e pure Graham Priest, Beyond the Limits of Thought, Oxford 2002, 272-274.
39 Opus oxoniense, III, d. 3, q. 1, n. 18; Reportata parisiensia, III, d. 3, q. 1, n. 10; Lectura,

III, d. 3, q. 1, § 41. Il rinvio naturale è a Opus oxoniense, I, d. 4, q. unica (ricavato dai Repor-
tata), e ai luoghi paralleli di Lectura e Reportata parisiensia: nel contesto dell’Immacolata Conce-
zione Scoto spiega come gli opposti “privative” formino un’impossibilità esattamente come
34 CAPITOLO PRIMO

bivalenza e negare che Maria fosse giustificata nel primo istante (tesi di Scoto)
non equivale a dire che essa fosse non-giustificata. Scoto argomenta in maniera
ambigua dicendo che non-essere-un-legno-bianco non equivale a essere-un-le-
gno-non-bianco, dico ambigua perché è difficile per un personalista cristiano
come lui sostenere che “Maria” è un termine composto come “legno bianco”
(Maria è il nome proprio di una persona metafisica, e per dire Maria non è H
dobbiamo essere sicuri che quella persona sia proprio Maria, mentre legno è il
nome generico di un oggetto che potrebbe anche essere un fungo o che altro).
Infatti, è evidente che entro la logica classica per non-essere-un-legno-bianco si
può essere un vaso-nero, ma non si vede immediatamente come scomporre
“Maria”, dato che la persona metafisica è incomunicabile – ossia una realtà ulti-
ma, e quindi per Maria non-essere-giustificata sembrerebbe proprio equivalente a
essere-non-giustiticata (se stessimo parlando di Giuseppe, allora per lui varrebbe
che non-essere-giustificato equivale a essere-non-giustificato). A meno che, ov-
viamente, non valga la bivalenza perché si danno piú di due valori di verità,
ossia vi sono due tipi di negazione 40; a meno che non si riconosca formal-
mente, come è banale constatare nella fenomenologia del discorso morale quo-
tidiano, che la doppia negazione non afferma. E cosí si esce dalla logica classica.
Certo, anche nell’analisi dei futuri contingenti Scoto esclude l’applicabilità
del principio di bivalenza, ma anche qui la ragione fondamentale è morale, dato
che la persona umana è agente produttore di contingenza, quindi capace di atti
suscettibili di semantizzazione morale. Quindi, due opzioni in assoluto capaci di
essere indipendenti, la paraconsistenza e la paracompletezza, si unificano nel
pensiero di Scoto e producono quella che si definisce una logica non-aletica (si
prenda questo nome convenzionale come una metafora efficace del fatto che la
verità degli uomini non è la Verità di Dio, dato che gli uomini possono illudersi
che il nostro mondo attuale sia la totalità del reale, e che sebbene Dio mostri
cose nascoste dall’origine dei tempi gli uomini continuano a non vederle).
Ma in Scoto si delinea anche una logica rilevante, ossia un sistema che
rifiuta la nozione di implicazione logica classica, schematizzata nelle tavole di
verità di Wittgenstein: si deve sottolineare che la stessa distinzione tra “infe-
renza” (legata alle tavole di verità) e di “implicazione materiale” (non forma-

i contraddittori (sono in gioco il ‘peccato’ e la ‘grazia’, tra cui vale una evidente distinzione
formale). In effetti, la negazione “privative” permette di formare una Super-Contraddizione.
40 Il commento dell’edizione Wadding (post n. 18, n. 5) è particolarmente contorto

nella sua prima parte – tesa a salvare l’osservazione di Scoto sui nomi composti, ma nella sua
parte finale considera piú perspicuamente che si danno modi diversi della negazione,
sciogliendo cosí il nodo della paraconsistenza.
APPROCCIO GENERALE 35

lizzabile con le tavole di verità, quindi con un legame semantico tra premessa e
conseguenza) è rifiutata in una prospettiva che rifiuta la separazione rigida tra
linguaggio e mondo, come è quella scotista. Linguaggio formale e linguaggio na-
turale obbediscono – devono obbedire – alle stesse regole di deduzione, di infe-
renza, di implicazione (i nominalisti logici del XX secolo affermano il contrario).
La validità dell’implicazione logica non dipende solo dal valore di verità della
premessa e della conseguenza (nella logica classica la seguente inferenza “se Luca
Parisoli è un angelo, allora si deve andare a messa” è valida, e il fatto che sia
insensata dovrebbe essere irrilevante). Richard Routley ha strenuamente difeso la
logica rilevante nel nostro secolo, e l’ha associata alla costruzione della logica
paraconsistente 41: egli ha stigmatizzato la truth-copulation fallacy 42, un altro caso in
cui il classicista vorrebbe farci credere nell’insensatezza (dato che la premessa è
vera e la conseguenza pure, l’inferenza è valida – “Luca Parisoli è italiano, allora il
mare è salato”); ha messo in luce la circolarità della presunta virtú dell’im-
plicazione logica di non permettere di passare validamente da una proposizione
vera ad una falsa 43; ha sottolineato come il concetto di negazione della logica
classica sia non solo riduttivo, negando la duplicità prima facie di questo concetto,
ma pure secondario e contro-intuitivo rispetto alla negazione rilevante, tanto da
produrre una nozione distorta di implicazione logica 44. Egli indica nel connes-
sionismo (l’idea secondo cui A non può mai implicare la sua negazione) 45 una
lettura boeziana di Aristotele che ha separato tragicamente la logica classica dai

41 R. Routley, Relevant logics; l’opera brulica di riferimenti, ma si può vedere per esempio
alle pagine 66-67 la conclusione di un capitolo in cui la paraconsistenza è mostrata distinta
dalla inintelligibilità, dall’irrazionalità, dalla disorganizzazione.
42 R. Routley, Relevant logics, 14-15.
43 R. Routley, Relevant logics, 51-52.
44 R. Routley, Relevant logics, 127-137: “classical negation is a depauperate one-

dimensional concept which distorts natural language” (127); “negation is a logical


determinable” (137). La negazione classica non rispetta le qualità del linguaggio naturale. In
effetti, a parte le costrizioni normative delle grammatiche scolatiche, basta leggere della
letteratura di vario tipo o conversare su ogni registro linguistico per rendersi conto che le
tavole di verità logiche disegnano un concetto di negazione che non è quello del discorso
umano corrente. E i classicisti se ne vantano pure.
45 Se può essere persuasivo dire che se A, allora non è vero che non-A, il connes-

sionismo pretende anche che se A e C, allora non è vero che non-A. Ma se io sono buono,
non è vero che sia cattivo, può essere accettabile in una certa misura, anche se la realtà non è
mai cosí dicotomica (e spesso le persone sono buone e cattive): tuttavia, se io sono buono
(A) e qualcuno ha ucciso mio figlio, non sembra proprio assurdo concludere che lo spirito di
vendetta mi rende non-buono (non-A). Fuori da una prospettiva riduzionistica, il connes-
sionismo mi pare ovviamente falso.
36 CAPITOLO PRIMO

fatti del linguaggio naturale: anche qui la formazione del dogma classicista
implicherebbe un impoverimento della ricchezza dialettica di Aristotele 46.
Riunendo le fila, in questo modo la concezione non-classica della negazione (la
negazione di A non è sottrazione o cancellazione effettuata su A), il non-
connessionismo e la rilevanza dell’inferenza logica mostrano un’unità razionale
che sfocia sulla paraconsistenza 47.

II. Un’interpretazione unitaria di fede e ragione

Da un lato, vorrei quindi mostrare come la strategia filosofica di Duns


Scoto si inserisca in una tradizione – multiforme al suo interno, ma – che consi-
dera riduttivo e inappropriato attribuire validità universale al principio di con-
traddizione, senza però privarlo di una validità locale o regionale (per esempio:
Scoto considera che ciò che è contraddittorio per gli uomini in questo mondo
attuale non lo è invece per Dio, ma ciò nonostante esistono anche delle Super-
Contraddizioni per Dio; Hegel, invece, fa della contraddizione una struttura
fondamentale della realtà storica, tanto che l’identificazione delle contraddizioni
reali permette di comprendere la storia dell’umanità 48). Non mi propongo di
ricostruire puntualmente la tradizione religiosa paraconsistente, impresa enorme
perché dovrei spaziare all’interno delle analisi di numerosi filosofi che si
collocano nel panorama della fede in un Dio personale trascendente. Vi si tro-
vano filosofi cristiani come san Pier Damiani o Gilberto di Poitiers, vi si incon-
trano kabbalisti e talmudisti ebraici, e certo teologi musulmani, ma anche filo-
sofi del buddhismo zen radicale. Cercherò invece di mettere in luce la posta in
gioco che un approccio paraconsistente riveste per chi voglia dotare di argo-
mentazioni razionali la credenza in un Dio personale trascendente: Scoto sarà il
mio caso storico, sostenitore di una paraconsistenza metafisica e pure morale, la
cui conseguenza piú interessante è quella che già i talmudisti indicavano con il
termine teyku, ossia l’esistenza di genuini dilemmi morali 49. Detto piú esplici-
tamente, dato un sistema normativo, completo di assiomi e regole, per quanto

46 Lorenzo Peña notava (El ente y su ser, 176) che Scoto manifesta una posizione

connessionista e rilevantista dell’implicazione logica.


47 R. Routley, Relevant logics, in particolare 90-94.
48 Per la ricomprensione dell’idea di negazione rispetto al reale, e l’incomprensione di

questa strategia da parte di chi si colloca nell’ortodossia aristotelica, si veda l’appendice consacrata
a Trendelenburg in Cristina Rossitto, Studi sulla dialettica in Aristotele, Napoli 2000, 347-366.
49 Per una disamina della nozione di dilemma morale rinvio alla raccolta curata da

Cristopher W. Gowans, Moral Dilemmas, Oxford 1987.


APPROCCIO GENERALE 37

esso possa descrivere efficacemente una parte considerevole della nostra espe-
rienza morale, si danno al suo interno della fattispecie, ossia delle situazioni, in
cui ci sono buone ragioni per compiere un’azione esattamente come ci sono
buone ragioni per non compierla, anzi si può dire che sia obbligatorio compierla e
obbligatorio non compierla. Constatare che si verificano situazioni del genere è
un’osservazione piuttosto ovvia, si tratta di casi in cui gli strumenti interpretativi
mirano ad ottenere la soluzione giusta di fronte allo stallo considerato meramente
apparente e rimovibile. Ma se lo si considera un dilemma morale genuino, allora
non c’è soluzione giusta: o si può uscire dal sistema morale, iniettandovi nuovi
assioimi o nuove regole, oppure, se non lo si può fare (come per la Torah orale,
che non può essere modificata dagli uomini), bisogna riconoscere l’esistenza di un
dilemma morale, di un teyku, di una contraddizione normativa vera.
La struttura ontologica del volontarismo normativista scotiano mostra la
fonte strutturale dell’esistenza di contraddizioni normative vere: essa, per anti-
cipare le discussioni a venire, risiede nella assoluta contemporanea legittimità
della volontà normativa divina espressa in forma generale e poi espressa in for-
ma specifica per ciascuno di noi. Se i contenuti delle due volizioni divergono, si
produce una contraddizione vera: non è una necessità, dato che le volizioni
sono atti assolutamente liberi, ma è una possibilità reale, e soprattutto inelimi-
nabile (pena distruggere la libertà della volontà).
Dall’altro lato, vorrei che il mio lavoro fosse di una qualche efficacia per-
suasiva verso chi opera su altri autori della tradizione scolastica medievale, o su
altri pensatori di altre tradizioni religiose, e piú in generale su altri filosofi di ogni
epoca e latitudine: una difesa teoretica della scelta paraconsistente è la chiave per
evitare l’argomento dell’eliminazione delle mostruosità e costruire una ventura
storia della filosofia paraconsistente. Cosa intendo per eliminazione delle mo-
struosità? Si tratta di una strategia argomentativa che consiste nella eliminazione
sistematica di argomentazioni che violano una concezione classica del principio di
contraddizione, in quanto, appunto, mostruosità. Poniamoci, per assurdo, nell’ot-
tica della logica classica; se qualcuno afferma che necessariamente Dio è nel mon-
do e Dio non è nel mondo, allora o Dio gode di una sola delle due proprietà, op-
pure Dio non gode di nessuna delle due proprietà (come sembra essere a volte il
caso del Dio della teologia naturale), oppure ancora Dio sarebbe un oggetto con-
traddittorio, e quindi non esisterebbe. Infatti, è mostruoso affermare una contrad-
dizione vera: se essa discende necessariamente da una credenza – perché
considerata irrinunciabile, allora tale credenza va rimossa. Poniamoci ora nell’ot-
tica paraconsistente, e ancora ammettiamo di credere che credere in Dio implica
tale contraddizione vera: siamo di fronte ad un argomento contro la validità uni-
versale del principio di contraddizione. I contorni della lotta tra “classicisti” e
38 CAPITOLO PRIMO

“paraconsistenti”, già spesso delineati in letteratura, sono tutti qui. Voglio solo
sottolineare ancora una volta che aderire alla tesi paraconsistente (“il principio di
contraddizione non ha validità universale”) non implica aderire alla credenza nello
stesso insieme di contraddizioni vere: Platone, Scoto e Hegel sono filosofi
paraconsistenti, ma le loro filosofie sono sensibilmente diverse. C’è chi ha spinto
la propria concezione paraconsistente sino a preconizzare un pluralismo radicale
delle tesi filosofiche (un “plurallism” con doppia ‘l’), in cui i sistemi paracon-
sistenti non sono alternativi, ma convivono filosoficamente (insisto sul filoso-
ficamente, nel senso che si tratta di una tesi teoretica che si muove su un altro
piano rispetto alla convivenza pratica, che riguarda la questione morale della
tolleranza). E’ stato Richard Routley, uno dei grandi sostenitori della logica rile-
vante e paraconsistente nel XX secolo, che ha firmato con il suo nuovo nome di
Richard Sylvan l’ultima opera apparsa postuma, Transcendental Metaphysics (Cam-
bridge, 1997) 50. Io non credo di poterlo seguire nella sua strategia, per persua-
sione personale e anche perché dovrei abbandonare il terreno della storia delle
idee che voglio perseguire esaminando Scoto, per impegnarmi su un terreno
esclusivamente teoretico, cosa che non intendo fare. Vale però la pena di notare
che Sylvan considera lo scetticismo e il relativismo posizioni inammissibili, men-
tre le altre posizioni sono in qualche senso vere, ossia ammissibili, sino a quella
che ingloba tutte le altre 51. Questo per sottolineare che la paraconsistenza è una
strategia che rifugge dal nominalismo per la semplice ragione che, sebbene perse-
gue nei suoi esponenti del XX secolo la precisione dello stile analitico, ne rifiuta
radicalmente l’elevazione del linguaggio a solo universo filosofico esplorabile 52.
Voglio qui proporre una sinopsi preliminare – espressa in modo radicale e
spero onesto – della scelta paraconsistente di Scoto, che si fonda su una
ontologia lussureggiante53, per riprendere l’immagine naturalistica che Routley

50 Si noti che Sylvan ritiene che comunque la sua posizione metafisica favorisca la

tolleranza – Transcendental Metaphysics, Cambridge 1997, xxviii, 455-465.


51 R. Sylvan, Transcendental Metaphysics, 22-23, 32.
52 R. Sylvan, Transcendental Metaphysics, xi, in nota.
53 Penso che questo aggettivo sia particolarmente adatto per evocare efficamente la

natura dell’ontologia scotista, tuttavia sarebbe un equivoco sistematico quello di pensare che
Scoto non si ponga affatto la premura di rispettare un principio di economia ontologica,
quale pluralitas non est ponenda sine necessitate. Lo invoca spesso, e lo applica spesso (voglio solo
citarne una formulazione che accomuna il mondo naturale e sovrannaturale, Reportata
parisiensia, IV, d. 10, q. 4, n. 1: “numquam est ponenda multitudo sine necessitate in
operibus miraculosis, sicut nec in operibus naturae” – il testo è quello di un’obiezione alla
tesi scotista, ma nella sua risposta Scoto non contesta il principio di economia, anzi spiega
che esso va nella sua direzione perché altrimenti si cadrebbe in una Super-Contraddizione):
APPROCCIO GENERALE 39

utilizza a proposito dell’ontologia di Meinong 54, già studiato in un’opera


pioneristica di Hubert Elie in rapporto alla riflessione medievale di Gregorio da
Rimini 55. Questa lussureggiante ontologia comporta una ridefinizione semantica
dell’identità tra il “reale” e l’“esistente”: le scelte terminologiche possono varia-
re, ma l’ultra-realista crede che si diano cose non-esistenti e comunque dotate di
un grado di realtà 56, ed è quindi nella posizione di rifiutare l’identità (riduttiva)
tra il reale e l’esistente. Questo può fare aggrottare le sopracciglia, oppure essere
considerato incomprensibile 57: ma per altri questo è semplicemente la vera
descrizione del mondo 58. E’ una ontologia che può essere compresa solo in una
prospettiva non-nominalistica della tesi dei mondi possibili 59: essi non sono

il punto sta nella configurazione della ‘necessità’ e il principio di economia ontologica è


passato nell’immaginario storiografico come rappresentato dalla concezione di Ockham.
Questa concezione nominalistica è invece assai meglio rappresentato dall’espressione “ra-
soio di Ockham”, meglio evocante il drastico riduzionismo di Ockham: infatti, mentre Scoto
si pone la necessità di rendere conto metafisicamente dei fatti della fede cristiana, e vi riesce
con una ontologia realistica dei mondi possibili, Ockham assume la necessità del brutal-
mente empirico e consegna i fatti della fede alla non-filosofia, e inevitabilmente, Ockham
stesso o i suoi partigiani piú nominalisti del maestro, al fideismo.
54 Richard Routley, Exploring Meinong’s Jungle and Beyond, Canberra 1980. Ma la

soluzione ontologica di Meinong non coincide affatto con quella di Scoto, che va interpetato
risolutamente nella direzione della teoria realista dei mondi possibili.
55 Hubert Elie, Le complexe significabile, Paris 1936, ristampato con un nuovo titolo, Le

signifiable par complexe, Paris 2000 (le ragioni che hanno spinto a cambiare il titolo voluto dal-
l’autore facendone la traduzione in francese, che Elie dava nel corpo dell’Introduzione,
hanno a che fare con la non-familiarità con la lingua latina nella cultura contemporanea).
L’opera, a dispetto dei cambiamenti storiografici intervenuti, si presenta di grande interesse
nel panorama dell’affermazione dell’attualità della filosofia medievale: in essa si mostra
ottimamente come il realismo di Gregorio da Rimini sia simile a quello di Meinong, da cui
ne posso inferire che sia diverso da quello di Scoto e quindi Scoto non sia omogeneo alle
strategie di Meinong.
56 Si veda un utile schema (preceduto da una fine analisi) sul lessico dell’ontologia di

Meinong in H. Elie, Le complexe significabile, 164. In un lessico piú tecnico, Nicholas Rescher,
Robert Brandom, The Logic of Inconsistency, Oxford 1980, 31-33.
57 Per esempio, William Lycan, The Trouble with Possible Worlds, in M. J. Loux, The

Possible and the Actual, Ithaca 1979, 289-290.


58 R. Routley, Exploring Meinong’s Jungle and Beyond: tutta l’opera è rilevante.
59 Per una introduzione generale alla tematica dei mondi possibili, rinvio a John

Divers, Possible Worlds, London 2002, in cui si mostrano tutte le problematiche e le soluzioni
che offre una concezione realista dei mondi possibili. Le opere classiche sono quelle di
Alvin Plantinga, The Nature of Necessity, Oxford 1974 (che Divers qualifica di realismo
attualista) e quella di David Lewis, On the Plurality of Worlds, Oxford 1986 (che Divers
qualifica di realismo genuino, ma Routley considera anche Lewis un attualista): io non voglio
40 CAPITOLO PRIMO

costruzioni dell’intelletto umano (mondi in cui si prospettano le alternative non


accadute, ma che potevano accadere), essi sono reali, ossia indipendenti dall’in-
telletto umano (per Scoto, ‘reale’ significa “nullo modo dependet ab intellectu” –
lo dice in maniera sintetica nelle Quaestiones Metaphysicorum V, q. 11, 39, ex n. 5, per
cui rimando sempre all’edizione critica St. Bonaventure University NY (1997) 60, e
come al solito riferisco pure la numerazione dei paragrafi nella piú antica edizione
Vivès (1895)). Si noti sin da subito che a partire da questa nozione di “reale” esso
non deve essere confuso con “esistente”: la definizione di “reale” è “indipendente
dall’intelletto umano”, mentre è “esistente” ciò che si dà nel mondo attuale.
L’esistenza è una proprietà delle cose che sono nel mondo attuale, tanto che il
mondo attuale è l’insieme delle cose esistenti 61: il fatto che scrivo al computer ora
è uno stato di cose esistente (e reale) – i.e. nel mondo attuale, il fatto che sto
scrivendo a penna è un fatto reale (e non-esistente) – i.e. in un mondo possibile.
Penso sia utile precisare che si tratta di una ontologia che si colloca in una
metafisica che pretende di rendere conto delle informazioni del senso comune,
come hanno fatto nel XX secolo George E. Moore oppure John L. Austin. Si
tratta quindi di una metafisica descrittiva, solo che nei fatti descritti da questa

suggerire che ci siano identità biunivoche tra il realismo di Scoto e quello di Lewis, mi sento
però di affermare che il quadro di discussione è lo stesso. Una differenza essenziale è alme-
no il ruolo ineliminabile giocato da Dio nella strategia argomentativa scotista; un’altra diffe-
renza essenziale è che Lewis si muove nel solco della logica classica, mentre la trascendenza
divina e l’esperienza della moralità umana spingono Scoto verso la paraconsitenza e la para-
completezza.
60 L’intelletto non può che avere un ruolo di riconoscimento, mai di costruzione del

reale – Quaestiones metaphysicorum, V, q. 2, 51, ex n. 7, “reale est causa rationis, non e


converso. Exemplum: de dextro in animali et sinistro in columna”, assumendo una tesi già
tomista (anche se poi ne rifiuta l’uso tomista – Theoremata, XIX, n. 2, “causa naturaliter est
prior causato. Non intelligitur de relationibus, quae simul sunt natura, sed de his quae
subsunt”).
61 G. E. Moore parlava della spazio-temporalità come caratteristica delle cose che

esistono, ma poi identificava cose reali e cose esistenti (The Conception of Reality, in
Philosophical Studies, London 1922; in senso alternativo, il momento piú platoneggiante di
Moore è quello di Some Main Problems in Philosophy, London 1953, ma lezioni tenute nel 1910-
1911, in cui discorre della differenza tra cose che sono e cose che esistono, e vi ammette una
classe di universali reali cui appartengono i numeri – tuttavia, la produzione successiva di
questo filosofo non reca piú traccia di queste analisi): anche per Scoto l’esistenza è spazio-
temporale (è un dato della nostra esperienza fenomenologica), ma ci sono cose reali che non
esistono.
Per una difesa della classica idea kantiana secondo cui l’esistenza non è un predicato,
rinvio a C. J. F. Williams, What is Existence?, Oxford 1981, mentre per la tesi opposta mi
piace rimandare a Alvin Plantinga, The Nature of Necessity, cap. 10.
APPROCCIO GENERALE 41

metafisica ci sono anche fatti sovrannaturali, come invece non accadeva per
Moore e Austin. In questo senso, l’ontologia di Scoto è al servizio del senso
comune, ma anche del sovrannaturale e quindi ha punti di contatto forti con le
posizioni della common-sense philosophy anglosassone, pur andando sostanzial-
mente al di là della sua espressione novecentesca, per ritornare alle sue origini
settecentesche (Thomas Reid, del resto rivisto recentemente da Plantinga). Il
termine scotiano di res è reso da me indifferentemente con cose oppure oggetti,
ma non tento mai di neutralizzarlo come mero segno linguistico.
Del resto, voglio sottolinearlo, la mia è una interpretazione forte, non già
una diluizione, del pensiero di Scoto. In effetti, si è discusso con vigore intorno
alla natura della teoria scotista della modalità, tanto che alcuni hanno negato
che gli sia attribuibile una semantica dei mondi possibili 62: data la predominanza
del dogma classicista, mi pare inutile imbarcarmi in polemiche puntuali, dato
che ciò che conta è mostrare innanzittutto l’accettabilità del realismo modale 63,
e in questa direzione mi limito a utilizzare i raccolti di storici della filosofia
come Knuuttila e de Vos, e di metafisici come David Lewis. Su un piano stret-
tamente storico, una posizione classica della storiografia filosofica era quella di
sottolineare come Scoto accetti la teoria aristotelica delle modalità, e piú in

62 Cito come esemplare Nicole Wyatt, Did Duns Scotus Invent Possible Worlds Semantics?,

in Australasian Journal of Philosophy 78 (2000) 196-212. Non vorrei parere intrattabile, ma non
vale la pena di accettare questo livello di dibattito. Rinvio piuttosto a Ria van der Lecq, Duns
Scotus on the Reality of Possible Worlds, in E. P. Bos, a cura di, John Duns Scotus (1265/6-1308).
Renewal of Philosophy, in cui si nota con misura che la strategia della realtà dei mondi possibili
contrapposta alla strategia dell’univocità del mondo attuale come unico reale è una questione
di “philosophical taste” (99): per una pubblicazione recente, si veda Pedro Parcerias, Duns
Escoto, o pensavel e a metafisica virtual, Porto 2003. Il realista modale ha il diritto morale di
perorare la verità della sua strategia esattamente come colui che ritiene i mondi possibili
meramente immaginari, e soprattutto mi pare che sia necessario il rispetto reciproco.
Argomentare che la posizione avversa conduce a conclusioni assurde è un argomento piú
che lecito, mentre mi pare assai meno lecito asserire perentoriamente che la posizione
avversa è assurda tout court: forse la mia distinzione è sottile, ma vi passa la differenza tra un
vero rispetto e un rispetto meramente di facciata.
63 La possibilità non si giudica sul metro di ciò che è accaduto o accadrà nel nostro

mondo attuale: “multa sunt possibilia quae numquam evenient” (Reportata parisiensia, II, d. 1,
q. 2, n. 14) – sulla capacità produttiva di Dio, che determina lo statuto ontologico del
possibile che è sempre compossibilità, si veda Ordinatio, II, d. 1, q. 1, e in particolare 14, ex
n. 7, “nihil alium a se vult voluntas divina necessario, etiam si per impossibile non esset
principium productivum ad intra, – quia tunc necessario dependeret ad creaturam, quod est
inconveniens maximum”, e tutta la seguente discussione sui momenti della determinazione
ontologica delle cose, 15-36, ex n. 8-17.
42 CAPITOLO PRIMO

generale quanto fosse necessario paragonare la sua strategia argomentativa con


quella tomistica 64. Oggigiorno, alcuni interpreti della filosofia di Scoto difen-
dono questa griglia di lettura: tuttavia, già nel XVII secolo, l’età d’oro dello Sco-
tismo, i commentatori dell’edizione Wadding – la prima raccolta sistematica
delle opere scotiane -, nel tentativo di comparare il valore delle strategie scotiste
con quelle tommasiane, riconoscono infine di trovarsi di fronte a un puzzle (e
un caos) metafisico. Negli ultimi trent’anni si è affermata una posizione ben
differente, sostenuta dalla scuola di Knuuttila e da quella di Vos: questi studiosi
hanno evidenziato il ruolo speciale che Scoto occupa nella storia della filosofia.
In breve, Scoto ha rifiutato le modalità aristoteliche (necessità del presente 65 (e
fors’anche del passato) 66, l’equivalenza tra la mutabilità e la contingenza, ..)
grazie ad una teoria della contingenza sincronica (la mutabilità è una proprietà
che può essere disgiunta dalla contingenza, ..) associata ad un grande rilievo dato
ad una protostorica concezione dei mondi possibili che si mostri nella semantica,
ma non in un lessico formalizzato. Tutto questo è funzionale ad una strenua
difesa della libertà della volontà umana e della radicale contingenza del Creato,
idee che formano il deposito dell’ideale francescano e fanno parte della tradizione

64 Per vedere quanto sia lontano san Tommaso da Scoto nella comprensione del
principio di non contraddizione rinvio a Maria Cristina Bartolomei, Tomismo e principio di non
contraddizione, Padova 1973.
65 La discussione classica contro la necessità del presente espressa nel motto

aristotelico omne quod est, quando est, necesse est, si trova in Lectura I, d. 39, § 58. Scoto lo
considera una “absurditas”, in Quaestiones metaphysicorum, IX, q. 15, 64, ex n. 13; ne parla in
riferimento a Gesú Cristo in Opus oxoniense, III, d. 18, q. unica, n. 17. Aristotele si salva se si
interpreta la sua posizione come asserente che nelle proposizioni su uno stato di cose
presente c’è una verità “determinata”, non già una verità “necessaria”: altrimenti, ha torto –
il punto è che “essere determinati” è compatibile con la contingenza ed il mutamento
(Ordinatio, II, d. 4-5, q. 1-2, 24, ex n. 7; Reportata parisiensia, II, d. 4, q. unica, n. 5; Lectura, II,
d. 4-5, q. 1-2). Mi pare chiaro che Scoto innova genialmente la posizione aristotelica.
66 Mentre è già originalissimo negare la necessità del presente, negare quella del passato

è un’operazione che Scoto non ha condotto sino alle sue estreme conseguenze. Per
quest’ultimo problema, rinvio alle analisi collettive di Contingency and Freedom. Lectura I, d. 39,
32-33 (“young Scotus does not realise the implication of his theoretical revolution for the
dimension of the past”), 153, 155, 179. Mentre per l’affermazione della necessità del passato,
ovvia per Aristotele e per quasi tutti (fatti salvi i mistici, gruppo non trascurabile per una
filosofia cristiana), rinvio a Richard Sorabji, Necessity, Cause, and Blame, Ithaca 1980, 105. Lo
stesso Sorabji analizza delle posizioni contrarie alla necessità del passato, tra cui in
particolare la negazione della realtà ontologica del tempo da parte di Kurt Gödel (114-118):
per chi fosse interessato al realismo platoneggiante di Gödel, il suo articolo è A remark about
the relationship between Relativity Theory and Idealistic Philosophy, in P. A. Schilpp, a cura di, Albert
Einstein, Philosopher-Scientist, New York 1951.
APPROCCIO GENERALE 43

cristiana. Penso inoltre che la migliore interpretazione di Scoto richiede un ulte-


riore passo ardito, che non è nello spirito di tanta letteratura religiosa e non: credo
che per dissolvere il puzzle metafisico scotista occore pagare un prezzo onto-
logico, ossia ammettere che ci sono almeno alcune contraddizioni vere.
Nel tentativo di scegliere tra queste due famiglie di strategie storiografiche, è
difficile proporre un’interpretazione sistematica di ogni lavoro attribuibile a Sco-
to, ma almeno: 1) Scoto non ha mai pubblicato direttamente un solo lavoro,
quindi tutti i suoi lavori sono stati pubblicati da suoi discepoli, e le stesse edizioni
critiche contemporanee si affidano al criterio congetturale della preferibilità del
testo manoscritto segnato dal pugno dell’autore, certo persuasivo pur nei suoi
limiti 67, e 1.1) è del tutto possibile che abbia mutato i suoi sentimenti filosofici
senza avere la possibilità di raccoglierli in un insieme omogeneo di testi; 2) la
cronologia delle sue opere è un puzzle, gli studiosi si confrontano e mutano idea
assai spesso (anche se gli argomenti non mutano veramente), e anche l’attribuzione
delle sue opere è soggetta a controversie. Insomma, due strade si aprono agli
interpreti: 1) le modalità aristoteliche sono quelle corrette (lasciatemi chiamarla la
tesi classicista), quindi dobbiamo comprendere Scoto in questa luce – egli crede al
principio di contraddizione, usa “contingente” nel senso di Aristotele o neo-ari-
stotelico, ha la sua stessa nozione di giustizia, .. – in questa prospettiva, la me-
tafisica scotista è un rompicapo, e la soluzione tomista è ben piú attraente; 2)
cerchiamo di offrire una lettura coerente (o almeno paraconsistente) di un mas-
simo di testi scotisti, non necessariamente di ogni rigo che gli sia attribuibile –
nella nuova prospettiva, Scoto rifiuta le modalità aristoteliche, accetta assiomi me-
tafisici contro-intuitivi (i mondi possibili sono indipendenti dal nostro intelletto),
il prezzo ontologico è alto, ma il suo sistema è coerente e il rompicapo dissolto 68.

67 Spinto alle estreme conseguenze, dovrebbe portarci a credere che tutte le reportationes

da parte di allievi non sono veramente attendibili. Se questo può apparire convincente di
fronte ad un testo redatto direttamente dallo stesso autore, avrebbe però la curiosa con-
seguenza di declassare in ogni epoca, non solo il medioevo, le trascrizioni da parte di altri
del pensiero esposto oralmente di un autore. Non sono un filologo, ma mi suona strano.
68 Per esempio, Scoto rifiuta senza ambiguità la tesi secondo cui ciò che è mosso è

sempre mosso da qualcos’altro (Quaestiones Metaphysicae, IX, q. 14). Non si tratta solo di esa-
minare l’anima o la volontà, punti assolutamente necessari in una strategia volontarista (126, ex
n. 24 – “intellectu ostendente aliquid, voluntas potest illud non velle”, sebbene “nihil intel-
ligens, nihil vult, communiter”): ma anche “quodcumque per se ens naturale habet principum
activum respectus ‘ubi’ sibi convenientis” (45, ex n. 10); “animal movet se motu processivo,
non tantum quia una pars aliam” (53, ex n. 11); “de nutritione” (56, ex n. 12); “de alteratione
tali quod idem se alterat, puta aqua frigefacit se et semen se alterat” (60, ex n. 13); “de
cognitiva, quomodo est activa suae cognitionis et etiam obiectum” (61, ex n. 13); “de appetitu
intellectivo, tenetur quod simplicter est activu” (62, ex n. 13). Insomma, in generale,
44 CAPITOLO PRIMO

Non esito a scegliere la seconda prospettiva – la 2) – : per esempio, l’analogia


dell’essere è una delle strategie tomiste per asserire l’unità dell’essenza e
dell’esistenza, mentre l’univocità dell’essere è una delle strategie scotiste che
affermano la distinzione dell’essenza e dell’esistenza 69, ossia l’esistenza è un
predicato (intransitivo) dell’essenza 70. Scoto ha recepito la lezione ontologica di
sant’Anselmo, di cui non a caso riproduce una versione rinforzata della prova a

“quandocumque non apparet quod talis natura non habet principium activum respectu talis
perfectionis, immo magis videtur quod habet, hoc est simpliciter est concedendum, quia hoc
dignificat naturam” (63, ex n. 14). L’auto-movimento è una perfezione.
Sulla questione si veda innanzittutto lo studio di Roy Effler, John Duns Scotus and the
Principle “Omne quod movetur ab alio movetur”, St. Bonaventure NY 1962. Piú recentemente,
Peter King, Duns Scotus on the Reality of Self-Change, in M. L. Gill, J. G. Lennox, a cura di, Self-
Motion, Princeton 1994: King liquida lo studio di Effler con delle osservazioni dure come
pietra scheggiata ( 227, in nota), proponendo i suoi argomenti come un approccio parallelo
senza condurre confronti puntuali con quelli di Effler. King sostiene che Scoto non osteggia
Aristotele, bensí interpreta Aristotele senza contraddirlo (forse è anche l’unico ad averlo
capito). King si espone quindi al gioco di critiche altrettanto dure nei suoi confronti.
69 Lectura, I, d. 3, pars 1, q. 1-2, §§ 97-104 (per Scoto non si dà un concetto di sostanza

senza univocità dell’essere, §§ 110-111, e lo argomenta per impossibile insistendo sul fatto che
la nostra modalità di conoscenza è legata alle proprietà empirica e non può accedere
direttamente alle pur realissime essenze – poco dopo affossa il terzo libro della Metafisica di
Aristotele, sentenziando – § 114 – che “nihil authenticum potest accipi de illo libro”);
Ordinatio, I, d. 3, pars 1, q. 3, 131-151, ex n. 6-12.
70 Scoto non è certo il primo ad affermare la distinzione reale tra essenza ed esistenza:

si tratta di una tesi presente nei teologi medievali, ed essa venne difesa dal teologo
musulmano al-Gubba’i nel X secolo, nonché dai suoi discepoli – i bahsamiti (ramificazione
della scuola mutazilita), ed è pure centrale nella teologia talmudica ebrea (Dio dà l’esistenza
alle cose, e Egli compie continuativamente questa azione in ogni momento della nostra
esperienza: in senso metaforico, Dio tiene il mondo nelle sue mani e se solo aprisse la mano
il mondo svanirebbe nel nulla). Si veda pure Osman O. Chahine, L’originalité créatrice de la
philosophie musulmane, Paris 1972, a proposito di Al-Iman Fakhr al-Din al-Razi (XII secolo),
181-212. Dio conferisce un modo di essere alle possibilità (192, 194).
Va citato anche, come antecedente prossimo della posizione scotiana, l’ultra-realismo
di Gilberto di Poitiers (in questo senso, Sten Ebbesen, Porretaneans on Propositions, in A. Maie-
rú, L. Valente, Medieval Theories on Assertion and Non-Assertive Language, Firenze 2004, in
particolare 138-139), che lo spinge a distinguere tra il sussistente e la sussistenza, due
elementi distinti nelle creature ma indissolubili nel Creatore (Dio esiste necessariamente, le
creature no, ma la loro Forma universale esiste indipendentemente da esse: il verbo “essere”
è predicato di Dio in maniera eminentemente ambigua). L’esistenza è quindi un predicato
che si può acquisire e perdere, mentre solo Dio la possiede necessariamente. Mi limito a
rinviare a Bruno Maioli, Gilberto Porretano. Dalla grammatica speculativa alla metafisica del concreto,
Roma 1979, prendendomi la responsabilità dell’intepretazione paraconsistente di Gilberto
Porretano, in quanto lo considero tale come ogni altro ultra-realista, da Platone in poi.
APPROCCIO GENERALE 45

priori dell’esistenza di Dio, e di cui soprattutto riecheggia i temi paraconsi-


stenti 71: un realista deve essere disposto a rinunciare all’universalità del
principio di contraddizione per fronteggiare l’atteggiamento riduzionista del
nominalista e l’isolamento nel mondo dell’essenze dell’idealista. Scoto è anche
un filosofo cristiano che condivide con i teologi ebrei e musulmani la credenza
nell’assoluta trascendenza divina, e l’univocità dell’essere è una possibile
strategia per spiegare razionalmente questa trascendenza 72. Altri filosofi
cristiani, ebrei oppure musulmani cercarono di spiegare le stesse proprietà
divine in altro modo (mediante l’analogia o l’equivocità) : tra i partigiani
dell’univocità la strategia scotista si distingue per il realismo quasi-platonico 73,

71 Il rinvio d’obbligo è a Lorenzo Peña, Le sens gnoséologique de la preuve anselmienne, Quito


1975, opera ricchissima di spunti, tra cui 28-31, 58-60, 119-122, specie 61-67 sul supe-
ramento del principio standard di contraddizione, e poi 45-46, 265-268 sul realismo forte
che la prova ontologica implica, con la seguente considerazione illuminante sul pensiero di
Scoto: “face au nominalisme et à l’idéalisme qui nient au-delà de la pensée, ce qu’il faut c’est
affirmer que les relations sont constitutives des choses. Or, cela est inconcevable si l’on s’en
tient au principe de non-contradiction” (268).
72 Uso le parole "teologo" e "filosofo" come sinonimi: un teologo è un filosofo che si

interessa specialmente di Dio, come un filosofo del diritto si interessa specialmente del
diritto. Quindi, nello scontro tra il teologo musulmano Al-Ghazali e il filosofo razionalista
Averroè si cela un fraintendimento sistematico: vi si trova un conflitto aspro, ma non tra la
filosofia e la teologia, bensí tra due filosofi che propongono due insiemi alternativi di
argomenti. Penso sia opportuno rivenire alla lettura diretta dei testi, delle risposte di Averroè
alle critiche di Al-Ghazali contro l’incoerenza dei filosofi aristotelici: la traduzione inglese
con il commento di S. Van der Bergh, Averroes' Tahafut Al-Tahafut, Oxford 1954 (sempre di
Al-Ghazali, Deliverance from Error, in W. M. Watt, The Faith and Practice of Al-Ghazali, London
1953); e la traduzione italiana citata di M. Campanini, L’incoerenza dell’incoerenza, nonché il
testo latino in B. H. Zedler, Destructio destructionum philosophiae Algazelis.
73 Dico ‘quasi-platonico’ in quanto la Forma (essere-F, formalitas) non è una F. Alcuni

interpreti di Platone mostrano che si può comprendere la proposizione platonica "la


bellezza è bella" come una proposizione non-predicativa, di modo che la relazione tra le
Forme e gli oggetti spazio-temporali è la partecipazione, non l’imitazione (sono essenziali le
analisi teoretiche di Peña, specie El ente y su ser, e sul Platone storico: P. J. Forgie, Plato's
Metaphysics and the Third Man Regress: Form as Epistemic Essences, Ph.D. thesis University of
California, Santa Barbara, 1984; P. Jetli, The Origin of Realist Conception of Relations in "Plato's
Phaedo", Ph.D. Thesis Indiana University, 1987; S. J. Eliades, Plato's Theory of Form, Ph.D.
Thesis Fordham University, 1991). Per la non-persuasività dell’argomento del Terzo Uomo,
che vale solo contro un rapporto mimetico tra Forma e cosa, D. M. Armstrong, Nominalism
& Realism, Cambridge 1978, I, 71-72 (utile è pure R. M. Chisholm, A Realistic Theory of
Categories, Cambridge 1996, 51-54. Vale la pena di notare che si può leggere la sua versione
del platonismo come una versione dello scotismo: rimpiazzando ‘attribute’ con ‘formalitas’
si leggerà a pagina 11 “There are formalitates. Some are exemplified; some are not; and some
46 CAPITOLO PRIMO

in cui le formalitates non sono assimilabili alle sostanze separate dato che godono
di una priorità ontologica rispetto alle sostanze e si manifestano in un dato
mondo 74, e la sua difesa di una contingenza radicale unita ad un volontarismo
ontologico radicale (quando lo stato di cose A avviene, la sua negazione è
realmente possibile, di modo che solo la volontà di Dio è la ragione per
l’esistenza di questo B) 75.

cannot be” – sono esemplificate nel mondo attuale, altre sono reali nei mondi possibili e
non esistono nel mondo attuale, mentre gli oggetti Super-Contraddittori sono assolutamente
irreali).
74 Non si può dimenticare che solo Dio e gli angeli possono conoscere direttamente le

formalitates, anche se esse sono parte dell’oggetto materiale. Non possiamo coglierle
intellettualmente dato che l’intelletto nella nostra vita attuale è imperfetto, come tutta la
nostra natura a seguito del peccato originale, che ha drasticamente ridotto la portata della
nostra conoscenza intuitiva, l’unica che può cogliere l’esistente (cosí Lectura, II, d. 3, pars 1,
q. 5-6, § 180, esempio aristotelico della civetta (noctua) che non può vedere il sole senza che
vi sia difetto nel sole stesso (Ordinatio, eod. loc., 191, ex n. 17); sul tema degli angeli e delle
formalitates, Reportata parisiensia, II, d. 3, q. 2, n. 8-11; Lectura, II, d. 3, pars 2, q. 1, § 254, e
Ordinatio, eod. loc., 289-294, ex q. 8, n. 13-15. Ancora, Lectura, I, d. 3, pars 1, q. 3, § 300
intorno all’intelletto nella nostra vita futura, in cui l’intuizione coglie l’esistente ed ogni stato
reale di cose – Ordinatio, I, d. 3, pars 1, q. 3, 187, ex n. 24 (il peccato originale causa una
mancanza strutturale nel nostro intelletto); ancora, I, d. 3, pars 3, q. 2, 486-503, ex q. 7, n.
20-23, con un violento passaggio (491) contro l’idea della contemplazione delle essenze,
ideale agli occhi di Scoto emblematico del paganesimo e quindi anti-cristiano). Anche
Quodlibet, 6, n. 10 “non sunt ergo opposita in divinis, immo nec in creaturis, transire et
manere, si recte intelligatur: transire propter realem identitatem, et manere propter propriam
quiditatem”; e per la differenza tra quiditates (dotate di unità numerica) e formalitates (con
unità meno-che-numerica), Ordinatio, II, d. 3, p. 1, q. 5-6, 169-175, ex q. 6, n. 9-10; Lectura,
eod. loc., §§ 164-177; Reportata parisiensia, II, d. 12, q. 8, n. 8 – le quiditates non possono
essere separate dall’individualità (che sarebbe poi la tesi platonica delle sostanze separate), il
che significa che le essenze non sono una diluizione della ricchezza di individui del mondo
attuale (per un pensatore cattolico si tratta di una esigenza fondamentale, altrimenti la vita
personale ultra-terrena diventerebbe meramente vaga) – da cui l’improperio contro il
‘maledetto Averroè’ con la tesi sull’intelletto unico che distrugge la persona metafisica,
Ordinatio, loc. cit., 164, ex n. 7.
75 Tra molti passi, sulla volontà come causa esclusiva di ciò che è Opus oxoniense, II, d.

3, q. 11, n. 11 (non presente nell’Ordinatio, ma certamente di Scoto, e che poggia le sue basi
nella fondamentale Lectura, I, d. 39, § 21): “ideae divinae non sunt rationes repraesentandi
contradictoria; ergo nec contingentia, non enim repraesentant nunc unam rem, tunc
oppositam, vel contradictorium illius: sed notitia contingentium dependet ex voluntatis
determinatione, ut determinat ea ponere in effectu, vel non; igitur, nec rationes terminorum
exprimunt ex sua evidentia, nec faciunt notitiam contingentium in Angelis” (parallelamente,
Reportata parisiensia, II, d. 11, q. 2, n. 11-12 – in maniera del tutto simile Ordinatio, II, d. 9, q.
1-2, 35, ex q. 2, n. 10; Lectura, eod. loc., § 34).
APPROCCIO GENERALE 47

III. Un panorama ontologico non-riduzionista

Una citazione preliminare ci permette di meglio accedere allo schema del-


l’ontologia scotista. Discutendo del doppio ‘esse’ in Cristo 76, Scoto enuncia la
seguente suddivisione dell’‘esse’: da un lato abbiamo l’ens verum, che “significat
compositionem extremorum” ed è “denotans actum intellectus” (e questo non
è rilevante nella questione in esame); dall’altro abbiamo l’ens reale, che si suddi-
vide a sua volta nell’esse essentiae (caratterizzato dalla definitio) e nell’esse exsistentiae,
ancora ripartibile nell’esse subsistentiae (caratterizzato dalla natura indipendens) e
nell’esse inexistentiae (caratterizzato dalla natura dependens, e per il quale Scoto
preferisce esplicitamente di non parlare di inhaerentiae, alludendo certo al fatto
che è indebito ridurre questo insieme alle sole proprietà che ineriscono). Cosa
ne ricavo? Certo una interpretazione nell’alveo della logica classica è possibile,
certo si potrebbe fare a meno del ricorso ai mondi possibili, ma certo queste
possibilità mi paiono ineleganti e riduttive della forza del testo scotiano. Quindi,
senza nulla pregiudicare contro un’intepretazione classicista, e tuttavia argo-
mentando contro di essa, mi pare che il testo scotiano sia una dichiarazione di
realismo modale con propensione paraconsistente: vi leggo che l’essere intelli-
gibile non ha valore ontologico, essendo interno alla mente, per quanto possa
dirsi vero in quanto le proposizioni parlano del mondo, e se c’è rapporto di
identità tra esse e gli stati di cose del mondo, allora si accede al vero 77; vi leggo
che gli enti reali possono essere compresi in quanto essenza – ed allora la defi-
nizione ne coglie la natura prima, sino alle formalitates che sono essenze pure –
oppure in quanto enti esistenti. Entrambi sono enti reali, e quindi appare parti-
colarmente proficuo dire che gli esistenti appartengono al mondo attuale, le
essenze non-esistenti ai mondi possibili non-attuali. A loro volta gli enti esisten-

76 Lectura, III, d. 6, q. 1, §§ 27-29. Il testo dei Reportata parisiensia (III, d. 6, q. 1) non ha


lo stesso schema, ma la soluzione filosofica è identica: similmente il luogo parallelo dell’Opus
oxoniense.
77 Nella teoria semantica del XX secolo si distingue tra teorie estensionali della

proposizione (grosso modo, il significato è dato dall’insieme degli oggetti denotati e


null’altro) e teorie intensionali della proposizione (grosso modo, il significato è qualcosa di
piú dell’insieme degli oggetti denotati). Mostra efficacemente che la teoria proposizionale di
Scoto è intensionale (come quelle di Meinong o di Chisholm) E. P. Bos, The Theory of the
Proposition According to John Duns Scotus’ Two Commentaries on Aristotle’s Perihermeneias, in L. M.
de Rijk, H. A. G. Braakhuis, a cura di, Logos and Pragma, Nijmegen 1987.
48 CAPITOLO PRIMO

ti sono sussistenti, ed allora se lo sono in modo assoluto (non dipendono da


null’altro), si danno in tutti i mondi possibili, ma questo è vero solo per Dio:
sarà quindi questione di un grado di indipendenza, oppure di un punto di vista
particolare. Tutte le cose create dipendono da Dio, certo, ma considerate esclu-
sivamente nei loro rapporti reciproci nel mondo attuale si possono considerare
indipendentemente da questa dipendenza: il metodo meccanico dell’isolamento
delle variabili funziona in questo modo, mettendo da parte nella data analisi una
parte della complessità del reale (p.e., studiare il moto di una palla senza
considerare le forze d’attrito), ma riconoscendo che tali variabili esistono e non
sono rimuovibili e riducibili ad altro. Anche le proprietà delle cose del mondo
attuale hanno un modo di essere che è diverso dall’essere delle essenze (non-
istanziate nel mondo attuale) e anche dagli oggetti considerati come indipendenti.
Tali proprietà sono reali nel mondo attuale, si danno nell’esistenza di un certo
oggetto, ma come quest’ultimo si danno anche – quali istanziazioni di definitiones –
nell’essere dell’essenza, da cui la quidditas di cavallo che si dà nei vari mondi possibili
(ma non in tutti, dato che in alcuni mondi possibili non si dà istanziazione, i.e.
haecceitas, di cavallo) e la quidditas di bianco, la bianchezza, che ha un modo di
essere reale (e non-esistente) anche se non vi sono cose bianche. In effetti, la
formalitas di cavallo e di bianco, ossia la definizione essenziale (per tutti i mondi
possibili) che sono la cavallinità e la bianchezza, sono pensati dall’intelletto divino
anche se in questo o quel mondo possibile non ci sono cavalli o cose bianche
(anche se si parla di bianchezza perché si è fatta esperienza nel mondo attuale di
cose bianche, ma Dio non è dipendente dal mondo attuale come lo siamo noi:
per lui ‘essere-attuale’ è una proprietà di un mondo, non un acquario da cui non
può uscire in nessun modo). E tutta la sua filosofia va nella medesima direzione.
Ecco quindi lo schema essenziale della sua ontologia, per descrivere la
quale Scoto si avvale di un linguaggio in cui esistono due tipi di negazione, ossia
la negazione semplice e la negazione assoluta, cui corrispondono due tipi di
contraddizione, la piccola-contraddizione (si danno piccole-contraddizioni vere)
e la Super-Contraddizione (non si danno Super-Contraddizioni vere) 78:

78 Opus oxoniense, IV, d. 10, q. 4, n. 11: “de eodem secundum idem non sunt simpliciter

vera contradictoria” (nel passo parallelo dei Reportata parisiensia, n. 14, si afferma che la
simultaneità dei contraddittori non è tanto temporale, quanto per la loro natura – si veda
anche la successiva q. 5, n. 2). Il corpo di Cristo può essere separato dalla sua anima, non è
una contraddizione per Scoto, ma non può essere separato dalle sue parti (il sangue, p.e.),
perché sarebbe contraddittorio. Si noti che la prima è al piú una piccola-contraddizione,
dato che ci è difficile immaginare il corpo di Cristo senza la sua anima, ma giusto difficile; la
seconda è invece una Super-Contraddizione, dato che il tutto è formato dalle sue parti,
qualunque sia la loro relazione (in Lectura, III, d. 2, q. 2, §§ 80-86; Opus oxoniense, eod. loc., n.
APPROCCIO GENERALE 49

I) ci sono cose (oggetti) esistenti e reali, Res*, sono nel nostro mondo
attuale. Esse vi sono poste da un atto della volontà divina, che fissa un mondo
possibile per la compossibilità 79 tra cose che possiedono l’esse realis – che ha un
valore superiore all’esse rationis, dato che l’essere reale è indipendente dall’in-
telletto, mentre l’essere di ragione non lo è – e pure dagli atti di volizione di
ogni agente libero (punto fondamentale: in senso proprio, la contingenza non si
predica delle cose, bensí della causa che le ha poste – la contingenza è quindi
prodotta da un agente libero). Possiamo parlare di questo mondo attuale in
quanto si tratta del mondo in cui le persone metafisiche, quali noi siamo,
vivono e in particolare scelgono di agire, producendo contingentemente – di modo
che gli stati di cose possibili non-attuali (seppure indipendenti dal nostro
intelletto) non contano per i giudizi morali, e gli stati di cose attuali inanimati
contano per tali giudizi nella misura in cui interferiscono con le nostre
deliberazioni e le nostre volizioni. Il mondo attuale è privilegiato rispetto agli
altri mondi possibili nel significato morale (ciò che conta per l’analisi morale
sono gli stati di cose esistenti, nel cui bel mezzo si muovono gli agenti morali),
ma questa preminenza è ben piú sfumata in senso metafisico, anche se il valore
morale dipende dalla realtà ontologica della persona metafisica (di cui si può
predicare l’identità da un mondo possibile all’altro) 80.

7-8), Scoto chiarisce i motivi per cui il tutto non si riduce alle parti riunite, a meno che non
vi si associ l’unità che fa il tutto – in Lectura, I, d. 17, p. 2, q. 4, §§ 231-233 reinterpreta
Aristotele nella sua direzione antiriduzionistica, specie ai §§ 235-236). La Super-
Contraddizione nasce dalla negazione di una tautologia analitica; posto una definizione, la si
può cambiare, ma non la si può violare affermandola. In questa questione sull’Eucarestia
Scoto asserisce che non è contraddittorio possedere l’esistenza secondo il modo naturale e
non secondo il modo sacramentale (o viceversa), mostrando che i modi dell’essere sono
livelli di realtà.
79 Si ricordi che per Scoto (Ordinatio, I, d. 43, q. unica, 14-18, ex n. 5-7; e luoghi

paralleli di Lectura, §§ 15-19, e Reportata Parisiensia, q. 1) la radice ultima dell’impossibilità è la


‘repugnantia’ assoluta (formaliter) tra oggetti, e che la possibilità si disegna cosí in prima bat-
tuta come assenza della ripugnanza, quindi come compossibilità formale. In questo senso,
ciò che è impossibile nella creatura non deve farsi risalire (direttamente o indirettamente) ad
una impossibilità divina o nella cosa in sé, bensí ad una incompossibilità tra oggetti creati. Si
noti ancora che i contraddittori sono segnati dalla qualità della ripugnanza, e questo mi pare
mostri che per Scoto il termine contradictio indichi chiaramente una Super-Contraddizione.
80 In questa prospettiva, Scoto si colloca tra san Tommaso (che ammetteva un solo

mondo, il nostro) e David Lewis (che ammette una pluralità di mondi equivalentemente
reali, e nega l’identità trans-mondi delle persone): la differenza tra i due è posta chiaramente
da Paul Helm, Eternal God, Oxford 1988, 100-101, mentre io credo che per Scoto la
dimensione di “produttore di contingenza” dell’agente morale gli conferisca una posizione
50 CAPITOLO PRIMO

Il valore di verità è una corrispondenza assoluta (come identità, non già


come rappresentazione) alle cose esistenti 81, ogni proposizione intorno a stati di
cose esistenti è aut vera aut falsa – ma questa concezione della verità è confinata
al nostro mondo attuale 82, e Dio la vede come una particolare teoria della verità
(una teoria locale, nel gergo logico, ma anche una teoria regionale), ossia una
teoria valida in un dominio limitato e sussunta sotto una teoria piú generale con
un dominio di validità piú ampio. Innanzittutto, una precisione terminologica,
che traggo da un passaggio didascalico dei Reportata parisiensia 83: formaliter si
oppone a potentialiter e virtualiter, dato che potentialiter si predica della presenza
bianco rispetto al nero, mentre virtualiter si predica della presenza dell’effetto
nella causa, mentre formaliter si predica indipendentemente da ogni confusione e

mediana, in cui il nostro mondo attuale è privilegiato solo in quanto vi si dà la contingenza


da noi determinata, quando negli altri mondi vi è solo la possibilità reale della nostra
produzione di contingenza, con gli stati di cose reali, non già con gli stati di cose esistenti.
81 Un passaggio significativo è contenuto in Quaestiones metaphysicorum, VI, q. 3, 66, ex

n. 13: Scoto fa giocare una proposizione in cui soggetto e complemento oggetto appaiono
come criterio primo della verità, ossia l’identità fa la verità, e ne ricava il modello corretto
della relazione tra la cosa e la proposizione vera, che come afferma in conclusione, resta
non-dipendente dall’intelletto – “habitudo rationis conformis est rei. Non quod oporteat in
re esse relationem aliam inter extrema – ut in re – similem isti rationis quae est inter extrema
ut intellecta, immo ut ab intellectu invicem comparata, nam tunc esset haec falsa “homo est
homo”. Nec oportet fugere ad compositionem formae cum materia. Tum quia illam non
exprimit propositio; tum quia tunc haec falsa “Deus est Deus”. Sed tunc haec habitudo
correspondet rei quando est talis qualem res virtualiter continet: sive qualem res de se nata
esset facere in intellectu, si facere habitudinem illam; sive quae est signum, non simile, sed
aequivocum, exprimens tamen illud quod est in re. Sicut circulus non est similis vino, est
tamen signum verum vini, falsum autem lactis vel huiusmodi. Non tamen est omnino simile,
quia illud signum est ad placitum huius significati. Non sic illa habitudo rei”.
Sempre nella stessa q. 3, si vedano i passi 32-37, ex n. 6-7, dove Scoto analizza la
natura della verità (e della falsità) nell’intelletto: questo completa la sua teoria
corrispondentista non-analogica della verità. In merito, ne dà un’analisi nel solco della logica
classica Giorgio Pini, Scotus on Assertion and the Copula: A Comparaison with Aquinnas, in A.
Maierú, L. Valente, Medieval Theories on Assertion, in particolare 326-330. Io credo che la
nozione di verità scotiana sia piú che “very close” a una indipendenza dall’intelletto, per me
realizza pienamente tale indipendenza.
82 Ordinatio, II, d. 3, pars 1, q. 3, 65, ex n. 3: “ultima distinctio in coordinatione

predicamentali est distinctio individualis, et illa est per ultimum actum, per se pertinentem
ad coordinationem praedicamentalem, – sed ad hanc per se non pertinet existentia actualis;
existentia autem actualis est ultimus actus, sed posterior tota coordinatione predicamentali, –
et ideo concedo quod distinguit ultimate, sed distinctione quae est extra totam per se
coordinationem praedicamentalem” (si veda anche Lectura, eod. loc., §§ 56-58).
83 Reportata parisiensia, I, d. 45, q. 2, n. 5.
APPROCCIO GENERALE 51

commistione secondo “suam rationem formalem et quidditativam, et esse tale


formaliter est includere ipsum secundum suam rationem formalem prae-
cisissime acceptam” 84 – il fuoco non è nella carne formalmente. Si tenga ora
presente che per Scoto (Lectura, I, d. 2, pars 1, q. 1-2, § 36) “veritas non est nisi
in re fundamentaliter vel in intellectu formaliter”, mentre questo “formaliter”
diviene “componente e dividente” nell’Ordinatio, eod. loc., 37, ex n. 8:
l’intuizione degli stati di cose esistenti assicura la verità fundamentaliter (non è
questione di mettere in corrispondenza linguaggio e realtà, forse Scoto
potrebbe dire che il mondo ci parla, e con Heidegger che l’essere “as weltet”,
mond-isce 85), l’intuizione astratta delle essenze assicura la verità formaliter che si
reifica solo attraverso la volontà divina (le formalitates, lo scheletro della realtà di
tutti i mondi possibili, sono compossibili logicamente tra loro come verità
analitiche, senza atto creatore solo ciò che è assolutamente necessario, ossia
Dio, può dirsi reale, e null’altro), ed è sempre la stessa verità (Dio coglie le
formalitates, come fanno gli angeli – gli uomini, a seguito del peccato originale,
non possono accedere a tale intuizione) 86. La verità è tale che “si nihil sit
verum, tunc nihil est, et per consequens in nullo veritas est. Et ideo non
sequitur quod si veritas non est, igitur verum est illud dictum ‘verum non esse’”:
in questo modo Scoto rifiuta l’inferenza “se la verità non è, allora è vero che la
verità non è” e soprattutto afferma che la verità è sempre collegata agli stati di

84 Si noti una apparente circolarità nella determinazione del formaliter: si tratta di una

nozione primitiva, e tocca la questione della definizione dell’essenza e dell’oggetto, ma una


definizione indipendente dall’intelletto umano (si veda nello stesso luogo citato, n. 9, con
spiegazione della non-identità formale). In altri termini, non è una nozione riducibile ad
altre.
Sulla natura infinita della volontà che è formaliter in Dio, si vedano i luoghi paralleli di
Ordinatio, I, d. 2, pars 1, q. 1; Lectura, eod. loc.; Reportata parisiensia, I, d. 2, q. 3.
85 Sean J. McGrath, Heidegger and Duns Scotus on Truth and Language, in Review of

Metaphysics 57 (2003) 339-358: “the world shows itself as ‘worded’” (358). L’autore, che
sottolinea con efficacia l’importanza degli studi di Heidegger su Scoto nell’economia di tutta
la sua vicenda filosofica, osserva opportunamente che Heidegger, come Scoto, dissocia
intuizione e immediatezza (342).
86 McGrath conclude cosí il suo articolo, Heidegger and Duns Scotus: “Heidegger writes in

1950. “Language speaks. Man speaks in that he responds to language”. A cryptic saying, but
one which Duns Scotus might have understood” (358). Un’opera di Martin Heidegger che
mostra l’approccio alla verità come questione di identità, non già di rappresentazione, è
Logica. Il problema della verità, Milano 1986: in maniera piú sintetica, si può vedere la
conferenza Sull’essenza della verità, Roma 1999, dove il termine tedesco Ubereinstimmen con cui
Heidegger designa il rapporto tra il linguaggio e il mondo che segna la verità è tradotto come
“concordanza” (39).
52 CAPITOLO PRIMO

cose reali, tanto che se non c’è verità, allora non ci sono stati di cose reali
(altrimenti ci sarebbe la verità) e ci sono solo pseudo-oggetti. Da un lato,
oggetti impossibili, fictitia 87, come la Chimera; dall’altro, oggetti non-creati colti
dal solo intelletto divino: in entrambi casi, che possiamo esprimere con il
termine “nulla”, oppure “niente”, la stessa predicazione del vero e del falso è
impossibile – ogni proprietà associata alla Chimera (positiva e la sua negazione)
non è né vera né falsa 88, e prima della creazione ci sono solo verità necessarie
analitiche 89 – formaliter, ‘l’uomo è uomo’ è vero, ma ‘il Crati è lungo 500 km’,
contingente e futura, è vera-e-falsa (non precisando di quale mondo possibile
parliamo, dato che nessun mondo per ipotesi è stato creato);
II) ci sono cose reali, ma che non esistono, ossia Res#, esse sono nei mon-
di possibili non-attuali, tanto che essere reale-e-non-esistente è un modo di
essere limitato in paragone alle cose esistenti, dato che essere reale è una con-
dizione per divenire esistente. Si tenga presente per comprendere questo, che
‘reale’ non è sinonimo di ‘esistente’, bensí di “nullo modo dependet ab intel-
lectu” (Quaestiones Metaphysicorum V, q. 11, 39, ex n. 5): questo permette di com-
prendere, non dico di accettare, l’idea per cui si diano cose, come la relazione,
non-esistenti e reali. Nell’affrontare direttamente la natura della relazione, per
esempio in Lectura, I, d. 36, q. unica Utrum creatura, in quantum est funda-

87 Reportata parisiensia, I. d. 36, q. 3-4, n. 32; un passo dell’Ordinatio, I, d. 36, q. unica, 53,

ex n. 12 ribadisce che l’intellezione divina di ogni ente è metafisica e reale, non logica, e che
senza la volizione creatrice non si dà per le cose essere reale. Tali oggetti solo pensati da Dio
e non-creabili (piú correttamente, pseudo-oggetti) sono assolutamente co-impossibili e non
si trovano in Dio neppure virtualiter, dato che “repugnat eis produci in effectu”: si veda pure
Reportata parisiensia, I, d. 17, q. 2, n. 3, dove lo pseudo-oggetto “non potest esse obiectum
primum operationis realis” (in Lectura, I, d. 17, p. 2, q. 3, § 197, Scoto spiega che le
trasformazioni naturali non sono “generatio”, bensí “adgeneratio”).
88 Già in san Bonaventura si possono leggere espressioni simili: “propositio autem nega-

tiva non infert ipsam nisi sophistice”; “nihil esse, destruit omnem veritatem” e del resto ogni
proposizione parla del mondo reale (l’affermazione che ‘qualcosa è’ risulta dotata di prece-
denza ontologica), anche se la realtà di Dio assicura un senso minimale di cui parlare della ve-
rità, anche se null’altro fosse creato (Sententiarum, I, d. 8, p. 1. a. 1, q. 2, ed. Quaracchi I, 1894).
89 Si noti che “homo albus” non è una verità analitica, ossia non è una nugatio, né lo è

“homo humanus” – Quaestiones metaphysicorum, IV, q. 1, 62-63, ex n. 11, ma anche “homo est
animal” e “album est albedo” non sono una definizione tautologica – V, q. 5-6, 64, ex n. 6,
68, ex n. 7. La definizione è quindi per Scoto piú che tautologica: in un oggetto non-
semplice la definizione asserisce almeno la compossibilità di parti semplici – “in albedine
includitur formaliter color, non tamen in albo”, IV, q. 1, 60, ex n. 10; e con un rinvio
esplicito al mondo attuale “numquam in definitione fit coniuntio generis et differentiae in
abstracto”, 42, ex n. 7 (nella stessa opera, si veda pure III, q. unica).
APPROCCIO GENERALE 53

mentum relationis idealis proximum, habeat verum esse essentiae, Scoto spiega
ai §§ 23-27 che per le relazioni (quelle tra la cosa creata, primo termine, e Dio,
secondo termine) non si tratta di un esse essentiae e neppure di un esse exsistentiae,
che la qualificherebbero come oggetto al pari delle sedie e dei tavoli, piuttosto
di un esse deminutum, verum et cognitum, che la qualifica come oggetto indipendente
dall’intellezione umana, e quindi reale 90. Ma mentre noi possiamo solo giungere
a comprendere la natura reale e non-esistente di certe res, l’intelletto divino può
vedere direttamente tali cose – ne è prerequisito essere relazionalmente
compossibili, la volontà divina non le ha simpliciter create (se cosí fosse, esse
esisterebbero), ma resta che non sono nulla, possiedono l’esse intelligibilis
(Ordinatio, I, d. 36, q. unica, 28, ex n. 6), ed allora sono almeno prodotte, dato
che il loro esse è ridotto rispetto all’esse simpliciter, l’esistenza – infatti, Dio crea il
mondo attuale, e con questo atto produce anche i mondi possibili (indipendenti
dal nostro intelletto) che rispetto al mondo attuale riproducono tutte le varianti
e combinazioni di stati di cose in esso non esistenti 91. Le cose reali-e-non-
esistenti non dipendono dall’intelletto umano, ma possono essere rappresentate
concettualmente in un ens rationis – un triangolo. Tuttavia, ci sono entia rationis –
le Chimere del gergo scolastico, il cerchio quadrato del lessico di Meinong – che
non sono reali perché assolutamente contraddittori (un essere reale può essere
senza un essere logico : l’identità, per esempio, è un essere logico, l’eguaglianza
è un essere reale 92). Ci sono anche cose reali che hanno un ens deminitum nel

