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LA SAPIENZA
IN ISRAELE
LA SAPIENZA
IN ISRAELE
Presentazione e revisione a cura di
NICOLA NEGRETTI
MARIETTI
Titolo originale dell'opera:
WEISHEIT IN ISRAEL
Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1970
La s to ria e la s a p ie n z a
1. Forse è vero che nella vita di un uomo, così come nella vita di
un popolo, alla fase eroica o profetica succede il momento sapien
ziale. Successione questa che può essere caricata di tanti significati,
del rinsavimento di don Chisciotte o della disillusione scettica dell'Ec-
clesiaste, ma che qui riceve solo il senso di una distanza critica ri
spetto alla propria vita, al proprio pensiero, ai propri scritti.
L'ultima opera di Gerhard von Rad (1901-1971), il grande esegeta
tedesco dell'A.T. da poco scomparso, si intitola Weisheit in Israel
(« La sapienza in Israele »).
Come mai questo autore, che normalmente nella sua vasta produ
zione si è occupato dello studio delle tradizioni storiche d'Israele1,
verso la fine della sua vita si concentra sulle tradizioni sapienziali
della Bibbia?
La ragione di questo fatto non sta, a nostro parere, in un'empirica
mutazione del campo d'interesse, ma deriva dall'orientamento pro
fondo del pensiero di Gerhard von Rad e dall'esigenza di risolvere
un'aporia fondamentale dell'esegesi veterotestamentaria: quella tra
creazione e storia, tra mondo e salvezza, tra ragione e fede.
’ Per una bibliografìa delle opere di von Rad cfr. Probleme biblischer Theologie, a cura di
H. W. Wolff, Mùnchen 1971, 665-681.
* Cfr. H. Gunkel, Genesis, in HAT 1, 1, Gottingen 1901, 19667, VII-C.
3 Come significativo di questa linea cfr. lo studio: Zelt tind Lade, in NKZ 42, 1931, 476-498
(= ThB 8, Miinchen 1965, 109-129). Cfr. anche: Der Heiìige Krieg im alien Israel, Zurich 1951,
Gottingen 19695.
2 PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA
N ic o l a N egretti
23 Cfr. M. Limbeck, Die Ordnung des Heils. Untersuchungen zum Gesetzesverstàndnis des
Fruhjudentums, Dusseldorf 1971, secondo cui la creazione e Israele stanno sotto l'unica volontà
divina, dimodoché la consegna della legge a Israele non è altro che il disvelamento dell'ordine
divino che comprende e determina tutta la creazione.
24 Cfr. J. Marbock, Weisheit itti Wandel. Untersuchungen zur Weisheitstheologie bei Bert Sira,
Bonn 1971; Th. Middendorp, Die Stellung Jesu Ben Siras zwischen Judentum und Hellenismus,
Leiden 1972; R. Braun, Kohelet und die friihhellenistische Popularphilosophie, Berlin 1973;
B. L. Mack, Logos und Sophia: Untersuchungen zur Weisheit stheologie im hellenistischen Judentum,
Gottingen 1973.
PREFAZIONE
Quando un autore vede passare il suo libro nelle mani del lettore,
desidererebbe accompagnarlo con una parola personale. Desidererebbe
dire con tutta semplicità, scopertamente quello che più gli è importato
e — senza nulla minimizzare — ciò che non ha giudicato bene mettere
al centro del suo studio in questa occasione. Desidererebbe indicare
alcuni passi che non avrebbe potuto scrivere senza lo stimolo di amici
e altri in cui non è riuscito a chiarire le idee che aveva in testa. Ma sa
anche che il suo libro può far carriera senza un arringa del genere.
Si afferma volentieri che oggi lo studio della sapienza in Israele è
« moderno ». Non è questa Vopinione delVautore. Senza dubbio appaio
no monografie piene di pretese e numerosi studi particolari. Ma non
cè forse da chiedersi se i metodi che caratterizzano il nostro studio
dell’A.T. favoriscono una visione più chiara della letteratura didattica?
Ormai in troppi hanno intrapreso lo studio esaustivo di temi sempre
più vasti e hanno cercato di determinare connessioni spirituali sempre
più grandi nella vita d'Israele. Dove resterebbe ancora uno spazio per
la meditazione d’una sentenza sovraccarica di riflessione! A ciò si ag
giunge il problema che si pone oggi in maniera molto intensa, della
preistoria di una determinata cerchia culturale e in materia di sapienza
porre questo problema significa entrare subito nel vasto campo della
sapienza al di fuori d'Israele. Da questo momento Vattenzione delVese-
geta si svia dal testo e si fissa su un soggetto più vasto, di modo che
il testo è lasciato a se stesso con la sua pretesa di dire la verità; ci si
è serviti di esso soltanto come di un trampolino per la ricerca di qual
cos’altro di molto più generale.
In questo libro il problema della tradizione e dei suoi confini si
porrà poco; ciò capiterà soltanto quando si tratterà di precisare la ve
rità che una sentenza didattica pretende enunciare. Quando ci si mette
ad ascoltare realmente quel che ci dice un testo, pur classificato in
s PREFAZIONE
ANET Ancient Near Eastern Texts relating to the Old Testament, Princeton
AOT Altorientalische Texte zum Alten Testament
ATD Das Alte Testament Deutsch, Gottingen
BBB Bonner Biblische Beitrdge, Bonn
BibSt Biblische Studien
BK Biblischer Kommentar. Altes Testament, Neukirchen
BWANT Beitrdge zur Wissenschaft vom Alten und Neuen Testament, Leipzig-
Stuttgart
CBQ The Catholic Biblical Quarterly, Washington
EvTh Evangelische Theologie, Miinchen
HAT Handbuch zum Alten Testament, Tubingen
JBL Journal of Biblical Literature, Boston
JJS Journal of Jewish Studies, London
KuD Kerygma und Dogma, Gottingen
NKZ Neue Kirchliche Zeitschrift, Leipzig
OTS Oudtestamentische Studien, Leiden
RGG Die Religion in Geschichte und Gegenwart, Tubingen
ThB Theologische Blatter, Leipzig
ThLZ Theologische Literaturzeitung, Leipzig
ThR Theologische Rundschau, Tubingen
ThZ Theologische Zeitschrift, Basel
TWNT Theologisches Wòrterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart
VT Vetus Testamentum, Leiden
VTSuppl Vetus Testamentum (supplementi), Leiden
ZÀS Zeitschrift fur die Agyptische Sprache und Altertumskunde, Leipzig
ZAW Zeitschrift fur die alttestamentliche Wissenschaft, Berlin
ZDPV Zeitschrift des Deutschen Paldstina-Vereins, Leipzig
ZNW Zeitschrift fiXr die neutestamentliche Wissenschaft und die der
alteren Kirche, Giessen-Berlin
ZThK Zeitschrift fiir Theologie und Kirche, Tubingen
PARTE I
INTRODUZIONE
IL PROBLEMA
di modo che essi ci stanno di fronte con un fare poco malleabile, clas
sificabile, benché abbiano più d'un tratto in comune. Non è facile di
sporli in maniera coerente secondo la loro sostanza e le loro tendenze.
Tuttavia li si può ordinare in funzione di alcune categorie di problemi;
si possono trattare insieme alcune delle idee principali che si trova
vano manifestamente in primo piano nell’insegnamento. È questo il
metodo che noi useremo. Ma si vedrà subito che questo metodo di
ordinare non è praticabile che entro certi limiti perché non si può
esporre in maniera esaustiva alcun soggetto, alcuna problematica nel
testo in cui li si incontra. Nessun soggetto può essere spiegato per se
stesso; per essere compreso appieno, deve essere sempre ricollocato
nella prospettiva delle idee del tempo. E qualunque sia la mobilità, la
variabilità di questo insieme di concezioni al quale si ricollegano gli
insegnamenti, esso costituisce tuttavia un'unità indivisibile. Di modo
che il lettore dovrà accettare in questo libro alcune ripetizioni a pro
posito di concezioni di base costitutive. Una piccola tavola di parole-
chiave in fondo al volume potrà rendere un servizio per trovare più
facilmente ciò che avremo esposto in ordine disperso.
Questo studio si è fissato come obiettivo di comprendere nelle sue
tendenze fondamentali qualcosa della conoscenza del mondo e della
vita propria dell'antico Israele e soprattutto della sua concezione della
realtar A quale risultato si giunge quando-sir accostano ,i testi partendo
dalle tensioni religiose e spirituali specifiche in cui questi testi sono
stati scritti e compresi nell'antico Israele? Una difficoltà si erge sul
nostro cammino quando tentiamo di rispondere a questa domanda: ci
mancano le categorie veramente adatte all'universo della lingua e del
pensiero ebraico e che sono indispensabili per poter esporre la ma
niera in cui Israele concepiva l'uomo e il mondo. Non ci resta dunque
che servirci innanzitutto delle nozioni che ci sono familiari. Nelle pa
gine seguenti si parlerà molto di « ordinamenti », di « leggi specifi
che » della creazione, di « concezione profana del mondo », ecc. Ma
noi saremo subito obbligati — appena queste nozioni saranno immesse
nel dibattito — di demolirle o per lo meno di limitarle poiché ci na
scondono ciò che Israele pensava veramente l.
Vi è pure un'altra difficoltà su cui l’autore deve intendersi in anticipo
con il lettore. Se ci si riferisce agli articoli che danno resoconto delle
opere scientifiche di consultazione, alle monografie e agli studi parti
colari di questi ultimi decenni, si potrebbe sembrare che la « sapien
za » d'Israele, d'Egitto o dei popoli mesopotamici è un soggetto assai
conosciuto e molto ben circoscritto. Questo tuttavia non si può am
mettere. Al contrario, la nozione di « sapienza » è diventata sempre
più confusa, in ragione del numero crescente di lavori scientifici pub
1 « Siete quindi invitati a fam e lettura con benevola attenzione e a mostrarvi indulgenti...; in
effetti, non vi è equivalenza tra cose espresse originariamente in ebraico e la loro traduzione in
un'altra lingua ». Prologo al libro dell'Ecclesiastico (Siracide). Il nipote ha tradotto in greco l'opera
del nonno.
I. IL PROBLEMA 17
dente, giacché, in questi testi i criteri della critica delle fonti erano
inutilizzabili. Ci si poteva quindi attenere all’autenticità del libro dei
Proverbi di Salomone — tranne qualche modifica — ancora nella se
conda metà del xix secolo. Il rapido cambiamento d’opinione è incon
testabilmente scattato in seguito allo studio storico-critico della Bib
bia, ma la convinzione che il libro dei Proverbi doveva essere consi
derato nel suo insieme come il prodotto della comunità giudaica post-
esilica non poteva richiamarsi a risultati precisi forniti dall’analisi cri
tica dei testi. Ci si è piuttosto lasciati guidare da un'immagine astratta
che ci si era fatta dei movimenti intellettuali e religiosi e della loro
evoluzione nell'antico Israele4. Soprattutto nel dogma rigido della « re
tribuzione individuale » si credeva di discernere un elemento caratteri
stico dell'epoca tardiva. È stato particolarmente negativo il fatto che,
in questa fase della ricerca, non ci si è liberati da una problematica
troppo poco sfumata, come noi la constatiamo oggi. Alla stregua dei
Salmi o dei Profeti, si considerava i Proverbi come un libro essenzial
mente religioso che si doveva interpretare soprattutto partendo dalla
sua pietà e dalla sua idea di Dio. Ma poiché il risultato di queste ricer
che sistematiche non era del tutto soddisfacente — ci si imbatteva in
considerazioni razionali, anche opportunistiche, in primo luogo nel
l'estrema povertà di testi direttamente religiosi — si è pensato di dover
concludere dal contenuto di questo libro a una perdita di sostanza reli
giosa evidente in questa sapienza post-esilica.
La ricerca non è uscita dall’ombra di questi poco felici giudizi di va
lore religioso sino a che non ha cominciato a prendere in considera
zione i testi sapienziali dei grandi paesi civilizzati confinanti con Israele
e la loro parentela con il materiale israelitico. È in particolare nell'an
tico Egitto che vi sono stati libri sapienziali la cui origine si stendeva
dal terzo millennio avanti Cristo fino ad un'epoca molto tardiva. La
constatazione che un intero passo del libro della sapienza d'Amene-
mope era stato riprodotto quasi parola per parola nel libro biblico dei
Proverbi (Prov 22, 17 - 23, 11) ebbe un effetto rivoluzionario. L'idea che
la sapienza era un fenomeno religioso di Israele dopo l’esilio si rivelò
completamente falsa. La sapienza, si scoprì improvvisamente, è un fe
nomeno comune a tutto l’Oriente, il prodotto di una civilizzazione da
cui Israele ha, in grande misura, molto più ricevuto che donato. Nello
stesso tempo, le obiezioni sorte contro una datazione risalente all’epoca
regale si sono rivelate infondate. Da quel momento era perfettamente
legittimo intraprendere da una parte o dall'altra un vasto studio com
parativo del materiale sapienziale5. Il risultato di questo lavoro, che
4 Così G. Holscher pone ancora l'antica letteratura dei proverbi alla fine dell’epoca persiana:
Geschichte der israelitischen und jiidischen Religion (1922), 148.
5 W. O. E. Oesterley, The Wisdom of Egypt and the Old Testament (1927); W. Baumgartner,
Israelitische und altorientalische Weisheit (1933); J. Fichtner, Die altorientalische Weisheit in ihrer
israelitisch-judischen Auspragung (1933); H. Ringren, Word and Wisdom (1947); H. Gese, Lehre
und Wirklichkeit in der alien Weisheit (1958); H. H. Schmid, Wesen und Geschichte der Weisheit
(1966). W. Zimmerli ha preso una nuova direzione occupandosi dei problemi interni del libro dei
Proverbi: Zur Struktur der alttestamentlichen Weisheit, in ZAW 51, 1933, 177 ss. Circa trent'anni
I. IL PROBLEMA 19
più tardi, U. Skladny, Die Ultesten Spruchsammlungen in Israel (1962), l'ha seguito. Lavori parti
colari di notevole importanza sono stati quelli di W. Zimmerli e di R. E. Murphy, R. B. Scott ha
poco fa eccellentemente mostrato la strada seguita dalla ricerca in questi ultimi decenni: The Study
of the Wisdom Literature, in « Interpretation » 24, 1970, 20 ss.
6 H. H. Schmid, op. cit., 148 e altrove.
7 H. Gese, op. cit., 2.
8 II processo di comparazione è inoltre complicato dal fatto che non sappiamo quasi niente del
cammino che ha percorso questo materiale didattico (venendo forse dall'Egitto) per arrivare in
Israele. Può essere stato assai complesso, giacché si assegna alla letteratura siro-palestinese un
importante ruolo - d ’intennediaria. Recentemente testi dell'antica Ugarit (1500-1200 a. C.) hanno dato
finalmente il loro atteso contributo alla sapienza internazionale (o più precisamente: babilonese).
J. Nougayrol, Ugaritica V, in « Mission de Ras Shamra » voi. 16, 1968, 273 ss., 291 ss. In un caso,
si dovrà ammettere un processo di infiltrazione, diversamente si tratterà eventualmente di maestri
di sapienza ambulanti che l'hanno portata direttamente in Israele. H. Cazelles, Les Sagesses du
Proche-Orient ancien (1963), 27 ss.
20 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
Come potrà un'esegesi che prende sul serio le parole rendere conto
di questa raccolta di espressioni? che significa ciascuno di questi con
22 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
LUOGHI E RAPPRESENTANTI
DELLA TRADIZIONE DIDATTICA
sione; il risultato è che il mondo in cui esse vivono non è in ogni caso
la corte5. Al contrario, le sentenze aventi a che fare col mondo ristretto
della corte e degli alti funzionari sono, nell'insieme, relativamente po
che 6. S'impone così l'ipotesi che i saggi di corte, gli « uomini di Eze
chia » tra gli altri, hanno lavorato come compilatori di un insegnamen
to esterno a quello della corte, cosicché la sapienza non ebbe affatto
come quadro di vita solo la corte. È chiaro che essa deve aver avuto
molto presto i suoi centri di cultura nel paese, in uno strato più vasto
della popolazione, dove si è orientata maggiormente verso i problemi
posti dalla vita di un ambiente borghese e contadino agiato7.
Sarebbe molto utile poter ottenere dall'A.T. qualche informazione
circa l’istruzione pubblica in Israele, ma le ricerche numerose molto
accurate, che sono state fatte, sono rimaste quasi senza risultato8. La
prima indicazione diretta si trova nel libro tardivo del Siracide dove
una volta si parla della « scuola » (bèt hammidràS: Eccli 51, 23). Tutta
via, pare fuor di dubbio che nell’antico Israele ci sono state delle scuo
le; questo almeno ci viene indicato dalle condizioni dei paesi confinanti
di alto grado di civilizzazione, anche se non si deve dimenticare che que
ste condizioni non possono essere trasportate tali e quali in Israele che,
dal punto di vista della cultura, era in una situazione molto più mo
desta. D’altra parte, conosciamo indirettamente l’esistenza di queste
scuole dall’alto livello della letteratura già agli inizi della monarchia.
La sua qualità ci obbliga ad ammettere l'esistenza della professione di
scriba, perché mai essa avrebbe raggiunto un tale livello senza ima
cultura proveniente da questo ambiente. In Israele pure si è scritto;
bisognava quindi che si insegnasse l’arte di scrivere. La scrittura non è
mai stata insegnata senza esservi accompagnata da una dottrina. Ne
consegue che in Israele devono esserci state scuole di diverso genere.
Le cose rituali e le complesse distinzioni tra il puro e l’impuro sono
state probabilmente insegnate in scuole sacerdotali. Gli scribi del Tem
pio di Ger 8, 8 sono stati certamente formati in modo diverso dai gio
vani funzionari di corte. E i Leviti devono aver ricevuto, essi pure,
un’istruzione diversa che li preparava all’interpretazione delle tradi
zioni antiche o alla loro diffusione tramite la predicazione9. Infine, era
necessaria un’istruzione preparatoria del tutto diversa per lavorare nel
la cancelleria di Esdra dove venivano elaborati gli editti del Grande Re.
Vi è un genere di proposizioni interrogative che — pensiamo — si
collegavano almeno indirettamente a una specie d ’attività scolastica.
» Vedere sull’argomento soprattutto le analisi di U. Skladny.
• Proverbi regali in particolare in Prov 16, 10-15; 25, 1-7.
T II giovane la cui educazione musicale e retorica è così ben descritta in 1 Sam 16, 18, proviene
da Betlemme. Questo ci spiega anche come Amos abbia potuto usufruire di questa sapienza pedago
gica; cfr. H. W. Wolff, Amos’ geistige Heimat (1964), e H.-J. Hermisson, op. cit., 88 ss.
• Circa la questione delle scuole in Israele cfr. di recente soprattutto H.-J. Hermisson, op. cit.,
97 ss.; W. McKane, Prophets and Wise Men (19662), 36 ss.; L. Diirr, Das Erziehungswesen im Alten
Testament und im antiken Orient (1932); L. Jansen, Die spdtjudische Psalmendichtung, ihr Entste-
hungskreis und ihr « Sitz im Leben » (1937), 57 ss.
• Circa la pratica della predicazione, cfr. G. von Rad, Das jilnfte Buch Mose, in AID 1964, 13 s,
e passim.
26 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
« Es 36, 8; 31, 3. 6; 35, 35; 1 Re 7, 14; Is 40, 20; Ger 9, 16; 10, 9; Ez 27, 8; del resto, sul piano
semantico, le cose sono identiche per il « sophos » greco; cfr. H. Frankel, Dichtung und Philosophie
des frilhen Griechentums (1962), 275, e U. Wilckens, in TWNT, VII, 467 ss.
u Come pure Es 1, 10; Ger 4, 22; Giob 5, 13.
28 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
■5 Ad esempio: Prov 14, 3.24; 15, 2.7; 21, 20; 29, 11.
* Prov 22, 17; 24, 23; 13, 14; 15, 12 s. Cfr. H.-J. Hermisson, op. cit., 133 ss.
17 H.-J. Hermisson, op. cit., 122 ss.
18 Re: Is 19, 11; 10, 13; Ez 28, 3. Funzionari: Gen 41, 33; Is 19, 11; 30, 4; Ger 50, 35; 51, 57.
II. LUOGHI E RAPPRESENTANTI DELLA TRADIZIONE DIDATTICA 29
Diverso è il compito di chi applica la sua anima
e il suo pensiero alla legge delTAltis siimo.
Egli investiga la sapienza di tutti gli antichi,
e consacra dì tempo libero alle profezie.
Conserva i racconti degli uomini celebri
e penetra ili groviglio delle parabole.
Egli esplora il senso nascosto dei proverbi
e si interessa degli enigmi delle parabole.
Prende servizio tra i grandi,
e lo si nota in presenza dei capi.
Egli viaggia in paesi) stranieri,
ed ha fatto l'esperienza del bene e del male tra gli uomini.
Già dal mattino, con tutto il cuore,
si rivolge al Signore, suo creatore;
innalza la sua anima verso l'Altissimo,
apre la bocca per la preghiera
e supplica per i propri peccati.
Se questa è da volontà dedl'Altissimo Dio,
egli sarà riempito dello spirito d'intelligenza.
Egli stesso diffonderà parole di sapienza,
nella preghiera renderà grazie al Signore.
Acquisterà rettitudine nel giudizio e nella conoscenza,
e mediterà i suoi misteri nascosti.
Egli mostrerà l'istruzione che ha ricevuto
e metterà la sua fierezza nella legge deli-alleanza del Signore.
Molti loderanno il suo senno,
e non lo si dimenticherà.
Il suo ricordo non si cancellerà,
il suo nome vivrà dii generazione in generazione.
Le genti proclameranno la sua sapienza
e l'assemblea celebrerà le sue dodi.
S'egii vive a lungo, il suo nome sarà più glorioso di mille altri,
e se muore, il suo nome gli basta. (Bcoli 39, 1-11)
FORME DI ESPRESSIONE
DELLA CONOSCENZA
I . L a SENTENZA ARTISTICA
la esigeva piuttosto nella trasmissione dei fatti stabiliti che non nella
formazione dei concetti.
Si può scorgere nel monostico costruito in due metà parallele la for
ma fondamentale della poesia proverbiale dell'antico Israele; ma biso
gna resistere alla tentazione di considerarlo come il punto di partenza
d'uno sviluppo verso forme letterarie sempre più ampie. L'idea che al
l'origine si trovino le unità più piccole, mentre quelle più lunghe sono
venute successivamente, si è rivelata falsa per quel che riguarda la
poesia didattica6. Il monostico impone spesso esigenze molto più ele
vate e richiede una ben maggiore elaborazione intellettuale che un
poema didattico pienamente svolto! Il monostico è in genere molto più
denso ed offre molto più spazio libero per la comprensione e l'applica
zione che non il poema didattico il cui contenuto è più nettamente cir
coscritto.
Il peso e la bilancia giusti sono in mano airEtemo;
tutta i pesi del sacco sono opera sua. (Prov 16, 11)
Non è bene avere riguardo alla persona del malvagio,
per fare torto al giusto in giudizio. (Prov 18, 5)
Il falso testimone non resterà impunito,
e chi dice menzogne non sfuggirà. (Prov 19, 5)
Un saggio parte all’assalto di una città di forti,
ed abbatte il baluardo in cui essa confidava. (Prov 21, 22)
Rimuovi dalla tua bocca ‘la falsità,
dalle tue labbra i raggiri allontana. (Prov 4, 24)
4 Cfr. Kayatz, Studien zu Proverbien 1-9 (1966), 2 ss. Cfr. sul problema W. F. Albright, nel suo
articolo: Some Canaanite-Phoenician Sources of Hebrew Wisdom, in VTSuppl 3, 1955, 4.
IH. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 35
II secondo membro è lungi dal ripetere ciò che diceva il primo, pur
modulandolo; né dice d'altra parte il contrario. Ciò che lo caratterizza
è che prosegue l'idea introdotta, sovente nel senso di una gradazione,
del passaggio a una nuova idea. La prima idea tende a superarsi ma
sempre nella stessa direzione e per una sorta di prolungamento. Biso
gna che qualcosa di particolarmente sorprendente si sia imposto al
poeta, tra le direzioni in cui la sua prima idea poteva essere prolunga
ta. Spesso è una generalizzazione, spesso anche una specificazione per
la quale ciò che è stato detto si trova completato.
I proverbi formulati comparativamente sono particolarmente apprez
zati, soprattutto nella collezione Prov 25 - 277.
È meglio poco con la giustizia,
che grandi redditi con l'ingiustizia. (Prov 16, 8)
£ meglio un pezzo di pane secco con la pace,
che una casa piena di carni con le discordie. (Prov 17, 1)
£ meglio abitare nell'angolo di una soffitta,
che condividere la casa con una donna attaccabrighe. (Prov 25, 24)
È meglio un rimprovero aperto, che un’amicizia nascosta. (Prov 27, 5)
7 H. H. Schmid, op. cit., 159, nota 69, propone di considerare questa formulazione non come
comparativa, ma come esclusiva: « È buono... e non lo è... ».
8 Rimando a pp. 114 ss.
36 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
il significato? Con una sola parola per indicare il leone, il maestro non
avrebbe potuto dire ciò che gli stava a cuore: chi crea la disgrazia fi
nisce presto o tardi nella disgrazia.
Anche se le sentenze sono state elaborate in ambiente di scuola, la
loro stilizzazione non è immediatamente pedagogica. Nella grande mag
gioranza sono affermazioni che si presentano in forma di tesi perfetta
mente neutre, senza mettere direttamente in causa il lettore. Esse non
sono di natura imperativa, hanno piuttosto una tendenza retrospettiva
ed hanno soprattutto un valore empirico. A loro modo nel loro settore,
vogliono affermare una certezza, il cui valore non presenta alcun dub
bio. Si presentano le esperienze, si traggono le conclusioni, il risultato
si impone da sé 12. La differenza tra gli avvertimenti e le constatazioni
è evidente. Mentre gli avvertimenti suggeriscono all'uditore un com
portamento del tutto chiaro, le constatazioni, pur notevoli, conservano
sempre un'imprecisione che è loro propria, qualcosa che rimanda più
lontano e più in alto, che permette numerose associazioni d'idee e che,
in talune circostanze, non impedisce un'interpretazione figurata 13.