90 Si veda anche il seguente passaggio delle Quaestiones Metaphysicorum, V, q. 11, 70, ex n.


10: “ita omnis relatio talis Dei ad creaturas tantum dependet ex consideratione intellectu
divini, sicut ideae ponuntur esse in Deo, vel ex actu voluntatis, ut ‘Creator’. Igitur, nulla
relatio, nec rationis, est nova in Deo”.
91 Lectura, II, d. 1, q. 2, §§ 81-82: l’esse cognitum et volitum è un esse secundum quid. Dio è un

agente intellettuale e volontario, e quando produce l’essere intellegibile nulla lo predetermina


nella sua azione (la sfera intellegibile della filosofia greca è negata da Scoto). Ordinatio, II, d.
1, q. 2, 82-84, ex n. 7: Dio può produrre (non già creare) dal nulla assoluto (per creare, deve
pensare-e-volere l’oggetto della creazione), tanto che fornisce un essere limitato ad ogni
mondo possibile (per noi, questi mondi sono assolutamente indipendenti dal nostro
intelletto, quindi reali).
Non pretendo con queste osservazioni di avere risolto ogni problema, teoretico o
storiografico, di una questione che ha arrovellato scotisti e interpreti del XX secolo: alcuni
scotisti sembrano ritornare a Enrico di Gand, altri sono soddisfatti dalla soluzione scotista
(si veda L. Peña, El ente y su ser, 178-179). Io offro un’interpretazione del testo scotiano che
mi pare sia coerente con la teoria del realismo modale e la paraconsistenza.
92 La questione è analizzata in Quaestio Metaphysicorum, V, q. 12-14: Scoto pone una

importante differenza tra l’identità (ens rationis) e la similitudine e l’eguaglianza (entia realis) –
“fundamentum identitatis est unum numero, ideo sibi idem; sed unitas similitudinis est
54 CAPITOLO PRIMO

nostro mondo attuale, come quando una relazione tra A e B è associata a cose
esistenti, ed essa è indipendente dall’intelletto umano. Tale relazione è reale, è
una res – un oggetto, nel nostro mondo attuale, nella misura in cui l’atto divino
di creare A e B è nello stesso tempo, inseparabilmente, l’atto di creare la relazione
tra A e B, sebbene la relazione non sia riducibile ai suoi fondamenti.
Se persistiamo a considerare il valore di verità come una corrispondenza
assoluta con le cose esistenti, allora una proposizione relativa alle Res# si asso-
cia anche ad un terzo valore di verità, né-vero-né-falso (se si preferisce, indiffe-
rente, cosí come secondo Duns Scoto esistono atti – nel nostro mondo attuale
– moralmente indifferenti, ma anche ‘neutro’, dato che il termine ‘neuter’
ricorre nei discorsi di Scoto sulla volizione in atto). Ma se la corrispondenza
della verità si estende alle cose reali di ogni mondo possibile (la compossibilità è
una proprietà di un insieme di stati di cose in questo-mondo-possibile-qui),
ossia la nozione che Dio ha della verità in quanto concerne tutte le cose reali
(non già solo quelle esistenti), la stessa proposizione può essere associata ad un
altro valore di verità, in quanto essa risulterà vera-e-falsa, in una misura vera e
in una misura complementare falsa (ovvero, è possibile che A divenga esistente
ed è possibile che ¬A divenga esistente – dove la negazione di A è negazione
semplice, ossia assenza dell’identico ad A, non già negazione assoluta di A,
dato che ciò che accade è un qualcosa, mentre la negazione assoluta di A è
soprattutto il non-essere di A – tanto che A è reale e ¬A è reale, ma quando A
esisterà come contingente (nel mondo attuale), nel medesimo atto divino che
vede A esistente ¬A è reale). Si noti che se parlando di Dio le proposizioni
‘neutre’ fossero semplicemente prive di valore di verità, allora parlare di
onniscenza divina sarebbe poco piú di un effetto di prestigio: neanche il piú
ingenuo dei mistici potrebbe acconsentire ad una tale tesi come compatibile con
il riconoscimento dell’onniscenza divina. Scoto invece dà piena soddisfazione

unitas specie solum, ideo idem non est simile sibi” (69, ex n. 7) ; “similitudo et aequalitas
fundatur in unitate reali; Quia haec albedo et illa habent unitatem realem inter se, si
numquam esset intellectus. Et ex illa unitate movetur intellectus ad attribuendum illi unitati
reali unitatem speciei, et istas unitas nec est unitas rationis nec singularis, sed media et in
potentiam ad unitatem rationis, quae fundatur super eam” (86, ex n. 8). Questo gli permette
di evitare ogni confusione tra i rapporti empirici di somiglianza e il concetto logico (e non-
reale, in quanto formaliter) di identità, tale che la verità si configura come l’identità in senso
tarskiano tra il fatto che la neve è bianca e l’enunciato ‘la neve è bianca’, con un rapporto
strettamente biunivoco assicurato dalla facoltà conoscitiva dell’intuizione (che in Scoto è, lo
si tenga presente, sia concreta sia astrattativa – rinvio alle fondamentali ricerche di Olivier
Boulnois in merito, tra cui Etre et représentation, Paris 1999): si veda pure Quaestiones
Metaphysicorum, IX, q. 1-2, 36, ex n. 7.
APPROCCIO GENERALE 55

all’intuizione mistica facendo saltare la logica classica, certo non adottando un


lessico esplicito, ma se non si traduce il suo ‘neuter’ con ‘vero-e-falso’ allora si
fa saltare la stessa difesa dell’ortodossia cristiana da parte di Scoto. E questo mi
pare ben piú controintuitivo della rinuncia al principio di contraddizione
(mossa, quest’ultima, per cui Scoto offre eccellenti ragioni).
La prospettiva gradualista della verofunzionalità rende questo discorso piú
perspicuo 93: in essa, esistono infiniti gradi di verità, e le proposizioni sono in
parte vere, in parte false, salvo quelle assolutamente vere (“Dio esiste” – Tauto-
logia Necessaria, verità necessaria) o assolutamente false (“il cerchio quadrato
è”, Super-Contraddizione, incompossibilità in sé). Se leggiamo Scoto alla luce di
Peña, la negazione semplice è una negazione parziale di una proposizione senza
escludere che in essa vi sia del vero, quindi al di fuori del nostro mondo attuale
si dà che anche se A è accaduto, la sua negazione semplice coesiste con esso. Al
contrario, la negazione assoluta è infinita assenza di A, come una linea che asin-
toticamente diverge: per essa vale la bivalenza, e la congiunzione dell’af-
fermazione e della sua negazione assoluta non ha alcuna modalità ontologica ;
III) ci sono cose non reali, ammesso che questa enunciazione abbia senso,
in quanto esse sono radicalmente non-compossibili in ogni mondo possibile –
se Dio può vedere ogni cosa, questo insieme è vuoto (ma Dio può pensare
questo insieme, anche se sotto la modalità di intellectu errante (Reportata parisiensia,
I, d. 43, q. 1, n. 14; Ordinatio, eod. loc., 16, ex n. 6) – è il caso delle Chimere e
del cerchio quadrato (che si deve leggere come “cerchio che non è asso-
lutamente cerchio”, quindi è assolutamente il nulla): pensare le Chimere è avere
nella mente delle species – dei types – di un oggetto (non-semplice) contrad-
dittorio – un token, ma anche se l’oggetto è contraddittorio, la sua species non è
contraddittoria 94), se Dio non può vedre il niente, questo insieme è composto

93 Per le cose che sono piú o meno reali, con rinvio implicito ai mondi possibili, si

veda Quaestiones Metaphysicorum, VII, q. 13, 111, ex n. 16: “natura lapidis est una in se et res,
et sic non est haec proprie; sed unitas illa est minor quam unitas numeralis, et est realis
unitas, sed non tanta realitas est in illa unitate sicut in unitate numerali”. E’ la premessa
ontologica di una corrispondente teoria gradualista applicabile alle proposizioni: l’esistente è
un reale piú reale del reale non-esistente (la prospettiva platonica gradualista è capovolta). Al
paragrafetto precedente, il 110, Scoto parla della differenza individuale come “superad-
ditam”: non tanto la terminologia, quanto la semantica, induce ad un parallelo con la super-
venience della metafisica contemporanea – la differenza individuale (che è poi la futura haec-
ceitas dei Reportata) sopravviene alla natura comune.
94 Quaestiones Metaphysicorum, IV, q. 3 Utrum hoc principium ‘Impossibile est idem

simul esse et non esse’ sit firmissum, 17, ex n. 2 : “in intellectu multo fortius sunt species
contradictorium; ergo non sunt contradictoriae”. Le species non sono reali, dato che il loro
56 CAPITOLO PRIMO

almeno dal niente (le Chimere) – come dice Scoto, Reportata parisiensia, I, d. 43,
q. 1, n. 13:
“quodcumque enim affirmativum unum, quod potest concipi, potest esse,
et ideo nihil simpliciter impossibile, nisi quod contradictionem includit et
implicat” 95 (e Ordinatio, I, d. 43, q. 1, 14, ex n. 5)
Ci troviamo fuori dai limiti del pensiero, le proposizioni relative a queste
cose sono assolutamente né-vere-né-false, ma Dio non può parlare di esse
come non-reali (se Egli potesse parlarne (e non meramente pensarle), esse sa-
rebbero reali) 96. E se si parlasse del niente come reale, le proposizioni sul niente
sono vere-e-false, ma il niente è non-reale, e le stesse proposizioni sono né-
vere-né-false. Se denotiamo l’opposizione tra questi due insiemi di proposi-
zioni come una Super-Contraddizione, Dio è limitato da questo nuovo Prin-
cipio di Super-Contraddizione, ma assolutamente non da un classico principio
di contraddizione tra una proposizione A vera e una proposizione ¬A vera.

essere è nella mente umana. Nella stessa questione (36, ex n. 5) Scoto afferma che possiamo
conoscere in generale e ignorare in particolare, ma se passiamo all’azione, la contraddizione
non è piú possibile (dopo la nostra azione).
E a proposito della natura non-mimetica delle idee, Quaestiones Metaphysicorum, V, q. 12-
14, 57, ex n. 6 : “albedo comparata albedini non est similis sibi, nec aequalis; tunc eadem sibi
et diversa a negritudine”. Affermazioni del genere, che permettono di fare a meno di una
teoria corrispondentista della verità, richiedono un concetto fondante di intuizione, quale
unico strumento per fondare ogni giudizio di esistenza, e permettono di fare a meno di ogni
teoria empiricista della verità. Nello stesso modo Scoto blocca l’argomento di Aristotele
fondato sulla generazione contro le idee platoniche (Quaestiones Metaphysicorum, VII, q. 11, 22,
ex n. 4; Quodlibet, 7, n. 25; Lectura, II, d. 3, pars 1, q. 5-6, §§ 194-195; Ordinatio, II, d. 3, pars
1, q. 5-6, 208-211, ex n. 20). Scoto considera che Aristotele argomenta validamente contro
Platone se si considera che l’Idea universale è propria a ciascun individuo, ma la sua
posizione è diversa, dato che la ‘natura comune’ si determina all’unità numerica per la forma
individuale e quindi è propria al singolo individuo – anche se, aggiungo io, essa resta
universale, ed ecco che affiora la paraconsistenza che Peña ritrova già in Platone (Quaestiones
metaphysicorum, VII, q. 13, 109, ex n. 16; Ordinatio, II, d. 3, pars 1, q. 1, 41, ex n. 3, 10; Lectura,
II, d. 3, pars 1, q. 5-6, § 157)
95 Summa fratris Alexandri, I, pars 1, inq. 1, tr. 1, q. 3, c. 3, ad tertium (ed. Quaracchi, I-

IV, 1924-1948, piú Indices, 1978): “‘nihil’ enim negat quod est ens et quod est entis”.
96 Già san Giovanni Damasceno indicava che Dio pensa-e-vuole e di conseguenza il

mondo è creato per sostanzializzazione delle Forme (G. Zografidis, Aristotle and John of
Damascus: The “First Unmoved Mover” and God-Creator, in Th. Pentzopoulou-Valalas, S.
Dimopoulos, Aristotle on Metaphysics, Thessaloniki 1999, 218). Le Forme si distinguono dalle
sostanze nel mondo attuale per un processo razionale che è indipendente dal nostro
intelletto, ma esse non sono separabili (come Scoto ripete incessantemente), come mi pare
esprima il pensare-e-volere creatore divino in Damasceno.
APPROCCIO GENERALE 57

Scoto, per rendere conto della possibilità di parlare della Super-Contraddizione


anche se essa non può assolutamente darsi, distingue tra due modo di darsi di
questa: può essere virtualiter, oppure apparenter (Lectura, II, d. 1, q. 3, § 150).
Quando essa è oggettivamente tale, ma non si dà come evidente – l’esempio è
quello di ‘il mondo esiste dall’eternità’ – si può credere in una contraddizione
assoluta perché non la si considera tale. Scoto fa l’esempio di una frase
ordinaria (§ 149), ‘non lo capisco’, in cui l’oggetto non si coglie ma si può dire
che non lo si coglie: l’intelletto apprende (apprehendere) i contraddittori, ma senza
consenso. Infatti, riformulando nella nostra terminologia contemporanea, la
negazione assoluta è la negazione dell’identità, quindi A e non-A sono
assolutamente incompossibili 97, come il cerchio quadrato, ossia il cerchio e
l’assenza del cerchio. Io posso parlare del cerchio quadrato, dire che lo posso
volere non ha senso, dato che la volontà umana non crea: per Dio, invece, c’è
intellezione del cerchio quadrato, ma non può volerlo, perché non può farlo
esistere (non perché la sua onnipotenza sia limitata, ma perché A e
assolutamente-non-A sono in sé e per sé in quanto coppia assolutamente
incompossibili, indipendentemente dal fatto che si dia o non si dia altro oggetto
reale) 98. Il cerchio non-cerchio, predicando la verità formaliter, dato che il cerchio
non-cerchio non è mai reale, ebbene esso è necessariamente falso. Dio può

97 Scoto scollega l’incompossibilità da una qualche carenza del potere di fare, umano o

divino, e ne fa la proprietà dei componenti essenziali della realtà, tale che l’incompossibile
universale è ciò che non può essere reale (il niente), e l’incompossibile locale è una coppia di
oggetti reali incompossibili tra loro in un mondo possibile. Oltre all’esempio della nota
successiva, si veda Reportata parisiensia, IV, d. 12, q. 5, n. 8, dove Scoto afferma “in quo-
cumque incompossibili alteri” – l’incompossibilità è la composizione di due entità essenziali,
due formalitates o un’asserzione intorno ad una formalitas (la sua negazione assoluta, che non è
una formalitas), o ancora di due oggetti reali in quanto haecceitates – “includitur non esse sui
incompossibilis simpliciter, nisi sit in ratione subiecti communis” – A e assolutamente-non-
A è una coppia linguistica incompossibile assolutamente, mentre il fuoco e l’acqua sono
incompossibili in un punto dello spazio-tempo del mondo attuale dato che esistono certe
regolarità chimico-fisiche di ciò che chiamiamo ‘acqua’ e ‘fuoco’. Nulla esclude che in un
altro mondo possibile tali regolarità chimico-fisiche siano sensibilmente differenti.
98 Per esempio, Reportata parisiensia, I, d. 17, q. 4, n. 2: “non sunt aliqua incompossibilia

formaliter, nisi propter aliquid, quod est intra ipsa” (pure Lectura, I, d. 17, p. 2, q. 4, §§ 218-
220; Ordinatio, I, d. 17, p. 2, q. 2, 242, ex q. 5, n. 3). Questo significa che l’incompossibilità di
essere-bianco e essere-assolutamente-non-bianco, ossia formaliter, è indipendente dal fatto
che un oggetto non possa essere bianco-e-nero (che non è la stessa cosa di una bandiera
bianconera, ne sventolano tante negli stadi). L’incompossibilità ‘formale’ è la Super-Con-
traddizione, mentre far sí che lo stesso punto di una bandiera sia bianco-e-nero è certamente
possibile, per onnipotenza a Dio, anche se noi non capiamo neppure come tentare di farlo.
58 CAPITOLO PRIMO

invece fare esistere e/o essere un non-cerchio, se questo termine indica un


esistente e/o un reale qualunque, insieme a un cerchio: la negazione semplice
non genera assurdità metafisica, solo la negazione assoluta genera tale assurdità.
L’acqua e il fuoco possono coesistere in un punto, se Dio lo vuole (se qui
“fuoco” è un esistente di “non-acqua”), mentre l’acqua e la non-acqua non
potranno mai coesistere (se qui “non-acqua” è la negazione assoluta dell’acqua).
La scelta paraconsistente di Scoto appare chiara per esempio in questi due
passaggi dai Reportata parisiensia, I, d. 43, q. 1:
n. 9: “si Deus non esset, contradictoria contradicerent” (la Super-Con-
traddizione è indipendente da Dio, e se anche si desse il nulla, ossia l’assenza
totale di Dio, i contraddittori contraddirebbero ancora, dato che essi sono il
nulla) – del tutto equivalente, Ordinatio, I, d. 43, q. unica, 5, ex n. 2 “immo
repugnaret sibi esse, si per impossibile Deus non esset”, 14-16, ex n. 5-6, sulla
incompossibilità figmenti, nonché Lectura, eod. loc., § 12;
e poi sulla natura della compossibilità
n. 14: “incompossibilitas hujus, album et nigrum, reducitur ad Deum, non
ut ad causam privativam, sed ad causam affirmativam, quae est intellectus divi-
nus, quae est tota ratio esse formalis partium” (la causa dell’incompossibilità è
un’azione positiva dell’intelletto divino, la costituzione minima di uno scheletro
definitorio reale del mondo) – ancora nell’Ordinatio, eod. loc., 18, ex n. 7, afferma
che non si dà una ragione in sé dell’incompossibilità assoluta, che è sempre un
fatto relazionale di questo e quello che non possono darsi insieme (il che spiega
che questo e non-questo necessariamente non si dia) : “falsa est imaginatio
quaerentium impossibilitatem aliquorum quasi in aliquo uno, quasi aliquid unum
– vel intelligibile vel qualecumque ens – sit ex se formaliter impossibile sicut Deus
ex se formaliter est necesse esse. Nihil enim est tale primum in non-entitate, nec
etiam entitatis oppositae tali non-entitate est intellectus divinus ratio possibilitatis
oppositae; nec etiam intellectus divinus est praecisa ratio possibilitatis oppositae
de nihilo, quia tunc teneret illud argumentum ‘de causis praecisis in affirmatione
et negatione’” (cfr. Post. Anal. I, c. 13), e prosegue “Sed omne ‘simpliciter nihil’
includit in se rationes plurium, ita quod ipsum non est primo ex ratione sui, sed
ex rationibus illorum quae intelligitur includere, propter formalem
repugnantiam illorum inclusorum plurium” (Lectura, eod. loc., §§ 15-16) 99
La Super-Contraddizione non è causata dalla volontà divina, dato che
quest’ultima è la causa specifica immediata dell’esistenza e solo mediata (attra-
verso la causa dell’esistenza) del reale-non-esistente, e l’intelletto divino è causa

99 Scotus afferma: “‘nihil’ signamus, et tamen ‘nihil’ non est intelligibile” (Quaestiones

Metaphysicorum, II, q. 4-6, 135, ex n. 23).


APPROCCIO GENERALE 59

specifica della realtà (le formalitates sono reali, una relazione è una formalitas, reale
ma non esistente, si tratta di un ens deminutum – assolutamente indipendente dal
nostro intelletto, ma non dotato dell’esistente come le sedie ed i tavoli nel
nostro mondo attuale – l’esistenza è un predicato 100, pace Kant 101, noi intuiamo
che certe cose la possiedono – il coltellino di bronzo che ho in tasca, mentre
altre non la possiedono – il coltellino di corno che ho in tasca, ma quest’ultimo
stato di cose ha l’altra proprietà di essere reale-e-non-esistente). La struttura di
ogni mondo possibile, l’insieme di tutte le formalitates, ci offre la nozione di
Super-Contraddizione, poiché una Super-Contraddizione è una cosa di cui Dio
può pensare, ma Egli non può volerla come oggetto di volizione (sempre le
Chimere). In un senso, la Super-Contraddizione si dà anche se Dio non è, e la
mera contraddizione è un esito della volontà divina (Egli ha creato il nostro
mondo attuale). Ma la Super-Contraddizione è niente, e niente è la Super-
Contraddizione. Quindi, la Super-Contraddizione non è un limite posto a Dio,
la Super-Contraddizione è il limite del nostro pensiero (e pure della volontà
divina) rispetto alla totalità delle cose che sono. E nella realtà, ci sono vere
(piccole-)contraddizioni: innanzittutto, Dio è nel mondo e Dio non è nel
mondo, contraddizione vera e per di piú necessaria, ossia contraddizione tauto-
logica (a meno che non si opti per una metafisica atea o per una metafisica
includente un Dio non-personale). Parimenti è una contraddizione tautologica
quella della creazione ex nihilo, per cui Dio crea il mondo dal nulla: prima il
nulla, poi il mondo. Ma questo nulla, questo non-esse, non è denotante, come
dice Scoto “in nullo susceptivo est” (Ordinatio, II, d. 2, pars 2, q. 5, 408, ex q. 9,
n. 34) e quindi non può contraddire l’esse creati – che è un quid – in quanto

100 Discute questa idea in maniera problematica Wolter (Allan B. Wolter, Is Existence for

Scotus a Perfection, Predicate, or What?, in The Philosophical Theology of John Duns Scotus, Ithaca
1990) sostenendo che per Scoto la qualità di esistere è una proprietà intransitiva delle cose
(Wolter, The Philosophical Theology, 284). Io credo che Scoto adotti una semantica dei mondi
possibili, quindi per lui sia naturale credere nella tesi che l’esistenza sia un predicato (Luca
Parisoli che è nato il 17.12.1965 esiste, mentre Luca Parisoli che è nato il 16.12.1965 è reale,
e sono lo stesso Luca Parisoli, in linea con la teoria del nome proprio come denotatore
rigido di Saul Kripke).
101 Discutendo la storia teoretica dell’argomento ontologico, Jonathan Barnes (The

Ontological Argument, London 1972) considera che lo slogan “l’esistenza non è un predicato”
è certo popolare, ma nondimeno è oscuro (39).
In merito si veda anche Lorenzo Peña, Verum et ens convertuntur. The Identity between Truth
and Existence within the Framework of a Contradictorial Modal Set Theory, in Paraconsistent Logic:
Essays on the Inconsistent, München 1989, in particolare 576-580, in cui prende inoltre le
distanze da una teoria dei mondi possibili.
60 CAPITOLO PRIMO

Super-Contraddizione 102. La prospettiva averroista in cui la creazione presup-


pone una materia pre-esistente per un presunto principio di continuità è radi-
calmente capovolta: se Dio si limitasse a manipolare un quid pre-esistente, non
si capirebbbe come abbia potuto creare il mondo (la prospettiva del Dio-de-
miurgo è gettata alle ortiche). Proprio perché c’è il nulla, che indica il vuoto
assoluto del reale, la Volontà divina, potenza assoluta dell’universo, può creare
e fare emergere il reale, esistente o meno. Nel nulla ritroviamo linguisticamente
l’assolutamente impossibile e ciò che potrà essere creato, ossia l’intellettualmen-
te possibile: per esempio, Scoto, nell’Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 281-285, ex n. 27,
e nei Reportata parisiensia, II, d. 1, q. 6, n. 17-18 afferma che la “contradictio non
est relatio realis”, ossia la Super-Contraddizione esiste solo nell’intelletto e la
sua impossibilità è oggettiva (Lectura, I, d. 36, q. unica, § 35); in Ordinatio, I, d.
36, q. unica, 8, ex n. 2, Scoto argomenta contro Enrico di Gand ed asserisce la
Super-Contraddittorietà del non-essere, senza distinzione di sorta tra questo
“non-essere” e quest’altro “non-essere” – “si aliquod purum non-ens (sive
nihil) esset possibile, et aliquod purum non-ens (sive nihil) esset impossibile,
unum nihil esset magis nihil alio, quod videtur absurdum” – la tesi osteggiata è
di Enrico di Gand in Summa questionum ordinarium, a. 30, q. 2, ad 1, contestata in
dettaglio poco dopo, Ordinatio, loc. cit., 26-29, ex n. 6.

IV. Precisazioni sulla relazione inclusiva tra l’Esistenza e la Realtà

Una cosa esistente è sempre reale, e ci sono cose reali che non esistono:
l’insieme delle cose reali contiene come suo sotto-insieme tutte le cose esistenti, e
a sua volta è reale tutto ciò che non è super-contraddittorio. Scoto distingue lessi-
calmente tra esistenza attuale e esistenza non-attuale (e si ricordi, il ‘reale’ ingloba
le due): lo fa per esempio nell’Ordinatio quando discute della possibilità che Dio
crei ‘sine principio’, altrimenti detto dall’eternità 103. Rifiutando le tesi di Enrico di
Gand che disegnano una specie di ‘esistenza assoluta’, Scoto riafferma il valore
intrinseco dell’atto che pone in esistere una cosa (attuale o non-attuale) e
ribadisce che la quidditas della pietra non ha la proprietà necessaria di essere creata
e che questo non implica che essa possa essere creata ‘sine principio’, dato che
alla stessa quidditas ripugna formalmente tale possibilità. In termini anti-kantiani,

102 Per un’altra occorrenza, Ordinatio, I, d. 17, pars 1, q. 1-2, 187, ex q. 3, n. 34: “in
creatione autem nullum praesupponitur susceptivum”.
103 Ordinatio, II, d. 1, q. 3, 132-135, ex n. 9. Nel luogo parallelo della Lectura non si

ritrova lo stesso lessico, anche se la tesi filosofica è sostanzialmente conforme.


APPROCCIO GENERALE 61

l’esistenza è un predicato 104, che si riceve per atto creativo divino: Scoto insiste
che l’incompossibilità, l’unico limite all’onnipotenza divina (la Super-
Contraddizione) è una ‘non-volibilitatem ex parte obiecti’ 105, come spiega anche
nel luogo già visto dell’Ordinatio, I, d. 43 106, dove insiste nel considerare una
‘falsa imaginatio’ l’idea che qualcosa sia ‘ex se formaliter impossibile’. Per
questo Scoto insiste sull’idea di incompossibilità, dato che nulla in quanto unico
è Super-Contraddittorio per Dio, solo sfugge alla sua onnipotenza che sia A e
sia assolutamente non-A, ovvero una coppia Super-Contraddittoria.
Ancora, Scoto precisa che l’ens ratum è quello che possiede ‘ex se firmum et
verum esse’, il quale si ripartisce in ‘sive essentiae sive exsistentiae’ 107 e precisa
che i due non sono disgiungibili per quanto ‘qualitercumque distinguantur’ 108. E
nello stesso passaggio precisa che l’ens ratum si distingue innanzittutto dai
‘figmentis’, ossia all’ens ratum non repugna il vero essere dell’essenza o
dell’esistenza. Traducendo nella terminologia dei mondi possibili, l’ente rato è
l’ente reale, che si dà nei mondi possibili, e da cui vengono esclusi gli oggetti
coimpossibili, che oggetti non sono (Dio non li può creare). E vi sono enti
esistenti oppure enti che hanno solo l’essere dell’essenza: i primi appartengono
al mondo attuale, gli altri ai mondi possibili non-attuali, e non si possono
pensare senza l’ente esistente nel mondo attuale (Dio non li avebbe creati) dato
che si possono pensare solo come infinite variazioni sugli enti del mondo
attuale. Per parafrasare Lewis, le scimmie che parlano sono una variazione sulle
scimmie del mondo attuale: e se si dà un ente rato in un mondo possibile che
non è mai esistito nel mondo attuale, allora è certo che potrà esistere in futuro,
dunque il suo essere esistenziale è possibile. Altrimenti, sarebbe una finzione,
quindi non sarebbe un ente rato. Al di fuori dell’ipotesi dei mondi possibili,

104 Quaestiones metaphysicorum, IV, q. 1, 88, ex n. 14: “contingit cognoscere de aliquo

quod ipsum exsitit, non cognoscendo si in se exsistit vel in alio. Sed illud ‘esse exsistere’ non
est quid, sed preaedicatur denominative de eo sicut accidens, et illud ponitur de genere
actionis, et est eiusdem rationis in omnibus rebus, ut denominans illa”.
105 Ordinatio, II, d. 1, q. 3, 130, ex n. 9.
106 Ordinatio, I, d. 43, q. unica, 15-18, ex n. 6-7.
107 Si noti che Scoto non usa aut (l’uno o l’altro, ma non entrambi), bensí sive (uno dei

due oppure entrambi) – Ordinatio, I, d. 43, q. unica, 16, ex n. 6.


108 Ordinatio, I, d. 36, q. unica, 48, ex n. 11; parallelo in Lectura, I, d. 36, q. unica, § 32.

Un precedente di questa idea (diciamo, l’essenza non ha entità se non esiste in atto) è Pietro
di Giovanni Olivi, nel commento alle Sentenze II, q. 8, ad 1um, ma si tratta di un
precedente equivoco, dato che Olivi ha una netta propensione nominalista radicalmente
negata da Scoto: solo li può unire il rifiuto delle sostanze separate platoniche, ma l’ontologia
di Olivi è nettamente piú ‘avara’. Per Scoto, le essenze sono reali, anche se non esistono.
62 CAPITOLO PRIMO

tutto il passo sembra una spiegazione di ciò che è oscuro – la relazione tra la
creatura ed il Creatore – con concetti ancora piú oscuri.
Discutendo la natura degli angeli, Scoto elabora interessanti considerazioni
sulla natura dell’esistenza nel flusso temporale 109; ma va sottolineato che la
nozione di fluxus è quella di un ordine non-necessariamente temporale (l’idea di
movimento è un caso particolare di fluxus), di modo che ci sono diverse nozioni
di esistenza attuale 110. Abbiamo quindi:
1. “formae inquantum actu est in fluxu”, questo è il tempo della nostra
esperienza fenomenologica, in cui collochiamo le cose che esistono in senso
stretto;
2. non-1, ossia senza la proprietà 1., “res nata est esse sub fluxu”, come il
calore nell’esse quieto – si tratta quasi di un tempo senza cambiamento 111 in cui si
danno le cose, esistenti in senso lato, ma certamente reale;
3. non-1-e-2, “aliquid annexum, ratione cuius potest esse sub fluxu”, ad
esempio la forma sostanziale del fuoco, oppure la sostanza celeste (nella Lectura,
II, d. 2, pars 1, q. 2, § 94, spiega come la forma sia realmente distinta dal flusso
– “sicut albedo, quae fluit secundum partes fluentes, potest esse sine fluxu”) –
qui dire esistente è ambiguo, ciò che è comune alla forma in atto e alla forma
sostanziale è la realtà, non l’esistenza nel senso 1., dato che nessun realista è
stato mai tanto ingenuo da sostenere che possiamo toccare con le mani la
forma sostanziale del fuoco;
4. non-1-e-2-e-3, una cosa che non è eterna, come gli atti intellettivi degli
angeli, ma non possiede la stessa modalità di realtà delle forme sostanziali, dato
che gli angeli sono agenti morali, persone metafisiche – essi si manifestano nel
mondo attuale, ma non appartengono necessariamente al mondo attuale (si
ricordi, per curiosità, che non possono mangiare), mentre le forme sostanziali

109 Reportata parisiensia, II, d. 2, q. 1, n. 3. Per un luogo parallelo sulla polisemia della

nozione di ‘flusso’, si veda Lectura, II, d. 2, pars 1, q. 4, §§ 153-155, e il luogo parallelo


dell’Ordinatio, 171-178, ex n. 9-10.
In queste mie osservazioni mi discosto dalla lettura condotta da Richard Cross, The
Physics of Duns Scotus, Oxford 1998. Dato che gli scopi delle nostre analisi divergono, non
ritengo utile scendere in una polemica puntuale, anche perché ciò che mi pare rilevante è
l’argomentazione proposta, e soprattutto perché la prospettiva paraconsistente crea un
quadro alternativo di discorso logico.
110 McTaggart lavora similmente sull’irrealtà del tempo – J. McT. Ellis McTaggart, The

Unreality of Time, in Mind 17 (1908) 45-74, poi in Philosophical Studies, Bristol 1996 (reprint
London, 1934).
111 Per la nozione di tempo senza cambiamento nella filosofia contemporanea, il luogo

classico è R. Shoemaker, Time without Change, in Journal of Philosophy 66 (1969) 363-381.


APPROCCIO GENERALE 63

sono associate a oggetti, non hanno esistenza separata (Scoto non segue Platone
su questo punto) ma sono perfettamente distinte dagli oggetti spazio-temporali;
5. non-1-e-2-e-3-e-4, una cosa eterna, come l’esistenza degli angeli, voluta
da Dio, quindi ontologicamente posteriore all’essere necessario che si dà in ogni
mondo possibile, ma completamente fuori dal tempo – questo è l’ordine degli
angeli che i medievali chiamavano aevum, che non ha piú elementi temporali, ma
comunque un ordinamento. Si noti che non si tratta di una specificità del solo
regno delle creature angeliche, tanto che in Lectura, II, d. 2, pars 1, q. 3, § 125, si
asserisce “existentia angeli mensuratur aevo; et etiam existentia lapidis et omnis
existentia quae uniformiter manet, dum manet, mensuratur aevo”. Mentre gli
oggetti spazio-temporali cadono immediatamente sotto 1., ciò non toglie che
l’ordine a-temporale ontologico 112 che misura la realtà di tutte le cose è l’unico
ordine a validità universale, in tutti i mondi possibili. Vale per la realtà, e
l’esistente è un sottoinsieme particolare della realtà.
Scoto analizza la successione formale (Ordinatio, II, d. 2, pars 1, q. 1, 19, ex
n. 6) per rendere conto della a-temporalità non-statica degli esseri angelici,
frutto della volizione divina e comunque eterni. Scoto osserva una proprietà
particolare dell’eternità, per cui “aeternitatis, in qua possunt esse contradictoria,
quae succedunt sibi in omnibus mensuris” (71, ex n. 22): Dio non può volere
creare e distruggere nello stesso momento un angelo, non perché si tratti di una
contraddizione fatale, quanto piuttosto perché creare è la messa in esecuzione
di un atto volitivo. Infatti, Dio può volere conservare e distruggere nello stesso
istante un angelo: non c’è bisogno di ricorrere al mutamento temporale per
rendere conto della dinamicità dei rapporti Dio-angeli, basta la teoria sincronica
della modalità contingente esposta nella Lectura, I, d. 39 e nell’Ordinatio I, d.
39 113. La creazione e la distruzione di un angelo sono avvenimenti in quanto
sono “simul in aeternitate” e noi li computiamo in base a parti temporali che

112 San Bonaventura usa l’ordine di successione per eliminare la possibilità di


contraddizioni vere. Dio vuole creare un angelo, una semplice essenza, e lui vuole anche
distruggerlo: questa ipotesi, ispirata dal fatto stesso dell’angelo demoniaco, è veramente
possibile? – In Sententiarum, II, d. 2, pars 1, a. 1, q. 3, arg. 6-7. La risposta di Scoto nella
Lectura è che non si può “facere angelum non fuisse, sic nec non fore”, e che la volontà
divina può volere distruggere un angelo dato che vi sono diversi ‘istanti’ che scandiscono la
vita degli angeli.
113 Anche se nell’edizione Vaticana il testo della d. 39 dell’Ordinatio è dato in

Appendice, l’ultima tendenza degli esperti è di considerarlo pienamente scotiano. Con un


cumulo di nuove conoscenze filologico-storiche, si ritorna al dato teoretico dell’Opus
oxoniense: si veda per completezza anche nei Reportata parisiensia, I, d. 40, q. unica.
64 CAPITOLO PRIMO

coesistono con gli angeli, ma non si identificano con essi 114. Con questa mossa
di chiarificazione volontaristica Scoto può depurare l’aevum – la successione
d’ordine delle creature angeliche – di ogni scoria temporale nel senso della
nostra esperienza fenomenologica. Lo stesso concetto è nella Lectura, II, eod.
loc., §§ 62-63 – “illud quod fuit, potest facere non fore et non coexistere cum
futuro”, con la chiarificazione nell’Ordinatio (68, ex n. 21) in cui dice per gli
angeli non c’è passato intrinseco, anche se c’è creazione degli stessi. Mi pare che
solo la struttura dei mondi possibili permette di rendere questa idea qualcosa di
diverso da un gioco di parole, anche perché Scoto non si pronuncia in maniera
aperta per l’irrealtà del tempo: infatti, contro le critiche alla sua posizione che gli
oppongono che dovrebbe ammettere che il passato degli angeli non è
necessario, preferisce dire che gli angeli non hanno passato (asserto compatibile
con la negazione della realtà del tempo, ma che non lo asserisce apertamente).
McTaggart avrebbe forse detto esplicitamente che il tempo non ha modalità
ontologica 115, un teorico dei mondi possibili può dire che il tempo si dà solo in
almeno un mondo possibile (il nostro attuale), ma non in tutti (non in quello
degli angeli), e si ritorna cosí alla tesi di McTaggart in una formulazione
diversa116. Queste posizioni sono perfettamente compatibili con il (anche se
non necessariamente esposte nel) testo scotiano. Francesco di Meyronnes
asserisce, volendo sintetizzare Scoto, “existentia nihil aliud est nisi illud esse

114 Lectura, II, d. 2, pars 1, q. 1, §§ 67-68; Ordinatio, eod. loc., 76-79, ex n. 24.
115 McTaggart dimostra che si dà una serie esclusivamente di ordine, senza alcun
riferimento temporale, che lui chiama C-serie, nel suo The Nature of Existence, Cambridge
1927, II, libro VI, cap. 45-50. In The Unreality of Time, 110, aveva osservato che “almost all
mysticism denies the reality of time”.
116 McTaggart adotta un’ontologia idealista, in cui trovano spazio delle entità personali

che non sono prima facie riconducibili alle persone metafisiche cristiane, anche se le loro
relazioni sono connotate suggestivamente dall’amore e da null’altro (si veda The Further
Determination of the Absolute, in Some Dogmas of Religion, London 1906, cap. 9, poi in
Philosophical Studies, 266-268, in cui emerge come l’approccio idealista fraintenda il rapporto
d’amore tra il Creatore e la creatura), con eco francescana (si veda An Ontological Idealism, in
J. H. Muirhead, Contemporary British Philosophy, London 1924, poi in J. McTaggart, Philosophical
Studies). Sebbene egli propenda per l’esclusiva realtà delle serie di puro ordine (per esempio,
“to exist and to be in time seem to me two characteristics, each quite distinct from the
other”, The Relation of Time and Eternity, in University of California Chronicle 10 (1908) 127-152,
poi in Philosophical Studies, 135-136) quando osserva “most people combine the view that the
A series is real with the view that the past cannot change – a combination which is
inconsistent” (The Nature of Existence, II, 13) lascia aperta la possibilità di considerare che la
percezione del tempo (A serie) sia fenomenologicamente data nel mondo attuale e che il
tempo passato non sia immutabile che per noi.
APPROCCIO GENERALE 65

mediante quo quidditas existit ... realitas est quidam modus intrinsecus
mediante quo realitanter omnia quae sunt in aliquo” 117. L’esistenza è una
proprietà delle essenze che divengono esistenti 118, oggi diremmo si istanziano,
ma si tratta di una tale proprietà, l’esistenza, che inerisce loro, mentre la realtà è
una proprietà di un insieme che contiene al suo interno anche oggetti e stati di
cose che godono dell’esistenza, ma piú ampia di essa.
Non potendo offrire un uso lessicale costante di realtà-esistenza cosí come
l’ho delineato in Scoto, ma nella convinzione che questa stipulazione linguistica
permette di cogliere al meglio la semantica ontologica e metafisica di Scoto, mi
limito a dare qui di seguito una breve scelta di passi significativi. La discussione
delle varie problematiche scotiane sarà parimenti una prova dell’efficace
fruttuosità dell’adozione di questo modello che non considero neppure inter-
pretativo in senso forte, ma solo una riformulazione del pensiero scotiano.
Vediamo il primo, tratto dal Quodlibet, 6, n. 34, che è un’analisi della di-
stinzione reale nelle persone trinitarie. Per opporsi all’argomento “aequalitas ergo
personarum non necessario requirit existentiam realem personarum, sic, quin sine
ea possit intelligi esse”, Scoto asserisce : “si intelligatur homo, sive sit, sive non
sit, necessario intelligitur risibile consequens ipsum in intellectu, nec tamen
sequitur, quod risibile non sit ejus passio realis ; ita hic propter necessariam
consecutionem aequalitatis ad supposita distincta in natura divina, sive illa
existens, aequalitas convenit eis existenter, sive illa intelligantur circumscribendo
existentiam, vel abstrahendo ab existentia, in intellectu consequitur aequalitas. Ad
formam argumenti dico .. non enim tantum convenit istis, ut habentibus esse
rationis, sed esse reale, et ideo realiter”. Si tratta di affermare che l’equaglianza
non è un puro concetto logico, esso si connota ontologicamente: qui lessical-
mente non c’è uso distinto tra ‘esistere’ e ‘essere reale’, e tuttavia ‘reale’ si caratte-
rizza, come ‘esistente’, per ‘essere indipendente dall’intelletto umano’.
Vediamo poi dalle Quaestiones Metaphysicorum (V, q. 11, 81, ex n. 12) la sua
conclusione 19: “Correlativa simul sunt: aut intelliguntur quantum ad actum
essendi, et sunt multae instantiae, ‘prius’ et ‘posterius’ etc.; aut in quantum cor-
relativa ‘simul’. Sic quandocumque una relatio alicui – sive exsistenti actu, sive
non – inest, relatio corrispondens inerit alteri, sicut quandocumque paternitas

117 Tractatus formalitatum, Venetiis 1520, f 264rb.


118 Nella Lectura, II, d. 3, pars 1, q. 5-6, § 171, Scoto osserva che Aristotele chiama le
quiditates con il termine ‘forma’, e sottolinea cosí in maniera implicita la sua maggiore comu-
nanza con le Forme platoniche (rifiutando che siano sostanze completamente separate). Si
completi il riferimento con Ordinatio, I, d. 8, p. 1, q. 4, ex n. 22; I, d. 3, p. 1, q. 3, 159-161, ex
n. 15-16; Lectura, I, d. 3, p. 1, q. 1-2, §§ 121-122.
66 CAPITOLO PRIMO

inest alicui, filiatio inest alicui – exsistenti sive non-exsistenti. Sic tamen semper
subiectum erit, sicut requiritur ipsum esse ad hoc ut fundet talem relationem,
sicut aliquando fuit in generari” – questa coppia ‘esistente o non-esistente’
richiede per essere compresa che si stia parlando del non-esistente non come
nulla, bensí come realtà.
Passando a parlare della natura ontologica della relazione, leggiamo Quae-
stiones Metaphysicorum V, q. 11, 42, ex n. 5: “non dividitur relatio in rem et rationem,
sicut nec rosa in rosam realem et rationis. Sunt enim duo modi essendi eiusdem”.
L’essere di ragione è confinato nella mente umana, quello reale no: la rosa è
sempre la stessa individualità, dato che non ha individualità nell’intelletto uma-
no. Scoto continua ad opporre l’identità (concetto logico) con la somiglianza
(concetto ontologico), e nel momento in cui la relazione di somiglianza è detta
reale si comprende come sia utile disporre di un aggettivo per indicare la pro-
prietà di due oggetti bianchi (essi esistono) e di un altro per indicare la proprietà
della relazione di somiglianza di colore tra di essi (non è concettuale, essa è
reale) – Quaestiones Metaphysicorum VII, q. 13, 67, ex n. 10: “nullo exsistente
intellectu, realis est similitudo huius albi ad illud album secundum simili-
tudinem; ergo aliqua realis unitas est proximum fundamentum huius relationis,
quia relatio realis non fundatur super ens rationis formaliter, nec super aliquid
quo est tale formaliter per aliquid rationis; sicut fundamentum identitatis est
aliquid tale formaliter per aliquid rationis, et ideo est relatio rationis”.
Si badi che l’esse essentia e l’esse existentia non sono mai veramente separati,
dato che la differenza nell’attività ontologica tra Dio e l’uomo non è tanto nel-
l’intellezione logica – quella dell’uomo è (infinitamente) meno ampia, non già quali-
tativamente limitata rispetto a Dio, quanto nella volizione divina che produce
l’esistenza, mentre quella umana non produce nulla (Ordinatio, I, d. 36, q. unica, 26-
29, ex n. 6: si badi, si tratta di intellezione, non già di conoscenza – Reportata pari-
siensia, I, d. 36. q. 3-4, n. 31: se ad un oggetto ripugna l’essere esistenziale, ripugnerà
anche l’essere quidditativo, ossia l’esistente deve anche essere reale, sebbene il reale
possa essere non-esistente). Cosí Scoto afferma che i mondi possibili reali non-
esistenti non sono in nessun senso una sfera intelligibile pre-esistente al mondo
attuale: solo la volizione creatrice divina li rende indirettamente reali non-esistenti
(si possono vedere l’Ordinatio, I, d. 35, q. unica, oppure la Lectura, II, d. 1, q. 1, sulla
Trinità, od ancora i reciproci luoghi paralleli: prima Dio afferra l’intelligibile, le
essenze, poi lo crea nella sua individualità con la volontà, ma ciò che non è creabile
non è neppure intelligibile) 119. Anche se non si desse un Dio (anche se de re

119 Si veda anche Reportata parisiensia, I, d. 35, q. 2, n. 5, sino alla fine.


APPROCCIO GENERALE 67

l’ipotesi è assolutamente impossibile) 120, sarebbe possibile per un intelletto –


reale in quel contesto – affermare che ‘la creazione del mondo sarà’, e questa è
una possibilità logica vera – ma anche la conversa ‘la creazione del mondo non
sarà’ sarebbe necessariamente una possibilità logica vera (Ordinatio, I, d. 7, q. unica,
27, ex n. 6; Quaestiones Metaphysicorum, IX, q. 1-2, 18, ex n. 3, sulla potentia logica in
Aristotele; e per il luogo I, d. 36, si vedano Ordinatio, q. unica, 39, ex n. 9; Lectura, q.
unica, §§ 30-31; Reportata parisiensia, q. 3-4, n. 7 – tra la “possibilità-di-essere” e la
“possibilità-di-non-essere” solo la volontà può attribuire una verofunzionalità). Nel
passaggio parallelo della Lectura (I, d. 7, q. unica, § 33) Scoto asserisce che dalla
ipotesi della non-esistenza divina segue validamente che “aliquis vere possit scire
metaphysicam”: questo deve essere letto come affermazione ontologica del fatto
che la metafisica non accerta l’esistenza, bensí il possibile, il regno delle modalità, le
quidditates, ossia la totalità della realtà (tutti i mondi possibili). In altri termini, una
metafisica atea è possibile logicamente, ma falsa in ogni mondo possibile reale.
Ed infine, affrontando il principio di individuazione delle cose, Scoto
esclude che la proprietà dell’esistenza possa essere un momento decisivo di tale
principio: tutti gli oggetti del mondo attuale esistono, quindi l’esistenza non
distingue nulla, ciò che conta è il grado di istanziazione (per usare un lessico
moderno, Scoto parla di gradi) del modo di essere della sostanza nel mondo
attuale. Lectura, II, dist. 3, pars 1, q. 3, § 56 : “exsistentia actualis non habet
differentias per se, sed tantum habet variari secundum esse quiditativum ; ergo
non est de se distinctivum, et per consequens non potest esse prima causa
alicuius distinctionis”. Le quidditates, perciò, non si riducono agli individui, non
sono separabili assolutamente dagli individui (emendazione del Platonismo), ma
non sono neppure un prodotto della mente umana: esse sono reali, ossia si
danno nei mondi possibili, e in quello attuale in individui esistenti.
Questo panorama ontologico permette a Dio, tramite la sua potenza
assoluta che copre tutti i mondi possibili, di porre contraddizioni vere, e di
tracciare i limiti della Super-Contraddizione. Francesco di Meyronnes scrive nel
suo In primum sententiarum, d. 43-44, q. 6 “potentia absoluta est divina potentia

120 Dio è un essere necessario in ogni mondo possibile, tanto che Dio è anche quando

null’altro è, per esempio prima di ogni Suo atto creatore. L’argomento ontologico funziona
in un sistema di logica modale sufficientemente forte (S5) da ammettere la possibilità di un
essere assolutamente necessario: ne deriva la sua esistenza in ogni mondo possibile. Rinvio
per un’analisi dell’insufficienza dell’apparato logico per inverare l’argomento ontologico a
Sergio Galvan, Introduzione alle logiche filosofiche II: applicazioni filosofiche della logica deontica,
Milano 1987, 127-135, e dello stesso, La logica della progettazione pedagogica, in G. Delle Fratte,
Teoria e modello in pedagogia, Roma 1986, 52-57. Mi limito a considerare che un argomento
ontologico presuppone in un senso ovvio delle buone ragioni ontologiche.
68 CAPITOLO PRIMO

executiva quantum ad omnia que sunt in ea virtualiter contenta. Ista tamen ut


consequens actum rationis divine continentis determinationem voluntatem: ut
sic ordinata est”, recependo la tesi scotista intorno alle deroghe al Decalogo “et
tunc in furto dispensavit in spoliatione egyptiorum” (Venetiis 1520, f. 126rb).
Le cose ‘virtualiter in ea contenta’ devono essere compossibili fra di loro, sono
quindi le cose reali dei mondi possibili: l’ubiquità, apparentemente impossibile
nel mondo attuale, non lo è per gli angeli, e Dio, dato che essa non è Super-
Contraddittoria, la può porre in atto nel mondo attuale per potenza assoluta 121.
Francesco asserisce ancora senza ambiguità sulla Super-Contraddizione, d. 43-
44, q. 3 “quantumcumque sunt aliqua que ex suis rationibus formalibus habent
incompossibilitatem: ubicumque inveniuntur eadem incompossibilitas erit: sed
ita salvatur ratio formalis cuiuslibet extremi contradictionis in unico instanti,
sicut in toto tempore” (f. 124va). In questo modo, può asserire che Dio non
può realizzare la Super-Contraddizione: l’acqua e il fuoco sono disparata, il fuo-
co e il non-fuoco sono contradictoria 122. Dio può collocare l’acqua e il fuoco nello
stesso luogo: non si tratta di una Super-Contraddizione (forse una contraddi-

121 Duns Scoto si era espresso nel secondo libro delle Sentenze, sia per l’ubiquità
dell’angelo, sia per la compresenza di piú angeli in uno stesso punto (in maniera sempre piú
decisa e categorica nel percorso che va dalla Lectura sino ai Reportata parisiensia): anche se
Scoto non utilizza certo il linguaggio delle geometrie alternative a quella Euclidea, sembra
quasi che Scoto adotti una particolare geometria non-archimedea per regolare il movimento
dell’angelo nello spazio, capace di muoversi nello spazio euclideo del mondo attuale, sia in
quello non-archimedeo che è proprio degli angeli (se ambedue obbediscono alla stesse
regole di triangolazione, c’è continuità nel movimento angelico e nelle sue traiettorie che lo
conducono alla terra; Scoto manifesterebbe cosí con la geometria semi-euclidea una scelta di
tipo iperbolico – ossia, esistono infinite parallele ad una retta data passanti per un certo
punto). La geometria semi-euclidea è una geometria in cui non vale il postulato euclideo
delle parallele, ma in cui la somma degli angoli interni di un triangolo è eguale a 2 retti,
esattamente come nella geometria euclidea; in essa non vale il postulato di Archimede, per il
quale date due grandezze geometriche, è sempre possibile trovare un multiplo di quella
inferiore all’altra che sia superiore a questa (per queste nozioni matematiche, rinvio a E.
Agazzi, D. Palladino, Le geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria, Milano 1978, 93-100,
109-114, 275-286, specie quest’ultima con uno schema riassuntivo).
Non pretendo affatto di dire che Scoto sviluppasse consapevolmente queste analisi
matematiche, intendo solo dire che gli sviluppi novecenteschi dell’analisi matematica hanno
mostrato una razionalità del discorso geometrico che permette di qualificare la fisica angelica
di Scoto come razionale e coerente (quindi dire che un angelo è qui e anche là non è una
contraddizione vera, è una descrizione vera dello spazio che va al di là del mondo attuale in
cui, per citare Scoto, si danno differtenti ubi).
122 Duns Scoto, Opus oxoniense, III, d. 1, q. 1, n. 16: i contrari (non semplicemente

differenti, ma incompatibili) non possono essere insieme nello stesso tempo.


APPROCCIO GENERALE 69

zione nel senso che l’acqua è non-fuoco: nello stesso senso, attraverso il potere
assoluto della contraddizione vera – ‘acqua e fuoco nello stesso luogo’ è
proposizione possibile nel nostro mondo attuale). Del resto, Scoto aveva detto sia
che gli “assolutamente contrari” sono incompossibili nello stesso luogo e tempo
(‘in eodem’), ma non ‘in gradibus remissis’, ossia nella graduazione delle proprietà
(Ordinatio, I, d. 17, p. 2, q. 2, § 242, ex q. 5, n. 3), sia che la presenza simultanea dei
contrari non è contraddittoria (Quaestiones Metaphysicorum, IX, q. 14, 113, ex n. 24),
dove la ‘contradictio’ è chiaramente una Super-Contraddizione. Ciò che è
contraddittorio, Super-Contraddittorio, è – Ordinatio, II, d. 2, pars 2, q. 5, 406, ex
n. 34 – che “esse caloris et non-esse caloris absolute sumpta” dato che “sunt
incompossibilia simpliciter”, ma soprattutto che da questa opposizione delle
Forme (“formaliter sunt opposita”) determina il fatto che calore e non-calore non
possono essere nello istante, e non il viceversa. Insomma, è la nozione astratta
della Forma di calore che determina l’impossibilità spazio-temporale dell’assenza
e presenza, mentre l’esperienza spazio-temporale della non-presenza di acqua e
fuoco nello stesso punto non ci dice nulla sulle Forme dell’acqua e del fuoco.

V. La trascendenza afferma le contraddizioni vere

Insomma, non è mia intenzione quella di convincere il lettore che Scoto ha


esplicitamente difeso una certa formalizzazione di logica paraconsistente:
suggerirei cosí che si trovano dei passaggi lessicali nella lingua latina che egli usa
traducibili alla lettera con “paraconsistenza” oppure con “contraddizione ve-
ra” 123, oppure potrei suggerire che Scoto ha formalizzato una logica paracon-
sistente. Nulla di ciò: la mia tesi è un’altra, essa è semantica e non già lessicale.
La tesi è che la semantica scotista, letta alla luce della logica classica, è un guaz-

123 Vi è un passaggio in cui Scoto afferma che si dà una contraddizione vera (“non sunt duo

contradictoria complexa simul falsa”), ma è un uso lessicale isolato, mentre il concetto percorre la
sua opera (Ordinatio, I, d. 5, p. 1, q. unica, 44, ex n. 14: “illa enim contradictoria est vera, ‘homo
non in quantum homo, est albus’”). Nella Lectura, I, d. 5, pars 1, q. unica, § 6, aveva affermato che
tra i contraddittori si dà un medio (contro la tesi aristotelica che egli apparentemente recepisce in
piú luoghi, ma in cui parla in realtà della Super-Contraddizione) nella significazione ‘in quantum’,
x in quanto x: ancora una volta è in gioco la rilevanza dell’implicazione, infatti “non sequitur
‘genitum est aliquid vel nihil, igitur in quantum genitum est aliquid vel nihil’, sed est medium”.
Infatti, come dice in Lectura, I, d. 2, pars 2, q. 1-4, § 283, non si dà medio tra i contraddittori (leggi
Super-Contraddittori), “tamen est medium inter contradictoria cum reduplicatione” (leggi piccoli-
contraddittori): ‘l’uomo in quanto tale non è bianco’ è una proposizione falsa quanto la
proposizione ‘l’uomo in quanto tale è bianco”. In Ordinatio, I, d. 2, pars 2, q. 1-4, 431, ex n. 52,
adotta la terminologia ‘per se’ come equivalente a ‘in quantum’.
70 CAPITOLO PRIMO

zabuglio in cui prima o poi Scoto deve fare ammenda e rendere omaggio a
argomenti che migliorino sostanzialmente i suoi errori. Scoto diverrebbe assai
vicino ad atteggiamenti che ricordano la polemica virulenta di san Pier Damiani
contro la dialettica (ossia, nel XII secolo, la logica formale), un anti-raziona-
lismo che si corrobora nella supremazia delle verità di fede. Ma Scoto è ra-
zionalista per eccellenza, se consideriamo la sua sistematica ricerca della dimo-
strazione della possibilità razionale delle verità di fede: Scoto si nutre della fiducia
piú ampia negli strumenti dell’argomentazione filosofica. Eppure, a partire dalla
distinzione formale 124, egli sembra prendersi gioco del principio di contraddizione
anche quando afferma ripetutamente di volerlo rispettare (ma poi nulla sembra
essere contraddittorio per Dio). Se invece leggiamo la semantica scotista alla luce
della logica paraconsistente, la cui semantica rinveniamo nel discorso scotista,
allora il sistema scotiano mostra una salda coerenza interna. In altri termini, chi
voglia sviluppare la filosofia scotista non può che farlo a mio parere, se non in
una direzione paraconsistente: se si prende “scotista” come sinonimo di
“discepolo prima facie fedele di Duns Scoto”, credo che lo Scotista sia condotto a
fare la scelta paraconsistente, e che tutti gli strumenti di tale scelta sono nel testo
argomentativo scotiano. Allo Scotista non restava che la formalizzazione di tale
logica paraconsistente: autori come Lorenzo Peña gliel’hanno offerta, e lo Sco-
tista può continuare a perorare con nuova consapevolezza la sua ontologia e la
sua metafisica senza impropria sudditanza verso la logica classica.
Nel testo scotiano si trovano eccellenti ragioni, specialmente in forza della
filosofia pratica (giuridica, morale, politica), per preferire queste idee: 1) ci sono
piccole-contraddizioni vere, e solo le Super-Contraddizioni sono sempre
false 125 2) il passato è contingente, il tempo non ha spessore ontologico; 3) una
logica con piú di due valori di verità 126; 4) una logica rilevante, in cui

124 Lorenzo Peña notava (El ente y su ser, 175) che la nozione di distinzione formale è

stata ripresa e sviluppata nel XX secolo da Peter Geach.


125 Nel contesto del realismo modale, l’oggetto denotato dalla Super-Contraddizione

non possiede modalità di essere per ogni mondo possibile – quindi, non è un vero oggetto,
dato che parlare di esso non equivale a conferire significato; nel contesto del gradualismo
verofunzionale, l’oggetto denotato dalla Super-Contraddizione è infinitamente falso, dato
che Dio, il solo essere necessario, è infinitamente vero.
126 L’esistenza di atti morali indifferenti è ben stabilita, e pure di stati di cose ‘neutri’,

quindi ci sono almeno tre valori di verità, ma nulla esclude di sviluppare la strategia scotista
nella direzione di una tavola di verità fuzzy, ossia tale che esistono infiniti valori di verità,
complementari a infiniti valori di falsità (in questa prospettiva gradualista, Dio è assolu-
tamente vero, mentre le Chimere sono assolutamente false, mentre gli oggetti reali sono piú
o meno veri, e piú o meno falsi).
APPROCCIO GENERALE 71

l’implicazione non dipende meramente dalla distribuzione dei valori di verità.


Dò per scontato che l’analisi della modalità scotista della scuola di Knuuttila e
di Vos sia persuasiva, e teoreticamente preferibile. Questo sofisticato strumento
metafisico permette a Scoto di rendere conto a suo modo di un’intuizione
risalente nella tradizione ebraica talmudica, che si perpetua nella tradizione
kabbalistica. Essa non è vagamente enunciata, è chiaramente indicata, anche se
la tradizione non parla il linguaggio della moderna logica paraconsistente:
tuttavia, un recente lavoro di esegesi biblica mostra come il tema ricorrente
della visibilità e della non-visibilità divine nell’Antico Testamento si configuri
come una contraddizione apparente127. L’ulteriore passaggio consapevolmente
paraconsistente, che va al di là della categoria puramente religiosa del mistero,
consiste nel prendere atto della verità della contemporanea visibilità e non-
visibilità di Dio 128: il passo biblico da cui prende il via la lettura è 1 Re, 8, 8. “Le
stanghe (dell’arca) erano piú lunghe, per questo le loro punte si vedevano dal
Santo (è il Qodesh) di fronte alla cella (è il Devir, il santuario interno), ma non si
vedevano di fuori; tali cose ci sono fino ad oggi”: Marc-Alain Ouaknin, nel suo
Il libro bruciato (Genova 2000, 251-254) offre questo piccolo passo e il
commento brevissimo che ne fa il rabbino Yehudah come una affermazione
della contraddizione vera che è la trascendenza. Nel Talmud, cosí si legge:
“Rabbi Yeudah offre questa contraddizione (Rami): è scritto (riporta il testo
precedente 1 Re 8, 8). Come spiegare questa contraddizione? Visibile e
invisibile!” (Talmud, Yoma, 54A). Non si tratta di risolvere la contraddizione,
essa è, come è la trascendenza divina. Tanti secoli dopo, un grande kabbalista
argomenterà senza riferimento diretto a questo testo biblico: “Lo ‘spazio
vuoto’ 129 era logicamente necessario per rendere possibile la creazione del

127 Roberto Fornara, La visione contraddetta. La dialettica fra visibilità e non-visibilità divina

nella Bibbia ebraica, Roma 2004.


128 Roberto Fornara (La visione contraddetta, 479) conclude dall’apparente contrad-
dizione all’importanza centrale della dimensione soggettiva dell’esperienza. Sebbene si tratti
di una osservazione feconda, essa non regola i conti con la logica classica, mentre i testi
biblici citati da Fornara sono proprio un regolamento di conti con la logica classica.
129 Hallal hapanui : non c’è traccia di Dio in questo spazio vuoto, ma non per questo si

tratta di un non-Dio, ovvero di un’assenza assoluta di Dio. La negazione di Dio in questo


spazio non è una contraddizione, è una contraddizione vera. Contro ogni deriva panteistica,
Hallal hapanui è un modo per asserire la trascendenza divina. E’ possibile asserire come vere
due proposizioni contrarie: 1. Dio non è nel mondo (attraverso il tzimtzum, il ritrarsi, che gli
permette di operare anche se Egli è trascendente, perché appunto Egli si ritira e si dà uno
spazio dell’operazione); e 2. Dio è nel mondo (senza Dio, non si dà il mondo, e Dio, almeno
il Dio personale della Bibbia, agisce nel mondo). La combinazione di 1. e 2. formano una
contraddizione vera: non si tratta di un’alternativa; non si tratta di una disgiunzione o ...,
72 CAPITOLO PRIMO

mondo. Senza questo ‘spazio vuoto’ (creato – tzimtzum – da Dio nell’infinità)


non ci sarebbe spazio per la creazione del mondo, yesh we’ayin – c’è lo spazio
vuoto e non c’è lo spazio vuoto” (Liqqute Moharan, 64, I, b, c Rabbi Nachman
(1811†) 130).
Gli argomenti non sono gli stessi, Rabbi Nachman 131 usa concetti diversi da
quelli di Scoto, Rabbi Yeudah non sembra dire lo stesso discorso : ma io non
voglio dire che c’è una comunione di argomenti tra questi personaggi, voglio as-
serire che tutti appartengono ad una stessa grande famiglia filosofica, quella di chi
ha scelto la paraconsistenza contro la tradizione classicista. Se evoco questi
esempi della tradizione ebraica è solo per sottolineare come l’opzione paracon-
sistente sia una strategia filolosofica del fatto della trascendenza divina : in queste
pagine mi occuperò di Scoto, ma non si tratta di far rivivere le sottigliezze
metafisiche di un singolo filosofo scolastico. Si tratta piuttosto di mostrare uno
dei tanti casi di opzione paraconsistente nella storia della filosofia : consapevole di
come sia difficile persuadere contro il dogma classicista, cercherò di sfruttare tutte
le risorse scotiste per mostrare che se da un lato vi sono gli argomenti scotisti per
la sua filosofia paraconsistente, dall’altro lato è opportuno che altri argomenti per
una filosofia paraconsistente (simile o dissimile da quella scotista) siano esibiti e
discussi. Dato che, ancora una volta, se non si argomenta contro il dogma
classicista, mostrando la ricchezza e la pluralità dell’opzione paraconsistente, si
rischia di vedersi confinati in un angolo dove tutte le vacche sono nere. Quell’an-
golo in cui il paraconsistente sarebbe costretto a affermare che “tutto è vero”,
secondo la presunta legge logica secondo la quale da una coppia di contraddittori
si deduce validamente qualsiasi proposizione («Luca è alto e basso, allora i fiori si
laminano in vetro»). Esaminando Scoto, vorrei mostrare che per lui questo non
valeva affatto, e che tutta la filosofia è un’enorme sforzo verso le ragioni della
razionalità non limitative dei fatti della fede : il loro limite è un altro, quello di

oppure ...; non si tratta di una sintesi hegeliana. Il nome kabbalistico di questa contrad-
dizione vera è Qushiah, questione: essa riguarda la realtà, non il linguaggio.
130 Aveva già enunciato chiaramente tali teorie, esponendole come interpretazione

autentica – emanante dal profeta Elia – dello Zohar, Isaac Luria il Leone, kabbalista ebreo
del XVI secolo, che ebbe grande influenza sulla successiva mistica ebraica tramite l’Albero di
vita (Eitz Chaim) opera con cui il suo allievo Chaim Vital (ben Joseph Calabrese) mette per
iscritto gli insegnamenti del maestro.
131 E’ chiaro che non si tratta del celebre Nachmanide vissuto nel XII secolo, ma il

fatto che il nome sia identico non è casuale. Nachmanide è infatti uno dei piú grandi
kabbalisti, e le sue riflessioni – contraltare del ben piú ellenisteggiante Maimonide – sono
uno dei vertici del pensiero filosofico ebraico. Rimando alla recente monografia di Chayim J.
Henoch, Ramban. Philosopher and Kabbalist, Northvale NJ 1998.
APPROCCIO GENERALE 73

mostrare la possibilità di molte cose e di non mostrare la verità di altrettante cose.