Si è detto sovente che queste constatazioni sono esclusivamente trat
te dall'esperienza. È stata certamente necessaria una lunga osservazione
di circostanze analoghe perché si potessero individuare a poco a poco
certe regole; e noi possiamo dire di capire questa poesia sentenziosa
soltanto quando sappiamo vedervi all'opera un'intelligenza instancabile
che pone problemi pressanti al mondo che la circonda e non indietreg
gia mai nel tentativo accanito di scoprire qualche ordinamento nel
mondo circostante e di fissarlo. Evidentemente l'esperienza non era tut
to. Certo, Israele era convinto che gli avvenimenti e le circostanze par
lavano all'uomo, ma pur avendo essi un linguaggio, parlavano in ma
niera chiara e senza equivoco, erano facilmente compresi? Inoltre: gli
avvenimenti dovevano dapprima diventare esperienza; essi dovevano
essere colti e capiti. Bisognava innanzitutto che il simile, l'identico,
fosse percepito come simile e identico prima che lo si potesse catalo
gare. II tutto poi doveva essere portato sul piano di una lingua strut
turata. No, decisamente, tra gli avvenimenti e i proverbi che ne parla
no, vi è tutto un lungo lavoro di riflessione pieno di complicazioni e le
tappe di questo lavoro non hanno lasciato tracce; non si può che sup
porle in seguito a partire dal risultato finale, dai proverbi in forma di
tesi. Si è trattato di molto più che duna nomenclatura la più fedele
possibile al materiale di esperienze date in precedenza, cioè del compi
to piuttosto tecnico di valorizzarla il meglio possibile nella pratica, si
è trattato anche di dargli una forma che serva da modello ad un atto
12 W. Preisendanz, Die Spruckform in der Lyrik des alten Goethe und ihre Vorgeschichte seit
Opitz, in « Heidelberger Forschungen » 1, 1952, 13 s.
13 Le « parole d'esortazione » o d'awertimento sono molto meno numerose della quantità di con
statazioni, di affermazioni, nelle collezioni di Prov 10-29. Le troviamo soprattutto nella collezione che
ricalca in parte l’egiziano Amenemope: Prov 22, 17 - 24, 22; inoltre 25, 6-10.16 s. 21 s.; 26, 12; 27,
1 s. 10 s. 13. 23. Sul problema particolare degli avvertimenti ed esortazioni identiche che troviamo
in altre parti dell’A.T. (ad esempio in Deut), cfr. W. Richter, Rechi und Ethos (Versuch einer
Ortung des weisheitlichen Mahnspruches), 1966.
38 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
di ciascuno dei due, bensì del comportamento che gli uomini devono
tenere nei loro confronti. Una volta deviata la sentenza in questa dire
zione, è — fatto sorprendente — l'opposto che ne risulta: si deve par
lare delle opere di Dio, si devono tacere i segreti di un re. Come pure
la sentenza ben nota che afferma che un padre che ama il proprio fi
glio lo corregge (Prov 13, 24), applicata ai rapporti tra Dio e l'uomo, ha
preso un contenuto completamente diverso: non ci si deve sottrarre
alla correzione di Dio, « perché Jahve corregge colui ch'egli ama, come
un padre il figlio prediletto » (Prov 3, 11 s.).
II. Altre f o r m e d i p o e s ia d id a t t ic a
1. Proverbi numerici
Il censimento, l'enumerazione di cose, di modi d'essere, di virtù, ecc.,
è uno dei bisogni più elementari dell'uomo che ricerca l'ordine: ne
abbiamo una gran quantità di esempi nelle forme più svariate e in
tutte le civiltà 17. Anche nei cosiddetti proverbi numerici ci troviamo di
fronte a questa volontà ordinatrice, così profondamente ancorata nel
l'uomo, e precisamente in una forma proverbiale molto specifica che è
stata coltivata non solo in Israele, ma negli altri paesi dell'antico
Oriente e che ha sempre più attirato l'attenzione degli esegeti18.
Vi sono sei cose che Jahve odia,
anzi sette ch'egli ha in orrore:
gli occhi ailteri, la lingua mentitrice,
le mani che spargono.di sangue innocente,
il cuore ©he trama progetti iniqui,
i piedi che corrono in fretta al male,
il falso testimone che dice menzogne,
e chi suscita le discordie tra i fratelli. (Prov 6, 16-19)
19 Per la civiltà greca cfr. B. Snell, Dichtung und Gesellschaft (1965), 103.
20 II numero degli oggetti enumerati era libero. Già lo schema: uno-due è attestato (Sauer, op.
cit., 88). Ad esso si contrappone Eccli 25, 7-11 con nove-dieci. Più il numero è alto, più la sen
tenza è incolore. T ra Prov 30, 18 s. ed Eccli 25, 7 ss., si produce un vasto sviluppo che declina nello
stile. Là, quattro cose che sembrano sorprendenti alla ragione, ma si lasciano ancora da lei gerar-
chizzare (cfr. pp. 116 ss.). Qui, una numerazione incontrollata dei più importanti beni della v ita
(discendenza, donna, amici, timore di Dio, ecc.).
42 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
2. Lo stile autobiografico
Non è raro che le conoscenze siano presentate come ima scoperta
personale, un'esperienza fatta dal maestro in persona:
Son passato presso il campo di un pigro,
e presso la vigna di un uomo di poco senno.
Ora, ecco: tutto era invaso dalle ortiche... (Prov 24, 30-34)
Sono stato giovane... sono invecchiato;
ma non ho mai visto il giusto abbandonato,
né la sua discendenza mendicare il pane.
21 La risposta del terzo paggio («m a su tutto la verità la vince ») è certamente un'addizione ulte
riore. Su questo racconto, cfr. W. Rudolph, in ZAW 61, 1945, 176 ss. L'idea che questa storia sia di
orìgine greca non mi pare necessaria.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 43
» Esempi: Sai 37, 25.35 s.; 73, 2 ss.; Giob 4, 8; 5, 3; Prov 7, 6 ss.; 24, 30 s.; Eccli 31, 12 s.
* Partendo da Is 17, 14, B. S. Childs ha consacrato uno studio interessante alla formula: « Que
sta è la sorte... * e vi ha visto una forma di discorso originario della scuola di sapienza: Isaiah and
the Assyrian Crisis (1967), 131 ss. (Ai testi citati si potrebbe aggiungere Ger 13, 25 e Sap 2, 9). Non
sono sicuro che essa sia una formula di conclusione. In Giob 27, 13 sta all'inizio, probabilmente
anche in Ger 13, 25. In Giob 8, 13 e Sap 2, 9 si trova in mezzo.
44 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
4. Il dialogo
Non è certo la porzione minore della letteratura di contestazione
deirantico Oriente quella rappresentata dai dialoghi: la forma dialo
gata è infatti il mezzo più naturale di sviluppare un problema. Accanto
24 E. Otto, Der Vorwurf an Goti (Zur Entstehung der dgyptischen Auseinandersetzungsliteratur), in
« Vortràge der Orientalistischen Tagung in Marburg », Fachgruppe Àgyptologie, 1950 e 1951.
25 Più ampiamente pp. 185 ss.
I I I . FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 45
Sul « tema di Giobbe» nella letteratura sumero-accadica, cfr. H. Gese, op. cit., 51 ss.
27 Cfr. H. Gressmann, in AOT, 294 s.; Pritchard, in ANET, 410.
n G. Ree se, Die Geschichte Israels in der Auffassung des friiheren Judentums, tesi in edizione
meccanografica, Facoltà di Heidelberg, 1967, 136 ss.
4. von rad. la sapienza io i&raefc
46 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
5. Favola ed allegoria
Oggi abbiamo perso ogni relazione diretta con la favola che fu a suo
tempo una « grande potenza letteraria »; dobbiamo appropriarcene pas
sando attraverso la percezione storica. Anche qui abbiamo a che fare
con una delle forme originali deirattività intellettuale deiruomo. Si è
insistito giustamente sul fatto che la favola non perseguiva per sua na
tura uno scopo morale, ma si limitava a presentare semplicemente una
verità, una realtà, qualcosa di tipico in sé30; e non è raro ch'essa di
pinga la realtà con estrema crudezza31. Il fatto poetico è certamente
molto notevole, poiché nella favola si produce un travestimento della
realtà quotidiana, una specie di alienazione nell'irreale e nel fatato. Ma
sotto questo vestito strano, la verità risalta con più evidenza che nella
vita quotidiana dove essa è così sovente trascurata. Si ha quest'effetto
soprattutto quando la realtà descritta è spinta al comico. L'impiego
d'animali e di piante che si trova nelle favole della letteratura dell'an-
tico Oriente è considerevole. Evidentemente, le favole sono un genere
che allorigine appartiene ad ogni uomo e non è soltanto il privilegio
di una classe di eruditi; ma per raccoglierle e diffonderle sono certa
mente intervenute le scuole col loro contributo. Nell'A.T. abbiamo un
piccolo numero di favole e ciò può essere spiegato dalla prospettiva
religiosa che è stata determinante nel formarsi della letteratura
d'Israele.
Gli alberi andarono ad ungersi un re e metterselo a capo. Dissero all'ulivo:
« Regna su di noi ». Ma l’ulivo rispose loro: « Devo rinunciare al mio olio che
mi assicura l'omaggio degli dei e degli uomini per andare a dominare sugli
•alberi? ».
Gli alberi dissero al fico: « Vieni tu, regna su noi ». Ma il fico rispose loro:
« Devo rinunciare alla mia dolcezza e al mio frutto squisito per andare a do
minare sugli alberi? ».
Gli alberi dissero alla vigna: « Vieni tu, regna su noi ». Ma la vigna rispose
loro: « Devo rinunciare al mio vino che rallegra gli dei e gli uomini, per
andare a dominare sugli alberi? ».
Allora tutti gli alberi dissero al rovo: « Vieni tu, regna su noi ». E il rovo
rispose agli alberi: « Se veramente volete ungere me come vostro re, venite,
rifugiatevi sotto la mia ombra; altrimenti un fuoco uscirà dal rovo e divorerà
i cedri del Libano! ». (Giud 9, 8-15)
79 La lettera dello pseudo-Ari stea è del 100 a. C. circa. L’utilizzazione di tradizioni più antiche è
possibile. Cfr. P. Riessler, Altjiidisches Schrifttum ausserhalb der Bibel (1928), 193 ss.
30 K. Meuli, tìerkunft und Wesen der Fabel, in « Schweizerische Archiv fiir Volkskunde » 50,
1954, 65.68.77. La favola può evidentemente avere diverse funzioni secondo la varietà dei suoi tipi.
E. Leibfried, Fabel (1967).
11 Vedi ad esempio la favola crudele dell'awoltoio e dell'usignolo in Esiodo, Le Opere e i
Giorni, vv. 202 ss.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 47
Anche questa favola ha avuto senza dubbio una funzione in una cir
costanza politica, giacché essa appare come risposta ad un re che di
chiara guerra. È evidente che essa non è completa: è troppo corta e
Tazione molto vaga e sembra piuttosto riferirsi a una domanda di ma
trimonio contraria alle regole di precedenza. Si ha l'impressione che
sia stata compendiata e limitata agli elementi che potevano servire in
una circostanza politica. Tempi felici quelli in cui, nelle relazioni diplo
matiche, i re potevano combattere con le armi spirituali della favola!
A tale contesto appartiene anche il racconto del profeta Natan sul
l'uomo ricco che aveva preso al povero la sua unica pecora (2 Sam
12, 1-4). Anche in questo caso è facile osservare che solo molto da lon
tano la favola riguarda il delitto che Davide ha perpetrato contro Uria.
Il tratto che domina questa favola, cioè le relazioni affettuose e com
moventi tra il povero e la sua pecora, non corrispondono evidente
mente in nulla al caso di Uria. Inoltre, Davide non solo aveva preso la
moglie, ma anche la vita di Uria. Questi sono indici sicuri che il rac
conto non è stato composto ad hoc e che esisteva a sé, indipendente
mente dal caso a cui Natan lo applica. Ma vi è una cosa più impor
tante da notare. Qui, come in 2 Re 14 o nella favola di Jotam, l'inter
locutore contribuisce ad una giusta applicazione della favola con il com
mento che vi aggiunge; il racconto acquista in tal modo chiaramente
un significato didattico, che originariamente gli era estraneo. Un simile
** À. J. Bjòrndalen ha iniziato uno studio interessante della nozione moderna di allegoria (risa
lendo a Goethe e a Schelling): Tidskrift for theologi og kirke (1966), 145 ss. Per l’A.T. vale l'asser
zione ch£ bisogna parlare dì allegoria quando si presenta un discorso con due o più metafore in
relazione reciproca di significato.
50 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
u È notoriamente la storia « del morto riconoscente ». Bisogna tuttavia sottolineare che questa
materia antica è stata modificata nel racconto attuale fino a diventare irriccnoscibile. Così il fatto
di sapere che questo racconto ha una lontana preistoria non è di alcuna utilità per la compren
sione del racconto così come esso si presenta a noi attualmente.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 51
tema del libro è infatti l'idea che il Dio d'Israele è unico: questa unicità
è messa in dubbio e viene dimostrata storicamente. In maniera molto
più chiara si possono qui catalogare i racconti di Daniele, soprattutto
Dan 1, 3-6. La loro datazione non risale all'epoca della terribile perse
cuzione religiosa di Antioco Epifane (167 a. C.), ma ad un'epoca molto
più antica, in una situazione di diaspora in cui i giudei non erano af
fatto perseguitati, ma vedevano invece aprirsi davanti a loro il cam
mino alle più alte cariche pubbliche. Eppure, precisamente questa leal
tà dei grandi re nascondeva la possibilità di conflitti religiosi del tutto
particolari.
6. Preghiere
Un risultato sicuro nella ricerca dei generi letterari, è che, nel sal
terio come in altre opere in prevalenza recenti, si trovano « salmi sa
pienziali ». Dietro quest'affermazione rimangono molte cose oscure:
non si può infatti parlare di un genere determinato di preghiere didat
tiche, ma al massimo di lingua e temi comuni. Non possediamo criteri
solidi per determinare questi salmi, anzi, questi poemi appartengono a
diversi generi letterari che sembrano imitare. È quindi piuttosto un'im
pressione generale di erudizione e di senso dell'istruzione, un'impres
sione di preponderanza della riflessione teologica, ecc. che ci autorizza
a distinguere questi salmi dalla grande massa dei salmi di carattere
essenzialmente cultuale. Non si può in ogni caso cercare nel culto il
posto e la culla di questi poemi. « Il problema suscitato dall'esegesi dei
salmi non è quello dei salmi cultuali, è quello dei salmi non cultuali »35.
La cerchia dei salmi posti in questo gruppo è tracciata qui in maniera
più larga, là in maniera più stretta; il che non ha nulla di sorprendente
poiché non conosciamo le caratteristiche precise del genere. Abbiamo
chiaramente a che fare con una forma di poesia di scuola che è stata
presentata agli allievi nell'epoca postesilica. È possibile che i saggi ab
biano scritto preghiere di questo genere per loro edificazione, ma l'im
pressione che esse siano a doppia facciata — preghiere indirizzate a
Dio e lezioni fatte agli allievi — non esiste che presso l'osservatore mo
derno. Sono in ogni caso delle vere preghiere e l'elemento patetico, a
volte grandioso, di questi inni non è artificioso. L'aspetto didattico non
viene evidenziato36; spesso lo riconosciamo solo dalla scelta delle pa
role e dei temi che incontriamo altrove in testi chiaramente didattici.
Ci basti sapere che i maestri, ad un'epoca molto remota, erano ca
paci in grado eminente di dominare lo stile di ogni genere di salmi,
35 S. Mowinckel, Psalms and Wisdom, in VTSuppl 3, 1955, 205. Criteri formali caratteristici di
questo genere letterario in Gunkel-Begrich, Einleitung in die Psalmen (1933), 389 ss.; H. L. Jansen,
Die spàtjiidische Psalmendichtung, ihr Entstehungskreis und ihr c Sitz im Leben » (1937), soprat
tutto 133 s.
34 Nella poesia sapienziale extra-canonica, l ’elemento didattico appare maggiormente in primo
piano. Così, ad esempio, in Sai. Salomone 15, il rapporto è rovesciato: è più insegnamento che
preghiera.
52 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I
cosa di più intenso, di più condensato, per cui l’evocazione della realtà
ch'essa racchiudeva nella parola poteva aspirare ad un più alto grado
di verità. Avveniva così che un immenso settore di conoscenze fonda-
mentali circa il mondo e la vita non poteva esprimersi che in forma
poetica e l'espressione poetica era assolutamente indispensabile alla
vita e alla conoscenza. Questa funzione evocatrice della poesia poteva
possedere la gravità di uno scongiuro o d'un incantesimo, come ancor
oggi una parola poetica può esercitare un potere magico.
Non ci si può ingannare circa l’importanza dello sforzo intellettuale
messo in atto dai nostri maestri di sapienza a meno che si rimanga
indifferenti di fronte a tutto questo materiale o si ignori il punto focale
di questa sapienza capace di produrre opere d’arte. Pindaro, che si è
fatto un punto d’onore nel legare la sapienza alla poesia, descrive que
sta forma di comunicazione della conoscenza come un « lavoro », una
« fatica ». L’intelletto non è il solo ad essere impegnato; si tratta di un
sapere già assimilato, di un sapere a cui l’uomo si riferisce e di cui
vive ". Se la conoscenza veniva in tal modo elevata ad una forma uma
na così eminente, ci si spiega la sua caratteristica più notevole: quella
del gioco41. In un gran numero di sentenze, soprattutto nelle forme
enigmatiche come la favola, il proverbio numerico, l’allegoria, nei loro
giochi di parole ed infine nel genere faceto, questo carattere di gioco
è manifesto. Le forme letterarie dei saggi ci confermano questa cu
riosa constatazione, che vi sono cioè delle conoscenze che non pos
sono tradursi che nella forma di un gioco intellettuale. La parola di
Pindaro, benché sia difficile tradurla in ebraico, è del tutto valida in
Israele quanto al suo significato: « Cieca è la mente di chi esplora sen
za le Muse il cammino profondo della sapienza »42. Pare che Israele
non si sia posto alcuna domanda sul fenomeno dell’arte poetica; ma,
in questo campo, è stato di un'audacia estrema, ha raggiunto dei ver
tici. Bisognerà che conserviamo il ricordo di quest’aspetto delle cose:
ci rivelerà infatti più tardi che Israele ha saputo fondare in modo sor
prendente il suo diritto di giocare con la verità contenuta nel mondo.
1 teb&nS: Prov 2 ,2 .3 .6 ; 3,13; 8,1; 10,23; 14,29; 15,21; 17,27; 20,5; 24,3; Èrnia; Prov 3,5;
9, 6; da'at: Prov 1.4; 9,10; 11,9; 13,16; 24,4.5; 30,3; mezimmà: Prov 1,4; 3,2; 5,2; 8,12;
musar: Prov 1,8; 3,11; 4,13; 10,17; 12,1; 13, 18.24 (22, 15); 15,32.33 ; 23,12; 24,32.
58 LA SAPIENZA IN ISRAELE • PARTE I I
2 Es 28, 3; 31, 3.6; 35, 31.35; 36, 1 s.; 1 Re 3, 4 ss. 28; 5, 9 ss.; Sai 51, 8; 119, 98; Giob 35,
11; Prov 2, 6; Eccle 2, 26; Dan 1, 17; 2, 21. 23; cfr. a questo proposito M. Noth, Die Bewiihrung von
Salomos « gòttlicher Weisheit », in VTSuppl 3, 1955, 225 ss,
IV. CONOSCENZA E TIM OR DI DIO 59
Detto ciò, non dobbiamo credere che questi saggi abbiano conqui
stato una gloria a buon mercato con un'enfasi verbale vuota. Essi ave
vano gravi problemi da risolvere e non potevano affrontarli che con
una grande concentrazione del pensiero e si sentivano autorizzati a
questo lavoro delicato da un'ispirazione divina diretta. Si può anche
constatare un parallelismo tra l'importanza dei problemi che s'impone
vano ai maestri e lo sfoggio letterario che mettevano in opera nelle
loro esposizioni. Di conseguenza, il bisogno di legittimare le conoscenze
acquisite — per la maggior parte di natura teologica — si precisava a
partire da un'ispirazione divina che le precedeva. Una parentela con le
idee di origine profetica si presentava spontaneamente. In effetti, in
questi testi si esprime un sentimento della grandezza che si addice ad
un'acquisizione importante di conoscenze: si assegnava a loro un'ori
gine divina, il che imponeva di adottare un'espressione letteraria corri
spondente. Essere convinti che Dio stesso assiste l'uomo nei suoi sfor
zi di conoscenza, evidentemente non bastava. Nonostante questa assi
stenza divina, i maestri non erano dispensati dall'obbligo di argomen
tare con cura e di rifiutare le opinioni false dopo matura riflessione.
Inoltre, i maestri dei tempi posteriori, come il Siracide, l'autore della
Sapienza di Salomone e gli apocalittici, si son sentiti in dovere di mo
strare che erano al corrente delle conoscenze dei popoli stranieri per
restare all'altezza del sapere del loro tempo.
3 Vedi a questo proposito le riflessioni che ha esposto K. Schwarzwflller, sul senso della realtà
in Israele: Theotogie und Phdnomenotogie (1966), 139 ss.
4 E. Spranger, Die Magie der Seeìe (1947), 52.
66 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I
quindi dire che i cattivi non sanno ciò che è giusto mentre coloro che
cercano Jahve comprendono ogni cosa (Prov 28, 5). L'idea è chiara
mente quella che il rivolgersi a Jahve facilita la delicata distinzione
tra il giusto e l'ingiusto; ma ciò non era valido soltanto per il campo
ristretto della morale. La fede non impedisce la conoscenza — come si
pensa normalmente oggi — al contrario: la fede emancipa la conoscenza,
le permette di giungere correttamente all'oggetto e le mostra la posi
zione esatta nel campo delle numerose e svariate attività umane. In
Israele, la capacità di conoscere dell'uomo non si è mai staccata dal
fondamento della sua esistenza totale, cioè dal suo attaccamento a
Jahve, e non si è mai esercitata autonomamente. Anzi, si può parlare
— soprattutto nella letteratura didattica più recente — di uno sforzo
per mantenere la capacità di conoscere in stretto legame col fonda
mento della vita d'Israele, di riportarvela e di non lasciare mai che se
ne distacchi. La conoscenza di coloro che disprezzano la parola di
Dio — domanda una volta Geremia — « che razza di sapienza può mai
essere per loro »? (Ger 8, 9 )12.
Soltanto un profeta poteva permettersi di regolare con una domanda
retorica appena abbozzata il grave problema del legame esistente tra
la conoscenza e il sapere riguardante Dio. L'espressione che il timore
del Signore è l'inizio della sapienza era il bene più personale d'Israele.
Nessuno deve pensare che si esprimeva in questi termini una cosa per
fettamente chiara. Ci vorranno tutte le riflessioni dell’intero libro dei
Proverbi per trarre qualcuna delle conseguenze che questa tesi rac
chiude. A partire da questo fondamento, Israele è introdotto in campi
del sapere di genere particolare, come del resto vive esperienze di ge
nere particolare. In breve, il suo compito era di pensare entro i limiti
di un campo di forze circoscritto dalla pregiudiziale di un sapere ri
guardante Dio. Tutto ciò che si può dire a favore o contro la sapienza
d'Israele è contenuto in questa frase. Il fatto che essa si sia impegnata
su questa strada verrà ribadita in modi diversi anche da Giobbe e dal-
l'Ecclesiaste.
Tuttavia, non bisogna cedere alla tentazione di assegnare all'espres
sione che il timore di Jahve è l'inizio della conoscenza un valore di
programma esaustivo. Non si tratta di una tesi ardua, che Israele sa
rebbe giunto a formulare dopo lunghe lotte, preferendola ad esperienze
orientate in altre direzioni. Tutt'altro: essa non dice nulla di più di
quel che è messo in pratica in tutte le sentenze. Essa non ha aggiunto
nulla di nuovo a ciò che era al fondo di ciascuna di esse e senza di
12 Non posso seguire l'opinione di McKane (Prophets and Wise Men, 1965, 47 s.). Secondo lui, i
rappresentanti deirantica sapienza, incaricati di compiti politici, svolgevano una funzione così op
portunistica ed empirica che non potevano permettersi il lusso di principi religiosi o morali. Il
timore di Dio non era un elemento costitutivo della loro sapienza: essi dovevano prendere il mondo
così com'era. Ma non si può postulare negli uomini dell’antichità un’opposizione del genere tra il
mondo reale e la religiosità. I saggi, quando parlavano delle benedizioni di Jahve o dei limiti da
lui imposti, non hanno forse preso il mondo così com’era? Esiodo non ha fatto lo stesso? Si sono
forse permessi un lusso rispetto ai politici realisti?
IV. CONOSCENZA E TIMOR DI DIO 71
u « Per la prima volta (in Anassimandro) appare ai nostri occhi una visione del mondo coe
rente che racchiude tutta la realtà sulla base di una derivazione e di una spiegazione di tutti i
fenomeni * (W. Jaeger, Die Theologie der friihen griechischen Denker, 19642, 34).
15 La « formula universale quadripartita »: cielo-soggiorno dei morti-terra-mare, lo conferma da
parte sua (Giob 11, 8 s.), poiché essa non concepisce il « Tutto » come concetto, ma addiziona le
sue parti. Su questa formula, cfr. F. Horst, Hiob, in BK 16/1, 170.
1# Circa l'idea di « Maat » vedi H. Brunner, Agyptologie II, in « Handbuch der Orientalistik »,
voi Ir 2* sezione, 1952, 93 ss.; come pure, Altàgyptische Erziehung (1957), 142; S. Morenz, Gott und
Mensch im alteri Agypten (1964), 66. 118 s. 133, ecc.; H. Gese, op. cit., 11 ss.; H. H. Schmid,
op. cit., 17 ss.
" Vedi pp. 222 ss. e 275 s.
18 H. Brunner, Erziehung, 149. SuU'inammissibilità di opinioni contraddittorie, vedi ibidem, 142.
74 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II
sua fede in Dio. In tutti i suoi sforzi per conoscere lo svolgimento de
gli avvenimenti umani, Israele non s'incontrava sempre con Jahve che
raccoglieva tutto sotto il suo potere? Non vi è mai stato un solo campo
in cui Israele abbia potuto essere da solo con la sua ragione e l'oggetto
della sua conoscenza, cosicché il suo sforzo conoscitivo si è trovato —
ci si passi il paragone — in una situazione il cui esito era sensibilmente
più difficile. Gli era imposto, senza poter anticipare su ciò che non co
nosceva e non aveva sperimentato, di attenersi a ciò che poteva essere
conosciuto in ciascun caso, nel campo dei problemi particolari e di
fissare così sempre il limite che era posto nei confronti di quanto non
era mai a sua disposizione. Israele era cioè obbligato a restare molto
più intensamente aperto alla categoria del mistero. Se parlava di mi
stero — anche in questo caso manca la parola, non la realtà! — non
intendeva qualche vaga nozione che non avrebbe nome e si rifiuterebbe
ad ogni formulazione. Nei testi della sapienza didattica, si tratta molto
più di un apprezzamento della ragione che del sentimento. Il concetto
è preciso nella misura in cui si riferisce all'azione universale di Dio,
ambito del quale i saggi si sono applicati a ricercare le regole. Vi è, in
effetti, — come si è detto molto bene — non solo la profondità del
l'abisso e dell'oscurità, ma anche la profondità della luce stessa: « il
mistero nella piena rivelazione » 19. Dovremo ancora parlare di questa
via della conoscenza che cammina lungo la frontiera del mistero.