La verità è invece il privilegio della fede, e piú generalmente dell’intuizione.
Ma il fatto che nella tradizione ebraica vi fosse l’istanza teyku, ossia l’idea
che esistono contraddizioni normative vere, è una suggestione importante per
avere delle indicazioni su dove Scoto abbia potuto, non dico, riprendere cer-
tune delle sue tesi, bensí trarre ispirazione per le sue analisi filosofiche. Non
sono in grado di dimostrare che Scoto abbia letto ognuno degli autori che cito
qui di seguito: non posso dimostrare che abbia letto il Talmud, ma mi sento di
affermare che nell’Ordine francescano circolasse una certa conoscenza del testo
talmudico, che traspare dalla Summa fratris Alexandri e deriva dalla partecipa-
zione di Alessandro di Hales e dal gruppo dei maestri che stesero il primo
commento alla Regola francescana alla commissione di inchiesta sul testo
talmudico negli anni ’40 del XIII secolo a Parigi. Non posso dimostrare che
conoscesse per lettura diretta il volontarismo di Salomon ibn Gabirol o quello
di Al-Ghazali, ma certo il Fons Vitae del primo ebbe larga diffusione nell’Oc-
cidente medievale – esso ha conosciuto una grande diffusione nella sua
versione latina – cui si aggiunge una breve Epitome Campilliensis sintetica e
vigorosa -, e la Destructio destructionum philosophorum del secondo dovette essere
un testo di cui gli scolastici non ignoravano i contenuti, se non altro come testo
del Commentatore di Aristotele, ma di cui Scoto doveva soprattutto apprezzare
gli argomenti che Averroé pretendeva di criticare. Entrambi questi testi hanno
potuto trasmettere alla scuola francescana gli strumenti per immunizzarsi
contro l’influenza di Aristotele. La quinta e ultima parte del Fons Vitae contiene
una formidabile esaltazione del ruolo della volontà divina (per esempio di un
solo passo tra molti, V, 39, ed. Münster 1892, 327) e tutta l’opera esprime un
neo-platonismo che fa della pluralità delle forme e della Forma trascendentale
due bastioni del realismo metafisico. Quale migliore antecedente alle formalitates
di Duns Scoto, oppure al motto del suo seguace Walter Chatton che per
difendersi dal nominalismo occamiano non esitava a negare un’accezione
‘avara’ del principio di economia sino ad affermare che se due enti non bastano
a spiegare un fenomeno, si dovrà avere ricorso a tre, o piú?
Certo, le dispute tra ebrei convertiti al cattolicesimo e rabbini sono stati l’oc-
casione storica per trasmettere il sapere giuridico ebraico nella tradizione cristiana,
che ancora all’epoca di Abelardo mostrava di avere una teoria del diritto assai
ingenua. Per condannare il Talmud, occorreva conoscerlo: Gilbert Dahan ha
osservato che è proprio con le condanne parigine del 1240 che si manifesta una
74 CAPITOLO PRIMO

reale conoscenza del Talmud 132. Sono proprio gli anni della stesura della Summa
fratris Alexandri : forse non tutto inizia cosí rapidamente, una veloce conoscenza
dei testi e una ancora piú veloce condanna. Forse già dall’epoca di Ugo di San
Vittore vi è un filone del cristianesimo che concede un vero valore normativo, e
non solo un posto nella storia del progresso morale, alla legge ebraica, e anzi fa di
essa il modello formale di ogni legge. Resta il fatto che quando Guglielmo di
Auvergne scrive il suo De Legibus sa riconoscere la forza normative della legge
ebraica, mentre solo un secolo prima Abelardo non poteva che considerarla una
falsa legge 133. Guglielmo di Auvergne sa distinguere l’obbligazione di una legge
(essa vincola chi vi è sottoposto) e il suo valore morale (la legge ebraica è abro-
gata per un cristiano, essa è non-morale, ma per un ebreo essa è vincolante anche
dopo Gesú Cristo). Questo è evidente per noi oggi, ma era incomprensibile per
Abelardo. Gugliemo di Auvergne era rimasto tanto atterrito quanto ammirato dal
Talmud? Era stato colpito dalla teoria dell’interpretazione e dalle regole relative
all’applicazione degli argomenti interpretativi esposti nella Mishné Torah di
Maïmonide, uno dei vertici medievali della riflessione giuridica ebraica?
Non occorreva conoscere tutta la scolastica (guemara) ebraica per essere
colpito da un modo di concepire la normatività che era da un lato diverso dalle
strategie del diritto romano, dall’altro diverso dalla tensione costante verso la
Verità dei padri della Chiesa, in cui Legge e Vero collassano l’uno sull’altro. Vi è
qualcosa di piú di una semplice casuistica nella scolastica ebraica, vi è un testo da
commentare che già forgia le basi di una teoria del diritto che non deve nulla all’e-
redità romana e ignora i temi aristotelici, e tutto fonda sulla trascendenza divina.
Io ho già cercato di mostrare che gli oggetti ‘ius’ – ‘diritto’, ‘lex’ – ‘legge’,
‘ius naturalis’ – ‘diritto naturale’ che popolano le raccolte normative medievali,
dal Decreto di Graziano in poi (ma senza dimenticare i suoi predecessori, da Ivo
di Chartres a Burcardo di Worms), e le fonti di ispirazione di queste raccolte, i
Padri della Chiesa e le riflessioni della Sede apostolica, potevano essere mani-
polati tramite teorie scolastiche alternative. In particolare, la scuola francescana
a partire dalla metà del XIII secolo elabora una teoria coerente del diritto
naturale che ignora in gran parte la tradizione aristotelica, e si afferma come una
teoria normativa alternativa a quella tommasiana. Si tratta di una teoria che

132 Si può vedere la sua opera principale, Les intellectuels chrétiens et les Juifs au Moyen Age,

Paris 1990, ma anche la sua edizione di Inghetto Contardo, Disputatio contra Iudeos, Paris 1993, e
il volume collettivo da lui curato Le brûlement du Talmud à Paris 1242-1244, Paris 1999.
133 Affronto questo punto in Deux approches à la normativité juridique dans le parcours de

l’Occident chrétien. Pierre Abélard et Duns Scot, in J. Jolivet – H. Habrias, Pierre Abélard, Rennes
2003, 339-356.
APPROCCIO GENERALE 75

stabilisce un legame ontologico essenziale tra la legge e il primato della volontà,


stabilendo una predicazione equivoca tra il diritto naturale della natura incor-
rotta, ossia Adamo e Eva prima della Caduta, e il diritto naturale della natura
corrotta, ossia gli esseri umani dopo la Caduta. Questi autori, preceduti da Filip-
po il Cancelliere e Guglielmo d’Auvergne che sono capaci di affrontare la no-
zione di giustizia senza avvalersi delle tesi aristoteliche, impongono la nozione
di diritto soggettivo, estranea all’approccio tommasiano, e che si imporrà senza
piú alcuna resistenza nel XVI secolo. Dalla Summa fratris Alexandri a Duns
Scoto si compie un cammino di elaborazione di una politica del diritto (ossia,
delle buone ragioni del legislatore) che mette in secondo piano la prudenza,
tanto importante per san Tommaso, e la nozione di giusto mezzo, essenza
dell’aristotelismo politico. Già Filippo il Cancelliere aveva gettato le premesse
della scuola volontaristica: nella sua Summa de bono rifiuta di considerare la pru-
denza come una virtú speciale, e dettaglia invece la differenza tra la prudenza in
quanto conoscenza e la prudenza come assenso al bene (solo questa è una virtú
cardinale). Non solo, rifiuta la nozione di medietas come incapace di offrire
un’analisi del discorso morale che invece si basa sulla scelta, eligere, in cui il
libero arbitrio non solo è un elemento, ma è l’elemento essenziale, sino a dive-
nire nella scuola francescana la libertà metafisica della persona (ed. Wicki, 1985,
p. 766, 780). Scoto certo conosceva queste tesi grazie alla Summa fratris
Alexandri, le colloca nel contesto della sua potente metafisica del realismo
modale e scende nei dettagli della teoria giuridica: è infatti il primo a stabilire un
paragone esplicito tra l’onnipotenza assoluta di Dio e l’onnipotenza assoluta del
legislatore nel contesto del sistema giuridico cui ‘dà vita’.
Le nozioni di ordine della cose (esterno alla persona) e di finalità naturale
immanente sono in fondo estranee alla teoria del diritto francescana. Una volta
accettata l’idea che la scuola francescana non ha sviluppato la propria teoria
giuridica al seguito di Aristotele, occorre domandarsi quali fonti abbiano potuto
influenzare la loro strategia. Da un lato, essi si mostrano fedeli ad uno spirito
classico della tradizione cattolica, ripreso e esplicitato da san Bernardo di
Chiaravalle nei suoi De consideratione e De preceptis et dispensatione. Ma è lo stesso
spirito che fa affermare a Lattanzio che Innocentiae prossima est misericordia
(Epitome, 60, 1 – e non tanto la giustizia, breve frase che configura il primato
della misericordia sulla giustizia in Dio attraverso l’evocazione della natura
incorrotta) e che fa dire a sant’Ilario di Poitiers nel suo De Trinitate (V, 5) che
Dio può realizzare i contraddittori, “tenet veritatis naturam ea quae dictis
exequatur operatio” (e come potere allora limitare la sua azione anche se fosse
con il Bene che solo Lui incarna?). Non si tratta di una teoria della normatività,
si tratta di un’esaltazione dell’urgenza di affermare la trascendenza assoluta di
76 CAPITOLO PRIMO

Dio e della sua azione concreta nel mondo. Il fatto stesso che il capitolo V delle
Istituzioni divine di Lattanzio sia ‘riscoperto’ da san Tommaso – una messa in
disparte ed una riscoperta che forse supera la polisemia esuberante di
sant’Isidoro di Siviglia, ma non ci conduce certo in una teoria del diritto
analiticamente scandita – , il fatto stesso che Abelardo usa in un modo assai
immediato il concetto di legge senza alcuna attenzione al problema formale
della legge 134, mostrano che ci si deve indirizzare verso altre tradizioni che han-
no cercato di pensare la normatività in un contesto teologico della trascen-
denza. Si tratta innanzitutto di quella ebraica, poi di quella islamica: meglio, si
tratta di cercare tra le varie famiglie delle due tradizioni quelle che avrebbero
potuto ispirare la scuola francescana contro la strategia aristotelico-tommasiana.
A dispetto di alcuni suggerimenti espliciti di Goffredo Quadri 135, non sono
riuscito a trovare nelle mie letture del kalam islamico delle fonti capaci di
rendere conto di una ispirazione della concezione nella scuola francescana della
normatività, in cui gioca un ruolo essenziale la nozione di diritto naturale (assai
meno evidente nel kalam giuridico). Indubbiamente, la portata ontologica della
volontà divina disegna nei teologi musulmani in genere un volontarismo che ha
un ruolo importante nella loro spiegazione metafisica, una metafisica alternativa
a quella che ritrova in Averroé un interprete “deterministico” di Aristotele: tutta
la scuola francescana è segnata da un approccio fortemente volontarista (e si
auto-etichetta come anti-aristotelica), ma nell’approccio alla normatività la
tradizione musulmana non si innesta sulla tradizione romanista e appare ispirata
ad un positivismo dell’interpretazione che contrasta fortemente con il primato
del ruolo del diritto naturale che i francescani ereditano dal diritto canonico
medievale. Del resto, la fonte comune al volontarismo musulmano e a quello
cristiano è nella trascendenza del Dio personale, e questi si rivela innanzittutto
nella Bibbia, e i commentatori ebrei del Testo sacro sono i primi a produrre un
volontarismo normativo, quello stesso volontarismo che nel XIII secolo Rabbi
ben Nachman opponeva alle strategie argomentative del defunto Maimonide 136.
Quello che è certo è che nella tradizione musulmana sono proprio i teologi
come Al-Ghazali che hanno lavorato sul tema della filosofia del diritto, non già

134 Ho affrontato la questione in una relazione ad un convegno consacrato ad

Abelardo (Nantes, 2001), poi pubblicata nella versione definitiva già citata in Pierre Abélard,
339-356.
135 Per esempio, La filosofia degli arabi nel suo fiore; ma pure Autorità e libertà nella filosofia di

Giovanni Duns Scoto, Napoli 1939.


136 Si può vedere il commentario alla Torah di Nachman, di cui esiste una edizione

inglese a cura di Charles B. Chavel, di cui rimando in particolare ai tre libri seguenti: Commentary
on the Torah. Genesis, New York 1999; Deuteronomy, New York1976; Exodus, New York 1973.
APPROCCIO GENERALE 77

coloro che dalla teologia hanno voluto prendere le distanze, come Averroé. Ma
anche se i teologi musulmani possono avere elaborato una vera e propria teoria
del diritto, è ragionevole pensare che la comunanza dei testi sacri abbia favorito
un incontro tra rabbini ebraici e scolastica cristiana piuttosto che tra questi
ultimi e tradizione del kalam. Infatti, la teoria del diritto è proprio interpreta-
zione dei testi, e i testi sacri del cristianesimo si sovrappongono largamente a
quelli dell’ebraismo. Il positivismo dominante, al di là delle differenziazioni
interne alle principali scuole normative musulmane 137, nella teoria dell’inter-
pretazione islamica 138, unito alla pretesa di rendere caduchi i testi sacri del cri-
stianesimo e dell’ebraismo, rendono paralleli e non intersecabili, specialmente in
mancanza di un discorso del diritto naturale 139, la riflessione normativa islamica
con quella ebraica e cristiana 140. Il discorso è tutt’altro che chiuso, certe argo-
mentazioni del kalam possono avere influenzato i frati minori anche tramite que-
gli autori ebrei che fungevano da mediatori tra islam e cristianità (penso
ovviamente alla Spagna della Reconquista, a Avicembron e Maimonide), ma io non
ho trovato nessun elemento concreto (né Quadri lo fornisce) in questa direzione
che non sia assimilabile al ‘volontarismo’ che egualmente si ritrova da Lattanzio a
san Bernardo di Chiaravalle, non sufficiente per parlare di una teoria normativa
volontaristica – e che peraltro il mondo occidentale poteva scoprire nel Fons
Vitae di Salomon ibn Gebirol in una forma particolaremente audace.
L’esistenza di una teoria del diritto naturale non-naturalitisca si trova
invece nella tradizione ebraica, e di essa parla con acume David Novak (Natural
Law in Judaism, Cambridge 1998) relegando in secondo piano certi giudizi
affrettati su un preteso giupositivismo della tradizione ebraica. Io credo che sia
proprio in questa direzione che si deve scavare per comprendere l’ispirazione

137 Rinvio tra la vasta letteratura a D. B. Macdonald, Developement of Muslim Theology,

Jurisprudence and Constitutional Theory, London 1903, L. Gardet, M.-M. Anawati, Introduction à la
théologie musulmane, Paris 1948, J. Schacht, Esquisse d’une histoire du droit musulman, Paris 1953, e
il recente Baber Johansen, Contingency in a Sacred Law, Leiden 1998. Per un panorama gene-
rale sulla cultura della normatività nel mondo islamico, rinvio a Louis Gardet, La cité
musulmane. Vie sociale et politique, Paris 19814.
138 Rinvio a due interessanti articoli, Robert Brunschvig, Logic and Law in Classical Islam,

e il già citato Josef van Ess, The Logical Structure of Islamic Theology, entrambi in G. E. von
Grunebaum, Logic in Classical Islamic Culture.
139 Louis Gardet, La cité musulmane. Vie sociale et politique, 115-119.
140 Ho sviluppato queste riflessioni in un intervento Antinomies et hiérarchie dans le droit

médiéval al convegno Les juristes et la hiérarchie des normes, presso l’Université de Rouen, 18-19
giugno 2004, su invito dell’amico Pierre Brunet. Il testo sarà pubblicato in un volume curato
dallo stesso Brunet.
78 CAPITOLO PRIMO

della scuola francescana. Purtroppo, si tratta di una ricerca che non può che
restare indiziaria: un autore cristiano ha la massima reticenza a esplicitare le
influenze che fa proprie dal pensiero ebraico, a causa della mentalità dominante
all’epoca. Eppure, nonostante gli insulti, da Gugliemo di Auvergne a Duns
Scoto, quando si parla della legge, da quella di Mosé a quella dei Vangeli sino ai
problemi concreti di derogazione normativa del Decalogo, si ha l’impressione
che la diffidenza profonda, che peraltro ispira lo stesso diritto canonico, non si
può separare dalla comunanza concettuale piú stretta. Anzi, la comunanza
concettuale tanto stretta evoca il fantasma della confusione tra le due religioni
che provoca per reazione la rigida differenziazione: lo stesso fantasma percorre
pure la tradizione ebraica, e se ne possono indicare casi illuminanti di divieti
speculari tra diritto canonico e diritto ebraico (dalla Torah orale sino a Maimoni-
de, per esempio: è questo il caso del divieto di impiegare come balie delle donne
che appartengono all’altra religione, ossia niente balie cristiane per bambini
ebrei, niente balie ebree per bambini cristiani).
Spinta alle sue estreme conseguenze, è proprio questa teoria volontarista
della norma, specie se unita ad una ontologia realista, che rende quasi naturale
l’approdo alle contraddizioni vere, non piú semplicemente asserite, come pure
faceva con vigore e forza san Pier Damiani nella sua pure virulenta polemica
contro la dialettica (la logica) 141 del suo tempo, bensí inserite in un coerente
quadro teorico, coerente e universale anche se (anzi, proprio perché) vi si
danno contraddizioni vere142.

141 Per tale equivalenza tra il termine dialettica nel XII secolo (e oltre) e quello che noi

chiamiamo logica, usualmente affermata in letteratura, rimando a Eleonore Stump, Dialectic


and Its Place in the Development of Logic, Ithaca 1989, specie 111-134.
142 E’ una vexata quaestio l’interpretazione di san Pier Damiani rispetto ai limiti

dell’onnipotenza divina: vi è chi ne dà una lettura debole (tale da rispettare un principio di


contraddizione classicista), vi è chi ne dà una lettura forte (mi sono espresso in proposito sin
dal mio Volontarismo e diritto soggettivo, Roma 1999, 123-124, 238, e poi in La philosophie
normative de Jean Duns Scot, Roma 2001, 46-47), e il dibattito storiografico non avrà mai fine,
dato che non si tratta di determinare l’esatta lezione delle fonti, bensí la loro interpretazione,
e su temi particolarmente delicati (la scelta paraconsistente non ha certo i favori della
maggioranza). A me pare che, una volta deposto il pregiudizio classicista, il testo di san Pier
Damiani, il De divina omnipotentia, sia tanto radicale da ammettere la possibilità di cambiare il
passato. Ovviamente, chi non intende rinunciare al pregiudizio classicista, o accusa san Pier
Damiani di scrivere assurdità, oppure nega che abbia sostenuto quelle possibili assurdità.
CAPITOLO SECONDO

LA RELAZIONE COME COSA

Nihil est medium inter ens et non-ens si ac-


cipiantur ut contradictoria. Accipiendo tamen non-
ens ‘nihil’ et ens ‘actu’, est aliquid medium
Quaestiones Metaphysicorum, IV, q. 4, 9, ex n. 2

Aliter dicitur quod ens in potentia simpliciter est


non-ens, et per consequens relatio fundata in ipso est
tantum rationis. Et divisio entis per ‘ens in actu’ et
‘ens in potentia’ est quasi divisio per contra-
dicitionem
Quaestiones Metaphysicorum, IX, q. 1-2, 35, ex n. 7

I. Divergenze tra l’ontologia scotista e quella aristotelica

Nel contesto di una riflessione sulla negazione dell’universalità del prin-


cipio di contraddizione nei percorsi della filosofia scotiana, la natura ontologica
della relazione mi pare una cartina di tornasole importante per comprendere se
l’autore è condotto o meno a limitare la validità del principio di contraddizione:
infatti, se si attribuisce alla relazione una modalità di essere, una realtà propria,
si è condotti inevitabilmente a asserire che la relazione è indipendente dai due
oggetti tra cui si instaura (“essere piú bianco” è la relazione tra un oggetto
bianco panna e un oggetto bianco carta) e al tempo stesso essa dipende dai due
oggetti (come potrebbe darsi “essere piú bianco” senza i due oggetti prece-
denti?). Scoto asserisce che la relazione è una res, anche se non nello stesso
senso in cui la sedia è una res, ma abbastanza nello stesso senso per cui la rela-
zione si dice res e la sedia si dice res 1: mostrare come la distinzione (non-identità)
formale sia uno strumento chiave nella sua argomentazione in favore di tale tesi
mi pare sia l’evidenza piú palpabile della scelta paraconsistente di Scoto, e che

1E’ chiaro che per Scoto le relazioni sono esterne agli oggetti tra cui si instaurano, ed è
in questo senso una negazione esplicita della tesi idealistica per cui tutte le relazioni sono in
senso proprio interne (si vedano le critiche contro la tesi idealistica di Bradley o di Russel di
George E. Moore, External and Internal Relation, in G. E. Moore, Philosophical Studies, London
1922).
80 CAPITOLO SECONDO

tale scelta permetta un’adeguata difesa dell’ultra-realismo. Mi propongo di mo-


strare entro quali limiti la strategia metafisica scotiana possa considerarsi vicina
all’ispirazione aristotelica che accetta la validità del principio di contraddizione,
ed in quale senso essa possa invece dirsi sostanzialmente alternativa ad essa. La
prossimità di ispirazione mi pare derivi dall’accettazione di una forma di reali-
smo ontologico che presenta caratteri non-trascendentali, quindi non-platonici,
anche se la posizione realista scotiana può essere qualificata di estrema, mentre
quella aristotelica di moderata. Tuttavia, le formalitates – elementi essenziali della
strategia scotiana – possono dirsi trascendentali nel senso che non sono cattu-
rabili nelle categorie aristoteliche, e contro gli argomenti scotiani Ockham ri-
avanzò l’argomento del Terzo Uomo (sconfitto, mi pare, da Scoto) come Ari-
stotele già fece contro Platone. Quello che è certo è che non vi è traccia
apparente in Scoto di una natura archetipale delle formalitates, nel senso che al
linguaggio delle Forme platoniche, in cui si può collocare un’idea di parteci–
pazione mimetica tra la Forma e la proprietà cui è connessa, si sostituisce un
linguaggio – quidditas e haecceitas – che elimina l’idea di partecipazione mimetica.
L’affinità tra Scoto e Platone è ribadita in uno dei testi di uno dei primi
discepoli del Doctor Subtilis, quel Francesco di Meyronnes che scrive un breve e
densissimo Tractatus Formalitatum (Venezia 1520) che è un gioiello di analisi
ontologica. Ma lo stesso Scoto quando si interroga sulle idee platoniche affina il
suo separarsi da Aristotele: la strategia è chiara nella Quaestiones Metaphysicorum,
VII, q. 11 ‘Utrum ratio Philosophi contra ideas Platonis valeat’ 2. Scoto risponde
che Aristotele, nel VII libro della Metafisica (1033b-1034b), mostra che non
sono necessarie (“numquam ponenda sunt plura ubi sufficit unum”) per spie-
gare la generazione univoca, ma non mostra affatto che siano impossibili.
Una fonte certa di divergenza mi pare vada invece rintracciata nell’esigenza
diversamente percepita dai due filosofi di rendere conto di un insieme di fatti di
esperienza tramite la loro strategia metafisica: mentre l’insieme dei fatti di
esperienza che Scoto abborda include le verità di fede cattoliche, considerate
esattamente in quanto fatti di esperienza – e non già verità di fede suscettibili di
eventuale dimostrazione, certamente l’insieme che Aristotele si proponeva di
spiegare attraverso la sua metafisica non includeva dei fatti come l’Incarnazione
e l’Eucarestia. In effetti, anche questa divergenza rinvia ad una comunanza:
entrambi i filosofi conducono analisi di metafisica descrittiva, lasciando cadere

2 Luoghi paralleli in Scoto sono: Quaestiones Metaphysicorum, VII, q. 18, 13-15, ex n. 3;

Quodlibet, q. 7, n. 25 ; Lectura, II, d. 3, p. 1, q. 5-6, § 194-195 ; Ordinatio, II, d. 3, p. 1, q. 5-6,


208-209, ex n. 22.
LA RELAZIONE COME COSA 81

un approccio alternativo di metafisica revisionaria. La distinzione tra questi due


approcci consacrata da Peter Strawson non voleva soltanto essere teoretica,
voleva anche essere storiografica 3: mentre la metafisica di Leibniz sarebbe
revisionaria (essa enuncia il quadro che si dovrebbe avere del mondo), la
metafisica di Kant sarebbe descrittiva (essa si propone di rendere conto del
nostro quadro del mondo). Si tratta di una distinzione essenziale per compren-
dere in che senso le metafisiche di Scoto e di Aristotele, nonostante la presenza
di punti in comune4, tendono inevitabilmente a divergere significativamente.
Infatti, ciò non accadrebbe soltanto se i fatti denotati dai dogmi della fede
cattolica fossero del tutto omogenei all’insieme di fatti di esperienza aristotelici,
il che equivarrebbe in un certo senso alla loro dimostrabilità razionale, cosa che
mostrerebbe in ultima istanza l’inutilità di apprenderli come dogmi, ossia come
fatti della fede – se si potesse dimostrare che un oggetto è rosso, non avrebbe
senso considerare il fatto fenomenologico che io lo vedo ora rosso.
All’interno dei problemi metafisici affrontati da Scoto, ne scelgo uno in
questo capitolo che sottolinea esplicitamente la sua opzione per una ontologia
lussureggiante, ossia quello della natura della relazione, ovvero la proprietà che
si instaura tra due oggetti. Il problema metafisico della natura della relazione
può rappresentare un riflesso diretto sulla teoria normativa scotista, ma la
questione è piuttosto spinosa 5: come ha osservato un metafisico contempora-
neo come David Lewis, questo eventuale legame, seppure suggestivo, non è
tuttavia affatto vincolante 6.

3 P. F. Strawson, Individuals, London 1959, 9-11.


4 Almeno quelli che permettono a Scoto di tendere a confutare, e non semplicemente a
contrapporsi ad Aristotele: per fare questo, occorre parlare lo stesso linguaggio del proprio
rivale filosofico.
5 Se si considera che la relazione sia una cosa, o abbia comunque una realtà extra-

mentale non-linguistica, allora si può supporre che le relazioni che si instaurano nei sistemi
giuridici godano di un simile spessore ontologico; se si considera invece che la relazione sia
essenzialmente un predicato, la cui esistenza extra-mentale non deborda dai confini del
linguaggio ed è radicalmente altra dalle cose che si danno nell’esperienza empirica, allora si
può assumere un atteggiamento nominalistico nella analisi scientifica dell’ordinamento giuri-
dico. Uso dei termini modali dato che, come hanno piú volte osservato gli storici del pen-
siero – in particolare rispetto alla relazione tra la teoria sugli universali accettata da un autore
medievale e la sua teoria politica, non esiste un nesso necessario tra le scelte metafisiche di
un autore e le sue opzioni di filosofia necessaria (senza escludere che contingentemente tale
nesso si possa dare).
6 In effetti, se ci rivolgiamo alla teoria del realismo modale di Lewis, al cui interno si

distinguono relazioni interne ed esterne, egli afferma che la relazione di essere proprietario
82 CAPITOLO SECONDO

Su questo problema della nozione di relazione non mi pongo l’obiettivo di


proporre un paragone puntuale con la strategia aristotelica, quanto quello di
illustrare in concreto in che senso la diversa composizione dell’insieme dei fatti
di esperienza da spiegare induce una diversa opzione nell’armamentario meta-
fisico da mettere in campo. Ciò accade nella riflessione sulla relazione: piuttosto
che confrontare direttamente la posizione di Scoto con quella di Aristotele,
cercherò di fissare i termini del dibattito medievale, suggerendo la superiorità
della strategia scotiana rispetto al nominalismo logico ockhamista e al concet-
tualismo di Pietro Aureolo, due autori che si confrontano direttamente con le
argomentazioni scotiane, nella persuasione di superarle e di offrire una migliore

di un bene non risulta né una relazione interna, né una relazione esterna. In questo senso, la
posizione metafisica sulle relazioni (interne ed esterne) prescelta risulta ininfluente rispetto
alla teoria del diritto da adottare, dato che si è assunto che il fondamento del discorso
giuridico è un insieme di enti di ragione.
Si veda David Lewis, On the Plurality of Worlds, Oxford 1986, cap. 5. La relazione
esterna risulta da una sopravvenienza su a e b in quanto stanno insieme, altri direbbero in
quanto coppie ordinate. In particolare, una relazione interna sopravviene sulla natura
intrinseca dei suoi termini: se Xa e Ya sono correlati, ma Xb e Yb non lo sono, ci deve es-
sere una differenza nella natura intrinseca degli elementi di {X} o degli elementi di {Y}. Se
Xa e Xb sono identici (1. hanno esattamente le stesse proprietà naturali; 2. le loro parti
possono essere poste in corrispondenza in modo tale che le parti cosí correlate hanno le
stesse proprietà naturali – la proprietà intrinseca è quella che si ritrova esattamente eguale in
due oggetti identici – si noti ancora che l’identità è altra dalla indiscernibilità, dato che
quest’ultima richiede, oltre all’identità del carattere qualitativo intrinseco, anche quella del
carattere estrinseco, piú ancora una identità quantitativa – ossia non assolutamente naturale,
ma definibile a partire dalle proprietà e relazioni assolutamente naturali), e pure Ya e Yb
sono identici, allora le coppie <Xa, Ya> e <Xb, Yb> godono delle stesse relazioni interne.
Le relazioni di somiglianza e di differenza rispetto alle proprietà intrinseche sono interne.
Altre relazioni, invece, sono esterne, come quella spazio-temporale: le due coppie precedenti
si possono situare a distanze differenti (se si tratta di oggetti fisici), in quanto la relazione di
distanza non proviene da una sopravvenienza. Ma se consideriamo le componenti
dell’atomo, allora anche la relazione di distanza sopravviene sui suoi termini (elettrone e
protone) in quanto questi sono insieme nell’atomo (loro carattere intrinseco), in quanto
l’atomo è un composito. La relazione di proprietà va al di là di questi elementi intrinseci, ed
è perciò estranea alle proprietà delle relazioni interne ed esterne (essa presuppone che vi sia
l’istituto della proprietà, è una proprietà contingente non-naturale, nella terminologia scotista
un ente di ragione). Tuttavia, una dottrina ontologica del diritto naturale potrebbe
avventurarsi a sostenere che certe relazioni di proprietà (non tutte) sopravvengono sui
termini considerati in quanto insieme (questo bene qui e questo agente morale qui). Non
nascondo di credere in questi oggetti naturali che permettono una fondazione ontologica del
diritto naturale.
LA RELAZIONE COME COSA 83

soluzione. Il confronto con l’approccio metafisico di Aristotele lo condurrò


piuttosto sul terreno dei principi primi, per parafrasare il titolo del famoso libro
di Irwin. La discussione della nozione di relazione da parte di Scoto mostrerà
che proprio sul terreno della costituzione dell’insieme dei principi primi il reali-
smo modale-ontologico scotiano si distacca inevitabilmente dal realismo mode-
rato aristotelico. Vorrei richiamare una rappresentazione sommaria della posi-
zione aristotelica sui principi primi e le proprietà attraverso le analisi di Irwin 7,
esposte in un suo celebre libro dedicato ai principi primi di tutta la filosofia
aristotelica, metafisica e pratica.

II. I principi primi nell’analisi metafisica descrittiva

Il ‘realismo moderato’ consiste nel considerare che gli attributi che


esistono godono di una istanziazione. La proprietà richiede una sola istanzia-
zione, l’universale una pluralità di istanziazioni, da cui la natura particolar-
universale delle proprietà. Ma i fatti del mondo spiegano la verità delle pro-
posizioni che li riguardano, e in questo senso essi sono precedenti ad esse –
‘realismo aristotelico’, Categorie, 14b10-22 – gli universali sono sostanze seconde
(i.e., si predicano di istanziazioni di una sostanza – concetto introdotto per
accordarsi al senso comune (fuoco, acqua, corpi, ..) -, ma non di ogni soggetto).
L’ousia, la sostanza, è la categoria aristotelica per eccellenza (gli individui sono
sostanze prime): inoltre, esistono delle credenze intorno a ciò che diciamo
soggetti primi (fondamentali, sono in effetti identici alle loro essenze) e le loro
proprietà essenziali (il criterio grammaticale non è probante) – De Interpretatione,
21a8-14 (G e H coincidono in F, quindi ineriscono in F, non esiste un oggetto
F+G+H – uomo, bianchezza, musicalità). Tuttavia, non intuiamo naturalmente
i principi primi, sebbene sembri che solo un’intuizione cognitiva possa affer-
marli: condurre un confronto sul terreno della nozione di intuizione sarebbe
interessante, ma anche qui mi limito a suggerire le letture scotiste8. La proposta

7 T. H. Irwin, Aristotle’s First Principles, Oxford 1988 (trad. it. Milano 1996).
8 Il ruolo dell’intuizione nella gnoseologia medievale, e in Scoto, è stato studiato in
diverse opere. S. J. Day, Intuitive Cognition, St. Bonaventure NY 1947, sottolinea la sua
funzione di accesso diretto al reale; C. Bérubé, La connaissance de l’individuel au Moyen Age,
Montréal – Paris 1964, esaspera il motivo del primato dell’individuo nella scuola francescana
– specie in Roggero Bacone, Liber primus Communium naturalium, edito da R. Steele, Opera
hactenus inedita fratris Rogeris Baconis, II, Oxford 1911 – e indica la specificità della teoria della
cognizione diretta dell’individuale, che in Scoto diventa un’intelligibilità associata ad
un’intuizione fattiva dell’individuale, – il tutto da opporsi alla tesi aristotelica della cogni-
84 CAPITOLO SECONDO

aristotelica è la giustificazione del principio di non-contraddizione. Su questo


punto Scoto sembra scostarsi dalla strategia aristotelica, riducendo a pelle di
leopardo l’esistenza di contraddizioni vietate dal principio, e sembra pure acco-
starsi alla strategia aristotelica, quasi a mostrare che le sue critiche rivolte ad Ari-
stotele non partono da principi diversi: non è documentabile che egli rifiuti il
principio di non-contraddizione come lo fa nel XX secolo Lorenzo Peña, anzi
lessicalmente lo invoca spesso, ma ci sono fondate e persuasive ragioni per rite-
nere che il significato che vi annette non è quello aristotelico (oppure, ma questo
lo escludo a priori, che Scoto abbia un significato privato della parola “contrad-
dizione”). In generale, Scoto mi pare rifiuti la pregnanza di una logica a due valori
almeno nel dominio della morale; ma se accettiamo la lettura di Lukasiewicz 9
della difesa aristotelica del principio di non-contraddizione, il rifiuto di una logica
a due valori (con l’aggiunta del valore ‘indifferente’, oppure l’idea che la doppia
negazione non afferma) nel ragionamento pratico comporta l’indebolimento
sostanziale del significato aristotelico del principio di non-contraddizione. In altri
termini, la struttura del ragionamento pratico scotiano disegna un panorama
profondamente diverso da quello aristotelico: la teologia diviene cosí una scien-
za pratica (non già speculativa come per san Tommaso) 10 e questo può essere

zione indiretta. Per Scoto, esistenza e individuo sono indistinti nell’intuizione, mentre nella
cognizione astratta sono separabili : l’intuizione dell’oggetto non esistente è impossibile –
Reportata parisiensia, III, d. 14, q. 3 (ma in Patria la cosa è molto meno certa)-, ma sarà
generalmente ammessa da Ockham. Per la posizione scotiana, si vedano sulle due cognizioni
Lectura, III, d. 14, q. 3, §§ 134-154 (e Lectura, II, d. 3, p. 2, q. 2, §§ 285-290), e le riflessioni
sulla imperfezione della cognizione intuitiva in Cristo, mentre quella astrattiva è perfetta, e
nell’angelo ambedue sono perfette, in Lectura, III, d. 14, q. 4, § 165.
9 Jan Lukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, Roma 2003, edizione

polacca originale 1910: il libro si chiude con la considerazione che il principio di contrad-
dizione non possiede valore logico, dato che richiede una prova e non è possibile provarlo
materialmente, ma possiede un valore etico e pratico notevole, nella misura in cui è un’arma
contro l’errore e la menzogna, tanto che siamo obbligati ad ammetterlo.
10 Ho discusso i legami tra la fiducia nei principi primi a proposito della teoria del

diritto naturale scotista, che arriva a Scoto dopo una lenta maturazione intellettuale (si veda
Léon Amorós, La teologia como ciencia práctica en la escuela franciscana en los tiempos que preceden a
Escoto. Edición de textos, in Archives d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Age 9 (1934) 261-
303). La questione si gioca intorno allo statuto delle proposizioni prime nel ragionamento
pratico. Nel lessico scotiano, si tratta delle proposizioni per se notae: si tratta di verità ana-
litiche o di verità auto-evidenti? Insomma, a cosa accediamo mediante la ragion pratica? Piú
in generale, una discussione sulla teoria del diritto si dovrebbe proporre di identificare la
natura degli oggetti cui accediamo mediante la ragion pratica. Rinvio alla mia ricognizione
della strategia scotiana in L. Parisoli, La philosophie normative de Jean Duns Scot, Roma 2001. In
LA RELAZIONE COME COSA 85

interessante se lo si considera in continuità con la tesi di Ockham secondo la


quale la giurisprudenza è una scienza pratica (è egualmente interessante porsi il
problema della divergenza tra realismo ontologico scotiano e nominalismo
logico ockhamista). Tutto il discorso metafisico scotiano provvede a delimitare
drasticamente la validità del principio di contraddizione, e l’analisi della natura
della relazione è un terreno privilegiato di quest’opera di ridimensionamento.
Per schematizzare il nostro compito, possiamo ora porre i termini del
problema: da un lato l’insieme dei fatti di esperienza e delle verità di fede consi-
derate come patrimonio della Chiesa cattolica nel XIII secolo – che dividono
Scoto e Aristotele (che certamente non poteva pensare al fatto dell’Incarna-
zione), dall’altro la scelta comune di rendere conto del reale mediante una me-
tafisica descrittiva che si appoggi su dei principi primi (non già prescrittiva ri-
spetto al: o linguaggio comune, o senso comune, o esperienza condivisa). Si
tratta quindi essenzialmente di sottolineare come la descrizione scotista si pro-
ponga di essere una descrizione metafisica di fenomeni come l’essere-rosso di
un fiore e il suo essere numericamente distinto, allo stesso titolo dell’Eucaristia
e dell’Incarnazione.
Scoto non vuole dimostrare le verità di fede, esattamente come non vuole
dimostrare che un certo fiore è rosso: l’esperienza mostra che certi fiori sono
rossi, e l’esperienza mostra che nell’ostia si opera la transustanziazione. Il
discorso metafisico cerca una struttura argomentativa che renda conto del fatto
che sia possibile che un fiore sia rosso e che nell’ostia si operi la transustan-
ziazione. Si noti che in questo contesto il fatto che Scoto abbia mostrato la
possibilità dell’Immacolata Concezione non indica delle sue presunte titubanze
o prudenze in merito: all’epoca, l’Immacolata Concezione non era un fatto
dell’esperienza cristiana, almeno nell’accezione epistemica dell’accesso aperto ai
contemporanei di Scoto (dato che in un senso dogmatico era già un fatto vero
all’epoca di Scoto), ma egli mostra quello che il discorso metafisico può fare
rispetto ad ogni fatto: che sia possibile, nel nostro mondo attuale o in un mon-
do non-attuale. Questo riferimento alla teoria dei mondi possibili è essenziale
nell’analisi della metafisica scotiana: seppure la letteratura non sia unanime nel
riconoscergli di avere adottato una strategia di realismo modale (alla David
Lewis), esistono degli eccellenti argomenti interpretativi elaborati dalla scuola di

senso difforme, rinvio al celebre articolo di G. Grisez, J. Boyle, J. Finnis, Practical Principles,
Moral Truth, and Ultimate Ends, in American Journal of Jurisprudence 32 (1987) 99-151. Mi pare
che la scelta scotista spinga a considerare che la necessità è confinata nella riflessione (e non
già nella volizione) di Dio su se stesso: la ragion pratica non è altro che il ragionare sulle
scelte determinate dalla volontà.
86 CAPITOLO SECONDO

Knuuttila e di de Vos, cui mi rifaccio. Inoltre, coloro che negano che Scoto
abbia riflettuto in termini di mondi possibili, tendono invariabilmente a attri-
buirgli delle esitazioni, delle inconsistenze, delle aporie, delle confusioni. Allora,
si può almeno adottare la tesi che Scoto abbia adottato una tesi di realismo
modale per ridurre storiograficamente a maggior coerenza le sue argomenta-
zioni (anche se poi mi pare – e cerco di mostrare – che il sistema risultante sia
pienamente soddisfacente).
In questo senso, Scoto pratica una strategia di metafisica descrittiva sulla
falsariga di Aristotele, evitando di impegnarsi in una qualsivoglia metafisica
prescrittiva: le loro metafisiche però divergono su alcuni punti essenziali in
quanto l’insieme dei fatti da spiegare non è lo stesso per i due filosofi. Dato che
i principi primi traggono la loro persuasività da una manipolazione ‘ingenua’
dell’insieme dei fatti da spiegare, alcuni principi primi scotiani divergono so-
stanzialmente da quelli aristotelici. L’esperienza del cristianesimo cattolico del
XIII secolo – che include la fede e i costumi della Chiesa Cattolica – sembra
giocare un ruolo sensibile in questa differenza. L’influenza del patrimonio della
fede può ben avere influenzato le opzioni scotiste anche su altre questioni, per
esempio la pluralità delle forme, ma su questo punto mi limito a un rinvio
bibliografico 11.

III. Volontà e auto-movimento dell’anima

Aristotele assume, secondo un principio divenuto celebre, che tutto ciò


che è mosso è mosso da qualcos’altro: Scoto non rifiuta questo principio in
quanto capace di generare conseguenze indesiderabili, ma in quanto incapace di
accordarsi al fatto immediato che l’anima si muove da sé. Non si tratta qui tanto
del fatto che Scoto considera che la volontà goda di un primato sull’intelletto
(tesi comune nella scuola francescana, ma rifiutata da altri pensatori scolastici):
quest’ultima tesi è piuttosto una conseguenza immediata del fatto che si dà la
contingenza nel mondo, di cui l’autonomia della volontà da ogni causa naturale
(incluso l’intelletto) può essere considerato un lemma, ossia un postulato

11 La pluralità delle forme e l’essenzialismo si ricollegano anche al problema della

costituzione di un oggetto composto, una questione già affrontata da Olivi nel suo
commento alle Sentenze II, q. 50. Nella letterattura piú recente, si veda R. Cross, The Physics
of Duns Scotus, Oxford 1998; poi, il classico P. Stella, L’ilemorfismo di G. Duns Scoto, Torino
1955. Un testo interessante è Quaestiones Metaphysicorum, VII, q. 20, 38, ex n. 5: l’idea che il
composito sia diverso dall’aggregato è una enunciazione irrinunciabile per Scoto (si veda
pure, tra i molti luoghi, Opus oxoniense, IV, d. 11, q. 3, n. 18, 33-51).
LA RELAZIONE COME COSA 87

persuasivamente fondato sui fatti (c’è la contingenza nel mondo). L’auto-


mozione dell’anima è piuttosto immediatamente esperita dagli esseri umani, e
può spiegare assai agevolmente le proprietà spazio-temporali degli angeli. Il
fatto che l’anima sia un potere attivo (come direbbero dei filosofi scozzesi del
senso comune) non tollera dimostrazione: esso è un fatto della nostra espe-
rienza, come tale può essere mostrato e assunto come principio. La negazione
di questa idea non può essere in ultima analisi che rifiutata mostrando il fatto
che l’anima si muove da sé, soprattutto nel senso che l’anima è la sede della
volontà, e la volontà è assolutamente autonoma da ogni determinazione natu-
rale ad essa esterna (si tratta del fondamento ultimo di tutta la metafisica
scotista, e sebbene egli ne mostri la persuasività, personalmente tendo a consi-
derarlo come il postulato di tutto il suo sistema) 12.
In modo simile, Scoto elabora una teoria della modalità profondamente
anti-aristotelica, e pure particolarmente originale (almeno nella misura in cui
non si presenta come semplice intuizione), a partire dal fatto considerato come

12 L’idea generale di Scoto è che esistono cose che si muovono senza essere mosse

(Quaestiones Metaphysicorum, IX, q. 14 Utrum aliquid possit moveri a se ipso: 32, ex n. 7, “nihil
agit in se causando formam substantialem, quia nulla de novo potest advenire ut faciat com-
positum unum per se, quin illa sit perfectior quacumque entitate praecedente ipsam; imper-
fectius autem non est principium activum respectu perfectioris” – 33, “quacumque actione
univoca nihil in se aliquid agit, quia tunc ratio agendi et terminus actionis essent eiusdem
speciei et different numero. Patet, quia nihil est principium agendi se” – 34, “omnis aug-
mentatio sit ab agente aequivoco, quia quantitas non est forma activa” – “sequitur quod in
genere non repugnat alicui substantiae causare in se qualitatem, quantitatem et ubi. Concur-
rentibus autem duabus condicionibus supra dictis, causabit; et hoc vel coaevum sibi, et ita
sine mutatione, vel non coaevum sibi, et ita per motum et mutationem”. 45, ex n. 10, “quod-
cumque per se ens naturale habet principium activum respectu ‘ubi’ sibi convenientis: quod
‘ubi’ si non habet a principio sui esse, postea per illud principium movet se ad illud ‘ubi’” –
51, “si dicatur, quarto, quod generans movet, quomodo effectus in actu erit sine causa in
actu? – DICES: dedit virtutem. Verum est: generavit, et quando generavit, fuit. Nunc non est;
quomodo nunc movet, si genitum ab ipso manens non movet? Hoc est quod quaeritur”. 63,
ex n. 14: “in fine generaliter dicitur quod nulli naturae negandum est quod positum perfectionis
esset in tali natura, nisi ostendatur aliunde quod talis perfectio illi non inest, quia ‘semper
natura facit quod melius est’, quando fuerit possibile, et ‘non deficit in necessariis’”, con una
citazione dal De caelo, II, 34 – B c. 5, 288a 2-3, e da De anima, III, 45 – Γ c. 10, 432b 21-23, che
è diretta a ritorcere, secondo un tipico uso medievale, Aristotele contro se stesso. Scoto
conclude con degli esempi che mostrano come prove empiriche che un ente può essere in
quiete pur potendosi muovere da solo – 126, ex n. 25: 1. grave quando est in centro; 2. aqua
bulliens, praesente igne calefaciente, non frigefacit se; 3. in cognitivis, tenendo et obiectum et potentiam agere;
4-5. nihil intelligens nihil vult, communiter; 6. intellectu ostendente aliquid, voluntas potest illud non velle).
88 CAPITOLO SECONDO

evidente che nel mondo si dà la contingenza (non potest probari per notius: si pos-
sono avanzare degli argomenti persuasivi, come il fatto che gli uomini deli-
berano oppure contrattano, ma Scoto considera come un assioma la contingen-
za delle cose, e la querelle sul free-will non lo sfiora neppure. Il suo atteggiamento
è da confrontare con quello di Pietro di Giovanni Olivi, che invece consacra
lunghe pagine per mostrare la persuasività del free-will, indicando tutte le conse-
guenze contro-intuitive che derivano dalla sua negazione 13). Mentre nella cul-
tura filosofica greca era forse il necessario che si dava come concetto primo (e
questo potrebbe forse essere spiegato dagli studiosi della cultura antica nel suo
complesso), nella cultura cristiana medievale in cui si riconosce Scoto il contin-
gente si dà come fatto primo. Forse Aristotele non avrebbe avuto uditorio se
avesse avanzato l’idea che il contingente è primo ed ultimo, nel senso che si dà
come modalità delle cose; Scoto non poteva neppure iniziare a ragionare con
chi avesse negato questo fatto, una negazione che avrebbe collegato alla nega-
zione dell’idea di Dio e che gli sarebbe apparsa equivalente a quella dello scet-
tico russelliano che afferma di essere un uovo in camicia. Per Scoto, la dimo-
strazione del fatto che si dà la necessità è parte essenziale dell’argomento per
l’esistenza di Dio, che non a caso è per lui a priori (il mondo è contingenza,
quindi non si può risalire a Dio dal mondo – si veda il De primo principio, riela-
borazione organica degli argomenti contenuti nel libro I dell’Ordinatio).

IV. La metafisica della contingenza come struttura del reale alternativa alla necessità
aristotelica

Riproduco qui degli schemi che traggo dal commentario ad una edizione
bilingue del testo chiave di Scoto sulla contingenza radicale delle cose, la
Lectura, I, d. 39, consacrata alla conoscenza divina dei futuri contingenti 14. La
complessità delle analisi contenute in questo testo mi spingono a credere che
Scoto non tratti l’autonomia della volontà come un fatto immediato di
esperienza, come l’Incarnazione, il che è ragionevole date le violente discussioni
scolastiche sul primato dell’intelletto sulla volontà o viceversa. Riconosciuto il
fatto della contingenza del mondo, il realismo modale di Scoto permette di dare

13 Petrus Iohannis Olivi, Quaestiones in secundum librum Sententiarum, ed. B. Jansen, Qua-
racchi 1924, II, q. 57. Riporto le parole di Olivi verso chi nega il libero arbitrio: “impugnat
manifestissima veritatis lumina et experientia et exterminat omnia naturae rationalis bona”.
14 AA. VV., Introduction, a John Duns Scotus, Contingency and Freedom. Lectura I 39,

Dordrecht 1994.
LA RELAZIONE COME COSA 89

conto dell’autonomia della volontà come postulato metafisico non-in-contrasto


con tale fatto. In un senso, come ho già accennato, l’autonomia assoluta della
volontà dal mondo naturale è un lemma della contingenza radicale del mondo 15.

Innanzittutto, il modello agli antipodi dell’ontologia cristiana:

Modello di Parmenide
______________________________________
p |X |X |X |X |X |X |X |X |X |X |X |X |X | Necessitarismo
______________________________________ radicale ontologico
¬p
Poi, il classico modello del “buon senso” aristotelico:
Modello di Aristotele
___ ________ ____________
p |X | |X |X |X | |X |X |X |X |
__________________________________ Necessità = immutabilità
¬p |X|X| |X| Contingenza = mutabilità

Solo il futuro è contingente


Infine, l’innovazione nella metafisica modale:
Modello di Scoto
_____________________________________
p |X | |X |X | |X |X | | | | |X |X | Non tutte le possibilità
_____________________________________ sono attuali nel nostro
¬ p | |X | | |X | | |X |X |X |X | | | mondo, ma sono reali nella
_____________________________________ totalità dei mondi

15 Non si deve poi trascurare che la lettura in termini di realismo modale della

metafisica di Scoto è un punto cruciale anche per comprendere l’insieme degli oggetti che
popolano il suo reame ontologico: non saprei dire se la sua ontologia sia lussureggiante
come quella di Meinong (e qui uso lussureggiante in omaggio agli studi di Richard Routley,
metafisco sottile e sostenitore dell’ecologia profonda, che prese in seguito il nome di
Sylvan), anche se forse è proprio cosí. Resta il fatto che gli oggetti reali di Scoto non sono
solo quelli dati nell’esperienza immediata dell’esistenza.
90 CAPITOLO SECONDO

Presente e futuro sono contingenti, ma in senso scotista (e non scotiano) pure il passato

In quest’ultimo schema, esemplificazione del realismo modale, la volontà


può orientarsi simultaneamente non solo verso differenti oggetti, ma pure verso
differenti atti. Si noti che la scelta tra questi schemi di modalità non è indif-
ferente rispetto alla teoria metafisica dell’individualità che si presceglie: nella
tradizione aristotelica l’individuazione si opera attraverso la storia attuale di un
soggetto, dal fatto che si tratta di una specifica istanziazione di una natura
universale. Nell’approccio scotiano, come piú in generale di tutti gli autori me-
dievali che prefigurano forme di realismo modale (e teoria dei mondi possibili),
è necessaria una teoria che renda conto dell’identificazione di un soggetto senza
un riferimento esclusivo alla sua storia nel mondo attuale, dato che si deve po-
tere parlare della sua identità attraverso diverse storie in diversi mondi possibili
(altrimenti, la vita ultra-terrena personale perderebbe di senso). Per esempio,
Gilberto Porretano sosteneva che ci sono tre tipi di nomi: 1. divisi, a loro volta
ripartiti in 1.1. in atto e in natura, come ‘uomo’, dato che nel nostro mondo ci
sono vari esseri, tra loro simili per natura, che sono sussunti sotto il nome ‘uo-
mo’ – 1.2. in natura, come ‘sole’, dato che esiste nel mondo attuale un solo sole
e la natura del sole può essere pensato in molteplici individui in svariati mondi
possibili; 2. indivisi, ossia nomi propri, diversi in atto e per natura da qualunque
altro ente designabile, – il-fatto-di-essere-Platone indica tutte le res che sono
state, che sono o che saranno Platone. L’individualità non è trasmissibile dal
tutto alle parti: le parti di un individuo sono singolari, ma non individuali 16.
In questa riformulazione del lessico della contingenza e della necessità, la
conoscenza divina della realtà contingente del creato è uno stato di cose immu-
tabile e contingente (proprietà non-inerente). L’amore di Dio verso se stesso è neces-
sario, a partire dal fatto che è il Sommo Bene – si noti bene, in ogni momento in
cui Dio ama se stesso egli potrebbe non farlo, ma se non lo facesse la semantica
del Sommo Bene sarebbe mutata, quindi non sarebbe Dio; tuttavia è mutevole,
come dimostrato dall’Incarnazione, che è un atto non-necessario, ma certamente
atto d’amore. E’ necessario che Dio sia il Sommo Bene (proprietà linguistica
sintattica?), ma non è necessario che sia questo Sommo Bene qui, da chiunque
definito, Dio compreso (non è una proprietà semantica necessaria). Il fatto che gli
uomini debbano amare Dio è necessario, a partire dall’idea di Sommo Bene, tuttavia
se tale amore fosse naturalmente non-mutevole non sarebbe neppure amore. Non è

16 Gilbert of Poitiers, The Commentaries on Boethius, edito da N. M. Häring, Toronto

1966: Commentarius Eut., 273-274; De Trinitate, I, 144.


LA RELAZIONE COME COSA 91

necessario in alcun senso che gli uomini debbano compiere atti d’amore verso
Dio, al limite una volta nella vita (purché credano nella sua esistenza – la modalità
necessaria dell’esistenza di Dio non implica la credenza di questo individuo qui
nella sua esistenza), ma è piú verosimile che gli uomini debbano non compiere
atti di odio verso Dio. Anche i beati in Paradiso possono non-guardare Dio
(anche se forse non hanno nessuna buona ragione per farlo, ma possono).
Il postulato della radicale contingenza del creato, ma pure di ogni stato di
cose che deriva da un soggetto non-naturale (si legga, sottratto alle leggi spazio-
temporali del nostro mondo attuale), permea la filosofia di Scoto, che concepisce
un Dio-persona che ha creato delle persone. L’uomo sceglie il bene e/o il male
indipendentemente dalle leggi naturali: Dio è per definizione al di là del nostro
mondo attuale. Gesú Cristo è una istanziazione divina nel mondo attuale: que-
st’idea getta una nuova luce sulla tesi scotiana (assai controversa) della pura gra-
tuità dell’Incarnazione, non riconducibile ad alcun motivo da parte di Dio. Se da un
lato mi pare si debba ammettere che un motivo (anche se lodevolissimo) sarebbe
un limite intollerabile per l’azione divina, dall’altro l’attualizzazione della natura
divina in una natura umana non è altro che una presenza attuale della divinità
nell’infinità dei mondi possibili. L’attualizzazione in quanto tale non richiede una
spiegazione, non piú del fatto che io sia nato a Genova invece che a Parigi,
oppure che spesso le foglie siano verdi: sono fatti che si mostrano e si spiegano
solo in relazione ad altri fatti attuali, almeno nelle nostre limitate capacità umane.
Ma perché Scoto non accetta la piú tradizionale soluzione tommasiana
della conoscenza dei futuri contingenti ed elabora la struttura del suo realismo
modale? Ammettiamo vi siano idee divine, che rappresentano le cose parti-
colari, tutta la complessità della catena di causa ed effetto in cui le cose si collo-
cano, e pure la varietà degli aspetti della loro esistenza (condicionem existentiae).
Scoto però rifiuta che le idee abbiano una tale completezza: esse forniscono
solo una cognitio simplex di concetti semplici (irriducibili o riducibili a altri con-
cetti che sono essenzialmente inclusi in essi – ossia, analitici). Il vero e il falso si
predicano solo dei concetti complessi (con proprietà accidentali): le idee divine
sono analitiche, quindi non sono né vere, né false, in quanto non si riferiscono
alla sfera della modalità dell’essere che diciamo esistenza. L’argomento della
conoscenza attraverso le idee divine è respinto.
Ammettiamo con san Tommaso che Dio sia ordinato rispetto al tempo,
ma non immerso in esso (Summa theologiae, Ia, q. 14, a. 13). Ci sono due livelli
temporali: il nostro, con il flusso passato-presente-futuro; quello divino, un’e-
ternità senza flusso. Il livello divino si collega a quello umano attraverso un’at-
tualità globale. Scoto obietta: 1. l’onnipresenza temporale di Dio non si può
92 CAPITOLO SECONDO

dedurre dalla sua onnipresenza spaziale, altrimenti dovremmo pensare che Dio
si espande spazialmente (sul modello del flusso infinito del tempo), il che è
assurdo; 2. ciò che è attuale è già causato, quindi le cose future dovrebbero es-
sere causate due volte, il che è senza senso; 3. se Dio conosce con certezza le
cose future, le deve conoscere come future, non come attuali. Peggio, se non le
conoscesse con certezza, si romperebbe l’unità modale della conoscenza divina,
il che è inaccettabile.

V. Rendere conto delle relazioni nella Scolastica: la relazione come “cosa” secondo Scoto 17

Mi pare importante fare una premessa su San Tommaso, che non si pone
direttamente la questione delle relazioni in quanto res, ma che affronta lunga-
mente la teoria aristotelica dell’atto e della potenza. La trascendenza e l’alterità
di Dio lo conducono a considerare reale la dipendenza delle creature da Dio, e
negare che vi sia una relazione generale tra Dio e le creature nel momento della
creazione. La nozione aristotelica di azione-fondante va al di là del significato di
determinazione di un ente già esistente, essa diviene l’atto di esistenza nella
creazione della creatura (limitato dalla essenza) capace di fondare la relazione di
dipendenza rispetto a Dio. Dato che Dio è un essere sussistente e non parte-
cipato (Summa, I, q. 104, a. 1), la relazione con le creature si fonda su ordini
ontologici differenti, quindi non può essere reciproca. Ed è una relazione di
ragione, senza che la nozione di immutabilità intervenga veramente. Scoto
utilizzerà l’idea che nulla in Dio richiede l’esistenza di qualcosa a lui esterno,
secondo l’ipotesi della semplicità divina e l’assioma della contingenza radicale
del creato. Gli elementi del suo discorso sono i seguenti: a R b sse 1. R è
fondata in re et ex natura rei; 2. i termini a e b sono cose extramentali distinte; 3.
vi è una cosa relativa R la cui realtà è distinta dalla sua fondazione a (inerisce nei
termini) – senza intervento dell’intelletto e di poteri estrinseci (si veda Quodlibet,
q. 6, n. 31-34).

17 Mi rifaccio all’eccellente lavoro di M. G. Henninger, Relations, Oxford 1989, che

sintetizza la posizione scotiana come assunzione della realtà intermedia della relazione tra
quella della cosa stessa di cui si predica e una modalità della cosa stessa. Preferisco tuttavia
non utilizzare un linguaggio che suggerisca implicitamente una gerarchia verticale dell’essere,
ed in ogni caso non accetto le critiche di Henninger su una presunta debolezza dell’argo-
mentazione scotista (il problema deriva dal fatto che Henninger non utilizza la lettura in
chiave di mondi possibili). Il testo scotiano di riferimento sono le Quaestiones super Libros
Metaphysicorum Aristotelis, V, q. 6 e 11, nell’edizione St. Bonaventure NY 1997.
LA RELAZIONE COME COSA 93

E’ importante soffermarsi sul fatto che in 3. ho scritto “vi è”, e non


“esiste”. Io credo che tutta la metafisica di Scoto vada letta secondo una plu-
ralità di modi ontologici delle cose che non si riduce alla mera esistenza: Avi-
cenna prima di Scoto, Gregorio da Rimini dopo di lui che anticipa delle idee
che saranno di Meinong, sono suggestioni che abbiamo già visto, cui possiamo
aggiungere la distinzione avanzata nel XX secolo da G. E. Moore, in un saggio
come Is Existence a Predicate? oppure nella raccolta di lezioni Some Main Problems
of Philosophy, tra la sedie che esistono e i numeri che sono. E non a caso Allan
Wolter ha avanzato l’idea che per Scoto l’esistenza sia un predicato, in parti-
colare un’azione intransitiva delle cose che esistono. Il punto della differenza è
che certe cose esistono, altre sono, ma tutte sono oggetti della nostra ontologia.
E come oggetti della nostra ontologia, noi conosciamo ciò che è come ciò che
esiste, ed intuiamo ciò che esiste come ciò che è (cose assolute e specie intelli-
gibili): Scoto spezza il legame tra intuizione ed esistenza, e quello tra cono-
scenza ed astrazione, privilegiati da Aristotele (Olivier Boulnois si è soffermato
con pertinenza e incisività su questo tema 18). Nel nostro contesto delle rela-
zioni, esse non esistono come fanno le cose, ma esse sono in quanto cose.
Vi sono numerosi passaggi in cui Scoto afferma questa idea della distin-
zione tra essere ed esistere all’interno delle cose extra-mentali, ne ho già citato
un gruppetto nel capitolo precedente, e mi pare inutile moltiplicare i riferimenti.
Voglio riprendere solo Lectura, II, dist. 3, pars 1, q. 3, § 56: “exsistentia actualis
non habet differentias per se, sed tantum habet variari secundum esse quidi-
tativum; ergo non est de se distinctivum, et per consequens non potest esse
prima causa alicuius distinctionis” 19. Alla luce di queste osservazioni, ripren-
diamo l’analisi della relazione per mettere a fuoco la particolarità scotista.
In effetti, il concettualista può sostituire 3. con una condizione sul concet-
to, mentre san Tommaso tende a eliminare 3., chiedendo solo che a e b esistano
in qualche modo (rifiuto del concettualismo, De Potentia, q. 7, a. 9 – l’ordine
delle cose richiede una relazione di ordine). In questo senso, si potrebbe dire
che san Tommaso rispetta una maggiore parsimonia metafisica rispetto a Scoto,
ma al di là del fatto che dopo avere enunciato il principio di parsimonia gli

18Olivier Boulnois, Etre et représentation, Paris 1999.


19 Del resto, nella stessa distinzione, q. 1, § 29, “si de se esset singularis, non esset
unitas realis nisi unitas numeralis”, tramite un rinvio esplicito al postulato q. 1, § 9, “unitas
naturae lapidis est minor unitate numerali”.
94 CAPITOLO SECONDO

autori lo applicano in modi assai diversi (san Tommaso, Duns Scoto 20,
Ockham), mi pare interessante ricordare che uno dei primi seguaci di Scoto,
Walter Chatton, formula una negazione apparentemente esplicita del rasoio di
Ockham 21, anche se essa va compresa non già come negazione di un convin-
cente principio di economia ontologica, ma appunto di una critica severa (e
esasperata) dell’interpretazione che ne dà Ockham, la quale si potrebbe ribat-
tezzare come principio di sterilità ontologica. In questo senso, Chatton è sicura-
mente un avversario del ‘rasoio di Ockham’, e proprio per questo è un soste-
nitore del principio di economia ontologica nella lezione del suo maestro Scoto:
“paucitas est ponenda, ubi pluralitas non est necessaria; et possibilitas, ubi non
potest probari impossibilitas; et nobilitas in natura, ubi non postest probari
ignobilitas” 22.
Alcune premesse dell’analisi scotiana sono apparentemente banali, in
quanto patrimonio prima facie acquisito della discussione scolastica: una rela-
zione reale (lo ricordo per l’ennesima volta, per Scoto, ‘reale’ significa “nullo
modo dependet ab intellectu” – Quaestiones Metaphysicorum V, q. 11, 39, ex n. 5)
ha un modo d’essere extra-mentale e dipende dalle cose (fundamentum realis et
terminus realis); le cose correlate sono reali e distinte (non esiste auto-relazione,
distinctio realis); il suo essere non dipende dall’intelletto e da agenti attivi (dipende
ex natura extremorum) – (Quodlibet, q. 6, n. 33; Ordinatio, I, d. 31, q. unica, 6, ex n.
2). Vi sono relazioni che sono pure enti di ragione, dipendenti dall’intelletto –
fundatur super ens rationis .. ex collatione eius ad aliud, facta per intellectum (Quaestiones
Metaphysicorum V, q. 11, 37, ex n. 5), e queste non preoccupano l’analisi di Scoto
(loc. cit., 88, ex n. 13 – non è vero che relatio obiecti ad potentiam est relatio rationis,
dato che si fonda appunto sull’oggetto).

20 Scrivendo forse l’ultima summula scotista, Diomede Scaramuzzi pone il principio di

economia ontologica nel cuore della riflessione scotiana, associandolo strettamente alla
nozione di ordine (Duns Scoto. Summula, Firenze 1931, rist. anastatica 1990, XXXVII).
21 Walter Chatton, Reportatio, I, d. 30, q. 1, BN lat. 15887, ff. 62r-64v, Utrum sit

necessarium ponere in universo res relativas: “propositio affirmativa quae quando verificatur
solum verificatur pro rebus: si tres res non sufficiunt ad verificandum eam, oportet ponere
quartam, et sic deinceps ”. Si veda in merito A. Maurer, Ockham’s Razor and Chatton’s Anti-
Razor, in Mediaeval Studies 46 (1984) 463-475.
22 Reportata parisiensia, II, d. 16, q. unica, n. 14. Un nominalista logico, sia esso un

medievale come Ockham, o un radicale nominalista logico-ontologico come i contempo-


ranei Quine o Smart, non accetterebbe mai che non potendo provare l’impossibilità, allora si
deve ammettere la possibilità. Egli pretenderebbe la dimostrazione della possibilità, da cui la
radice della progressiva disparizione della nozione di nobiltà dall’apprensione del dato
naturale.
LA RELAZIONE COME COSA 95

Distingue poi tra due tipi di relazioni:


1. relazioni categoriali: “relatio realis non est ens per se, nec intervallum
inter duo extrema, nec in duobus ut in uno subiecto, sed in uno et ad aliud”
(Quaestiones Metaphysicorum V, q. 11, 47, ex n. 6);
2. relazioni trascendentali: al di là delle categorie aristoteliche, come la
relazione di dipendenza di una creatura verso Dio (e non l’eguaglianza di cose
che hanno lo stesso peso) – Ordinatio II, d. 1, q. 4-5, 260, ex n. 21, 265, ex n. 22.
Un trascendentale è pure tale da essere condiviso da ogni essere possibile, da
Dio alle creature: ne segue che sono equivalenti, come l’essere-uno, l’essere-
vero, l’essere-buono 23. Ma una proprietà trascendentale che svela l’approccio
scotiano è quella disgiuntiva, come ‘necessario o contingente’, ‘finito o infi-
nito’ 24. Le proprietà trascendentali sono analitiche: la separazione della relazione
dal suo fondamento è impossibile quando si dà o una ragione interna, oppure
una ragione esterna – nel primo caso si dà la dipendenza della creatura verso il
Creatore, nel secondo caso la sfera ‘naturalistica’ del mondo non-libero.
La tesi su cui ci soffermeremo prevede che le relazioni categoriali sono
realmente distinte dal loro fondamento, sono quindi cose, almeno in un senso
relativo. Scoto procede per riduzione all’assurdo della negazione di questa tesi,
mostrando che almeno in questo contesto teoretico egli accetta che la doppia
negazione valga l’affermazione. La tesi da confutare sarà quindi la tesi dell’iden-
tità della relazione con il suo fondamento (che le relazioni categoriali si confon-
dano con il loro fondamento ha un sapore schiettamente nominalistico).
Il primo argomento è quello generale e suona cosí:
1. Se a è identico a b, allora è contraddittorio che ‘a esiste ma non b’
(criterio di non-separabilità)
2. In molti casi, la relazione R e il suo fondamento F possono darsi
separatamente senza contraddizione
3. Quindi, si danno casi in cui R non è identico a F

Il passaggio 2. è esaminato nell’Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 200-205, ex n. 5, e


nel luogo parallelo della Lectura, II, d. 1, q. 4-5, § 184. In effetti, se c’è una cosa1
bianca e non quella cosa2 bianca, questa cosa1 bianca non ha una relazione di
similarità; e se la seconda cosa2 bianca arriva, si instaura una similarità. Ma al-
lora è possibile che non vi sia una tale relazione, e poi vi sia. Una qualità asso-

Quaestiones metaphysicorum, VI, q. 1, 46-48, ex n. 10.


23

La stessa haecceitas, quid-quod-est, viene ricondotta ad una formulazione disgiuntiva, in


24

un magnifico passaggio dell’Ordinatio, II, dist. 3, pars 1, q. 5-6, 187-188, ex n. 15.


96 CAPITOLO SECONDO

luta, la bianchezza, è altro da una qualità relativa, una relazione: una sostanza
può esistere senza una qualità assoluta, e una qualità assoluta può esistere senza
una sostanza. Il fondamento di una relazione reale (ex natura rei) può esistere
senza tale relazione, ma la relazione reale non può essere senza il suo fonda-
mento. Nell’ontologia scotista vi sono cose assolute e cose relative: la relazione
è una cosa relativa, ma resta una res naturae, anche se vi sono relazioni che sono
entia rationis (ens diminutum – Quaestiones Metaphysicorum, V, q. 6, 95, ex n. 14; Ordi-
natio, II, d. 1, q. 4-5, 215, ex n. 9) 25, ma è pur sempre una cosa ed è piú di un
semplice ente concettuale escogitato dall’intelletto. Tutte le cose appartengono
a pieno titolo al regno ontologico, e la condizione minimale per essere una cosa
è la compossibilità con le altre cose dello stesso mondo possibile.
Va ricordato che, nel senso aristotelico, ‘inerire’ significa essere in un
‘questo-soggetto-qui’ (predicazione individuale – ‘la bianchezza inerisce a X’)
senza esserne una parte, ma non predicarsi di un soggetto (essere in modo
sostanziale – ossia gli universali – non si può dire ‘questo uomo è una bianc-
hezza’, ma ‘questo uomo è bianco’) – altrimenti detto, ciò che inerisce non è
separabile da ciò cui inerisce. Differisce dalla predicazione propria nel senso che
l’inerenza non è essenziale (pertinente alla definizione stretta, ciò che fa sí che la
cosa sia sempre la stessa) – altre predicazioni sono quella speciale (proprietà in-
trinseca che deriva dall’essenza senza includerla – è necessaria), intrinseca, acci-
dentale (non-intrinseca).
L’argomento appena visto si completa con i seguenti argomenti che
spiegano i fatti evidenti della fede cattolica. Il passaggio 2. (si danno casi in cui
la tesi dell’identità non vale – Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 206, ex n. 6) trova due
casi concreti nell’Eucarestia e nell’Incarnazione. Innanzitutto, l’Eucarestia (Ordi-
natio, II, d. 1, q. 4-5, 208, ex n. 6; Lectura, II, d. 1, q. 4-5, § 191):
a) Prima della transustanziazione, la proprietà della quantità inerisce al
soggetto (il pane) mentre dopo la transustanziazione la stessa proprietà non
inerisce piú (altrimenti non vi sarebbe presenza reale del corpo di Cristo)
b) La proprietà della quantità (fenomenico) non varia durante la tran-
sustanziazione

25 Altrove Scoto paragona l’ens diminutum all’ente di ragione (Opus Oxoniense, IV, d. 1, q.

2, n. 3), ma nel Quodlibet, q. 3, n. 2, precisa che l’ente di ragione ha il suo esse in intellectu
considerante. Nelle Quaestiones Metaphysicorum V, q. 12-14, 44, ex n. 4, precisa che l’ente di
ragione si apparenta agli enti del discorso logico: “diversitas est relatio realis, ergo identitas;
quia ens reale non opponitur enti rationis”. In effetti, ‘uomo bianco’ e ‘uomo nero’ sono
contrari rispetto allo stesso oggetto ‘uomo colorato’, ma si badi che “ens reale potest esse
sine ente rationis”.
LA RELAZIONE COME COSA 97

c) Ammettiamo che una relazione sia identica con il suo fondamento


d) Allora la proprietà della quantità sarebbe identica con la sua relazione di
inerenza con il pane
e) Quindi, la quantità sarebbe realmente unita al pane o connessa al pane
durante la transustanziazione
f) ma a) ed e) sono incompatibili

Lo stesso vale per l’Incarnazione, dato che una volta assunto il fatto della
natura divina di Gesú Cristo la tesi dell’identità si mostra priva di senso (Ordi-
natio, II, d. 1, q. 4-5, 207, ex n. 6; Lectura, II, d. 1, q. 4-5, § 190). E’ il secondo
caso:
a) La relazione di Cristo con lo Spirito è realmente identica alla sua
fondazione, ossia alla sua natura umana
b) quindi, anche se lo Spirito non si fosse mai incarnato, quella natura
umana sarebbe unita esattamente come lo è ora
c) quindi, l’Incarnazione sarebbe un processo vuoto, il che è assurdo

Ockham non potrà rendere veramente conto razionalmente di questi fatti


(d’esperienza) e dogmi (magisteriali) con il suo approccio nominalista popolato
di sole cose assolute (Ordinatio, I, d. 30, q. 4). Egli deve supporre l’esistenza di
cose relative per l’Incarnazione e la Transustanziazione: ma questo significa ca-
dere in una adhockery, ossia un motivo per rifiutare la sua metafisica se si assume
questi due fatti come fatti della nostra esperienza (in alternativa, si può consi-
derare la metafisica di Ockham talmente persuasiva da rimuovere le sue
adhockeries e rifiutare i fatti dell’esperienza cristiana: i partigiani di questa alter-
nativa hanno gettato, per il fatto stesso di esistere, un dubbio sull’ortodossia di
Ockham, in senso stretto infondato, ma a livello di deriva possibile del tutto
fondato). Immaginare che la Trinità fosse composta da cose assolute avrebbe
compromesso la semplicità di Dio: inoltre, si sarebbe posto in rotta di collisione
esplicita con il patrimonio della fede.
Scoto procede poi con altri esempi per mostrare la validità del passaggio
argomentativo 2., questa volta attinti da un’esperienza non piú propria alla fede
cattolica: uno di questi si appoggia sul fatto che si deve rendere conto di oggetti
composti (Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 209, ex n. 6; Lectura, II, d. 1, q. 4-5, § 192),
mentre la tesi dell’identità rende impossibile il composto 26:

26 E’ una ripresa formale, ma non sostanziale, di Metafisica, VII, c. 17 (1041b 11-33):

Aristotele mostrava la necessità dell’esistenza dell’ousia per rendere conto dell’unità di una
98 CAPITOLO SECONDO

I) a e b formano un composto ab
II) se vale la tesi dell’identità, l’unione di a e b non è niente di piú della
mera somma di a e b
III) se a e b sono separati, la realtà complessiva di ab deve rimanere la
stessa
IV) mentre sono separati, allora a e b restano uniti (III)
V) quando le parti di un composto sono separate, non c’è una
composizione reale, ma solo un aggregato
VI) Un composto non è un composto (IV, V)

Si può passare da un contraddittorio all’altro solo attraverso il cambia-


mento, a meno che non si riconosca l’esistenza di una contraddizione vera che
qui è impossibile dato che si vuole definire la cosa stessa nella sua unità 27. Si

cosa. Si veda invece per Scoto la discussione sull’individuazione in Quaestiones Metaphysicorum,


VII, q. 13, 118-124, ex n. 17-18, dove prima nega che la mera negazione della divisibilità
(senza perdere l’identità) sia un criterio adeguato (come pretendeva invece Enrico di Gand),
poi la distinzione con gli altri individui è rintracciata nella “formalem rationem diversitatis” e
“circa idem commune non habent fieri”, e infine analizza il concetto di “causa minoris
unitatis”, per concludere che la stessa differenza individuale è causa dell’unità dell’oggetto.
27 Sul valore informatore della relazione rispetto alla cosa, Quaestiones Metaphysicorum,

IX, q. 3-4, 19, ex n. 3: “relatione quae dicitur ‘principiatio’ significata in abstracto; diver-
simode denominatur ‘illud quod’ principiate et ‘illud quo’ principiat, quia ‘illud quo’ imme-
diate et ‘illud quod’ mediate. Et secundum hoc possunt duo denominativa istis appropriari,
ut scilicet ‘illud quo’ dicatur principium et ‘illud quod’ dicatur ‘principians’ .. Tamen secun-
dum veritatem ‘principium’ est denominativum, quia impossibile est relationem pure in
abstracto significatam de aliquo absoluto predicari, quia tunc diceretur in quid de ipso. Calor
autem dicitur esse principium, licet non principiatio”. Andrebbero poi visti Quaestiones
Metaphysicorum, VII, q. 13 Utrum natura lapidis de se dit haec vel per aliquid extrinsecum, e
Quaestiones Metaphysicorum, VII, q. 19 Utrum universale sit aliquid in rebus.
Cito qui di seguito alcuni passi che danno il senso della scrittura scotista sulla natura
della relazione: Quaestiones Metaphysicorum, V, q. 11, 13, ex n. 3 : “relatio aliqua est res naturae,
quia actio naturalis dependet ex approximatione agentis ad passum sine qua numquam erit,
quaecumque absoluta ponantur in hoc et illo. Similiter eisdem absolutis manentibus, diver-
sificatur actio propter diversam relationem”; 37, ex n. 5 “relatio autem aliqua est res ratio-
nis, quia aliqua fundatur super ens rationis, et quia aliqua non inest rei ut exsistit, sed ut in-
telligitur ex collatione eius ad aliud, facta per intellectum” – l’intelletto agisce attraverso l’atto
di considerare X, non nella considerazione in sé; 47, ex n. 6 “relatio realis non est ens per se,
nec intervallum inter duo extrema, nec in duobus ut in uno subiecto, sed in uno et aliud”.
Gli argomenti, poi – cod. K, loc. cit. : 18, “relatio differat a fundamento intentione,
probatur, verumtamen in creaturis. Quia illa differunt secundum intentionem, quae possunt
causare conceptus distinctos, quamvis sit una res; sed relatio et fundamentum sunt
LA RELAZIONE COME COSA 99

ricordi che riconoscere l’unità di una cosa non implica la non-possibilità di


parlare delle sue parti; infatti, una ‘multitudo’ può essere reale (“non causata a
ratione”) senza potere essere detta ‘diversae res’, bensí ‘minor realis’ – “qui
multitudo non simpliciter diversorum, sed aliqualiter diversorum in uno tamen
toto contentorum” 28.
Scoto argomenta poi contro la tesi della mente-dipendenza e della non-
realtà assoluta (si veda Quaestiones Methaphysicorum, V, q. 11, 13-36, ex n. 3-4):
egli riprende l’argomento aristotelico di Metafisica, XII, che si richiama all’ordine
dell’universo e tra le sue parti (se la relazione non avesse un essere proprio,
queste parti sarebbe non-collegate); riprende l’argomento di Simplicio (In
Predicamenta Aristotelis, c. 7: la matematica è radicalmente non-soggettiva, quindi
le relazioni sono oggettive); formula poi l’argomento delle cause seconde, se-
condo cui la vicinanza spaziale deve avere una realtà extra-mentale per rendere
conto delle cause seconde stesse (Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 209, ex n. 6; Lectura,
II, d. 1, q. 4-5, § 193). Ossia:
1. a può essere causato dalle cause secondarie b (fuoco) e c (legno) solo se
si dà una opportuna relazione di vicinanza spaziale tra b e c
2. se vale la tesi dell’identità, la relazione di vicinanza spaziale tra b e c non
è altro che le cose b e c (identità ontologica)
3. sia che b e c siano vicini oppure no, esiste la stessa cosa
4. solo con l’introduzione di una nuova realtà ciò che non era causalmente
possibile può diventarlo
5. senza vicinanza spaziale, b e c non possono produrre a;
6. in nessun caso b e c possono produrre a

huiusmodi; ergo etc.”; 23, “primae condicionis relatio est idem realiter cum fundamentum
suo, distinguitur autem formaliter ab eodem; aliae autem distinguuntur realiter et formaliter
a propriis fundamentiis”; 24, “illud quod proprie dicitur inesse alicui, sine quo illud sine
contradictione esse non potest, est idem cum eo realiter; sed relatio ad Deum inest lapidi
proprie, et sine illa non potest esse lapis sine contradictione; ergo etc.” (si veda Ordinatio, II,
d. 1, q. 4-5, 261, ex n. 21); 29, “quod uniformiter dicitur de omni alio a termino, non accidit
alicui eorum quae dicuntur ad terminum; sed talis relatio dicitur uniformiter de omni
creatura, et non dicitur de Deo; ergo nulli accidit, ergo eadem realiter” (266, ex n. 23); 35,
“quod distinguuntur formaliter, probatur sic: ex intellectu huius quod est esse idem forma-
liter, quando scilicet unum includit aliud, ita quod inclusum vel est tota definitio vel per
definitionis includentis, quia nullum absolutum includit isto modo respectivum. Sed funda-
mentum est absolutum, relatio respectivum; ergo etc.” (261-262, ex n. 21). La pietra non
può essere senza Dio (26, e Ordinatio, 263, ex n. 22).
28 Quaestiones Metaphysicorum, IV, q. 2, 143, ex n. 24; si veda pure Reportata parisiensia, II,

d. 16, q. unica (assente dall’Ordinatio).


100 CAPITOLO SECONDO

Si osservi che contro la possibilità di concepire la relazione quale una mo-


dalità, Scoto argomenta che (Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 228, ex n. 13; Lectura, eod.
loc., § 210) modalità e cosa denotano la stessa realtà esterna (‘non/ens-ratio-
nis’): qualsiasi essere categoriale può essere detto una cosa. Se a e b sono esseri
categoriali, se b dipende da a per la sua esistenza, b è meno perfetto di a, e se b
è meno perfetto di a, allora è una modalità di a. Nel suo Quodlibet, q. 3, n. 2-3,
offre i significati possibili di cosa: res – 1. assenza di contraddizione rispetto a
qualunque tipo di essere, e ha o potrebbe avere esistenza extra-intellettuale
(“non est nihil”; “res vel ens dicitur quolibet conceptibile” – “ens rationis, et
ens quodcumque reale”); 2. cose assolute, sostanze, quantità e qualità, non-
condizionali (“distinguendo rem contra modum rei” – “ens reale et
absolutum”); 3. solo le sostanze (Metafisica, VII – “ens reale et absolutum, et
per se ens”). La relazione è una cosa nel primo senso, con un essere attuale
(compossibilità) al di fuori dell’intelletto.
Ma soprattutto Scoto argomenta contro il regresso all’infinito che si
instaurerebbe tra la relazione* e il suo fondamento richiedendo successiva-
mente una nuova (sempre nuova) relazionen. Sarebbe il Terzo Uomo mani-
polato da Aristotele contro Platone, o meglio una versione di esso. In una pri-
ma tappa (Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 262, ex n. 21; Lectura, II, d. 1, q. 4-5, § 242),
Scoto argomenta su un campo di variabili oggettuali che includono le res, ossia
nel caso indifferentemente degli oggetti o delle relazioni:
i) se a non può esistere senza b, allora o 1) b è naturalmente precedente ad
a, oppure 2) a è naturalmente simultaneo a b, o ancora 3) b e a sono realmente
identici (Scoto usa qui ‘identico’ nel senso che a si riduce completamente a b
sotto gli aspetti della realtà, ma resta che a ha una modalità ontologica negata a
b in quanto a esiste, tanto che la definizione formalitas rispettiva dei due a e b
mantiene un differenza formale – Scoto esclude esplicitamente che vi sia iden-
tità formale – che è strettamente ontologica – oppure identità adeguata, che è
perfetta sinonimia)
ii) ma se b è una relazione, e b inerisce in a, allora 1) e 2) non sono pos-
sibili (l’inerenza richiede una posteriorità naturale (ossia concettuale nell’ordine
degli agenti inanimati), che non è però necessariamente una dipendenza)
iii) se b inerisce in a, ed a non può esistere senza b, allora b è identico ad a
(‘essere pietra’ si identifica nel nostro mondo – e in altri mondi possibili – con
l’‘essere creatura’, ma non nel senso che tutte le creature sono identiche – tutta-
via, la creaturalità non implica l’essere-pietra).
LA RELAZIONE COME COSA 101

La nozione di posteriorità concettuale ci introduce alle formalità, senza le


quali l’argomento precedente è incomprensibile – in particolare, l’identità non si
comporta nello stesso modo, considerando il fatto reale oppure il fatto formale:
le cose e le formalità sono separabili mentalmente, ma solo le cose sono separa-
bili nella realtà spazio-temporale. Le formalitates introducono la paraconsistenza
nella strategia scotiana, affermare che si dà una non-identità formale o una di-
stinzione formale equivale ad affermare che si dà una contraddizione vera29. La
nozione formale di una relazione implica quella di un fondamento, mentre la
nozione formale di una fondazione non implica la nozione di un fondamento.
Scoto afferma in molti luoghi che si può dare identità reale e insieme non-
identità formale: è il nerbo della sua dimostrazione della possibilità razionale
della Trinità, percorre tutta la sua opera ogni volta che si tratta di rimuovere una
presunta contraddizione fatale nell’interpretazione classicista, che grazie alla
formalitas diviene una contraddizione vera. Per quanto riguarda le relazioni,
Scoto pone la differenza tra l’identità reale e la non-identità formale in Ordinatio,
I, d. 33-34, q. unica, 1-3, ex n. 1 – “proprietas personalis non est eadem forma-
liter cum essentia”, rispetto alla quale pone una precisione fondamentale sin da
Ordinatio, I, d. 2, pars 2, q. 1-4, 405-406, ex n. 44: parlando dell’identità formale,
non è immediatamente equivalente affermare la non-identità rispetto alla distin-
zione, tanto che insiste nel preferire parlare nella sfera divina di non-identità

29 Discutendo la distinzione formale a parte rei, nelle Quaestiones metaphysicorum, VII, q.


19, 43-57, ex n. 8-9, Scoto la ritiene necessaria per rendere conto della diversità delle nozioni
di genere e di differenza, che deve essere fondata nella cosa, ma per la cui esistenza non
basta il modo intenzionale di Enrico di Gand. Per Scoto “circumscripta omni operatione
intellectus agentis vel possibilis, et omni esse in intellectu praesupposito vel concomitante,
erit in re illa differentia” (43). La contraddizione vera emerge, mi pare, cosí in Lectura, I, d. 8,
pars 1, q. 4, §§ 175-176: le perfezioni divine “sunt igitur in re ante operationem intellectus, et
tamen una perfectio formaliter non includit aliam, ita quod non sunt idem formaliter nec
habent identitatem formalem. Sunt igitur diversae rationes formaliter, et etiam ante intel-
lectus, quia quaelibet .. est ex natura rei, et tamen una non sunt formaliter alia” (anche Ordi-
natio, I, d. 8, pars 1, q. 4, 191-198, ex n. 17-19). Resta che questo strumento paraconsistente
serve per spiegare la differenza (non-sinonimia) tra l’ente e le sue proprietà, e la relazione tra
Dio e la creatura (45): essa è reale e graduata (44), distingue insomma tra cose identiche.
I curatori dell’ed. St. Bonaventure indicano opportunamente la presenza in Pietro di
Trabibus di questa idea (Sententiarum, I, d. 22, q. 1): vi dice che le perfezioni divine non diffe-
riscono ‘realiter’ come diverse nature o essenza, e che neppure differiscono “per conside-
rationem nostri intellectus”. Il contributo di Scoto è quello di fare della distinzione formale
non solo uno strumento teologico, bensí uno strumento metafisico tout court: dal Mistero si
passa alla paraconsistenza.
102 CAPITOLO SECONDO

formale piuttosto che di distinzione formale30. Si potrebbe dire meglio il rifiuto


della logica classica? La sola alternativa a questo rifiuto mi pare quella di inter-
pretare Scoto nel senso di una verbosa e relativamente sterile parafrasi del mi-
stero della Trinità, tanto piú sterile se paragonata alla ricchezza retorica dei Pa-
dri della Chiesa. Ma questa alternativa mi sembra del tutto insoddisfacente e
‘avaramente misera’. Per illustrare ulteriormente questo punto dell’ identità for-
male conviene soffermarci sull’idea di relazione trascendentale prima di passare
alla seconda tappa della strategia che elimina il pericolo del regresso all’infinito.
La relazione tra Dio e una pietra è inerente alla pietra, e la pietra non può
esistere senza Dio (è una relazione reale per la creatura, ma non-reale (non-
assoluta – nel senso di simpliciter) per Dio, nella misura in cui è non-necessaria).
Nei soggetti naturali si può dire con Aristotele (Metafisica V) che le relazioni
fondate sulla quantità sono reali, o meglio reciproche: in ogni caso, Dio è un
agente libero, non naturale. La relazione reale, infatti, è tale se sussiste tra due
correlati senza l’intervento ricognitivo dell’intelletto. Scoto esemplifica con la
relazione di similitudine tra due cose bianche (Ordinatio, I, d. 30, q. 1-2, 69, ex n.
19), che sono simili solo perché questo bianco qui è bianco e quel bianco là è
bianco, oppure con la relazione di maggiore/minore che si instaura tra l’ordi-
nale due (binarius) e l’ordinale tre (ternarius), che sono cosí correlati in quanto
due è due e tre è tre 31. L’atteggiamento anti-riduzionistico è qui radicale, ed è la

30 Ordinatio, I, d. 2, pars 2, q. 1-4, 405-406, ex n. 44: “a et b non sunt idem formaliter,


ergo sunt formaliter distincta? Respondeo quod non oportet sequi, quia formalitas in
antecedente negatur, et in consequente affirmatur” – ‘a non est formaliter b’ è vera ‘ex
natura rei’ prima di ogni atto intellettuale, è quindi vera nella struttura ontologica delle cose.
Nello stesso contesto di discussione (da 388 a 410, ex n. 41, 46) Scoto aveva già
affermato che “ratio qua formaliter suppositum est incommunicabile (sit a) et ratio essentiae
ut essentia (sit b) habent aliquam distinctionem praecedentem actum intellectus creati et
increati” (389, ex n. 41). Per parallelismo, in Lectura, I, d. 2, pars 2, q. 1-4, § 275, leggiamo di
una differenza “virtualis” tra la “realitas paternitatis” e la “realitas deitatis”, che sono
fondamentalmente distinte, “licet per identitatem sint idem”, il tutto “ante operationem
intellectus”; poi conclude “qui igitur potest capere, capiat, quia sic esse intellectus meus non
dubitat”. Sempre sulla paternità come rapporto tra padre e figlio, su cui Scoto si intrattiene
in Opus oxoniense, III, d. 8, q. unica, n. 8, e in Lectura, stesso luogo, § 25, si ricordi che il padre
di A e B si vede predicate due paternità, quella per B e quella per A (altrimenti, morto A,
sarebbe padre e non padre), una soluzione che Scoto considera non-platonica – Quaestiones
metaphysicorum, V, q. 7, 68, ex n. 10, “paternitas in isto patre ad hunc filium habet maiorem
unitatem quam unitatem speciei”, “in isto ad hunc filium est haec paternitas”.
31 Poco prima, in Ordinatio, eod. loc., 49, ex n. 14, Scoto aveva premesso che in Dio

non c’è relazione reale alla creatura (vale però in affermativo il viceversa).
LA RELAZIONE COME COSA 103

chiave di volta del rifiuto scotiano di una ontologia misera: le cose sono quello
che sono, non già un’altra cosa, e le formalitates sono il necessario scheletro
ontologico di questa visione (qui, la Forma della bianchezza).
Se ne ricava che una creatura è identica alla sua relazione con Dio (ma non
assolutamente, altrimenti non vi sarebbero cose assolute), che può essere
considerata un attributo specifico (aristotelico), non identificabile al soggetto,
ma neppure separabile (assolutamente simultanee, sono però formalmente di-
stinte: la fondazione eccede la relazione in perfezione, la relazione eccede la
fondazione nella sua predicabilità (di tutte le creature)). Nel mondo vi sono
cose e formalità-realtà: la creatura è realmente identica alla sua relazione con
Dio, ma formalmente ne è distinta. Su questo punto, si può vedere la defini-
zione dell’inclusione formale contenuta in Ordinatio, I, d. 8, p. 1, q. 4, 193, ex n.
18: x e y sono formalmente non-identici o distinti sse 1) x e y sono – o sono
inclusi in – una res; e 2) se possono essere definiti, la definizione di x non inclu-
de quella di y e viceversa; oppure non possono essere definiti, allora se lo
fossero, la definizione di x non includerebbe quella di y e viceversa 32. La ratio
formalis dell’oggetto precede sempre l’atto con cui l’oggetto passa dalla quiete al
movimento: questo per dire che la relazione formale è altro dall’oggetto e dalla
sua attività (Quaestiones Metaphysicorum V, q. 11, 85-90, ex n. 12-13). Si osservi,
prima di passare al momento successivo della difesa di Scoto contro il regresso
all’infinito, che le sue formalità richiamano almeno in parte la strategia realistica
di Roderick Chisholm 33.

32 Si noti che questo legame che Scoto colloca tra la formalitas e la definizione della res

richiama un passo aristotelico dei Topici, 4, 14 151b-17: “non vi sono piú definizioni della
medesima cosa”. Questo non significa affatto che l’ontologia di Scoto sia aristotelica, ma
mostra bene come il Dottore Sottile si avvalga del lessico filosofico aristotelico per sviluppi
certo altamente originali: per una discussione del luogo aristotelico citato rinvio a W. A.
Depater, Les Topiques d’Aristote et la Dialectique aristotélicienne. Méthodologie de la définition,
Fribourg 1965, 226.
33 Roderick M. Chisholm, A Realistic Theory of Categories, Cambridge 1996. Lo stesso

Chisholm presenta la sua teoria come ‘platonismo’, ossia realismo estremo, e in questo senso
Scoto è un realista estremo. Attributi e proprietà sono termini sinonimi. Come per Meinong,
essere un cerchio quadrato è una proprietà anche se non è istanziabile (e mi pare sia una tesi
scotista). Come per Scoto, il tempo può essere sostituito da relazioni temporali : lo stesso
per lo spazio. I vantaggi della teoria si manifestano, secondo lui stesso, in una parsimonia
proposizionale: le proposizioni non esistono (il suo argomento è il seguente: vi sono
proposizioni che appaiono vere rispetto ad attributi o proprietà. Esse non sono parafrasabili
senza riferimento a attributi o proprietà – 1) ci sono virtú che non sono istanziate; 2) ci sono
forme che non sono istanziate; 3) ci sono modelli di automobile che non sono istanziati).
104 CAPITOLO SECONDO

Il tutto si concretizza nella seconda tappa dell’argomento in sospeso


(Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 269, ex n. 24 – anche in Quodlibet, q. 3, n. 15-16 34: se
un fondamento può esistere senza la relazione che si fonda su di esso, la
relazione è identica a quella di inerenza, ma realmente distinta dal suo fonda-
mento; una proprietà assoluta può essere realmente distinta sia dalla sostanza,
sia dalla relazione di inerenza – come nel caso della transustanziazione (Opus
oxoniense, IV, d. 12, q. 1, n. 5 e q. 2, n. 18), in cui l’inerenza è potenziale. Ma per
le proprietà relative, non vale lo stesso discorso: la proprietà accidentale della
similitudine non è distinta dalla similitudine. La realtà di una relazione dipende

Ma soprattutto nela capitolo 8 presenta le relazioni come coppie ordinate (fonte, Kasimier
Kuratowski 1922), tali che se collassano in una unità sono dette proprietà o relazioni a
termine unico. La definizione è : xRy = R è una proprietà tale che si istanzia almeno in 1) x e
solo x, et 2) x e y e solo x e y. Lo schema è quindi dalle Relazioni ⇒ Insiemi ⇒ Attributi
(che esistono, istanziati, istanziabili oppure non-istanziabili, e che sono sempre necessari). In
questo contesto la nozione di ‘coppie ordinate’ potrebbe essere una formalità scotista, una
res nel senso 1., ossia assenza di contraddizione rispetto a qualunque tipo di esistenza, e ha o
potrebbe avere esistenza extra-intellettuale: in ogni caso, il regresso all’infinito non ha luogo
di essere nella strategia di Chisholm.
34 “Sed quaeras de accidentalitate similitudinis, si ipsa est alia a similitudine. Dico quod

non, quia similitudo est sua accidentalitas ad fundamentum et seipsa accidit fundamento,
sicut seipsa est ad oppositum. Universaliter enim quod convenit alicui sic, quod omnimoda
contradictio sit illud esse sine hoc, hoc est idem realiter illi; et per oppositum, ubi non est
omnimoda contradictio, non oportet esse omnino. Nunc autem contradictio est simili-
tudinem esse et non esse ad fundamentum et etiam non esse ad terminum. Ideo acci-
dentalitas sua ad fundamentum est idem sibi, sicut ipsamet est similitudo vel habitudo ad
oppositum. Status est ergo, quia accidentalitas similitudinis non est alia res a similitudine, sed
similitudo est quaedam res alia a albedine, quia habitudo et etiam accidentalitas albedinis
potest poni quaedam res alia ab albedine, quia albedo est quaedam res absoluta, et accidens
absolutum potest esse sine contradictione sine subiecto”.
“Relatio, quae est accidens in creaturis, propriam habet accidentalitatem, quia illa est
per se res, et non est illa res, in qua fundatur ; nec est res per se ens, sicut substantia, ita
oportet dare quod ipsamet per se sit res habens propriam accidentalitatem, quae non sit
accidentalitas entis ad se, sed accidentalitas entis ad alterum. Sicut enim non est eade-
mentitas ad se et ad alteurm, sic nec eadem accidentalitas accidentis entis ad se, et accidentis
entis ad alterum. Et cum arguitur, quod est processum in infinitum, respondeo, standum est
in ipsa relatione, nec ulterius proceditur, verbi gratia, in albedine fundatur similitudo, ista
similitudo habet aliquam accidentalitatem propriam ab accidentalitate albedinis distinctam,
sicut relatio est genus distinctum a genere qualitatis”.
LA RELAZIONE COME COSA 105

dall’esistenza di due correlati realmente distinti e da una base reale della rela-
zione stessa 35):
i) non è possibile senza contraddizione che R esista senza il suo
fondamento F
ii) se R e F esistono, allora una relazione di alterità R’ verso F esiste per R
(R’ inerisce a R come suo fondamento – è formalmente posteriore)
iii) in tale modo non è possibile senza contraddizione che R esista senza R’
iv) R e R’ sono identiche
Il Terzo Uomo è rimosso: si confronti questa strategia con quella di Arm-
strong. Dopo aver sottolineato che nella strategia platonica la forma (trascen-
dentale) non può che essere unica, l’argomento del Terzo Uomo è respinto da
Armstrong come inefficace. Egli infatti rifiuta la premessa dell’auto-predi-
cazione (la forma trascendentale che rende conto del fatto che un individuo
possiede una certa proprietà deve possedere a sua volta quella proprietà). In
realtà, nulla obbliga, anzi si deve escludere, che la bianchezza sia bianca. Inoltre,
egli rifiuta anche l’ipotesi sistematica della non-identità delle forme di ordine
superiore: in effetti, la forma dell’essere-forma può partecipare in se stessa, e
non in altro. Vale la pena di chiudere con una formulazione leggermente diffe-
rente della strategia anti-regresso di Scoto, con un passaggio magistrale, che ab-
biamo visto ricorrere in Ordinatio, II, d. 1, q. 4-5, 269, ex n. 24, ma che riporto
nella lettera delle Quaestiones Metaphysicorum, V, q. 11, cod. K, 32: “accipiantur
prima fundamenta, scilicet Socrates et Plato, inter quae est identitas mutua, et
dicatur illa in Socrate a et in Platone b; identitas autem a et b sit c, et identitas b
ad a sit d. Dico quod a differt a Socrate, quia Socrates potest esse sine illa (quia
potest esse sine termino illius), quamvis a sine suo termino non possit esse.
Dico ultra quod a non differt a c, immo c est idem ipsi a, quia a non potest esse
absque c (cum sint simul natura); et per consequens est contradictio a esse sine
c et nisi fundamentum c et terminus eius sint. Sed fundamento c et terminus
eius exsistentibus, necessario erit c – ergo contradictio est a esse sine c; et cum c

35 Può essere rilevante il riferimento alla discussione teologica delle due filiazioni in

Cristo, per cui Lectura e Opus oxoniense, III. d. 8, q. unica, in cui il problema della relazione
reale ritorna e si consolida infine sulla nozione tipica delle formalitates della consistenza
ontologica meno-che-numerica (§§ 45-46 = n. 12, §§ 49-55 = n. 18-20, ma in particolare §§
56-58 = n. 21-22).
Per la dimostrazione che esistono unità reali meno-che-numerali, rinvio a Quaestiones
metaphysicorum, VII, q. 13, 65-83, ex n. 10-12, e ai luoghi di Lectura, II, d. 3, pars 1, q. 1, §§ 21,
23-24, 26-27, e ai paralleli in Ordinatio, 18, 20-27, ex n. 4-6.
106 CAPITOLO SECONDO

insit formaliter a, quia a dicitur idem ipsa eadem identitate quae est c, ergo c est
idem ipsi a, et per consequens ibi erat status”.

VI. Ockham e Auriolo cercano di superare Scoto

La strategia di Ockham contro il realismo di Scoto si incentra sul regresso


all’infinito 36: si tratta di un rifiuto della distinzione formale, quindi dell’opzione
paraconsistente che essa manifesta. Tale rifiuto comporta la non-persuasività
della strategia scotiana che mostra la debolezza essenziale del Terzo Uomo. Per
Ockham, invece, distinti termini implicano sempre e assolutamente relazioni
distinte. Il termine della relazione R (similarità) di a è altra cosa da b; il termine
della relazione R* (alterità) di R è il fondamento in a; quindi b e il fondamento
di a sono distinti. Quindi i termini di R e R* sono distinti, e quindi R e R* sono
relazioni distinte. Ma Scoto ha costruito la sua metafisica sulla distinzione
formale a parte rei – termini distinti non implicano relazioni realmente distinte,
bensí solo relazioni formalmente distinte, Ockham la rifiuta (Ordinatio, I, d. 2,
qq. 4-8) in nome di una ontologia piú misera. R e R* possono essere solo
formalmente distinte (ordine oggettivo del prima e del dopo – compatibile con
la reale identità) e essere denotate da termini distinti, b e il fondamento di a. Per
Ockham, invece, la relazione di inerenza comporta distinzione necessaria, dato
che nulla inerisce a se stesso 37.
Scoto distingue in maniera fondamentale tra l’impossibilità logica e
l’incompossibilità: la contraddizione assoluta, la Super-Contraddizione, è quella
logica, l’altra, la piccola contraddizione, è l’incompossibilità che si dà in un certo
mondo possibile (e forse non in un altro). Esse non coincidono (lo abbiamo già
visto in Quodlibet, q. 3, n. 15): l’oggetto a può esistere (logicamente) senza R
(similarità) se non esistessero altre cose bianche. L’inerenza agisce sul piano
della compossibilità, è fenomeno di un certo mondo attuale, non della pos-
sibilità logica, che si estende a tutti i mondi possibili. Siamo quindi di fronte ad

36 L. Baudry, A propos de la théorie occamiste de la relation, in Archives d’histoire doctrinale et

littéraire du Moyen Age 9 (1934) 199-203.


37 Si noti che in questo modo il problema della verità si trasferisce nel linguaggio, fatto

comunemente riconosciuto dagli interpreti come specificità della filosofia ockhamista che
anticipa l’attenzione essenziale tributata nel XX secolo da molti filosofi. Se invece si
ammette che qualcosa può inerire a se stesso, il problema della verità diviene un problema
ontologico, e linguaggio e mondo sono inestricabilmente connessi: la paraconsistenza, anche
se poi difesa in un’ottica di relativismo morale, richiede tale nesso ontologico tra linguaggio
e mondo, indipendente dall’intelletto umano.
LA RELAZIONE COME COSA 107

una divergenza radicale negli schemi metafisici impiegati, che può essere risolta
solo confrontando l’efficacia e la fruttuosità rispettiva di ognuno dei due (reali-
smo scotiano e nominalismo ockhamista).
Un altro argomento di Ockham è invece particolarmente imbarazzante in
un contesto francescano di esaltazione dell’onnipotenza divina: Reportatio, II, q.
2 – “Deus potest facere omne absolutum sine quocumque alio positivo facto in
quocumque alio, sed non potest facere duo alba nisi sint similia. Igitur simi-
litudo non est aliquid positivum additum albedini” – la realtà della relazione di
somiglianza è contestata in nome del fatto che sarebbe assolutamente inse-
parabile dalle cose simili 38.
Si tratta di un caso di relazione reale, ossia che include il dominio della
contingenza, ma considerata con l’occhio di Dio, ossia inclusivo delle (scotiane)
formalità. Eppure, la posizione di Scoto è difendibile. Ma non si tratta tanto di
ribadire su questo punto il disaccordo tra Ockham e Scoto su ciò che vi è, un
disaccordo che può decidersi solo in base alla fruttuosità esplicativa di una delle
due scelte ontologiche, a priori egualmente possibili (e queste mie riflessioni su
Scoto cercano di mostrare come la sua ontologia sia particolarmente fruttuosa
in quanto a potere esplicativo). Il punto mi pare eminentemente linguistico.
Neppure Dio può sfuggire alla necessità delle definizioni, se gli si attribuisce il
peso di accettarle (‘fa due cose bianche’, dove bianco è la proprietà da noi
esperita nel nostro mondo attuale): ma di potenza assoluta Dio può mutare la
definizione di ‘cosa bianca’ (permanenza del connotato, varianza del denotato)
in modo tale da rendere la similitudine una relazione non-reale, ossia non-
intrinseca e non-naturale, tra cose bianche 39. Sarebbe un mondo diverso dal no-
stro, in cui due cose bianche sarebbero identiche e non-simili; del resto, non av-
viene nella Trinità che persone identiche sono diverse? Tra l’altro, senza accedere
alla sfera divina, è banale osservare che due pacchi identici per il postino che li
deve affrancare (per esempio, il loro peso varia tra 2 kg e 3 kg) non sono identici
se fossero venduti a peso da un ricettatore (l’uno pesa 2300 g e l’altro 2500 g). Se

38 Abbiamo già visto che Scoto scrive in Quaestiones metaphysicorum, VII, q. 3, 67, ex n.

10: “nullo existente intellectu, realis est similitudo huius albi ad illud album secundum
albedinem”. Per sottolineare la realtà della relazione di somiglianza, precisa “alia est hic et
ibi, sed non de se alia; nec sufficit unitas numeralis hic et ibi, quia illa de non est alia; nec
lagis principium similitudinis quam in albo et nigro, quia omnis individualis in quantum
praecise individualis est aequalis, sicut et specificia in quantum praecise specifica, quia est
simplex” (69, ex n. 10).
39 E’ ovvio che Dio “posset separare accidens a subiecto” (Quaestiones metaphysicorum, V,

q. 7, 42, ex n. 7).
108 CAPITOLO SECONDO

si restringe la nozione di similitudine ad una formalità determinata rispetto ad


una proprietà astratta (valida trans-mondi), è ovvio che non si può fare in un
mondo attuale che tale formalità non sussista. Scoto dovrebbe insomma re-
plicare (e avrebbe facilmente replicato al nominalista logico Ockham) che il cri-
terio di separabilità non implica che la separabilità sia compossibile attualmente
(a da R e b da R1). La soluzione sta solo nella teoria dei mondi possibili.
Si noti pure l’osservazione di David Lewis, evocata in una nota all’inizio di
questo testo, secondo cui una relazione di somiglianza rispetto alla natura
intrinseca di una coppia è una relazione interna: allora due duplicati non pos-
sono che avere sempre la stessa relazione (un oggetto è duplicato di un altro se
1) i due hanno le stesse proprietà naturali; 2) le loro parti possono essere messe
in corrispondenza tale che hanno le stesse proprietà naturali – da non con-
fondere con la non-distinguibilità, che coinvolge le proprietà estrinseche, ossia
proprietà naturali in senso largo). I due oggetti bianchi sono simili per relazione
interna, se li consideriamo in quanto e soltanto in quanto bianchi; ma allora, per
sopprimere una relazione interna, occorre mutare l’oggetto stesso, cosa che a
Dio è possibile. L’argomento di Ockham non vale di piú delle sciocchezze
sull’impossibilità da parte di Dio di creare una pietra che Dio non può sollevare.
Per Ockham, come per Aristotele, la relazione è un predicato reale (genus
generalissimum) poiché le sue specie (i concetti relazionali) denotano le cose
esterne alla mente e ne richiedono l’esistenza (Quodlibet, VI, q. 5). La somi-
glianza è un concetto, e pure le cose che si somigliano connotate dal concetto.
Egli credeva che Aristotele volesse negare ogni cosa relativa, e lo segue fedele a
quest’idea. Insomma, proposizioni della forma ‘aRb’ sono vere se e solo se a e b
esistono nel modo connotato dalle sostituzioni per R, ossia ‘relazione’ o qua-
lunque ‘relazione*’ specifica indipendente da un atto intellettuale.
Anche la posizione concettualista di Pietro Auriolo pretenderebbe di
sostituirsi all’analisi scotiana. Auriolo non utilizza tanto la distinzione tomma-
siana esse-in, esse-ad, e preferisce dire che la relazione è un entità semplice ed
indivisibile. Nessuna cosa extra-mentale può esistere in una pluralità di soggetti
– separati spazialmente – realmente distinti: la relazione esiste tra due cose, essa
connette. Il fatto di essere proprietà di un soggetto preclude la possibilità di essere
una relazione. Mentre altri autori consideravano la relazione come extra-mentale,
ma non inerente al soggetto (‘la relazione è in una cosa e verso un’altra cosa’), per
lui la relazione esiste nella percezione concettuale. Solo gli oggetti individuali e
particolari esistono: nondimeno, le relazioni esistono oggettivamente nella mente,
in quanto le condizioni della connessione tra le cose è mentale.
LA RELAZIONE COME COSA 109

Mettendo insieme le modalità (intenzionali) di Enrico di Gand, che confi-


gurava la relazione come un modo del suo fondamento 40, e le formalità di
Scoto (ma rifiutando la natura comune – in senso proprio, tuttavia, per Scoto la
quiddità – natura essenziale – è individuazione dei soggetti minor unitas quam sit
unitas numeralis, ed è comune solo in astrazione 41 – la natura umana è solo la
natura umana – l’individuazione in senso stretto è l’haecceitas), il concettualismo
rifiuta per il regresso all’infinito ogni esistenza extra-mentale delle relazioni: in
particolare, rifiuta l’idea che ogni cambiamento in una sostanza debba associarsi
ad un cambiamento di relazione nelle altre sostanze. Si tratta di un gioco sulle
relazioni negative: è l’anticipazione della confusione sull’atomismo logico delle
entità negative, ma è pure l’affossamento di ogni considerazione sull’ordine del
creato che non sia meramente mistica e spirituale. In questo contesto, Aureolo
invoca il principio di parsimonia – II Sententiarum, d. 14, q. 1, a. 2: “multitudo
ponenda non est nisi ratio evidens necessaria illud probet aliter per pauciora
salvari non posse. Deus enim et natura nihil faciunt frustra” (ed. Roma, 1596-
1605).
Come Ockham, avanza poi l’argomento dell’onnipotenza divina. Dio non
potrebbe fare due cose bianche non-simili, “adhuc intellectus considerans duas
albedines aeque invenit eas similes sicut ante” (I Sententiarum, d. 30). Ma a
differenza di Ockham, per Aureolo la parola ‘relazione’ non è connotativa, essa
è denotativa. Si noti che, come membro della scuola francescana, enfatizza il
ruolo della volontà nella spiegazione filosofica; ma come concettualista, la sua
posizione è particolarmente confusa.

40 La discussione con Enrico di Gand era per Scoto un tema privilegiato, dato che

Enrico di Gand era un volontarista (cf. R. Macken, La volonté humaine: faculté plus élevée que
l’intelligence selon Henri de Gand, in Recherches de théologies ancienne et médiévale 42 (1975) 5-51). La
grande differenza tra i due risiede nell’impegno ontologico scotiano: ultra-realismo e reali-
smo modale. Personalmente ne traggo la suggestione che la migliore ontologia per un volon-
tarista è un’ontologia lussureggiante quasi-platonica.
41 Si può vedere in merito la recente edizione critica di uno scritto di un seguace di

Scoto, ossia Petrus Thomae, De unitate minori, per cui Collectanea Franciscana 74 (2004) 341s:
The tract. “De unitate minori” of Petrus Thomae [† ca. 1350], Leuven 2002.
CAPITOLO TERZO

UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA

demonstratio qua demonstratur ‘primum’ de ente,


naturaliter praesupponit conceptum primi entis, ita
quod non sit ratio in se falsa; sed hoc necesse est
praesupponere de subiecto, quia alias ‘animal inani-
matum’ posset poni subiectum. Hoc enim non tan-
tum praesupponitur esse exsistentiae, sed ipsi esse
quiditativo. Unde quod dicitur ‘per metaphysicam
ostenditur Deum esse’, si intelligatur de actuali exsi-
stentia, non est demonstratio, nec praemissa necessaria.
Si autem intelligatur de esse quiditativo, verum est.
Quaestiones metaphysicorum, I, q. 1, 155, ex n. 47

I. Una premessa

Nei commenti attribuiti a Scoto delle opere logiche di Aristotele possiamo


trovare dei momenti particolari della sua prospettiva paraconsistente, anche se
tale prospettiva non è formalizzata in modo esplicito e lessicale. Vi sono i
passaggi chiave, non occorre manipolarli, e tuttavia se non li si collegano alle
pagine piú generali di ontologia e di metafisica del Dottor Sottile si prestano ad
essere ‘anestetizzati’ secondo la madre di tutte le strategie della difesa del
dogma classicista: si tratterebbe di ‘mostruosità’, di ‘particolarità isolate’, ma
anche di ‘formulazioni giovanili’, di ‘incertezze dell’autore’, sino agli errori
materiali di qualche copista. Dalla procedura dell’anestetizzazione sino al piú
prosaico errore materiale, tutto questo non mi interessa. A me interessa solo
prendere sul serio Scoto, e mettere alla prova l’interpretazione paraconsistente
che ne propongo. Dopo avere fornito un panorama generale della sua onto-
logia, richiamandomi alle conquiste interpretative di chi ha identificato il
realismo modale nelle strategie di Scoto, mi pare ora opportuno soffermarmi
sulle poche pagine in cui la sua prospettiva è piú propriamente mirata alla logica
formale: pagine giovanili, che però annunciano tutto il suo impegno ontologico
lussureggiante di oggetti reali. Il quadro che emerge ai miei occhi, infatti, è che
vi possono anche essere delle variazioni di dettaglio, oppure dei cambiamenti
lessicali; tuttavia, nella sua breve carriera filosofica, data la morte precoce, Duns
112 CAPITOLO TERZO

Scoto ha mantenuto sostanzialmente la sua posizione filosofica. Solo che Scoto


mostra la sua straordinaria semplicità e chiarezza solo dopo numerose letture,
ed in questo si differenzia da autori come san Tommaso che piuttosto si com-
plicano rilettura dopo rilettura: Gilson osservava acutamente questi tratti alter-
nativi nei filosofi medievali, in Scoto si aggiunge il fatto che la sua chiarezza non è
ovvietà, è piuttosto contro-intuitività, un poco come l’osservazione di David
Lewis al quale sembrava ovvio che le scimmie parlanti fossero reali.

II. Libertà della volontà e prescienza divina: limiti della bivalenza

Discutendo un luogo classico del De interpretatione aristotelico (cap. 9,


18a) 1, Scoto mostra in maniera sintetica eppure decisa i motivi per cui il
principio di bivalenza non ha validità universale, assumendo una posizione
che va ben al di là di quella piú classica secondo cui esistono delle eccezioni 2,
non già delle vere aree di non applicazione del principio 3. Si tratta di un’idea
che ricorre non solo nei suoi lavori logici giovanili, ma che percorre tutta la
sua opera, dalle analisi teologiche a quelle della filosofia pratica 4. Per esempio,

1 Per il percorso di questo tema nella filosofia medievale, rinvio a J. Isaac, Le Peri

Hermeneias en Occident de Boèce à Saint Thomas, Paris 1953, in cui si trova il testo della tradu-
zione latina di Guglielmo di Moerbeke (160-169).
2 I futuri contingenti sono una eccezione per Aristotele, secondo l’interpretazione tradizio-

nale: si veda C. W. A. Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione. Contradiction and Dialectic, Oxford 1996,
cap. 7-9. Svolge considerazioni particolarmente interessanti anche Christopher Kirwan, Aristotle
on the Necessity of the Present, in Oxford Studies in Ancient Philosophy 4 (1986) 167-187 (lo stesso volume
contiene anche un articolo di Johnatan Barnes sulla significazione della negazione rispetto al
valore di verità delle proposizioni – Peripatetic Negations, 201-214). Kirwan nota che ancora piú
forte della negazione del principio di bivalenza è la negazione della regola di opposizione, ossia
della regola secondo cui in una contraddizione se un membro è vero, l’altro è necessariamente
falso, e si esclude cosí che entrambi possano essere falsi (181-182).
3 Vi è chi ha sostenuto che il resoconto scotiano sia del tutto compatibile con la logica

classica (cosí Angel D’Ors, Utrum propositio de futuro sit determinate vera vel falsa (Antonio Andrés
and John Duns Scotus), in I. Angelelli, M. Cerezo, a cura di, Studies on the History of Logic, Berlino
1996). Io dissento radicalmente, e cerco di mostrare nel seguito perché Scoto è non-aristo-
telico, almeno l’Aristotele consacrato dall’immaginario filosofico medievale e moderno: se
poi Aristotele stesso fosse paraconsistente, allora Scoto e Aristotele si troverebbero acco-
munati nel non credere alla validità universale del principio di contraddizione.
4 E’ interessante, anche se non la condivido, la lettura di A. J. Beck (‘Divine Psychology’ and

Modalities: Scotus’ Theory of Neutral Proposition, in E. P. Bos, a cura di, John Duns Scotus (1265/6-
1308). Renewal of Philosophy, Amsterdam 1998) per cui Scoto non rinuncia all’applicabilità del
principio di bivalenza quando parla delle proposizione ‘neutre’ apprese da Dio prima della
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 113

creazione (la conoscenza veicolata da questo carattere ‘neutro’ della proposizioni non può
essere mai ridotta a conoscenza ‘metaforica’, stiamo parlando di un Dio concepito nella pie-
nezza assoluta del suo Essere necessario). Interessante perché Beck mostra quale sia la strategia
filosofica tesa a recuperare Scoto all’interno della logica classica: tuttavia, credo che avesse visto
giusto Gregorio da Rimini (Lectura I, d. 38, q. 2, a. 2, ed. Trapp-Marcolino III, Berlin 1984;
citato da Beck, 136) quando accusava Scoto di porre con l’idea di una proposizione neutra un
medio nella contraddizione (riferimento preciso, ed. Trapp-Marcolino III, 281) e per questo
motivo respingeva la sua soluzione dell’apprensione divina dei futuri contingenti. Gregorio parte
dall’idea che se la “complexio de futuris sit neuter” (che ricava dalla d. 38 del commento al primo
libro delle Sentenze, che è ora in appendice A all’Ordinatio come I, d. 38, pars 2 e I, d. 39, q. 1-5,
oppure in Lectura, I, d. 39), allora si dà il medium nella contraddizione. Ricordo brevemente che
nella capitale d. 39 – cito prima dal testo dell’appendice all’Ordinatio (ed. Vaticana, VI), il vecchio
luogo dell’Opus oxoniense, poi la Lectura - Scoto afferma che “scire contradictoria simul vera nihil
est scire” per negare un ruolo alle idee divine nel problema dei futuri contingenti, 407, ex n. 7, §
21 (ma questo non intacca la verità-e-falsità di un evento futuro, come spiega con la teoria della
proposizione ‘neutra’ in § 44 e §§ 62-65), rifiuta la strategia temporale di san Tommaso, 409-
411, ex n. 9-10, §§ 27-30, per poi affermare che la volontà umana pone la contingenza, 419-
420, ex n. 17, §§ 45-47 e 51-52, e rifiutare la necessità del presente, 422-423, ex n. 19, §§ 58
(contro Aristotele) e 59 (contro William di Sherwood) .
Gregorio contro Scoto avanza anche l’accusa di porre un prima ed un dopo in Dio,
cosa che gli pare in nessun senso ammissibile (per cui si veda quanto aveva già detto in I, d.
9, q. 1, a. 2, ed. Trapp-Marcolino II, 151-155): se da una parte riprende l’argomento avan-
zato da Ockham (Ordinatio, I, d. 38, q. 1, in Opera theologica, IV, 582-583) contro Scoto, ossia
se la volontà dell’uomo determina la conoscenza dei futuri contingenti da parte di Dio, ne
segue un assurdo, se non lo fa, allora Dio non li conosce “certam notitiam”, dall’altro lo ri-
tiene non probante perché “si per impossibile deus non esset volens, esset autem intelligens
sicut est” (ed. Trapp-Marcolino III, 281-282). Soprattutto, Gregorio conclude che l’on-
niscenza divina è per noi incomprensibile e inesplicabile (ed. Trapp-Marcolino III, 283).
Mi pare che Gregorio da Rimini subodorasse nella posizione di Scoto non tanto una
affermazione dell’esistenza di proposizioni né-vere-né-false, quanto l’affermazione dell’esi-
stenza di proposizioni vere-e-false. Per i suoi gusti filosofici, la rifiutava, cogliendo che la
forza (e la debolezza) della posizione scotiana è nell’approccio paraconsistente: ma si co-
stringeva cosí a catalogare nel mistero la conoscenza divina dei futuri contingenti. L’alter-
nativa è limpida: o gettare alle ortiche la logica classica e spiegare come Dio conosce i futuri
contingenti, oppure conservare la fede nella logica classica e consegnare all’inspiegabile la
conoscenza divina dei futuri contingenti (con la possibilità per un filosofo laico di accusare
quello cristiano di irrazionalismo, peraltro apertamente ammesso).
Per un’ulteriore analisi dell’atteggiamento critico di Gregorio da Rimini verso la scuola
scotista (Scoto e Chatton), che mi pare emblematico di un volontarismo classicista opposto a un
volontarismo paraconsistente, rinvio a Richard Gaskin, Complexe significabilia and the Formal Distinc-
tion, in A. Maierú, L. Valente, Medieval Theories on Assertion and Non-Assertive Language, Firenze 2004.
114 CAPITOLO TERZO

nel Prologo della Lectura 5, rifiuta la proposizione “de quolibet affirmatio vel
eius negatio” come universalmente valida: ne esemplifica il limite affermando
che da “de quolibet cuiuslibet contradictionis alterum contradictorium est
verum” non è lecito inferire “igitur haec pars contradictionis est vera”.
Insomma, posto A, il contraddittorio di A è tale che la contraddizione del
contraddittorio di A è vera, ma da ciò non è lecito dedurre che uno dei
contraddittori è vero (il che significa, nella Super-Contraddizione, generata
dalla negazione assoluta, la doppia negazione afferma, ma la Super-Contrad-
dizione non è vincolata ad una modalità di realtà). Aristotele poneva questi
ragionamenti per gli oggetti futuri, Scoto estende questi ragionamenti a tutti
gli oggetti, passati, presenti e futuri: la contingenza radicale delle cose elimina
la necessità delle cose che sono e che sono state. E’ capitale che Scoto non
evochi la nozione di negazione, ma solo quella di contraddizione: questo gli
permette di svincolarsi dalla negazione unica della logica classica, e parlare
cosí della piccola-contraddizione, che può essere vera per la logica paracon-
sistente. In realtà, si danno tre alternative: o A, oppure assolutamente non-A e
niente (negazione della Super-Contraddizione), oppure non A tale che un
qualunque B, che è in misura variabile prossimo ad A (negazione della picco-
la-contraddizione) 6.
Soprattutto, questa limitazione di validità non è determinata dalla parti-
colare natura logico-grammaticale delle proposizioni relative al futuro (i famosi
“futuri contingenti”), bensí dalla concezione scotiana della produzione della
contingenza da parte degli agenti liberi, Dio e gli uomini. Per evocarla in manie-
ra sintetica, rinviando alla Lectura, I, d. 39 per la sua analisi piú complessa, si
ricordi che nei Reportata parisiensia 7 Scoto afferma che l’intelletto divino appren-
de in modo ‘neutro’ una proposizione contingente futura, e che solo l’azione
della Sua volontà la rende vera (perché le conferisce un grado di realtà). Questo
aggettivo ‘neutro’ si può intendere come privo di valore di verità, ma a me
apparirebbe un deprezzamento reale della potenza divina, forse riscontrabile
nelle elucubrazioni di Pietro Aureolo sulla equidistanza di Dio dai futuri contin-
genti, in cui la nozione di distantia diviene una metafora sin troppo spaziale e
quindi ben poco scotista. Il problema dell’onnipotenza divina e dei futuri con-
tingenti è risolto da Scoto affermando che lo spazio logico del mondo prima

5Lectura, Prologus, pars 1, q. unica, § 48.


6Il passo parallelo del Prologus dell’Ordinatio (89, ex n. 31) è ad un tempo piú semplice,
ma anche piú ingarbugliato.
7 Reportata parisiensia, I, d. 38, q. 1-2, n. 3.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 115

dell’atto creatore (lo spazio dell’intelletto prima dell’azione della volontà che
pone la totalità del reale) comprende proposizioni contingenti neutre, ossia
vere-e-false (e non meramente indifferenti oppure prive di valore di verità).
Cosí solo mi pare che si possa affermare la pienezza della potenza divina, alme-
no se si vuole salvaguardare un ruolo minimo all’intelletto divino e non annichi-
larlo sotto lo spazio onnipervasivo della Sua volontà: se queste proposizioni
neutre fossero dotate di un valore di verità diciamo “indifferente”, oppure ne
fossero semplicemente prive, la soluzione sarebbe certo logicamente possibile,
ma la nozione di Dio personale trascendente ne uscirebbe letteralmente a
pezzi 8. Passando al livello esclusivamente formale della questione (nella forma
retorica, dato che per Scoto non si dà problema logico disgiunto dal correlato
ontologico), in queste sue riflessioni Scoto utilizza una qualificazione lessicale
della verità che era stata applicata da Ammonio alla soluzione del problema dei
futuri contingenti, quella tra verità definita e verità indefinita 9. L’interesse della
soluzione proposta da Ammonio è che nel suo commento al De interpretatione
egli si discosta dalla cosiddetta interpretazione tradizionale, quella per cui il
principio di bivalenza non si applica alle proposizioni relative al futuro 10.
Ammonio, infatti, ritiene che il principio di bivalenza non conosca eccezioni, e
sostiene che le proposizioni relative al futuro sono ora indeterminate vere, se
domani potremo dire che il fatto di cui parlavano è accaduto, e che quindi sono
vere tout court, anche se dal fatto che sono sempre state vere prima che accadda
il fatto di cui parlano non implica che siano necessarie. In questo modo, si salva
bivalenza e contingenza, ossia la possibilità di formulare previsioni vere-o-false,
facendo di determinate e di indeterminate due aspetti della verità, tali che
condizione sufficiente affinché una proposizione sia vera è che lo sia o

8 Sarebbe piuttosto un Grande Orologiaio che carica una volta per tutte il meccanismo

del mondo: nella filosofia cristiana questo è semplicemente insensato.


9 Riprendo l’analisi della soluzione di Ammonio da Mario Mignucci, Ammonius on

Future Contingent Propositions, in M. Frede e G. Striker, a cura di, Rationality in Greek Thought,
Oxford 1999.
10 Come sottolinea lo stesso Mignucci, Richard Sorabji ha esposto efficacemente l’in-

terpretazione tradizionale e il fatto che Ammonio se ne discosti (Necessity, Cause, and Blame,
Ithaca 1980, 91-93), posizione già espressa da Lukasiewicz (del quale si veda tra le altre Sul
principio di contraddizione, Roma 2003). Ritiene che Aristotele non aderisca all’interpretazione
tradizionale Jan van Eck, Another Interpretation of Aristotle’s De interpretatione IX: A Support for
the so-called Second Oldest or ‘Medieval’ Intepretation, in Vivarium 26 (1988) 19-38. Una recente
analisi vorrebbe indicare che la bivalenza dei futuri contingenti non implica il determinismo,
per cui Lennart Aqvist, Future Contingent and Determinism in Aristotle’s De Interpretatione IX: some
logical aspects of the so-called second oldest intepretation, in Logique et Analyse 46 (2003) 13-48.
116 CAPITOLO TERZO

determinate oppure indeterminate 11. Questo è importante, perché Scoto usa questo
lessico, ma le sue tesi preservano la contingenza del mondo in tutt’altra maniera
(realtà dei mondi possibili e concezione sincronica).
Si tratta quindi di esaminare dei passaggi dell’opera In duo libros periherme-
nias, operis secundi, q. 8 12: si badi che in questo contesto non si parla dei futuri
contingenti rispetto a Dio, di cui si discute nella Lectura I, d. 39, bensí dei futuri
contingenti rispetto agli uomini. La differenza cruciale è che Dio può conoscere
i futuri contingenti essendo onniscente, gli uomini no, con conseguenze ben
precise sulla verofunzionalità delle proposizioni relative al futuro, come vedre-
mo ben presto. All’esordio (n. 1), Scoto enuncia un argomento che assume il
principio di bivalenza per poi confutare la presunta conclusione dello stesso
argomento, ossia “in A erunt duo contradictoria vera” (la quale si ricava a par-
tire dall’ipotesi che una proposizione relativa al futuro possa essere determinate
falsa, dove il significato di questa parola latina si chiarirà nel seguito, ma che si
capisce equivalere all’idea “ora essa è già certamente vera o falsa, e se sarà falsa,
ora lo è già” - insomma, un significato causale) - si tratta di considerare che se
c’è libertà di scelta, allora oggi - per il momento A di domani - si può affermare
che uno stato di cose e il suo opposto sono veri, singolarmente indeterminati;
cosí Scoto argomenta operando sulle singole alternative per il momento futuro
(n. 4), “Tu eris albus in A, absolute enuntiata, si illa significat nunc rem sic se
habere ad esse ut in A tu debeas esse albus: haec propositio est determinate
falsa” 13 – ciò che viene rifiutato è il determinismo 14, nella sua accezione piú

11 M. Mignucci, Ammonius on Future Contingent, 296-297, 298-300.


12 E’ contenuto nel primo volume dell’edizione Vivès (550-556), ma è di uscita im-
minente l’edizione critica St. Bonaventure. Si vedano pure le distinzioni in Reportata
parisiensia, I, d. 4, q. 1, n. 3-4: “Socrates est alius ab homine” (il nome proprio denota questo-
uomo-qui, un denotatore rigido nel lessico di Saul Kripke, per cui rinvio a Naming and
Necessity, Cambridge Mass. 1980), “Socrates est alius humanitate” (ratio formalis: Socrate non
è Brunello, cavallo di Alessandro), “Socrates est alius in humanitate” (paragone: Socrate non
è Brunello soltanto per la classificazione animalitate). Per il testo della Reportatio I A, in cui gli
editori leggono “‘alius ab’ humanitate”, si veda A. B. Wolter, O. V. Bychkov, The Examined
Report of the Paris Lecture. Reportatio I A, St Bonaventure N.Y. 2004, 250-251: non si ritrova in
stesura separata nell’Ordinatio.
13 Un pensatore ben piú ‘necessitarian’ di Scoto, Sigeri di Brabante, rifiuta di accettare

che una proposizione relativa al futuro sia falsa per il solo fatto che non sia vera (e quest’ul-
tima tesi invece la accetta): il principio di bivalenza non si applica a tali proposizioni. Il
punto è che una proposizione relativa al futuro è in realtà solo un enunciato, non già una
predicazione intorno alle cose. Si veda Impossibilia, q. VI, in B. Bazán, Siger de Brabant. Ecrits
de logique, de morale et de physique, Louvain-Paris 1974, 97.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 117

radicale, quella che sarà il sogno dell’astronomo settecentesco Laplace per cui la
conoscenza di tutte, assolutamente tutte, le variabili implica per gli uomini la
conoscenza necessaria del futuro e del passato, dato che il mondo sarebbe retto
da legami causali necessari. Con radicale anti-riduzionismo 15 fondato nella cre-
denza dell’esistenza di variabili assolutamente contingenti, invece, per Scoto
ogni predizione formulata da un uomo riguardo al futuro è falsa: attribuire oggi
la proprietà x ad un oggetto in un momento futuro, per qualunque x, significa
formulare sempre, per x e per non-x, una proposizione falsa. E’ importante
sottolineare che Scoto non parla di incertezza, meno che mai di probabilità,
nozione del tutto confusa nel Medioevo 16: avrebbe potuto comunque parlare su
un registro epistemologico, ma sceglie di non farlo e parla della previsione nella

Ritengo che Sigeri mostri molto bene che l’argomento risolutivo di Aristotele in favore
del principio di contraddizione è psicologico e fenomenologico, nel senso che ci si riconosce
uno stile filosofico per il quale l’identità del soggetto umano è in ultima istanza intellettuale
(non già collocata nella volontà, cosí come propose la scuola francescana), di modo che
credere in una coppia contraddittoria è fatale per la stabilità dell’identità e del riconosci-
mento dell’insieme degli individui – che formano la comunità. Per esempio, nel commento
di Sigeri alla Metafisica (Reportatio di Cambridge, IV, q. 29), egli asserisce: "nullus potest ita
mente disponi quod simul opinetur contradictoria in forma contradictorium. Dico autem 'in
forma contradictorium', quoniam aliquis potest in universali scire omnem mulam esse
sterilem et scire in particulari hanc habere in utero; et quamvis haec opinari sit opinari
contradictoria, non tamen in forma contradictorium" (in Armand Maurer, Siger de Brabant.
Quaestiones in Metaphysicam, Louvain-Paris 1983, 174).
14 Il fatto che Aristotele sia determinista nel senso in cui lo intende Scoto è un altro

problema, per cui rimando a Pier Luigi Donini, Ethos. Aristotele e il determinismo, Alessandria
1989. Certamente, Scoto si scaglia contro l’Aristotele presentato dal Commentatore per ec-
cellenza, l’odiato Averroé (si veda Orlando Todisco, Averroé nel dibattito medievale. Verità o
bontà?, Milano 1999, ma anche il piú vasto e recente Lo stupore della ragione, Padova 2003).
15 Questo atteggiamento mi pare sia confermato anche dalle importanti ricerche sulla

forza della parola, quale atto linguistico, che consacra a Scoto (e non solo) Irène Rosier-
Catach nel suo ultimo volume dedicato al sacramento nel medioevo, La parole efficace. Signe,
rituel, sacré, Paris 2004.
16 Si veda Ian Hacking, L’emergenza della probabilità, Milano 1987, ed. orig. The Emergence

of Probability, Cambridge 1975, il quale cerca di mostrare che una teoria della probabilità cosí
come siamo avezzi a parlarne oggi sorge intorno al 1660, con il fenomeno peculiare che in
precedenza si manipola il caso e sembra assente un concetto di “probabilità”, in seguito tutti
in Occidente sembrano manipolare il concetto di “probabilità” (19-20). La radice sarebbe
nella modificazione della concezione della scienza attraverso l’emergenza del problema
induttivo nel ‘500 (come conclude Hacking, 209): del tutto diversamente, nel Medioevo la
conoscenza rinvia al necessariamente vero, non già alle credenze vere e giustificate (31-34,
citando i lavori su san Tommaso di E. F. Byrne, Probability and Opinion, The Hague 1968).
118 CAPITOLO TERZO

sua struttura piú elementare e intuitiva, quella per cui una previsione è vera se il
fatto previsto si realizzerà (con supposizione implicita di un nesso causale).
Questo rende conto dell’apparente contro-intuitività di questa tesi per cui tutte
le proposizioni che pretendono esprimere delle previsioni per un momento
futuro sono false: Scoto non si lancia in una implausibile fenomenologia del-
l’esperienza umana – gli uomini effettuano previsioni da sempre per ottenere
dei vantaggi (esempio standard, le tecniche agricole) -, egli sta invece asserendo
intorno al reame ontologico 17.
Importante è che una proposizione relativa al futuro non sia detta
semplicemente né-vera-né-falsa, ossia indeterminata (il che è opinione piuttosto
diffusa e conforme al De interpretatione aristotelico: priva di valore di verità oggi,
per esempio perché non denotante); essa non è neppure vera-e-falsa, perché
solo Dio onniscente può conoscere cosí la verità formaliter, prima che gli stati di
cose accadono dopo il suo atto creatore e le azioni degli agenti liberi nel mondo
attuale; essa è invece falsa per noi esseri umani, che non abbiamo conoscenza
della verità formaliter, perché indeterminato è il fatto che accada o meno lo stato
di cose che la rende vera, ossia non può esistere ora lo stato di cose rispetto al
quale essa sia identica, quindi vera, e perciò è falsa. Parimenti, per la stessa
ragione ontologica, essa è vera-e-falsa per Dio, perché si dà in qualche mondo
possibile come reale il contenuto A della previsione, mentre in qualche altro
mondo possibile si dà come reale la negazione del contenuto A della previsione,
da cui la verità-e-falsità della previsione per tutti i mondi possibili. Quando il
contenuto della previsione si dà nel mondo attuale, per intervento della volontà
divina e/o per intervento della volontà di un agente libero e/o per successive
regolarità naturali, constatare che lo stato di cose A si dà o non si dà non sarà
piú una previsione, bensí una constatazione. Allora si potrà dire che in un
momento preciso del mondo attuale si dà C (esistente) e in altri mondi possibili
la sua negazione non-C (reale). Per ogni proposizione che enuncia una predi-
zione che pretende di essere descrittiva – oggi, al momento della sua enuncia-
zione - dei fatti denotati, quindi di possedere una qualità che non sia meramente
ipotetica, ebbene essa è falsa. In forza della radicale contingenza del Mondo
Creato (si badi, tale contingenza vi è immessa da Dio e da ogni essere umano
tramite la sua libertà della volontà), e in forza dell’idea che le proposizioni lin-