2 Sulla nozione di « bontà », cfr. pp. 78 ss. Essa non traduce una parola ebraica determinata,
ma è scelta per rendere un gruppo intero di nozioni che in ebraico poteva essere espresso con
attributi; tuttavia ?addlk, ;edakd = « conforme ad un comportamento sociale corretto » dovrebbero
in ogni caso apparire in primo piano.
3 Th. C. Vriezen parla giustamente di una « confluenza d'elementi religiosi e morali e di morale
sociale », op. ci/., 271.
4 Soprattutto nel lavoro di U. Skladnv. Per i proverbi di ammonizione, vedi W. Richter, Recht
und Ethos (1966), 183 ss.
V. SIGNIFICATO DELLE RECOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 77
» Deut 23, 2 (Lev 21, 16 ss.); Giob 24, 5-12; 30, 3-8.
‘ Ad esempio: Prov 11, 16; 12, 11.24; 13. 4. 18.25; 18, 9; 19, 15; 20, 4.13; 21, 5. 17; 22. 7; 24, 34.
6. voci rad. la sapienza in itraete
78 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I
tra i maestri non era possibile alcuna discussione su ciò che era il bene
ed il male. Così noi non avremmo fatto altro che girare a vuoto.
La nostra indagine sulla nozione di bene come Israele lo intendeva
non approda a nulla finché cerchiamo la risposta nel campo dell'ideo
logia, nel senso di una definizione. Israele ha affrontato il bene da una
visuale completamente diversa: il bene è stato da lui percepito sem
plicemente come una forza, come qualcosa che determina interamente
la vita, come un'esperienza quotidiana, efficace, una realtà presente su
cui non vi era da discutere, come non si discute sulla luce o sull'oscu-
rità. Il bene era qualcosa di eminentemente attivo — gli antichi pensa
vano a questo proposito in modo molto più pragmatico di noi. È buo
no ciò che fa del bene; è cattivo ciò che causa danni. Il bene o il male
creano le situazioni sociali; in un senso affatto « esteriore », edificano
o distruggono la comunità, la proprietà, la felicità, la fama, la prospe
rità dei figli e molte altre cose. Non si tratta quindi soltanto di impulsi
e di inclinazioni nel segreto del cuore umano, ma di forze suscettibili
di dare una forma all'esistenza e il cui potere era visibile agli occhi di
tutti. Si tratta di reazioni che si possono perfettamente constatare. E
ripetiamolo: su questa realtà del bene e del male che modella la vita,
non vi era presso i maestri alcuna discussione; il loro sapere a questo
riguardo era una convinzione fondamentale su cui si fondavano e da
cui provenivano tutti gli altri insegnamenti. Quanto a noi, ci è chiesto
di allontanarci un po' dalla rigidità dell'idea del reale che ci viene im
posta dalla volgarizzazione scientifica del nostro tempo e di penetrare
in quell'atmosfera della realtà antica e biblica secondo la quale l'am
biente inquadra molto più familiarmente l'uomo e corrisponde molto
meglio alla sua natura e al suo comportamento, favorendo ciò che è
giusto e vietando ciò che è inutile. Si tratta di un senso della realtà
che sa che l'individuo è molto più intensamente, più « organicamente »
legato ai movimenti del suo ambiente durante l'esistenza, un senso del
la realtà che è in grado di comprendere l'intrusione del mondo circo
stante nella vita delFuomo come una chiamata, ma anche come una ri
sposta al suo comportamento, che conosce semplicemente come, da
questo lato, qualcosa di molto importante capita sempre all'uomo, il
male e il bene che gli parlano e non sfuggono in alcun modo alla sua
capacità di capire. Da questo momento il problema dell'etica della sa
pienza didattica trova una risposta relativamente facile. L'uomo buono
è quello che sa contribuire all'edificazione del bene e alla distruzione
del male e che si sottomette alle regole, all'ordine che si delinea nel
mondo in cui vive. Il giusto, lo zelante, il moderato, il servizievole è
quello che ricaverà da questa bontà frutti di bontà. La bontà e i beni
sono strettamente legati in questo modo di pensare. In effetti, il bene
è ciò che fa del bene. La bontà era dunque sempre qualcosa di visibile,
di pubblico, mai soltanto qualcosa di puramente interiore; era un fe
nomeno sociale. « Quando i giusti prosperano, la città è nella gioia...
Per la benedizione dei giusti, la città si innalza » (Prov 11, 10 s.). L'at
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 79
molto più vasto: l’agire bene e l’essere buono sono due facce di una
stessa realtà.
Quest’ordine d’idee comune all'antichità è difficilmente compren
sibile se si parte dagli elementi di un idealismo etico. Il modo peggiore
di intendere questa « idea di successo » sarebbe il sospettarla di utilita
rismo e di eudemonismo9. Dietro a questa concezione della vita non vi
è il punto di vista utilitaristico e prosaico dell’uomo che ha preso in
mano la propria esistenza, ma vi è l’atto rinnovato senza posa dell’uo
mo che si situa nell’ordine divino che gli è imposto e in cui solo può
trovare la benedizione. Si potrebbe quasi dire che la conoscenza del
bene si acquisiva solo nella vita comune, da uomo a uomo, da situa
zione a situazione; tuttavia non si ripartiva ogni volta da zero, perché
vi era sempre il sostegno di un antico sapere, di un'esperienza molto
ricca. I maestri hanno faticato parecchio nel dirigere i giovani all'esatta
conoscenza del bene e del male. Ciò non significa che per essi il bene
era problematico nella sua natura, ma che necessitava di una grande
esperienza, data l’infinita mutevolezza delle situazioni umane e la ten
denza dell'uomo ad ingannarsi circa l'identità del bene. Sovente esso
non appare in superficie, non si mostra in modo da poter essere rico
nosciuto da un giovane. « Una via pare giusta ad un uomo e alla fin
fine si dimostra la via della morte! » (Prov 14, 12). Occorrono quindi
occhi esercitati e imo spirito vigilante per poter distinguere il bene dal
male; la conoscenza a volte deve essere impartita al fanciullo a colpi
di verga (Prov 29, 15). È sempre difficile vivere secondo il bene che si
è conosciuto. Secondo l’opinione dei saggi, l’uomo deve essere formato
a questa conoscenza e a questo atteggiamento mediante l’educazione.
In tutte le loro sentenze cariche di esperienza, nelle loro esortazioni,
negli esempi che citano, essi parlano tanto del bene quanto del male,
considerandoli come una verità generale che in fin dei conti illumina
immediatamente l’uomo di buona volontà.
Si può affermare che questa concezione del bene come potenza che
favorisce la vita e la comunità è comune a tutta l’antichità. Tutto l'in
sieme di queste nozioni ci apparirà molto complesso se l'analizziamo
partendo dalla distanza che lo separa da noi. Per gli antichi, esso ora
invece molto semplice e perfettamente chiaro. Non vi è nulla di buono
che non faccia nello stesso tempo anche del bene. Il possesso della roba
fa del bene all'uomo, come la benedizione della prole, l'onore, una
buona fama, un buon matrimonio, un buon amico; un uomo la cui con
dotta è ratificata da tali benefici è quindi buono. Nella sua « dottrina
dei beni », questa etica è in effetti sorprendentemente realista. Essa non
critica mai lo sforzo dell'uomo teso verso la felicità e la perfezione, an
che nei suoi eccessi, ma Io presuppone semplicemente come un dato di
9 Correttamente esposto da H. Gese, op. cit., 7 ss., e da U. Skladny, op. cit., 85 s. Se si vuole
parlare di « idea di successo », si può farlo poiché è effettivamente il problema di Esiodo: « Come
è fatto il mondo che ci circonda e come agire in esso per riuscire il meglio possibile nella nostra
vita? » (H. Frankel, op. cit., 128 s.l.
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 8l
fatto. Questa aspirazione alla felicità — dovremmo dire con maggior ri
serva: questa aspirazione a sussistere, a non fallire, a considerare la
vita come protetta da un ordine salutare — è profondamente radicata
nell’uomo e sarà sempre approvata. I maestri la sostengono mostrando
le strade che vi portano.
Qual è l’uomo che ama la vita,
che desidera prolungarla per godere la felicità?
Preserva la tua lingua dal male,
e le tue 'labbra da parole d’inganno. (Sai 34, 13 s.)
I maestri insegnano all’uomo ad acquistare, a conservare e a non di
sprezzare quel che essi chiamano volentieri « la vita », il che significa
l’insieme di tutto ciò che può essere compiuto, di tutti i beni che pos
sono essere patrimonio di un uomo. Quel che viene dato qui sotto for
ma di consiglio riguarda tutti. Non c’è un esclusivismo etico, non vi è
alcun posto per esigenze supreme di ordine morale a cui solo una pic
cola cerchia di simpatizzanti sarebbe in grado di sottoporsi; nessun
spazio per una forma qualsiasi di eroismo morale, per un fanatismo
virtuoso, per un solipsismo etico. Alla loro mente non sarebbe certo ve
nuta l’idea che l’uomo possa opporre con insolenza il suo modo di vive
re a un mondo che si ergerebbe contro di lui, indifferente o addirittura
ostile. Gli ordinamenti stabiliti si ponevano di fronte a lui come qual
cosa di onnipotente; era legato nei loro confronti e nessuno gli doman
dava il suo assenso.
Non ci si deve però fraintendere quando affermiamo che questi inse
gnamenti mancano di ogni esclusivismo, che non si rivolgono a coloro
che vogliono perfezionarsi a un livello superiore della massa o che ri
guardano tutti. Non si rivolgono, come potremmo facilmente pensare,
all’uomo astratto. Anzi: questo « tutti » è una comunità ben determi
nata, storica e sociologica, in cui si sono imposte determinate regole e
norme, mentre altre regole che altrove potrebbero essere in primo pia
no, qui mancano. È vero che l’immagine dell’uomo che risulta da que
sti insegnamenti è per molti aspetti valida al di là del tempo e per tutti
gli uomini. In questa valutazione non bisogna perdere di vista che l’im
magine occidentale dell’uomo ha assimilato nel corso di un processo
secolare quella dell’Antico Testamento, di modo, che noi tendiamo facil
mente a farne un assoluto. È fuor di dubbio che l’immagine dell’uomo
fornitaci dalle sentenze del libro dei Proverbi è stata modellata in modo
quasi unico, dal punto di vista culturale e sociale, da tutta una serie
di fattori. Un altro problema che si pone è quello di sapere se le regole
di comportamento del libro dei Proverbi devono essere considerate co
me un’« etica professionale » e un’« etica di funzionari », il che signi
ficherebbe che esse sarebbero valide nell'essenziale solo per una classe
superiore e ristretta della società10. Se la prendiamo globalmente, bi
10 Sul problema di un'« etica professionale », cfr. H.-J. Hermisson, op. cit., 94 ss. Skladny crede
di poter vedere in Prov 28 s. un modello per il sovrano, op. cit., 66.
82 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II
Si vede qui che l'onore di cui Giobbe si stimava degno era una parte
importante della luce che Dio faceva risplendere su di lui. Quest'onore
era d'altra parte qualcosa di valido pubblicamente. Non era un merito
privato di Giobbe, ma una qualità riconosciuta senza la minima discus
sione da ogni uomo per bene, che era nello stesso tempo un uomo con
beni! È la lode del giusto, di chi è sotto ogni aspetto soccorritore (vv.
12-17). Tutta questa concezione dell'onore dev'essere capita a partire
da un ordine sociale fondato sulla religione, nel quale i beni « palpa
bili » sono visti in modo sorprendentemente realistico ; in cui si aveva
una visione molto chiara della bontà dell'individuo e nello stesso tem
po della benedizione di cui Dio lo ricolmava. L'insensato è senza ono
re, senza gloria (Prov 26, 1. 8), è « disordinato », non giunge ad inse-
rirsi nell'ordine che è imposto a tutti gli uomini, a motivo di una qual
che debolezza interiore.
Ma a fianco di questa nozione « sociale » d'onore, ne esiste un'altra
molto più interiorizzata.
11 timore di Jahve è un insegnamento della sapienza,
e l’umiltà precede l'amore. (Prov 15, 33)
L'uomo che ha sapienza è lento alla collera,
e mette la sua gloria nel dimenticare le offese. (Prov 19, 11)
È un onore per l'uomo astenersi dalle contese,
ma ogni stolto si abbandona alla collera. (Prov 20, 3)
L'orgoglio dell'uomo lo umilia,
ma chi è umile di spirito ottiene l'onore. (Prov 29, 23)
Anche il povero può essere onorato (Eccli 10, 31). La gloria del sa
piente, come il Faust se la vede tributare dalla « folla », è ancora sco
nosciuta. Solo nel Siracide appare la coscienza del sapiente e della sua
gloria (Eccli 39, 9-11). In questo insegnamento etico sorprende l'assen
za di una educazione orientata alla formazione della volontà politica12.
Si paragoni semplicemente questo con l'educazione greca nella quale
si trova in primo piano l'impegno di destare un sentimento giusto nei
confronti dello Stato. Ogni individuo è un membro dello Stato e gli
appartiene. L'arte politica veniva considerata come la più grande sa
pienza ; non era stata data agli uomini da Prometeo, ma proveniva di
rettamente da Zeus l3. Il libro dell'Ecclesiaste vuole essere il testamento
di un re; vi è infatti all'inizio qualcosa sui doveri regali. Ma quante
possibilità di istruire chi governa vi rimangono inutilizzate, come in
tutto il libro dei Proverbi! Manca anche l'educazione del giovane alle
virtù militari e aristocratiche. Se nelle sentenze dei Proverbi manca
l'educazione della volontà politica, non si ha neppure l'impressione che
si badi molto a un'educazione sul comportamento necessario in guerra.
Chi è lento alla collera vale -più di un eroe,
chi è padrone di sé vale più di un conquistatore di città. (Prov 16, 32)
Un saggio va all'assa'lto di una città di eroi,
e abbatte il baluardo in cui essa confidava. (Prov 21, 22)
Un saggio è « più potente » « di un uomo forte »,
e un uomo accorto « più di un uomo vigoroso ». (Prov 24, 5)
'5 La parola opportuna: Prov 12, 14. 18 s.; 13, 2; 15, 1 s. 4; 16, 24; 20, 15; 24, 26; 25, 11. 15; 29,
20, ecc. Il silenzio opportuno: Prov 11, 12 s.; 12, 23; 13, 3; 17, 27; 20, 19; 21, 23; 23, 9; 30, 32, ecc.
16 Sentenze sulla funzione del testimone: Prov 14, 5. 25; 17, 23; 18, 5; 19, 5. 28; 21, 28; 24, 28; 25, 18.
17 Cinque sentenze parlano di beni acquistati affrettatamente: Prov 13, 11; 19, 2; 21, 5; 28, 20.22.
18 La nozione di « prudente », « modesto », « moderato * si trova anche in Eccli 16, 25; 35, 3
(34, 22) e soprattutto in Mi 6, 8; cfr. H. J. Stoebe, Und demiitig sein vor deinem Goti, Wort und
Dienst, in « Jahrbuch der Theol. Schule Bethel » 6, 1959. 180 ss.
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 85
quadro di una vita che, tanto dal punto di vista dell'ordine sociale
quanto di quello della scala dei valori e dei criteri utilizzati, è da molto
tempo giunta alla stabilità delle forme e delle idee. Essi non si preoc
cupano di modificare queste idee fissate in precedenza o di sostituirle
con idee migliori. Abbiamo già avuto l'impressione di una curiosa as
senza di principi — almeno per il nostro modo di pensare — che ca
ratterizza le esortazioni e le regole di condotta. Non incontriamo alcuna
discussione sul bene e sul male e se si volesse cercare una comune nor
ma fondamentale a cui possibilmente ricondurre le numerose regole di
comportamento, non si raggiungerebbe alcun risultato soddisfacente.
Bisogna subito abbandonare l'illusione, dato il mondo spirituale in cui
Israele ha vissuto e pensato, che questa norma possa consistere in
un'idea filosofica prestabilita. Ma questa norma avrebbe potuto iden
tificarsi con una determinata istituzione dell'A.T. — diciamo ad esem
pio — il decalogo! I maestri sono forse partiti, nelle loro regole di con
dotta, dal decalogo e dai suoi comandamenti, applicando ciò che vi è
proibito e ciò che vi è comandato in maniera generale alle svariate si
tuazioni della vita? L'hanno — se così si può dire — cambiato in mo
neta spicciola?21. Si può rispondere recisamente in modo negativo a
questa domanda. Il fatto che l'adulterio, il furto e la calunnia sono
considerati come riprovevoli sotto ogni aspetto non ha il valore di una
prova, poiché erano visti in questo modo dappertutto nell'A.T. e molto
al di là del suo ambiente. Inoltre, le azioni da cui i maestri mettono in
guardia sono sólo eccezionalmente qualificate come « peccati » di fronte
a Dio. La parola designante un'azione sbagliata che appare in primo
piano nelle parti più antiche del libro dei Proverbi è pe$<£ che non deve
in ogni caso essere tradotta con « peccato », perché, in una forma o
nell'altra, designa sempre un crimine contro altri esseri umani22. È
significativo come in nessuno dei passi dei Proverbi — ve ne sono do
dici — questo « crimine » sia considerato come un peccato dell'uomo
contro Dio, ma sia invece concepito come uno scacco nei rapporti tra
uomo e uomo23. No, il decalogo non può essere considerato come la
« norma morale » da cui sono partiti i maestri per formulare le loro
sentenze. Ma allora, da dove sono partiti?
che possono sopravvenire (Prov 23, 21; 27, 24), ecc. Non è necessario
entrare nei particolari. Il denominatore comune di queste motivazioni
è che si fondano sull'esperienza: non far del male alla tua carne per
inavvertenza e per ignoranza! « L'uomo buono fa del bene a se stesso e
l'uomo crudele tormenta la propria carne» (Prov 11, 17). Abbiamo
dunque a che fare con regole di condotta tratte da ciò che l'uomo può
sperimentare da se stesso. L'allievo non ha bisogno di grandi sforzi
per essere illuminato da queste motivazioni. Se abbiamo parlato di
esperienze, si tratta qui di esperienze di alcuni ordinamenti, di alcune
leggi la cui evidenza ha convinto gli uomini nel corso di successive
generazioni. Il comportamento umano non è quindi regolato in questo
caso da norme morali, ma dall'esperienza di un insieme di leggi natu
rali quanto mai immanenti.
A questo punto il lettore stenterà a soffocare una domanda: Il com
portamento umano corretto si lascia dirigere solo dall'esperienza e,
almeno in un popolo dell'antichità, non bisogna forse tener conto di
un'ampia fondazione religiosa dei suoi principi etici? E le premesse
di questo fatto non erano forse fin dall'inizio ampiamente riunite nel
l'antico Israele? In altri termini: il modo di comportarsi, come è inse
gnato nelle sentenze del libro dei Proverbi, non è forse « teonomo » e
in che senso lo è?
Le motivazioni che prima abbiamo raccolto non sono effettivamente
le sole. Ne esistono altre che ci rinviano a Jahve, al suo giudizio e al
suo regno:
Non spogliare i poveri...
« Perché Jahve difenderà la loro causa
e toglierà la vita a coloro che li spogliano ». (Prov 22, 23)
Non spostare il confine della vedova...
« Perché il suo vendicatore è potente,
egli difenderà la sua causa contro di te ». (Prov 23, 11)
Libera quelli che vengono portaiti a morte...
Se dici. Ah! Noi non sapevamo!,
« Chi pesa i cuori non lo vede?
Chi veglia sulla tua anima non lo conosce?
E non rende forse a ciascuno secondo le sue opere?». (Prov 14,11 s.)
Non rallegrarti per la caduta del tuo nemico...
« Affinché Jahve non lo veda e gli dispiaccia,
e distolga la sua collera da lui (su di te) ». (Prov 24,17 s.)
Figlio mio, temi Jahve e il re...
« Perché improvvisamente viene da essi la sventura,
in maniera imprevista il castigo che essi infliggono ». (Prov 24, 22)
Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare...
« Perché son carboni ardenti che tu accumuli sul suo capo,
e Jahve ti -ricompenserà ». (Prov 25, 21 s.)
25 Ploger nota giustamente che, in Esiodo, il comandamento divino e l ’insegnamento umano sono
molto più vicini di quanto avvenga nelle esortazioni della sapienza dell'A .T., in « Festschrift Hertz-
berg » 1965, 166. Egli cerca la ragione di questo fatto sorprendente — a torto, secondo me — nel
l'evoluzione storica della sapienza dell'A.T., cioè nella mancanza di penetrazione della fede in
Jahve all’intemo della sapienza antica. La causa non potrebbe essere il contrario? Non si può pen
sare che, nella traduzione in greco (LXX), l’accento si sia spostato spesso su una moralità e una
religiosità estranee ad Israele? La prospettiva è incontestabilmente diventata più religiosa, ma anche
più razionale rispetto al testo originale. Sulla traduzione dei Proverbi nei LXX, vedi soprattutto
G. Gerleman, The Septuagint Proverbs as a Hellenistic Document, in OTS 8, 1950, 15 ss.; come pure,
Studies in the Septuagint: I I I Proverbs, in « Lunds Universitets Arsskrift » 52/3, 1956, e recente
mente W. McKane, Proverbs (1970), 3347.
“ Vedi sopra, pp. 62 ss.
90 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II
Ma sia che i saggi offrano stimoli per la buona condotta sia che cer
chino di impedire il male, caratteristico è che si rivolgono sempre alla
riflessione delluomo, a una maniera migliore di considerare le cose,
per interpellarle attraverso questa riflessione. Si tratta di fare proprio
il diritto, ciò che è giusto, tramite la comprensione. Vi sono molte cose
da imparare e da capire, anche nel campo morale!
Chi ama la correzione ama la scienza;
ma chi odia il rimprovero è stupido. (Prov 12, 1)
I saggi accumulano la conoscenza. (Prov 10, 14)
I pensieri del giusto sono orientati verso il diritto. (Prov 12, 5)
Questa comprensione non balza immediatamente allo sguardo, essa
può essere il frutto di un lungo cammino della conoscenza. Si deve
conoscere la regola che governa il rapporto tra la condotta e la rimu
nerazione. Bisogna affinare la propria sensibilità per cogliere il lin
guaggio che si può percepire negli avvenimenti.
32 Prov 22,23; 23,11; 25,22. Sulla «retribuzione», cfr. pp. 125 ss.
33 Più diffusamente circa il rapporto tra la condotta e la rimunerazione, pp. 121 ss.
34 Esposizione più particolareggiata, pp. 125 ss.
M Sull’atto di « coprire gli sbagli » (Prov 10, 12; 17, 9; 19, 11) come forma specifica della sa
pienza, vedi R. Knierim, Die Hauptbegriffe fiir Siinde im Alten Testament (1965), 119 ss. Coprire
uno sbaglio significa tacerlo, distoglierne gli occhi, ripararlo forse. Sotto il tema: « Cause ed effetti »,
riprenderemo lo studio di quest'insieme di immagini, cfr. pp. 125 ss.
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 93
2 Alludendo chiaramente a queste sentenze, Geremìa dice tra l'altro: « Lo so, Jahve, la via del
l'uomo non è in suo potere; non sta all’uomo, quando cammina, dirigere i suoi passi » (Ger 10, 23).
Ugualmente il vecchio Tobit dice dei « sentieri » della vita: « La sapienza non è data ad ogni na
zione, è il Signore che dona ogni bene » (Tob 4, 19). Ma si ha l'impressione che quel che era av
vertito come un'antinomia nelle antiche sentenze è in Tobit l'espressione di una pietà affatto
semplice.
98 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I
teologica più pessimista8. Se ili suo ottimismo si fonda sul rapporto tra buona
azione e salvezza, rapporto che non è stato « ancora » messo in discussione,
ci si può chiedere a buon diritto se non è piuttosto la dottrina degli amici di
Giobbe, di Gesù di Sirach e della Sapienza di Salomone che potrebbe essere
chiamata ottimista di fronte alla sapienza antica che abbiamo visto argo
mentare ancora con molte precauzioni, e che è lungi dall’essere « ingenua
mente impassibile». Non si può considerare Giobbe e l'Ecclesiaste come i
rappresentanti di tutta una fase della sapienza, ma essi sono gli avvocati di
problemi che sono sorti dal cuore di questo sistema di concezioni. La com
parsa di problemi difficili non è in sé una cosa fondamentalmente nuova.
Si potrebbe scrivere una storia intera di queste comparse nella quale il pro
blema di Davide 2 Sam 24,17 non sarebbe il terminus a quo. La fede nella
validità del rapporto tra buona azione e salvezza non era d'altronde specifica
deirinsegnamento sapienziale. Essa era diffusa in tutta l'antichità e non era
un postulato; ma un'esperienza molto vasta aveva imparato a considerare
questo rapporto come un ordine divino che governa ogni vita umana. Non si
constata una rottura profonda né una revisione fondamentale in questa idea.
La differenza tra l'antica sapienza pedagogica e la sapienza teologica più re
cente -non può essere colta nell'opposizione ottimdsta^pessimista. Ogni epoca
ha i suoi conflitti con la realtà e più esattamente con le idee che essa si fa
della realtà. Resta sempre qualcosa che non si può fare entrare nel sistema.
La volontà di conoscere di ogni tempo ha una propria certezza che essa sola
riceve, e deve arrestarsi di fronte a certi limiti. Così, il suo ottimismo come
il suo pessimismo sono di genere particolare. Non è giusto che l'esegeta fac
cia risaltare un aspetto particolare aiH'intemo di questo processo, sempre
molto instabile, dell'acquisizione e della perdita di significato, per farne il
criterio di due grandi fasi dell'insegnamento d'Israele.
8 Tra gli altri B. Gemser, Spriiche Salomos (1937), 55 ss.; I. C. Rylaarsdam, Revelation in Jewish
Wisdom Literature (19632), 63; U. Skladny, op. cit., 82; H. Ringgren, Spriiche (1962), 45; R. B. Y.