17 Per una penetrante analisi epistemica del fenomeno della previsione (e della teoria
della previsione che ammette la predeterminazione, con riduzione del mondo a rete di nessi
causali) rimando a Nicholas Rescher, Predicting the Future, New York 1998, specie 69-82, 113-
156.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 119

guistiche sono strettamente collegate all’ontologia del mondo, la verofunzio-


nalità deve essere compatibile con l’idea che quando Q sta avvenendo, ¬ Q è
completamente possibile - dunque, la previsione ‘Io sarò bianco in A’ è falsa,
ed anche la previsione a contenuto contrario ‘Io sarò non-bianco in A’ è falsa:
le due messe insieme, a formare una contraddizione lessicale, sono banalmente
false per la congiunzione di due falsità (e non perché la congiunzione di vero e
falso produce la falsità: il punto è di rilievo, e segue dalla limitazione della biva-
lenza). Non ha nessuna importanza il fatto che in A si potrà fare l’esperienza
del mio colore, tale esperienza è necessariamente impossibile ante-A, perché il
mondo è necessariamente contingente e perché noi non siamo la volontà di
Dio. Neppure Dio può sapere, prima che la sua volontà, anzi che la sua voli-
zione, determini Q 18, che Q esisterà (può solo sapere che è compossibile con
altri R) 19; ma questo è moltissimo, perché Dio accede alla totalità dei mondi
possibili reali, dotati della proprietà relazionale della compossibilità, e perché la
Sua volontà è gerarchicamente sovraordinata ad ogni volontà libera creata, e se
Dio vuole A, A è, a dispetto di qualunque legge e principio che l’uomo possa
inventarsi (se Dio ha un limite, non può essere A, ma solo A e assolutamente
non-A).
Ecco che al n. 5 Scoto considera che, se invece la proposizione relativa al
futuro si predica solo relativamente allo stato di cose futuro e indeterminato,

18 Per esempio, Quodlibet, q. 14, n. 16: l’intelletto divino apprende i futuri contingenti,

la volontà li determina. Se l’intelletto li apprendesse in quanto né veri, né falsi, ossia


indifferentemente veri o falsi, cosa apprenderebbe mai Dio? Che qualcosa accadrà, che se
non è zuppa è pan bagnato? A me pare che l’unica risposta scotista è dire che li apprende in
quanto veri-e-falsi, che è un atto conoscitivo dotato di un preciso contenuto, dato che esclu-
de ciò che è assolutamente impossibile, e disegna la compossibilità di certi futuri contingenti
e la non-compossibilità di altri. A questo manca solo che Dio preveda come un uomo, ma
oltre all’obiezione di volere antropomorfizzare Dio, Scoto risponderebbe precisamente che
Dio in tal caso, in quanto previsore come l’uomo, non prevederebbe proprio niente.
19 Nei Reportata parisiensia, II, d. 4, q. unica, n. 5, Scoto afferma che una propozione

contingente relativa al futuro che sia vera è sempre associata ad una proposizione contin-
gente relativa al presente che è vera (l’aggancio ad Aristotele è esplicitato nel luogo parallelo
dell’Opus oxoniense, d. 5, q. 2, n. 7, risalente però alle Additiones Magnae di Alnwick: l’ed. Vati-
cana dell’Ordinatio II, in fine della d. 4-5, q. 1-2, precisa che il testo in questione proviene
dalla Reportatio II B). E’ proprio per questo che le proposizioni relative al futuro sono
sempre false, altrimenti sarebbe vero il determinismo. Questo equivale a dire che la posi-
zione determinista affonda nella causalità, sua forza e debolezza, dato che per Scoto la
contingenza è un assioma metafisico e ontologico. L’aggettivo ‘contingente’ e la modalità
ontologica che esso esprime sono essenziali per la strategia di Scoto: non direi neppure che
si tratti di un’auto-evidenza, direi che sono necessari per una metafisica cristiana.
120 CAPITOLO TERZO

senza nessuna predicazione intorno a ciò che esiste ora (in quanto principio di
esistenza attuale per A, altrimenti detto in quanto premessa causale), allora il
principio di bivalenza ritorna per noi esseri umani ed è indeterminate vero o falso
che A (un solo stato di cose esisterà nel nostro mondo attuale, rispetto alla
presenza o assenza di A). Se si depone ogni impegno ontologico, la bivalenza
resta un puro ente di ragione a contenuto predittivo nullo, dato che la si può
rendere con la banalità “o c’è qualcosa oppure niente”: il principio è valido ma
da esso non si può dedurre nulla, in forza della nozione di implicazione rile-
vante, dato che il suo contenuto ontologico è nullo. Resta il fatto che non pos-
siamo dire (ora) che questa proposizione sia determinate vera o falsa – formu-
lazione equivalente al dogma deterministico -, dato che il principio di bivalenza
vale solo nella formulazione proposizionale che si spoglia di ogni valore pre-
dittivo, e in questa prospettiva la verofunzionalità della proposizione è simpliciter
eliminata dall’ipotesi negativa sul significato causale della proposizione; prose-
guendo (n. 6), Scoto asserisce che “nunc est indeterminatum quod contra-
dictorium habebit esse pro illo tempore”, mostrando che le due prospettive
modificano l’apparato logico e ontologico, in quanto due diversi modi di
raffigurarsi il mondo – potremmo aggiungere che per un momento futuro gli
stati di cose A e non-A possono essere predicati in congiunzione, da un essere
umano che appartiene al mondo attuale, in due sensi diversi, ossia in senso pre-
dittivo-esistenziale tale che A∧¬A (e i suoi singoli componenti sono falsi) è fal-
sa, oppure in senso intellettuale-reale tale che A∧¬A è vera (e i suoi singoli
componenti sono veri-e-falsi). Ma il senso intellettuale-reale prescinde dalla
dimensione temporale, esso si predica dei mondi possibili senza riferimento
privilegiato al mondo attuale; esso è per noi dunque proprio dell’occhio di Dio,
noi infatti siamo legati al nostro mondo attuale, siamo legati all’esperienza feno-
menologica del tempo, quindi possiamo solo asserire che Dio vede la totalità
dei mondi possibili e può manipolare le contraddizioni vere in essi contenute,
mentre noi non sappiamo identificare quale sia il contenuto di questo insieme
di piccole-contraddizioni vere (distinte dalle piccole-contraddizioni false).
Appunto, solo Dio lo sa veramente: noi possiamo meglio concepire le Super-
Contraddizioni (se non le confondiamo con le piccole-contraddizioni e asseria-
mo indebitamente che quest’ultime sono sempre false), ma non abbiamo
accesso semantico alla totalità dei mondi possibili. In seguito (n. 10), ritornando
sulla tesi che “in A erunt duo contradictoria vera”, Scoto afferma che “te fore
album in futuro in sua causa est ad utrumlibet”, in maniera tale che se non si
usa una proposizione relativa al futuro nel suo significato causale, allora questa
stessa proposizione non ha determinate alcuna verofunzionalità. Ma, a contrario,
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 121

mi pare ovvio che se si usa la proposizione nel suo significato causale, allora è
vero (relativamente alla realtà, non all’esistente) per l’intelletto divino (e non per
la volontà divina 20) che ‘Io sarò bianco in A’ e ‘Io sarò non-bianco in A’, dato
che solo la volontà divina può conferire assolutamente l’esistenza allo stato di
cose ‘bianchezza in me’ in A, mentre l’intelletto divino propone alla sua volontà
la compossibilità degli stati di cose, in quanto una linea curva è possibile in uno
spazio non-euclideo, ma un cerchio quadrato non lo è assolutamente (classi-
camente, Lectura, I, d. 39) 21. Solo un insieme di cose compossibili possono
esistere insieme, ma il fatto che tale insieme sia compossibile non ne implica
l’esistenza (al piú, dopo l’atto creatore di un mondo, ne implica la realtà).
Quindi, nei mondi possibili aperti alla possibilità di attualizzarsi in A, in quei
mondi possibili visti dall’intelletto divino, ci sono contraddizioni vere (relativa-
mente alla realtà, non all’esistente), in quanto ogni mondo possibile gode della
stessa realtà degli altri (fatto salvo, per ragioni morali, il mondo attuale, in cui si
dà solo l’esistente, e il futuro ed il passato ora non esistono). Solo rispetto al
mondo attuale, e non rispetto al futuro, ‘vero’ può essere associato all’esistenza:
nei mondi possibili, ‘vero’ è associato alla realtà, dato che solo la realtà si
predica di ogni mondo possibile e l’esistenza, invece, di uno solo di essi (quello
che diciamo attuale) 22. La forza della non-contraddizione è suggerita illusoria-

20 E’ forse opportuno precisare che la volontà divina è un insieme di volizioni divine,

le quali anche se non sono calate nel tempo, indipendentemente da cosa sia l’eternità,
debbono almeno essere ordinate ontologicamente, altrimenti Dio si ridurrebbe ad una fin-
zione filosofica che non può agire nella storia (forse è il Dio dei filosofi illuministi, non
certo il Dio trascendente del giudeo-cristianesimo oppure dell’islamismo). In questo senso,
una singola volizione divina può sempre determinare che il futuro contingente A sia
esistente, quindi conferendogli lo statuto ontologico privilegiato del mondo attuale lo rende
vero (o se preferisce, non conferendoglielo, lo rendo falso). La verità-e-falsità è un valore di
verità che appartiene alla totalità dei mondi reali, e vi sono molte cose nel mondo attuale che
si comprendono solo in relazione al rapporto tra mondo attuale e mondi possibili, tra cui
l’assoluta compatibilità tra la libertà assoluta dell’essere umano e l’onniscenza divina.
21 In particolare, per il principio di compossibilità rinvio al § 72 e al § 92, in cui Scoto

parrebbe legato a Walter Burleigh (De puritate artis logicae tractatus longior, tr. 2, pars 3, part. 1,
St. Bonaventure N.Y. 1954), anche se a me pare che la sua strategia filosofica sia del tutto
originale. Nella traduzione e commento dello Scotus Research Group (John Duns Scotus,
Contingency and Freedom. Lectura I, d. 39, Dordrecht 1994, 159) si osserva correttamente che la
compossibilità è la proprietà di due stati di cose che possono darsi insieme in uno stesso
mondo possibile. La possibilità di A e la possibilità di B non permettono di dedurre la
possibilità di A e B, dato che questa deve essere attestata ulteriormente.
22 Scoto mi pare concepisca in senso oggettivo e non-linguistico la verità, con la sola

necessaria conformità alla teoria dei mondi possibili, per cui il riferimento alla totalità dei
122 CAPITOLO TERZO

mente dalla struttura del mondo esistente: almeno, dalla struttura del mondo
esistente consegnata in una illustre tradizione razionalista che disprezza l’ap-
prensione fenomenologica diretta del mondo come sostanzialmente illusoria e
fuorviante. In questa veneranda tradizione è come se le leggi di natura che nel
mondo si danno fossero inscalfibili ed immutabili, e Dio stesso fosse ad esse
sottomesso, quasi che la razionalità, e non già l’esperienza, ce le avesse suggerite
nella loro formulazione. La critica di Hume contro la Razionalità dimostrativa è
in un senso fondata: le leggi di natura sono regolarità osservative 23, ed è un ana-
cronismo attribuire ad Al-Ghazali oppure a Scoto un’etichetta di scetticismo o
di proto-scetticismo, semmai è Hume che riprende la tesi delle leggi come rego-
larità osservative, e eliminando la presenza di un Dio personale trascendente,
approda allo scetticismo. Ma nel dominio della filosofia pratica ridurre lo spazio
dei valori al mero osservativo è di nuovo ripetere l’errore di universalizzare
quella ragione umana applicata al mondo attuale sensoriale che è invece uno tra
i tanti mondi possibili. La contingenza che sgorga dall’azione dell’agente mo-
rale, spazio della filosofia pratica, apre la possibilità di contraddizioni vere
anche nel mondo attuale: è il potere irriducibile dell’agente morale che Thomas

mondi o ad uno solo di essi, il nostro mondo attuale - pur con il suo statuto privilegiato,
può cambiare il valore di verità. E’ vero che io ho i capelli castani, ma non è vero per ogni
mondo possibile io ho i capelli castani. Ancora una volta le posizioni di Roderick M.
Chisholm ricordano quelle di Scoto: nel saggio Believing as Intentional Concept (contenuto in On
Believing - De la Croyance, Berlin 1983, 48-56) usa il concetto di attribuzione diretta (55: “all
indirect attribution may be reduced to direct attribution”) che gli permette di definire la
nozione di verità con un riferimento necessario ad una auto-predicazione, che mi pare
rimandi ad un Dio trascendente (“x’s direct attribution of the property p is true = Df. The
property p is such that (a) x directly attributes it to x and (b) x esemplifies it”), e può infine
concludere con questa considerazione (56: “so we characterize truth nonlinguistically and
withouth reference to adequacy, similarity or correspondence”).
23 Per esempio, quando Scoto vuole introdurre la nozione di scienza rispetto all’ente

accidentale, introduce alcune distinzioni, tra cui quella tra ‘habitus conclusionis demonstra-
tionis’, che procede da causa necessaria, e ‘determinata notitia per causam per se, licet non
necessariam’ (Quaestiones metaphysicorum, VI, q. 2, 20, ex n. 4). Piú avanti, fa giocare un ruolo
essenziale al volontarismo nella sua visione del mondo esterno: “circumscripta igitur omni
voluntate cooperante naturae vel impediente eam, posset absolute concedi quod nihil
omnino evenit nisi a causa per se, per quam est scibile secundo modo, et ita nihil per acci-
dens absolute, licet respectu alicuius causae sit aliquid per accidens” (32, ex n. 8) – rifiuta
cosí la posizione di Goffredo di Fontaines che fa derivare l’ens per accidens dal concorso di
molte cause, date che esse o sono naturali, ed allora in senso proprio non sono accidentali,
oppure vi gioca un ruolo una volontà libera, ed allora tutto è accidentale-contingente.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 123

Reid opponeva a Hume, e che tutti i filosofi personalisti oppongono dal medio-
evo ad oggi ad ogni tentativo di meccanicizzazione dell’esperienza morale.

III. Ulteriori argomenti scotisti nei commentari logici

Innanzitutto, si tratta dell’argomento assai discusso tra i logici formali ‘Dio


esiste, quindi questo argomento non è valido’ (una versione laica sarebbe ‘4 è
divisibile per 2, quindi questo argomento non è valido’): ovviamente, la mossa
standard per ignorarlo è non tanto sottolinearne l’auto-referenzialità, quanto
catalogarlo tra le stranezze, anzi le mostruosità. Dato che ci siamo proposti di
fornire argomenti in positivo in favore di una scelta paraconsistente, di cui la
logica rilevante - verso cui ci spinge questo argomento – è un mattone essen-
ziale, non prenderemo in esame tali sedicenti confutazioni. Si deve notare che
sebbene questo argomento sia contenuto in un testo non attribuibile diretta-
mente a Scoto – per ragioni di critica esterna, resta il fatto che si deve trattare di
un discepolo di Scoto, che ne sviluppa l’attitudine paraconsistente. L’autore de
In librum primum analyticorum è sconosciuto, ed è detto tradizionalmente lo
Pseudo-Scoto – ma io lo dirò lo Scotista, il passaggio è alla q. 10 ‘Utrum in
omni bona consequentia ex opposito consequentis inferatur oppositum antece-
dentis’ (ed. Vivès, II, 103s), n. 3 (=104), una questione altrimenti famosa per
contenere il principio ex falso sequitur quodlibet (e vedremo le ragioni per cui io
non vi leggo quello che la tradizione classicista vi legge).
La premessa è necessariamente vera (l’esistenza di Dio è uno speciale fatto
di esperienza per un metafisico cristiano, il fatto che 4 sia divisibile per 2 è uno
speciale fatto di costituzione della realtà per il matematico), la conclusione è
necessariamente vera (se fosse falsa, sarebbe vero che l’argomento è valido e si
dedurrebbe il falso - la conclusione recita che l’argomento non è valido - dal
vero tramite un argomento valido - per ipotesi; ma questa nozione di validità è
pickwickiana, il che dimostra che la conclusione è vera – resta che l’unico signi-
ficato della conclusione è la sua non-validità), ed infine l’argomento non è
valido sebbene dal vero si passi al vero. Priest e Routley hanno formalizzato
secondo i criteri contemporanei questo argomento 24; soprattutto hanno rifiu-
tato le strategie dirette ad analizzarlo come una antinomia “mostruosa”, facen-
do appello alle analisi di Kuhn che vi indicherebbero un caso di scienza straor-

24 G. Priest, R. Routley, Lessons from Pseudo Scotus, in Philosophical Studies 42 (1982) 189-199.

Si veda pure M. Benson, Pseudo-Scotus on the soundness of consequentiae, in A. T. Tymieniecka, a


cura di, Contributions to logic and methodology in honor of J. M. Bochenski, Amsterdam 1965.
124 CAPITOLO TERZO

dinaria (logica rilevante) contro la scienza normale (logica classica), e il loro


argomento si rinforza con la ripresa storiografica da parte di Lakatos 25 dell’idea
dello scienziato naturale Goldschmidt, ‘monsters that may be fitting’ 26. E’
quindi fondamentale la loro considerazione secondo cui “Scotus’ argument
must be taken seriously”, non già messo da parte come un eccentrico contro-
esempio da catalogare come ‘mostruosità’ 27.
Ne risulta che un argomento è valido sse la sua premessa α è incompatibile
con la negazione della sua conclusione β (secondo l’idea stoica di Crisippo) e la
compatibilità non è la possibilità di α∧β 28, bensí di ¬(α⇒¬β) - n. 6, “impos-
sibile est, antecedente et consequente simul formatis, quod antecedens sit ve-
rum, et consequens falsum, excepto uno caso scilicet ubi significatum conse-
quentis repugnat significationi notae consequentiae sicut coniunctionis quae
denotat consequentiam esse” - n. 12, “ad oppositum contradictorium conse-
quentis sequitur (i.e., diviene premessa) oppositum contradictorium antece-
dentis (i.e., diviene conclusione)” (luogo citato). Per lo Scotista la definizione di
implicazione valida rinvia al fatto che dalla premessa vera non segue mai una
conseguenza falsa, con due precisazioni capitali, ossia che devono essere simul
formatis, e che il significato della conseguenza non deve ripugnare alla significa-
zione della congiunzione che denota la realtà della conseguenza stessa. Come si
vede, quello che è passato come il principio ex falso sequitur quodlibet non è
enunciato veramente in questo passo, anzi qui si enuncia una vera e propria
logica rilevante: difatti, non mi pare che simul formatis possa essere un mero

25 Giulio Giorello, Introduzione, in Imre Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni, Milano 1979

(ed. orig. Cambridge 1976), 18-19.


26 I. Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni, 61-62. Leggermente diverso è il concetto di

lusus naturae (121), ma per i nostri scopi basta sottolineare che trattandoli come “eccezioni”,
si può salvare la dogmatica della logica classica. La strategia di Scoto consiste nel ricatalogare
le “eccezioni” (per esempio, le proposizioni relative al futuro fanno eccezione alla bivalenza)
come fatti, e fare quindi cigolare la logica classica sotto il peso di genuini contro-esempi. La
risposta piú retriva che la logica classica dogmatica possa dare è quello di non riconoscere
neppure il carattere di eccezione ai contro-esempi, bensí di asserire “le mostruosità non
esistono, esistono solo interpretazioni mostruose” (Dimostrazioni e confutazioni, 71): ben piú
che Aristotele, questo è tipico dello scolasticismo che si ispira ad un Aristotele imbalsamato.
27 Per vedere il lessico moralistico con cui Poincaré difende agli inizi del XX secolo

(Science et méthode, Paris 1908) la scienza “rispettabile” contro gli inventori di mostri rinvio ad
una nota in I. Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni, 62-63 (si veda pure la nota a pagina 86 per
lo stile di Poincaré).
28 Questo varrebbe se e solo se vi fosse un solo segno di negazione, quella classica: nei

sistemi paraconsistenti questa condizione è negata per ragioni filosofiche.


UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 125

omaggio al lessico aristotelico, mi pare che esso instauri una relazione di rile-
vanza tra la premessa e la conseguenza, tale che la validità di un argomento non
può essere ridotta al fatto che la premessa sia vera e la conseguenza pure, senza
riguardo al contenuto di entrambe.
Lo Scotista argomenta, per meglio persuadere della sua proposta, contro
una prima nozione di validità (l’impossibilità che α sia vera, β sia falsa e α⇒β
sia valida, e questa corrisponde veramente al principio ex falso sequitur quodlibet) e
una seconda nozione di validità (impossibilità che il significato della premessa e
della conseguenza non possano essere insieme, senza riferimento all’esistenza –
mondi possibili, quindi, e non riferimento diretto al mondo attuale). Si noti, per
meglio comprendere la successiva confutazione proposta, che in un sistema
rilevante paraconsistente β può essere falsa (i.e., negata) in almeno due modi,
secondo la negazione debole (che non genera necessariamente contraddizione
falsa) e secondo la negazione forte (che genera necessariamente contraddizione
falsa, ossia la Super-Contraddizione). Se β è negata in maniera debole, essa è
tale da poter produrre una contraddizione vera, quindi l’inferenza resta valida.
Quanto al secondo punto, si noti che tale nozione annulla ontologicamente la
specificità del mondo attuale, che è quello di contenere solo oggetti esistenti:
l’ontologia scotista riconosce al mondo attuale uno statuto privilegiato (sebbene
non un primato assoluto per ogni oggetto che contiene, altrimenti l’ontologia
dei mondi possibili non avrebbe senso realista 29), quindi non può accettare una
nozione di inferenza logica che prescinda da tale struttura ontologica.
Contro la prima nozione, lo Scotista oppone che il seguente argomento è
valido: ogni proposizione è affermativa, allora nessuna proposizione è negativa.
Si noti che la fondatezza prima facie di questo argomento è che se tutte le propo-
sizioni hanno una forma lessicale affermativa (da non confondere ovviamente
con la verità, proprietà semantica), allora nessuna propozione dovrebbe avere
forma lessicale negativa (se per qualunque A, A è B, allora non si dà un A che
sia non-B). Ora, si può dare il caso che la premessa sia vera, tuttavia la conclu-
sione non può mai essere vera (dato che essa stessa è negativa, in quanto la sua
formulazione è appunto negativa) – infatti, la conclusione è vera se e solo se la
conclusione ‘esiste’, ossia se essa denota un esistente possibile, che sarebbe una
proposizione negativa reale. Si noti che questa risposta di Scoto richiede l’ade-

29 Per un rifiuto del realismo modale, senza per questo considerare inutile la teoria
dell’argomentazione relativa ai mondi possibili, rinvio a Nicholas Rescher, Imagining Irreality.
A Study of Unreal Possibilities, Chicago-La Salle 2003, cap. 4, in cui si esclude che si diano
oggetti genuini nei mondi possibili.
126 CAPITOLO TERZO

sione ad una logica realista, altrimenti non risulta persuasiva nella prospettiva di
una ontologia misera associata al discorso logico.
Contro la seconda nozione, si oppone che il seguente argomento è prima
facie valido per la definizione in esame, ma in realtà non lo è affatto – nessuna
chimera (i.e., nessun cerchio quadrato) è un hircocervus (i.e., un pezzo di legno
quadrato dalla linea rotonda), quindi un uomo è una scimmia. I significati delle
due proposizioni possono stare insieme – si tratta della differenza di due cose
irreali associata all’identità eventuale di due esistenti, ma la premessa è vera
(non si dà istanziazione del concetto di chimera che la possa falsificare), mentre
la conclusione è falsa (non solo nell’esperienza, ma già nell’uso linguistico - e
nella struttura delle formalitates che lo informano 30 - l’uomo non è una scimmia).
Si afferma cosí una prospettiva di logica rilevante nel discorso scotista.
Nella stessa questione è illustrato quello che è passato nella storia del
pensiero logico come il principio ex falso sequitur quodlibet, rinominato da Priest
principio di Esplosione – il principio fa esplodere la verità dalla contraddizione,
dato che ammessa una contraddizione ogni proposizione diventa vera (incluse
tutte le contraddizioni). E qui si cela quella che considero un travisamento radi-
cale, ripetuto dagli stessi partigiani della paraconsistenza 31, e confido nell’in-
dulgenza del mio lettore per seguirmi nel mio ragionamento senza sbuffare
convinto di trovarsi di fronte una presuntuosa vanteria. Il punto è che lo Pseu-
do-Scoto – rectius lo Scotista -, passato alla storia quale partigiano del principio
di Esplosione 32, ne è in realtà uno dei piú sottili critici. Basta prendere sul serio
quello che scrive: un suggerimento lo si trova in un’opera che andrebbe studiata
con serietà, quella di Ewert Cousins che analizza la coincidenza degli opposti in
san Bonaventura33. La sua osservazione riguarda la presa sul serio dell’aggettivo
“formale”, che spesso al declino della Scolastica è stato considerato come un
inutile pleonasmo e opposto alla realtà, mentre “formale” qualifica un diverso
livello di realtà. Nel caso di Scoto, basta pensare alle formalitates, dopo di lui
riprese dagli epigoni scotisti in mille trattatti, per essere poi ridicolizzate da

30 Oltre a quanto già detto sulle analogie tra la teoria della verità scotiana e quella

heideggeriana, mi pare che la critica di Heidegger dello schematismo kantiano dei concetti
puri mostri efficacemente come l’ontologia del mondo ci faccia parlare (Logica. Il problema
della verità, 236-270).
31 Cosí ripetono Graham Priest, Motivations for Paraconsistency, 225, e soprattutto

Lorenzo Peña, Introducción a las lógicas no clásicas, 85-89.


32 Cosí il già citato Sergio Galvan, Non contraddizione e terzo escluso, 16.
33 Ewert H. Cousins, Bonaventure and the Coincidence of Opposites, Chicago 1978.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 127

spiriti alla Rabelais 34, partigiani di una stagione di empirismo radicale. Le forma-
litates, oggetto metafisico di non agevole interpretazione, mi pare che non ap-
partengono affatto al dominio della psicologia, anzi: esse denotano un livello di
realtà, mi azzarderei a pensarle come un universale ante rem 35. Ma voglio qui
riportare le parole di Cousins: “a thing cannot be and not be at the same time
under the same formal aspect. It is important to underscore the phrase ‘under
the same formal aspect’. In the coincidence of opposites this implies that one
element, in so far as it is opposite to another, is not identical (formalmente, da
cui la scotista distinzione formale nella Trinità) with the other; but this does not
prevent a coincidence of mutual complementarity (Dio è realmente semplice,
come è realmente – e formalmente - trino)”36.
Ricordiamo che la distinzione formale, perfezionata da Scoto con approc-
cio analitico, implica che due cose possono essere identiche e diverse al tempo
stesso: non è in gioco una questione epistemica (‘le prendo per identiche, ma
sono diverse’, oppure ‘noi non possiamo distinguerle, ma in realtà lo sono’, tipo
noumeno kantiano), bensí una questione ontologica. Mentre nel nostro mondo
attuale le cose che possiamo distinguere possono essere dette piú o meno simili,
ma non identiche 37, nella totalità dei mondi possibili si danno cose identiche e

34 A partire da tali atteggiamenti, Rabelais e compagni potrebbero essere ripagati con la

stessa moneta.
35 Non voglio qui ricollegarmi ad autori come Guglielmo di Champeaux, tanto osteg-

giato dal concettualista Abelardo, e suggerire che ci siano nessi tra di essi e Scoto. Mi rife-
risco ad una tesi puramente teorica e quindi interpretativa, rifacendomi a George Bealer,
Universals and Properties, in S. Laurence, C. Macdonald, a cura di, Contemporary Readings in the
Foundations of Metaphysics, Oxford 1998, 133-137, 140-143, ed anche al suo articolo Universals,
in Journal of Philosophy 90 (1993) 5-32.
36 Ewert H. Cousins, Bonaventure and the Coincidence, 21.
37 Per introdurre la nozione di identità formale con un passaggio scotiano, mi pare

opportuno citare quello in cui oppone la non-identità formale alla non-identità adequata
(Reportata parisiensia, I, d. 33, q. 2, n. 11-12; per il testo dell’Ordinatio, si veda l’Appendice A
della I, d. 33-34, q. 1-3, mentre la Lectura, I, d. 33, q. unica rinvia alla stessa Lectura, I, d. 2, p.
2, q. 4, § 275 in cui si evoca san Bonaventura come precedente di questa nozione, interpre-
tando però l’uso bonaventuriano dell’aggettivo “rationalis” come equivalente a “indipen-
dente dalla mente e scoperto dalla ragione” – i passi bonaventuriani sono Sententiarum, I, d.
5, a. 1, q. 1, ad 1um; d. 26, a. unico, q. 1, ad 2um; d. 45, a. 2, q. 1, da cui mi pare emerga che
Scoto sia in cerca di un predecessore autorevole, ma che la distinzione (o non-identità)
formale sia essenzialmente una sua creazione). La non-identità formale è quella per cui
“unum non est de per se, et primo intellectu alterius, ut definitio, vel partes definitionis de
intellectu definiti”, e prosegue per meglio chiarire “sed quando neutra includitur in formalis
ratione alterius, licet tamen sint eadem realiter, sicut ens et unum”; dopo avere precisato che
128 CAPITOLO TERZO

distinguibili 38. In questa prospettiva, la leibniziana indiscernibilità degli identici


è prima facie rifiutata (si danno cose identiche – realmente – che sono

l’essenza non si riduce alle proprietà della cosa (non vale tra l’essenza e le sue proprietà “est
precise illud, et nec maius, nec minus, ut definitio et definitum”), la non-identità adeguata è
invece quella per cui “unum excedit alterum, vel unitas unius excedit unitatem alterius, ut se
habet animal ad hominem”.
38 La distinzione formale gioca un ruolo essenziale nel rapporto tra creatura e Crea-

tore: la relazione che li lega è identica all’essenza della cosa creata – identità reale - e formal-
mente distinta – se ne dà definizione formaliter (altrimenti non si salverebbe la trascendenza
divina – pericolo del panteismo - e la possibilità stessa della creazione – Dio separato dal
mondo). Si veda per esempio Lectura, II, d. 1, q. 4-5, § 238, § 256 e tutta la discussione
sollevata: Scoto evoca continuamente la questione, che ritorna, oltre che nel luogo parallelo
dell’Ordinatio – q. 4-5, 260-275, ex n. 21-25 (il commento a questi passi dell’edizione
Wadding parla della ‘bellissima dottrina delle formalità’) e dei Reportata parisiensia, II, d. 1, q.
5, n. 10 e 14 (vi sottolinea con forza che solo Dio è esse e tutto il resto dipende da Dio –
senza tale dipenda si ha il nulla), nell’analisi della carità (Ordinatio, I, d. 17, pars 1, q. 1-2, 71,
ex q. 3, n. 7), nella possibilità della pluralità delle persone divine nell’unità dell’essenza,
considerata non-contraddittoria (leggi non-Super-Contraddittoria, Ordinatio, I, d. 2, pars 2, q.
1 e q. 4, 388-410, ex q. 4, specie n. 3, poi q. 7), nell’analisi dell’univocità dell’essere (Ordinatio,
I, d. 8, pars 1, q. 3, 191-217, ex n. 11, n. 28-29 – afferma che il concetto dell’entità formal-
mente non è concetto di cosa creata, né increata (dato che, osservo io, le formalitates sono
reali, non meramente esistenti), come nel caso del concetto di animale, che è neutro rispetto
alla proprietà della razionalità, ma ogni animale-qui (osservo io, nel nostro mondo attuale) è
l’uno o l’altro – nei Reportata parisiensia, I, d. 8, q. 5, n. 6, Scoto afferma in modo equivalente
che negli enti creati non si ha predicazione per identità, e al n. 8 parla del concetto di
animalità come graduale, cui la razionalità o l’irrazionalità saranno predicabili gradualmente,
osservazione importante per una teoria gradualista della verità).
Del resto, in Opus oxoniense, III, d. 2, q. 2, n. 7 (per un testo critico, Lectura, eod. loc., §
70, § 80), Scoto afferma che una unità essenziale è piú delle sue parti, altrimenti sarebbe
un’unità accidentale (vedi anche Reportata parisiensia, III, d. 2, q. 1, n. 9) – per un recente
approccio similare, Roderick Chisholm, Parts as Essential to their Wholes, in Review of Metaphysics
27 (1973) 581-603, poi rifuso in Person and Objet, La Salle 1979. E parlando dell’Eucarestia in
Opus oxoniense, IV, d. 12, q. 1, n. 14, afferma che una proprietà (come la bianchezza) non è
essenzialmente inerente a qualcosa, ossia può esistere un accidente senza soggetto (nel les-
sico scotiano), ed ancora esistono le Forme separate meno-che-numeriche (nel lessico
platonico sono sostanze separate, che rinviano alle formalità scotiane che tuttavia non sono
sostanze appunto perché dotate di unità meno-che-numerica). Anzi, ritiene che la posizione
avversa (l’aristotelico rifiuto dell’esistenza di forme separate) sia ‘truffatica e sine intellectu’
(una simile espressione liquidatoria della metafisica alternativa non si ritrova nel luogo
parallelo dei Reportata parisiensia, nei quali l’esempio dell’animale razionale ricorre al n. 10,
paragrafo che si conclude con l’esempio - è vero “la bianchezza è”, ma è falso “questo è
bianco” – di seguito, alla q. 2, n. 5, Scoto afferma che le proprietà (quasi-)separate sono
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 129

distinguibili in quanto diverse – formalmente) 39, a meno che non si introduca


nella formulazione di questa legge leibniziana una distinzione capitale 40.
Si tratta della distinzione tra una identità formale, per cui essa continue-
rebbe ad essere valida (due cose formalmente identiche saranno anche non-
distinguibili, dato che sono una sola) 41, e una identità reale, per cui invece essa

percepibili per potentia remota e non per potentia prossima, attribuendo implicitamente al
peccato originale (è un ‘impedimento permanente’, non rimovibile nella misura in cui ha
modificato la natura antropologica dell’uomo, che è viator, in cammino verso una diversa
natura) l’impossibilità per noi, nel mondo attuale, di percepire sensibilmente il corpo di
Cristo nell’Eucarestia, anche se questo corpo sensibilmente si dà nell’Eucarestia – cosí lo
vedono i beati o gli angeli).
39 David M. Armstrong sostiene che ben pochi filosofi oggi rifiutano l’idea

dell’indiscernibilità degli identici (Universals. An Opinionated Introduction, Boulder Co. 1989,


65). Uno scotista contemporaneo apparterrebbe a questo ristretto circolo di dissidenti
ultrarealisti, specie se si predica l’identità rispetto alle sole proprietà materiali del mondo
empirico: in questa prospettiva si danno cose identiche che sono diverse.
40 Già Lorenzo Peña notava (El ente y su ser, 180) che la distinzione formale di Scoto

comportava il rifiuto dell’indiscernibilità degli identici, e pareva non apprezzare questa con-
seguenza. Le considerazioni che seguono potrebbero dissipare la sua perplessità.
41 Nulla toglie a questa idea che in un individuo si diano piú forme (dalla pluralità delle

forme dell’anima nell’uomo alle forme divine, per esempio Ordinatio, I, d. 8, pars 1, q. 4;
Opus oxoniense, IV, d. 10, q. 2): l’identità delle forme tra due individui implica che tutte le
loro forme siano rispettivamente identiche – per Scoto le formalitates sono separabili dall’in-
dividuo, sono proprietà reali e oggettuali, come asserisce drasticamente in un passo che va
continuamente citato, Opus oxoniense, IV, d. 12, q. 1, n. 14. Lo stesso tenore si ritrova nei
Reportata parisiensia, luogo parallelo, dove contro san Tommaso asserisce non solo che un
predicato assoluto si dia senza il suo soggetto, ma che questo si dia anche nell’esistenza (n.
3-4). Insomma, tutte le analisi di Scoto mirano a mostrare che certe tesi sulla materia delle
formalitates separate non sono limitate alla teologia (e i critici direbbero che sono soluzioni ad
hoc, quindi non persuasive), bensí sono tesi metafisiche che valgono in ogni reame dell’on-
tologia (e i filosofi che sostengono ontologie riduttive – in primo luogo i nominalisti, ma
anche i concettualisti - hanno semplicemente torto). Del resto, egli tira l’essenzialismo con-
cettualista nella sua direzione, facendo notare che in Aristotele non si troverebbe mai
un’espressione ‘accidentia non sunt entia, nisi quia entis’, e che ricavare dalle sue affer-
mazioni che l’essere dei predicati si riduce all’essere dell’oggetto di cui quel predicato si dice
è equivalente alla fallacia di chi affermasse che la creatura non è un ente se non in quanto
creata da Dio, quindi non è affatto un ente (n. 8). Al di là delle sottigliezze interpretative (e
degli eventuali travisamenti), emerge che la vera differenza fondamentale tra Aristotele e
Scoto è riposta nella composizione del Reame Ontologico: quelle che per Aristotele posso-
no essere semplici distinzioni logico-razionali (per esempio, il predicato essere-rosso distinto
dall’oggetto che è rosso) sono per Scoto inequivocabilmente dotate di una modalità di
essere, in cui l’esistenza è una particolare proprietà delle cose che si danno nel mondo
130 CAPITOLO TERZO

non sarebbe piú valida. E’ importante tenere a mente che per Scoto l’astratto e
il concreto differiscono solo nel modo di significare, tanto che può formulare
l’esempio del paragone tra ‘Socrate correrà’, che potrebbe essere vera sebbene
in questo momento Socrate non corra, e ‘la bianchezza è’, che è vera anche se
in questo momento nessun oggetto è bianco 42.
Lo stesso ragionamento vale per l’altra legge di Leibniz, il cosiddetto prin-
cipio dell’identità degli indiscernibili 43, e che valeva nel quadro leibniziano di
una concezione dei mondi possibili che oscilla tra nominalismo e concet-
tualismo, ma è stata criticata nel quadro della filosofia contemporanea 44: se que-
sta identità degli indiscernibili la si limita alle proprietà reali, allora si lasciano da
parte le proprietà formali, ossia una fetta consistente del mondo ontologico e la
distinzione formale perderebbe il suo senso (ciò che non è distinguibile reci-
procamente è identico, e viceversa). Dall’indiscernibilità delle proprietà reali,
ossia per ogni proprietà del primo oggetto essa inerisce anche al secondo, si
può concludere la loro identità reale, ma non la loro identità tout court o che dir
si voglia in senso stretto: McTaggart aveva rinominato l’identità degli indiscer-
nibili ‘Differenza del Diverso’ 45, per sottolineare che nella prospettiva secondo

attuale, cose reali certo, ma non tutte le cose reali esistono. In una espressione, la differenza
corre sui binari del realismo modale, e dei suoi corollari, tra cui la concezione sincronica
della contingenza.
42 Reportata parisiensia, IV, d. 12, q. 1, n. 10. La già richiamata distinzione della

successiva q. 2 tra ‘potenza remota’ e ‘potenza prossima’ gli permette di asserire che le
proprietà separate sono sensibili per ‘potenza remota’ e non già per ‘potenza prossima’, una
distinzione tanto piú persuasiva se alle differenti condizioni della persona umana (i dannati,
dice Scoto, possono volere il bene solo per potenza remota – n. 5-6) si associa un’ontologia
dei mondi possibili, che permette di cogliere ancora piú perspicuamente che i dannati, i beati
o degli uomini-X possono percepire il mondo esterno con modalità differenti da quelle che
noi esperiamo quotidianamente.
43 Come nota David Wiggins (Sameness and Substance Revised, Cambridge 2001, 27, in

nota) si danno due leggi di Leibniz, la prima nota come la Legge di Leibniz per eccellenza,
ossia l’indiscernibilità degli identici (peraltro già nota ad Aristotele, Elenchi Sofistici, I 79 a37),
e la sua reciproca, ossia l’identità degli indiscernibili. Entrambe sembrano procedere, e
questo giustifica l’uso per cui le si considerano quasi-equivalenti, dalla formulazione
leibniziana eadem sunt quorum unum alteri substitui potest.
44 Nel XX secolo l’argomento piú noto è quello di Max Black, The Identity of Indiscer-

nibles, in Mind 61 (1952) 153-164, poi hanno rifiutato l’identità degli indiscernibili e la cor-
rispettiva (ma non equivalente) indiscernibilità degli identici Peter Geach, Logic Matters,
Berkeley 1972, e Reference and Generality, Ithaca, 19803 (seconda edizione corretta 1968), e Paul
Grice, Studies in the Way of Words, Cambridge Mass. 1981, e Aspects of Reason, Oxford 2001.
45 J. E. M. McTaggart, The Nature of Existence, London 1921, sez. 99.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 131

cui gli individui particolari sono un fascio di universali, per parlare di individui
differenti bisogna pensare che vi sia almeno un universale che non partecipi
egualmente ai due individui 46. Ma questa non è la prospettiva di Scoto, fautore
di un ben piú radicale realismo ante rem, e che concepisce l’haecceitas come una
speciale proprietà disgiuntiva, che fa partecipare l’universale nell’individuo
senza ridurre l’individualità ad un fascio di universali 47.
In questa prospettiva, del resto, anche la discernibilità delle proprietà reali
non esclude l’identità reale, come abbiamo già detto, dato che l’essere-sudato di

46 Vi sono tentativi di revisione dell’argomento di McTaggart, per cui recentemente


Gonzalo Rodriguez-Pereyra, The Bundle Theory is compatible with distinct but indiscernible
particulars, in Analysis 64 (2004) 72-81.
47 Sebbene espressamente enunciata in un passo dell’Ordinatio, II, dist. 3, pars 1, q. 5-6,

187-188, ex n. 15, il ruolo di questa proprietà disgiuntiva non è colto adeguatamente, almeno
a mia conoscenza, nella letteratura sulla metafisica scotista. Per una semplice ragione:
credere che si diano proprietà disgiuntive è tutt’altro che intuitivo, tanto piú che la proprietà
disgiuntiva assomiglia abbastanza al fatto stesso di porre la domanda. Chiedersi se una mela
sia colorata oppure no assomiglia abbastanza alla risposta che tale mela è o-colorata-oppure-
no, tanto che molti penserebbero che questa risposta non è affatto una risposta. Non solo
tra studiosi alieni alle sottigliezze metafisiche, ma tra gli stessi specialisti le proprietà dis-
giuntive non godono di buona stampa: tuttavia, questo impedisce a Nicholas Rescher di
comprendere la specificità dell’haecceitas scotiana (Imagining Irreality. A Study of Unreal
Possibilities, 86-87), dato che ignora la sua dimensione disgiuntiva e la riduce ad una mera
proprietà dell’essere-questo-individuo, simile all’essere-colorato, tanto che si ripetono i
paradossi della umanità-Luca-Parisoli che fa sí che io sia Luca Parisoli. Ovvero, il fatto che
io sia un individuo Luca Parisoli si spiega con la luca-parisolite (spiegazione chiaramente
non soddisfacente e altrettanto certamente, ai miei occhi, non scotiana – del resto, mi pare
che non sia neppure ascrivibile ad Avicenna se non grazie ad una buona dose di ingene-
rosità). Certo, accettare l’esistenza di genuine proprietà disgiuntive rinvia in ultima analisi alla
credenza in entità reali che non si manifestano necessariamente con un insieme definito di
proprietà esistenti (e si evita cosí l’argomento di Armstrong contro la genuinità delle pro-
prietà disgiuntive - Universals. An Opinionated Introduction, 82: non vi è nulla di strano nel fatto
che l’oggetto A abbia una certa massa e l’oggetto B abbia una certa carica elettrica, e che A e
B abbiano in comune la proprietà disgiuntiva ‘avere-una-certa-massa-oppure-avere-una-
certa-carica-elettrica’ che è identificatoria, a condizione di considerare che A e B sono tali
che: 1) se A e B sono oggetti inanimati, A e B sono lo stesso oggetto – è il caso della fisica
quantistica, che ha criteri di identificazione diversi dalla fisica classica; 2) se A e B sono
agenti morali, e la proprietà disgiuntiva è la loro individualità, allora sono lo stesso individuo
in due mondi possibili diversi, oppure nello stesso mondo attuale in tempi diversi). Si tratta
delle persone metafisiche della tradizione cristiana, la cui pluralità per un credente è ben piú
stringente della pluralità degli oggetti inanimati (le persone metafisiche sono oggetto del
Giudizio Universale, le pietre no).
132 CAPITOLO TERZO

Gesú Cristo non è una proprietà dello Spirito Santo, sebbene i due siano real-
mente identici. E si badi, quando si parla di realtà si parla di mondi possibili, e
quindi si deve distinguere tra proprietà reali esistenti (mondo attuale) e pro-
prietà reali non-esistenti (altri mondi), una distinzione che non può essere
trascurata dato che spesso pensiamo alle proprietà soggette alla nostra per-
cezione fenomenologica, che sono proprietà esistenti e a volte irreali (costituite
dalla nostra mente e non-indipendenti da essa). Ma se invece si concepisce
l’identità degli indiscernibili come proprietà formale - formaliter, allora è possibile
dire il principio di Leibniz vale anche per Scoto, dato che esso non si predica
piú considerando le proprietà meramente reali, ma anche quelle formali.
Tuttavia, l’identità formale non include banalmente l’identità reale: infatti,
dobbiamo tenere a mente che le proprietà reali sono legate alla modalità della
haecceitas che concretizza in un certo mondo possibile quella formalitas di cui
abbiamo potuto constatare essere una, dato che tutte le proprietà formali di X
inerivano anche ad Y, cosí X e Y sono in realtà un solo K. Ma la formalitas si
può manifestare in molti modi in diversi mondi possibili ed essere una: la mia
identità personale dopo la morte biofisica sarà garantita dalla quidditas, e la mia
haecceitas sarà un’altra, dato che mentre oggi mi si riconosce mentre sto in pol-
trona di fronte al computer e non-contemporneamente in salotto a fumare la
pipa, in seguito potrò occupare contemporaneamente – a Dio piacendo – i due
luoghi ed essere sempre io. Cosí Dio è identico formalmente e indiscernibile da
Dio (piú classicamente, si tratta della semplicità di Dio, una proprietà appa-
rentemente ‘semplice’ ma foriera di complicazioni) e Dio è distinto formal-
mente dal Figlio, anche se il Figlio è realmente Dio e le proprietà reali del Figlio
non sono necessariamente le proprietà reali di Dio, nel rispetto di questo nuovo
duplice principio degli indiscernibili dal sapore chiaramente paraconsistente 48:
tuttavia, non credo sia questo il senso dell’enunciazione leibniziana del
principio, e mi pare che la posizione di Scoto sia ben piú radicale delle critiche

48 Un’osservazione di Wiggins nel passo citato (Sameness and Substance Revised, 27) può

essere illuminante: egli osserva che non si danno controesempi alle Leggi di Leibniz perché
questi avrebbero la stessa scarsa forza dei controesempi al principio di contraddizione.
Questo mostra che sebbene Wiggins faccia molto per migliorare la formulazione delle Leggi
di Leibniz (Sameness and Substance Revisited, cap. 1, in cui tra l’altro discute il problema della
Trinità, in particolare 45-50), solo in una prospettiva paraconsistente (quella di chi rifiuta la
validità universale del principio di contraddizione) si possono veramente superare tali leggi,
in quanto ovviamente false.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 133

contro l’identità degli indiscernibili che Armstrong ricorda come problematiche


per una concezione degli individui come fasci di universali 49.
La posizione di Scoto sulla distinzione formale riecheggia invece il senso
della formulazione contemporanea di David Lewis, sostenitore del realismo
modale nel quadro dei mondi possibili, il quale distingue tra duplicati (oggetti che
condividono le stesse proprietà intrinseche, quali sono le proprietà naturali) e
indiscernibili (oggetti che condividono le stesse proprietà intrinseche e pure le
stesse proprietà estrinseche): è notevole che Lewis metta in campo la nozione
di definibilità per mostrare la differenza tra le proprietà estrinseche e quelle
intrinseche 50, esattamente come Scoto mette in campo la definibilità per mo-
strare la differenza formale nell’identità reale. Scoto, sostenitore di una conce-
zione iper-realista dei mondi possibili, ha una teoria incompatibile con l’approc-
cio leibniziano 51 e produce un’ontologia lussureggiante che prepara l’esistenza
di contraddizioni vere. Già in san Bonaventura, comunque, si argomenta in ma-
niera tale che si può negare la validità universale del principio di contraddizione,
dato che vi è coincidenza degli opposti, ma esso resta valido localmente, e ciò
che vale universalmente è il principio di Super-Contraddizione, del tutto
compatibile con la coincidenza degli opposti (la piccola-contraddizione).
La filosofia di Scoto è diversa da quella di san Bonaventura, ma sulla
Trinità non può che affermare le tesi del grande Ministro Generale dell’Ordine.
Certo, qualunque pensatore cattolico concorderà sul fatto che Cristo sia Me-
diatore universale, legame tra le creature e il Creatore grazie alla sua bivalenza
uomo-Dio; ma poi ogni pensatore cattolico userà questa idea in misura piú o
meno marcata nella sua riflessione filosofica. Nella filosofia di san Bonaventura,
l’idea di Cristo come medium, quindi la sua medietà, il suo essere medio, viene

49 David M. Armstrong, Universals. An Opinionated Introduction, 66-70.


50 David Lewis, On the Plurality of Worlds, Oxford 1986, 61-63, poi ridotto come Modal
Realism at Work: Properties, in D. H. Mellor, A. Oliver, a cura di, Properties, Oxford 1997, 181.
Mi piace citare l’argomento che Lewis avanza per credere nella distinzione tra proprietà
naturali e non-naturali (nel lessico di Scoto, reali e formali): “there is no reason to reject the
distinction. Rather, that is a reason to accept it – as primitive, if need be”. Anche qui il
principio di economia ontologica non si identifica con il furore riduzionistico del rasoio di
Ockham.
51 Mi pare che un luogo cruciale per il rifiuto da parte di Scoto delle leggi di Leibniz

siano la q. VI del Quodlibet, in cui analizza la natura dell’eguaglianza nelle proprietà e nelle
persone divine (al n. 25 Scoto tira le fila di una discussione particolarmente fitta).
Nell’edizione Wadding (556-557) si possono vedere le Conciliationes del commentatore sco-
tista a questa questione quodlibetale: conta tenere a mente che per Scoto la relazione di
eguaglianza tra le persone divine è una res, un oggetto indipendente dall’intellezione.
134 CAPITOLO TERZO

sfruttata sistematicamente, ed è in questo contesto che i suoi interpreti ritro-


vano la non-validità locale del principio di contraddizione: la figura Dio-Uomo
che si esemplifica in Cristo è l’esemplificazione diretta ed immediata di come si
dia un medio tra i contraddittori, ossia di come sia falso ritenere che il principio
di contraddizione abbia portata universale. Il suo metodo lo conduce a delle
coincidenze degli opposti come quella del Cristo medium logicum che segna la
lotta della Croce tra il bene ed il male: l’allontamento degli uomini da Dio, la
loro disposizione come opposti, viene cortocircuitata da Cristo, per chi lo vuole
cogliere. Anche Satana usa la coincidenza degli opposti, promettendo la vita e
dando la morte: Cristo usa la stessa coincidenza degli opposti, prende la morte
e rende nuove tutte le cose 52. Il testo cruciale è la prima delle Collationes in
Hexaemeron, ma come afferma Cousins, “Bonaventure’s thought is organized
around three dominant themes: the Trinity, Christ, and the reflection of God in
the universe. All three of these themes contain as their inner logic the coin-
cidence of opposites, which also unites them among themselves” 53. La strategia
di san Bonaventura è quella di tornare e ritornare sulle caratteristiche personali
divine per mostrarvi la coincidenza degli opposti, lasciando in secondo piano i
problemi di logica formale. La strategia scotista è invece quella di risolvere la
possibilità razionale dei misteri della fede cristiana, tanto che la negazione della
validità universale del principio di contraddizione si colora di un approccio
analitico e dimostrativo. San Bonaventura affronta quella che potremmo dire
una fenomenologia della personalità divina 54, mentre Scoto non è meno

52 Ewert H. Cousins, Bonaventure and the Coincidence, 144-146 (Collationes in Hexaemeron, I,

28, ed. Quaracchi, V).


53 Ewert H. Cousins, Bonaventure and the Coincidence, 43. Cousins classifica cinque tipi di

coincidenza degli opposti (200-206), che sono poi tutti collegati tra loro da Cristo (206-208),
e che non sono esauriti da Cristo, ma si prospettano tutti come la stessa realtà ontologica del
mondo: la manifestazione e la non-manifestazione della divinità, coincidenza degli opposti
indipendentemente da qualunque atto creatore (la Trinità è una contraddizione vera, dico
io); Dio e la creazione, unione operata dall’esemplarismo; Dio e la creazione, uniti ora
dall’Incarnazione di Cristo (medium physicum), ritorno al Padre per tutte le creature; il bene ed
il male, tramite il peccato e la redenzione, tali che Cristo (qui medium logicum) annichila, per
chi vuole seguirlo, il male (Cristo indica la via, nessuno è obbligato a seguirla); le anime
personali e Dio, tale che Cristo come medium ethicum, indica la via del ritorno delle persone
metafisiche a Dio, persone individuali che ne saranno sempre rigorosamente distinte, anche
nello stato piú perfetto di beatitudine (la confusione con Dio è l’inganno per eccellenza del
demonio).
54 Si legga per esempio nella prima Collatio: “si persona est, quae producit et non pro-

ducitur, et persona, quae producitur et non producit, necessario est media, quae producitur
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 135

personalista, e tuttavia la sua è piuttosto una metafisica analitica della persona-


lità divina, con tanto di spazio concesso alla logica formale. Resta il fatto che
per entrambi l’espressione “contraddizione formale” gioca un ruolo cruciale
nella semantica della contraddizione.
Insomma, la tesi che lo Pseudo-Scoto abbia affermato per la prima volta il
principio ex falso sequitur quodlibet ignora la possibilità che vi sia una differenza
tra una “contraddizione formale” e una “contraddizione”, ossia postula indebi-
tamente che ogni contraddizione sia formale. Non si tratta di un’interpretazione
priva di forza persuasiva, del resto è stata largamente accolta nel corso dei
secoli. E non è certo in forza di un mero argomento lessicale che intendo con-
testarla, ossia non voglio farle valere contro il fatto che nel testo si parla di
“contraddizione formale”, e che ‘formale’ non può avere un significato vuoto.
Quello che voglio fare valere è che l’enunciazione del principio secondo cui
dalla contraddizione formale segue quodlibet, avviene nel contesto di una
affermazione esplicita della rilevanza dell’implicazione logica, primo passo per
affermare una logica paraconsistente. Insistere sulla nozione di “contraddizione
formale” è il secondo passo naturale in questa stessa direzione.
Lo Scotista sottolinea che il principio da lui enunciato vale solo per le con-
traddizioni formali (ossia, α è un oggetto senza riferimento all’esistenza, e
α∧¬α), e le conclusioni che seguono a piacimento sono a loro volta formali
(ossia, α è un oggetto, e α∧¬α, allora per qualunque β che è un oggetto,
β∧¬β). Una proposizione formale A diviene una proposizione materiale
tramite l’assunzione di una proposizione con denotato contingente (relativo a
ciò che esiste, relativo alla creazione divina): nulla si dice in merito al fatto che
per le proposizioni materiali valga il principio ex falso sequitur quodlibet (ossia, non
è vero che se α è un oggetto, α esiste, e α∧¬α, allora per qualunque β che è un
oggetto e β esiste, β∧¬β). Detto principio vale solo per le proposizioni formali,
quindi si può affermare che dalla Super-Contraddizione discende qualunque

et producit. Haec est ergo veritas sola mente perceptibilis” (Collationes in Hexaemeron, I, 14: il
riferimento alla verità rimanda a sant’Anselmo, Dialogus de veritate, 11). E ancora: “Christus
ergo habuit conformitatem naturae in quantum Deo cum Patre, aequalitatem potentiae, im-
mortalitatem vitae. In his tribus coniunctus fuit Patri. Necesse ergo fuit, ipsum in aliis tribus
oppositis coniungi homini. Assumsit ergo passibilitatem naturae, necessitatem indigentiae,
mortalitatem vitae. Tria ergo habuit per essentiam et tria assumsit per misericordiam”
(Collationes in Hexaemeron, I, 27). Da questi passi mi pare che emerga non solo il classico
mistero della Trinità o dell’Incarnazione, emerge pure il fatto della contraddizione vera che
ne è implicata.
136 CAPITOLO TERZO

proposizione, dalla piccola-contraddizione no. Il principio di Esplosione nella


sua interpretazione standard non è un principio dello Scotista, dato che egli si
limita ad asserire che se a) è necessario che α (in ogni mondo possibile), e b) è
necessario che ¬α (in ogni mondo possibile), allora c) tutto è necessario – per
esemplificazione, se Dio esiste e Dio non esiste, allora io sono un uovo in cami-
cia ed ogni uovo in camicia non è Luca Parisoli (si noti che la conseguenza è
necessariamente esistenziale, per il termine fenomenologico “io” e il denotatore
rigido “Luca Parisoli”) – al contrario, nulla ci permette di affermare che se io
sono un uovo in camicia ed ogni uovo in camicia non è Luca Parisoli (con-
traddizione meramente materiale), allora Dio esiste e Dio non esiste. Si tratta di
una strategia logica per affermare che Dio non può creare una Super-Contrad-
dizione (Egli non può creare un cerchio quadrato, mentre può pensare un cer-
chio quadrato), dato che si arriverebbe alla triviale situazione in cui ‘tutto è
vero’ 55, che è connesso all’idea che tutto sia identico a tutto, perché il dato
ontologico che pone una differenza tra reale e irreale verrebbe ad essere vani-
ficato. Saremmo quindi di fronte ad una vera e propria catastrofe ontologica, in
cui non solo l’insieme dell’esistente sarebbe indeterminato, ma anche l’inseme
del reale, tanto che la stessa idea per cui Dio è un essere necessariamente reale e
presente in ogni mondo possibile (quindi, reale-e-esistente) collasserebbe nella
sua super-contraddittoria per cui l’assenza assoluta di Dio si dà necessariamente
in ogni mondo possibile 56.

55 Anche se il Buddismo Zen radicale, tra cui Joshu (Yoel Hoffman, Zen radicale. I detti
del Maestro Joshu, Roma 1979 – per esempio, il detto 244 a pagina 93 “Un monaco chiese:
‘Quando non è quadrato o rotondo, com’è?’. Joshu disse: ‘Non è quadrato. Non è rotondo’.
Il monaco disse: ‘Allora com’è?’. Joshu disse: ‘E’ quadrato? E’ rotondo?’.”, oppure il detto
323 a pagina 116 “Un monaco chiese: ‘Cos’è ‘santo’?’. Joshu disse: ‘Il comune’. Il monaco
disse: ‘Cos’è ‘comune’?’. Joshu disse: ‘Il non santo’. Il monaco disse: ‘Quando non è né
comune, né santo, che succede?’. Joshu disse: ‘Che bel monaco zen!’.”; D. T. Suzuki,
Introduzione al Buddismo Zen, Roma 1970), afferma in qualche senso che ‘ogni cosa è vera’,
compresa la proposizione ‘ogni cosa è falsa’, è essenziale assumere la portata della sua
prospettiva escatologica. Questo Buddismo propone di assumere - asserisce la possibilità di
raggiungere - la condizione di beatitudine in questa vita umana. E’ possibile che anche nel
Paradiso cristiano ‘ogni cosa è vera’, nella misura in cui ogni cosa è amore gratuito: un
esperto di mistica cristiana potrebbe fornire esempi illuminanti in merito, ma la stessa con-
troversia sulla Salvezza Universale di tutti gli uomini (ossia sul fatto che l’Inferno sia vuoto)
si agita intorno a questo tema (si veda Antonio Royo Marín, ¿Se salvan todos?, Madrid 1995).
Tuttavia, il Paradiso cristiano non fa parte del nostro mondo attuale, lo stato di beatitudine è
post-mortem corporale (con un corpo diverso seppure in continuità con il precedente).
56 Chissà, forse il diavolo ragiona proprio in questo modo.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 137

Tuttavia le contraddizioni materiali, ossia contingenti, sono completamen-


te possibili – lo Scotista lo dice esplicitamente quando afferma che talora “im-
possibile non implicat formaliter contradictionem”, dove l’impossibilità è la
non-compossibilità nel mondo attuale che non esclude la compossibilità in un
mondo possibile (di cui, perdonatemi la ripetizione costante, Dio può rendere
attuale nel nostro mondo un qualsivoglia stato di cose). L’esempio può essere:
se io sono seduto e io sto correndo, nel mondo attuale, allora io sto dormendo
e io sto bevendo, ma io non sono un beato – la prima conseguenza può valere
nel mondo attuale, non già la seconda se ci si colloca in un qualunque mondo
possibile – essere seduto e correre non è un’assurdità metafisica, Dio potrebbe
fare sí che io lo faccia in un qualche mondo possibile, mentre essere un viator, di
cui si può predicare che corre e sta seduto, e contemporaneamente essere un
beato è un’assurdità metafisica dato che le proprietà essenziali dei due, tranne la
continuità della persona metafisica, sono radicalmente altre – per esempio, le
modalità espistemologiche sono completamente diverse.

Passiamo ora alle analisi scotiane intorno all’Antinomia del Mentitore, per
cui riprendiamo il Super Libros Elenchorum, (prima in ed. Vivès, II, ora nell’ed. St.
Bonaventure) 57. L’analisi dell’antinomia del mentitore ci fornisce altri elementi
in direzione di una scelta paraconsistente: non solo l’analisi scotiana è interes-
sante in sé, essa si esercita pure su un’antinomia, quella del mentitore, che era il
paradigma stesso del paradosso semantico nel medioevo 58.
Alla q. 52, innanzitutto, Scoto asserisce che “Io dico il falso” è una propo-
sizione ben formata 59: essa esiste nel linguaggio naturale, quindi ogni eventuale

57 Grazie all’amabile gentilezza di Timothy Noone, ho potuto consultare le bozze di

stampa dell’edizione critica di imminente pubblicazione nel piano dei Philosophical Works di
Scoto presso St. Bonaventure Press.
58 Rimando tra la vasta letteratura a M. L. Roure, La problématique des propositions

insolubles au XIIIe siècle et au début du XIVe, suivie de l’édition des traités de W. Shyreswood, W.
Burleigh et Th. Bradwardine, in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age 37 (1970) 205-
361. Tratta infatti dello stato della questione negli anni in cui Scoto era attivo (Shyreswood
scrive nel 1267, Burleigh nel 1302, Bradwardine piú tardi). Si veda anche il piú ampio F.
Bottin, Le antinomie semantiche nella logica medievale, Padova 1976; indicativo Paul V. Spade, The
Medieval Liar: A Catalogue of the Insolubilia-Literature, Toronto 1975.
59 Scoto rifiuta la posizione dei cassantes e dei restringentes, tesa a mostrare che l’in-

solubile è una proposizione mal formata (M. L. Roure, La problématique des propositions
insolubles, 211, 215-218, 219-225; F. Bottin, Le antinomie semantiche, 46-56, 80-83, 171-174).
Potrebbe essere vicino ai ‘mediatori’, ma capovolge la propensione per la tesi dei cassantes in
favore della paraconsistenza (La problématique des propositions insolubles, 218-219); la sua
138 CAPITOLO TERZO

soluzione ad hoc che la consideri una non-proposizione deve essere respinta


come insoddisfacente. Nel mondo naturale, nel nostro mondo attuale, la parte
del tutto non può essere eguale al tutto 60 (in riferimento alla proposizione, la
parte non può supponere per il tutto, dove ‘supponere’ deve essere inteso come
‘intellectum suum ponere’), tuttavia “multa sunt impossibilia in re quae non
sunt impossibilia in ratione. Sicut procedere in infinitum in rebus est impos-
sibile; sed in ratione non est inconveniens” (n. 5). E’ qui implicito, per dirlo nel
nostro linguaggio, che ciò che è possibile secondo l’intelletto è possibile almeno
in un mondo possibile. Va sottolineato che non si parla della fantasia che può
ogni cosa, si dice che le impossibilità di fatto, che appartengono al nostro mon-
do attuale, non sono impossibilità di ragione: l’esempio scelto, quello della com-
mutabilità dell’infinito (ossia, la possibilità di calcolare su grandezze infinite
diverse tra loro, ‘procedere in infinitum’), mostra che qui non è in gioco il con-
fronto tra un atteggiamento fideistico e un atteggiamento razionalistico, quanto
piuttosto un empirismo alla David Hume, che non era capace di comprendere i
ragionamenti sugli infinitesimali di Leibniz, Newton o Berkeley, e un mate-
matismo alla Cantor, che non a caso si ispirò alla riflessione scolastica per la sua
calcolabilità degli ordini di infinito. Oppure, in altri termini, mi pare che la posi-
zione di Scoto sia quella del realismo matematico e si opponga alle varie forme
di nominalismo matematico.
Vediamo quindi la q. 53, dove al n. 2, la proposizione “Ego dico falsum” è
cosí analizzata con una biforcazione classicamente aristotelica (tra ‘simpliciter’ e
‘secundum quid’) 61:
a) come “simpliciter falso in dicendo”- l’idea è che il falso è ‘signum falsi’,
ma qui non si denota nulla – “falso” non è un oggetto, quindi l’enunciazione è
una falsità in quanto vuota. Se “falsum” fosse sostituito da “hominem esse
asinum”, “Ego dico hominem esse asinum”, la proposizione, in quanto enun-
ciazione, sarebbe vera, dato che effettivamente io dico che l’uomo è un asino e
questo rapporto denota uno stato di cose possibile. Scoto non dice altro, ma mi
pare si debba completare osservando che se la sostituzione avvenisse con
“hominem non esse asinum”, la frase finale continuerebbe ad essere vera, dato
che effettivamente io dico che l’uomo non è un asino e questo rapporto denota

strategia si presenta come una rielaborazione sostanziale della tesi dei mediatores (actus exercitus
e actus signatus, 219), dato che vi inietta anche la distinzione aristotelica secundum quid e
sempliciter dei mediatores.
60 Scoto tratta di questa affermazione e del suo significato preciso in Quaestiones meta-

physicorum, VIII, q. 4, 38, ex n. 8.