Scott, Proverbs, Ecclesiastes in « Anchor Bible » 1965, p. XIX; O. Plòger, Festschrift fiir Hertzberg
(1965), 172.
PARTE III
MATERIE PARTICOLARI
DELL* INSEGNAMENTO
V II
ELEMENTI DI UNA PADRONANZA
DELLA REALTÀ
* Sentenze d'« abominio »: Prov 3, 32; 6, 16; 8, 7; 11, 1.20; 15, 8 s. 26; 16, 5; 17, 15; 20, 10.23;
« Beatitudini »: Prov 3, 13; 8, 32. 34; 14, 21; 16, 20; 20, 7; 28, 14; 29, 18.
112 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I
9 Sta forse qui la spiegazione del fatto che il poema pone l'ippopotamo nel Giordano? Il ter
mine « Giordano » è semplicemente eliminato da molti esegeti.
t0 Su Is 28, 23 ss., vedi p. 131.
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 115
molto più di ciò che è irregolare, di ciò che non si può far entrare
nel quadro delle leggi conosciute, mentre gli antichi erano più attenti
al delinearsi di alcune regole costanti nell’intreccio degli avvenimenti
quotidiani. Sarebbe certamente un errore supporre che le regole e le
leggi sono sempre facili da decifrare nel corso degli avvenimenti ; vi
possono essere dei casi in cui la cosa è possibile, ma in altri casi
era necessaria una riflessione molto più penetrante; e in questi casi,
vediamo i saggi impegnarsi a fondo nello sforzo di conoscenza. Questo
si nota in modo del tutto particolare quando vengono ammucchiate
constatazioni paradossali. Che un tale sia generoso e tuttavia si arric
chisca, mentre un altro è avaro e ciononostante impoverisce (Prov 11,
24), che il pane ottenuto con astuzia sia gradevole al palato, ma dopo
la bocca sia piena di ghiaia (Prov 20,17), che una città piena di guer
rieri sia assalita e vinta da un saggio (Prov 21,22), che una lingua dolce
possa spezzare le ossa (Prov 25,15), che un uomo sazio disprezzi il miele
quando l’affamato trova dolce quel che è amaro (Prov 27, 7), che l'or
goglio umilia l'uomo (Prov 29, 23), che le percosse possono essere bene
fiche al fanciullo (Prov 23, 13 s.): tutto ciò non costituisce a prima
vista una scienza molto sconcertante? Ciò che è buono non lo è sempre,
ciò che è dolce non è sempre dolce, il forte non è sempre forte?
Evidentemente no! Come abbiamo visto in precedenza, si tratta di
nozioni che mostrano come non si debba mai accordare alle cose un
valore assoluto, poiché esse hanno una quantità di significati. In ogni
momento, qualcosa di assolutamente contrario può ergersi contro le
esperienze più collaudate ed è a questo punto che nasce la sorpresa:
questa irruzione del contrario non significa assolutamente l'irruzione
del caos nella conoscenza. Anzi! Gli si fa posto, gli si accorda il valore
di conoscenza acquisita ; si può benissimo veder apparire dietro questo
paradosso, dietro ciò che sembra contravvenire alle leggi, un sistema
di regole nuove.
A questo proposito, è indispensabile ricordare ancora una volta quel
che i saggi possono dire di alcuni effetti di genere particolare, quelli
che da un atto buono o cattivo si riflettono sul loro autore. Solo da
poco tempo vediamo più chiaro in questo problema del rapporto tra
condotta e retribuzione, poiché anche Israele condivideva le idee uni
versalmente diffuse di una forza attiva, regolare, immanente, che il
male come il bene possedevano. Israele era convinto che ogni atto,
cattivo o buono, liberava un’energia che presto o tardi si ripercuoteva
sul suo autore w. Ciascuno aveva quindi a portata di mano la possi-
19 Opera fondamentale: K. Koch, Gibt es ein Vergeltungsdogma itti A.T., in ZThK 52, 1955, 1 ss.
Vedi a questo proposito le critiche di F. Horst, Gottes Recht (1961), 286 ss. R. Knierim ha accura
tamente studiato il problema del rapporto tra quest’« ordine » e la libertà d'azione di Jahve in:
Die Hauptbegriffe fiir Siinde itti A.T. (1965), 85 s. Il fenomeno della « sfera d'azione che determina
il destino » (K. Koch) — di fatto, una specie di « ordine » — nelle sentenze della sapienza più
antica è presentato in modo eccellente. Nella storia di Giuseppe, invece, si nega che questa sfera
d'azione operi automaticamente: essa è interamente sottoposta alla volontà di Dio che dispone libe
ramente deU'uoroo per guidarlo (R. Knierim, op.cit., 85). Su questo contrasto, cfr. p. 180 s.
122 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I
30 Prov 11, 21b; 14, 26; 20, 7; Giob 15, 34; 18, 16. 19; 27, 14; Eccli 44, 10 s. « Sì, la stirpe del
l'empio è sterile; un fuoco divora la tenda dell’uomo venale » (Giob 15, 34). Si confronti con Esio
do: « Se qualcuno rende intenzionalmente una testimonianza menzognera con falso giuramento, pro
fana il diritto e lo rende irrimediabilmente cieco. La sua discendenza scomparirà neU’awenire,
oscura e dimenticata. Ma chi ha giurato la verità, la sua discendenza è benedetta nell'awenire »
(Le Opere e i Giorni, w . 282-285).
21 Vedi pp. 78 ss.
29 Vedi pp. 43 ss.
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 125
Quanto al bene, era esso pure una potenza e i maestri si sono inge
gnati a spingere i loro allievi a confidare in questa potenza vivificante.
Sono dottrine belle e veramente sagge che essi hanno offerto, come
quella della forza salutare della buona parola24. Anche in questo caso,
la conoscenza del potere riparatore di una buona condotta è legata
ad uno sguardo profondo nell'intimità dell'uomo. Ma non bisogna
perdere di vista che, nelle sentenze seguenti, non vengono trasmessi
imperativi categorici, bensì esperienze fissate all'indicativo. Chiudere
gli occhi con indulgenza mantiene ed edifica le relazioni con gli altri.
23 H. Tellenbach, Sinngestalten des Leidens und des Hoftens, in « Conditio humana » (Festschrift
E. W. Strauss, 1966), 310.
24 Prov 12, 18: «La lingua dei saggi guarisce », 12 , 20.25; 15, 1.
9. von rad. la sapienza in isracic
126 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
35 La formula dei « carboni ardenti » si spiega con un rito di espiazione egizia nel corso del
quale il colpevole portava sulla testa, in segno di conversione, un catino pieno di carboni ardenti;
cfr. S. Morenz, in ThLZ 78, 1953, 187 ss. La traduzione « Jahve lo compirà per te » parrà poco abi
tuale; ma il verbo ebraico non si traduce in ogni caso con « contraccambiare », « ricompensare »,
come se Jahve aggiungesse qualcosa all'atto umano mettendovi « di tasca sua », se così si può dire.
Il verbo Sillém dev'essere compreso partendo dalla relazione condotta-retribuzione e significa
« rendere completo », « perfezionare », nel senso che Jahve, nel momento di una buona azione,
suscita il rapporto condotta-retribuzione. D'altra parte se ne parla altrove come del funziona
mento di una regola neutra. Ma, per un insieme di nozioni così generalmente diffuse, non ci si può
aspettare un'identità di espressione. Sulla base di quanto abbiamo visto in precedenza (pp. 65 ss.)
non c'è nulla di sorprendente nel fatto che una volta questo rapporto condotta-retribuzione sia
concepito come il funzionamento di una regola, un'altra volta come un atto compiuto direttamente
da Jahve. K. Reinhard ha fatto notare in Erodoto un bell'esempio di presentazione del tutto natu
rale e tuttavia deliberata di « retribuzione » che colpisce l ’autore di un atto: la morte di Cambise
corrisponde esattamente al sacrilegio che ha commesso verso il bue Api egizio (Erodoto III, 29, 64),
cfr. K. Reinhard, Vermachtnis der A n tik e (1960), 156 s. « Il castigo interviene da se stesso per
meccanismo immanente, secondo Solone * (H. Frànkel, op. cif., 270).
36 Molti traduttori preferiscono il testo greco che parla di « creato ». Ma l'ebraico hàlak non
significa mai creare, bensì « spartire » tra diverse persone. È meglio attenersi al testo ebraico, poi
ché l’idea di una « parte » attribuita da Dio all'uomo è attestata nella letteratura didattica (Eccle
2, 10. 21; 3, 22, ecc.).
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 127
28 L’uso del fiele del pesce per il trattamento delle malattie degli occhi è attestato a parecchie
riprese nelle fonti antiche. Troviamo un esempio assiro in F. Stummer, Echter Bibel, ad loc.
Vili
VI È UN TEMPO PER OGNI COSA..
Vi è un tempo per ogni cosa, un tempo per fare tutto sotto il cielo,
tempo di partorire e tempo di morire,
tempo di piantare e tempo di sradicare,
tempo per uccidere e tempo per curare,
tempo per abbattere e tempo per costruire,
tempo per piangere e tempo per sorridere,
tempo per lamentarsi e tempo per danzare,
tempo per lanciar pietre, tempo per raccoglierne,
tempo di abbracciare, tempo di fuggire l'abbraccio,
tempo per cercare, tempo per smarrire,
tempo per custodire e tempo per gettare,
tempo per stracciare e tempo per ricucire,
tempo per tacere e tempo per parlare,
un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace. (Eccle 3,1-8)1
Ecco ancora un poema didattico! All'inizio è posta la tesi, il tema
dell'insegnamento. Il corpo del poema ha come scopo quello di dimo
strare, in modo concreto e in una forma molto vicina ai proverbi
numerici, la tesi formulata in teoria e in modo generale. Questa dimo
strazione si opera per mezzo di una serie di antitesi — ve ne sono
quattordici — che lasciano chiaramente intendere come dev'essere
compreso il tema dell'insegnamento posto bruscamente all'inizio: di
due cose contrarie non se ne può fare che una alla volta2 e per sapere
ciò che conviene fare in ogni caso, bisogna sapere che ogni cosa ha il
suo momento favorevole. Questo poema didattico è inserito in un con
testo sapienziale relativamente recente che trae conseguenze personali
da questa dottrina nel corso di una riflessione molto calzante. Sem
brerebbe indiscutibile trattarsi di una conoscenza acquisita in epoca
tardiva, mentre si tratta piuttosto di una tesi che si è trovata in ogni
1 Su Eccle 3, 1-11 vedi K. Galling, Das Rdtsel der Zeit im Vrteil Kohelets, in ZThK 58, 1961,
1 ss. Vi si trovano anche riflessioni sui singoli problemi; cfr. più di recente J. R Wilch, Time and
Event (1969), 118 s.
2 K. Galling, op. cit., 6.
130 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PASTE I II
La più bella illustrazione della tesi del momento favorevole per ogni
cosa è sviluppata nel mirabile poema suirattività del contadino. A
prima vista la sua attività pare sorprendentemente incoerente e biz
zarra, ma si dimostra subito piena di senno quando si pensi che egli
sa esattamente in qual momento iniziare il suo lavoro. Non passa il
suo tempo in arare; interrompe quest'attività per dedicarsi ad un altro
lavoro per il quale nel frattempo è giunto il momento opportuno.
Prestate orecchio ed ascoltate la mia voce!
Siate attenti a ben comprendere la mia parola!
Il contadino non fa che arare?
Solca, erpica senza posa la terra?
Dopo averne spianato la superfìcie,
non vi semina forse Taneto e il cimino,
poi il gramo e l'orzo nel luogo opportuno,
e il farro al margine?
Colui che gli ha insegnato queste regole,
è il suo Dio che l'ha ammaestrato.
L'aneto non viene schiacciato col rullo,
e la ruota del carro non passa sul cimino.
Si batte l'aneto col bastone,
e il cimino con la verga.
Si schiaccia il frumento da pane?
Non lo si calpesta senza fine,
non gli si fa passar sopra la ruota del carro e i cavalli,
non lo si macina.
Questo pure viene da Jahve Sabaot,
il cui consiglio è mirabile e la capacità immensa. (Is 28, 23-29)5
6 K. Galling: « Non ricava alcun beneficio finché non può far entrare nei suoi piani il “rischio’
del tempo » (op. cit., 2).
V ili. VI È UN TEMPO PER OGNI COSA.. 133
I. L a s a p ie n z a i m m a n e n t e a l m o n d o
1 Più precisamente: « egli la contò »; in altro modo J. Reider: « egli la sperimentò » (in VT 2,
1952, 127).
2 Questo poema è stato manipolato. Per mezzo del ritornello (w . 12.20), non si riuscirebbe a
ristabilire un’articolazione equilibrata delle strofe. Sono forse scomparsi dei ritornelli (ipotesi di
G. Fohrer, ad loc.)? Questi ritornelli sono all’inizio o alla fine delle strofe? Nei LXX mancano i
vv. 14-19.
IX. LAUTORIVELARSI DELLA CREAZIONE 137
tanee; anch'essa è stata l'oggetto di un atto divino. Ma soprattutto,
bisogna dire qualcosa della sua età, del suo « terminus a quo »: essa
risale all’epoca in cui Dio ha imposto alle opere più misteriose della
creazione il loro ordine.
Se, facendo l’esegesi, non si ammette in anticipo l’idea vaga di una
parentela con concezioni mitologiche apparentemente parallele nelle
religioni dei popoli vicini, non si potrà certo parlare della sapienza
come di una ipostasi in questo insieme di testi3. È uno dei concetti
a cui vien fatto immediatamente di pensare quando ci si occupa di
storia generale delle religioni, ma che invece di chiarirlo, altera il pen
siero d’Israele. In questa sapienza non vi è nulla di immediatamente
divino e neppure nulla di mitologico; non è certamente una qualità
divina oggettivata e non vi è neppure la possibilità di parlare a suo
riguardo di una personificazione. Questa sapienza va ricercata nel mon
do: essa è presente senza che vi si possa mettere le mani sopra. Se non
fosse di questo mondo, l’allusione agli uomini che rimescolano le
viscere della terra sarebbe priva di significato. E d’altra parte — ciò è
veramente qualcosa di molto curioso — essa si trova ad una certa
distanza da tutte le opere della creazione. Questa « sapienza », questa
« ragione » dev’essere in qualche modo il « senso » che Dio ha intro
dotto nella creazione, essa deve significare il suo segreto, il suo mistero
creatore; tuttavia bisogna ricordare che il poema pensa meno ad una
realtà ideale che a qualcosa di materiale. Dio ne conosce « il luogo »,
egli l’ha « misurata », « stabilita ». Ritorneremo più tardi sul fatto
che, in un’epoca recente della storia d’Israele, queste idee si sono cer
tamente sviluppate grazie ad influenze esterne al pensiero israelitico.
Per quanto riguarda l’insegnamento di questo poema, bisogna essere
prudenti nel paragonarlo agli altri testi sapienziali (Prov 8; Eccli 24
tra gli altri). Questo poema non dice tutto quel che vi è da dire sulla
« ragione » creata, presente nel mondo. Non è detto che l’uomo sia
totalmente privo della capacità di percepire questa sapienza. Come
potrebbe parlarne? Il cammino logico del poema è piuttosto questo:
la sapienza, l’ordine che Dio ha destinato al mondo, è ciò che vi è di
3 II concetto d'ipostasi è stato adottato nella scienza religiosa per designare un fenomeno che
appare in numerose religioni. La definizione di S. Mowinckel: « Una essenza per metà autonoma,
per metà considerata come la forma di rivelazione di una divinità superiore, che rappresenta la
personificazione di una qualità, di una attività, di un membro, ecc., di una divinità superiore » (in
RGG2 11, 1928, 2065) ha incontrato un'accoglienza molto vasta. Recentemente, è stata definita in modo
un po' diverso: si tratta di una realtà « che partecipa dell’essenza di una divinità che interviene
attraverso di essa nella sua azione nel mondo, senza che l'essenza di questa divinità si limiti al
l’azione di questa ipostasi » (G. Pfeifer, Ursprung und Wesen der Hypostasenvorstellungen in Juden-
tum, 1967, 15). La nozione, così formulata, non favorisce molto la comprensione dei testi che stu
diamo; essa non tiene conto di quel che hanno di specifico e rischia d ’indurre in errore. Né in
Giob 28, né in Prov 8, 22 ss., né in Eccli 24, si tratta mai della personificazione di una qualità
divina. Può il concetto d ’ipostasi applicarsi ad una realtà che — in tutti i testi menzionati — è
l'oggetto di un’attività divina? Ma c ’è di più: vien da chiedersi se ha senso definire dapprima
una nozione precisa, poi partendo da essa studiare i testi. Sarebbe più giusto il metodo inverso;
interrogare dapprim a i testi e, se si giunge a conclusioni particolari, formulare un concetto per
esprimerlo. Il caso sarebbe diverso se si volesse considerare il termine d ’ipostasi in modo molto
generale come l'oggettivazione o la personificazione di una nozione. In questo caso, il termine po
trebbe applicarsi ai testi menzionati; ma poiché, per il momento, è ancora soggetto a molte ipo
teche, ce ne asteniamo completamente.
13» LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
più prezioso. Ma, mentre l'uomo ha trovato una strada che lo conduce
a possedere tutte le ricchezze, non trova la via che lo porta al mistero
della creazione. Solo Dio ne conosce il luogo, se n'è occupato fin dalla
creazione del mondo. Se l'uomo non può fissare e cogliere questo mi
stero, ciò significa evidentemente — questa conseguenza si trova ancora
nell'ambito del poema — che sfugge alla sua impresa, che non può
essere oggetto del possesso dell'uomo. Mai questi ne è il padrone, come
lo è degli altri oggetti preziosi. Il mondo non concede il segreto del
suo ordine. Andare oltre nell'esegesi non è possibile.
Quale quantità di esperienze, quale perseveranza nella riflessione
devono aver preceduto la composizione di un simile poema, prima che
vedesse la luce ! Di tutto questo lavoro preliminare, niente ci è rimasto.
Si è concordi neH'ammettere che questo poema è stato inserito
secondariamente nei dialoghi del libro di Giobbe, cosicché è molto
difficile rispondere al problema della sua comparsa nel tempo: può
essere recente come può anche essere antico. Qualora si ammetta che
la sua datazione è posteriore all'esilio, rimane il problema di sapere
se solo in un'epoca così tardiva han potuto esprimersi conoscenze di
questa natura. Con ogni verosimiglianza, l'ultimo verso del poema
dev'essere considerato come un'aggiunta: proviene da qualcuno che
non ha voluto lasciare solo il lettore di fronte ad una conclusione
negativa così maestosa. La partecipazione dell'uomo alla sapienza ri
mane intatta; il cammino che vi porta è il timore di Jahve. In questo
modo il compilatore non solo abbandona il tema del poema, ma usa
anche la parola « sapienza » in un senso del tutto diverso, nel senso
cioè della sapienza umana.
1. La sapienza non chiama forse,
l'intelligenza non alza la voce?
2. In cima alle colline, sulla strada,
« in mezzo » ai sentieri, essa si apposta;
3. presso le porte della città,
sulle vie d’ingresso essa grida:
4. « Uomini, siete voi che io chiamo,
la mia voce si rivolge ai figli degli uomini.
5. Imparate quindi l'accortezza, voi semplici!
Insensati, imparate la ragione!
6. Ascoltate, ho da dirvi cose importanti,
le mie labbra si aprono per dire ciò che è retto.
7. Sì, la mia bocca proclama la verità,
alile mie 'labbra il male è in abominio.
8. Tutte 'le parole delle mie labbra sono giuste,
esse non hanno nulla di falso né di tortuoso.
9. Tutte sono franche per chi è intelligente,
rette per chi possiede il sapere.
10. Preferite i mìei insegnamenti all’argento,
e la conoscenza all'oro puro.
11. Poiché la sapienza vale più delle perle,
nessun gioiello gli si può paragonare.
IX. l ' a UTORIVELARSI DELLA CREAZIONE
* Il testo di Prov 3, 13-26 è disposto allo stesso modo del poema Prov 8; ne è soltanto più
corto. Vi si trova anche, collocato tra l'esaltazione della sapienza (vv. 13-18) e una nuova chiamata
a seguirla (w . 21-26), un brano intermedio (vv. 19-20) che considera la funzione della sapienza alle
origini: « Con la sapienza, Jahve ha fondato la terra, ha stabilito i cieli con l'intelligenza. Per la
sua scienza furono creati gli abissi e le nubi stillano la rugiada ».
5 Molto attentamente da R. Stecher, Die persónliche Weisheit in den Proverbien Kap. 8, in
ZThK 75, 1953, 411 ss.
6 P. Humbert, in « Bertholet-Feslschrift ». 1910. 229 ss.; P. Katz, The Meaning of the root qn h \ in
JJS 6, 1955, 126 ss.
IX. L'a l TORI VELARSI DELLA CREAZIONE 141
7 R. B. Y. Scott, Wisdom irt Creation: The 'Amón of Proverbs V ili, 30, in VT 10, I960, 213 ss.
B Chr. Kayatz, Studien zu Proverbien 1-9 (1966), 76 ss., 93 ss. (contro R. N. Whybray, Proverbs
V ili, 22-31 and its supposed prototypes, in VT 15, 1965, 504 ss.).
10. von rad. la capienza in israelc
142 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I
" Prov 14, 31; 16, 4. 11; 17, 5; 20, 12; 22, 2; 29, 13.
12 Come mai quest'oggetto di conoscenza può essere stato designato col termine hSkm&ì È diffi
cile credere che questo sia un termine del linguaggio corrente. Bisogna piuttosto pensare che que
sta parola hSkmà che con questo significato differisce molto dall'uso corrente, fosse un termine
tecnico della lingua erudita. È probabile che i maestri abbiano cercato un termine corrispondente
press’a poco alla maat egizia (in Giob 28, 12. 20 si aggiunge parallelamente la parola bìndy « senno *).
Se l'ebraico fd à k à (giustizia) ha potuto avere un senso più vicino alla « maat » egizia, nella mag
gior parte dei casi (H. H. Schmid, Gerechtigkeit als Weltordnung, 1968, 61), non vi è alcuna neces
sità di tradurla sempre cosi. D'altronde il termine hSkmS è più vicino, in questo caso, all'oggetto
che si vuole designare.
144 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
II. La c h ia m a t a
16 Si può pensare a questo proposito all'inno di Cicerone nel quale celebra la filosofia come
« inventrix legum » e « magistra raomm et disciplinae » (Tusculanae 5, 5). Una relazione con le
idee orientali è possibile (Poseidonies!); cfr. H. Hommel, Ciceros Gebeishymnus an die Philosophie,
in « Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften », Phil.-hist. Klasse, saggio 3,
1968, in particolare p. 13.
17 H. Conzelmann ha accreditato l’ipotesi che in Eccli 24, 1-6 è stato utilizzato un inno egizio
a Iside; cfr. Zeit und Geschichte, in « Festschrift fiir Bultmann », 1964, 255 ss. Questa constatazione
corrisponde molto bene con quello che lo sfondo tradizionale di Prov 8, 22 ss. lascia intravedere
(cfr. p. 141 s.). Sul piano ermeneutico, il caso è interessante perché un testo ripreso parola per
parola poteva ricevere in Israele un significato totalmente diverso, di modo che ogni particolare
del testo fa risaltare espressioni notevolmente modificate. E forse esistito un mito della sapienza
che cerca e che è delusa? Così si è creduto in seguito al celebre articolo di Bultmann in Eucha-
risterion fiir Gunkel, voi. 2, 1923, 1 ss. (cfr. U. Wilckens, Weisheit und Torheit, 1959, 160 ss.), m?
è estremamente dubbio. Si giunge ad errori fatali se si interpretano testi come Prov 1, 20 ss., Giob
28 e Eocli 24 partendo da questo « mito della sapienza * come da un a priori. Giob 28 deve restare
fuori causa, poiché in esso si parla soltanto di una sapienza nascosta nella creazione (e non in
cielo). Anche Prov 1, 20 ss. non contribuisce in nulla a questa problematica (Chr. Kayatz, op. cit.,
128). L'idea è evidente solo in Enoc 42,1-3. Esiodo. Le Opere e i G iorni , vv. 197-201 parla del
ritorno al cielo di due dee deluse.
148 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
ranno lasciati a se stessi, dovranno vivere dei loro progetti, il che vuol
dire che si distruggeranno da sé. Se si accorgono che, per continuare
a vivere, hanno bisogno di questa chiamata, la voce rimarrà muta.
Anche in questo caso si tratta della presentazione di un fatto!
Prima di trarre dai testi gli ultimi elementi riguardanti il rapporto
tra la sapienza e l'uomo, fermiamoci un istante. Questa sapienza che
abbiamo considerato come l'ordine primordiale del mondo, come il
segreto della sua creazione, governa allo stesso modo la creazione
esterna all'uomo e il campo sociale e umano. Se la si vuole considerare
come il Logos del mondo, cosa che s'impone al lettore moderno, ci si
dovrà ricordare che questi testi non parlano di qualcosa di astratto,
di un principio, di una ragione cosmica, ma di qualcosa di creato che
ha la propria realtà come le altre opere della creazione. Quest'ordine
primordiale non è presente soltanto nella creazione, ma è rivolto anche
all'uomo per assisterlo, si occupa di lui: lo interpella direttamente.
Questa chiamata non è un mistero che l'uomo dovrebbe decifrare,
è rivolta pubblicamente « sulle piazze rumorose » (Prov 1, 20 s.). Tutte
queste indicazioni non permettono di sollevare alcun dubbio sul fatto
che questa chiamata può essere intesa dall'uomo senza alcuna difficoltà.
Da tutto ciò emergono dei problemi che sta alla teologia biblica af
frontare. Incontriamo innanzitutto l'idea che il mondo non è muto, ma
ha un suo messaggio nell'inno: il mondo si proclama creatura di fronte
a Dio; il cielo « racconta », il firmamento « annuncia » (Sai 19, 2). « Tut
te le opere rendono grazie a Dio » (Sai 145, 10). Nell'ambito di una
teofania, si può dire: « I cieli proclamano la sua giustizia (di Dio) »
(Sai 97, 6). Questo discorso di una parte della creazione appare qui
come un fenomeno concomitante alla rivelazione che Dio fa di se
stesso. Ma è poco verosimile che i cieli ricevano il potere di rendere
testimonianza solo in occasione di quest'avvenimento e in precedenza
siano stati muti.
Nel Salmo 148, Israele, nel ruolo di corifeo, invita tutta la creazione
fin nelle sue più lontane regioni ad associarsi alla lode. Non è prolis
sità poetica che qui si esprime, ma l'idea di una vera testimonianza che
emana dal mondo. Incontriamo qui per la prima volta un accosta
mento molto stretto tra l'inno e la sapienza. La sola differenza consi
ste nel fatto che questa testimonianza della creazione si rivolge, se
condo l'insegnamento dei saggi, non a Dio, ma all'uomo, la qual cosa
era già compresa nella forma dell'inno 22.
Interroga pertanto il bestiame per istruirti,
gli uccelli del cielo, per informarti.
I rettili dedla terra ti daranno lezioni,
i pesci del mare ti ragguaglieranmo.
Poiché chi ignora, tra tutti loro,
ohe la mano di Jahve ha fatto tutto ciò? (Giob 12, 7-9)
23 La parentela tra la sapienza e l'inno ed i suoi temi è conosciuta da tempo. Il Siracide non
è stato il primo saggio a comporre inni.
150 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE 111
» G. von Rad, Teologia dell'Antico Testamento, vol. II, Brescia 1974, 299 ss.
152 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
Si vede così tracciare una linea che va dall’ordine prim ordiale fino
alla rivelazione di Jahve nella tenda della testimonianza e nel tempio
di Gerusalemme, abbozzo superbo e audace della storia della salvezza:
l'ordine primordiale (la sapienza) si è cercato tra gli uom ini un'abita
zione e si è visto assegnare da Dio il popolo d'Israele. Soltanto qui
esso si poteva sviluppare, perché soltanto qui un accesso gli era aperto
e si era pronti a servirlo degnamente; in Israele infatti l'ordine pri-
IX. l ' a UTORI VELARS I DELLA CREAZIONE 153
mordiale si era rivelato nella forma della Torah. Ma è giusto dire
come si fa sempre, che, in questo modo, la teologia della Torah è pene
trata nella sapienza e se l’è presa a carico? È esattamente il contrario
che si è verificato: la sapienza ha tentato di spiegarsi il fenomeno della
Torah partendo dai suoi principi, e questo in modo poco tradizionale M.
III. L ’a m o r e s p ir it u a l e (ero s)
31 Ciò è vero anche per il « gioco » della sapienza, Prov 8, 31. Già l’antica sapienza parla spesso
del piacere di giocare a contatto c o n -la verità, di un « delectari », di un fascino seducente; cfr.
p. 53 s.; cfr. H.-J. Hermisson, o p .c it., 136.
3T « Il libro della Sapienza pone la sapienza, espressione eterna dell’essenza di Dio e principio
del mondo, presso Dio e in un m ondo completamente separato da quello dei fenomeni. Si vede
questa dualità sin dal prim o capitolo e subito diventa chiaro che si concepisce così un dualismo
che separa il mondo divino, vera creazione incorruttibile, dal mondo diabolico, mondo improprio
e votato alla m orte * (D. Georgi, Z eit und G eschichte, in « Festschrift fiir R. Bultmann », 1964,
270). Cfr. anche p. 270 s.
JX. l ' à UTORIVELARSI DELLA CREAZIONE 157
morte e vita sono in potere della lingua (Prov 18, 21), chi detesta i re
gali corruttori vivrà (Prov 15, 27), ecc. Parlare in tal modo dell'acquisto
o della perdita della vita corrisponde airabitudine dei maestri di espri
mersi con antitesi caratteristiche e piene di effetto. Ma, in Prov 8, 35 s.,
le cose sono molto diverse, nel senso che non è più l'attività conforme
all'oggetto e alla situazione che assicura la vita, ma lordine primor
diale stesso, la cui offerta assicura lacquisizione di vita e che, con la
sua offerta, si rivolge direttamente e molto personalmente all'individuo.
La vita non dipende quindi più soltanto da un atteggiamento saggio,
ma dallaver « trovato » la « sapienza »32. Anche per essa luomo ottiene
il « favore di Jahve » (Prov 8, 35); è essa che mette in ordine tutta la
vita di fronte a Dio. Questa sentenza formula la conclusione di un no
tevole lavoro di riflessioni teologiche e si trova molto distante nella
forma e nel contenuto dalle sentenze didattiche di Prov 10 ss. Si poteva
anche dire che la sapienza è il sommo bene e che il suo acquisto ha più
valore dell'oro e dell'argento (Prov 16, 16); ciò può essere compreso
molto bene nella prospettiva di questi insegnamenti. Quasi parola per
parola riappare il tema « più prezioso dell’oro », « dell'argento puro »,
in Prov 8, 19, ma in un contesto profondamente modificato. Ora è l'or
dine primordiale stesso che si raccomanda come dispensatore di beni
in un discorso personale all'uomo. È l'« io » misterioso che aveva detto
in precedenza: « Coloro che mi amano, io li amo » (Prov 8, 17).
Con quest'ultima frase, siamo ritornati al gruppo di idee nel quale
si trovano le dichiarazioni più forti insieme alle più tenere su ciò che
capita alluomo nel mondo delle creature che lo circonda. L'esistenza
nel mondo dell'uomo aperto alla conoscenza si svolge sotto il segno di
un rapporto amoroso con il mistero dell'ordine. E collocata nel campo
di forze di una sollecitazione, di una ricerca reciproca, di un'attesa ne
cessaria e nella prospettiva di compimenti spirituali preziosi. L’offerta
della sapienza che è alla ricerca dell'uomo, comprende tutto ciò di cui
egli ha bisogno nel suo isolamento: ricchezza e onore (Prov 8, 18.21),
direzione e protezione nella vita (Prov 1, 33 ss.; 2, 9 ss.; 4, 6; 6, 22; 7, 4
s.), conoscenza di Dio e riposo per l'anima (Prov 2, 5; Eccli 6, 28;
51, 27).
Con tutta l’anima tua avvicinati a lei,
con tutte le tue forze, segui le sue vie.
Interroga, scruta, cerca e trova,
afferrala e non lasciarla sfuggirei
Poiché alla fine troverai m essa il riposo,
ed essa si cambierà per te in gioia. (Eccli 6, 26-28)
K Cfr. p. 196 $.
X
LA POLEMICA CONTRO GLI IDOLI
Questo testo è senza dubbio più recente. Lo citiamo qui perché dalla
sua forma si può dedurre che si tratta di un’imprecazione (v. 18), per
ché vi sussistono in parte la vecchia concezione sacrale e il cerimoniale
di maledizione che essa comportava. Certo, il modo di affrontare il
problema è razionale fino alla noia. Rimane tuttavia fissato che l’im
magine divina è considerata come oggetto della confidenza umana. Più
avanti incontreremo ancora questo tema della confidenza delusa.
Troviamo altri documenti della polemica contro la fabbricazione e
l’adorazione di idoli in alcuni libri profetici. Nel libro di Abacuc viene
messa in questione l'utilità di una scultura che è senza dubbio ricca
mente confezionata, ma muta e senza « spirito » (Ab 2, 18 s.). Allo
stesso modo, Ger 10, 1-9 dichiara che non si ha nulla da temere da un
pezzo di legno tagliato nella foresta e artisticamente scolpito dall’uomo.
Questi idoli, bisogna rafforzarli coi chiodi perché non vacillino; bisogna
portarli perché non possono camminare. Come potrebbero provocare
la disgrazia sino al punto da doverli temere? Nel Deuteroisaia, questa
polemica occupa un posto molto più ampio. Vi ritroviamo la men
zione che gli idoli sono fatti da uomini e devono essere fissati (Is 40,
19 s.; 41, 7). L'imminenza, evocata dal profeta, della prossima conqui
LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I
sta di Babilonia non manca di grandezza: gli idoli saranno caricati dal
vincitore su bestie da soma che quasi si accasceranno sotto il loro peso.
Obbrobriosamente gli dèi lasciano la città da essi santificata e che non
hanno potuto proteggere; se ne vanno in schiavitù (Is 46, 1 s.). Ma il
più importante è senza dubbio il grande testo di Is 44, 9-20. Se gli ar
gomenti presentati non sono molto diversi da quelli dei documenti
citati sinora, la forma letteraria attira in ogni caso l'attenzione; vi si
potrebbe vedere un trattato sulla stoltezza d’innalzare e di adorare
idoli. Il tema è trattato con prolissità e l’autore si è compiaciuto di
caricarlo abilmente di effetto. Più ancora che negli altri testi, vien
messo in evidenza il lato comico della faccenda. Non occorre indignar
si, è meglio ridere del fatto che l'artigiano dimentichi di bere e di man
giare per compiere la sua opera, perdendo così le sue forze, e utilizzi
la metà del legno per cuocere ed arrostire gli alimenti, fabbricandosi
con il resto un dio2.
Tuttavia, questo tema è lungi dall’essere specificamente profetico,
malgrado le apparenze. I testi di Abacuc e di Geremia sono considerati
per buoni motivi come interpolazioni « sapienziali », diversamente da
quelli del Deuteroisaia, in cui la polemica entra in qualche modo nel
quadro della predicazione globale del profeta. Ma anche se gli attri
buiamo il testo di Is 44, tesi che non è affatto incontrastata, occorre
precisare che il profeta segue qui con evidenza il modello di un inse
gnamento che proviene originariamente non dai profeti ma dai saggi3.
Bisogna ammettere che questa polemica ha preso consistenza nelle
scuole solo a partire dall’epoca dell’esilio, perché solo allora Israele si
è trovato in mezzo a un popolo dominato da una religione idolatra. Per
quanto preponderante sia il motteggio, non ci si deve ingannare sui
destinatari di questi insegnamenti: non erano gli stessi idolatri, ma
Israele che non doveva lasciarsi influenzare per nessuna ragione dal
prestigio dei grandi idoli.
Forse il lettore odierno non dovrebbe dare troppo facilmente per
scontata questa polemica, come se il problema della legittimità degli
idoli fosse a quell’epoca così facile da dirimere come sembra a noi
oggi. Il fatto che il divino si riveli in una immagine è stato affermato
molto seriamente, prima e dopo Israele. Nelle religioni che circonda
vano questo popolo, si pensava che gli idoli avessero un’anima e fos
sero riempiti di un fluido divino. Si era convinti che l’idolo fosse per
fettamente capace di vendicare immediatamente il delitto di chi lo sfi
dava o lo offendeva4. La voce d’Israele, come voce di tutta una comu
nità religiosa, era un fatto unico nel mondo antico. Perciò la polemica
contro gli idoli aveva una grande importanza e una grande attualità
2 I commentari ricordano volentieri a questo proposito i paralleli in Orazio ( S a tire . I, 8. 1 ss.);
« Trtmcus eram... » (« ero un tronco »). L'artigiano, non sapendo se deve fare un banco o un dio,
decide per il secondo. Ancora più sarcastica è la storia del calice di Amasi»: dapprim a sputac
chiera e vaso da notte vien fuso per farne un idolo (Erodoto, li. 172).
3 Press’a poco in quest’epoca bisogna situare Deut 4, 28 che da p a rte sua è im parentato con
Sai 135, 15-18. L'argomentazione è totalmente nella linea dei documenti ricordati finora.
4 K.-H. Bernhardt, Gott und Bild (1956), 46 ss.; circa il fluido divino, vedi 24 ss.
X. LA POLEMICA CONTRO GLI IDOLI 165
per Israele, che era chiamato ad avere rapporti sempre più stretti con
il mondo delle nazioni. Bisogna tenerlo presente in tutti questi testi.
A proposito dei motivi esposti contro l'adorazione degli idoli — que
sti idoli sono morti, sono l'opera delle mani delluomo — anche i testi
didattici più recenti (tranne un'eccezione) non fanno un passo avanti.
Questo, lo si può dire in anticipo. Bisognerebbe citare il racconto apo
crifo di Bel5: Daniele in una conversazione con il re di Babilonia con
testa che il Dio Bel mangi effettivamente gli alimenti posti ogni giorno
davanti al suo idolo, poiché non è che bronzo e argilla. Viene fatta una
scommessa. All'indomani mattina, tutti e due entrano nel tempio che
era stato sigillato la sera prima; il re crede di aver guadagnato la scom
messa, poiché gli alimenti sono scomparsi. Daniele scoppia a ridere;
prima aveva fatto spargere della cenere per terra e può mostrare al re
le orme dei passi dei sacerdoti, delle loro mogli e dei loro bambini che
sono venuti di notte a cercare gli alimenti attraverso una porta segreta.
La novità in questo racconto quasi burlesco sta nel fatto che, nel culto
delle immagini, non vi è soltanto molta ignoranza, ma altresì un in
ganno sistematico dei sacerdoti. La pretesa lettera di Geremia, la cui
datazione è più recente, cioè del 111 o del 11 secolo avanti Cristo, tratta
della stupidità del culto degli idoli6.
« Ornano di vestiti, come se fossero uomini, questi dèi d’argento, d'oro e di
legno; ma essi non si difendono né dalla ruggine né dai vermi; sono vestiti
di porpora, eppure bisogna spazzolare i loro volti a causa della polvere del
tempio ohe si accumula su di loro ». Li si deve proteggere dalla rapina per
mezzo di chiavistelli e di sbarre, si accendono davanti a loro lampade che
questi dèi non possono vedere. « Non si accorgono che la loro figura è anne
rita dal fumo che saie dal tempio. Sui loro corpi e sulle loro teste svolaz
zano pipistrelli, rondini o altri volatili; vi sono pure gatti ». « Non avendo
piedi, sono portati a spalle, mostrando agli uomini la loro vergogna. Anche
i loro servi sono confusi: poiché è per la loro assistenza che gli dèi si rial
zano se cadono terra ». (Lettera di Geremia, w . 10-25)
Tutto ciò è pieno di arguzia e ci apre nello stesso tempo una pro
spettiva sui luoghi di culto, poiché la descrizione degli idoli anneriti
dal fumo dei sacrifici, sui quali i gatti sonnecchiano, non è un'inven
zione! Non si può tuttavia nascondere che la base di pensiero di tutta
questa argomentazione è stretta: essa dipende interamente dal fatto
di ammettere o non ammettere l'identità totale tra il dio e l'idolo. Poi
ché gli idoli erano costruiti con materiali terrestri, i maestri non ave
vano alcuna difficoltà ad accumulare attorno a questo fatto il loro
motteggio. È evidente che questa presa in giro non tiene conto della
serietà con cui le immagini cultuali sono venerate. Nessun partecipante
ad una processione solenne si sarebbe mai insospettito per il fatto che
l'immagine cultuale veniva portata. Il problema che viene subito alla
mente, di sapere cioè che cosa spinge gli uomini ad adorare delle im
5 Questo racconto è una delle aggiunte al libro di Daniele che si trovano nei LXX.
6 La lettera di Geremia si trova nella Volgata e nella traduzione di Lutero al capitolo 6 del
libro di Baruc.
166 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
magini, non è in un certo senso mai posto. Ciò è dovuto, si pensa, alla
ragione offuscata degli idolatri; essi sono sedotti da cattivi spiriti, dice
il libro dei Giubilei7. La polemica si rivolge inoltre in modo curiosa
mente schematico, senza sfumature, contro « l’idolo ». L'esegeta non
riuscirà a scoprire dietro i testi sempre eloquenti quali sono i culti
precisi che avrebbero potuto servire da modello*. I testi sono impor
tanti perché ci mostrano per contrasto, nell'impotenza degli idoli, quel
che Israele possedeva di positivo in Jahve, secondo il parere dei mae
stri: egli salva (Is 44, 17), mette sul trono e vi depone i re, accorda i
beni, esaudisce i voti, salva dalla morte, libera il debole dal forte, fa
vedere i ciechi, ha pietà delle vedove e fa del bene agli orfani (Lettera
di Geremia, w . 33-37).
Le riflessioni della Sapienza di Salomone, che provengono dal giu
daismo della diaspora ellenistica di Alessandria, si distinguono in modo
notevole da tutte queste polemiche e dalla povertà della loro argomen
tazione (cc. 13-15)9. Certo, la stupidità del culto delle immagini è anche
qui il tema principale. Quanto stoltamente agisce il marinaio che in
voca un pezzo di legno più tarlato del suo bastimento ( 14,1 )! Così pure,
il tema tradizionale della fabbricazione degli idoli è ripreso su una base
più vasta (13, 10-19; 15, 7-10) e tuttavia, con quante sfumature e quan
ta riflessione il tema viene trattato! Vi sono innanzitutto coloro che
prendono come dèi gli elementi, il fuoco, il vento, l’acqua e le stelle,
che sono impressionati dalla loro bellezza o dal loro aspetto terribile.
Pur non potendoli scusare, poiché dovrebbero riconoscere il creatore
nella creatura, una cosa parla in loro favore: essi cercano Dio e vo
gliono trovarlo (13, 1-9). Questo rimprovero moderato lo si potrebbe
far risalire all’A.T. stesso, al Deuteronomio (4, 19) in cui è detto, con
una tolleranza che non si ritroverà più altrove, che Dio stesso ha asse
gnato le stelle all’adorazione cultuale dei pagani. Ma l’influenza della
filosofìa stoica popolare potrebbe essere ben più fo rtel0. Al contrario,
7 Giub. 11, 4; 22, 18. La critica agli idoli è fissata dal libro dei Giubilei (n secolo a. C.) pro
prio agl'inizi d'Israele. Già Abramo ha scorto la vanità del culto delle immagini della famiglia in
cui era cresciuto (Giub. 11, 16). La stessa partenza da Charan, lontano dalla sua parentela, è pre
parata psicologicamente dalla sua opposizione al culto idolatrico della famiglia (Giub. 12). Stessa
cosa nell'Apocalisse di Àbramo, ancor più recente: Àbramo vede il padre Terach piallare un idolo;
i trucioli serviranno a cuocere il pasto. Abramo si fa beffe (Apoc. Abr. 1-6).
B O. Eissfeldt pensa che la descrizione della lettera di Geremia si riferisca ai culti babilonesi;
cfr. Einleitung in das A lte Testam ent (19643), 806.
9 H. Eising, Der W eisheitslehrer u n d die G òtterbilder, in « Biblica » 40, 1959, 393 ss.
10 F. Ricken, Gab es eine hellenistiche Vorlage fiir W eisheit 13-15?, in « Biblica » 49, 1968, 50 s.
Il contributo del pensiero ellenistico in quest'opera non potrà mai essere chiaramente determinato.
L'uso di nozioni del tutto estranee a ll’ebraico e appartenenti alla filosofia popolare ellenistica ha
condotto innanzitutto ad ammettere u n ’ampia ellenizzazione del pensiero ebraico. La ricerca più
recente si è allontanata da questa linea. Nozioni tipicamente greche devono servire all'autore per
presentare la sua eredità giudaica. O. Eissfeldt parla del « nocciolo totalmente giudaico del libro »
(op. cit., 814). Stessa opinione in Fichtner, Die Stellung der Sapientia Salom onis in d er Literatur-
und Geistesgeschichte ih rer Zeit, in ZN\V 36, 1937, 113 ss., e in J. Geyer, The Wisdom of Salomon,
in « Torch Bible * 1963, 18 s. Nel paragrafo che abbiamo accostato, non si possono riconoscere le
influenze che l’autore ha subito dal pensiero greco. La tesi di Fichtner (op. cit., 129) secondo cui
« gli elementi filosofici non sono che accessori retorici », va troppo lontano e non rende giustizia
alla problematica propria di quest'opera. Le componenti ellenistiche sono molto più giustamente
apprezzate presso C. Larcher O.P., E tu d e s sur le livre de la Sagesse, in « Etudes Bibliques » 1969.
fe difficile determinare più precisamente la prospettiva di comprensione sulla cui base occorre in
terpretare i termini filosofici utilizzati.
X. LA POLEMICA CONTRO GLI IDOLI
rezza come nella Sapienza di Salomone (13, 1-9); ma non è una no
vità se pensiamo alla dottrina della creazione che rivela se stessa, di
cui si è parlato nel capitolo precedente, ed in particolare alla sua voce
che si rivolge all'uomo. Chi comprendeva così il mondo — piena espres
sione, piena testimonianza del Creatore — non poteva considerare la
costruzione di un'immagine di Dio tratta dagli elementi della crea
zione se non come una stupidità. Con tale concezione dei rapporti tra
Dio e il mondo, Israele si è definitivamente separato dai culti dei po
poli circostanti e si è progressivamente posto neirimpossibilità di ren
dere loro giustizia. Ma questa totale incomprensione d'Israele per ogni
forma di culto idolatrico non è anch'essa un fenomeno?
XI
SAPIENZA E CULTO
per le relazioni umane, non era molto possibile che queste nozioni ve
nissero usate nel loro senso cultuale di origine. Ma non è neppure certo
che i maestri abbiano voluto utilizzare queste nozioni solo in questo
nuovo senso. La questione del loro atteggiamento nei confronti del
culto può quindi essere risolta a partire da questo materiale. Anche nel
l’ipotesi che restasse solo la sentenza: « Praticare la giustizia e il diritto
è meglio agli occhi di Jahve che i sacrifici » (Prov 21,3), non si po
trebbe vedervi un rifiuto del culto3. Senza dubbio essa sta a testimo
niare una mentalità deliberatamente razionale che separa radicalmente
l’atto del culto dall’azione morale e li soppesa ambedue in modo da
dare un più alto valore all’azione morale. Ritroviamo qui il problema
della prospettiva spirituale e religiosa in cui si situavano gli insegna-
menti dei saggi e al di fuori della quale essi sono falsati4. Corriamo
certamente il pericolo di concepire questa prospettiva in modo troppo
moderno e troppo « intellettuale » e di misconoscere così le possibilità
che aveva il mondo antico di concepire la realtà.
Poiché in questo libro, noi affrontiamo essenzialmente i problemi
che provengono in maniera diretta dal materiale didattico e dai campi
di tensione in cui è collocato, non si può constatare in questo quadro
un problema del tipo « sapienza e culto ». Ciò non significa che noi con
testiamo che, inteso in un senso più largo, esista un problema « sa
pienza e culto » o addirittura che non sia ancora risolto: in che modo
10 sforzo di conoscere dei saggi, proveniente dal timore di Jahve, si è
messo in rapporto con le tradizioni dei ministri del culto? Le due cate
gorie, ciascuna a proprio modo, conoscevano degli ordinamenti e la
voravano per farli conoscere5. Questo problema potrebbe essere af
frontato soltanto raccogliendo accuratamente tutte le fonti possibili
per cercarvi una soluzione e ciò supererebbe assolutamente il quadro
del nostro presente studio. Ciò che si può dire è che i rapporti tra sa
pienza e inno sono innumerevoli. Qui sono i saggi che hanno preso a
prestito6. Ma si notano pure dei rapporti con il canto di ringraziamento
individuale. Qui — nella tendenza ad usare formule tipiche delle sen
tenze — troviamo il caso inverso: il canto cultuale si serve di forme
espressive sapienziali, il che non è certo molto sorprendente, poiché
quando l’individuo prendeva la parola in un discorso solenne era que
sta la forma di discorso di maggiore effetto che gli si imponeva.
3 H.-J. Hermisson, Sprache und R itus im altisraelitischen Kuit (1965), 123 s.
4 Cfr. pp. 38 ss.
5 Cfr. pp. 150 ss., 160 ss., 257 s., 261 e 278 s.
4 II problema delle relazioni reciproche tra inno e sapienza dovrebbe essere interamente ripreso
in rapporto con la convincente distinzione stabilita da F. Criisemann, tra inni « all’imperativo » e
inni « al participio »; cfr. F. Criisemann, S tu dien zur Formgeschichte von tiym nus und Danklied
in Israel (1969). L’inr.o participiale si incontra in parte nei libri profetici (sia come genere di stile
profetico, sia sotto forma d ’interpolazione). Altrove Io incontriamo nel libro di Giobbe. Esso è
definito nel suo contenuto da un tema sempre identico: le meraviglie di Dio nella sua creazione,
11 suo dominio sui fenomeni naturali, la sua guida sovrana sul destino degli uomini. Lo stile e i
temi di questo genere innico sono comuni a tu tto l'Oriente. L'ipotesi che abbia avuto un posto
nel culto d ’Israele prima dell'esilio è soltanto verosimile. La grande massa dei testi costituisce
piuttosto un certo genere di poema artistico coltivato in alcuni ambienti. Da ciò ad un uso in
grandi poemi didattici, non vi è c h e un passo: non vi sarebbe allora più r e l a 7Ìon e con il culto.
7 Così Sai 32. 1 s. M; 40. S s.; 41. 2; 118, 8 c altrove.
XII
FIDUCIA E AVVERSITÀ
I. Il f o n d a m e n t o d e l l a f id u c ia
’ E. Schmitt, Lebeu in den W eisheitsbtichem Job, Spriiche und Jesus Sirach (1954).
12. w»n rad. la sapienza in israelc
*74 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I
2 Nel modello didattico di Giob 8, 11*21 si rimprovera all’« empio » di vivere in una falsa fiducia.
La sua difesa non è che una < tela di ragno »: « S'egli si appoggia sulla sua abitazione, essa cede;
se vi si aggrappa, essa crolla » (Giob 8, 14 s.). Secondo noi dunque qui si parla di qualcos’altro
che non sia la semplice mancanza di fiducia in Dio.
176 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II
Per Israele non vi era conoscenza che non implicasse una fiducia, una
fede, ma non vi era neppure fede che non si basasse su conoscenze4.
È interessante vedere come la stessa sapienza « teologica », di cui ab
biamo inteso la voce, fosse fermamente legata a questo ruolo costitu
tivo della ragione.
3 Vedi p. 18.
4 Vedi pp. 70 ss.
Considerate le generazioni passate e vedete:
chi dunque, confidando nel Signore, è stato confuso?
o chi, perseverando nel tuo timore, è stato abbandonato?
o chi l’ha implorato senza essere stato ascoltato? (Ecoli 2, 10)
Quel che qui viene discusso, è il problema della fedeltà di Dio. Ab
bandona egli forse coloro che si legano a lui? La risposta a questo dif
ficile problema non è data, come avrebbe potuto essere il caso e come
ci si attenderebbe, con un riferimento alla rivelazione che Dio fa di se
stesso, ma con un riferimento all'esperienza di parecchie generazioni,
cioè con una riflessione della ragione. E in questo modo che la legitti
mità della fiducia in Dio vien messa in evidenza! La frase citata, in cui
si parla del centro stesso della fede, è tipica del ruolo che Israele ha
riconosciuto all'esperienza, anche nelle cose che riguardano la cono
scenza di Dio e la fiducia in lui. Sarebbe bene prendere atto di questa
concezione presente nei maestri; sarebbe certo meglio che accusarli in
anticipo di un errore fondamentale sulla base della nostra abituale
definizione del rapporto tra ragione e fede. Dobbiamo ammettere che
un sapere considerevole, passato al vaglio della critica, è stato rac
colto dai saggi; comportava numerosi segnali di avvertimento alzati
nella direzione dei limiti imposti alla conoscenza, ma la sua intenzione
ultima era di suggerire una grande fiducia nella solidità e nella co
stanza delle regole, dell'ordine; il che significava confidare in Dio che
metteva in vigore queste regole e regnava attraverso di esse. Così bi
sogna rispondere al problema del senso della « fiducia in Dio » che
sopra abbiamo posto.