61 F. Bottin, Le antinomie semantiche, 24-27, 57-58.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 139

uno stato di cose possibile. Del resto, la frase “Ego dico verum” sarebbe sem-
pre falsa nella prospettiva “simpliciter in dicendo”: infatti anche “verum”, pari-
menti a “falsum”, non denota nessun oggetto;
b) come “verum tamen secundum quid” – se lo consideriamo in quanto
“actum dicendi circa falsum”, ossia in quanto oggetto proposizionale intorno
alla falsità, allora “in re est verum”, dato che qui l’oggetto di cui si parla non è il
denotato proposizionale, bensí una qualità della proposizione stessa. In questo
senso, aggiungiamo ancora noi, “Io dico il vero” è una proposizione vera, per
lo stesso motivo per cui “Io dico il falso” è una proposizione vera. Mentre “Io
dico che l’uomo è un asino” sarebbe falsa (l’uomo non è un asino), e “Io dico
che l’uomo non è un asino” sarebbe vera (ancora, l’uomo non è un asino).
Per riprendere le parole di Scoto, “circa hoc enunciabile, ego dico falsum,
est veritas et falsitas, sed veritas secundum quid, et falsitas simpliciter” (n. 2,
=76) 62. Ora, quello che è cruciale è comprendere il rapporto tra questi due
livelli, che possono essere banalizzati facendoli collassare sulla distinzione tra
uso e menzione, oppure intesi in una prospettiva paraconsistente. In questa
direzione può essere utile rammentare una passaggio dei Reportata parisiensia 63
dove Scoto replica all’osservazione secondo cui ciò che è causato, prima di
esserlo, è in atto o in potenza, quindi ha una modalità di essere in qualche mi-
sura co-eterna a Dio. Tale argomento minaccia la purezza della creazione ex
nihilo, dogma della fede cristiana, ma anche tesi irrinunciabile in un orizzonte di
volontarismo teologico. Scoto osserva che anche un uomo è vivo o morto, e
dire che il suo stato può dividersi tra l’essere vivo e l’essere morto equivale a
considerare il futuro e il passato secundum quid, lasciando da parte la prospettiva
simpliciter, dimenticando che la possibilità si decrementa rispetto al presente –
“possibilitas magis diminuit respectu praesentis”. In altri termini, sebbene l’ente
in potenza sia dotato di una modalità di essere, la sua modalità di esistenza è
assolutamente determinata dall’atto che lo pone in esistenza, e la sua realtà di ente
possibile non esclude affatto che sia simpliciter creato (da Dio). Una terminologia
piú opportuna è quella dei mondi possibili, da me tanto utilizzata: gli esseri reali e
non-esistenti sono in un senso in potenza, ma si dicono tali in quanto non-

62 E’ utile riprendere questo passaggio delle Quaestiones metaphysicorum, VI, q. 2, 4, ex n.

1, che spiega ulteriormente la teoria della denotazione impiegata da Scoto, qui veicolata dal
termine ‘signatus’: “enim ‘loqui’, ut est actus exercitus, potest indifferenter habere pro
obiecto ‘non loqui’, ut est actus signatus, sicut et quodcumque aliud signatum. Ideo qui dicit
se non loqui, ita simpliciter loquitur quoad actum exercitum, sicut qui dicit se loqui vel
currere. Unde sequitur ‘dico me nihil dicere, ergo dico aliquid’; ergo a simili hic”.
63 Reportata parisiensia, II, d. 1, q. 2, n. 14.
140 CAPITOLO TERZO

esistenti nel mondo attuale. Ma nel momento in cui attualizzano, restano in


potenza, ovvero continuano ad appartenere ad un mondo possibile che non è
quello attuale. In altri termini, la terminologia aristotelica di potenza ed atto non
è perspicua in questo contesto che fuoriesce dal mondo attuale. Emerge qui
un’ontologia delle espressioni secundum quid e simpliciter che le caratterizza come
segni concorrenti degli stati di cose, e non già meri punti di vista sul reale.
Il successivo n. 3 della risoluzione del paradosso del Mentitore introduce
una precisazione fondamentale tramite la sottolineatura della rilevanza dell’im-
plicazione - “Ego dico falsum; ergo verum est me dicere falsum, dico quod
consequentia non valet formaliter. Sicut non sequitur Homo est animal, ergo
verum est dicere hominem esse animal, et tamen in actu exercito in antecedente
includitur consequens” – ricompare l’espressione ‘formaliter’, che sembra pro-
prio essere una nozione unitaria rispetto alle due precedenti prospettive, ‘sim-
pliciter’ e ‘secundum quid’ messe insieme, dato che la verità ‘secundum quid’
già asserita poco sopra (per la quale premessa e conseguenza parrebbero essere
vere) non può essere asserita ‘formaliter’. L’esempio mostra che l’ego di “ego
dico falsum” che Scoto considera non è l’Io contingente che enuncia la propo-
sizione, bensí l’Io come indicatore autoreferenziale dell’enunciante. Ciò che si
può asserire è solo che qualcuno dice il falso, che qualcuno dice che l’uomo è
un animale, a meno che non si sia escluso un valore esistenziale delle propo-
sizioni in esame. Sebbene sia vero che “l’uomo è un animale”, e sebbene sia
vero che “è vero dire che l’uomo è un animale”, non c’è implicazione dal primo
al secondo, nonostante che si possa affermare che la conseguenza è contenuta
nella premessa. Ecco che la nozione di implicazione rilevante gioca il suo ruolo
di sbarrare il passo all’antinomia: è vero secundum quid “Io dico il falso”, ma non
ne segue che sia vero “è vero che io dico il falso” – infatti, simpliciter “è falso che
io dico il falso”. I due aspetti secondo cui predicare il valore di verità sono tali
che devono essere contemporaneamente soddisfatti per parlare di implicazione
valida, e nel caso in esame non possono esserlo. L’enunciato “Io dico il falso,
quindi è [valore di verità] che dico il falso” rinvia a un concetto che non è mai
soddisfacibile formaliter, semmai solo da punti di vista parziali, quali ‘simpliciter’
o ‘secundum quid’. Il punto è che limitandosi ad uno solo di questi punti di
vista non si può parlare di inferenza logica valida: essi sono entrambi necessari
per l’inferenza logica. Dunque, la proposizione è falsa nel denotare che “falsitas
est in actu signato”, dato che come già detto è priva di denotazione, e la stessa
proposizione è vera nell’enunciazione “veritas est in actu exercitu”, ossia è vero
che sto parlando sul falso, dato che l’oggetto del mio parlare è falso.
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 141

Le attribuzioni di verità secondo la prospettiva ‘simpliciter’ e secondo la


prospettiva ‘secundum quid’ non possono mai assurgere al livello della verità
logica, a meno che la verità ‘simpliciter’ e quella ‘secundum quid’ non coinci-
dano, ed allora si parla di verità tout court, nel lessico scotiano formaliter: si noti
che come il principio di contraddizione è valido formaliter in quanto relativo alla
Super-Contraddizione, ossia relativo à ciò che esula da ogni mondo possibile e
quindi impossibile anche per Dio, similmente la verità formaliter è quella che
tiene conto della completezza dei mondi, sia il mondo attuale, sia i mondi
possibili. Non si tratta della verità di Dio se per questo si intende l’insieme di
verità conosciute da Dio, ma è la verità che è predicata secondo il Suo criterio,
che è poi quello oggettivo e universale, ossia la verità rispetto alla totalità della
realtà, e non solo limitata all’esistente del nostro mondo attuale (la verità em-
pirica, del resto tutti lo riconoscono, non è isomorfa alla verità logica: si pensi
che la nozione di identità “1=1” non è isomorfa alla nozione di similitudine “la
volpe è simile alla faina”) 64. Il punto è che per Scoto la verità è un fatto

64 Questa idea ritorna anche nelle Quaestiones miscellanae, edite da Wadding che la critica

non riconosce piú a Scoto, ma che si muovono nella problematica scotiana: nella q. 2, n. 5,
riprendendo motivi dal commento agli Elenchi aristotelici, q. 54 (opera che la critica attri-
buisce a Scoto), si argomenta che anche per concetti astratti, come la volontà e l’intelletto in
Dio, la proprietà “essere bianco” non è equivalente a “essere totalmente bianco”, tanto che
una cosa può “essere bianca” (ma non totalmente) e “essere nera” (ma non totalmente).
Cosí, la volontà divina è identica all’intelletto divino, ma non totalmente (i.e., è falso che la
volontà non sia identica all’intelletto), tanto che l’intelletto divino e la volontà divina non
sono distinti. L’assenza di distinzione non implica identità (assoluta): e questo sebbene si
accetti che non si dia medio nella contraddizione (ma si deve leggere Super-Contrad-
dizione?). Il punto è che il principio di bivalenza non si applica: se l’esempio del bianco e
nero possa far pensare ad una confusione dell’autore tra somiglianza (graduale) e identità
(che non lo è), l’autore stesso sembra consapevole di asserire che proprio l’identità logica è
graduale. Insomma, in questo passo si asserisce una concezione gradualista della verità.
L’autore di questa questione era veramente fedele discepolo di Scoto se nei Reportata pari-
siensia, IV, d. 10, q. 4, n. 16, discutendo dei vari ‘ubi’ del corpo di Cristo (queste considera-
zioni sull’ontologia dello spazio si connettono direttamente al problema della verità, si veda
per esempio Lectura, II, d. 2, pars 2, q. 5-6 De loco angelorum, § 296) leggiamo “nec sequitur,
est dissimilis, ergo nullo modo est similis; sed est fallacia” (del resto, in questo contesto di
discussione sull’Eucarestia, afferma che è invalido inferire “è in quiete, quindi non si muove” –
il luogo parallelo dell’Opus oxoniense è IV, d. 10, q. 4, n. 11, in cui emerge in maniera un poco
confusa che il corpo di Cristo è in Cielo e nell’ostia consacrata, quindi si dà una contraddizione
vera – si noti che la difficoltà è qui data dalla tesi dei punti di vista, prima facie aristotelica, ma
che a tratti emerge per Scoto essere una tesi piú sofisticata, per cui la predicazione è assoluta
142 CAPITOLO TERZO

oggettivo, ed un universo di discorso parziale, per esempio solo quello ‘secun-


dum quid’, predicherà la verità in modo parziale. Questo significa impedire la
validità delle inferenze logiche in cui la predicazione di verità è inclusa nella
conseguenza – dato che tale predicazione di verità è necessariamente parziale.
La verità secondo un punto di vista è una verità pickwickiana, la verità stricto
sensu è solo una verità oggettiva (ossia, unica 65): qui, mi pare chiaro come la
soluzione scotiana sia radicalmente anti-aristotelica, dato che rigetta lo spirito
dell’insolubile che è vero secondo un punto di vista, falso secondo un altro.
L’insolubile, invece, è vero-e-falso secundum quid oppure simpliciter, oppure non-
vero-e-non-falso per la verità assoluta: se noi leggiamo Thomas Bradwardine,
che scrive dopo Scoto, possiamo trovarvi non già la stessa soluzione (come
Scoto, però, Bradwardine rifiuta l’applicabilità della bivalenza tout court all’og-
getto dell’insolubile 66), bensí un approccio che dà spazio a tesi paraconsistenti 67,

solo quando tutti i punti di vista producono lo stesso esito, altrimenti l’oggetto è bianco-e-
nero, vero-e-falso, senza poterne dedurre che è vero, oppure che è nero).
Infatti, nella q. 54 del suo commento agli Elenchi, Scoto argomenta che uno scudo
bianco e nero (colorato per metà nero e per l’altra bianco) deve dirsi bianco secundum quid e
nero secundum quid. La soluzione arriva per esclusione: non si può dire nero secundum quid e
bianco simpliciter, dato che per ragioni di simmetria si dovrebbe dire pure bianco secundum
quid e nero simpliciter (le due essendo equivalenti, si escludono a vicenda), né si può dire
bianco-e-nero simpliciter, perché i contrari sarebbero veri, e neppure né bianco, né nero, perché
vi sarebbe una metà bianco-e-nera (e questo argomento mi pare oscuro, a meno di non
intendere che la negazione è sempre negazione di un’affermazione, e dato che l’oggetto non ha
un altro colore – giallo, per esempio, poiché sappiamo che sulla sua superficie vi sono il bianco
e il nero – per dire che non è bianco e non è nero dobbiamo rispettivamente osservare che è
nero e che è bianco). Fondamentalmente, lo scudo resta uno, un solo oggetto.
65 Distinguere tra diversi sensi dell’impiego del termine “verità” e dell’aggettivo “vero”

è possibile, ma si tratta di una spiegazione, resta che la verità è una e una sola, ossia univoca
come l’essere. Scoto potrebbe parlare di un senso semantico della verità, in quanto sono le
proposizioni ad essere vere (è vero che 2 piú 2 fa 4), e di un senso eidetico della verità, in
quanto conformità a concetti (2 piú 2 uguale a 4 è una vera addizione), e ancora di una verità
epistemica, in quanto conformità ai modi di conoscenza (il vero nome della somma è
addizione) – cosí distingue il filosofo analitico del diritto Amedeo G. Conte. Tuttavia, a
partire dall’ontologia dei mondi possibili e dal realismo modale, la verità secondo tutti gli
stati di cose compossibili è univoca, e la verità rimanda sempre (anche se non attraverso una
mera corrispondenza – in gioco è l’intuizione delle Forme universali, le formalitates) a stati di
cose (per un realista, anche una relazione, che per un nominalista sarebbe un concetto, è una
res, una cosa).
66 La problématique des propositions insolubles, 300, § 7.02. La bivalenza accettata da

Bradwardine per gli insolubili è quella espressa con l’aut (o l’una o l’altra, ma non entrambe,
297, § 6.02: in quanto proposizioni auto-riflessive, il paradosso si ferma con l’unicità del
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 143

senza accettarle in ultima istanza 68, per concludere che in senso proprio (Paolo
Veneto dirà “adeguato”) l’insolubile è sempre falso.
Scoto blocca sul nascere l’antinomia non solo affermando la rilevanza del-
l’implicazione logica, ma pure rinunciando all’universalità del principio di biva-
lenza. Ancora una volta, secondo lo spirito della scelta paraconsistente, non si
tratta di negare assolutamente il principio di bivalenza (non è mai vero che
a∨¬a), quanto di negare che sia sempre vero. Infatti, il principio di bivalenza è
qui falso, ed in generale è vero solo quando i due modi di riferirsi al valore di
verità della proposizione coincidono: il testo di Scoto (n. 3) è quanto mai espli-
cito quando deve fronteggiare l’obiezione secondo cui “sic incipiendo, Ego
dico falsum, aut dicit verum, aut falsum”, ma non entrambe, vero-e-falso, repli-
ca senza esitare “Dico quod dicit propositionem, quae est falsam” 69. Per potere
asserire che una proposizione è vera oppure è falsa, ma non entrambi i valori di
verità, occorre che si possa attribuirle un valore di verità univocamente, ossia
che applicando il criterio ‘simpliciter’ e quello ‘secundum quid’ i due esiti di
verofunzionalità coincidano: in questo caso è formaliter vera, secondo un rap-
porto di identità (con l’ontologia del mondo) e non di rappresentazione, somi-
glianza o qualsivoglia altra idea di natura epistemica. Se coincidenza non c’è, la
bivalenza è sconfessata direttamente, dato che per un criterio è vera, per l’altro
è falsa, ed i due criteri sono oggettivamente necessari. Essi, infatti, concorrono

valore di verità), non già con il vel che vale per le proposizioni in genere (una delle due o
entrambe – secondo punti di vista differenti), in un complesso rapporto che rinvia alla sua
soluzione basata sul rapporto tra simpliciter e secundum quid, soluzione che sarà ripresa da
Paolo Veneto, come vedremo nel seguito. Mi pare che Bottin non abbia colto appieno que-
sta questione nel suo commento (F. Bottin, Le antinomie semantiche, 83-85).
67 La problématique des propositions insolubles, 238: Roure legge la tesi di Bradwardine in

senso aristotelico (“si aliqua propositio significat se non esse veram vel se esse falsam ipsam,
significat se esse veram et est falsam”, 298 – un errore di stampa premette “non” a “esse
veram”, tanto che Roure traduce “elle est vraie” a 238 e tutte le spiegazioni di Bradwardine
rinviano a questo significato – 299-300: forse vi è lo zampino di un correttore di bozze
classicista!), ma mi appare un approccio classicista che semplifica la problematicità di una
soluzione che pure si pretende aristotelica.
68 La problématique des propositions insolubles, 304-305, § 7.10.
69 Bradwardine riprende e difende lungamente l’idea, al contrario di Scoto, che si dia

un solo valore di verità dell’insolubile, ossia la falsità, instaurando una gerarchia tra simpliciter
e secundum quid (che mi pare esclusa senza ambiguità da Scoto), e lo fa escludendo che
l’insolubile possa dirsi vero vel falso, ma piuttosto vero aut falso, allo scopo, mi pare, di pre-
cisare la centralità del significato proprio dell’insolubile (La problématique des propositions
insolubles, 300-302).
144 CAPITOLO TERZO

a pari titolo a determinare il valore di verità di una proposizione: se si rinuncia a


questa idea, peraltro specifica del dibattito logico medievale, si rinuncia a uno
strumento strettamente semantico per risolvere le antinomie dell’auto-riferi-
mento. Resta il fatto che Scoto non pare avere dubbi sull’efficacia e sul fonda-
mento ontologico di questa concezione della verofunzionalità. In effetti, quan-
do dico “io dico il falso”, dico una proposizione vera e falsa, dato che ‘simpli-
citer’ e ‘secundum quid’ non possono mai essere completi assetti di attribuzione
della verofunzionalità: ambedue considerati, la proposizione “io dico il falso” è
vera-ed-è falsa. E se considero solo uno dei due modi (necessariamente
complementari) di riferirsi al valore di verità, tanto che il principio di bivalenza
diviene una tautologia secondo il criterio parziale (nella prospettiva ‘simpliciter’,
“io dico il falso” è vera o falsa; nella prospettiva ‘secundum quid’, “io dico il
falso” è vera o falsa), la conseguenza che afferma la bivalenza diviene invalida,
dato che afferma come tautologia generale (la bivalenza) una proposizione che
non lo è – il controesempio consiste banalmente nel considerare l’altro modo di
attribuzione della verofunzionalità. Scoto asserisce chiaramente, e si tratta del
passaggio centrale che non può essere relegato a mero inciso: “propter conve-
nientiam in re inter dictum secundum quid, et simpliciter, quandoque nescimus
distinguere inter falsum secundum quid et simpliciter” (n. 2). Non si tratta di
un’osservazione psicologica, si tratta di una tesi ontologica rapportata alla
conoscenza umana. Nel nostro mondo attuale, nel mondo degli oggetti esterni
al nostro corpo per esempio, i due criteri di verità coincidono; tuttavia nel caso
di una proposizione autoreferenziale - il cui oggetto proposizionale è il suo
valore di verità - si può verificare una non-coincidenza. Il punto è che qui,
come nel caso dell’argomento “Dio esiste, quindi questo argomento non è
valido”, siamo di fronte ad un controesempio rispetto ad una presunta rego-
larità troppo affrettatamente affermata. La proposizione “Io dico il falso” ha la
particolarità di possedere un oggetto che non è spazio-temporale (la sua denota-
zione è inesistente), bensí un oggetto proposizionale (il valore di verità): Scoto,
realista metafisico, li considera entrambi oggetti reali. Ma a differenza del reali-
sta logico Russell che ricorre alla teoria dei tipi per risolvere l’antinomia del
mentitore, per Scoto la proposizione “Io dico il falso” è ben formata (per
Russell, è invece, mal formata: Russell è un formalista logico, Scoto, come tutti i
medievali, opera con la sua logica formale sul linguaggio naturale, quindi non
può negare che “io dico il falso” sia una proposizione). Due criteri di verità, la
cui coincidenza assicura l’identificazione del valore di verità logico: per “Io dico
il falso ”, avremo che in un senso essa è vera-e-falsa, e in un senso essa non è
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 145

né-vera-né-falsa, se il valore di verità è inteso universalmente (ma dirla indiffe-


rente sarebbe sistematicamente fuorviante).
E’ possibile leggere in Bochenski, Formale Logik (München 1956, § 35) che
il logico medievale Paolo Veneto riscontrerebbe in questa strategia argomentati-
va una differenza tra l’uso e la menzione, e un’identificazione dell’antinomia
con la fallacia dell’equivocazione. Credo che Paolo Veneto, il quale ripete la
soluzione di Bradwardine, non comprenda Scoto, perché non può compren-
dere una prospettiva paraconsistente: la stessa proposizione ha due differenti
valori di verità, nel modo in cui anche Paolo Veneto (Logica Magna, II, 15) ci
parla del significato ordinario e del significato proprio (una proposizione pro-
pria significa - ‘A significa p’ - 1) il suo denotato semantico - ‘p’ - e 2) che la
proposizione è vera - ‘A è vera’). Una proposizione possiede un unico valore di
verità quando il significato ordinario e il significato proprio hanno lo stesso va-
lore di verità. La soluzione di Paolo Veneto, comunque, si accorda perfet-
tamente con la logica classica, dato che per lui il significato logico è quello
proprio. Mentre per questo filosofo tardo-medievale si tratta di considerare
difettoso il significato ordinario, per Scoto il criterio verofunzionale ‘simpliciter’
e quello ‘secundum quid’ generano per la coincidenza dei loro esiti il valore di
verità logico. Ma non vi è alcuna gerarchia tra i due, e soprattutto nessuno dei
due produce l’antinomia: Paolo Veneto, fedele alla tradizione classicista, non
poteva comprendere la conclusione per lui mostruosa che “io dico il falso” è
vera e falsa, e che da “io dico il falso” non segue né che “è vero che io dico il
falso”, né che “è falso che io dico il falso”. La soluzione scotista del Mentitore è
paraconsistente, quella di Paolo Veneto (e già di Bradwardine) è classicista.

Vediamola.

Significato ordinario Significato proprio


1) A significa: A è falsa 1) A significa: A è falsa
2) Se A significa p, A è vera sse p 2’) Se A significa p, A è vera sse
(A è vera e p)
3) Se A significa p, allora A è falsa sse 3’) Se A significa p, A è falsa sse
¬p ¬ (A è vera e p)
4) A è falsa sse A è non vera 4) A è falsa sse A è non vera
Sostituendo ‘p’con ‘A è falsa’ in 2), Sostituendo ‘p’ con ‘A è falsa’ in 2’),
5) A è vera sse A è falsa 5’) A è vera sse (A è vera e A è falsa)
Per 4), Per 4),
146 CAPITOLO TERZO

6) A è vera sse A è non vera 6’) A è vera sse (A è vera e


A è non vera)
7) A è non vera 7’) A è non vera
Per 4), 8) A è falsa Per 4), 8’) A è falsa
Sostituendo ‘p’ con ‘A è falsa’ in 3), Sostituendo ‘p’ con ‘A è falsa’ in 3’),
9) A è falsa se A è non falsa 9’) A è falsa sse ¬ (A è vera e
A è falsa)
Per equivalenza,
10) A è non falsa 10’) A è falsa sse vel A non è vera
vel A non è falsa
Per 4),
11’) A è falsa sse vel A è falsa
vel A non è falsa
12’) A è falsa
8) e 10) sono contradittorie A è falsa

Ma Scoto non ci parla di due modi di enunciare, l’enunciazione denotante


e quella meramente di enunciazione, posizione che è quella di Paolo Veneto,
Scoto ci parla di due modalità (oggettivamente reali) di attribuire il valore di
verità. Nel caso in cui A=“Ego dico falsum”, non si tratta di due punti di vista
riguardo ad A, è vero che A ed è falso che A. Non c’è da sorprendersi se Scoto
non sia stato compreso in questa chiave, se non da certi suoi competitori teo-
logici come Gregorio da Rimini, in un contesto, quello dell’onnipotenza divina,
che dopo l’insegnamento di san Pier Damiani, rendeva meno “shockante” la
violazione del principio di contraddizione. E’ solo se si accetta di rimuovere
ogni contro-intuitività all’approccio paraconsistente che si può leggere Scoto
nel modo in cui ho proposto; altrimenti, sarebbe come perorare la causa del-
l’assurdità.

IV. L’ontologia dei mondi

La teoria sincronica della modalità, che mi appare una razionalizzazione di


profonde esigenze mistiche (tra cui la tesi di san Pier Damiani sulla possibilità
divina di modificare il passato), si distacca radicalmente dalla concezione dia-
cronica della modalità. Il realismo modale di Scoto affronta un punto già ana-
lizzato nel Talmud e nella Kabbalah: la trascendenza assoluta di Dio è una buo-
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 147

na ragione per credere che ci sono contraddizioni vere (teyku) 70. Le aste dell’arca
sono visibili e invisibili, Dio crea il mondo ritirandosi da esso e Dio è sempre e
comunque nel mondo. Nello Zohar 71 la libertà della volontà umana è illustrata
con il ricorso ai mondi possibili, certo il linguaggio non è formalizzato, ma
l’idea è presente: l’onniscienza divina non necessita poiché la volontà umana
produce contingenza nella realtà di differenti mondi possibili (non dico reali nel
senso di Lewis, ma almeno reali nel senso di Scoto, ossia indipendenti dalla
nostra mente). La creazione delle cose è un atto della volontà divina, non del
suo intelletto: questo è il volontarismo di almeno una delle tradizioni ebraiche
(innanzittutto, Salomon ibn Gabirol, tradotto in lingua latina e rapidamente
diffuso, ma anche Nachmanide, protagonista della disputa di Barcellona), ed è
anche il volontarismo della scuola francescana. La causalità riguarda la volontà
(essa è contingente, è un potere contingente), non è una questione di ragione (o
di ragioni). La scuola francescana si colloca nella tradizione di una strategia
filosofica ebraica che rende conto della trascendenza divina e del suo rapporto
con il mondo attuale: questa tradizione non utilizza strumenti aristotelici, per la
semplice ragione che Aristotele non ammetteva nei fatti che la metafisica era
tenuta a spiegare un insieme di fatti che corrispondono a verità della fede giu-
daico-cristiana. La credenza cristiana (ricorrente nelle esigenze della prospettiva
francescana) nell’assoluta contingenza del mondo attuale conduce a pensare la

70 Lo studio di riferimento è quello di Louis Jacobs, Teyku. The Unsolved Problem in the
Babylonian Talmud, London 1981. Jacobs cerca di mostrare che un problema irrisolto, ba’ya,
nella tradizione talmudica si precisa sotto l’etichetta di teyku in quella che si può ritenere una
contraddizione vera, anzi, dato il contesto normativo del discorso, di veri e propri dilemmi
morali: il problema è irrisolto per sempre, ossia è vero che A e non-A. Per la teoria morale
l’affermazione dell’esistenza di genuini dilemmi morali è un risultato della massima impor-
tanza. Credo che l’esame sistematico di tutte le occorenze di questo termine nel Talmud
babilonese permetta di respingere tutte le spiegazioni conformi della logica classica – ten-
denti a banalizzare la formula teyku ( 290-294) - e faccia del libro di Jacobs un testo fonda-
mentale per la storia del pensiero paraconsistente. Quello che deve essere sottolineato è che
questo accade nel contesto razionalistico della scolastica ebraica, e non solo laddove ci si
poteva ben aspettare di trovarlo, ossia nel contesto del gusto spiccato per il paradosso (ap-
parente) religioso tipico dei kabbalisti ebraici. Del resto, quello che si considera uno spiccato
gusto del paradosso (come dice lo stesso Jacobs, 310) non è forse nient’altro che una
attenzione estrema alla trascendenza divina.
71 Per un ebreo che nutre fiducia nel pensiero esoterico lo Zohar è antico quanto il

Talmud (e tuttavia il Talmud è la legge divina, mentre lo Zohar ne è interpretazione); resta il


fatto che il testo ne venne redatto verso la metà del XIII secolo, lo stesso periodo in cui si
forma la scuola francescana. Coincidenza cronologica, circolazione di idee.
148 CAPITOLO TERZO

contingenza radicale di ogni stato di cose attuale (determinato contingen-


temente da Dio o da un essere umano) 72, tanto che solo il passato possa essere
necessario: in una linea di radicalizzazione, anche se Scoto non afferma espli-
citamente che il passato non è necessario, resta il fatto che la sua riflessione teo-
retica pone le premesse di uno sviluppo nella direzione dell’affermazione per
cui il passato è contingente per Dio. Noi facciamo l’esperienza di non potere
cambiare il passato, ma Dio può farlo: Michael Dummet vi ha consacrato un’at-
tenzione analitica, e pare che la retro-causazione sia possibile, e la preghiera è
l’esperienza religiosa di questa possibilità73. Cosí uno scotista può fornire una
giustificazione razionale dell’intuizione mistica presente nella fede cristiana: Dio
può ridare la verginità ad una donna che l’abbia persa, e ne seguirebbe che ella
non ha mai perso la verginità (Duns Scoto, Reportata parisiensia, IV, d. 1, q. 5
Utrum in circumcisione conferebatur gratia, n. 5; Opus oxoniense, IV, d. 1, q. 6 Utrum in
circumcisione ex vi ejus collata fuerit gratia). Non si tratterebbe di un evento miraco-
loso che determina un evento fisico eccezionale, ossia un mutamento inusuale
nel corpo di una donna, si tratterrebbe di una finestra aperta di Dio sulla realtà
dei mondi possibili con cui muta la concatenazione di ciò che chiamiamo
passato nel nostro mondo attuale. Questo è possibile perché per Dio il tempo
non possiede una proprietà ontologica 74 - e quindi non la possiede in assoluto,

72 Ordinatio, I, d. 2, pars 1, q. 1-2, 86, ex n. 21: “non voco hic contingens quodcumque
non-necessarium vel non-sempiternum, sed cuius oppositum posset fieri quando illud fit:
ideo dixi ‘aliquod contingenter causatur’, et non ‘aliquid est contingens’”. Tenendo a mente
che la dottrina della volontà che meglio si associa a questa posizione è quella espressa nei
Reportata parisiensia, II, d. 25, q. unica, si vedano pure sulla causalità Opus oxoniense, IV, d. 13,
q. 1, n. 37 (la causa seconda è subordinata alla prima anche in assenza di impulso specifico
di quest’ultima, tanto che la sua azione è determinata anche a difetto di azione parallela della
causa prima – e libera -; Scoto sintetizza qui le argomentazioni della precedente Opus oxo-
niense, IV, d. 12, q. 3, n. 10 sull’azione diretta ed immediata della forma sostanziale – paral-
lelamente nei Reportata parisiensia); Opus oxoniense, IV, d. 43, q. 3, n. 21-22 (supremazia asso-
luta della causa equivoca, in quanto emanante da un agente libero – parallelamente nei Repor-
tata parisiensia); Opus oxoniense, IV, d. 48, q. 2, n. 5; Reportata parisiensia, IV, d. 48, q. 2, n. 20
(entrambi centrati sulla volontà divina che causa il movimento delle sfere celesti, secondo
una modalità che non è né naturale, né violenta, bensí neutra rispetto ad entrambe, ossia la
possibilità della volontà di volere una cosa e il suo contrario).
73 Michael Dummet, Truth and Other Enigmas, Cambridge Mass. 1978.
74 Per una riflessione contemporanea, P. Helm, Eternal God, Oxford 1988, tra i cui

capitoli in particolare il cap. 6, ‘Timelessness and Foreknowledge’. Riprendendo Alvin


Plantinga (On Ockham’s Way Out, in Faith and Philosophy 3 (1986) 235-269), usa la nozione di
‘accidentalmente necessario’, come ciò rispetto al quale non si dà un’azione che io possa
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 149

mentre resta un fatto fenomenologico che noi facciamo l’esperienza del tempo
nel nostro mondo attuale.
La magistrale analisi della Lectura I, d. 39 condotta dal Research Group
John Duns Scotus è cruciale. Per Aristotele, “change consists of state of affairs
which are successive in time but necessary on their own. But then, even change
itself must be necessary”. Per Scoto, “real contingency implies that the opposite
is possible for the same moment .. we call this contingency synchronic” -
“Scotus’ theory of synchronic contingency can be regarded as the cornerstone
of so called possible worlds semantics, which have recently been developed in
modal logic”.
Leggiamo per esempio, Duns Scoto, Reportata parisiensia, IV, d. 16, q. 2, n.
13 (il passo dell’Opus oxoniense è dello stesso tenore, ma meno esplicito nella
direzione della teoria dei mondi possibili, anche se Scoto vi parla di una “succe-
dentia sibi realiter, vel possibiliter” che è un’affermazione di realismo modale):

unde voluntas divina in instanti eodem aeternitatis istum obligatum per intel-
lectum suum pro instanti A, peccaturum, ordinat volitione aeterna pro eodem
instanti puniendum, vel damnandum, et istum obligatum tanquam poeniturum
pro B, non ordinat puniendum pro B, et ita vult opposita, concedo; sed non pro
eodem instanti et sic sunt in Deo mille, imo centum millia volitionum puniendi
istum, et totidem non puniendi istum, pro diversis instantibus temporis, et tamen
in eodem nunc temporis, sicut ille potest successive in diversis nunc temporis
offendere Deum, et placare offensam eius.

Scoto dice nell’Opus oxoniense che non si tratta di contraddizione tra A e B


(rectius, Super-Contraddizione), dato che la punizione si deve effettuare in un
momento determinato, se si procede al giudizio del peccatore; e se non si
procede al giudizio, il fatto che il peccato sarebbe punibile, non produce alcuna
conseguenza. L’idea chiara che emerge è che la liceità della punizione è
assolutamente legata alla volizione divina, ad una volontà che pure nell’im-
mutabilità divina è legata ad una molteplicità innumerevole di volizioni (condi-
zioni dell’intervento di Dio nella storia umana) e che perciò tale liceità non può
mai essere congelata da una regola intellettuale umana. Possiamo dire che il tal
peccatore è considerato validamente punito da Dio solo quando Dio l’ha effet-
tivamente punito; a difetto, possiamo sapere solo che se lo avesse giudicato, lo

compiere per mutarlo: se si vuole negare la necessità del passato per Dio, basterebbe dire,
aggiungo io, che mentre il passato è accidentalmente necessario per noi, non lo è per Dio.
150 CAPITOLO TERZO

avrebbe punito oppure no. Ecco che il reticolo normativo oggettivo è costituito
da un’infinità di volizioni intorno alla punibilità di ogni agente morale, per un
certo momento, senza imporre che tale punibilità o assoluzione debba avere
luogo, dato che essa è volontà divina solo se si opera il giudizio. Un’immensa
struttura ad albero, in cui ogni ramificazione è legata ad una genuina alternativa
morale, ed in cui un percorso nell’albero rappresenta gli stati di cose che si sono
realizzati in un mondo possibile. La volontà divina è cosí compatibile con la
nostra libertà, ed ancora prima la Sua libertà non è imbrigliata dalla Sua bontà: il
prezzo ontologico da pagare è il realismo modale - tutto il possibile, anzi tutto il
compossibile rispetto a un dato insieme, è reale, in almeno un mondo possibile
– e la rinuncia ad una normatività intellettualistica.
Dio è fuori dal mondo, in quanto ne è il Creatore, ma Egli è nel mondo, in
quanto ogni fatto morale riguarda un agente morale, ossia un agente libero, sia
Dio oppure una creatura libera. Dio agisce nel mondo, e questo è possibile in
quanto il tempo non possiede uno status ontologico. Infine, spiegare come Dio
possa intervenire nel futuro umano non è metafisicamente piú facile di spiegare
come possa interferire con il passato dell’uomo - la nozione di teyku, di contrad-
dizione vera, è necessaria. Infatti, Dio per intervenire nella storia umana deve
volere un qualcosa, e questa sua volizione sembra prima facie essere un cambia-
mento nella semplicità di Dio stesso: i rabbini talmudici risolvevano la questio-
ne affermando che di Dio non si predicano attributi della sostanza, bensí solo
attributi dell’azione. Dato per scontato che questo intervento divino nella storia
è irrinunciabile per chi crede nella Rivelazione (essa è intervento nella storia), e
dato per acquisito che non si può predicare di Dio predicati antropomorfici
temporali come quelli che si attribuivando alle divinità pagane umanoidi, ne
deriva la necessità di una contraddizione vera, di un Dio trascendente alla realtà
dell’esistente e immanente alla realtà dell’esistente. Per il Dio immutabile, inter-
venire nel futuro dell’uomo non è piú facilmente spiegabile del fatto di
intervenire nel passato dell’uomo: solo un ingenuo pensiero pagano che conce-
pisce la divinità come un super-uomo può attribuirgli poteri che l’uomo non ha,
in una sostanziale continuità con l’antropologia umana. Ecco il Dio previsore
(umanoide) perfetto, ecco il Dio capace di viaggiare e modificare il passato
come i personaggi di un romanzo di fantascienza. Duns Scoto, però, è un pen-
satore cristiano, e il Dio di cui parla è nient’affatto antropomorfico: la volizione
divina che si è esercitata nell’atto creatore ex nihilo non fissa una realtà immu-
tabile, per il fatto che noi esperiamo che non possiamo cambiare il passato.
Dio, con la Sua volizione, attribuisce il predicato dell’esistenza a stati di cose, e
gli stati di cose si succedono in un ordine che non è per lui temporale (ma per
UNA LENTA EROSIONE DELLA FEDE CLASSICISTA 151

noi, che non possiamo passeggiare ‘indietro’, lo è). Per Dio, agire su quello che
noi chiamiamo futuro o agire su quello che noi chiamiamo passato è del tutto
equivalente al fatto di agire su quello che noi chiamiamo presente: Dio vuole, e
il predicato dell’esistenza è attribuito. Chi potrebbe pensare che Dio non può
modificare il passato perché contraddirebbe la memoria umana di un passato
diverso? La memoria umana, cosí misera e imperfetta, sbeffeggiata da tanti
filosofi come Hume, sarebbe una catena per Dio? Ogni tesi è lecita, ma questa è
del tutto incompatibile con la fede in un Dio onnipotente e trascendente. Certo,
sarà anche vero (rispetto alla realtà) che io mi ricordo di avere mangiato una
manciata di ciliegie, mentre è vero (rispetto all’esistente, secondo la volizione di
Dio) che non ho mai mangiato ciliegie in vita mia. Se il principio di contrad-
dizione classicista deve fare vacillare la nostra fede in Dio, allora ecco l’enn-
esimo argomento per rinunciare a tale principio. In realtà, quando Dio cambia il
passato, non si produce alcuna Super-Contraddizione, forse delle piccole-
contraddizioni vere, ma questo è del tutto ‘normale’.
CAPITOLO QUARTO

RAGIONI MORALI
PER UNA SCELTA PARACONSISTENTE

In nobis enim voluntas ex libertate potest contra


inclinationem naturalem moveri, numquam tamen
per se vult non scire, sed per accidens, quia aliquid
magis vult actu elicito - ut pigritiam vel non-
remorsum conscientiae - quam scire ad quod est
inclinatio naturalis
Quaestiones Metaphysicorum, I, q. 2, 44, ex n. 8

Sed non credo quod actus charitas habeat actum


contrarium oppositum, quia non potest Deus odiri
ab aliqua voluntate .. Non ergo peccatum in Spiritum
sanctum est odium Dei, quia formaliter non potest
odiri.
Reportata parisiensia, II, d. 43, q. unica, n. 5

Damnatus odit Deum vel potest Deum odire;


non oportet quod praecedat in ratione dictamen
quod ‘odium Dei sit bonum’, sed sufficit quod
ostendatur nude
Lectura, II, d. 43, q. unica, § 5

I. Filosofia pratica

La concezione scotista della volontà, attraverso il gioco tra modello divino


e modello umano, pone un modello paraconsistente per la filosofia pratica 1. La
sua radice ultima, al di là del pur fondamentalissimo modello operativo della

1 Per un modello di logica paraconsistente applicata al sistema normativo positivo,

rinvio a Francisco José Ausín, Lorenzo Peña, Paraconsistent Deontic Logic with Enforceable Rights,
in D. Batens et alia, a cura di, Frontiers of Paraconsistent Logic, 29-47. Un elemento tra gli altri
emergente è il fatto che un comportamento non sia proibito non implica che sia assoluta-
mente permesso, bensí solo che è prima facie permesso, dato che in genere la proibizione
della legge ci impedisce di fare ciò che pensiamo sia nostro dovere di fare: in questo senso
riprendono tesi di illustri filosofi del diritto come Alf Ross o Hans Kelsen, ma anche quelle
del metafisico David Lewis (A Problem about Permission, in Essays in Honour of Jaakko Hintikka,
Dordrecht 1979). Fondamentale poi l’idea che il giusnaturalismo non deve necessariamente
accettare l’idea lex iniusta non est lex (40).
154 CAPITOLO QUARTO

contingenza sincronica, risiede nel fatto metafisico per cui, essendo l’identità
della persona metafisica garantita da un ente (la quidditas che è persona indi-
viduale incomunicabile) che è essenzialmente volontà, la possibilità della (pic-
cola) contraddizione non viene affatto a scalfirne identità e persistenza attra-
verso diversi stati di cose. Questo problema si pone certamente per chi colloca
nella sfera intellettuale la radice ultima dell’identità della persona individuale,
come potrebbe essere per Aristotele o per san Tommaso; ammettere contrad-
dizioni vere sarebbe cosí mettere fortemente in pericolo la personalità essen-
ziale di ogni essere umano. Altri sistemi di pensiero hanno accettato approcci
non-personalisti, per esempio molte, anche se forse non tutte, le famiglie di
pensiero buddhiste, e quindi in questi contesti una paventata sgretolazione
dell’identità della persona a causa dell’ammissione di contraddizione vere non si
pone, dato che questa identità personalistica è negata per altri motivi filosofici.
Nella tradizione filosofica occidentale, però, e a piú forte ragione nella tra-
dizione cristiana, il problema dell’identità e della persistenza della persona è
centrale e inescapabile: un approccio intellettualista (primato dell’intelletto sulla
volontà) non può quindi che paventare ogni presunta eccezione al principio di
contraddizione, dato che ne va di mezzo la possibilità stessa della comunica-
zione tra persone, e infine la possibilità stessa di un discorso morale 2. Tuttavia,
un approccio volontarista (ripetutamente riaffermato dalla scuola francescana
nei termini del primato della volontà sull’intelletto, radicalizzato senza mezzi
termini da Duns Scoto) 3 può rinunciare alla validità universale del principio di
contraddizione senza paventare alcun pericolo per la personalità metafisica,
dato che la sua unità si ricollega ad istanze della volontà, dalla divina che crea le
persone a quella umana che è il veicolo dell’attività nel mondo delle singole
persone. Un volontarista non ha paura di ammettere che si possano dare
genuinamente proprietà contraddittorie di una persona, e che si tratti di genuine
proprietà, non già di travisamenti da parte del soggetto che ne parla o del
soggetto che sta osservando quell’individuo dato. La mia osservazione è poco
piú di una suggestione o di una battuta, ma non è un caso se nel mondo
cattolico la pratica clinica psicoanalitica è stata ben piú osteggiata dal mondo

2 È il senso fondamentale di un interessante lavoro di Thomas de Praetere, Le principe

de non-contradiction et la question de l’individualité du sujet, Louvain 1999.


3 Data la grande diffusione nell’Europa occidentale del XII secolo della versione latina

dell’opera di Salamon ibn Gebirol, l’Avicembron latino autore del Fons vitae, è difficile
pensare che la scuola francescana non abbia potuto trarre potenti suggestioni dal volonta-
rismo metafisico che promana da queste pagine ricche e vigorose.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 155

tomistico che non da quello francescano (i motivi di questa ostilità possono


essere tanti e diversi, ecco perché la mia è una mera suggestione). Come osserva
de Praetere in un lavoro recente in cui si consacra ad Aristotele e san Tomma-
so 4, la pratica clinica psicoanalitica inizia con un messaggio inviato dal curante
al paziente: tu hai la libertà di contraddirti, in flagrante violazione di uno dei
codici standard della comunicazione umana 5. Il curante si fa garante dell’unità
dell’identità del paziente, da cui la delicatezza estrema della clinica psicoanalitica
che può produrre disastri, ma anche la sua potenziale efficacia, dato che di
fronte a problemi gravi di comunicazione nel paziente si cerca proprio di porvi
rimedio, intervenendo su ciò che il precetto della non-contraddizione aveva
reso sterile e nefasto. Per un intellettualista si tratta di una folle stravaganza, per
un volontarista di una quasi-banale presa d’atto che le persone godono di pro-
prietà contraddittorie, e che per porre rimedio ad un male che le ha colpite si
avrà inevitabilmente a che fare con tali proprietà. Soprattutto, si tratta di pro-
prietà genuine e di cui il paziente (o colui che si confessa di fronte ad un
ministro) dovrà parlare non per strane convenzioni, ma ben piú semplicemente
perché sono contraddizioni vere.
Tutto rimonta alla potenza infinita della volontà che è produttrice di
contingenza nel mondo, e il discorso morale, in quanto opposto al discorso della
meccanica o della chimica, ha senso solo in legame con l’azione della volontà di
agenti che, in quanto dotati di volontà, sono liberi, e che se non fossero liberi non
sarebbero persone (e questo, per gli esseri umani, non accade mai, assolutamente
mai). Ecco che la filosofia pratica in blocco verte su persone metafisiche libere
che agiscono per volontà e solo subordinatamente per intelletto: ecco che le
contraddizioni vere non solo sono compatibili con l’antropologia filosofica e la

4 Thomas de Praetere, Le principe de non-contradiction et la question de l’individualité du sujet,

cap. 3, in particolare alle pagine 101-110 in cui si descrivono le condizioni della cura
psicoanalitica. Si può anche vedere lo scritto della psicoterapeuta Elisabeth Lukacs, Dare un
senso della vita, Assisi 1983, in cui la libertà di contraddirsi si svolge nel contesto della cura
della logoterapia, una forma di psicoanalisi rivista nel senso di una piú profonda consi-
derazione dei valori morali in gioco.
5 Si noti che il riferimento alla pratica psicoanalitica non è esclusivo; sebbene de Praetere

si limiti ad essa, dato che la psicoanalisi è estremamente diffusa nella vita sociale e gode di con-
siderazione nella cultura del XX secolo – quindi il riferimento ad una pratica paraconsistente è
particolarmente appropriato, a me pare che tutte le pratiche di guarigione personalistiche che si
tramandano nei vari contesti culturali (dallo sciamanesimo ad altre ancora) diano al paziente la
libertà di contraddirsi per conquistare la liberazione dal suo morbo. Il fatto che il guaritore sia
un marginale rispetto al tessuto sociale veicola tra gli altri il significato della paraconsistenza
rispetto al dogma delle convezioni non-contraddittorie socialmente dominanti.
156 CAPITOLO QUARTO

teoria morale scotiana, esse ne sono quasi un dipanamento inevitabile. E come si


distingue tra creatura e Creatore per evitare equivoci panteismi, vi è un momento
essenziale che differenzia la volontà divina da quella umana 6.
Nell’agente umano vi sono due atti positivi della volontà: velle, e nolle. Se si
tratta di un atto efficiente, avremo un atto di volontà (“io voglio che tu vada al
cinema”) che è un precetto (“tu devi andare al cinema”), oppure un atto di
volontà (“io non-voglio che tu vada al cinema”) che è una proibizione (“tu non
devi andare al cinema”). Opportunamente, Scoto invoca la parallela distinzione
tra amare e odiare: odiare non è una mera negazione di amare, è volere l’esatto
contrario di amare; odiare non è la semplice assenza di amore (negazione relativa
dell’amore), odiare è volere il male (non già il bene) per l’oggetto assolutamente
non-amato (e questa negazione è diversa dalla precedente). Se invece si tratta di
un atto remissum – questo significa che è non-efficiente, e si dice anche di compia-
cenza, ma anche la derivazione etimologica prima facie, remissivo, rende l’idea di
che cosa sia un tale atto, ossia un atto non-normativo – siamo di fronte ad una
volizione (“io voglio che tu vada al cinema”) che è un consiglio (“faresti bene ad
andare al cinema” – manca l’effetto normativo, l’obbligo non sorge e si traduce in
consiglio), e una volizione (“io voglio che tu non vada al cinema”) che è un
permesso (“faresti male ad andare al cinema” – dato che non sorge il divieto,
resta che andare al cinema è permesso, anche se male, ossia in una prospettiva di
volontarismo normativo ciò che non è vietato, è permesso). Presso Dio,
ritroviamo la distinzione tra volizione efficax – tale atto dà l’esistenza – e l’atto di
volontà remissa – e in questo caso essa conferisce un modo di essere minimale: mi
pare che la portata metafisica di questa idea sia generalissima, ma in questo
contesto Scoto la utilizza come strumento concettuale per rendere conto della
non-predestinazione da parte di Dio e della non-provenienza del peccato da Dio,
due problemi fondamentali per la teologia cattolica, e per ogni teologia in gene-
rale. Si tratta del problema del rapporto tra l’onniscienza divina e la libertà umana,
tra Dio causa generalissima del mondo e la sua bontà essenziale: esso è affrontato
sistematicamente da Scoto, e esemplarmente nella celebre Lectura, I, d. 39 7. Qui
egli mostra rapidamente come Dio non voglia per Giuda la salvezza, dove il suo
non è un atto positivo di volontà (un nolle), il che lascia a Giuda la libertà di agire

6 Per esempio, in Ordinatio, I, d. 47, q. unica Utrum permissio divina sit aliquis actus

voluntatis divinae, 3-6, 7 (relativamente a Dio), ex n. 2, 8, ex n. 3; e il luogo parallelo nei


Reportata parisiensia, I, d. 47, q. 1-2, n. 1-2. In Dio la volontà si dà innanzittutto come
“potentia nuda”, poi come volizione, infine come indicatore della volizione.
7 Al § 52 di questa distinzione enuncia in maniera cruciale il fatto che velle e nolle si danno

per la volontà nello stesso istante, indifferentemente rispetto ad oggetti oppure ad atti.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 157

per la sua salvezza senza una implausibile contraddizione a posteriori del volere
divino: attraverso la volontà remissa, Dio non vuole (se “vuole” si intende come
“nolle”) la dannazione di nessuno, e nello stesso modo non vuole il peccato nel
mondo. Quando Dio non vuole la salvezza di Giuda, tale dannazione non è
determinata, perché solo la volizione efficax dà l’esistenza. Evidentemente, solo la
semantica dei mondi possibili è capace di mostrare che questa distinzione è ben
piú che un sottile ma sterile gioco di parole: quante discussioni sono state spese
sulle grandi elaborazioni della Seconda scolastica in tema di conoscenza e deter-
minazione divina dei futuri contingenti. Queste discussioni si ripercuotono sino
ad oggi laddove ci si impegna sul terreno della filosofia cristiana, e mi piace ricor-
dare un libro in cui quattro posizioni sulla conoscenza divina dei futuri con-
tingenti sono difese e criticate da quattro autori 8: si tratta della tesi dell’open-theism,
che esplicitamente limita l’onniscenza divina, mostrando che tale limitazione ren-
de conto del testo biblico; della tesi della simple-foreknowledge, che asserisce lette-
ralmente l’onniscenza divina; della tesi della conoscenza media, ripresa esplicita
del molinismo; della tesi agostiniano-calvinista, con l’idea della pre-ordinazione
divina del futuro. Le ho evocate per suggerire al lettore come la posizione del
cattolico Scoto si presenti come un mix della mera-onniscenza (Dio conosce
veramente il futuro) e della conoscenza media (grazie ad una struttura a mondi
possibili del reale), e che tale mix sia possibile grazie alla logica paraconsistente
che fa saltare bivalenza e principio di esplosione.
Mi pare che proprio solo attraverso il realismo modale si possa compren-
dere le affermazioni di Scoto secondo cui rispetto a molte contraddizioni la
volontà divina è ‘neutra’ 9, e in particolare le contraddizioni in cui l’affermazione

8 Si tratta di J. K. Beilby, P. R. Eddy, a cura di, Divine Foreknowledge. Four Views,

Downers Grove Il. 2001 (i contributori sono G. A. Boyd, D. Hunt, W. L. Craig, P. Helm).
9 Interrogandosi sulla possibilità naturale della risurrezione (Reportata parisiensia, IV, d.

43, q. 4, n. 4), Scoto considera che Dio può determinare secondo una ‘potenza passiva
neutra’, un medio modo che non è né naturale, né violenter (ossia, non-naturale), tale che essa
non inclina verso una qualunque forma, e tale che essa non è semplicemente causa del non-
colorato di una superficie né bianca né nera, quanto piuttosto essa è “ad utrumque indiffe-
renter”. Tale potenza mi pare possa interpretarsi con un minimo di coerenza solo come
compossibilità di stati di cose contrari (in Opus oxoniense, IV, d. 43, q. 4, n. 3, ritroviamo la
stessa tesi concettuale: tra ‘naturale’ e ‘violento’ si dà un medio, dato che “non sunt opposita
contraria immediata”, un medio che realizza la contraddizione vera).
Può essere egualmente utile evocare Opus oxoniense, IV, d. 49, q. 14, n. 8-9, in cui
Scoto vuole argomentare in favore della continuità della potenza che permette all’anima di
muovere il corpo nello stato della vita terrena e il movimento del beato nell’aldilà. Egli di-
stingue a tal fine tra una potenza operativa (es.: quella sensuale), che agendo informa se stes-
158 CAPITOLO QUARTO

riguarda un male e la negazione un bene, “unde nec vult, nec non vult”. Si noti
che qui la contraddizione è intesa lessicalmente, ossia A è un male e ¬A è un
bene, tanto che la coppia A et ¬A è una contraddizione, ma essendo il valore di
ognuno dei suoi membri vero-e-falso, allora la coppia diventa vera nell’intel-
lezione divina. Ovviamente, quando la volontà darà l’esistere ad A, allora solo A
sarà vero, perchè parlare di A sarà parlare identiticamente ad uno stato di cose
reale. Nei Reportata parisiensia Scoto si chiede non solo come Dio permetta il
male, ma anche se lo voglia, e forse questa formulazione della domanda gli con-
sente di esprimere la stessa idea con un vigore maggiore: se Dio volesse il male,
allora ne sarebbe causa, il che è inconveniente per tutta la morale cristiana, e se
Dio non potesse impedire il male (se fosse costretto a permetterlo, il che non è
veramente un permetterlo) anche questo sarebbe profondamente sconveniente
per la morale cristiana. E’ a partire da queste due necessità assiologiche che si
dà la violazione della logica classica: Scoto prosegue infatti affermando che tale
contraddizione vera non si dà solo rispetto ai mali accaduti (“è falso che Dio
vuole questo male ed è falso che Dio non vuole questo male”, da cui se valesse
il principio di bivalenza si potrebbe ricavare “è falso che Dio vuole questo male
ed è vero che Dio vuole questo male”), ma anche rispetto ai beni che non esi-
stono, dato che “de illis enim non habet actum voluntatis, et licet nec volit nec
nolit ea esse” – Dio non ha ancora esercitato un atto di volizione rispetto a
questi beni reali (e non esistenti), forse lo farà, forse no, la sua volontà è asso-
lutamente libera, come la nostra che può fare parimenti esistere dei beni, e a
differenza di Dio anche dei mali. Sottolinea ancora poi la differenza cruciale tra
volontà e intelletto affermando che l’intelletto non è ‘neuter’-indifferente rispet-
to alla contraddizione, dato che “determinate apprehendit alteram partem

sa (“potentia operativa recipit suam operationem” - la proprietà che produce modella la sua
identità), tale che non può manifestarsi organicamente e non-organicamente contempora-
neamente, ed una potenza attiva (o fattuale – es., quella del movimento) che invece può
agire contemporaneamente organicamente e non-organicamente (“accidit animae, quod per
unam partem quiescentem moveat aliam”), dato che manifestandosi non informa se stessa.
Scoto osserva che non si tratta di una contraddizione, come se si desse contraddizione solo
in ciò che è assolutamente una cosa e un’altra (la Chimera tante volte evocata), mentre non è
contraddittorio godere di proprietà contraddittorie. Il puzzle si scioglie dicendo che per la
potenza operativa non si dà la proprietà di essere organica e non-organica dato che questo
sarebbe una Super-Contraddizione (tale potenza sarebbe assolutamente A e non-A), mentre
per la potenza attiva si dà piccola-contraddizione vera (tale potenza K gode delle proprietà
A e non-A), con compossibilità di proprietà contraddittorie. Il punto è che l’identità
dell’oggetto metafisico non è scalfita dalla piccola-contraddizione.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 159

contradictionis” 10, ed allora la sua neutralità può essere solo un’apprensione


della vero-falsità dei due membri della contraddizione. Insomma, l’intelletto
vede, senza nessun impegno ontologico che appartiene esclusivamente alla
volontà, che A è affermativa rispetto a non-A, quindi vede la contraddizione
vera in quanto contraddizione vera. La volontà divina la esperisce invece come
spazio della compossibilità su cui non ha esercitato la Sua volizione. Tutto
questo, mi pare, si spieghi solo con il realismo modale. E giustamente nella
Lectura, I, d. 39 la teoria dei mondi possibili si impone come una delle creazioni
piú geniali di Scoto.
Solo sullo sfondo dell’ontologia dei mondi possibili, concepiti da Scoto
secondo un lussureggiante realismo metafisico, si può comprendere l’essenziale
fatto che nella volontà divina “unus actus eius est velle et nolle (et hoc sine con-
trarietate vel dissimilitudine in illo actu in se)” (Ordinatio, I, d. 47, q. unica, 7, ex
n. 2). Si tratta di un ‘potere nudo’, un potere che determina i mondi possibili, e
la contraddizione è una possibilità necessaria, dato che la negazione assoluta di
uno stato di cose buono è uno stato di cose cattivo. Scoto dice quindi senza
ambiguità di sorta che non-velle e non-nolle sono volizioni non-positive – ossia è
vero che non vi è stata la volizione di volere o di non-volere, quando invece è
falso che c’è stata la volizione di non-volere o di non-non-volere -, mentre velle
e nolle sono volizioni positive e reali 11 - la volizione di volere è un atto reale e il

10 Reportata parisiensia, I, d. 47, q. 1-2, n. 2, ad 2um.


11 Ritorniamo a Reportata parisiensia, IV, d. 43, q. 4, n. 4 (anche Opus oxoniense, IV, d. 43,
q. 4, n. 3 - l’idea è quella di un medio che si colloca tra i contrari e i contraddittori, idea
ripresa dalla negazione aristotelica dell’esistenza di tale medio e soprattutto dall’uso bona-
venturiano della nozione di medio come segno della coincidenza degli opposti nelle persone
divine e nelle loro manifestazioni): la nozione di ‘potere neutro’ rinvia alla determinazione di
due proprietà differenti nello stesso momento; “respectu albedinis et nigredinis, quia ad
neutrum colorem se determinat naturaliter, sed ad utrumque indifferenter”. Un potere neu-
tro passivo non solo è contro l’inclinazione (intesa violenter) e non è solo in accordo con
l’inclinazione (intesa naturaliter), bensí sic et sic, i.e. indifferentemente le due cose.
Scoto analizza lo stesso problema in Quaestiones Metaphysicorum, IX, q. 12, 8 (ex n. 2), 12-
13 (ex n. 4), dove parla a proposito della materia di un nuda o neutra potere: non si tratta affatto
del classico potere oboedientialem (e sovrannaturale), dato che questa subordinazione a Dio non
è interessata dall’azione neutra verso Dio nel mondo, il solo essere che non disponga di un
realiter potere passivo (QM, IX, q. 10, 6, ex n. 2). Scoto precisa cosí la nozione di “obbedienza”:
“proprie significat subictionem respectu agentis potentis de oboediente facere quod vult” (11,
ex n. 3). Vale la pena di rimarcare che la nozione di potere è infine quella di un ordine, di un
prima e di un dopo, non necessariamente connesso con il tempo, naturam et tempore – si tratta
dell’ordine dei mondi possibili, in quanto Dio li ha creati (QM, IX, q. 13, 10-11, ex n. 3: “illa
etiam quae simul sunt, in quantum simul, non habent ordinem”).
160 CAPITOLO QUARTO

suo contrario, la volizione di non-volere è un atto reale distinto dal precedente,


non già la sua mera negazione 12. Questo “potere nudo”, che altri potrebbero
rendere con “potere indifferente”, è alla sorgente delle contraddizioni vere
necessarie per conferire esistenza al mondo attuale e per rendere conto della
nostra esperienza morale dei dilemmi morali 13.
Il parallelismo tra la volontà divina e quella umana si gioca sul registro del
libero arbitrio, certo ‘confermatissimo’ nel caso di Dio, che, in quanto vuole,
vuole il bene; ‘confermato’ nel caso di Adamo e di Eva, in quanto godevano
della libertà morale cosí come ne godono i beati; ‘non-confermato’ nel caso
degli esseri umani, che possono volere il bene e il suo contrario. Su altri piani, il
parallelismo si blocca: Dio crea grazie alla Sua volontà, l’uomo non può fare
esistere nulla, solo trasformare – e nella sua condizione di essere faticosamente
soggetto alle regolarità naturali. E la creazione divina opera grazie alla produ-
zione degli stati di cose possibili: al contrario, un essere umano può volere fare
A o fare qualcosa di diverso da A, tale che volere fare A e volere fare non-A
sono due atti della volontà contraddittori e non-compossibili (anche se poi
fenomenologicamente noi siamo immersi in volizioni contraddittorie). Nel
nostro mondo attuale vi sono dilemmi morali, tali che io voglio A perché è
giusto e voglio non-A perché è giusto; a volte il dilemma si elimina con una mi-

12 Si vedano Ordinatio, II, d. 6, q. 2, 34-36, ex n. 3-4; Reportata parisiensia, II, d. 42, q. 1-4, n. 4;

IV, d. 49, q. 4, n. 2; Opus oxoniense, II, d. 21, q. 2, n. 2; II, d. 42, q. 4, n. 13 (queste due distinzioni
non compaiono nell’edizione dell’Ordinatio; il testo non è comunque spurio, ma risalente alla
Reportatio II A); IV, d. 49, q. 5, n. 2; Lectura, II, d. 6, q. 2, § 24; II, d. 21-22, q. 1-2, § 22.
Nella lingua latina medievale nolle A non ha il significato particolare che le assegna
Scoto, e il suo comportamento linguistico è meramente grammaticale, in quanto vale per non
velle A oppure velle il contrario di A – è quello che si legge per esempio nella Summa fratris
Alexandri, I, pars 1, inq. 1, tr. 6, q. 4 De subiectis voluntati divinae, c. 1, ad quintum – l’uso
scotista si ritrova già in un altro frate minore strenuo assertore dell’assoluta libertà della
volontà, Pietro di Giovanni Olivi.
13 Per un panorama di questa nozione nella filosofia moderna, C. W. Gowans, The

Debate on Moral Dilemmas, in C. W. Gowans, Moral Dilemmas, Oxford 1987. Un’altra raccolta
è quella di H. E. Mason, Moral Dilemmas and Moral Theory, New York 1996.
La letteratura sul problema etico dei dilemmi morali è consistente, in un secolo do-
minato da temi come la guerra fredda e la deterrenza nucleare, l’aborto e la fecondazione
artificiale, piú in generale la bioetica come risoluzione di dilemmi pratici: spesso, però, la
parola “dilemma” vi è sinonimo di “problema lacerante”, non già di questione irrisolvibile.
Per indicare un paio di testi che affrontano la questione in maniera piú consapevolmente
teoretica indico qui la recente nuova edizione di Philippa Foot, Moral Dilemmas: And Other
Topics in Moral Philosophy, Oxford 2003, e Walter Sinnet-Armstrong, Moral Dilemmas
(Philosophical Theory), Oxford 1988.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 161

gliore conoscenza delle variabili della situazione esaminata oppure delle regole
del sistema morale che si applica, altre volte nessuna soluzione sembra deli-
nearsi 14. In quest’ultimo caso si ha un genuino dilemma morale, e solo uscendo
dal sistema morale applicato, con regole supplementari oppure nuove regole si
può sperare di trovare una risposta non-contraddittoria 15. Tuttavia, se tale
operazione di uscita dal sistema non si può effettuare dato che si sta applicando
la parola normativa di Dio (e non si dà nulla di superiore a Dio) 16, allora il
dilemma si configura come definitiva contraddizione vera 17. Non è questa l’uni-
ca soluzione, ovviamente: si potrebbe pure sostenere che i due corni del dilem-
ma morale non sono né veri né falsi, per esempio sarebbero strutturalmente
indeterminati, oppure ancora che sono privi di valore di verità, oppure che tra
le proposizioni “devo fare A” e “non devo fare A” non si dia contraddizione
logica, ma solo dilemma morale. Mentre le due prime possibilità sono
incompatibili con un appprocio di realismo dei valori morali – approccio che è
proprio di Scoto e di un pensiero cristiano, la seconda è stata sostenuta da
Lemmon in un classico articolo in difesa dell’esistenza di dilemmi morali 18. La

14 E’ in questo contesto di analisi che David Ross elaborò la nozione di dovere prima

facie, consacrata nel suo The Right and the Good, London 1930. Per una scelta antologica
collegata alla nozione di dilemma morale, si veda C. W. Gowans, Moral Dilemmas, 83-100.
15 Vi è chi sostiene che non esistano dilemmi morali che non siano meramente appa-

renti: cosí Earl Conee, Against Moral Dilemmas, in Philosophical Review 91 (1982) 87-97, e A.
Donagan, Consistency in Rationalist Moral Systems, in Journal of Philosophy 81 (1984) 291-309 (si
difende l’approccio aristotelico-tommasiano), entrambi poi raccolti in C. W. Gowans, Moral
Dilemmas. Classicamente, John Stuart Mill aveva assegnato alla teoria etica (che è per lui
l’utilitarismo) il compito di risolvere i dilemmi morali, che nel suo lessico si riducono a dei
semplici problemi morali.
16 Nel contesto dell’etica del comando divino, rinvio ai cenni di Philip L. Quinn, Divine

Commands and Moral Requirement, Oxford 1978, 38, e Divine Commands Ethics: A Causal Theory, in J.
M. Idziak, Divine Command Morality: Historical and Contemporary Readings, New York 1979, 319-321.
17 Questo comporta l’assunzione che la struttura ontologica del reale comporti

contraddizioni vere: seppure si muova in una direzione che non è affatto quella scotista,
occorre considerare il lavoro di R. Routley, V. Plunwood-Routley, Moral Dilemmas, and the
Logic of Deontic Notions, in Paraconsistent Logic, München 1989, che esamina una varietà di
dilemmi morali (658-663) e conclude affermando l’inevitabilità dei dilemmi morali e la loro
capacità di fare emergere la statura morale di un individuo (683).
18 E. J. Lemmon, Moral Dilemmas, in The Philosophical Review 70 (1962) 139-158, poi

parzialmente in C. W. Gowans, Moral Dilemmas. Sempre raccolto nello stesso volume, anche
il saggio di Philippa Foot, Moral Realism and Moral Dilemma, in Journal of Philosophy 80 (1983)
379-398, si muove nell’ottica classicistica e non giunge a coniugare realismo morale e
genuini dilemmi morali nella prospettiva paraconsistente.
162 CAPITOLO QUARTO

differenza è però piuttosto lessicale: Lemmon sostiene che “ought” e “ought


not” non sono contrari, ma che entrambi possono essere veri (“devo fare A” è
vero e “non devo fare A” è vero). Mi pare che la scelta di Lemmon di non ne-
gare il principio di contraddizione classicista lo metta nella situazione di portare
argomenti persuasivi per esprimerli poi in un lessico meno convincente. Per
preservare l’unità ontologica del reale, un assunto costante nelle analisi di Scoto,
mi pare piú pertinente affermare che poiché “devo fare A” è vero e “non devo
fare A” è vero (come asserisce Lemmon) allora siamo in presenza di una
contraddizione vera. Insomma, si tratta solo di assumere una consapevolezza
paraconsistente, senza nulla mutare alle osservazioni sulla necessità di trovare
risoluzioni ai dilemmi morali: si tratta di una questione di interpretazione delle
norme, e spesso i dilemmi morali a prima vista si mostreranno dilemmi
apparenti dopo un’analisi piú precisa delle variabili in gioco. Forse molti dilem-
mi morali si presentano ai nostri occhi perché adottiamo teorie morali sincre-
tistiche agevolate dalla storia della cultura occidentale 19. Ma il punto è che si
danno pure casi in cui nulla può rimuovere il dilemma, è il caso di teyku, è il
caso di quei dilemmi prodotti direttamente senza mediazione alcuna dalla vo-
lontà divina nomotetica: è grazie a questa ontologia volontarista radicale del
creato che Scoto disegna una teoria etica in cui si danno genuini dilemmi mo-
rali. Altrimenti, accettando un’ontologia meno radicale, sarebbe sempre possi-
bile risolvere un dilemma morale, con le strategie dell’interpretazione norma-
tiva, sino alle sue soluzioni limite che sembrano a volte escamotages o cavillazioni:
i giudici nelle aule dei tribunali lo fanno quotidianamente, e sono contestati o
idolatrati. Ma mentre in una ideologia puramente umana della normatività il
giudice sostituisce Dio, nell’approccio di Scoto solo la volontà divina è il
fondamento della norma 20; in questo modo, gli uomini cercano di risolvere i

19 E’ la tesi di A. MacIntyre, After Virtue, Notre Dame In. 1981: egli ammette però

l’esistenza di un ordine morale oggettivo (134).


20 In un contesto laico, Ruth Barcan Marcus (Moral Dilemmas and Consistency, in Journal

of Philosophy 77 (1980) 121-136, poi in C. W. Gowans, Moral Dilemmas) ha sostenuto che si


danno dilemmi morali anche a partire da un unico principio morale, che nel caso di Scoto
sarebbe la volontà nomotetica divina. Ne segue una differenza rilevante: mentre per Marcus
la risoluzione di un genuino dilemma morale si appoggia su criteri che non necessariamente
godono di giustificazioni morale (detto altrimenti, si deve uscire dalla morale per risolvere
una questione morale), per Scoto la volontà divina assicura sempre la normatività della
soluzione di un dilemma, dato che la volizione divina è norma, quindi giustificazione mo-
rale. Resta vero che l’intervento umano rispetto ad un dilemma morale resta limitato rispetto
al criterio di una piena moralità, visto che si tratta di una contraddizione vera, ossia di una
tensione dialettica irriducibile per noi (non già per Dio) nella realtà morale.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 163

dilemmi, e del resto di fronte ad una contraddizione vera saranno tenuti a sce-
gliere un corno del dilemma, specie quando non-scegliere è già una forma di
scelta (nella vita reale l’astenersi è una forma di azione), ma solo Dio è il pa-
drone del gioco, nel quale la parola “Fine” non potrà che essere il giudizio
misericordioso alla fine dei tempi del mondo attuale. E vi sono pure paralisi
prima facie della volontà, perché voglio fumare e voglio non-fumare, perché
voglio bere calvados come il commissario Maigret e perché non ne voglio bere a
causa del mio mal di fegato 21: a volte sentiamo catalogare queste situazioni
come l’irrazionalità della volontà, dei sentimenti, delle passioni, a volte sentiamo
asserire che il dominio delle passioni è a-razionale. Forse è molto piú saggio
prendere atto del fatto che le passioni e i sentimenti sono reali, e che la realtà si
presenta quindi sotto forma di contraddizioni a volte vere, a volte false. Questo,
anziché ridurre la nostra comprensione del reale, potrà condurci, come si è fatto
per secoli in tante culture diverse indifferenti alle problematiche della logica
classica e del razionalismo cartesiano, ad una ben migliore comprensione del
reale in cui l’uomo non debba a priori essere ridotto a macchina. Già nella
disputa tra Averroé e Al-Ghazali si presenta il problema della volontà che è
capace di determinare l’esistenza di uno stato di cose (quella divina) oppure di
agire (anche quella umana) senza una ragione specifica: Al-Ghazali anticipa il
cosiddetto dilemma di Buridano e prefigura il caso di un uomo che deve
scegliere tra due datteri perfettamente identici 22. Ebbene, per il volontarista Al-
Ghazali la volontà di quell’uomo sceglierà comunque perché essa è la volontà,
mentre per il determinista Averroé questa situazione creerebbe una paralisi

Ritorna sulle posizioni di Barcan Marcus Philippa Foot, Moral Dilemmas Revisited, in W.
Sinnot-Armstrong, D. Raffman, N. Asher, Modality, Morality and Belief: Essays in Honor of Ruth
Barcan Marcus, Cambridge 1995.
21 Il dilemma di Buridano ci mostra che nessuna paralisi della volontà è assoluta, dato che

scegliere non richiede in ultima istanza nessuna ragione, né tantomeno nessuna causa: la
volontà basta a sé stessa, e i tentennamenti di chi vuole smettere di fumare, e non lo fa, sono
fenomeni della psiche in cui la volontà salta di palo in frasca, non paralisi della ragione. Un
santo francescano, Gualtiero di Bruges, dice con rara efficacia in una delle sue Quaestiones
disputatae (Louvain 1928, q. 5) che se la volontà vede A in quanto migliore di B, essa può sem-
pre scegliere C (qualsivoglia informazione relativa alla scelta è assolutamente non-determinante
per la volontà). Colui che non riesce a smettere di fumare è uno che tra la soluzione A di avere
una grande probabilità di avere meno problemi di salute (non fumando) e la soluzione B di
avere una grande probabilità di avere piú problemi di salute (fumando) sceglie la soluzione C di
fumare continuando a pensare di fare la cosa dannosa e incerto sul da farsi.
22 Ne parla anche Goffredo Quadri, La filosofia araba nel suo fiore, Milano 1997, 161,

rimandando in nota alla pseudo-aristotelica Teologia (191).