II. R i s p o s t e a l l e e s p e r ie n z e d i dolore
Sono degli oranti che pregano nel corso di una grave malattia ed
anche in questo caso, come ci hanno insegnato questi testi, è un disor
dine profondo alla radice stessa della vita a provocare in coloro che
sono colpiti la confessione del loro peccato. Per Elihu, la malattia è
uno dei mezzi di cui Dio si serve per rivolgersi all’uomo ed avver
tirlo (Giob 33, 14. 19 ss.).
Cercando di definire il quadro specifico dei tentativi teologici dei
maestri di sapienza, non si deve pensare ch’essi abbiano edificato da
soli il loro sistema di rappresentazione. Vivevano essi pure della fede
tradizionale in Jahve e partecipavano pienamente a modo loro alla
liberazione e ai compiti ch’essa affidava agli uomini. La loro posizione
aveva di particolare solo il fatto ch'essi avevano l’incarico dell’inse-
gnamento. Di fronte alle sofferenze e alle diverse contrarietà degli
uomini, svolgevano un compito superiore a quello del puro osserva
tore e si vedevano chiamati a mobilitare tutte le loro capacità di com
prensione. Per poter giungere a conoscenze più generali, dovevano
l8 0 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I
5 2 Sam 16. 10; Giob 9, 12: Dan 4. 32: Sap 12. 12.
» Gen 42, 21.
182 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II
9H. W. Wolff, Dos Thema * Umkehr » in der alttestam entlichen Propheiie, in Gesammelte Stu-
dien (1964). 153.
10 I ricordi storici sono pure illuminati (c semplificati!) da questa categoria interpretativa. Le
epoche di miseria della storia sono prove imposte da Dio; egli ha fatto così da sempre. « Per tutte
queste ragioni, rendiamo grazie al Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova come i nostri padri.
Ricordate quanto ha fatto ad Abramo, tutte le prove di Isacco, tutto quel che capitò a Giacobbe
in Mesopotamia di Siria quando custodiva le pecore di Labano, suo zio materno. Infatti, come
allora egli li provò per scrutare il loro cuore, cosi non è una vendetta quella che egli scaglia ora
su di noi, ma è piuttosto un avvertimento con cui il Signore raggiunge coloro che gli stanno
vicino » (Giudit 8, 25-27). Giacobbe presso Labano, « provato » da Dio, è un aspetto ignorato dalla
184 LA SAPIENZA 1 \ ISRAELE - PARTE I I I
tradizione della Genesi. Ma già in Es 20, 20, l'episodio del Sinai è concepito com e « tentazione »,
« prova ». Qohelet ha crudelmente caricaturato quest’idea sempre più centrale della prova divina.
Egli ritiene che il rifiutarsi di fare giustizia è una « prova » (letteralmente: « vaglio ») dell’uomo
provocata da Dio « affinché gli uomini vedano che sono vere bestie gli uni per gli altri » (Eccle
3, 18). Le prove divine servono a m ostrare all’uomo il suo nulla.
n Tale t comunque il senso nella frase di Geremia 17, 11, m utata dalla sapienza: « Nel pieno
dei suoi giorni, egli deve lasciarle (le ricchezze> e. alla fine, non è che uno stolto! ».
,J Prov 23, 18; 24, 14. 20.
Non adirarti per l'uomo arricchito,
per l’uomo che usa intrighi. (Sai 37, 7)
II I . I l l ibr o d i G io b b e
21 II racconto è certam ente passato attraverso un processo letterario piuttosto com plicato prim a
di giungere a noi nella form a in cui lo conosciamo. La formazione letteraria della m ateria a p a r
tire da stadi an terio ri più semplici può essere rico stru ita approssim ativam ente grazie ad alcune
discordanze; cfr. G. Fohrer, S tu d ia i zum B uch H iob (1963), 26 ss. 44 ss.
22 J. G. H erder, V om G eist d er ebràischen P o esie, in < Bibliothek theologischer Klassiker », voi.
30, 137.
n Giob 1, 5. 22; 2, 10; 42, 7 ss.; cfr. G. F ohrer, o p . c it., 35 s.
24 Non si giungerà mai a spiegare in modo soddisfacente l'articolazione del racconto e dei d ia
loghi di Giobbe sul piano letterario in tu tti i suoi aspetti, fi certo che il racconto ha subito brevi
m utilazioni e correzioni di testi; cfr. G. F ohrer, op. c it., 7 ss.
13. von rad. la sapienza in itraekr
190 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
17 Sul € d are in escandescenze», cfr. P rov 3, 31; 23, 17; 24, 19; Sai 37, 1; 73, 3.
» C. W esterm ann, o p. c it., 6 e 15,
192 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
33 Come argom entazione degli amici, cfr. ad esempio Giob 4, 17-21; 25, 4-6. Nella « liturgia »
della grande siccità, Ger 14, si ritrova lo stesso ordine di fatti esterno ed interno: all’inizio, è
descritta la calam ità (w . 2-6). poi viene la preghiera d ’intercessione che comincia quasi come una
dom anda sul motivo della disgrazia: « Se i nostri peccati parlano contro di noi, agisci, Jahve, per
l’onore del tuo nome » (v. 7).
194 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II I
e il castigo affermato dai suoi amici. Non può confessare che il disor
dine del suo rapporto con Dio proviene da lui, cioè da un grave pec
cato eh egli avrebbe commesso. « Io vivevo tranquillo quand'egli mi ha
fatto crollare » (Giob 16, 12). Con una passione prodigiosa e senza il
minimo riguardo alle conseguenze possibili, egli afferma la propria
« giustizia » ( tummà ) davanti a Dio.
Ho ragione, non vedo più la inda vita
e disprezzo la mia esistenza! (Giob 9, 21)
Per il Dio vivente che mi rifiuta giustizia,
per rOnnipotente che rende la mia vita amara,...
le mie labbra non diranno niente di falso,
alcuna menzogna verrà sulla mia lingua.
Ben lungi dal darvi ragione,
fino aill'ultimo respiro, affermerò la mia innocenza.
Mantengo la mia giustizia e non cedo;
in coscienza, non ho motivo di arrossire dei miei giorni. (Giob 27, 2. 4-6)
Eppure, tutti i miei passi, egli li conosce!
NÒ passi al crogiolo: oro puro ne uscirò!
Il mio piede ha aderito ai suoi passi,
ho seguito la sua via senza deviare;
ho osservato alla lettera i comandamenti delle sue labbra,
custodito nel mio seno le parole della sua bocca. (Giob 23, 10-12)
Giobbe si appella a Dio com e suo creato re anche in altre circostanze: cfr. Giob 10. 3. 8-11. 18,
X II. FID U C IA E AVVERSITÀ 195
Dio non è forse il difensore di tu tti quelli che soffrono? A questa do
manda bisogna rispondere affermativamente. Il lettore rimane colpito
dalla impetuosità con cui Giobbe esprime a colpo sicuro la certezza
di essere in ogni circostanza al riparo della giustizia di Dio, fosse pure
al prezzo che Dio si schieri contro se stesso per difendere Giobbe!
Già fin d'ora, ho nei cieli un testimone,
lassù sta il mio difensore. (Giob 16, 19)
35 Sgom enta co n statare come ci m anchino criteri certi per giudicare i discorsi degli amici. Il
poeta ha forse aggiunto alcuni tra tti caricaturali ai discorsi di Elihu (Giob 32, 18 ss.)? Deve forse
essere considerato, come pensano parecchi esegeti, un chiacchierone arrogante? Altri l’hanno lodato
per la sua m odestia e il suo profondo senso della sofferenza; cfr. C. K uhl. in ThR 21, 1953. 258.
198 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
40 Non è falso ripetere costantemente che si tr a tta del « problem a della sofferenza ». Ma ciò è
vero solo in u n senso molto ristretto, come problem a cioè di « questa » sofferenza che colpisce
« questo » uom o.
4] Cosi ritengono H. H. Schmid, op. c it., 178, e parecchi altri.
202 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
47 Dio lascia che la creazione, cioè qualcun'altro, p arli al suo posto. « Egli concede la parola
a q u est'altro e lo lascia (...) parlare am piam ente di sé. Conta evidentem ente s u l fatto che que-
s t’altro gli appartiene così totalm ente, gli è sottom esso e sta a sua disposizione in modo tale che,
se si p arla soltanto di esso, non si può fare a meno di parlare di lui, Dio. £ c o s i sicuro di que
st'altro , che è sua creatura, che non ha (lich e) dubbi sul servizio che gli re n d e r à mostrandosi
com e sua creatura *. (K. B arth, K irche D ogm atik, voi. 4/1, I parte, 1959, 495).
48 Nel Sai 104, 31 è espresso chiaramente ciò che è detto qui tra le righe, cio è che « Dio si
rallegra della sua creazione ». Calvino dice a questo punto: « Status m undi in Dei laetitia fundatus
est. (La condizione del mondo è fondata sulla gioia di Dio) * (Opera lo a n n is C a lv in i, voi. 32, 97,
sul Sai 104, 31).
3 K. Borth, op. cit., 4%
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 205
IV. L'ECCLESIASTE
la più profonda ansietà del suo pensiero: qui si trova la causa pro
fonda di tutti i suoi sforzi e della sua inquietudine. Per esaminare cor
rettamente il suo problema, dobbiamo riprendere il grande testo che
tratta del tempo fissato per ogni atto. Esso è seguito da un testo molto
caratteristico nel quale Qohelet trae personalmente le conclusioni da
questa verità. Che cosa risulta da tutto ciò che avviene, in particolare
per luomo che cerca di padroneggiare la propria vita, cioè per l'uomo
« attivo »? Ecco la risposta:
Quale interesse ha l'uomo attivo nella fatica a cui si assoggetta? Ho visto a
quale lavoro Dio sottopone gli uomini perché si affatichino. Egli ha fatto ogni
cosa bella a suo tempo e ha messo nel loro cuore il tempo ilontano( ?) 5\
senza che si possa afferrare quel che Dio fa dall'inizio alla fine. (Eccle
3, 9-11)
Alla domanda del vantaggio che luomo può trame (jitrón ), Qohelet
risponde: delle tribolazioni! Ciò non dipende dai limiti posti da Dio;
le cose sono « belle », com egli dice. Tutto deriva dal fatto che l'uomo
non può « trovare » l'« opera di Dio ». Con questo vuol dire che l'uomo
non può adattarsi ad essa e far entrare nei suoi calcoli quel che Dio
decide ad ogni istante. È in questo senso ch'egli dice più avanti che
« l'uomo non conosce il suo tempo, la sua ora ». Cieco ed incosciente,
come le bestie che si gettano nella rete, egli è improvvisamente assa
lito dalla « disgrazia », dal « tempo cattivo » (9, 12). Senza dubbio è an
cora Dio che ha « fatto il giorno cattivo », ma questa non è una conso
lazione, poiché l'uomo non può trovare quel che viene in seguito (7,14).
Una vanità accade sulla terra: vi sono giusti ai quali capita quel che merita
la condotta dei malvagi; e dei malvagi ai quali capita quel che merita la
condotta dei giusti. Anche questo, mi sono detto, è vanità! Approvai perciò
la letizia e cioè: l’unica cosa buona per l'uomo sotto il sole è mangiare, be
re e stane allegri. (Eode 8, 14 s.)
Così Qohelet ha espresso ciò che egli considera in ultima analisi come
l'autentico giogo, il vero tormento della vita umana. Non sono le con
trarietà in sé; è piuttosto una frontiera invalicabile che è messa alla
volontà di conoscere dell'uomo. Il lettore si domanda con inquietudine
ciò che rimane a Qohelet in una simile visione delle cose, nel quadro
di conoscenze così deprimenti. C'è ancora qualcosa per cui valga la
pena di vivere? Si può fare questa specie di calcolo: poiché Dio « crea »
il giorno buono come il giorno cattivo (7, 14), all'uomo non resta che
tenersi preparato per il bene che Dio è disposto a garantirgli, ed acco
glierlo con una perfetta disponibilità. « Nel giorno della felicità, sii fe
lice! » (7, 14). È anche questo un tema sul quale Qohelet ritorna costan
temente con un'insistenza sorprendente. Ma non desta meraviglia, poi
54 Non è ancora stata data una spiegazione soddisfacente del term ine *ol5m ch e si trova al v. 11
e che rendiam o volentieri con « eternità », benché significhi piu tto sto « Icm po lontano ». Cfr. l'enu
merazione delle interpretazioni in O. Loretz, op. c it., 281, nota Z ìi. Si tr a t ta forse della difficoltà
che vi è nell'interrogare Torà per far entrare l'avvenire nei calcoli (così p e n s a Zimmerli, op. cit.,
ad loc.)?
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 209
ché troviamo qui finalmente un punto in cui 1azione di Dio nei riguardi
dell'uomo è molto chiara. Al problema della « parte » dell'uomo, cioè
del posto che gli è assegnato nella vita, diremmo oggi al problema del
senso della vita, Qohelet risponde positivamente, poiché è possibile ri
conoscere in essa una volontà di Dio favorevolmente propensa verso
l'uomo. È la sola cosa che si possa chiamare « buona », « non vi è altra
felicità per l'uomo che rallegrarsi delle sue opere... poiché questa è la
sua parte» (3, 22; 5, 7 ) 55. Si è sottolineato con ragione che questo in
vito a cogliere la gioia e tutto ciò che intensifica la vita non dev'essere
confuso con quella smania di vivere che s'installa così facilmente al-
lombra della disperazione. È piuttosto il contrario. Qui soltanto Qohe
let si sente in armonia con una volontà di Dio, si vede di fronte a un
Dio che dà « poiché non dipende dall'uomo il mangiare, il bere e il sol
lazzarsi. Io vidi che ciò proviene dalla mano di Dio » (2, 24). Con quale
emozione questo teologo insensibile parla di Dio quando affronta que
sto tema!
Va', mangia il tuo pane nella gioia e bevi di buon animo il tuo vino, poiché
Dio ha già apprezzato le tue azioni. Porta sempre abiti bianchi e che l'olio
non manchi sulla tua testa! Godi la vita con la donna che ami, tutti i giorni
della vana vita che Dio ti dà sotto il sole, poiché sta qui la tua sorte nella
vita e nella fatica che sostieni quaggiù sotto il sole. (9, 7-9)
È molto difficile per noi, che non abbiamo molti punti di confronto
nella letteratura occidentale, interpretare correttamente un'opera si
mile. Una cosa è certa: Qohelet non espone una dottrina in sé conclusa,
egli continua invece un'opera che si collega ad una tradizione dottrinale
molto antica, anche se sostiene tesi e solleva problemi molto partico
lari. Non ha l'intenzione di operare una separazione netta tra la sua
« proprietà intellettuale » e l'eredità ricevuta; tuttavia la sua posizione
rivoluzionaria può essere abbastanza chiaramente delimitata. Bisogna
pure evidenziare un altra difficoltà che impedisce un'adeguata interpre
tazione del libro. Non si trova nel testo, ma è lo stesso esegeta ad in
trodurla. Egli si sente in effetti così immediatamente messo in causa e
confermato nel proprio sentimento vitale dalla malinconia di Qohelet
che ne rimane quasi interamente conquistato sin dall'inizio. Le affer
mazioni di Qohelet gli paiono così evidenti che egli ha la tendenza a
considerarle come un passaggio brutale da una sapienza forzata e
« dogmatizzante » ad una visione del mondo ben più realista e più
vera. Ma è chiaro che, con un accostamento così parziale, entrano nel
l'esegesi dei pregiudizi filosofici estranei alla questione, i quali portano
a valutazioni problematiche. Bisogna invece impegnarsi costantemente
a ricercare il valore specifico dell'insegnamento di Qohelet nella pro
spettiva delle dottrine della sua epoca.
Si può vedere subito con quale immediatezza Qohelet si inserisca
nella tradizione dottrinale, dal modo con cui parla di Dio. Se si consi
5' Sul problem a della « parte » del l'uomo nella propria vita, Eccle 2, 10. 21; 5r 18; 9, 6. 9; 11, 2.
210 LA S A P IE N Z A IN ISRAELE - PARTE III
“ Vedi p. 130 s.
212 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
Infine, ancora una parola su Giobbe nella teologia cristiana. Non sul
Giobbe del racconto marginale, poiché la « storia della pazienza di
Giobbe » (Giac 5, 11) ha da sempre avuto il proprio posto nella pare-
nesi cristiana. Ma quale atteggiamento ha adottato nei confronti del
poema dialogato? L'impressione è discordante. È fuori dubbio che nel
corso dei secoli si è fatto un enorme lavoro d’interpretazione, lavoro
che non può non far arrossire di vergogna gli interpreti moderni per
la sua estensione e la sua erudizione e che è iniziato con le questioni
riguardanti la forma esatta del testo. Ma d'altra parte l’influenza teo
logica del libro sulla dottrina della Chiesa è stata sempre molto debole.
A parte alcune voci isolate che sono rimaste senza effetto sull’insieme
— bisognerebbe tra esse calcolare la prefazione di Lutero del 1524 —
si constata che né la problematica di Giobbe, né la sua teologia sono
state veramente riprese ed assimilate dalla Chiesa. Ci si può doman
dare se la Chiesa, nel caso in cui fosse rimasta aperta alle prospettive
teologiche del libro di Giobbe nel corso dei secoli passati, non avrebbe
affrontato le grandi contestazioni dell’uomo moderno in ima maniera
molto più valida e con uno spirito molto più distaccato6S. Diverso è il
caso dell’Ecclesiaste. Esso ha cominciato a riunire attorno a sé in
un’epoca recente una comunità di spiriti filosofici e letterari raffinati.
Quale limite è stato imposto allo studio dei libri didattici dal carat
tere semplicemente anonimo delle esposizioni e dalla difficoltà o dal
l’impossibilità di datarli! Ben diverso è il caso di Gesù, figlio di Elea
zaro, figlio di Sirach (che noi chiamiamo Gesù di Sirach o Siracide).
Abbiamo in questo caso un autore e conosciamo la sua epoca (180 a. C.
circa), la sua residenza (Gerusalemme, Eccli 50, 27) e il suo libro ci
informa, come pure il prologo di suo nipote, sulla sua professione, i
suoi studi e la sua produzione letteraria e poetica. Naturalmente non
bisogna aspettarsi di aver a che fare con una personalità di scrittore
originale nel senso moderno. Il Siracide è, egli pure, condizionato dalla
« tradizione dottrinale degli antichi che a loro volta sono stati alla
scuola dei loro padri » (Eccli 8, 9). Egli si considera come loro ese
cutore testamentario; ci si può domandare s’egli era cosciente del fatto
di aver egli stesso sviluppato in modo apprezzabile la tradizione eredi
tata. La questione più importante che dobbiam porre al suo libro, per
ché conduce immediatamente agli elementi specifici dell’insegnamento
del Siracide, è quella del suo rapporto con la tradizione che ha eredi
tato, la questione del modo con cui è stata riprodotta. Si possono di
stinguere nuove tensioni nelle quali il pensiero di questi maestri è im
plicato? In quale direzione si sono prodotti degli sviluppi fruttuosi?
Vediamo infatti l’insegnamento del Siracide in piena evoluzione. Ad
ogni passo è costretto a dare spiegazioni attualizzanti, evidentemente
nei confronti di ima situazione complessiva in completa trasforma
zione 2. Il prologo ci fornisce una buona introduzione nel mondo delle
idee del libro — qui si può dare solo un’occhiata ad alcune caratte
ristiche.
» Questo capitolo è comparso come articolo in EvTh 29, 1969, 113-133.
2 II suo libro non ha un piano sistematico. Particolarità del Siracide è invece la trattazione di
alcuni € temi » in forma di larghe unità proverbiali (rispetto verso il padre 3, 1-16; atteggiamento
verso i poveri 4, 1-10; gli amici 6, 6-17; le donne 9, 1-9; il governo 9, 17 - 10, 18; i medici 38,
1-15, ecc.). Queste unità non presentano una struttura interna; bisogna considerarle come blocchi
di tradizioni nei quali si trovano riuniti ogni sorta di elementi corrispondenti: l ’antico e il noto
come pure 1] nuovo e il sorprendente.
XIII. LA SAPIENZA DI GESÙ DI S1RACH 2 17
Dal punto di vista della storia delle tradizioni, quale preistoria com
plicata ha dovuto conoscere questo piccolo paragrafo! Innanzitutto si
parla della sapienza che è presso Dio, quindi della sapienza di Dio
stesso. Essa è assolutamente impenetrabile (vv. 1-3). Dal v. 4 la nozione
si modifica, vi si parla della sapienza creata nel mondo, cioè debor
dine primordiale, del primogenito delle creature, della sapienza che
Dio ha misurato giudiziosamente e concessa a tutte le sue opere create
(vv. 4-9). Al v. 10 si parla finalmente della sapienza che appare sotto
forma di una dote specificamente umana. Essa è di un genere diverso
dall'ordine primordiale attribuito alla creazione, poiché corrisponde ad
un atteggiamento umano di fronte a Dio. Il Siracide sembra a volte
considerarla come un carisma accordato da Dio4.
In queste frasi stringate risuona in forma di tesi quasi tutto l'essen
ziale di ciò che è stato elaborato nella tradizione didattica. Il Siracide
fa una larga esposizione programmatica della nozione di sapienza. Una
ricca eredità a cui egli aveva adito, glielo permetteva. Gli « uomini di
Ezechia » (Prov 25, 1) non avrebbero potuto sviluppare così ampia
mente la nozione di sapienza. Il Siracide sa perfettamente ch'egli è un
« ultimo venuto » in questa lunga tradizione didattica (33, 16): si con
sidera modestamente come imo che racimola dopo la vendemmia
(ibidem). D'altra parte questo paragrafo è un esempio istruttivo di una
forma di pensiero e di insegnamento che ci è estranea e che è singo
larmente poco preoccupata di una definizione netta. Al contrario: ogni
dichiarazione rimane in sospeso, non è « definita », resta aperta e per
siste a fluttuare su una certa onda e si giustappone così alla seguente.
Le affermazioni che vorremmo con esattezza separare le une dalle altre
si ripercuotono in realtà le une sulle altre. Così l'autore ottiene lo
3 Per questa traduzione cfr. J. Haspecker, Gottesfurcht bei Jesus Sirach, in « Analecta Biblica >
»
30, 1967, 51 ss.
- Eccli 16, 25; 18, 29; 24, 23; 39, 6; 50, 27.
218 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE n i
• Testi: 1, 26; 6, 37; 10, 19; 15. 1. 15; 19, 17. 20. 24; 21, 11; 23, 27; 24, 23; 26, 23; 28, 7; 29, 1.
11; 31 [34], 8; 32 [35], 1. 2. 7; 35 [32], 15. 17. 23 s.; 37, 12; 39, 8; 41, 8; 42,2.
* J. Fichtner, Die altorientalische Weisheit in ihrer israelitisch-jiidischen Auspràgung (1933) e
molti altri. A p. 97 Fichtner parla di una « sapienza legalista » (nomistische Weisheit).
w O. Kaiser, Die Begriindung der Sittlichkeit im Buche Jesus Sirach, in ZThK 55, 1958, 58.
220 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
J In questo senso, le esposizioni di E. G. Bauckmann, in ZAW 72, I960, 33 ss., hanno bisogno
di una revisione sostanziale.
14 La materia del poema didattico presenta delle asperità che potrebbero essere l'indizio di un
complicato processo di formazione in fatto di storia delle tradizioni. Al v. 22 cessa il discorso in
prima persona della sapienza e il passaggio al v. 23: « Tutto ciò non è altro che la legge data da
Mosè » è molto duro. La frase ha una risonanza simile alla chiave di un enigma. Ma i w . 1-22
volevano essere un enigma o la descrizione di fatti molto reali?
15. von rad, la sapienza in israele
222 LA SAPIENZA IK ISRAELE - PARTE III
che gli corrisponde nell’« inno degli antenati », 45, 5) dimostra a no
stro parere l'incapacità del Siracide di sviluppare la nozione di Torah.
Se si guarda allo slancio retorico che s’impadronisce di lui quando può
lodare la sapienza, si ha l’impressione di ima certa povertà, quando egli
descrive il contenuto della Torah.
Egli disse loro: « Guardatevi da ogni male »,
diede loro dei comandamenti, ciascuno nei confronti del suo prossimo.
(Eccli 17, 14)
con loro nella vita. Una volta sarà stupido ascoltarli, un’altra volta
sarà stupido ignorare i loro consigli. E poi rimane ancora il « consiglio
del cuore » (v. 13 s.). Si deve fare particolarmente attenzione alla co
scienza, al cuore illuminato da Dio. Quanto può essere ambiguo il si
lenzio! Uno tace perché non ha nulla da dire; un altro tace perché at
tende il momento favorevole per parlare (20, 5-7). Quale ambiguità
nella professione di medico! Il capitolo inizia con la raccomandazione
a restare in relazione col medico, poiché è sempre Dio che ha creato
questa professione. E si chiude con la frase: « Colui che pecca agli
occhi del suo creatore cade in potere del medico! » (38, 1-15). In due
paragrafi il Siracide si esprime sul fenomeno della vergogna e ne dà
due interpretazioni diametralmente opposte: se si vive correttamente
non si deve avere vergogna, neppure della confessione dei propri er
rori; della propria stoltezza invece bisogna arrossire (4, 20-26). Ma non
ogni tipo di vergogna è « conveniente » (41, 16). Si deve avere vergogna
di tutto ciò che è male, ma non della propria fede, né nella propria cor
rettezza negli affari e in famiglia (41, 14 - 42, 8). La « morte è amara per
l'uomo che vive felice in mezzo ai beni, è benvenuta per il misero privo
di forza e per il vegliardo » (41, 1-2). In altri casi in cui il giudizio su
un fatto è evidente, per esempio nel caso dei figli, degli amici, il Sira
cide si limita ad indugiare su aspetti a cui si pensa molto meno: un
amico si cambia in nemico (6, 9). « Meglio morire senza figli che avere
figli empi » (16, 3 b ) li. Dietro questa tecnica didattica di cui si potreb
bero dare ancora numerosi esempi, vi sono delle conoscenze di cui i
maestri antichi non erano ancora coscienti. Le cose e le circostanze
dell’ambiente umano non sono affatto neutre per il loro valore e signi
ficato. Ma non rivelano neppure all'uomo il loro significato e il loro
valore in modo immediatamente, chiaro. Anzi, lo confondono, poiché
scivolano costantemente da un lato all'altro tra il bene e il male, l'utile
e il nocivo, il sensato e l'assurdo. Qui sta il compito che viene asse
gnato al maestro di sapienza, quello cioè di riconoscere il loro vero
valore in ogni caso, in ogni situazione. Il Siracide vede in questa ambi
valenza dei fenomeni il più grande dei problemi, poiché in ogni situa
zione vi è un solo atteggiamento che sia il buono, il giusto. Qohelet
avrebbe detto: In ogni caso, conoscere il fondo del problema è una
vana fatica. Effettivamente il Siracide esprime, sviluppando gli aspetti
negativi, delle conoscenze che Qohelet avrebbe formulato esattamente
allo stesso modo. Si pensi tra l’altro al suo scetticismo nei confronti
del desiderio di una numerosa discendenza (16, 1-3). Egli pure sa espri
mere l'idea che alcuni penano e si affaticano per non raccogliere nulla
mentre altri, senza mezzi e senza facoltà speciali, prosperano semplice-
mente perché il Signore li guarda con favore (11,11-12). Il Siracide par
la in questo caso proprio di Dio e a proposito di un'esperienza decisa
14 Questa opposizione tra giudizi di valore assolutamente contrari circa una sola e medesima
realtà ricorda l’antica conversazione babilonese tra il padrone ed il suo schiavo (in AOT 1926*,
284-287), in cui la questione circa d ò che è giusto è degenerata in uno scetticismo faceto.
224 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
* Forse il Siracide riprende il € molto buono» di Gen 1, 31. O il poema fc una specie di inter
pretazione più spinta della pericope della Genesi? Ad ogni modo egli non intende con « opere *
gli oggetti creati, ma l'azione di Dio.
21 Eccli 23, 20; cfr. p. 236 s.
228 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
22 Molto curiosa è la frase che dice che Dio ha messo il suo occhio nel cuore umano; ciò signi
fica che Dio ha reso gli uomini capaci di comprendere correttamente le sue opere. Come poteva
il testo ebraico rifarsi alla tradizione testuale greca che non è chiara? M. Z. Segai. S e fe r Bett-Sira
haschàìèm (in ebraico), 1958, ad loc. si attiene al testo greco.
230 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II I
.
8 Per ogni creatura, dall'uomo alla bestia,
ma per i peccatori, sette volte tanto,
9. la peste, il sangue, la discordia e la spada,
disgrazie, fame, tribolazioni, calamità... (Eocli 40, 1-9)
26 II tema dell’« umiltà » ritorna nel Siracide nei contesti più diversi, cfr. 1, 27; 3, 17 s. 20;
4, 8; 7, 17; 10, 14; 13, 20; 18, 21; 45, 4. Al problema del cambiamento sopraggiunto nella sapienza,
della concentrazione sull'aspetto religioso, non si può rispondere che dopo uno studio sulla situa
zione spirituale e religiosa nell’Israele postesilico. Pare certo che questo cambiamento non può
risalire da un influsso immediato della Torah. Le nozioni centrali della religione nel Siracide (timore
di Dio, umiltà) non si spiegano con la Torah. Si può parlare piuttosto dell’influsso di alcune cor
renti religiose dell’Israele tardivo la cui pietà influiva sui maestri di sapienza. Si tratterebbe della
pietà dei sedicenti 'anàzvint. Cfr. R. Martin-Achard, Yahvé et les ranàwtm , in ThZ 21, 1965, 349 ss.
Nell’affermazione di D. Michaelis: « Ogni testimonianza di una immediata esperienza di Dio è as
sente nel Siracide », in ThLZ 83, 1958 , 606, il Siracide è completamente frainteso.
Eccli 2. 1-18; 4, 11-18.
XIII. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 233
colui che teme Dio e gli dona il suo cuore, è l'uomo come lo vuole
Dio28. A lui solo si aprono le fonti della sapienza e della conoscenza.
Questa è dunque la ferma convinzione del Siracide, cioè che la fede
è anche un fattore formativo. Il timor di Dio è capace di fare del
l'uomo qualche cosa. Esso favorisce luomo in ciò che riguarda la sua
conoscenza del mondo e il suo comportamento nei confronti degli altri
uomini. Esso lo forma, lo protegge e lo stimola. Lapidariamente: « Chi
cerca Dio riceve un'istruzione» ( musar, raxiSeia 32, 14).
Bisogna ancora dire che nel Siracide, molto più fortemente che nel
l'antico Israele, il modello umano e gli insegnamenti culturali hanno
un carattere assai esclusivo dal punto di vista sociale. Il Siracide sa
perfettamente che questa cultura, questa formazione non è ugualmente
accessibile a tutte le professioni e a tutte le condizioni (38, 24-34) 29.
È un letterato e forma gli uomini a sua immagine. Si rivolge, tra i
giovani, agli intellettuali, il che alla sua epoca vuol dire: agli uomini
che hanno accesso ai libri e per i quali la letteratura occupa un posto
centrale nella vita. Lo slancio del desiderio di conoscenza propria
mente detto, con tutti i rischi che comporta, si è intiepidito rispetto
alla sapienza precedente. Al suo posto appare sempre più un allarga
mento della cultura e un erudizione letteraria. Questa formazione del
l'uomo non manca, in qualche caso, di essere quasi cosmopolita! Il
Siracide mostra come lo sforzo culturale è interamente fondato sulla
religione nel bel ritratto da lui abbozzato di un maestro di cultura.
Anche gli antichi maestri hanno naturalmente frequentato i libri, ma
l'attività letteraria è diventata ora molto più ampia. Essa include
anche la riflessione sulla Torah e lo studio degli scritti profetici.
1. Differente è il caso di chi si applica
e medita la legge deirAltissimo.
Egli indaga la sapienza di tutti gli antichi,
si dedica allo studio delle profezie.
2. Conserva i detti degli uomini famosi,
penetra le sottigliezze delle parabole,
3. indaga il senso recondito dei proverbi
e s'occupa degli enigmi delle parabole.
4. Svolge il suo compito fra i grandi,
è presente alle riunioni dei capi,
viaggia fra genti straniere,
investigando il bene e il male in mezzo agli uomini.
5. Di buon mattino rivolge il cuore
28 J. Haspecker, op. c it., 209 ss. Con questa tendenza alla religiosità si spiega l'inserzione di
modelli particolareggiati di preghiere nell 'insegnamento (26,1-6; 33 [36], l-13a; 36,16&-22; 42,15 -
43, 33; 51,1-12). Il paragrafo sui doveri cultuali 31 134], 21 - 32 [35], 20 è oltremodo interessante.
È senza dubbio curioso che un m aestro di sapienza si esprima in sentenze circa il sacrificio, il
digiuno, l’impurità rituale, ecc. Il Siracide s'interessa molto alle condizioni personali, soprat
tu tto morali, che egli considera come condizione preliminare ad ogni atto corretto di culto.
Non si devono offrire sacrifìci di beni male acquistati, di beni dei poveri ad esempio (31 [34],
21. 24; 32 [35], 14). Si deve presentare la propria offerta non in modo gretto, ma con gioia (32
[35], 10-12). È evidente com'è limitato il punto di vista con cui il Siracide affronta le istituzioni
cultuali. Per lui tutto si restringe all’aspetto morale o spirituale: « Mostrarsi caritatevole, è fare
u n ’offerta di fior di farina; fare l'elemosina è un sacrificio di lode » (32 [35], 2). Il Siracide non
ha letto questo nella Torah! Egli si avvicina piuttosto ad alcune concezioni dei salmi.
79 Eccli 7, 15 si esprime in altro modo.
*34 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II I
1 Vedi p. 207 s.
2 Cfr. S. Morenz, Goti und Mensch ini altea À g yp ten (1963), 65 . 84.
3 La tavola di O. Loretz (op. cit., 168) calcola in Qohelet q u a ra n ta passi con la parola 'et, ven-
lo tto dei quali provenienti dal testo Eccle 2-&.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEMPI 237
occhi di Dio vedono tutto; « ogni cosa gli è nota prima che avvenga,
ed egli la vede prima che giunga a compimento » (Eccli 23, 20) \ L'an
gelo Raffaele poteva così dire al giovane Tobia che Sara « gli era de
stinata fin dall’origine » (letteralmente: « preparata », Tob 6, 18). Dio
vede perciò gli avvenimenti due volte: dapprima nella loro predeter
minazione originale, poi una seconda volta quando entrano nella sto
ria « a loro tempo ». Ma l'essenziale è che « tutte le opere di Dio sono
buone a loro tempo » (qui si trova quasi parola per parola la stessa
confessione che abbiamo trovato prima in Qohelet: « Tutto ciò ch’egli
ha fatto è buono a suo tempo », Eccle 3, Ila). Non si può considerare
una cosa peggiore dell'altra, « poiché tutto, a suo tempo, sarà ricono
sciuto buono » (Eccli 39, 33 s.).
L’intenzione di questa tesi è, in ultima analisi, non teorica o teolo
gica, ma deliberatamente pastorale. Essa si rivolge a uomini che non
giungono ad orientarsi nella confusione degli avvenimenti5. Il maestro
concede loro che è praticamente impossibile all’uomo apprezzare nel
loro fondamento, secondo una scala oggettiva di valori, gli avvenimen
ti. Li si può apprezzare — profonda sapienza! — solo in funzione del
l’istante che Dio ha fissato loro. Quindi — ed in ciò consiste l’inse
gnamento — le largizioni di Dio sono buone e giuste a loro tempo.
Quanto si è modificata la problematica rispetto alle epoche più anti
che! Ai maestri precedenti interessava condurre gli uomini a osser
vare, nei limiti del possibile, i « tempi favorevoli » e far progredire
in virtù di essi la volontà di vivere. Ma qui il maestro affronta una
crisi che i tempi fissati preparano, e distribuisce consolazione. Ma se
è la consolazione che il maestro vuole dispensare, si comprende ch’egli
non veda alcun motivo per affrontare i problemi che ha evocato nel
suo insegnamento. Naturalmente, a noi s’impone subito il problema
della libertà della volontà. Non era forse messa in questione? È note
vole il fatto che Israele, che la sapeva così lunga sull’azione sovrana
di Dio verso l’uomo, non si è lasciato turbare da questo problema.
Anche nei casi estremi, egli non ha messo in dubbio la responsabilità
dell'uomo nelle sue decisioni e nelle sue azioni. Una volta, tuttavia, il
Siracide considera la possibilità che si possano trarre false conclusioni
dalla sua concezione fondamentale di carattere determinista:
Non dire: È il Signore che mi ha fatto peccare,
poiché egli non fa ciò che ha in orrore.
Non dire: È lui che mi ha traviato,
poiché non ha bisogno di un peccatore.
Jahve odia ciò che è male e abominevole,
e non permette che ciò sopravvenga a coloro che lo temono.
Dio, all’inizio, ha creato l’uomo
e gli ha dato il potere di pensare.
Se lo vuoi, tu puoi osservare i comandamenti,
4 Bisognerebbe forse citare anche E cd i 42, 18: « ... poiché l ’Altissimo possiede ogni scienza, egli
ha considerato i segni dei tempi ». M a la traduzione i incerta.
» Vedi p. 225 ss.
16. von rad. la sapicu/a io ismelc
238 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I
8 Anche i testi tard iv i conservano la possibilità della libera scelta dell'uom o, cfr. Enoc 98,4;
Giub. 30, 19 ss.; IV E sd ra 8, 55 s.; Bar. sir. 85, 2.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI T E M P I 239
7 In m odo altrettan to stringato E noc 41,8: Dio ha separato gli spiriti degli uom ini (tra
luce e tenebre).
• P. W inter, B en Sira and th e Teachin g of the « Tw o W ays », in VT 5, 1955, 315 ss.
240 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
g Così ad esempio IV E sd 7, 74: Dio ha usato pazienza verso gli uomini, « non a causa vostra,
m a perché i tem pi erano d a lui fissati ».
10 « Nell'economia divina regna il grande principio: tu tto h a il suo tem po e la sua misura...
d al punto di vista dello spazio e del tempo; tu tto h a il suo giorno, la su a ora fissata, la sua
d u rata, anche gli atti escatologici, anche la fine. Ciò fa p arte d e ll’inventario dell'apocalittica * (P.
Volz, Die E schaiologie d e r jiid isch en G em einde im n e u testa m en tlich en Z e ita lter (1934), 138).
n Si possono vedere i particolari di questa « teologia della parola » in G . von Rad, Teologia
dell*A ntico T esta m en to , vol. I. Brescia 1972, 379 ss.; vol. II, B rescia 1974. 104 ss.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEMPI 241
12 T est. A sser 7; cfr. anche T est. Levi 5. Circa la datazione dei « Testam enti cfr. E. Bicker-
m an, Th e d a te o j the T esta m en ts o f the T w elve P a tria rch s, in JBL 69, 1950, 245 ss.
242 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
13 Testo più sopra, p. 239. Paolo stesso ne parla (Rom 9,11): tra Giacobbe ed Esaù le sorti
erano decise da una libera scelta di Dio molto prima della loro nascita.
14 Si tra tta soprattutto di Enoc 85-90 (visione degli animali), Enoc 93, 3-10; 91, 12-17
(apocalisse delle dieci settimane). Ass. Mosè 2 - 10; IV Esd. 3, 4-27; Apoc. di Baruc 53-74 (visione
delle nubi).
^ Enoc 93. 1 s.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TE M PI 243
16 D. Ròssler, Gesetz und Geschichte. Vntersuchungen zur Theologie der jiidischen Apokalyptìk
und der pharisaischen Orthodoxie (I960), 63 ss.
17 Dan 1, 13; Enoc 90,29 ss.; IV Esd. 8,52; 10,54; 13,36; 14,9; Ajoc. Baruc 59, 4-11. La
nuova Gerusalemme, preparata fin dalle origini, è stata già mostrata ad Adamo; Apoc. Baruc 4, >.
LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
ia IV Esd 3, 4-27; cfr. G. Reese, Die Geschichte Israels in der Auffassung des friihen Judentums
(tesi dattiloscritta della facoltà di Heidelberg). 1967, 131.
19 G. Reese. op. cit., 86. 149.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEM PI 245
20 A questo proposito cfr. recentemente W. Harnisch, Verhangnis und Verheissung der Geschi-
chte. Untersuchungen zum Zeit- und Geschichtsverstàndnis im 4. Buch Esra und in der Syr. Baru-
chapokalypse (1969). Per il nostro discorso è importante la seconda parte del libro: « La dottrina
della necessità del processo storico (il determinismo apocalittico) », 248 ss. « Le “apocalissi stori
che" hanno interamente la funzione di prova nel IV di Esdra e nel Baruc siriaco. Con esse, è
fornita la prova della coerenza della storia ed è esaltata l'idea della prossimità della fine » (op.
cit., 265).
246 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III
più semplice: una concezione della storia è nata nel momento in cui
nessuno più rende grazie per le prove salvifiche di Dio nella storia.
Unico motivo di lode è la previsione della fine apocalittica21. Il senso
della portata degl'interventi passati di Dio per il presente sta per
scomparire. La storia è diventata materia di erudizione che si deve
ricordare per l'insegnamento, ma soprattutto per determinare corret
tamente l'ora che si sta vivendo.
L’uso assoluto della parola « fine » (kés) non permette altra conclu
sione che questa: il Siracide ha conosciuto e condiviso la speranza di
un compimento della storia. Tobit dice cose simili in previsione del
futuro in cui il Tempio sarà ricostruito (Tob 14, 5)24. Non si può quin
di paragonare il Siracide con le grandi apocalissi, perché si tratta di
opere che perseguono un ben diverso scopo letterario. Sono rami del
la conoscenza del tutto differenti che vengono sviluppati da una parte
e dall’altra. Si deve certamente tener conto di uno sviluppo intellet
tuale e spirituale tra l’epoca del Siracide e quella delle apocalissi;
forse giustamente nel campo delle idee escatologiche. Incontriamo ora
la forma letteraria del discorso-testamento nella quale vengono pubbli
cizzate conoscenze che erano finora segrete. Vi è l’idea delle ere del
mondo e di un giudizio finale che chiude le ere del mondo non come
un avvenimento guerresco, ma come un atto giudiziario solenne. Vi
sono idee cosmologiche largamente sviluppate, altre che riguardano
22 L'idea di una « translatio imperii » divina ha una preistoria interessante nell’A. T. K. Baltzer
ha insistito sul profondo cambiamento verificatosi nell’idea messianica con la fine dello Stato di
Giuda. (Dos Ende des Staates Juda und die Messias-Frage, in Studien zur Theologie der alttesta-
mentlichen Vberlieferungen (1961), 33 ss.). In Geremia, nel Deuteroisaia e nell'opera storica del
Cronista, quest'idea passa in primo piano: Jahve ha affidato a Nabucodonosor la sovranità mondiale
(Ger 27, 5 ss.); egli ha suscitato lo spirito di Ciro (2 Cron 36, 22), e lo ha pure legittimato come
suo Unto donandogli la sovranità (Is 45, 1 ss.). D’un tratto appare qui l ’idea che Jahve investe
della sovranità universale a un dato momento un grande re. Ci si può domandare se q u est’idea è
« apparsa * a quest'epoca. Tra l’idea degli imperi che si decompongono e la dottrina dei periodi
del mondo (Esiodo) originariamente non esistono rapporti. Il fatto che si trovino mescolate in
Dan 2 e 7 è un problema della storia delle tradizioni a parte.
23 Contro Ph. Vielhauer, Neutestamentliche Apokryphen, vol. II, 1964, 420. Vielhauer pensa che,
nell’apocalittica, l’escatologia è fondamentale, essendo accessori gli elementi della sapienza. Prese
individualmente le apocalissi possono dare quest'impressione; dal punto di vista della storia delle
tradizioni, le cose sono verosimilmente inverse: il sapienziale è l ’elemento fondamentale.
* La frase di Tob 14,5 dice: hios pterothòsin kairòi tu aiònos (BA) hèos tu chròrtu hu an
plerothè ho chronos ton kairòn (S). Cfr. a questo proposito B. Feicke, in RGG3, vol. I li alla voce:
Iranische Religion, Judentum und Urchristentum, 881 ss.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEM PI 249
CONCLUSIONI
È possibile dire ancora qualcosa di conclusivo senza pregiudicare
la quantità delle materie affrontate e la diversità dei problemi posti?
Bisognerebbe innanzitutto giustificare il posto a parte assegnato ai
testi sapienziali e che è il punto di partenza, apparentemente poco cri
tico, delle nostre ricerche. Il nostro studio si è limitato al gruppo di
scritti didattici che tradizionalmente vengono designati come sapien
ziali. Il nostro problema non era di sapere se il cerchio degli scritti
sapienziali dev'essere allargato, se la nozione di « sapienza » dev'essere
estesa in questa o quella direzione. Nel caso in cui decidiamo di affron
tare seriamente e in una forma nuova questo problema, pensiamo che
si può rispondervi correttamente solo se si comprende meglio il modo
di pensare, la problematica particolare e le conoscenze della sapienza
che si presentano direttamente come didattiche. Disgraziatamente tutto
concorre a convincerci che i « libri sapienziali » ammessi nell'A.T. de
vono essere considerati solo come una piccola parte della produzione
didattica d'Israele. L'Ecclesiaste dice di se stesso: « Ho cercato di inve
stigare accuratamente con la sapienza tutto ciò che avviene sotto il
cielo » (1, 13). Egli ha esposto soltanto una piccola parte di questi studi
e si può dire altrettanto per molti altri maestri di sapienza. Si deve
quindi ammettere che è soltanto una certa parte di libri didattici,
soprattutto quelli che si rivolgevano a una cerchia di lettori più gene
rale — quella che vien chiamata « sapienza di vita » — che si è con
servata attraverso i secoli. A quale fonte può dunque aver attinto il
poeta del discorso di Dio in Giob 38 s., per poter sviluppare una « scien
za naturale » così multiforme? Egli ha dovuto disporre di un materiale
letterario molto ricco. Giobbe e il Siracide si sono sicuramente serviti
di testi « onomastici », nessuno dei quali ci è giunto. Alcune regole
d'interpretazione dell'awenire — quindi la scienza dei sogni premoni
tori — non appartenevano forse alla competenza dei saggi? L'apocalit
tica che ne è immediatamente seguita non ha fatto sorgere dal nulla
questi materiali e parecchi altri. Nel libro della Sapienza il Salomone
256 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV
Nella prima metà del testo, si riconoscono senza fatica sotto lo stile
ellenizzante i temi dell'antica sapienza pratica, l’educazione alla mode
razione, alla perspicacia, alla rettitudine, ecc. Ma poi sono indicati dei
campi di conoscenza come la scienza dei segni premonitori, l'interpre
tazione del futuro, che probabilmente non sono diventati competenza
dei maestri solo in un'epoca tardiva
Siamo quindi obbligati a considerare l’ambito delle scienze prati
cate in Israele come notevolmente maggiore, pur senza potere, in man
canza di documenti, determinarlo più precisamente. Non è verosimile
che la filologia, coltivata da tempi remoti in Babilonia, abbia avuto
anche in Israele un posto preminente e la menzione di un paio di
costellazioni non permette di concludere che ci si occupasse seriamente
di astronomia. Alcune liste di animali come pure la descrizione precisa
di animali esotici tradiscono un interesse zoologico. Si dovrebbe collo
care la tavola delle nazioni (Gen 10) nella categoria della geografia
politica. Qui Israele presenta dei risultati sorprendenti: la nomencla
tura genealogica dell’universo delle nazioni secondo la loro apparizione
storica è un fatto unico, molto al di là dell'antico Oriente. Il fatto che
la tavola delle nazioni si presenti a noi in una redazione antica (jahvi-
sta) e più recente (sacerdotale) permette di risalire a tutta una tradi
zione di lavoro scientifico di cui solo i risultati sono giunti fino a noi.
Quel che non sappiamo, è se questo lavoro spettava ai saggi. Ma ci
si può domandare seriamente se la « scienza storica » coltivata in
Israele su una base molto estesa, come si sa, non dovrebbe prender
posto in questo catalogo. Tuttavia, qualunque cosa si faccia per cor
reggere la nozione scolorita di « sapienza » diventa ormai soltanto
un'etichetta formale, si fanno avanti un certo numero di obiezioni,
di cui ora parleremo.
I.
Israele, come tutti i popoli, era in cerca della « regola logica »2.
« Regola » significa qualcosa di valore permanente, su cui si può con
tare; « logica » significa che questa regola è universalmente evidente
e può essere immediatamente confermata e controllata dalla ragione.
Tuttavia è nella natura delle cose che questa validità e questa evidenza
non siano assolute, non escludano in anticipo ogni possibilità di discus
sione, non vietino opinioni contrarie, in breve che la regola possa essere
modificata o finalmente sostituita da una migliore. Ci troviamo così
posti di fronte ad una prima definizione della natura della sapienza,
a dire il vero ancora molto generale. Di tutti i testi di cui abbiamo
dovuto occuparci, si può dire che sono in cerca di questa regola
logica o meditano su di essa.
Con questa definizione, una profonda separazione verrebbe stabilita
tra gli sforzi di conoscenza dei maestri di sapienza da una parte e
quella dei narratori e teologi della storia dall'altra. A giusto titolo d'al
tronde, poiché l’attività intellettuale dei due gruppi è totalmente di
versa e gli oggetti da loro studiati altrettano diversi. In un caso,
l’uomo ebreo passava in rassegna il quadro della propria vita partendo
da regole solide e raccoglieva quel che si può esprimere in leggi.
Nell’altro caso, egli incontrava decreti storici irreversibili di Jahve che
non si lasciavano sottoporre a regole e che apparivano a tutta prima
sotto il segno deH’avvenimento che ha luogo una sola volta. Nel primo
caso, si trattava di constatare una validità atemporale, esperienze
umane generali; nel secondo, si aveva a che fare con avvenimenti che
avvaloravano dei dati politici e cultuali unici nel loro genere. Vi era
anche un’altra differenza: da un lato, la ragione in cerca di regole
si dilatava nella conoscenza del mondo che circonda l’uomo e nella
ricerca di una signoria della vita; dall’altro lato, nelle circostanze della
storia come Israele se la rappresentava, l’iniziativa rimaneva a Jahve.
Con i suoi interventi salvifici (alleanza con i padri, esodo, alleanza del
Sinai, alleanza con Davide, ecc.), egli aveva colto di sorpresa gli uomini
e, nel suo modo di guidarli, essi erano oggetto di prove ch’egli imponeva
loro. È chiaro che anche nella conoscenza storica d’Israele la ragione
era attiva nel porre questioni e nell’elaborare soluzioni. Caratteristica
della sua attività, è che essa si è sempre meno accontentata di dipin
gere particolari episodici e aneddotici, fatti isolati, e che ha aspirato
con un'audacia crescente ad abbracciare periodi storici sempre più
vasti. Nessuno degli innumerevoli racconti particolari che riferiscono
un avvenimento (tratto dal quadro) in cui l’uomo entra in rapporto
con Dio rimane isolato in se stesso. Tutti vanno intesi come gli elementi
3 Nessuno ha contestato che anche i popoli vicini ad Israele abbiano percepito interventi degli
dei nella storia. Ma vi era in essi questo bisogno tenace di giungere alla conoscenza di una
continuità storica di vaste proporzioni? Nessuno può sostenere che questi popoli si sono sentiti
costretti a legittimare la loro esistenza e le loro relazioni con la divinità in abbozzi storici sempre
nuovi e sempre più ambiziosi. Quest’aspetto così importante del pensiero storico d'Israele non
appare in B. Albrektson, History and the Gods (1967). Invano vi si cerca la rilevanza specifica-
m ente teologica della storia. Non si afferra perché questa presentazione della storia elaborata
da Israele in tentativi sempre rinnovati non sarebbe una « nozione obbligatoria » per lo specialista
della Bibbia, se vuole comprendere come si è prodotta la « rivelazione » d ’Israele (contro J. Barr,
Alt und Neu in der biblischen Vberlieferung, 1967, 62).
4 H. Gese, Geschichtliches Denken im al ten Orient und im Alteri Testament, in ZThK 55. 1958.
127 ss., soprattutto 136.
CONCLUSIONI *59
narrative più antiche5. « Sapienza » non designerebbe una forma lette
raria precisa del discorso e del pensiero: è perfettamente giusto. Ma se
prendiamo sul serio la sapienza nel suo modo specifico di pensare,
diventa difficile associarvi le « opere storiche » precedenti, poiché esten
dendo in tal modo il concetto, non giungeremmo ugualmente a una
forma definitiva di pensiero comune. Come abbiamo già mostrato, gli
sforzi di conoscenza dei maestri e la loro produzione letteraria sono
stati così specifici che siamo nel giusto considerarli un fenomeno a sé.