164 CAPITOLO QUARTO

‘necessaria’ della volontà 23: la strenua lotta tra intellettualisti e volontaristi era
già tutta presente nel mondo islamico del XII secolo.
Dio è un essere trascendente la finitezza creaturale umana: la Sua volontà
dà l’esistenza, Egli è un essere necessario, Egli vede tutti i mondi possibili.
Sebbene i mondi possibili non siano esistenti come la tastiera su cui scrivo (la
tastiera esiste, le scimmie che parlano sono reali), essi sono dotati della modalità
di essere necessaria a differenziarli dalla mera ipotesi razionale (costruita dal-
l’intelletto) e dall’impossibile formale, il cerchio quadrato. La mappa dei mondi
possibili è la totalità di ogni stato di cose, e quindi della totalità delle contrad-
dizioni, forse assenti in ogni singolo mondo possibile, ma certo presenti nella
volontà di chi ha dato vita al mondo. E per farlo esistere, grazie alla volontà
efficace, Dio ha innanzittutto voluto (‘remissivamente’) ogni stato di cose
possibile, e se A è possibile, anche il suo contrario non-A lo è. Quindi, nella
stessa identica volizione, Dio può volere A e l’assenza di A. Non si tratta di una
‘contraddizione’ che metta Dio in rotta di collisione con il principio di
contraddizione che vale anche per Lui; ai nostri occhi classicisti parrebbe una
contraddizione, in realtà è una piccola-contraddizione, mentre Dio è sí legato
ad un principio, ma a quello di Super-Contraddizione. Scoto non ha distinto
lessicalmente tra la piccola-contraddizione e la Super-Contraddizione, solo nel
nostro secolo Peña l’ha detto a chiare lettere, ma l’idea è già tutta presente, e
diventerà tipica dello Scotista nei secoli successivi. Che cosa è la Super-
Contraddizione che lega Dio, ammesso che il verbo “legare” possa essere predi-
cato senza equivoci come “presunta” limitazione di Dio? Occorre ripeterlo a
costo di ritornare sullo stesso punto. La Super-Contraddizione è qualcosa di
intrinsecamente (formaliter) impossibile per ogni mondo possibile: dato che le
formalitates sono la natura propria delle cose ante rem, veri e propri universali ante
rem che si pongono prima dell’istanziazione della singola cosa nel mondo
attuale 24, ciò che è formaliter impossibile – i.e., impossibile in quanto formalitas –
è a piú forte ragione impossibile in quanto cosa, oggetto, di un unico mondo
possibile (per converso, ciò che è formaliter possibile si dà almeno attualmente in
un mondo possibile). La Super-Contraddizione segnala la contraddizione tra

23 Nella traduzione italiana dal testo arabo di M. Campanini, Averroé, L’incoerenza

dell’incoerenza, Torino 1997, 103-105; per il testo latino si veda B. H. Zedler, Destructio
destructionum philosophiae Algazelis, Milwaukee 1961, 91.
24 Non pretendo di farmi interprete del pensiero di George Bealer, né di accostarlo

forzatamente alla strategia scotiana, tuttavia ritengo che il suo approccio sia illuminante per
comprendere la nozione di ante rem nella sistemazione ontologica; rinvio quindi al suo Quality
and Concept, Oxford 1982.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 165

due formalitates, tali che non possono darsi neppure in un mondo diverso dal
nostro: non è quindi assurdo, anzi, considerare che neppure l’onnipotenza
divina può sfuggire all’impossibiltà di creare un cerchio quadrato, esattamente
per lo stesso motivo in cui si può pensare banalmente al cerchio quadrato. Noi
uomini, infatti, anche se non conosciamo direttamente le formalitates, quando
pensiamo al cerchio quadrato le stiamo manipolando, seppure confusamente
attraverso il rinvio ad astratti oggetti matematici che non lo sono, tenendo
conto del fatto che una formalitas prescinde dalla predicazione dell’esistenza. La
dimensione oggettuale è piú forte con concetti piú prossimi al mondo attuale
dell’esistenza: nessuno ha mai udito scimmie parlanti nel nostro mondo attuale,
ma è banalmente concepibile che una scimmia possa parlare, con una qualche
modifica del suo cavo laringeo, certamente possibile se Dio lo avesse voluto
oppure lo vorrà (ma nell’epoca della genetica credo che molti non facciano
fatica ad immaginare che gli scienziati possano fare lo stesso). Quindi, nel no-
stro mondo attuale non è possibile che una scimmia parli, ma è certamente
reale un mondo possibile in cui le scimmie parlano: il fatto che una scimmia
parli non è intrinsecamente impossibile (a meno che non si sia deciso che
qualunque essere vivente parlante non può essere detto “scimmia” per conven-
zione stipulativa), ossia le scimmie parlanti non sono equivalenti ad un cerchio
quadrato. Quest’ultimo concetto è una Super-Contraddizione, dato che la
definizione stessa di cerchio esclude che l’oggetto sia quadrato, e nell’espres-
sione “cerchio quadrato” nulla si dà se non la definizione dei due singoli
termini. Cosí, la Chimera non può essere voluta (neppure ‘remissivamente’) da
Dio dato che la definizione di Chimera è – un essere vivente che non è un essere
vivente, oppure - una mucca che è un uccello e un uccello che non è una
mucca. Dio può volere una mera contraddizione, in quanto Egli può volere
lodare Pietro e punire Pietro, Egli può volere A e non-A, quando A è formaliter
(in almeno un mondo) possibile. Dio è vincolato dal principio di Super-
Contraddizione, non già dal semplice usuale principio di contraddizione: per
Scoto è talmente evidente che la predeterminazione divina è compatibile con il
mutamento dell’oggetto della predeterminazione che la utilizza come argo-
mento per mostrare che la determinazione è compatibile con la scelta a venire,
“posse in opposita” 25. Non esistono Super-Contraddizioni vere, poiché una

25 Si tratta di un passo in Quaestiones Metaphysicorum, IX, q. 15, 62, ex n. 12: “Deus


praedestinatum potest non praedestinare in illo e pro illo nunc pro quo praedestinavit, non
obstante determinatione voluntatis suae per actum praedestinandi, secundum omnes. Ergo
determinatio non tollit ‘posse in opposita’”. Gli editori dell’ed. St. Bonaventure rinviano
166 CAPITOLO QUARTO

Super-Contraddizione non ha nessuna denotazione possibile, anche se può


avere una connotazione, quindi non tollera la verofunzionalità, cui è necessario
il rinvio al reale; ma ci sono contraddizioni vere, ed esse possono denotare stati
di cose impossibili nel nostro mondo attuale, e tuttavia realizzabili in altri mon-
di possibili. Per usare le parole di un discepolo di Scoto - che assume con
radicalità l’atteggiamento dello stesso giovane Scoto 26, recependo un passo
dell’Ordinatio 27 -, Francesco di Meyronnes, la Super-Contraddizione riguarda gli
incomplexis, l’essere (e la proposizione) assolutamente semplice, la mera contrad-
dizione riguarda i complexis, l’essere (e la proposizione) costituito da piú ele-
menti 28. Si deve sottolineare che la Super-Contraddizione rinvia alla pura negatio,
dato che non-uomo in senso preciso è niente quanto lo è la Chimera, ma è pure
Dio: la negazione pura non ci dà nessuna informazione salvo quella che esclude
l’oggetto negato (è impossibile che vi sia uomo). La piccola-contraddizione
rinvia alla negazione de aliquo, dato che non-uomo è qualche essere altro

opportunamente alla Lectura, I, d. 40, q. unica, §§ 4-10, e all’Ordinatio, I, d. 40, q. unica, 4-10,
ex n. 2-3. Ma si veda pure Reportata parisiensia, I, d. 40, q. unica.
26 Nelle Quaestiones Metaphysicorum Scoto afferma che non vi è contraddizione negli

incomplexis (IV, q. 4, 51, ex n. 8: si legga nel senso che negli oggetti assolutamente semplici si
dà solo la Super-Contraddizione), anche se c’è qualcosa come una contraddizione (homo sta a
non-homo come una contraddizione: qui Scoto allude al fatto che si può pensare la Super-
Contraddizione di un oggetto semplice che però non può avere nessun grado di realtà, e
quindi non è veramente semplice).
27 Si tratta di Ordinatio, II, d. 2, pars 2, q. 5, 409, ex n. 34, in cui afferma con chiarezza

“complexa non sunt contradictoria nisi accipiantur pro eodem instanti, pro quo oportet illa
ambo enuntiate praedicatum de subiecto, - incomplexa autem absolute sumpta, non deter-
minando ad aliquod esse, sunt contradictoria”. Ossia, la piccola-contraddizione si dà tra oggetti
reali, la Super-Contraddizione si dà tra oggetti che non arrivano ad un grado qualsivoglia di realtà.
28 François de Meyronnes, Pierre Roger, Disputatio, Paris 1961, 209: “omnia que sunt

impossibilia includunt contradictionem, ut sunt impossibilia, et non contradictionem com-


plexam, cum ista sit tantum in anima et non in rebus extra, igitur incomplexam”. Quando
Francesco enuncia il principio di contraddizione (che si compone con 1. in una contrad-
dizione uno dei due elementi è vero ; 2. due elementi contraddittori non possono essere
insieme veri) sta parlando solo dei complexis (Tractatus primi principii complexi). Nello stesso
lavoro, Francesco afferma che il principio di mera contraddizione possiede un modo di
essere nella mente divina come: 1. obedientialiter, in quanto l’uomo è obbligato ad accettarlo ;
2. exemplariter, come immagine dell’insieme di tutte le quidditates (Dio non può creare una
Chimera), e si tratta qui di un’esplicita equivalenza con il principio di compossibilità ; 3. ma
non già essentialiter, in quanto l’essenza divina è nella volontà, non nell’intelletto (quindi, una
sfera neutra, spazio della possibilità della nomoteticità).
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 167

dall’uomo, ossia in assenza dell’uomo 29: solo qualche essere può essere com-
preso, e in questo senso si può dire che la scimmia è non-uomo, ossia la
scimmia - questo essere-qui - non è un uomo. In questo senso, la negazione è
l’assenza di uomo e presenza di questo non-uomo-qui. Ecco che a determinate
condizioni ontologiche si possono dare delle piccole-contraddizioni vere, se la
negazione è de aliquo, mentre non si danno Super-Contraddizioni vere, se la
negazione è pura (infatti, una negazione pura è niente ontologico, ed il niente è
falso, ossia quando si parla del niente la proposizione non è denotante) 30.

29 Ordinatio, I, d. 3, pars 1, q. 1, 6, ex n. 2. Durante la medesima analisi Scoto propone


una nozione di univocità dell’essere come “eius unitas sufficit ad contradictionem, affir-
mando et negando ipsum de eodem” (ex n. 5). Qui si afferma che la Super-Contraddizione
si situa al livello dell’univocità dell’essere.
Scoto analizza la doppia contraddizione nell’Opus oxoniense, I, d. 4, q. 1-2, n. 4-5. Dio
ha generato un altro Dio, oppure no? Solo nei complexis è valido il principio di bivalenza,
negli incomplexis esso non vale (il testo riassunto dei Reportata parisiensia, eod. loc. n. 6-8, è
emblematico: la negazione di una proposizione complessa è la negazione del suo denotato
ontologico – per parafrasare, la negazione di “il mulo genera un topo” è “il mulo non-
genera un topo”, non già “il mulo genera un non-topo”, la negazione di una proposizione
incomplessa è tale che se il denotato ontologico è asserito assolutamente – Dio ha generato
un quid – vale che tale quid sia e non sia Dio). Dio ha generato il Figlio, e non si dà che Egli
abbia generato un altro Dio, e non si dà che Egli abbia generato un altro non-Dio. Scoto
asserisce che questa è una proposizione neutra: io sono convinto che questo non evochi la
nozione di indifferenza, bensí quella di vero-e-falso. Scoto afferma esplicitamente che in
questo caso da {A, B} non si deduce A e B. Resta che è vero che Gesú Cristo è Dio e non-
Dio (Uomo), e questa è una contraddizione vera. In Ordinatio, I, d. 4, pars 2, q. unica, 11
(Deus)-12 (exemplum), ex. n. 3, Scoto afferma “color ‘hic’, singularis exsistens, non
determinat sibi ratione suppositi (quia ratio suppositi propria non est in accidentibus), et
licet sit supposito substantiae, tamen in quantum intelligitur absque illa substantia in
supposito - ut ‘hic color’ existens - potest esse principium operationis realis, sicut si eadem
albedo esset in tribus superficiebus, haberet unum actum realem, scilicet unam rationem
disgregandi”. E poi, 13, multo magis esset hoc verum si hic color ut ‘hic’ esset per se ens. Deitas autem est
per se esse. Similmente Lectura, I, d. 4, q. unica, §§ 4-5: il punto è l’identità del Padre, del Figlio
e dello Spirito Santo, che si rivela una relazione (reale come le relazioni in genere), non già
una formalitas (altrimenti si avrebbe una quaternità e non una trinità).
30 E’ una tesi ricorrente nella filosofia cristiana che la negazione per eccellenza, il male,

non ha realtà ontologica, quindi piú in generale che si dà negazione solo in riferimento ad
una affermazione. Scoto, tuttavia, ha una concezione particolarmente forte di questa tesi,
tanto che in Reportata parisiensia, I, d. 3, q. 1, n. 1, ironizza sulla cosidetta teologia negativa,
affermando che negativamente si conosce Dio quanto la Chimera (il non-reale per
eccellenza, il niente), dato che ambedue sono non-angelo, non-pietra, eccetera. E poco oltre,
osserva ironicamente che gli uomini non amano le negazioni, e tuttavia gli uomini possono
168 CAPITOLO QUARTO

Può essere utile completare questa riflessione con una panoramica di


luoghi scotiani sulla natura della negazione, per meglio comprendere la natura
analitica della proposizione “si deve amare Dio”. Cosí afferma Duns Scoto
nella Lectura, I, d. 36, q. unica (Utrum creatura, in quantum est fundamentum
relationis idealis proximum, habeat verum esse essentiae), § 38: “ordo est in
negationibus secundum tres gradus” 31.

amare Dio, e certo lo amano in quanto dato positivo (similmente in versione piú asciutta,
Ordinatio, I, d. 3, p. 1, q. 1-2, 10, ex q. 2, n. 1-2, mentre la Lectura offre un luogo parallelo dai
toni nettamente piú neutri). Bisognerebbe ricordarsi di queste osservazioni quando Scoto
insiste sulla natura negativa della personalità, che è non-comunicazione, nel contesto della
discussione trinitaria e quindi con specifici scopi retorici (non confondere essenza e persone
divine): o si ammette che i fatti negativi esistono (tipo atomismo logico inizio XX secolo),
oppure non si può ammettere che la persona si riduca ad una mera negazione e null’altro
(del resto, se la si chiama ultima solitudo non è piú una negazione). Nel primo caso, infatti,
Scoto si porrebbe in rotta di collisione con interi capisaldi del pensiero cristiano, come la
non-realtà ontologica del male, che lui stesso condivide, e questa mi parrebbe proprio una
fatale contraddizione falsa.
31 Si possono vedere anche i Reportata parisiensia, II, d. 1, q. 2, n. 18, che affrontano lo

stesso ordine di problemi (se il niente sia denotativo); un testo simile è pure presente in
Lectura, III, d. 1, q. 1, §§ 45-47, ma la divisione proposta non è come quella della d. 36 che
esamino nel testo. In questa prima distinzione del commento al terzo libro delle Sentenze
Scoto utilizza un linguaggio della causalità, che lo conduce a proporre quest’altra
classificazione dei modi della negazione (che dirò bis): una prima negazione è quella che
1.bis nega di qualcosa una proprietà che questo qualcosa non può vedersi predicata, come
nella proposizione “il bianco non è nero”; una seconda (e duplice) negazione è quella 2.bis
per cui non si dà causa efficiente della proprietà negata nel soggetto, come “la superficie non
è bianca”, e questo si distingue in 2.1.bis una non-azione dell’agente rispetto alla sua azione
abituale (“passum natum est inclinari naturaliter”), come nel caso di un fuoco che non
scalda, oppure 2.2.bis una non-azione dell’agente rispetto ad una sua azione possibile (“non
repugnat illud”) che non è però abituale (“non naturaliter inclinatur”), con riferimento ad
una “potentia neutra”, spazio della scelta assolutamente libera e capace di contraddizioni
vere (“nec naturaliter, nec violenter inclinatur”). A partire da questo schema, Scoto analizza
la negazione di non-comunicabile riferito alla persona come una “formalem repugnantiam in
illa natura”, ossia come una negazione assoluta di tipo 1., tale da generare una Super-
Contraddizione. In altri termini, pensare la persona come comunicante è pensare il nulla.
Mi pare che la differenza dello schematismo sia solo apparente: come vedremo, nella
d. 36 Scoto si muove su un piano meramente logico-ontologico, mentre nella d. 1 si muove
su un piano onto-epistemologico (nel luogo parallelo alla Lectura dell’Opus oxoniense, III, d. 1,
q. 1, n. 11, le tesi sull’incommunicabilità della persona sono le stesse, riprendendo quanto
già detto nel primo libro, d. 2 e d. 23, ma la riflessione sulla natura della negazione è con-
densata in poche righe, ellittiche rispetto alla Lectura – lo stesso si può ripetere per i Reportata
parisiensia, III, d. 1, q. 1, n. 6, in linea con l’Opus). La sostanza del discorso è perfettamente
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 169

Il primo modo della negazione (1) “privationem alicuius positivi”, è il caso


di una superficie senza colore, né bianco, né nero, dunque è vero dire che di
una superficie rossa (oppure di una superficie nera) “haec superficies non est
alba” 32 – si potrebbe dire che il bianco è assente, quindi la superficie non è
bianca; vi è un altro modo duale della negazione, riunito in un altro caso, in cui
la proposizione negativa è vera poiché (2) “repugnantiam positivi ad unum
positivum”, si potrebbe dire per la non-possibilità che si dia la proprietà P in
quell’oggetto lí, e ci sono due possibilità:
o (2.1) “repugnantiam unius positivi in uno ad unum positivum in alio”,
come nel caso “homo non est asinus”33, dato che alcune proprietà dell’uomo
non sono possibili nell’asino (e/o viceversa), perché l’uomo e l’asino, secondo
la loro definizione corrente, si manifestano cosí-e-cosí nel mondo attuale;
oppure perché (2.2) “repugnantiam plurium positivorum in uno ad plura in
alio extremo”, come nel caso “homo non est linea” oppure “albedo non est
linea” 34, poiché “omnia affirmativa quae dicuntur de uno - usque ad ens – repugnat
ad affirmativis quae dicuntur de aliis” (si veda Post. Anal., I, c. 14), insomma tutte le
proprietà predicabili del primo oggetto non lo sono del secondo e viceversa.
Prima di essere creata, una cosa è nulla (“nihil est”) “propter privationem
dantis esse” (§ 39). La chimera è niente perché vi è in questo concetto “formalem
repugnantiam ad positivum ens”: per ogni mondo possibile, non si verifica l’esi-
stenza della chimera. Si confronti con Quodlibet, q. 3, n. 2-3: il nulla può essere 1) un
super-contraddittorio, quindi non è qualcosa nella realtà attuale (ed eventuale) ed è
intelligibile solo contraddittoriamente (Chimera), quindi non è veramente con-
cepibile (la scienza si occupa di entità de re), oppure 2) qualcosa che non è nella
realtà attuale e non può essere indipendentemente dalle operazioni prima dell’in-
telletto – non-contraddittorie -, poi della volontà (l’uomo prima della creazione).
Nel luogo parallelo dell’Ordinatio, I, d. 36, q. unica, 58-59, ex n. 13-14,
Scoto argomenta puntigliosamente contro Enrico di Gand, dato che la posta in

conforme, anche se congiungendo i due schemi la terna si risolve in quaterna; tuttavia, non è
utile far confluire in uno stesso schema criteri di classificazione non-omogenei.
32 Duns Scoto, Ordinatio, I, d. 36, q. unica, 26-29, ex n. 6: “non propter repugniantiam

affirmationis ad affirmationem, sed propter privationem alicuius positivi”. Qui si dice


chiaramente che questo modo della negazione non è una forma di incompossibilità, quindi
non è atta a generare una Super-Contraddizione.
In Lectura, III, d. 1, q. 1, §§ 45-47 corrisponde a 2.bis, che viene ripartita in altri due
modi, mentre qui non è ulteriormente scomposta.
33 In Lectura, III, d. 1, q. 1, §§ 45-47 corrisponde a una distinzione non effettuata su 1.bis.
34 In Lectura, III, d. 1, q. 1, §§ 45-47 corrisponde a 1.bis.
170 CAPITOLO QUARTO

gioco è la stessa ontologia dei mondi possibili, messa fuori gioco dalla strategia
attualistica di Enrico che mi pare non lasci spazio alla nozione di cose reali e
non-esistenti. Scoto asserisce che la prima specie di negazione è (1) “propter
solam negationem .. aliqua superficies esset neutra”, la seconda (2) “repugnan-
tiam eius ad affirmationem et oppositum illius negationis”, e (2.1) “praecise est
talis repugnantia propter aliquid unum, de intellectu utriusque” e (2.2) “propter
plura, inclusa in intellectu utriusque vel alterius” - “homo non est albedo”. Ma
la negazione è solo “non tale”. Dunque, 60 ex n. 14, “homini in aeternitate inest
‘non esse aliquid’ et chimaerae ‘non esse aliquid’; sed homini non repugnat
affirmatio quae est ‘esse aliquid’, sed tantum inest negatio propter negationem
causae non ponentis, - chimaerae autem repugnat ei, et quod non repugnat
formaliter ex se, non repugnat”. Quindi, la chimera non è un ens in potentia: si
tratta di un oggetto contraddittorio, ma non una cosa reale, e non è possibile 35
che sia una creatura – sulla stessa falsariga, in Ordinatio, II, d. 1, q. 2, 76 e 80, ex
n. 6, Scoto asserisce contro lo stesso Enrico di Gand che l’esse intelligibilis è
determinato dall’Intelletto, non dalla Volontà, una tesi essenziale nella sua
metafisica, che ritroviamo pure in Ordinatio, I, d. 43, 6-9, ex n. 3.
Nel passaggio dell’Ordinatio, I, d. 28, q. 1-2, 15, ex q. 2, n. 4 Scoto si
dilunga in modo classico sulla negazione (categorie aristoteliche extra genus e in
genere), che aveva già affrontato nello stesso libro alla d. 23, q. unica, 21-22, ex n.
7-8: vi si esclude l’esistenza delle proprietà negative, quali la non-razionalità che
conviene a piú soggetti (l’asino e il cavallo) senza essere un qualcosa in entram-
bi (al contrario, una proprietà affermativa esiste dato che quando conviene a
piú soggetti è un qualcosa in ognuno di questi soggetti). La proprietà negativa,
allora, è comune a dei soggetti solo in quanto negazione della proprietà affer-
mativa che è loro comune. Lo dice pure efficacemente nel luogo parallelo della
Lectura, § 27: “negatio potest esse communis aliquibus, et cum nihil affirma-
tivum, in quo fundetur, sit commune, tamen affirmativum cui opponitur, est
unius rationis, et hoc sufficit”. E per una concezione gradualista della verità,
che si può affiancare a questa analisi della negazione, mi pare utile il passaggio
di Quaestiones Metaphysicorum, V, q. 5-6, 72, ex n. 7: “veritas negative est ex di-
versitate extremorum, sicut veritas affirmative ex identitate ‘homo est homo’.

35 Il legame tra l’impossibilità assoluta e la contraddizione è esplicitato in Quodlibet, q. 10, n.

16, in cui il fatto che un concetto non sia auto-distruttivo (per esempio, se fosse vero che X (vi
sono due corpi nello stesso luogo – si sta parlando dell’Eucarestia), allora sarebbe anche vero che
– tra cui almeno la teoria cattolica dell’Eucarestia) mostra che è possibile in assoluto. Dalla
Chimera, invece, non si deduce nulla, certo non che partorisca in febbraio: sarebbe allora un
animale fantastico, non già il luogo medievale dell’impossibile cerchio quadrato.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 171

Ubi ergo maior diversitas, verior negatio; sed illa verior qua distinguitur re
quam in modo praedicandi solum; haec talis ‘homo non est asinus’, ergo imme-
diatior quam ista ‘substantia non est quantitas’”. Se ci si riflette, questo discorso
ha senso nella consapevolezza che l’uomo ha del mondo, non già nello sguardo
divino: gli oggetti esistenti nel mondo attuale si danno piú immediatamente in
quanto oggetti, e quindi la loro verità è piú identitaria della verità di una predi-
cazione, che può variare in un mondo possibile, mentre l’oggetto è un punto di
predicazione, e come tale piú identico a se stesso. Nello stesso senso mi pare
vada il suo allievo Francesco di Meyronnes, in I, d. 36, q. 4, dove afferma che
“res create verius habent esse in divina essentia quam in seipsis” (Venetiis 1520,
f. 110ra). Il modello di Scoto è esemplificato in un passaggio del Quodlibet, q.
4 36: vi sono piú ordini nel creato, quello di durata e quello di natura, e tra di
loro si può verificare la co-esistenza simultanea di contrari. La causalità nel
nostro mondo attuale è sempre imperfetta per la coesistenza di questi diversi
ordini, solo la causalità divina è perfetta: in particolare, i contraddittori si
riferiscono all’ordine della natura 37. C’è una negazione della dipendenza di
qualcosa che procede in Dio (Prima persona della Trinità), anche se per
impossibile si affermi qualcosa di questo che precede: Dio è ingenitum. Infatti

36 Quodlibet, q. 4, n. 3: “quando sunt aliqui ordines alterius rationis, quorum unus non

includit alium, nec praexigit, nec coexigit necessario illum, potest iste esse sine illo, imo cum
simultate opposita illi ordini. Patet satis in exemplo, ordo durationis et naturae <sive
essentialis> sunt tales, quod ille qui est naturae, non includit illum, qui est durationis, nec
necessario praexigit, sive coexigit, ideo potest esse sino illo. Patet etiam ratione, qui
nunquam est impossibilis separatio, nisi per hoc quod includit, sive necessario coexigit illud”
- “potest stare simultas opposita ordini essentiali cum ordine originis; sed simultas opposita
ordini essentiali sufficit ad simultatem correlativorum; ergo possunt aliqua esse simul
simultate correlativorum, quae est simultas essentialis, et tamen esse ordo originis inter ea”.
Infatti, “ordo essentialis necessario includit imperfectionem in altero extremorum, scilicet in
posteriori, ordo autem originis non requiritur, nisi quod hoc sit ab hoc”. Si confuta cosí
Aristotele in Metaphysica, 3, 11 “in his, quae sunt ejusdem speciei, non est prius et posterius”.
37 Loc. cit., n. 6: “non tantum contradictoria referuntur ad idem instans durationis, sed,

sicut licet loqui, ad idem nunc, sive signum naturae. Hoc patet inducendo, quia cum haec sit
vera in primo modo dicendi per se, homo est rationalis, haec autem vera in secundo modo,
homo est risibilis, haec autem per accidens, homo est albus, et sic possunt assignari instantia
naturae, sive signa naturae, quantum ad ordinem istarum predicationum, si affirmaretur
hominem esse rationalem per se in primo signo naturae, sive primo modo, et negetur ipsum
esse rationalem secundum modo, sive in secundo signo naturae, non est contradictio. Sicut
non est contradictio, si dicatur hominem esse album in tertio signo, et non esse album in
primo signo vel secundo; patet ergo non est contradictio nisi pro eodem signo naturae. Et
ita in signis originis, esse ab alio, et non esse ab alio, sunt contradictoria, patet de se”.
172 CAPITOLO QUARTO

Cristo (la Seconda persona) non è lo stesso, anche se sono lo stesso: Cristo è
genitum. L’idea è (da Riccardo di San Vittore, De Trinitate, 4) che la sola proprietà
necessaria per essere una persona sia “primam entitatem incommunicabilem”.
La persona sopravviene all’essenza (“illud personale, quod intelligitur superaddi
essentiae, sufficit quod habeat primam rationem incommunicabilitatis”): in
questo modo Scoto arriva a distinguere semanticamente i Super-Contraddittori,
quelli che si riferiscono allo stesso punto nei diversi ordini e sono generati
quindi dalla negazione assoluta (e non possono essere reali), e i piccoli-
contraddittori, in cui la negazione è riferita ad un terzo oggetto, ossia non-asso-
luta, come il vaso non-rosso (perché strisciato di verde sul rosso) è compatibile
con il vaso rosso (perché a sfondo rosso con strisce di verde) 38.
Ecco perché una volta che si siano comprese pienamente le conseguenze
che comporta la natura formaliter, e una volta che si sia considerato che Dio è
esistente in quanto bene supremo e ipso facto oggetto supremo di amore (a
partire da quello di Dio verso se stesso) 39, si può allora sensatamente dubitare
che l’odio verso Dio sia possibile, anche se facciamo l’esperienza di uomini che
lo bestemmiano e che praticano il male senza apparente rimorso, oppure si
danno al culto del demonio oppure all’avversione piú tenace contro il cristia-
nesimo: un vero odio di Dio è impossibile in quanto Dio è analiticamente “da
amarsi in quanto bene supremo”. La fallacia naturalistica è completamente
priva di senso, dato che “il bene supremo deve essere amato” non è un argo-
mento, è un fatto ontologico, e negarlo significa negare non solo l’ontologia
scotista (e questa è un’opzione lecita), ma pure ogni ontologia cristiana (e allora
cambia radicalmente l’insieme dei fatti che la nostra teoria metafisica tenta di
spiegare). Nessuno è costretto ad amare Dio, nonostante che “il bene supremo
deve essere amato” sia un fatto ontologico: ogni agente morale, dal primo
angelo caduto a noi, è assolutamente libero. Ma ontologicamente l’odio di Dio
è una Super-Contraddizione, si può desiderare di sostituirsi a lui, ma non si può
volere negare “il bene supremo deve essere amato”, dato che il bene supremo
esiste necessariamente, e volere “il bene supremo non deve essere amato” è un
fatto co-impossibile con l’altro necessariamente esistente “il bene supremo deve
essere amato”. Questo è il significato profondo della tesi scotista, ribadita nelle

38 Loc. cit., n. 9: “contradictoria referuntur ad idem nunc, non solum in ordine dura-

tionis, sed etiam naturae et originis .. intelligendo de per se contradictoriis, prout affirmatio
comparatur ad negationem; non est autem vera, intelligendo de affirmatione et negationem
comparando ad tertium, de quo dicuntur”.
39 Per la descrizione dell’amore divino in Scoto rimando a Camille Berubé, L’amour de

Dieu selon Jean Duns Scot, Porète, Eckhart, Benoît de Canfield et les Capucins, cap. IV.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 173

varie versioni del suo commento alle Sentenze, nella II, d. 6, q. 1 e q. 2, sul
peccato del primo angelo caduto: si tratta di amore disordinato, insomma anche
la perversione massima del bene è non già affermazione positiva del male, è
appunto perversione massima del bene. Questo si rispecchia nelle sue riflessioni
sulla natura del peccato contro lo Spirito Santo, nella II, d. 43, q. unica 40: al
livello delle formalitates l’odio di Dio è co-impossibile, dato che mentre la mia
manifestazione nel mondo attuale è contingente, e quindi affermare l’odio con-
tro di me è ovviamente possibile, la manifestazione divina in tutti i mondi pos-
sibili è necessaria (anche se Egli si manifesta come vuole), quindi il fatto del-
l’odio verso di Lui è co-impossibile. Detto piú brutalmente, io posso anche
essere ucciso, Dio no. Questo rispecchia la risposta di Scoto alla presunta
necessarietà del desiderio della beatitudine, nella IV, d. 49, q. 9, in cui grazie alla
duplice positività ontologica del velle e del nolle Scoto può argomentare che da
“non posso volere di essere misero” segue solo “non posso odiare la beatitu-
dine”, non già “debbo volere la beatitudine”, e per parafrasi interpretativa “non
posso volere odiare Dio” implica solo “non posso odiare l’amore di Dio”, non
già “debbo volere l’amore di Dio”. Anche la psicanalisi potrebbe aiutarci a
comprendere che il demonio vuole sostituirsi a Dio ed essere amato, e che non
odia veramente, con un sonoro nolle, il bene supremo: anzi, direi io, è proprio
una teologia non-antropomorfica come quella scotiana che grazie ad una ricca
antropologia filosofica ci permette di comprendere appieno la portata di
nozioni di tecnica della psiche umana come quelle manipolate dalla psicanalisi,
senza indulgere nel riduzionismo di una ontologia misera.
La strategia di Scoto si caratterizza per una teoria globale della normatività,
in quanto l’intelligibilità del mondo è sostituita dalla gerarchia normativa del
Legislatore Supremo. La concezione del potere divino e del suo intervento
attuale nella storia umana (potentia absoluta) testimoniano di questa gerar-
chizzazione ontologica dell’universo creato: scelgo la seguente distinzione tra il
potere assoluto e il potere ordinato divini che traggo dai Reportata parisiensia, IV,
d. 1, q. 5, n. 2: “aliquid autem est possibile Deo dupliciter: vel secundum eius
potentiam absolutam, qua potest omne id, quod non includit contradictionem”
- vale la pena di notare che questa “contradictio” deve essere intesa come

40 Si noti che nell’Opus oxoniense la q. 1 proviene dalle Additiones Magnae di Alnwick, che
risulta discepolo fedele perché il testo pubblicato nell’edizione Vaticana, per quanto non
perentorio, sembra proprio escludere il fatto di volere il male in quanto male per l’uomo
viator (Ordinatio, I, d. 43, q. unica, 6, ex q. 2, n. 2 “etsi non ponatur voluntas creata posse
velle malum sub ratione mali”; si veda anche la Lectura, eod. loc., § 6).
174 CAPITOLO QUARTO

Super-Contraddizione, dato che secondo la Sua potenza assoluta Dio può


realizzare, secondo Scoto, tutta una serie di stati di cose che sono prima facie
contraddittori, come cambiare il Suo Decalogo, separare la materia dalla forma,
creare un movimento senza mobile, e cosí via 41, tanto che, come già notavo
nell’Introduzione, o si pensa che Scoto sia un componente ante-litteram del
Circolo Pickwick in vena di amenità, oppure non si può seriamente pensare che
usi in passi simili ‘contradictio’ come semanticamente equivalente alla contrad-
dizione della logica classica - e prosegue, “aut secundum potentiam eius ordi-
natam, secundum quam sit omne illud, quod consonat legibus divinae iustitiae,
et regulis sapientiae eius; quod si fieret aliter, et secundum alias leges statutas, et
ordinatas a divina voluntate, non inordinate fieret, sed ita ordinate sicut modo
secundum ista”. E’ chiaro che nessuna legge può vincolare l’azione divina, per-
ché data una qualunque manifestazione divina, e raggiunta la ragionevole cer-
tezza che non sia conforme ad una certa legge divina pre-esistente, è altrettanto
certo che esiste un’altra legge divina rispetto alla quale la manifestazione divina
è conforme. E se si considera pure che Dio non ha bisogno della Gazzetta
Ufficiale per promulgare le sue leggi, ma la sua azione è manifestazione nor-
mativa, allora quando una manifestazione divina è apparentemente non-
conforme ad una legge divina si può dire che Dio ha posto una nuova norma
con la sua manifestazione. Insomma, ciò che fa Dio, in quanto lo fa, è
normativamente giusto, e non si può opporgli nessuna regola di giustizia,
perché solo Lui pone le regole di giustizia. Tutto questo si ritrova nel seguente
passaggio, uno di quelli che nel mio libro sulla filosofia normativa ho consi-
derato come emblematici del suo volontarismo ontologico (da affiancare all’es-

41 Si veda Olivier Boulnois, a cura di, La puissance et son ombre, Paris 1994; Orlando

Todisco, Giovanni Duns Scoto, filosofo della libertà, Padova 1996.


Si noti che già nella Summa fratris Alexandri si prefigura una onnipotenza divina
assolutamente sciolta da ogni vincolo: infatti, se alla domanda “Secundum quid dicatur Deus
omnipotens” (lib. I, pars I, inq. 1, tract. 4, q. 2, mem. 1, c. 2) risponde in una maniera
intepretabile in piú modi – tutto è possibile a Dio “sine coactione seu passione, sine
impedimento, sine indigentia materiae” , alla successiva “An potentia divina limitari possit
ex parte bonitatis et iustitiae” (lib. I, pars I, inq. 1, tract. 4, q. 2, mem. 2, c. 2) distingue tra la
proposizione vera “Deus non potest facere nisi quod bonum et iustum esset, si faceret” e la
proposizione falsa “Deus non potest facere nisi quod bonum et iustum est nunc” (la tesi è
già adombrata da Guglielmo di Auxerre). Il volontarismo normativo è già chiaramente
collocato nell’agenda filosofica francescana: immediatamente dopo, al c. 3 “An potentia
divina limitari possit ex parte praescientiae er rationis aeternae”, afferma lapidariamente
“nullo modo limitatur divina potentia” e “infinita est ergo potentia respectu agendorum,
quamvis non voluntas nec iustitia nec praescientia nec ratio”.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 175

senzialismo ontologico di cui parla Peña) – si tratta di Lectura, I, d. 44, q. unica,


§ 4: “operando autem huic legi ordinate, agit secundum potentiam ordinatam,
et non potest aliter operari nisi ordinando et statuendo aliam legem, - et hoc
potest, quia contingenter voluit quod esset illa lex quod omnis peccator damna-
retur; unde faciendo contrarium, statuit aliam legem, secundum quam etiam ordi-
nate operetur”. Dio non può operare se non ordinando e promulgando una leg-
ge; e quando agisce in contrasto con una norma, per il fatto stesso di agire, pro-
mulga un’altra norma, e la sua azione è ovviamente conforme alla norma, data
che l’azione stessa l’ha promulgata. Il brano è sintetico, ma di una precisione
analitica straordinaria, per chi voglia ascoltarla. Da brani come questo si impone il
volontarismo ontologico: la norma non è che un atto di volontà, e null’altro, e la
volontà di Dio si manifesta con l’azione stessa di Dio (come quando crea il
mondo, perché lo vuole). La sfera delle cose buone non può mai essere un
vincolo, perché ciò che Dio fa è buono, quindi non può che fare cose buone, ma
qualunque insieme di cose buone pensi la mente umana, Dio può fare diversa-
mente, perché facendo diversamente farebbe delle cose buone 42. Solo una paura
‘teoretica’ del volontarismo ontologico può fare travisare o trascurare queste
chiarissime riflessioni scotiane, un poco come la paura ‘teoretica’ dell’irrealtà del
tempo faceva pensare recentemente al tomista Goris, di cui parlo nell’In-
troduzione, che Scoto non può essere interpretato secondo il realismo modale.

II. Il Decalogo

Il fondamento dell’ontologia delle norme è la volontà divina. Nella meta-


fisica scotista l’essenza delle cose, quidditas, è ben separata dall’identità attuale
delle cose, haecceitas 43 – traduzione latina dell’aristotelico quid-quod-est: si tratta di

42 Reportata parisiensia, I, d. 44, q. 2: Scoto liquida cosí l’argomento che suggerisce che la
sfera del buono è un limite all’azione divina. Il brano dei Reportata è emblematico, ma l’idea è
costante in Scoto.
43 Nella filosofia del XX secolo il termine haecceitas, al seguito di David Kaplan, How to

Russel a Frege-Church, in Journal of Philosophy 72 (1975) 716-729, è stata impiegato per designare
la continuità dell’identità di un individuo in diversi mondi possibili (ossia, al variare delle sue
proprietà accidentali). Mi pare che questo uso sia diverso da quello che impiega Scoto, e che
sia una fonte di equivoci se si voglia trasferire l’uso contemporaneo alla comprensione di
Scoto. Ritengo che Scoto creda fermamente alla continuità dell’identità dell’individuo tra
diversi mondi possibili (tesi dell’haecceistas contemporaneo), ma questo è dovuto alla sua per-
sonalità metafisica, la quidditas della persona metafisica, non già alla sua haecceitas, che è il
modo in cui si manifesta in diversi mondi possibili, e questo cambia. Traggo come
176 CAPITOLO QUARTO

un asserto importante, dato che possiamo immaginare che una norma naturale
sia espressa dalla sua quidditas (Forma quasi-platonica che si dà in ogni mondo
possibile) 44, ma che nel nostro mondo attuale noi non possiamo percepire che
la sua haecceitas (il Decalogo biblico, innanzitutto). Una norma naturale, in quan-
to presente in ogni mondo possibile, è una quidditas; una norma naturale, in
quanto presente almeno in qualche mondo possibile, è una o piú haecceitas 45- vi è
almeno un mondo possibile in cui Dio ha deciso che tale norma esiste, ed essa
si manifesta attraverso un’identità specifica a vari mondi possibili. Si noti che
questa struttura del reale permette non solo di essere realisti ontologici rispetto
alle norme – il che assicura ad esse una oggettività indipendente dall’intelletto

esemplificazione di questa affermazione dal testo scotiano il seguente passo dai Reportata
parisiensia, II, d. 12, q. 5, n. 8: “non potest intelligi haecceitas ut universale” – l’haecceitas è
quindi la manifestazione della quidditas in un mondo possibile. Parimenti, nella Lectura, II, d.
3, pars 1, q. 1, § 8 (e si veda pure il luogo parallelo dell’Ordinatio, eod. loc., 7, ex n. 2) Scoto
sostiene la stessa tesi, usando al posto del termine haecceitas quello di ratio sui, che si mostrano
perfettamente sinonimi (in ogni mondo possibile si dà una specifica ratio sui di un oggetto).
Scoto insiste particolarmente sul fatto che l’unità che dà l’identità dell’oggetto è meno che
numerale, un punto chiave per comprendere come le formalitates siano partecipi dei singoli
oggetti e al contempo separate, senza essere assimilabili alle sostanze separate di Platone,
che Scoto intende come dotate di unità numerica, in quanto legate all’identità numerica nel
nostro mondo attuale (Lectura, loc. cit., §§ 9-27, § 38 - Ordinatio, eod. loc., 8-28, ex n. 2-6, ma
anche Lectura, II, d. 3, pars 1, q. 5-6, §§ 157-160, e Ordinatio, eod. loc., 155-167, ex n. 4-8).
Per una discussione contemporanea di questo complicato problema metafisico, che a
me pare sia pesantemente determinato in Scoto dalla necessità per un filosofo cristiano di
ammettere la personalità metafisica che giunge costante sino al Giudizio Universale e oltre,
rinvio alla difesa della posizione contraria all’identità trans-mondi di David Lewis, On the
Plurality of Worlds, Oxford 1986, 220-248, mentre per la difesa dell’identità trans-mondi mi
pare utile rinviare ad un filosofo che ho già accostato a Scoto, Roderick Chisholm, Identity
through Possible Worlds: Some Questions, in Noûs 1 (1967) 1-8.
44 In un passo già ricordato della d. 3, q. 6 del secondo libro del commento alle

Sentenze, Scoto dice che Aristotele usa il termine ‘forma’ per quello che lui indica con
‘quiditas’, ma la sua teoria della forma (della Forma, della quiditas) non è aristotelica (si veda
per esempio Ordinatio, II, d. 3, pars 1, q. 5-6, 172, ex n. 13, 187, ex n. 15, 204-206, ex n. 20).
45 Ordinatio, II, d. 3, p. 1, q. 2, 55-56, ex n. 4: la haecceitas è distinta dalla natura comune

(personalmente preferisco sostituire a quest’ultima espressione il termine formalitas, non


certo per correggere Scoto, che è ben preciso nel suo lessico, ma perché nel contesto logico
l’espressione “natura comune” potrebbe essere fuorviante, mentre non lo è nella metafisica
del mondo materiale). Il fatto che sussista tale equivalenza è spiegato da Bos: la natura
generale delle cose è un concetto definitorio oggettivo, la natura individuale è un concreto
meno-che-numerico, ed entrambe sono la natura comune (E. P. Bos, Francis of Meyronnes on
Relation and Transcendentals, in M. Pickavé, Die Logik des Transzendentalen, 325).
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 177

umano, ma permette pure di spiegare fatti fondamentali come l’Incarnazione di


Cristo, due nature in una persona (due haecceitates, che permettono di dire che
Dio è veramente esistito come uomo e dio nel nostro mondo attuale, ma una
sola persona, altrimenti l’unità si frantuma) 46. Certo, le norme naturali sono
associate alle cose esistenti da una relazione speciale (la volontà di Dio come
ripetono i teologi volontaristi medievali, ma anche la supervenience discussa nella
metafisica contemporanea) 47, ma la tesi scotista che associa il criterio di
identificazione ad una proprietà disgiuntiva 48, quasi che l’identità fosse una
supervenience sull’essenza dell’oggetto, mi pare mostri efficacemente come i mon-
di possibili intervengano nell’identità degli oggetti, siano essi inanimati o meno,
stati di cose empirici oppure norme (Ordinatio, II, dist. 3, pars 1, q. 5-6, 187-188,

46 Il luogo è quello della III, d. 1, q. 1, di cui disponiamo dell’edizione critica per la

Lectura. L’idea scotiana è che mentre l’haecceitas è un positivo (si dà positivamente nel mondo
attuale), la personalità è la negazione di una possibile e/o attuale dipendenza (è una formalitas
per ogni mondo possibile, senza l’identità transmondi crolla la fede cristiana).
47 La letteratura sulla nozione di supervenience è sconfinata, e mi limito qui a ricordare

che la fortuna di questa idea nel XX secolo, sebbene se ne trovino tracce già in Alessandro
di Afrodisia nel suo commento al De anima, è legata alle discussioni in ambito morale, prima
dall’intuizionista etico G. E. Moore, in The Conception of Intrinsic Value (1922), e poi
dall’utilitarista Richard M. Hare (che pare sia stato il primo ad usare il termine nella lingua
inglese filosofica, The Language of Morals, 1952). La sua successiva fortuna sconfina nel
campo della filosofia della mente e della metafisica analitica: si veda, per una raccolta recente
ricca di rimandi alla letteratura precedente, E. A. Savellos, Ü. D. Yalçin, a cura di,
Supervenience. New Essays, Cambridge 1995, di cui segnalo in particolare D. Bonevac, Reduction
in the Mind of God, ma si veda anche la raccolta di saggi di uno dei grandi esperti di questa
nozione, J. Kim, Supervenience and Mind, Cambridge 1990.
48 Nel XX secolo Armstrong (realista) sostiene una tesi esposta in senso critico da

Peter van Inwagen (nominalista) nel seguente brano: “some philosophers (ovvero Arm-
strong) think that the property role is played by things that are in some sense constituents of
objects, that properties are in some very subtle and abstract sense of the word parts of the
objects whose properties they are” (P. van Inwagen, The Nature of Metaphysics, in S. Laurence,
C. Macdonald, a cura di, Contemporary Readings in the Foundations of Metaphysics, Oxford 1998,
19-20, con rinvio a D. M. Armstrong, Universals: An Opinionated Introduction, Boulder 1989,
cap. 4, in particolare 73-74). Tuttavia, Armstrong non ritiene che tali proprietà disgiuntive
possano efficacemente fondare un’analisi delle leggi di natura, poiché si tratta di proprietà in
senso improprio (ma Armstrong non è un realista modale, cap. 5, in particolare 82-84).
Scoto, invece, crede che si diano proprietà disgiuntive (J. Kim, nel suo Supervenience as a
Philosophical Concept, in Metaphilosophy 21 (1990) 1-27, considera che si diano genuine
proprietà disgiuntive che ‘supravengono’ alle altre proprietà dell’oggetto, scotianamente alla
sua quidditas) e tale proprietà disgiuntiva è anche per Scoto parte dell’oggetto cosí identificato,
ossia partecipa all’oggetto senza ridursi ad esso.
178 CAPITOLO QUARTO

ex n. 15 – nella Lectura, luogo parallelo, non si trova un’esposizione lessicale


della proprietà disgiuntiva, tuttavia mi pare che essa sia semanticamente pre-
sente, per cui rinvio ai §§ 167-168, 170-172, specie 179):
“et si quaeras a me quae est ista ‘entitas individualis’ a qua sumitur diffe-
rentia individualis, estne materia vel forma vel compositum, - respondeo:
Omnis entitas quiditativa - sive partialis sive totalis - alicuius generis, est de se
indifferens ‘ut entitas quiditativa’ ad hanc entitatem et illam, ita quod ‘ut entitas
quiditativa’ est naturaliter prior ista entitate ut haec est , - et ut prior est
naturaliter, sicut non convenit sibi esse hanc, ita non repugnat sibi ex ratione
sua suum oppositum; et sicut compositum non includit suam entitatem (qua
formaliter est ‘hoc’) in quantum natura, ita nec materia ‘in quantum natura’
includit suam entitatem (qua est ‘haec materia’), nec forma ‘in quantum natura’
includit suam. Non est igitur ‘ista entitas’ materia vel forma vel compositum, in
quantum quolibet istorum est ‘natura’, - sed est ultima realitas entis quod est
materia vel quod est forma vel quod est compositum; ita quod quocumque
commune, et tamen determinabile, adhuc potest distingui (quantumcumque sit
una res) in plures realitates formaliter distincta, quarum haec formaliter non est
illa: et haec est formaliter entitas singularitatis, et illa est entitas naturae
formaliter. Nec possunt istae duae realitates esse res et res, sicut possunt esse
realitas unde accipitur genus et realitas unde accipitur differentia (ex quibus
realitas specifica accipitur), - sed semper in eodem (sive in parte sive in toto)
sunt realitates eiusdem rei, formaliter distinctae” 49.
Questa struttura metafisica offre a Scoto la possibilità di creare un
legame tra l’onnipotenza divina e quella del legislatore umano, attraverso una
fondazione della normatività che rimanda alla volontà, e a null’altro che non
sia la volontà. Il principio di contraddizione è vincolante in un sistema giuri-

49 Oltre al breve commento nell’edizione Wadding – chiaro nel porre la netta distin-
zione tra la realtà quidditativa e la realtà haecceitativa, ossia della Forma universale e della
manifestazione in un determinato mondo possibile - , si veda pure Quaestiones Metaphysicorum,
VII, q. 13, 119-120, ex n. 17: il principio di individuazione non può essere espresso in una
forma negativa poiché “conceptus negationis est contrahibilis”, e quindi potrebbe essere
riformulato in una forma piú elementare, come si deve per un principio (si veda pure
Lectura, II, d. 3, pars 1, q. 5-6, §§ 167-172, e il luogo parallelo dell’Ordinatio, 170, ex q. 6, n. 9,
176-178, ex n. 11). Nei Reportata parisiensia, II, d. 12, q. 8 si riprende l’argomentazione
generale delle altre stesure del commeno alle Sentenze, ma l’esistenza di una genuina pro-
prietà disgiuntiva è meno evidente, anche se permane la tesi che tra la cosa e la sua haecceitas
vi è una distinzione formale, e che non si dà quidditas senza una haecceitas, tanto che in nessun
modo le due cose possono collassare l’una sull’altra (in particolare, n. 8).
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 179

dico, ma solo in quanto direttiva indirizzata all’interprete: si è obbligati alla


coerenza solo se una norma di diritto positivo recita in tal senso, e tale norma
non può che essere indirizzata agli interpreti, i giudici in primis. Il legislatore
produce gli atti con forza normativa in funzione delle regole di procedura
riconosciute: in un regime parlamentare la legge si produce dietro voto a
maggioranza, e successiva procedura dovuta di promulgazione. L’espressione
secondo le regole positive della volontà del legislatore produce la legge: di fat-
to, questa produzione è disordinata e contraddittoria 50. Ma per salvaguardare
il prestigio della legge, per rinforzare la preminenza del legislativo sul giudi-
ziario (anche se a lungo andare, la storia lo mostra, il giudiziario impone la sua
prepotenza al legislativo), per evitare il ricorso alle norme del diritto naturale,
indigeste alla moda positivista del XX secolo 51, si ordina ai giudici di consi-
derare il sistema privo di contraddizioni, ossia di risolvere quelle che prima
facie vi si riscontrano con gli strumenti dell’interpretazione. Si tratta di un fatto
talmente banale da potere essere nascosto come la lettera di Poe, in bella
mostra sulla scrivania. Ecco che le contraddizioni del legislatore sono riqua-
lificate come atti di un cattivo legislatore: un buon legislatore non si contrad-
direbbe, il legislatore che si contraddice non è un bravo legislatore. Io vorrei
solo sottolineare che se esistono cattivi legislatori (nel senso appena visto,
dato che molti potrebbero giudicare eccellente il legislatore che si contraddice
sistematicamente), allora il sistema giuridico è pieno di contraddizioni. No, si
direbbe, sono solo errori fattuali: ecco allora l’argomento interpretativo,
secondo cui si deve interpretare una legge secondo quel significato che non
produce contraddizione nel sistema giuridico. Il dogma secondo cui in un
ordinamento giuridico esistono solo contraddizioni apparenti, dato che l’in-
terprete deve rifiutare ogni interpretazione della legge che produce contrad-
dizioni in favore di un’altra interpretazione che non ne produca, mi pare sia
fedele alla tradizione classicista, ma mostra che, prima della pur meritoria
operazione di pulizia classicista, nel sistema giuridico si danno contraddizioni.
Ammetterlo non toglie nulla al fatto di cercare buoni argomenti per ridurre le
contraddizioni realmente presenti nel sistema, attraverso l’interpretazione
oppure attraverso una nuova attività legislativa: ha però il grande vantaggio di

50 Questa è un’osservazione classica nella riflessione paraconsistente, sin da Richard


Routley, Relevant Logics, 63, e sviluppata con acume da Lorenzo Peña in vari lavori.
51 E’ utile porsi il problema del travisamento da parte positivista della riflessione di

Scoto, a cominciare da Hobbes: mi piace citare in questo senso Luis A. De Boni, De Abe-
lardo a Lutero, Porto Alegre 2003, 255-282.
180 CAPITOLO QUARTO

guardare ad un sistema normativo come un fatto della realtà umana, e non già
una mera costruzione dell’intelletto umano, un vantaggio che si comprende
con la grande tentazione di usare le mere costruzioni intellettuali come gio-
cattoli a disposizione degli esperti. Un conto è che gli operatori del diritto
siano vincolati dai limiti che essi decidono di darsi nel nuovo gioco di società
da loro inventato che chiamano “diritto”: altra cosa è che essi siano limitati
dalla complessità della realtà sociale e dalle contraddizioni vere che essa
esprima nel suo apparato nomotetico.
Dio, invece, non è vincolato da nulla, perché se fosse vincolato da qual-
cosa, si dovrebbe potere immaginare un altro Dio che non è vincolato da quel
qualcosa: quest’ultimo sarebbe invero Dio, non già il primo che si rivelerebbe
uno pseudo-Dio. Nessun principio, nessuna idea, nessuna virtú possono limi-
tarlo: il Dio personale trascendente non è un demiurgo artigiano. E se si teme
che questo sia l’arbitrario, allora non si comprende l’amore divino 52: tutta
l’opera normativa di Scoto è un commento a questa idea, Todisco lo mostra
con forza in un suo volume esemplare53, e Scoto lo dice esemplarmente in un
passo dei Reportata a proposito della creazione del mondo 54. Certo, Dio può
realizzare nel nostro mondo attuale ogni cosa, ed ogni cosa che realizza deve
essere compossibile con le altre cose realizzate, ma si badi, Dio cozza solo
contro il linguaggio, che è a sua completa disposizione. Se definiamo “cavallo”
come animale mammifero, il cavallo non potrà fare le uova, ma Dio potrebbe
benissimo fare covare i cavalli, solo che nel nostro linguaggio stipulativo
quell’animale non sarebbe piú un cavallo (vale appena la pena notare che tale
linguaggio stipulativo non è quello ordinario e corrente, dato che la possibilità
che i cavalli facciano le uova è perfettamente intelligibile nel linguaggio
comune 55). Certo, Dio non può creare le Chimere oppure i cerchi quadrati: ma è

52 Esplora il nesso tra volizioni divine e esplosione dell’amore H. Romuald Kosla,


“Voluntas est principium producendi amorem infinitum”. La productio e la complacentia
nell’autocomunicazione divina secondo il B. Giovanni Duns Scoto, Roma 1995. In questa direzione
risulta utile la raccolta commentata (dalla scuola olandese di de Vos) di testi scotiani Duns
Scotus on Divine Love, Aldershot 2003.
53 Orlando Todisco, Lo stupore della ragione, Padova 2003.
54 Reportata parisiensia, II, d. 1, q. 3, n. 14.
55 Una argomentazione persuasiva in favore della natura radicalmente non-stipulativa

del linguaggio comune mi pare quella di Hilary Putnam, Is possible semantics?, in H. Kiefer, M.
Munitz, Contemporary Philosophical Thought, I, New York 1970, trad. italiana in Mente, linguaggio
e realtà, Milano 1987, 162-176. Putnam parla di “definizioni a stereotipo” nel linguaggio
comune, che rendono conto dei “fatti essenziali” e che sono valide anche in presenza di
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 181

anche vero che Dio non può essere ridotto ad un livello subordinato di
Humpty Dumpty, Dio è il padrone del linguaggio, e per Lui è banale cambiare
il linguaggio, il suo linguaggio che descrive la totalità del mondo, ammesso che
per noi abbia senso immaginare un tale linguaggio senza antropomorfizzarlo.
La Legge Universale non cambia se non per una volizione del Legislatore
Supremo, e tuttavia, in costanza della Legge Universale, Dio può volere per me
qualcosa che è in contrasto con la legge universale (si pensi ad Abramo ed
Isacco, che considero qui come una vera e propria deroga – “Abramo deve
uccidere Isacco” e contro-deroga – “non è vero che Abramo deve uccidere
Isacco” - al divieto di uccidere, mentre nella tradizione è spesso vista come una
messa alla prova 56). Si può dire in tal caso che Egli ha derogato alla legge
universale, come dirà Scoto, ma questo è un punto di vista confinato al nostro
mondo attuale: nell’ontologia globale dei mondi possibili, Dio può volere
punire l’omicida, volere che io uccida mio figlio e anche lodarmi per farlo. La
storia di Abramo e Isacco è andata diversamente, e la spiegazione (non-causale,
certo) è che Dio è sommo amore gratuito; tuttavia, il ragionamento logico e
ontologico può agitarsi intorno ad un Abramo∆ che non riceve la visita
dell’angelo per comunicargli che l’ordine del sacrificio non è piú in vigore.
Si tratterebbe di una contraddizione vera, ben differente dalle Chimere, che
sono una Super-Contraddizione. Infatti, se Abramo∆ (Abramo in un altro
mondo possibile, quello in cui) avesse ucciso suo figlio, noi avremmo dovuto
credere a partire da un ragionamento valido (dalla legge universale del Deca-
logo) che fosse biasimevole, e noi avremmo dovuto credere pure a partire da un
ragionamento valido (dalla fedeltà alla volontà di Dio) che fosse lodevole 57. Un
solo atto fisico, un solo sistema morale oggettivo, la volontà di Dio, due atteg-
giamenti morali alternativi (lode e biasimo): ma un atteggiamento morale (lode
o biasimo) richiede una relazione biunivoca con un comportamento, cosí nel
nostro mondo attuale la situazione descritta è co-impossibile. Si tratta di un

mutazioni dinamiche di questi fatti essenziali (il cavallo è sempre un cavallo anche se prima
era un mammifero, poi un oviparo).
56 Anche oggi si può assumere l’idea della messa alla prova di Abramo da parte di Dio

come la tesi standard; cosí Mark C. Murphy, An Essay on Divine Authority, Ithaca 2002, 40-41.
57 Non solo i volontaristi medievali, ma anche i teorici della divine command morality

distinguono tra il comando divino e la volontà divina, dato che il comando è legge deter-
minata dalla volontà divina e la volontà divina può volere per me una obbedienza ad altro
rispetto al comando. Per Scoto, mi limito a citare Lectura, II, d. 6, q. 2, § 36: “debet autem
velle secundum conformitatem voluntati divinae in ratione volendi”.
Si veda la raccolta P. Helm, a cura di, Divine Commands and Morality, Oxford 1981.
182 CAPITOLO QUARTO

dilemma morale, e solo dopo il Giudizio Finale si potrà vedere il beato


Abramo∆ oppure il sanzionato Abramo∆. E ogni sistema umano di norme
morali può realizzare qualche contraddizione vera, ossia dei dilemmi morali:
solo Dio, dopo il Giudizio Finale potrà stabilire lo status morale di questi
dilemmi, tramite il suo giudizio che è non già un insieme di regole predeter-
minate, bensí l’esercizio del suo atto di volizione che crea la norma ipso facto.
Qui emerge con prepotenza quello che Orlando Todisco ha chiamato lo “stu-
pore della ragione”: arrivati alla resa dei conti, alla redde rationem, non c’è sistema
deduttivo e razionalista che possa illuminarci sulla volizione divina. Solo l’amo-
re e la misericordia sono le chiavi della giustizia divina, solo l’amore e la mise-
ricordia sono produttrici di una normatività tanto piú perfetta quanto apparen-
temente senza oggetto di costrizione, dato che chi è moralmente libero ama e fa
quello che vuole, ossia sempre e costantemente il bene. Ma la norma del bene,
anche se non ci costringe a differenza delle misere norme dei sistemi sociali e
giuridici umani, proprio per questo anzi, è la norma piú perfetta, perché dal fat-
to dell’amore è immediatamente la norma della vita 58.

DEUS
||
|| ||
Legge Universale Volizione divina per me
↓ ↓
1. Norma oggettiva e comportamento 2. La mia volizione e comportamento
↓ ↓
Lode – Biasimo

Bisogna sottolineare che, assunta struttura del volontarismo ontologico, lo


schema precedente mostra la possibilità di contraddizioni vere, e poi vuoi la
Bibbia (come per i casi di deroga del Decalogo – Abramo e Isacco, ma anche
Osea che prende in moglie una donna di prostituzione su ordine divino, o gli
Ebrei in fuga che si appropriano dei beni degli Egizi sempre su ordine divino),
vuoi la nostra esperienza morale, ci attestano dell’esistenza di contraddizioni
vere. Esistono infinite strategie per negare l’esistenza di genuine contraddizioni

58 Sottolinea opportunamente la valenza spirituale dell’amore nell’economia filosofica


scotista la voce enciclopedica di Carol Balic, Duns Scot (Jean), in Dictionnaire de spiritualité
ascétique et mystique, III, Paris 1957, 1801-1812, a cui si può affiancare il volume collettivo La
vita spirituale nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, Assisi 1966.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 183

vere, in omaggio deferente al dogma classicista: ci si è inventati nella teoria


positivistica dell’interpretazione giuridica il principio per cui la legge piú recente
si applica a discapito della piú datata. Questo principio è buono per essere
insegnato nelle aule universitarie, ma gli stessi giudici lo applicano a macchia di
leopardo 59, quindi non è un vero principio ma una possibilità di risolvere una
contraddizione apparente in un dato caso (si ricordi che i giudici sono tenuti a
risolvere comunque il litigio di fronte a loro, al limite ‘inventandosi’ senza dirlo
la soluzione). Ma in realtà, come meglio percepivano i canonisti medievali, è un
principio-schermo, dietro il quale si celano delle buone ragioni per applicare la
legge piú recente, ma se ci sono ragioni migliori per applicare la legge piú
datata, il principio non si applica (è vero che se l’ordine viene direttamente da
Dio, allora il principio è persuasivo, ma nient’affatto se l’ordine proviene dagli
uomini). Insomma, è uno pseudo-principio che si giustifica solo per giustificare
laicamente il rispetto piú rigido al dogma dell’assenza di contraddizioni nor-
mative vere, che non sono semplicemente superate dal principio, che è chia-
mato a negare l’evidenza della loro esistenza. Del resto, prima dell’epoca di san
Tommaso e di Duns Scoto intere generazioni di pensatori cristiani hanno
voluto evitare nei casi biblici di deroga del Decalogo un mutamento normativo,
ricorrendo a tutti gli strumenti dell’interpretazione (messa alla prova di Abramo,
simbologia nella profezia di Osea, risarcimento dovuto agli Egizi), sottolinean-
do aspetti del reale, che però non dovrebbero fare dimenticare che c’è una
contraddizione vera. Si noti che si può parlare piú facilmente di deroga, di
mutamento della norma se si tratta di un confronto tra due volizioni dello
stesso tipo (o ambedue generali, o ambedue per me): per un cattolico, Dio ha
prima comandato la circoncisione nell’Antico Testamento, poi l’ha revocata nel
Nuovo tramite gli Apostoli, cosí ha mutato la normatività della circoncisione
(non cosí per gli Ebrei, e questo pone il problema della ricognizione della
manifestazione della volizione divina, problema di peso per un volontarista
ontologico, ma di cui non mi occupo in queste pagine consacrate a Scoto); Dio
ha ordinato ad Abramo di uccidere suo figlio, poi gli ha ordinato di non farlo

59 I giuristi piú disincantati, sebbene positivisti perché allergici al giusnaturalismo, ma

insensibili alle sirene dell’ideologia positivistiva perché fondamentalmente scettici, mostrano


le falle della vulgata dominante, anche se poi slittano nella riduzione della normatività alla
descrizione dei comportamenti umani. Mi pare emblematico Giovanni Tarello, L’interpreta-
zione della legge, Milano 1980, 29-31. Tarello è certamente mille miglia lontano da un
giusnaturalismo ontologico, ma egli osserva lucidamente: “trattare il sistema giuridico come
dotato di coerenza e completezza è una scelta dell’organo di applicazione e non un carattere
intrinseco del discorso legislativo (e tanto meno di qualunque discorso legislativo)” (84).
184 CAPITOLO QUARTO

(la Sua volontà per Abramo è mutata). Ma se collidono una volizione generale e
una volizione-per-me, allora c’è una contradidizione vera, perché i due atti di
volontà si presentano indipendenti e assolutamente vincolanti, nel senso che la
storicità della manifestazione divina è annullata, e quella che rimane al piú è la
cronologia della rivelazione, ma essa non è rilevante nella a-temporalità divina.
Intendo dire che nella produzione normativa Dio è a-temporale, mentre la
rivelazione, essendo per noi in quanto riceventi, è temporale. Di fronte ad una
contraddizione vera, siamo spinti a trovare almeno una buona ragione per sce-
gliere uno dei due corni dell’alternativa, specie se siamo costretti a prendere
posizione, come un giudice chiamato a dirimere un litigio, oppure una singola
persona che può fare un qualcosa (e rispettare una delle due norme), oppure
astenersene facendo tutt’altro (e automaticamente rispetta la norma contrad-
dittoria). Spesso la teoria dell’intepretazione ci assicura che la contraddizione
era solo apparente, a patto di comprenderla al meglio; ma in altri casi, nessuna
diavoleria interpretativa è persuasiva, ed allora, come i maestri rabbinici del
Talmud, si deve essere consapevoli di essere di fronte ad un genuino dilemma
morale. Si può fare A, e sapremo che è lecito-e-illecito, si può fare non-A, e
sapremo che è lecito-e-illecito: è in questo spazio che la misericordia divina trova
la sua esaltazione, dato che non possiamo in nessun modo pretendere di
scimmiottare la Sua giustizia. Dio giudicherà in misericordia, e allora forse vedre-
mo il dilemma morale in una nuova luce, ma forse allora tutto ciò non avrà piú
importanza, perché, come dice Todisco, si imporrà “lo stupore della ragione”.
Si osservino le tre seguenti citazioni come emblematiche. Nella prima si
vede come la nozione di merito sia associata ad una sfera ordinata dalla volontà
divina, non già a caratteristiche intrinseche di un atto o di uno stato di cose. Se
Dio decidesse in merito, anche levarsi il cappello sarebbe meritorio: e nel
Vecchio Testamento era meritorio praticare i sacrifici, nel vigore del Nuovo
Testamento non lo è piú.
ratio meriti et iste modus in actu diligendi in quantum meritorius est, non dicit
aliquid causatum, sed tantum ordinem ad voluntatem divinam acceptantem
actum diligendi causatum a voluntate et caritate. Unde si Deus acceptasset quod quid
levaret festucam, hoc esset meritorium; et in Lege fuit actus meritorius immolare
victimas Deo, quia tunc fuit acceptatum a Deo, et modo non est meritorium, quia
non acceptatum a Deo (Lectura, I, d. 17, pars prima, q. unica, § 89)

Nella seconda citazione Scoto ritorna sulla derogabilità del Decalogo da


parte di Dio, e la colloca in un’ottica di gerarchia normativa, in cui il potere
superiore può manipolare la legge secondo l’abilitazione ricevuta (si noti come
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 185

questa concezione sia stata erosa nel XX secolo per un malinteso processo all’uso
che le dittature avrebbero fatto della legge, e sia emersa la concezione della legge
come prodotto di una classe burocratico-elitaria, il giudiziario non-elettivo)
stantibus istis conditionibus ex parte materiae, scilicet hominis, etc. potest fieri
licitum occidere talem hominem, puta si Deus revocet illud praeceptum, Non occides, sicut
dictum est in q. praecedente, et non solum licitum, sed meritorium, puta si Deus
praecipiat occidere; sicut praecepit Abrahae de Isaac, igitur a simili vel a majori
potest fieri licitum proferre orationem creditam esse falsam (Opus oxoniense,
III, d. 38, q. unica, n. 5)

Nella terza citazione Scoto esemplifica per l’ennesima volta il fatto che il
giudizio divino non è vincolato da una pretesa giustizia umana redatta dagli
uomini, bensí dalla sua volontà-amore; con la precisazione che lo stesso con-
cetto di “bene pubblico” fotografa una situazione, non già i mezzi normativi
per ottenerla, che si devono accordare non già al raggiungimento di tale situa-
zione, bensí all’ordine normativo divino
Dico ergo, quod potest velle Petrum damnari, et juste velle, quia illud particulare
justum: Petrum salvari, non necessario requiritur ad justum publicum, quin
oppositum ejus possit ordinari ad illud idem, scilicet condecentiam divinae
bonitatis. Est enim illud finis quod, nullum ens ad finem determinate necessario requirens
(Opus oxoniense, IV, d. 46, q. 1, n. 9)

Tra 1. e 2. è possibile una vera contraddizione nel nostro mondo attuale (è


vero che merito di essere rimproverato (perché non faccio la cosa giusta) ed è
vero che merito di essere lodato (perché ho compiuto la volontà di Dio) 60). Nel
mondo umano, 1. è il mondo del Legislatore, e 2. è il mondo del giudice: di
solito, diciamo che il giudice interpreta le norme del legislatore, e attraverso il
meccanismo interpretativo può eliminare le contraddizioni prima facie. Nello
schema di Scoto, che mi pare capace di rendere conto della pratica dello sche-
ma giuridico mondano (fedele alla logica classica), Dio può cambiare la sua
legge universale ad ogni istante (umano): in questo modo agisce attraverso il
suo potere assoluto. Ma ciò che conta è che anche nel contesto del suo potere

60 Andrea di Neufchateau, frate minore della seconda metà del XIV secolo, volon-

tarista e partigiano medievale della divine command theory, argomenta contro la tesi secondo cui
sono sempre un peccato la blasfemia e l’odio di Dio: esclude che vi possa essere una
differenza per il folle e l’uomo sano, e che il potere divino assoluto possa fare realmente che
un singolo atto di una persona “potest esse et non esse” peccaminoso (nella edizione Idziak,
I, d. 48, q. 2, ad quintum).
186 CAPITOLO QUARTO

ordinario può salvare e beatificare qualcuno che muoia in stato di peccato


mortale. Nel primo caso, attraverso l’esercizio della potenza assoluta, egli modi-
fica la norma anteriore con una norma posteriore, il cui vigore sarà un certo
tempo t# (da brevissimo a molto lungo). Nel secondo caso, invece, Egli non
sta cambiando la legge universale, bensí in quanto Giudice divino sta agendo
non-conformemente al Legislatore divino. E’ una contraddizione vera, tra due
atti della volontà divina di cui uno si colloca sul livello del nomoteta e l’altra sul
livello dell’applicazione del lavoro del nomoteta. Tra questi due livelli, entrambi
risalenti all’autorità suprema 61, ossia Dio, non si dà supremazia dell’uno
sull’altro: essi valgono in quanto atti divini, e se si dà contraddizione, è una
contraddizione vera.
Si badi che un comportamento contraddittorio è tutt’altra questione ri-
spetto ad una coppia di norme contradditorie: se l’oggetto di una singola norma
è impossibile a realizzarsi, l’obbligazione imposta è nulla e inesistente per diritto
divino (Opus oxoniense, IV, d. 34, q. unica, n. 2; parimenti, Reportata parisiensia, IV,
d. 34-35, q. unica, n. 3), dato che non si può dire che tale norma è contrad-
dittoria, bensí che essa dispone un comportamento impossibile. Si noti che qui
si va oltre il brocardo giuridico per cui nessuno è tenuto all’impossibile (nemo ad
impossibilia tenetur): non si tratta di una causa di esonero, non si tratta di una
giustificazione che blocca la sanzione, discutendo in materia di matrimonio
Scoto asserisce che la norma che prevede una fattispecie impossibile è ispo facto
inesistente. Emerge qui il realismo metafisico di Scoto: per un nominalista, due
norme contraddittorie (N1=“si deve A” e N2=“si deve non-A”) possono
essere riformulate come una singola norma che impone un comportamento
contraddittorio (N3=“si deve A e non-A”, tale che N1 e N2 se e solo se N3).
Per Scoto, invece, il fondamento ontologico di una norma è la volizione che la
pone 62; due norme sono due atti di volontà, e se contraddittorie pongono una
contraddizione vera. In particolare, non è vero che se N1=“si deve A” e

61 Nel suo lavoro già citato, Mark Murphy (An Essay on Divine Authority) discute la

questione di sapere perché si deve obbedire a Dio. La sua soluzione è quella di sottolineare
che si danno buone ragioni per sottomettersi alla volontà divina, e che sarebbe irragionevole
non farlo, ma rifiuta che la Signoria divina si imponga ipso facto su tutte le creature (specie
152-175). Queste tracce di contrattualismo volontaristico mi paiono estranee ai volontaristi
cristiani medievali: la risposta di Scoto è piuttosto quella che afferma che se si dà una volontà,
allora “si deve amare Dio” è “verum practicum complete”, e “verum perfectum .. practicum” è
invece “Deus est amando a Deo” (Ordinatio, Prologus, pars 5, q. 1-2, 336, ex n. 37).
62 Cosí si può esprimere un autore come Alexander Broadie, The Shadow of Scotus,

Edinburgh 1995, 39: “the value is held in existence by an act of divine will”.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 187

N2=“si deve non-A”, allora è vero che N3=“si deve A e non-A”. Si può dire
che è vero N1 e N2, ma N3 è una norma che dovrebbe essere posta da un
terzo atto di volontà, di cui si può eventualmente accertare l’esistenza, non già
dedurlo (fallacemente) da N1 e N2 63: la logica classica non si applica alle norme,
non già perché la logica non si applichi alle norme, bensí perché la logica para-
consistente si applica alle norme.
Si noti, il fatto che due norme siano contraddittorie non si ricava imme-
diatamente dal fatto che le due proposizioni che le esprimono sono contrad-
dittorie: questo mostra solo che le due norme sono prima facie contraddittorie.
Potrebbe darsi che la prima norma sia divina, e la seconda umana, ossia che la
prima sia gerarchicamente sovraordinata alla seconda, ed allora la prima si
impone alla seconda (che non si applica): oppure potrebbe darsi che la prima
norma sia stata posta nel tempo t2 e la seconda nel tempo t1 (con t1<t2), e
siano state prese da un’autorità abilitata che manifesta il mutamento della sua
volontà con la norma piú recente, ed allora la prima norma si impone alla
seconda (che, piú vecchia, non si applica). Ma se non si dà alcun criterio per
rimuovere la contraddizione prima facie, allora si può affermare che si dà una
contraddizione vera. La nozione di teyku presente nella tradizione talmudica è
qui riproposta in una diversa veste culturale, ma con la stessa portata semantica:
due norme poste da una volontà incontestabile (Dio che ha posto la Torah
orale, per esempio; lo stesso legislatore in un ordinamento giuridico e senza
distinguo di sorta) che disciplinano con qualifica contraria lo stesso comporta-
mento (una lo vieta, l’altra lo rende obbligario) generano un dilemma – morale
e/o giuridico – che né ammette, né ammetterà soluzione. Si tratta di una
contraddizione normativa vera (è vero che mi devo astenere da quel compor-
tamento, ed è vero che devo attuare quel comportamento). Al contrario, una
norma unica posta da una sola volizione e che imponga un comportamento
impossibile, anche fosse voluta da Dio, non ha esistenza ontologica: la contrad-
dizione vera si genera attraverso due norme, non attraverso la previsione di un

63 Questo contesto ricorda il dibattito novecentesco intorno all’opera di Hans Kelsen

Allgemeine Theorie der Normen (ed. postuma 1979, tr. it. Teoria generale delle norme, Torino 1985),
in cui la posta era quella di determinare se la logica (classica) si applichi o meno alle norme.
Si noti che Scoto colloca la questione nei limiti della logica classica, non tanto nella natura
ontologica delle norme, che per lui sono il prodotto di atti di volontà, certo, ma non meri
atti di volontà: per dirla brevemente, il volontarismo kelseniano è nominalista, quello
scotiano è realista. Nondimeno, la logica paraconsistente mi pare in grado di gettare una luce
ben piú fruttuosa sull’ultima opera di Kelsen, non a caso messa in secondo piano
dall’ortodossia giuspositivista.
188 CAPITOLO QUARTO

comportamento contraddittorio. La realizzazione di un comportamento im-


possibile (fare e non fare A) è una Chimera: la norma che lo prevedesse (voglio
che tu faccia A e che tu non faccia A) sarebbe semplicemente inesistente. Si
tratta di una situazione del tutto diversa da quella che concretizza il dilemma
morale, teyku: un dilemma è l’alternativa tra il fare e il non-fare (uno tra cento,
recitare o meno con i sandali sporchi una certa preghiera), anche il significato di
“poco” può generare un dilemma, se l’azione di consumare “poco” genera il
confine tra il lecito e l’illecito – sebbene i giudici facciano normalmente uso de-
gli standard giuridici (nozioni a contenuto variabile), a volte anche uno standard
genera una contraddizione vera 64.

III. Velle e nolle, la fattualità della norma

L’analisi del linguaggio morale associato (nolle, velle, non velle) con la propo-
sizione per cui la teologia è pratica (volontà divina), e non una scienza specu-
lativa (intelletto divino) 65 è un punto essenziale. L’interesse di Scoto per le
contraddizioni vere è essenzialmente limitato a contesti relativi all’attività della
volontà divina, poi a quella dell’essere umano. La creazione del mondo è una
questione pratica, e non speculativa: la modalità intellettuale dell’esistenza del
mondo è concepibile anche se, per impossibile, Dio non fosse. L’esistenza è un
atto della sua volontà, la sola ed unica causa perfetta: l’esistenza di Dio nel
nostro mondo attuale, in ogni mondo possibile, e la sua assoluta separazione
ontologica dalla creature (esistenti) è la prima contraddizione vera. Dunque, ci
sono contraddizioni vere in ogni sistema normativo: la prima contraddizione
vera è tra la legge universale creata dalla volontà divina e la volontà divina che
determina per ogni persona la ricompensa e la punizione quale atto positivo e
specifico della volontà. Negli ordinamenti giuridici la situazione è piú compli-
cata, dato che il legislatore è spesso separato dal giudice, e i due soggetti sono
veramente un insieme di soggetti: la contraddizione vera è la manifestazione
epifenomenica dell’illusione di una descrizione puramente intellettuale del
sistema normativo. Per quanto riguarda l’intelletto divino, Scoto si interessa
essenzialmente della Super-Contraddizione, del niente e dei suoi nomi, quali
Chimera oppure non-uomo-prima-della-creazione66.

64 L. Jacobs, Teyku, 88: il rinvio è a Ketubot, 80a.


65 Cosí Collationes, 30, n. 8, un résumé della posizione di Scoto.
66 Si occupa dei nomi del niente Nicolas Rescher, Nonexistents Then and Now, in Review

of Metaphysics 57 (2003) 359-381, cui rimando perché da un lato riassume lo stato attuale della
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 189

Duns Scoto, Opus oxoniense, III, d. 37, q. unica, n. 7: “possibile est me velle
proximum diligere Deum, et tamen nolle vel non velle sibi vitam corporalem, vel
servare fidem conjugii, et sic de aliis”.
Il passaggio in Ordinatio, I, d. 17, pars 1, q. 1-2, 163 “Quinta via”, ex-q. 3,
n. 29, mi pare tra i piú significativi nell’escludere l’equivalenza della doppia
negazione all’affermazione semplice:
non-inimicus non est “amicus”: quia aliquis, condonans alteri offensam - per hoc
quod non amplius quaerit vindictam pro offensa - non fit amplius eius inimicus;
sed non propter hoc sequitur quod statim recolligat eum amicum, nec quod
respuat eum ut inimicum contrarie, sed negative, - quod nec velit sibi malum ut
inimico, nec bonum ut amico”. Altra versione dello stesso passaggio: “inter
amicum et inimicum est dare medium, scilicet nec amicum nec inimicum positive.

Scoto sta giustificando la tesi per cui una disposizione sovrannaturale


verso la Grazia non è necessaria dato che Dio agisce per potentia absoluta (la
condizione dei beati è assolutamente non-un-merito), ma se Dio agisce per
potentia ordinata questa disposizione è necessaria (come insegna l’autorità dei
Padri della Chiesa). Nel passo parallelo piú sintetico dei Reportata parisiensia, I, d.
17, q. 1, emerge ancora piú chiaramente che per Dio sono possibili contrad-
dizioni vere in materia morale: prima Scoto respinge la tesi secondo cui la carità
infusa non sarebbe necessaria, e lo fa argomentando che se Dio prima volesse
(velle) condannare una persona, e poi non volesse assolutamente (nolle) salvarla,
e se nella persona non si producesse mutazione di sorta, stabilito che la sola
mutazione possibile è nella carità (dato che la fede e la speranza convivono con
il peccato), allora vi sarebbero due contraddittori veri, il velle e il nolle divino (n.
3). E poi risolve la questione dicendo che secondo la potenza assoluta divina la
carità infusa non è necessaria (e quindi si dà una contraddizione vera), mentre
secondo la potenza ordinaria essa lo è (ecco che la contraddizione vera non è

questione nel dibattito dei mondi possibili non senza evocare prima san Tommaso e
Abelardo, e dall’altro perché avanza osservazioni preziose (parte della materia di questo
articolo è anche presente nel suo volume già citato Imagining Irreality, cap. 5). Non si dà
descrizione dei non-esistenti (ecco che la Chimera è niente come è niente l’uomo prima di
essere creato), e i non-esistenti sono “mere schemata” (376, evocazione delle formalitates), per
concludere che la tesi del realismo modale, che ci assicura della realtà dei mondi possibili,
trova l’argomento piú persuasivo nell’esistenza di Dio (381, il che ci mostra come il realismo
modale sia una scelta del tutto consona in un contesto di filosofia cristiana).
190 CAPITOLO QUARTO

piú presente) 67. Ma Scoto precisa che l’agire secondo potenza ordinata non è
determinato dai principia pratica, il che lo renderebbe necessitato, ma dalle leggi
stesse poste da Dio, contro le quali Egli può agire lecitamente secondo potenza
assoluta, dato che ogni legge divina, ipso facto, è retta (n. 7).
Si consideri che la coppia ‘amico-nemico’ è legata in primo luogo al
rapporto tra l’uomo e Dio: nei Reportata parisiensia, IV, d. 16, q. 2, n. 21, rispon-
dendo ad una obiezione sull’infusione della grazia, considera che l’anima ‘in
puris naturalibis’ non è stata creata né come amica, né come nemica del bene
(quindi tertium datur) 68; nell’Opus oxoniense, IV, d. 21, q. 1, n. 3, Scoto, per
respingere una tesi contraria (il debito della pena eterna potrebbe sussistere
insieme alla grazia), osserva che il peccato mortale non-perdonato potrebbe
sussistere con la grazia, nello stesso modo in cui si ritrova nella persona che lo
ha compiuto alla fine dell’azione, tanto che la medesima persona sarebbe amico
(nella grazia) e nemico (nella colpa mortale) di Dio 69, mostrando perciò che
veramente nemico e amico sono Super-Contraddittori. Scoto rinvia qui alla d.
14 dello stesso libro IV in cui mostra come la nozione di amico e nemico rin-
viano a una questione normativa, non già a delle proprietà naturali 70. Amico e

67 Riecheggia lo stile di Ordinatio, Prologus, pars 1, q. unica, 55, ex n. 19, in cui afferma

“licet non sit contradictio gratiam dari sine fide” e prosegue sull’assoluta gratuità nell’azione
di Dio che giustifica una persona per i suoi meriti anche se non è battezzata e nell’azione di
Dio che giustifica una persona battezzata senza considerazione di sorta per i suoi meriti
(inesistenti). In un luogo parallelo della Lectura, § 33, Scoto continua a discutere del potere
assoluto di Dio che gli consente di conferire agli uomini una conoscenza che gli è
normalmente negata, ossia la conoscenza degli incomplessi, come accade a Paolo folgorato
sulla via di Damasco (“Deus potest causare supernaturaliter cognitionem incomplexorum ..
sed haec non est communis revelatio .. in via non habemus revelationem de incomplexis,
secundum communem legem”).
68 Il testo del luogo parallelo dell’Opus oxoniense (IV, d. 16, q. 2, n. 17) è differente, ma il

concetto è identico.
69 Reportata parisiensia, IV, d. 21, q. 1, n. 6.
70 Sebbene si possa difendere la naturalità della morale, ed io sono assai propenso a

assumere tale posizione - a condizione che la naturalità ricomprenda tutta la realtà (ossia
tutti i mondi possibili) e non già l’esistente (ossia il solo nostro mondo attuale), non per
questo la proprietà morale è una proprietà naturale, se per proprietà naturale si intende una
proprietà intrinseca dell’oggetto. George E. Moore sosteneva che la bontà sia una proprietà
intrinseca, tuttavia in un’ottica cristiana come quella di Scoto la bontà non può essere una
proprietà intrinseca, dato che per parlare di bontà occorre almeno porre in relazione l’og-
getto (la persona agente morale) e Dio, ossia una relazione estrinseca tra due agenti, certo
fondamentalissima, ma non naturale.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 191

nemico sono termini morali, e per il volontarismo etico questo significa che
rinviano in ultima analisi ad una questione normativa.
Nell’Opus oxoniense, IV, d. 14, q. 1, per spiegare i rapporti tra i peccati
umani e le reazioni divine, Scoto fa un esempio (n. 7) 71: si dia qualcuno che
offende gravemente un sovrano, tanto da meritare una grave pena; una volta
compiuto l’atto di offesa, in lui non c’è nessuna nuova qualità per la quale si
possa dire che è nemico del sovrano, se non il fatto di avere compiuto un atto
che spinge il sovrano a reagire normativamente con la sanzione. Ma questa
reazione non è meccanica, se il sovrano la vuole è giustificata dalla legge, ma
solo la volontà del sovrano può decretare l’esecuzione della pena. Lo stesso vale
per Dio e gli uomini 72: ecco che il nemico è colui che è meritevole di sanzione,
il non-nemico è colui che non è meritevole di sanzione, mentre l’amico è colui
che è meritevole di premio. Normativamente, il premio e la sanzione sono
regolati da una coppia di norme distinte, da atti di volontà distinti: ecco che la
negazione di nemico non coincide con amico, né quella di amico coincide con
amico. Lo schema divino da un lato di volle e nolle, e dall’altro di non-velle non-nolle,
si ripercuote su tutto il linguaggio morale umano, attraverso il volontarismo
etico scotiano che fa del premio e della sanzione, della lode e del biasimo due
funzioni di volizioni della fonte nomotetica abilitata. Lo spazio neutro della
negazione di velle e di nolle – genuini atti positivi della volontà – è ripetuto inces-
santemente da Scoto, che disegna cosí una logica che rifiuta l’esistenza di due
soli valori di verità: in Opus oxoniense, IV, d. 49, q. 9-10, n. 8, considera non
valido l’argomento “non volo beatitudinem, ergo nolo eam, sive non volo esse
miserum; ergo de necessitate nolo esse miserum” 73: volere la felicità non
implica non-volere l’infelicità, e neppure non volere non-essere-infelice. Da cui
l’impossibilità da un lato di associare in una implicazione logica rilevante l’atto
di volizione positiva con l’atto di volizione negativa; dall’altro di considerare
come equivalenti la felicità e la non-(non-felicità), dato che l’infelicità è la non-
felicità, ma la negazione della non-felicità non equivale alla felicità. O Scoto

71 Lo stesso è detto nel passo perfettamente parallelo dei Reportata parisiensia.


72 Si veda il breve libro biblico di Malachia, che si apre con i rimpoveri da parte di Dio
alle distorsioni operate dagli Ebrei nel culto che gli rivolgono, prosegue con la promessa di
sanzioni terribili (“Ecco, io spezzerò il vostro braccio e spanderò sulla vostra faccia
escrementi”), si chiude con la compassione divina verso i “timorati di Dio”, che scrivono un
libro di memorie davanti a lui (“avrò compassione di loro come il padre ha compassione del
figlio che lo serve .. per voi invece, cultori del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di
giustizia, e voi uscirete saltellanti come vitelli di stalla”).
73 Luogo parallelo nei Reportata parisiensia, q. 8-9, n. 10.
192 CAPITOLO QUARTO

assembla parole in libertà – il che equivale a liquidarlo come filosofo analitico e


ridurlo a mistico inusitatamente ‘freddo’, oppure assume senza equivoci una
logica a piú valori di verità, non meramente intuizionistica, bensí paraconsisten-
te. E’ la sua concezione della volontà e dell’ingresso della contingenza nel mon-
do che lo spinge verso queste posizioni: “neutrum elicio necessario circa quod-
cumque obiectum” (eod. loc.). Mentre è valido ragionare “non possum velle
esse miserum, ergo non possum odire beatitudinem”, è invalido inferire “non
possum velle esse miserum, ergo necessario volo beatitudinem”. La forza del
principio di bivalenza è bloccata dalla presenza della volontà libera produttrice
di contingenza: questo implica che se c’è validità della logica classica e della sua
concezione della bivalenza, esso non può che limitarsi a un insieme di oggetti
che non include agenti liberi, e senza alcuna considerazione di agenti liberi in
relazione agli oggetti inclusi in questo insieme. Se consideriamo tuttavia che
Dio ha creato il mondo, la validità della logica classica non può che essere
strettamente locale: nel cuore dell’esperienza cristiana, lo stato di beatitudine
non può derivare da un nolle, foss’anche il nolle rispetto al demonio, perché ciò
che è primo è l’amore, e ogni nolle non può che affermarsi nel velle dell’amore
(Opus oxoniense, IV, d. 49, q. 5, n. 2). La misericordia, per esempio, è un nolle
rispetto all’infelicità altrui (Opus oxoniense, IV, d. 46, q. 2, n. 2): la negazione della
misericordia non equivale certo al fatto di volere l’infelicità altrui, come banal-
mente ci può testimoniare la nostra intuizione morale. Rispondendo ai suoi
critici (n. 4), Scoto ha modo di precisare che il misericordioso non infligge l’in-
felicità tramite la sanzione, dato che nolle questa infelicità, ma in forza della recta
ratio (si legga, dell’ordine normativo) può sanzionare qualcuno pur continuando
a non-volere quella infelicità. Anche in un contesto di discussione puramente
umano, Scoto afferma che colui che infligge lecitamente la pena di morte al
criminale colpevole non può che farlo con una certa tristezza d’animo, che
accompagna la sua piú o meno grande disposizione alla misericordia. A me
preme sottolineare che la semantica normativa scotiana modella la sua conce-
zione dell’etica, e si disegna cosí una logica in cui non c’è collegamento di sorta
tra la doppia negazione e l’affermazione 74. Certo, per spiegare la realtà fisica

74 Voglio citare un passaggio di Francesco di Meyronnes, che mi pare emblematico

perché formulato in un contesto di teoria ontologica: “realitas est non-entitas et non est
non-realitas et ideo aliud est non-entitas et aliud non-realitas” (Hannes Möhle, Der Tractatus
de Transcendentibus des Franciscus de Mayronis, Leuven 2004, 156: si tratta dell’art. 8 del testo di
Francesco di Meyronnes). Si ribadisce qui che la doppia negazione (non è non-realtà) non
afferma (non è realtà), oltre al fatto che essere-reale è un predicato che non corrisponde ad
un’entità, e che negare l’entità (oggetto) non equivale a negare la realtà (predicato).
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 193

dell’Inferno Scoto deve avere necessariamente ricorso ad una logica in cui i


contrari sono compossibili in un mondo adeguato (Opus oxoniense, IV, d. 44, q.
3, n. 7) 75: altrimenti, come si comprenderebbe un fuoco che non arde pur
riscaldando e avvolgendo i dannati? Rifuggendo da ogni metaforicità simbolica,
il fuoco deve essere non comburente nell’Inferno, fatti salvi il dolore massimo e
la vita del dannato: Dio lo può, ma si deve ammettere che i contrari, impossibili
in uno stesso punto e tempo per noi nello spazio-tempo del mondo attuale,
sono possibili nell’Inferno. E affrontando lo statuto del corpo dei beati –
soggetto a passioni oppure impassibile (Opus oxoniense, IV, d. 49, q. 13, n. 3) 76,
Scoto rifiuta che il corpo passibile dell’uomo in questo mondo attuale possa
conoscere la beatitudine, e a nulla vale l’argomento per cui non c’è contrarietà
tra la beatitudine e il corpo passibile. Infatti, la nostra concezione dei contrari
dipende dal fatto che questo oggetto qui è bianco, e poi è nero, sempre in mo-
menti diversi: ma se due oggetti sono l’uno nero e l’altro bianco, la ‘nerezza’
dell’uno non è il contrario della ‘bianchezza’ dell’altro, se non si dà mai muta-
zione delle proprietà di colore dei due oggetti. Lo stato di viator e di beato sono
per Scoto radicalmente separati, tanto che il fatto che non si dia contrarietà tra
la beatitudine e il corpo passibile non dimostra nulla, dato che per il viator
nemmeno si può immaginare che si dia uno stato di beatitudine. In termini
moderni, si dà la contrarietà per le proprietà di un oggetto in un mondo possi-
bile, ma se due oggetti appartengono a due mondi non comunicanti (come per
Scoto è il caso del viator e del beato) allora il concetto di contrarietà non è nep-
pure applicabile.
Il rapporto tra volontà e intelletto, che mi pare si disegni in favore di una
esplicita supremazia della volontà senza annichilare in nessun senso il ruolo
dell’intelletto (un luogo per tutti, Opus oxoniense, IV, d. 49, q. 4, ex latere), induce
Scoto a pensare in modo specifico la negazione e l’affermazione: l’ignoranza di
Dio, l’assenza di intellezione rispetto all’oggetto Dio che può corrispondere
anche al tradimento successivo, ossia all’infedeltà, è meno odiosa dell’odio ver-
so Dio, ammesso che questo sia possibile per noi (n. 18) 77, almeno se sia possi-

75 Reportata parisiensia, IV, d. 44, q. 2-3, n. 6, 8.


76 Reportata parisiensia, IV, d. 49, q. 12, n. 3.
77 “Nulla ignorantia Dei, etiam infidelitatis, potest esse ita odibilis, sicut odium Dei, si

posset voluntati inesse”. Il passo è evocato in Reportata parisiensia, II, d. 43, q. unica, n. 5; si
veda pure Opus oxoniense, IV, d. 49, q. 10, n. 11-14, sempre nella direzione di escludere la
possibilità fenomenologica di odiare Dio (anche se si può non-volere Dio). Anche se si
tratta di un testo interpolato, Ordinatio, II, d. 6, q. 2, 78, ex n. 17 esclude che si possa volere
stricto sensu odiare Dio: il testo parallelo della Lectura, § 44, sembra ammettere l’odio di Dio
194 CAPITOLO QUARTO

bile pensarlo formaliter sotto la stessa condizione di intellectu errante. Nonostante


l’intreccio operazionale tra volontà e intelletto, la supremazia della prima
disegna una gradualità della verità normativa tale che solo il difetto assoluto
della volontà segna la violazione della norma, non già il difetto intellettuale. In
un passaggio di Opus oxoniense, IV, d. 49, q. 10, n. 10, Scoto insiste sul fatto che
sono le caratteristiche formali della volontà a segnare la struttura argomentativa
del reale: è vero che la volontà umana non può detestare la felicità, ma non è
vero che la volontà umana necessariamente voglia la felicità 78 (ancora una volta,
senza logica a piú di tre valori l’osservazione scotiana è quantomeno strava-
gante). Il punto è che la volontà può volere i due esatti contraddittori, e non è
mai tenuta a causare un’azione nella persona relativamente ad una scelta
prospettata (per inciso, un beato può non guardare Dio, né non-guardarlo del
resto 79): si dà esperienza di questa semantica paraconsistente che la volontà
introduce nel mondo, quando completamente informati della vera natura di un
oggetto e di un altro, possiamo restare indifferenti e scegliere nulla 80.

da parte dell’angelo, ma se lo si associa a Lectura, II, d. 6, q. 1, questo odio verso Dio sfuma
ampiamente come possibilità reale. Nello stesso senso di una conclusione negativa i
Reportata parisiensia, II, d. 6, q. 1, n. 9, e d. 6, q. 2, n. 13.
78 “Non potest voluntas odire, vel destestare beatitudinem, quod est verum: sed ex hoc

non sequitur quod necessario vult beatitudinem”.


79 Scoto riassume il suo pensiero nella Collatio XV. Ma si veda Opus oxoniense, IV, d. 49,

q. 6 - in particolare il passo “concedo ergo quod nihil aliud a Deo habet esse formaliter
necessarium, sed simpliciter contingens, tamen aliquod creatum dicitur habere esse incor-
ruptibile, pro quanto non habet contrarium, vel non potest destrui ab aliquo creato, sed
tantum modo potest annihilari a Deo non conservante: et hoc modo potest concedi
beatitudinem esse incorruptibilem: sed sic incorruptibilem non est ex se perpetuum, nisi
possibiliter: quia sicut esse suum habet contingenter a Deo conservante, sic et perpetui-
tatem” (n. 6). Non esiste qualcosa nell’insieme delle cose create che possa distruggere la
beatitudine, ma la contingenza radicale delle cose e delle persone fa sí che il beato possa
essere “indifferente” a Dio, senza negarlo formaliter, e senza accoglierlo. La volontà di tale
beato sarebbe positivamente inattiva: la sicurezza non è nell’essenza della beatitudine (n. 22).
Al n. 11 specificherà che solo la volontà divina toglie al beato la possibilità stessa di peccare,
che conserva invece in quanto persona: se è vero che “X è beato e X non può peccare”, non
è una conseguenza valida che “X è beato” e “X non può peccare”. Scoto, come altrove,
nega la regola logica secondo cui se ⊥ (A∧B), allora ⊥A, ⊥B: in una logica a piú di due valori
la verità della congiunzione non implica la verità delle due componenti e nel caso dei beati,
dato A=essere beato, B=non potere peccare, è vero che ⊥ (A∧B), ⊥A, mentre è falso ⊥B.
80 “Unumquodque obiectum potest voluntas velle et nolle, et a quolibet actu in

particulari potest se suspendere hoc, vel illo. Et hoc potest quilibet experiri in seipso, cum
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 195

Altrove Scoto può affermare lo statuto delle volizioni divine riguardo al


premio e alla punizione degli uomini (Opus oxoniense, IV, d. 16, q. 2): dopo avere
sottolineato che la volontà umana non può volere due contraddittori nello
stesso atto di volizione, mentre quella divina sí (n. 9-11), Scoto afferma
“respondeo in aeternitate haec est vera, iste pro A est ordinatus ad poenam, et
iste pro B non est ordinatus ad poenam” (n. 13). Subito dopo precisa che non si
tratta di due contraddittori, come se non si desse contraddizione tra le norme, e
qui si cela una incertezza vistosa del suo ragionamento, come se cedesse di
fronte alla pressione dei classicisti: da un lato, afferma che si tratta di norme in
un ordine in cui si succedono realiter, vel possibiliter, con un rinvio ad una
struttura a mondi possibili; dall’altro, esclude che vi sia mutamento della verità
(prima il tale è destinato alla condanna, poi non lo è piú). Scoto, non dispo-
nendo di una distinzione precisa tra mondi possibili e mondo attuale, qui sem-
bra abdicare ai classicisti: io credo che invece sia preferibile vedere qui una con-
fusione della sua strategia, una concessione eccessiva al lessico dei classicisti,
piuttosto che recuperarlo alla strategia classicista e vederne una confusione
mortale in quel realiter, vel possibiliter che mi pare si spieghi solo in forza del
realismo modale. Opportunamente, gli stessi editori dell’edizione Wadding
invitano il lettore alla d. 30, q. 1-2, del primo libro delle Sentenze (nei Reportata
parisiensia, I, d. 30, q. unica), in cui la relazione ontologica tra Dio e le creature
pare ammettere un medio, essere quindi una contraddizione vera veicolata dalla
distinzione formale; e se noi leggiamo nel “contradictio” latino una Super-
Contraddizione, Scoto diventa anche coerente rispetto a quanto detto sinora.
Non si dà Super-Contraddizione per le volizioni divine, è impossibile che si dia
(la volizione presiede all’esistente, non già al possibile): l’ambiguità nasce dal
fatto che la risposta di Scoto non distingue lessicalmente tra piccola-contrad-
dizione e Super-Contraddizione. Tuttavia, quando afferma che due velle divini
possono produrre le due norme contrarie 81, mi pare affermi che si dà piccola-

quis offert sibi aliquod bonum, et etiam ostendit bonum ut bonum considerandum, et
volendum, potest se ab hoc avertere, et nullum actum voluntatis circa hoc elicere”.
81 Opus oxoniense, IV, d. 16, q. 2, n. 12: “ista duo velle in aeternitate simul stant”, e la

frase che segue “licent non pro aeternitate, sed pro alio et alio nunc” non intacca la verità
della contraddizione, anzi precisa che il punto di vista dell’uomo, immerso nell’esperienza
fenomenologica del tempo del mondo attuale, non è quella divina, esterna alla dimensione
temporale – infatti, ‘puniendum’ predicato della volizione divina non è un participio futuro
– un’azione a venire, è un ‘nomen’. Le ‘volizioni condizionate’ in Dio, le quali dipendono
dalla nostra scelta morale (mi pento o non mi pento), non sono certo dipendenti dalla nostra
azione, il che sarebbe blasfemo, legando Dio a quello che vogliamo noi (e altrettanto
196 CAPITOLO QUARTO

contraddizione, e che la critica dei suoi avversari, che per lui non può che
riguardare la Super-Contraddizione, non coglie nel segno. Quello che egli am-
mette, una contraddizione nelle volizioni divine, non è una contraddizione nella
connotazione negativa che i suoi avversari vi attribuiscono: risponde allora che
non vi si dà contraddizione (rectius, Super-Contraddizione) mentre afferma (con
atteggiamento paraconsistente) che si danno norme diverse con previsioni
contraddittorie. Il lessico non è certo formalizzato, ma la logica paraconsistente
dei mondi possibili mi pare sia l’unica chiave di lettura che non riduca il pas-
saggio ad un cumulo di nozioni confuse: si tenga ancora presente, che sulla scia
delle analisi della Lectura I, d. 39, evocate in inizio di capitolo, Scoto considera
che la predestinazione alla dannazione di Giuda sia una negazione della
volizione della sua beatitudine, sebbene Dio non abbia nessun atto di volontà
rispetto a Giuda 82, facendo della negazione della validità universale del principio
di bivalenza una tesi ontologica, ossia proponendoci una ontologia paracom-
pleta della volontà divina, e di conseguenza della normatività in generale che
nella volontà divina trova il suo fondamento ontologico. E al tempo stesso ci
propone una filosofia dell’amore, quando dice che è ragionevole pensare che
Dio possa premiare senza motivo, mentre non è ragionevole che possa punire
senza motivo 83: è la contraddizione vera del rapporto tra misericordia e giu-
stizia, di fronte alla quale la ragione non può che tacere.
Per Scoto, anche il niente che si oppone alla Creazione, e che la precede,
va distinto dal niente della Super-Contraddizione, che è impossibilità assoluta:
nell’Opus oxoniense, IV, d. 43, q. 1, affrontando la possibilità che sia dia nel
futuro la resurrezione generale degli uomini, egli afferma che “nihil praecedens
creationem non repugnabat quin illud, cui opponit, poterat creari: ergo et post
annihilationem potest idem recreari” (n. 3). Questo è il niente che non è
formalmente contraddittorio con l’esistenza, perché sono le formalitates possibili
e prive del predicato dell’esistenza: questo niente è negazione dell’esistenza,
mera intellezione delle formalitates senza atto di volontà divina che dia loro una
forma di realtà. Tutt’altra cosa è il niente del cerchio quadrato, la cui specie può

blasfemo sarebbe legare noi a quello che vuole Dio, cessando di essere agenti liberi). Si tratta
di volizioni vere-e-false, ossia meglio di comprensione vera-e-falsa del futuro: i ‘due istanti’
di cui parla Scoto sono propriamente due stati di cose di due mondi possibili, di cui uno
solo è quello attuale, ossia quello in cui la mia volontà ha deciso di pentirsi o di non pentirsi,
creando contingenza nel mondo.
82 Per esempio, Ordinatio, I, d. 41, q. unica, 45, ex n. 12.
83 Per esempio, parallelamente alla distinzione precedente, Lectura, I, d. 41, q. unica, §

27. Le tematiche ritornano in Lectura,III, d. 7, q. 3, sulla predestinazione di Cristo.


RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 197

darsi contraddittoriamente nell’intelletto, e che non potrà avere mai grado di


realtà: questa negazione è quella della Super-Contraddizione.

IV. Sviluppi del riconoscimento di genuini dilemmi morali

Scoto non ci ha lasciato un corpus autonomo di filosofia pratica, anche se


affronta numerose tematiche di questo tipo specie nel contesto della norma-
tività pubblica: rispetto al panorama attuale della riflessione morale, in cui si
veicola sotto l’idea di “dilemma morale” soprattutto una casistica di temi con-
troversi, l’analisi scotiana è sopratutto una teorizzazione della natura del
dilemma morale. Essa non è indenne da complicazioni, ed è forse opportuno
concludere su quest’ultime.
La prima è una china scivolosa verso l’indebolimento sistematico di una
concezione oggettiva della morale: in effetti, un filosofo cristiano si pone
preliminarmente in controtendenza rispetto al relativismo etico del XX secolo,
in cui tanta importanza ha avuto l’ideologia della meta-etica come unica forma
possibile di filosofia morale a discapito di una riflessione morale normativista
(sebbene oggi questa ideologia sia in declino, resta il fatto che il relativismo
etico è entrato nella struttura dominante della cultura contemporanea). Cosí il
filosofo cristiano e il relativista etico (o per dirlo piú educatamente, il soste-
nitore del pluralismo etico) possono dubitare dell’esistenza di genuini dilemmi
etici per ragioni divergenti: il primo, al fine di assicurare l’univocità della rispo-
sta etica; il secondo, per riconoscere che ogni soluzione è sostenibile in riferi-
mento al sistema etico di preferenza. Scoto non si identifica certo con il
secondo atteggiamento: tutta la sua riflessione sul Decalogo, sulla natura della
legge e del diritto naturale, sulla volontà produttrice nomotetica divina e umana,
sono la confutazione stessa del relativismo etico. Mi sono soffermato su questi
temi nel mio La philosophie normative de Jean Duns Scot (2001), vi rinvio il lettore
per prendere le misure del normativismo scotiano: questo normativismo, che si
istanzia in un sentimento di “onnipotenza” normativa della Sede apostolica, mi
pare permetta di comprendere in che modo sia compatibile l’esistenza di
genuini dilemmi morali con l’oggettività morale. Infatti, il dilemma morale non
sorge dal contrasto di punti di vista alternativi tra di loro inconciliabili, come
potrebbe oggi verificarsi in seno al Comitato Nazionale di Bioetica tra membri
cristiani e membri laici in tema di fecondazione artificiale; per Scoto il dilemma
morale sorge perché il produttore abilitato delle norme ha posto in essere due
norme valide e contraddittorie, quindi una contraddizione vera. E il discorso di
Scoto non si attarda tanto sulla possibilità di contraddizioni vere da parte del
198 CAPITOLO QUARTO

legislatore umano, dato che ai suoi occhi questi è subordinato al legislatore


divino: è nell’opera del legislatore divino che si colloca la contraddizione vera,
che discende direttamente dall’esistenza di due ordini di volizioni distinti e
separati, le volizioni per tutti e le volizioni per me. E’ quindi la stessa fonte della
morale oggettiva (essa discende da Dio) che comporta la possibilità dell’esi-
stenza di contraddizioni vere (esse discendono da due volizioni divine). Forse
per un intellettualista etico la difesa della morale oggettiva e dell’esistenza di
genuini dilemmi morali è impossibile (certo la riteneva impossibile san Tom-
maso); ma per un volontarista etico, certo per Scoto, tale difesa è ancorata al
cuore della sua riflessione etica.
Insomma, per Scoto, i dilemmi morali come contraddizioni vere sono
garantiti da un monismo etico, come i teyku si producevano all’interno della
morale monistica ebraica. Se questo ci assicura della coerenza dell’approccio
scotiano, rende forse problematico il suo utilizzo nel mondo contemporaneo.
Come primo passo, si potrebbe ripetere con Orlando Todisco la necessità per
la cultura contemporanea di recuperare il primato del Bene sul Vero; come
secondo passo, si potrebbe considerare che il dato sociologico della pluralità
della composizione di credenze etiche in una società non comporta la necessità
del passaggio teoretico al relativismo etico. La tolleranza e il rispetto reciproco
possono essere garantiti da un gruppo di individui che sono convinti di essere i
difensori di sistemi etici veri, tra di loro divergenti, e questi rapporti pacifici
sono tanto piú favoriti nella consapevolezza che il Bene, con l’ausilio dell’amore
gratuito, è lo strumento della convivenza pacifica ben piú del Vero.
Un secondo problema è quello del riconoscimento del genuino dilemma
morale: epistemologicamente, per asserire di trovarsi di fronte ad un dilemma
morale occorre avere esaurito tutti gli strumenti interpretativi, ed occorre anche
escludere che si dia un sistema morale, 1. piú potente, e 2. accettabile, in cui il
dilemma sia risolto. Si tratta di passaggi per loro natura opinabili: in un primo
momento posso semplicemente credere che, dato il mio sistema morale, non ci
sia dilemma, poi, dopo averne riconosciuto l’esistenza prima facie, posso credere
che una migliore interpretazione dei fatti e/o delle norme lo dissolve, infine
posso essere disposto a mutare qualche elemento del mio sistema morale per
accedere ad un dissolvimento del dilemma. Scoto assume un elemento che
rende piú “sicuro” ognuno di questi passaggi, ossia quella che ho chiamato l’on-
nipotenza “normativa” della Sede apostolica. Tale caratteristica ha la funzione
di conferire certezza epistemologica all’oggettività morale: il conforto della Sede
apostolica assicura il singolo individuo, e questo perché essa è stata investita da
una abilitazione normativa specialissima. Ma se si dubita di tale abilitazione, si
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 199

può benissimo convincersi di conoscere la volontà divina per se-stessi come


contrastante con la volontà divina per gli altri, e cosí lo schema ontologico sco-
tiano può essere lo schema di tante teosofie di accesso direttissimo e individuale
alla sfera divina: Jacob Böhme in un quarto d’ora di contatto direttissimo con
Dio ricevette tutta la volizione di Dio per lui, e migliaia di pagine di sapere
gnostico esoterico erano consegnate alla storia. E’ certo che Scoto nutriva una
forma di rispetto assoluto del diritto canonico, che discendeva dalla sua visione
di Dio come Nomoteta per eccellenza, un Legislatore produttore di norme: in
un contesto di svalutazione della analisi normativa, e di svalutazione della
costruzione del diritto canonico, il volontarismo normativo può produrre la
proliferazione incontrollata di sistemi normativi individuali, a mo’ di setta, con
contestazione radicale di ogni istituzione terrena che pretenda di essere la
trasmissione della normatività divina. Tuttavia, a me pare che il problema non
sia per Scoto, ma per chi pretende un accesso diretto alla fonte divina senza
mediazioni: il volontarismo etico, a partire dalla volontà nomotetica divina,
comporta immediatamente la necessità di una struttura normativa umana, di
una gerarchia delle fonti e delle istituzioni, di una mediazione rispetto alla fonte
delle volizioni divine. Lo gnosticismo esoterico di Böhme è forse piú alimentato
da un intellettualismo esasperato in cui il tesoro della Sapienza è inaspetta-
tamente svelato a chi possiede le chiavi del mistero che non da un volontarismo
coerente sotto il segno del primato del Bene e dell’Amore.
E’ certo però che nel panorama culturale contemporaneo non esiste un
consenso sociologico sul ruolo normativo di una istituzione terrestre che sia
mediatrice rispetto alla fonte delle volizioni nomotetiche divine, anzi il ruolo
stesso del pensiero religioso è messo in dubbio: interi settori del pensiero con-
temporaneo si sono opposti alla menzioni delle radici cristiane dell’Europa nella
futura Costituzione europea, ed hanno vinto (suppongo che fattualmente l’esi-
stenza di tali radici sia banale, mentre l’opportunità della loro menzione sia una
questione assiologica). Lo schema di Scoto può essere formalmente applicato
anche ad un contesto puramente umano, ma pure in questo caso esso rinvia ad
una istituzione terrestre che occupa in questo caso il vertice stesso della gerar-
chia normativa: anche questo non è in linea con i tempi, che sotto il pluralismo
etico amano piuttosto il relativismo etico. Di fronte a quest’ultimo, invece, lo
schema di Scoto è inapplicabile. Bisogna perciò francamente riconoscere che la
concezione scotista dei dilemmi morali è in rotta di collisione con la fram-
mentazione dei valori morali, e può essere utilizzata solo nel contesto di creden-
ze morali che si presuppongono oggettive, anche se soggette a revisione in
forza di buoni argomenti – le indagini di Lorenzo Peña sui sistemi normativi
200 CAPITOLO QUARTO

vanno proprio in questa direzione. Questo si dà anche in un contesto laico


scetticheggiante, infatti Richard Routley e Graham Priest credono all’esistenza
di genuini dilemmi morali, tanto che hanno avanzato l’esistenza di contrad-
dizioni normative vere come un argomento (tale esistenza essendo evidente) in
favore delle validità della logica paraconsistente. Certamente, la possibilità che si
diano genuini dilemmi morali, anche se la si assume in un contesto monistico di
etica oggettiva (cristiano o ebraico, come ho già evocato), induce la singola
persona a richiamare con piú vividezza il primato del Bene sul Vero: infatti, non
è detto che la contraddizione possa essere risolta, e nella scelta da operare tra
due alternative contrarie vere soccorrerrà ben piú l’amore che non la razionalità.
Non è facile essere certi di trovarsi di fronte ad una contraddizione vera (e non
falsa), ma la possibilità che si dia mi pare proprio che aiuti a sottolineare sempre
piú che la giustizia non è solo un meccanismo di norme e applicazioni fattuali,
essa è amore e misericordia, qualità forse troppo rare nell’uomo su questa terra,
ma che certo fanno parte dell’antropologia universale dell’uomo. Troppo spes-
so relegate in un angolo, ma capaci di risolvere le situazioni piú disperanti.
Insomma, Scoto è troppo distante dalla cultura contemporanea per potere
proporre una sua applicazione diretta nelle aule dei tribunali, nei comitati bioe-
tici, oppure nei gabinetti di crisi economica degli uffici governativi: aveva
comunque già colto, in alternativa al tomismo, l’impotenza della filosofia mora-
le nel determinare concretamente all’azione 84, ruolo che può assolvere solo
l’amore, la misericordia, il primato del Bene (e qui sta la sua distanza dalla
cultura contemporanea). Ma al tempo stesso è terribilmente attuale, se è proprio
negli ultimi decenni del XX secolo che si è costituita una piccola minoranza di
teorici della paraconsistenza: è in questo contesto che l’eredità della filosofia
cristiana può introdurre nel dibattito laico elementi assai vitali, anche se si tratta
di un contesto minoritario. La sfida della difesa della paraconsistenza può essere
terribilmente innovatrice, anche se i protagonisti evocati si chiamano Platone
oppure Duns Scoto: sono certo che le scelte morali possono essere corrette e
giustificate anche in assenza di un approccio paraconsistente, ma sono altret-
tanto certo che se si riesce almeno ad insinuare il dubbio che la logica classica
non sia il modello della razionalità, se si riesce quindi a mostrare che occorre

84Infatti, sebbene essa scopra le norme universali – quindi la filosofia morale è


normativa, questa conoscenza, in virtú del volontarismo, non costringe ad agire nella buona
direzione. Un solo passaggio, Quaestiones metaphysicorum, VI, q. 1, 68, ex n. 14: “scientia
moralis est alio modo respectu agibilium, scilicet in universali, et insufficiens ex se ad
dirigendum circa ista”.
RAGIONI MORALI PER UNA SCELTA 201

interrogarsi sul problema di distinguere tra le contraddizioni vere e quelle false,


il nostro discorso morale e l’esortazione in favore delle migliori scelte saranno
tolte dal ghetto del “moralismo” o della retorica puramente individuale, per
accedere al livello di una discussione razionale capace di inglobare pienamente
la complessità del reale, e non già ridurla con spietatezza chirurgica. Credo che
qualunque difensore di una concezione della morale che non faccia dipendere i
valori dalle costruzioni intellettuali individuali, si riconosca o meno in un
bagaglio di credenze religiose e confessionali, non possa che rallegrarsi di questa
prospettiva. Invece di attardarsi sulle questioni datate della “filosofia cristiana”,
si tratterebbe di dibattere di “filosofia”: sarà forse altrettanto difficile
raggiungere un accordo consensuale, ma si eviteranno sia le illusioni della
matematica morale (punto finale del riduzionismo), sia le illusioni del ‘tutto va
bene’. L’approccio paraconsistente tende solo ad escludere le opzioni
nominalistiche (comprese nella loro valenza riduzionistica) e le opzioni
idealistiche (comprese nella loro valenza di svalutazione dello spazio-tempo-
rale): credo che Scoto fornisca delle buone ragioni in favore di questa scelta, ma
è importante sottolineare che qui si esprime un conflitto di metafisiche
alternative. Superato poi lo scoglio classicista della validità incondizionata del
principio di contraddizione (di cui, lo ripeto, forse neppure lo stesso Aristotele
era un vero partigiano), si apre lo spazio del confronto sulla corretta individua-
zione delle contraddizioni vere. Accettato questo nuovo scenario della razio-
nalità (non-classica) che ingloba la razionalità classicista come un sotto-insieme
locale (quello in cui si trovano le contraddizioni false), la filosofia cristiana
espressa da Scoto può ritrovare una vitalità ed uno spazio d’azione che le sem-
bravano oramai negati. Non sto parlando del recupero storiografico dell’inte-
resse per Scoto, dato acquisito negli ultimi quarant’anni: sto parlando della
concreta operatività oggi della sua argomentazione filosofica. Unendomi agli
auspici di Orlando Todisco per la filosofia francescana in generale, che possa
essere vitalmente utilizzata nel dibattito contemporaneo, formulo lo stesso
auspicio per quella scotiana (e scotista).
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INDICE DEI NOMI E TEMATICO

Abelardo 73-76 127 179 189 J. Barnes 31 59 112 204


E. Agazzi 68 204 M. C. Bartolomei 42 204
H. Ahmad Amîn 31 204 G. Basetti-Sani, ofm
A. Alami 204 D. Batens 28 33 132 211
Alessandro di Hales, min 73 203 L. Baudry 106 204
Al-Farabi 26 B. Bazán 116 204
Al-Ghazali 27 31s 45 73 76 122 163 G. Bealer 127 164 204
G. Alliney 17 204 J. Beaufret 29 204
Al-Razi 44 A. J. Beck 112s 204
Ammonio 115 J. K. Beilby 157 204
L. Amorós 84 204 M. Benson 123 204
M.-M. Anawati 77 Berkeley 30s 138
Andrea di Neufchâteau, min 185 203 Bernardo di Chiaravalle 75 77
I. Angelelli 112 E. Berti 20 26 204
Anselmo d’Aosta 44 C. Berubé cap 22 83 172 204
L. Aqvist 115 204 E. Bettoni, ofm 9 204
Aristotele 14 21 26 36 44 48 56 65 67 J.-Y. Béziau 33 204
73 76 80-86 88s 93 97 100 102 M. Black 130 204
108 111 129s 147 149 153s 176 J. M. Bochenski 144 204
201 S. Boezio 11
D. M. Armstrong 45 105 129 171s J. Böhme 199
177 204 Bonaventura da Bagnoregio, min 12
Ibn Aqil 31 52 63 126s 133s 203
N. Asher 163 G. E. Boole 8
F. José Ausín 153 204 E. P. Bos 29s 41 45 112 176 204
J. L. Austin 400 F. Bottin 25 137s 143 204
Averroé 27 31s 73 76 117 163s 204 O. Boulnois 54 93 174 204
Avicenna 26s 93 J. Boyle 85 207
Avicembron (Salomon ibn-Gebirol) H. A. G. Braakhuis 47
73 77 147 153 203 R. Brandom 39 212
Roggero Bacone, min 83 L. Brena 17
C. Balić, ofm 182 204 A. Broadie 186 204
S. S. Barlingay 204 R. Brunschvig 77
216 INDICE DEI NOMI E TEMATICO

G. Buridano 163 Giovanni Duns Scoto, min 7-22 25-


J. Butler 7 34 36 38-103 105-109 111 150
O. V. Bychkov 116 154 156-162 165-178 180-201
E. F. Byrne 117 204 203
M. Campanini 24 31 45 164 204 S. Ebbesen 44 203
Chaim Vital (ben Joseph Calabrese) J. van Eck 115 206
72 Eckhart 12 22
G. Chatton 73 94 113 P. R. Eddy 157 204
T. Bradwardine 137 142s 145 R. Effler, ofm 44 207
Guglielmo di Burleigh 121 137 Egidio Romano 9
M. Cerezo 112 S. J. Eliades 45 207
R. Chisholm 15 23 45-47 103s 122 H. Elie 39 207
128 176 204 Enrico di Gand 53 60 98 101 109
R. G. Collingwood 16 204 169s
A. D. Conti 15 204 J. van Ess 31 77 207
N. C. A. da Costa 8 27 33 204 A. Fabriziani 17
M. Couratier 29 Filippo il Cancelliere 74s 203
J.-F. Courtine 29 G. Filoramo 24 207
E. H. Cousins 126s 206 J. Finnis 85 207
R. Cross 11 62 86 204 P. Foot 160s 163 207
Nicola Cusano 24 P. J. Forgie 45 207
G. Dahan 73 206 R. Fornara 71 207
Giovanni Damasceno 56 R. M. Frank 31 207
S. J. Day, ofm 83 206 W. A. Frank 207
G. De Anna 20 M. Frede 115
L. A. De Boni 179 206 D. Gabbay 33
C. Della Casa 67 S. Galvan 30s 33 67126 207
G. Delle Fratte 67 L. Gardet 77 207
W. A. Depater 103 206 R. Gaskin 113
R. Descartes 30 P. Geach 70 130 207
S. Dimopoulos 56 213 C. Giacon 17
Ps.-Dionigi 12 Gilberto Porretano 14 36 44 90
J. Divers 39 206 M. L. Gill 44
M. Dixsaut 26 206 E. Gilson 12 29 112
P.L. Donini 117 Gioacchino da Fiore 11
A. D’Ors 112 206 R. Girard 10 207
M. Dummet 148 206 K. Gödel 17 42 207
Goffredo di Fontaines 9 122
INDICE DEI NOMI E TEMATICO 217

A.-M. Goichon 26 207 D. Kaplan 175 208


R. Goldschmidt 124 207 H. Kelsen 153 187 208
H. J. M. J. Goris 17s 175 207 F. Kholeif 31 208
C. W. Gowans 36 160-162 207 H. Kiefer 180
N. Grana 27 33 207 J. Kim 177 208
Gregorio da Rimini 39 93 113 146 P. King 44 208
203 C. Kirwan 112 208
P. Grice 130 207s S. Knuuttila 12 14s 17 41s 70 86 208
G. Grisez 85 207 H. Romuald Kosla, ofm 180 208
Roberto Grossatesta 12 S. Kripke 59 208
G. E. von Gruenbaum 31 77 Th. Kuhn 8 123
Gualtiero di Bruges 163 I. Lakatos 123s 208s
Guglielmo di Alnwick 17 119 173 L. C. F. Lattanzio 75 77 204
Guglielmo di Auvergne 74 77 203 S. Laurence 127 177
Gugliemo di Moerbeke 112 G. Lauriola, ofm 16
Guglielmo di Ockham, min 9 11 30 O. Leaman 31 208
39 80 84s 94 97 106-109 113 203 R. van der Lecq 41 208
Guglielmo di Soissons 28 E. J. Lemmon 161s
H. Habrias 74 J. G. Lennox 44
I. Hacking 117 208 D. Lewis 15-17 39-41 49 81s 108
G. F. Hegel 36 38 112 133 147 153 176 209
M. Heidegger 51 126 208 A. de Libera 14
P. Helm 49 148 157 181 208 Ch. F. Lohe 27
M. G. Henninger 92 108 M. J. Loux 39
C. J. Henoch 72 208 E. Lukacs 155 209
Y. Hoffman 136 208 J. Lukasiewicz 19 28 84 115 209
D. Hume 30s 122 138 151 Isaac Luria 72
Ibn Qudama 24 W. Lycan 39 209
J. M. Idziak 161 185 208 C. Macdonald 127 177
Ilario di Poitiers 75 204 D. B. Macdonald 77 209
D. H. H. Ingalls 33 208 A. MacIntyre 162 209
C. Inghetto 73 R. Macken 109 209
T. H. Irwin 83 208 A. Maier 17s 209
L. Jacobs 19 146s 188 208 A. Maierú 44 50 113 209
P. Jetli 45 208 Maimonide (Rambam) 72 76-78
J. Isaac 112 208 B. Maioli 44 209
B. Johansen 77 208 G. Makdisi 24 31 209
J. Jolivet 14 74 V. Marcolino 113
218 INDICE DEI NOMI E TEMATICO

A. Royo Marín 136 209 Th. Pentzopoulou-Valalas 56 213


M. Marsonet 12 209 C. Perelman 21 211
C. Martin 28 209 M. Pickavé 24 176 213
H. E. Mason 160 209 Pier Damiani 13s 24 36 69 78 146
A. Maurer, ofm 94 117 209 G. Pini 50
S. J. McGrath 51 210 A. Plantinga 7 16 18 31 39-41 148
J. McT. Ellis McTaggart 62 64 130s 211
210 Platone 25s 38 44 56 62 80 90 100
A. Meinong 24 39 45 47 53 89 93 103 200
A. Metha 19 210 Pierre Roger 166
Francesco di Meyronnes, min 10s 64 Pietro Aureolo 82 106 108s 114
67s 80 166 171 192 203 Pietro di Giovanni Olivi, min 61 86
K. Michalski, ofm 19 210 88 160
M. Mignucci 115 210 Pietro Lombardo 11
F. Mitha 31 210 Pietro di Tommaso 103 204
H. Möhle 192 Pietro di Trabibus 101
L. Moonan14 210 H. Poincaré 124 211
G. E. Moore 7 40s 79 93 177 190 210 Fr. Polhan 7
M. Munitz 180 T. de Praetere 154s 211
M. C. Murphy 181 186 210 G. Priest 14s 25 27s 33 123 126 199
Nachman (Ramban) 72 76 147 204 211
A. N. Nader 31 219 H. Putnam 31 180 211
P. J. Nahin 17 210 G. Quadri 27 76s 163 211
T. Noone 137 W. O. Quine 13 30 32 94 211
C. G. Normore 210 P. L. Quinn 161 211s
D. Novak 77 210 F. Rabelais 113 126
D. O’Brien 26 210 D. Raffman 163
L. Olbrechts-Tyteca 20 211 N. Rescher 39 118 125 131 188 212
M. Ouaknin 71 210 T. Reid 31 41 122
M. Asin Palacios 27 210 Riccardo di San Vittore 172
D. Palladino 68 204 L. M. de Rijk 47
Paolo Veneto 143-146 G. Rodriguez-Pereyra 131 212
P. Parcerias 41 210 I. Rosier-Catach 117 212
L. Parisoli 84 210 O. Rossi 16 212
B. Pascal 10 C. Rossitto36 212
L. Peña 11 14s 20 24 26s 31 33 36 45 M. L. Roure 137 143 212
53 56 59 70 84 126 129 153 164 R. Routley 14s 25 27 31s 35s 38s 89
175 179 199 211 123 161 179 199 211s
INDICE DEI NOMI E TEMATICO 219

D. Saliba 26 212 G. Todeschini 19


J.-I. Saranyana 9 212 O. Todisco, conv 19 117 174 180
E. A. Savellos 177 212 182 184 198 201 213
D. Scaramuzzi 94 212 Tommaso d’Aquino, op 16 42 49 75
J. Schacht 77 212 84 91-94 112s 117 129 153s 183
P. A. Schilpp 42 188 198
A. Séguy-Duclot 26 212 D. Trapp 119
B. Sengupta 33 212 G. Tucci 25
R. Shoemaker 62 212 A. T. Tymieniecka 73s
Guglielmo di Shyreswood 113 137 Ugo di San Vittore 73s
Sigeri di Brabante 116s L. Valente 44 50 113 209
H. A. Simon 30 212 S. Van der Bergh 45 213
F. Simoncioli, ofm 212 L. Veuthey, ofm 11 213
Simplicio 99 S. C. Vidyabhusana 25 213
W. Sinnet-Armstrong 160 163 212 P. Vignaux 10-12 29 213
R. Sorabji 42 115 212 A. de Vos 12 15 29s 41s 70 86 180
P. V. Spade 137 212 213
P. Stella 86 212 H. Wansing 33
P. F. Strawson 81 212 W. M. Watt 45 213
G. Striker 115 C. W. A. Whitaker 112 213
E. Stump 78 212 D. Wiggins 130 132 213
D. T. Suzuki 136 212 C. J. F. Williams 40 213
R. Sylvan 38 89 212 A. B. Wolter, ofm 59 93 116 207
M. Sylwanowicz 212 213
Th. Stcherbatsky 25 212 N. Wyatt 11 213
C. Steel 24 213 Ü. D. Yalçin 177 212
G. Tarello 183 213 B. H. Zedler 27 45 164 213
Petrus Thomae, min 109 G. Zografidis 56 213
Q. S. F. Tertulliano 24
TEMI RILEVANTI

Contraddizione :
Contraddizione vera 10-13 23-29 32 48 57-59 67 69-71 101 120-122 125
133 157s 167s
Cristo mediatore 133-135
distinta da quella falsa 11 23-25 69s 120 167s 201
contraddizione normativa 13 36s 72-78 81s 146 149-151 161s 183
187 199s
Validità universale del principio di contraddizione 7-14 23-29 36-38 79s
84s 101 112 115s 132-134 141 146 151 154 162 164-166 178s 201
Super-Contraddizione 11 34 36 48s 55-61 67-70 106 114 120 125 133
135 141 148 151 158 164-174 181 188-190 193s 196

Dilemmi morali :
decalogo 67s 77 174-176 181-186 197
morale umana 19 36s 146s 182 192 197 199
norme oggettive 38 81s 149 161 174 176s 180 182 188 199

Filosofia : vedi Metafisica e Ontologia

Metafisica e Ontologia :
contingenza del presente 30 86-92 107 112 115s 118 122 129 147
distinzione formale 9-12 34 70 79 101s 106 127 129s 133 141 178 185
non-identità formale 12 34 51 70 101s 127 129
filosofia e teologia sono la stessa cosa 12-16 21 85s 122 129 134 138 146
148 157 173 197 200s
haecceitas 48 55 57 79 95 109 131s 175-178
identità personale 46 49 90 101 122 130 132 137 154s 167s 172 175-177
niente e nulla 52s 55-60 114 120 165-170 180 188s 196
oggetti contradditori coimpossibili 11-13 20 25s 28s 32 37 43 48 59 61
67-69 71 78 106-108 121 158 166 193
oggetti super-contradditori chimere 48 51-53 55-59 70 106 126 136 158
164-167 169s 181 187-189
proprietà disgiuntiva 95 131 177s
quidditas 46 48 50s 60 64-67 79 132 154 166 175-178
INDICE DEI NOMI E TEMATICO 221

il tempo non è reale 18s 62-64 70 106 120s 146-151 159 175 184 195s
il tutto è piú delle parti 48 52 90 97-99 108 128 138 159 177

Negazione :
due specie di negazione 32-36 48 54s 57s 84 95 114 124s 156 159s 166-
170 171s 189 191-193 196
negazione del principio di bivalenza 19 33s 84 112-121 142-146 157s 167
192 196

Principio di Esplosione :
non vale per lo Scotista 28 123-126 135 157

Realtà :
esistenza nel mondo attuale 40 47s 53 58 60-67 93 118-122 125 132 136s
141 160 169 171 177
oggetti reali e non-esistenti 39s 52-54 59-67 79 92s 99s 112 120s 127
131s 136 140 158 164s 170 178 192
è un predicato 26 40 44 59 91 93 150 192 196
formalitates 25 45-52 58s 73 80 100s 103-109 118 126-129 132 136s
140-143 164s 167 173 175-177 183 196
mondi possibili 15 26 39-43 47-53 55 59 61-64 66-68 85s 90s 96 100
106-108 116 118-122 125 127s 130 132s 135-138 140s 146-149 157
159 164-166 169-171 173 175-177 181 188-190 193 195s
relazione20 45 52 54 58 61 65s 79-83 92-109 128 133 142 167 177 190
195

Teologia : vedi Metafisica e Ontologia

Terzo uomo : non vale 26 45s 80 100 104-106


la Forma non ha la qualità di cui è Forma 26 45s 56 69 80 103 105
Scoto non ammette le essenze separate esistenti 11 45s 56 61s 65s 128-
130 175s

Verità :
come identità 30s 50s 53s 59 118 141-145 158 170s
paradosso del Mentitore risolto 137 146
piú di due valori di verità 34 70 84 114s 118 144 161 191 194
almeno tre 18 54 70 121
222 INDICE DEI NOMI E TEMATICO

concezione gradualista 15 26 55 67 70 114 128 141 171 194


proposizioni relative al futuro 88-92 114-122 139 157 195
rilevanza dell’implicazione 34-36 38 70 120 123-126 135 140 143 191
194

Volontà :
fondamento della norma 15 37 73-78 84s 149s 162s 175 186 196
rapporto con l’intelletto 9 19 27-29 42 46 48s 53 57-60 63 66 73 88 114
119-121 147 154-159 164 166 169s 188 193-196 198s
Finito di stampare
nel mese di Marzo 2005
dalla Tipolitografia Giammarioli
Via E. Fermi, 8-10 Frascati (Roma)

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