Altrimenti, dove si potrebbe ancora tracciare una linea di demarca
zione? Certo, è vero che alcune nozioni sapienziali si sono disseminate
lontano e che se ne incontra occasionalmente nelle narrazioni storiche.
Non vi è in ciò nulla di sorprendente, poiché quest'insegnamento non
proveniva affatto da qualche dottrina segreta, ma era diventato il frutto
comune di una cultura. Più che altrove, questo pensiero appare nel rac
conto della successione al trono di Davide che è certamente stato
scritto da un uomo della corte di Salomone. Ma malgrado tutto, la
problematica religiosa e gli obiettivi a cui tendono queste opere son
ben diversi. Precisiamo la diversità solo su due punti:
1. L'insegnamento sapienziale aveva bisogno di una legittimazione.
Colui che insegnava la otteneva talora riferendosi alla tradizione con
cui era in accordo. Lo stesso avveniva con un riferimento all'ordine
primordiale di cui i maestri ritrasmettevano l'invito perché esso ne
aveva dato loro il potere. Ben inteso, il riferimento a Jahve stesso era
ancor più efficace. Uomini come Eliphaz ed Elihu si sono riferiti in
modo cerimonioso all'origine divina del loro insegnamento. Così fa
cendo, essi si appoggiavano su idee profetiche. Un solo fatto è interes
sante a questo riguardo: essi sentivano la necessità di offrire una
garanzia. Anche la formula che serve di programma all'inizio del libro
dei Proverbi, e cioè che il timore di Jahve è l'inizio della sapienza,
è a suo modo una legittimazione delle istruzioni particolari che se
guono. Si poteva presentarle solo all'interno della conoscenza di Jahve.
A questo proposito come stanno invece le cose nelle grandi e nelle
piccole opere narrative? Non vediamo da nessuna parte che un narra
tore faccia il minimo tentativo per giustificarsi. È un fatto ugualmente
curioso, poiché le tradizioni che all'occorrenza erano esposte avevano
un'importanza immensa per Israele. Ma è evidente che quel che veniva
raccontato, la tradizione attualizzata, possedeva in proprio un'evidenza
che rendeva inutile ogni legittimazione fornita dal narratore.
2. Nei capitoli precedenti si è spesso parlato della ricerca ragionata
delle regole e della valutazione didattica di tutte le esperienze che sono
state fatte riguardo alle direttive di Dio. Ma abbiamo anche visto con
qual attenzione i maestri notavano i limiti imposti alla loro sete di
conoscere. Il mondo che essi si sforzavano di conoscere era racchiuso
5 In particolare da J. L. McKenzie, Reflections on Wisdom, in JBL 86, 1967, 1 ss.; J. Barr,
op. cit., 69 ss.
2Ó0 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV
nel grande mistero di Dio. Era un mondo nel quale si riconosceva che
« è gloria di Dio il nascondere le cose agli uomini » (Prov 25, 2), un
mondo in cui Dio compiva azioni immense ed imperscrutabili, mera
viglie senza numero.
A lui appartengono il potere e il terrore:
egli fa regnare la pace nell’alto dei cieli.
Si possono contare le sue schiere,
e sopra di chi non sorge la sua luce? (Giob 25, 2-3)
Sì, Dio è così grande che supera la nostra scienza,
e il numero dei suoi anni rimane incalcolabile.
È lui che trattiene le gocce d'acqua,
e fonde in pioggia i suoi vapori;
le nubi la scaricano,
la fanno scorrere sulla folla umana...
Chi comprenderà ancora il cammino delle nubi,
il rumoreggiare cupo del tuono che viene dalla sua tenda...?
Dio tuona in modo meraviglioso con la sua voce, (Giob 36,26-29)
compie opere grandiose che ci superano...
Ascolta questo, Giobbe; soffermati
e rifletti alle meraviglie di Dio!
Sai tu come Dio comanda loro
e come la sua nube faccia balenare il lampo?
Sai tu come sospende >le nubi in equilibrio,
prodigio di una scienza perfetta?
Tu, i cui vestiti si scaldano
quando la terra riposa immobile sotto il vento del sud,...
insegnami che cosa dovremo rispondergli,
noi che non connettiamo per le tenebre.
...Lui, TOnnipotente, non possiamo raggiungerlo,
supremo per la forza e l'equità! (Giob 37, 5. 14-17. 19. 23)
6 Nella letteratura didattica più recente, non si può citare alcuna parola privilegiata per tra
durre l ’idea di « mistero ». La cosa in questione viene rappresentata, come si è detto sovente,
ma non è definita concettualmente. Solo nel Siracide il concetto di « nascosto * prende una certa
densità (nistirdt 4, 18; 42, 19; 48, 25. Cfr. anche Eccli 3, 21-24 e Deut 29, 28). Il saggio riflette
sui « m isteri », secondo Eccli 39, 7. R. E. Brown, The Semitic Background of the Term Mystery
in the New Testament (1968), 8 ss. Per il mistero escatologico viene usata nel libro di Daniele
la parola persiana ras.
Rimangono molti misteri più grandi di questi,
non abbiamo visto infatti che un piccolo numero delle sue opere.
(Eccli 43, 32)
Ripetiamo qui la domanda: dove mai uno dei narratori dei racconti
storici ci fa intravedere qualcosa di quest'aspetto della comprensione
del mondo? dove mai dice che una zona immensa del mistero divino
circonda i fatti narrati, dove lascia capire ch'egli si muove, come narra
tore, nel campo di ciò che può essere spiegato, poi nuovamente del-
l'inspiegabile? dove ci fa intuire che ha tenuto conto della possibilità
di ingannarsi circa il suo oggetto? Gli avvenimenti si situano nella luce
della comprensione umana, limpidi come l'acqua di sorgente, netti nei
contorni. I fatti riferiti non appaiono mai come elementi di un governo
divino che si perde costantemente nel mistero. Bisogna concludere
che i saggi pensavano diversamente dagli « storici » a proposito delle
possibilità di conoscere l'oggetto della loro investigazione. Per essi,
questi oggetti erano lungi dall'essere evidenti. Quando si trattava di
valutare il processo generale degli avvenimenti nel mondo, l'incognito
di Dio era molto più costringente, il margine delle possibilità d'inter
pretazione molto più vasto, cosicché la dimensione del mistero pren
deva un'importanza teologica molto maggiore8.
Tutto ciò ribadisce la nostra idea, che sia necessario separare gli
sforzi di conoscenza dei saggi da quelli dei narratori dei fatti della
storia d'Israele9. Dobbiamo accontentarci di ammettere che gli sforzi
7 Questa traduzione si avvicina il più possibile al testo ebraico. Ma sono molti coloro che
dubitano della sua autenticità e la correggono; cfr. G. Sauer, Die Spriiche Agurs (1963), 97 ss.
■ Anche su questo punto, l'apocalittica tradisce il suo radicamento nella sapienza. Essa non
può accontentarsi di esporre i misteri divini.
9 Che ne è quindi dello Jahvista che costantemente viene posto in prossimità degli ambienti
della «sapienza» (da ultimo, H.-J. Hermisson, op. cit., 126 s. 133)? Nella sua opera si trovano
senza dubbio parecchie caratteristiche dell'insegnamento sapienziale: tra le altre la sua visione
razionale del mondo umano, il suo interesse per la psicologia, la sua distanza dal mondo cul
tuale. Occorre tuttavia ricordare che l ’atmosfera liberale dell'ambiente di corte di Salomone non
può affatto essere considerata come un semplice prodotto della sapienza. Diversi fattori entrano
in gioco; abbiamo quindi a che fare con tendenze che, tra l'altro, possono aver influito anche
sulla sapienza. Per quanto riguarda il « kerygma » dello Jahvista, in particolare le sue allusioni
all'opera di benedizione che Jahve prepara da tempo nella storia d'Israele, non vi è alcun punto
in comune con la sapienza (H. W. Wolff, Das Kerygma des Jahwisten, in Gesammelte Studien
1964, 345 ss.). La domanda: « In quale misura e a proposito di che cosa si possono percepire
influenze sapienziali (in Gen 2 s., ad esempio)? », è meglio porla a qualche materiale riordinato
dallo jahvista; vi è però altro materiale per il quale, la domanda non si pone. Come si pre-
2Ó2 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV
II.
sentano attualmente le cose, è utile sottolineare con maggior forza le differenze che i punti co
muni. Il cosiddetto cantico di Mosè, Deut 32, con la sua retrospettiva sulla storia delle nazioni,
è una singolare mescolanza. Inizia con un invito che introduce l'insegnamento e chiama Israele un
popolo insensato e senza sapienza (w . 6. 29); ciò corrisponderebbe al vocabolario sapienziale. Tut
tavia non è il caso, poiché questo poema si rivolge al popolo, nel suo insieme il che non è sa
pienziale; il grido inaugurale non è rivolto ad uditori umani, ma al cielo e alla terra; al popolo
invece (vv. 37 ss.) viene presentata la prospettiva di un giudizio distruttore (nello stile di un
discorso divino). T utto questo, e soprattutto la descrizione della storia come testimonianza del
l'infedeltà d’Israele, proviene chiaramente da una tradizione profetica. Proprio a causa di que-
st'innegabile influenza profetica, è insostenibile il tentativo di porre la datazione di questo canto
in un'epoca antica (x sec.l), come ha fatto W. Beyerlin nella Tradition und Situation, in
c Festschrift fiir A. Weiser », 1963 17 ss. Così Deut 32 non è neppure una prova che i maestri si
sono occupati di materie storiche.
10 K. von Fritz, Der gemeinsame Vrsprung der Geschichtsschreibung und der exakten Wissens-
chaften bei den Griechen, in « Philosophia naturalis » 2, 1952, 200. In Israele, il riconoscimento di
punti di partenza comuni doveva essere ancor più difficile.
CONCLUSIONI 263
3. Per l'esegeta moderno, la visione della realtà in cui egli vive urta
in modo quasi insopportabile con quella che gli si presenta nelle dot
trine antiche. Egli cerca senza posa di liberarsi da questo imbarazzo
con qualche forma di critica. E questa critica tende in genere a rim
proverare in modo particolare alla sapienza recente d'aver fatto subire
a tutta la realtà le costrizioni della ragione ,s. Giudizi di questo genere
non vanno molto lontano, finché colui che li pronuncia non sottopone
a critica la propria concezione della realtà, dato che anch essa può
sollevare obiezioni (a volte identiche!). Ma il problema è grave, poiché
è fuori di dubbio che uno dei più grandi ostacoli che un'intelligenza
corretta dei nostri testi incontra, risiede nell'atteggiamento assoluto,
privo di spirito critico, della nostra concezione popolare moderna della
realtà. Bisogna esercitare la massima prudenza nell'uso della nozione
di « realtà », poiché Israele era affascinato da realtà molto precise
che sono scomparse dal campo di visione del nostro tempo e faceva di
conseguenza entrare nel campo della realtà altre modalità, altre forme
di avvenimenti. La caratteristica principale del suo modo di vedere
la realtà consisteva nel concepire l'uomo posto in una relazione parti
colare, esistenziale e dinamica, col mondo che lo circonda. L'uomo — si
trattava sempre dell'individuo — si sapeva inserito in una rete di re
lazioni le più diverse con l'esterno e vi si sentiva a volte soggetto, a
volte oggetto. Se abbiamo parlato in questo o in quel punto dell'inizia
tiva della volontà di conoscere d'Israele nei confronti degli oggetti del
suo ambiente, questo non era che un aspetto del problema. Si potrebbe
anche opportunamente dire che la sua volontà di conoscere era la ri
sposta ad una provocazione, che essa veniva in seguito, costretta co
m'era a prendere posizione di fronte a relazioni, a movimenti del
mondo circostante che erano più potenti dell'uomo. L'uomo era in pari
tempo l'oggetto di movimenti che, venendo da altri uomini o cose, gli
si imponevano. Ma questi movimenti del mondo circostante — sta qui
l'essenziale — non avvenivano in uno spazio esterno senza interrela
zioni, secondo una legge estranea, ma si presentavano all'uomo molto
personalmente, con una mobilità infinita; essi corrispondevano al suo
comportamento fin nella profondità dei campi che noi chiamiamo « na
turali ». Erano pronti ad accogliere l'uomo nell'infinita molteplicità
delle loro forme. Quel che ti capita ti è sempre commisurato! Chi ha
messo ordine nelle sue relazioni con Dio « avrà egli pure un patto
sione in cui può esprimersi. Spesso sarà impossibile dargli un solo senso, perché non potrà essere
compreso da un solo punto di vista. Non mi sembra possibile m ostrare la frattura, il progresso
verso una sapienza dogmatica secondaria che Schmid tenta di individuare (op. cit., 155 ss.) all'in-
tem o del gruppo di sentenze di Prov 10-29. Non si potrebbe vedere nella « teologizzazione » della
sapienza, nello sforzo per riportare la vita individuale e i movimenti dell’ambiente al centro del
campo d ’azione di Jahve, un nuovo slancio verso una nuova forma d'insegnamento legato all'esi
stenza? Ciò che è immutabilmente specifico dell'insegnamento israelitico, ciò che abbiamo incon
trato ad ogni passo e che è radicato fin dall'inizio nel pensiero di Israele, appare in maniera
troppo insufficiente nel libro di Schmid. Egli dice giustamente che la comprensione elaborata dalla
sapienza egizia non può essere fondata senza modifiche nella sapienza israelitica (op. cit., 198); ma
l'idea fondamentale dei due « strati », è là ch'egli l'ha trovata (op. cit., 79 s. e spesso).
18 W. Zimmerli, in ZAW 51, 1933, 204; H. H. Schmid, op. cit., 197.
268 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV
con le pietre dei campi * e sarà l'amico delle bestie della terra (Giob
5, 20 ss.). Il mondo circostante non è soltanto l’oggetto della volontà
umana di conoscere. Nella misura in cui il mondo si volge verso di
lui, sarà l'uomo l'oggetto della proiezione del mondo su di lui. Si ricor
dino i magnifici poemi sulla fine dell’uomo violento w. Di colpo, tutti gli
elementi del suo ambiente si ergono contro di lui per distruggerlo.
« I cieli svelano la sua iniquità e la terra si erge contro di lui » (Giob
20, 27). Inversamente: se Dio si compiace di un uomo, riconcilia anche
i suoi nemici con lui (Prov 16, 7). Nessuno ha formulato quest'espe
rienza dell'accoglienza benevola del mondo circostante con maggiore
ampiezza e precisione di Paolo: « Noi sappiamo che ogni cosa concorre
al bene di coloro che amano Dio » (sunerghèi, Rom 8,28). Gli antichi
ben sapevano che quest'accoglienza, questo concorso di « ogni cosa »
poteva assumere per l’uomo le forme più complicate. Si erano fatte
anche esperienze inquietanti a proposito di questa sapienza universale,
attiva nei riguardi dell'uomo, che precedentemente abbiamo chiamato
ordine primordiale:
Essa si accosta dapprima a lui sotto mentite spoglie,
fa venire su di lui timore e tremore,
lo tormenta con la sua disciplina
finché possa dargli fiducia,
e lo prova con le sue esigenze(?).
Ma poi ritorna a lui sveltam ente e lo rallegra
e gli scopre i suoi segreti. (Eccli 4, 17-18)
moderno della realtà, vedrà buona parte dei loro discorsi sotto una
luce deformata, come postulati bizzarri e stupidi. Ora questi non erano
postulati, ma affermazioni nate dall’esperienza “. Ben inteso, ciò non
garantiva che l’esperienza sarebbe stata la stessa per tutti e sempre
perfettamente chiara. Si apriva qui un vasto campo di riflessioni le
più disparate. Esse non potevano mancare, poiché l'uomo ebraico
considerava con estrema attenzione i movimenti che gli si facevano
incontro, ne cercava l'interpretazione, si attendeva molto da loro, cosic
ché era anche esposto ad alcune delusioni e ad alcune prove. Lo scet
ticismo dell’Ecclesiaste è senza dubbio fondato sul fatto che questo
vivo rapporto esistenziale era diventato per lui problematico21.
Ma l'osservatore moderno che così volentieri sottoscrive le tesi (al
lora isolate!) dell'Ecclesiaste deve anche ascoltare le altre voci che
in parecchie forme risuonano dietro le dottrine: il mondo ha un mes
saggio, trasmette una verità! Come vi sarebbe un criterio oggettiva
mente valido per il linguaggio che un uomo percepisce giungere a lui
dal mondo che lo circonda? Nella sua « sapienza », Israele ha tentato
— con l’aiuto di un insieme di regole estremamente mobile — di rap
presentarsi questo linguaggio partendo dai suoi principi religiosi. L’ese-
geta dovrà guardarsi dall'errore ingenuo di credere che la « realtà »
e la sua esperienza sono cose neutre, date in anticipo ad ogni uomo
e con le quali le dottrine potrebbero assai facilmente essere confron
tate. S’egli prende una tale posizione, si è chiusa ogni possibilità di
accesso a ciò che avveniva in Israele.
mente diverso dagli altri uomini. L'esperienza del mondo non ha nei
maestri lacune importanti da cui si potrebbero dedurre mancanze e
assurdità nel loro insegnamento. Vedono ogni sorta di disordini, ma
li intendono a loro modo.
Ciò è vero anche per quello che dicono della morte. Israele ha avver
tito la morte in modo molto diverso dall'uomo moderno. Israele era
molto più scandalizzato per l’introduzione della morte nel campo della
vita che per il fatto che in fin dei conti bisogna morire. La morte
poteva spingere il suo disordine nel più profondo della vita, poiché
la malattia, la schiavitù ed ogni pregiudizio grave inferto alla vita era
già, come lo mostrano i salmi di lamentazione, una forma di m orte22.
Cosicché i maestri si preoccupano molto poco, neirinsieme, della neces
sità di morire irrevocabilmente. È molto difficile per noi vedere con
chiarezza, data la matassa complicata delle nostre idee preconcette,
quel che i maestri dicono della morte e ciò di cui non parlano. Non
intendiamo anche noi tutt'altra cosa quando parliamo in modo così
oggettivato della « Morte »? Nel loro insegnamento, essi parlavano so
vente della necessità di morire, ma quasi sempre pensavano ad una
morte di cui ci si è resi colpevoli, ad una morte prematura, quella
che attende gli insensati, i dissoluti, i pigri. Contro questa morte, si
può fare qualcosa e per evitare i suo « lacci », si può condurre saggia
mente la propria vita (Prov 13, 14). La morte poteva anche presentarsi
all'uomo come un perfetto compimento (Giob 5, 26). La morte non ap
parteneva in proprio alla creazione; non era una potenza ordinatrice.
Non era affatto una « potenza » in sé, ma un avvenimento, un fatto
in sé ambivalente. Poteva essere « amara », ma poteva anche essere
« buona » (Eccli 41, 1 s.). Ma restiamo innanzitutto coscienti dei limiti
di una tale ricerca! Poiché il fatto di porre delle domande a sentenze
che sono state forgiate in vista di un obiettivo didattico preciso, cer
cando di far dire loro qualcosa su idee religiose di ordine generale che
potevano trovarsi anche altrove, è un'impresa piena di rischio. La ne
cessità di morire non si è imposta come vero problema del pensiero
che nel momento in cui la fiducia nella vita mantenuta da Jahve ha
cominciato a diminuire. È il libro dell'Ecclesiaste che mostra in modo
impressionante questa nuova situazione e tutte le sue conseguenze in
quietanti
Constatiamo quindi questo: il mondo non contiene nulla che possa
ergersi ontologicamente contro l'uomo come un male oggettivo opposto
a Dio. Si è affermato giustamente che la rottura, la lacerazione del
mondo in un mondo divino intatto e un mondo empio del male si
avverte soltanto nella Sapienza di Salomone, opera ellenistica. La morte
è una realtà che non proviene da Dio. Dio ha creato l'uomo per la
22 Cfr. Barth, Die Errettung vom Tode in den (individuellen) Klage-und Dankliedern des Alteri
Testaments (1947), 53 ss.
23 W. Zimmerli, Dos Buch des Predigers Salomo (1962), 135 s.; N. Lohfink, Dos Siegeslied am
Schilfmeer (1965), 211 ss.
CONCLUSIONI 271
salvezza ed è per l'invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo
(Sap 1, 13; 2, 24). Di fronte alla sfera della carne caduca si erge lo
pneuma creatore della sapienza24. Ci si deve rendere conto che Giobbe
nella sua disperazione è ancora lontano da un tale dualismo metafisico.
Non vi si trova mai il minimo tentativo di persuadere i suoi amici
dell'esistenza di un male che abbia una provenienza diversa da quella
di Dio. Non è nel mondo ch'egli cerca la dissonanza; è presso Dio che
qualcosa non va più. Senza dubbio, la prossimità della morte lo turba,
ma unicamente perché essa gli toglie la possibilità di mettersi in ordine
con Dio. « La morte » non è assolutamente per lui il male supremo.
S'egli potesse mettersi a posto con Dio, tutto rientrerebbe nell'ordine
da sé. Su quest'argomento egli è interamente dello stesso parere dei
suoi amici. La controversia appare solo nel modo con cui ristabilire
quest'ordine e nel sapere da parte di chi dev'essere ristabilito. Ma
benché abbiano preso posizioni diverse su questi problemi, gli inter
locutori sono tutti d'accordo su una cosa: in ogni conflitto dell'uomo
con i grandi disordini della vita, è sempre Dio l'unico competente.
Il mondo non può portare alcun contributo proprio alla soluzione.
Non è il campo di battaglia tra Dio e un male che è immanente al
mondo: in esso non vi è incrinatura. Da tutte le sue parti — ad ecce
zione dell'inferno — sale un canto di lodi e tutte le sue parti con le
loro qualità sono a loro volta l'oggetto di una lode entusiasta. È un
mondo degno di fiducia da un capo all'altro e la visione dell'uomo,
quale viene presentata da queste dottrine, è assolutamente esente da
toni tragici. Anche se la vita rimane sotto il segno di molteplici limiti,
essi non sono mai giudicati e condannati come una fatalità e possono
essere sempre accettati.
Egli ha disposto nell'ordine le meraviglie della sua sapienza,
poiché egli è il medesimo dai tempi più remoti.
Non vi è nulla da aggiungergli e nulla da togliergli
e non ha bisogno dell'insegnam ento di nessuno.
Le sue opere vivono e rimangono per sempre
e in ogni circostanza, obbediscono a lui.
Tutte le cose sono diverse -l’una dall'altra,
ma egli nulla ha fatto di manchevole.
Una cosa completa l'eccellenza dell'altra:
chi potrebbe stancarsi nel contemplare la sua magnificenza?
(Eccli 42,21-25)
Quale sguardo sul mondo! Niente di sorprendente se i maestri che
sapevano di avere per compito di meditare su queste cose, si sono così
sovente sentiti portare alla lode. Con quale facilità le aride enumera
zioni di ciò che esiste nel mondo prendono negli « onomastika » lo stile
degli inni ! Quanto era piccola la distanza tra la conoscenza e l'adora
zione! È vero che poteva sembrare elevato il prezzo che Israele doveva
pagare col rifiuto di dividere il mondo in un dualismo insanabile, per
24 D. Georgi, Zeit und Geschichte, in « Festschrift fiir Bultmann », 1964, 270 ss.
272 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV
III.
25 Vedi p. 103 s.
CONCLUSIONI 273
quelle che essi potevano dire partendo dalla nozione di un mondo cir
costante rivolto con benevolenza verso l’uomo, hanno senso solo se si
ha fiducia nelle regole stabilite, cioè in ultima analisi in Jahve che
ha diritto a questa fiducia, essa pure giustificata da tempo attraverso
l’esperienza. Nello stesso senso opera la raccomandazione a non cre
dersi saggio. Chi pensava e viveva in una relazione di « partner » con
Jahve non poteva ostinarsi nel suo punto di vista e doveva essere
pronto ad ogni istante ad accettare che la sua azione fosse contraria,
anche quando partiva da conoscenze provate.
£ sempre pericoloso parlare « della » sapienza d’Israele. Ricordiamo
che in tutti gli sforzi didattici e letterari ch’egli ha fatto e che si esten
dono per diversi secoli, Israele non ha mai conosciuto una nozione di
questo genere che abbracci la totalità della letteratura che vi si rife
risce. Nella produzione dei saggi non ha mai visto un insieme e non l’ha
mai distinta teologicamente dalle altre espressioni tipiche della fede di
Jahve. Tuttavia, si può sottolineare qualcosa di comune che è impor
tante e che raccoglie gli sforzi sapienziali in un tutto; che cos’era la
sapienza se non il tentativo fatto da Israele per esprimere la sua uma
nità, precisamente nel campo della realtà che avvertiva in modo così
specifico — che cos’era in fondo se non un umanesimo d’Israele? A
quale scopo miravano i molteplici sforzi, così caratteristici della sa
pienza, per rendersi padroni del contingente? Lo scopo non era forse
unico, conquistare nella confusione degli avvenimenti uno spazio per
l’ordine, in cui l’uomo non sia eternamente sospinto dall'imprevedibile?
Egli ha bisogno di un tale spazio per poter vivere e fare qualcosa della
propria vita. Se questo spazio era definito da regole, come i saggi
credevano di averle constatate tramite l’esperienza, da un ordine nel
quale l'uomo può sentirsi al sicuro, l'umanità dell'uomo non era ormai
più minacciata se non dall'uomo stesso, dal suo disordine, dalla sua
stupidità. Come è già stato detto, i saggi non consideravano la presenza
di potenze anonime malefiche. Tutto ciò che era disordine e turba
mento della vita veniva dall'uomo: qui dovevano mirare tutti gli sforzi.
Vediamo ancora una volta chiaramente quello che i maestri offrivano
e non offrivano all'uomo per trarsi d'impiccio! Non si parla della scin
tilla divina che solo l'uomo porta in sé, come viene insegnato dai
tempi lontani degli antichi Greci fino ad oggi; né dell'immagine di Dio
presente nell'uomo, idea che potrebbe essere più vicina alla conce
zione ebraica. Non ci si può che meravigliare per la sobrietà con cui
i maestri lavorano. Non si sentono minimamente chiamati a custodire
dei beni sacri, ma chiamano in causa la ragione dell'allievo come al
leata per persuaderlo che fa bene a non distruggersi da sé, a mettere
la sua fiducia nella potenza del bene e a guardarsi dal disordine. Non
pare siano stati dominati da una grande idea direttrice. Per conservare
all'uomo l'« humanitas », che cosa possono fare di più che pronunciare
qui una parola a favore della moderazione, là un invito alla calma o
qualche espressione grave sugli svariati limiti la cui inosservanza mi
*74 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV
dei saggi, purché si veda chiaramente che Israele aveva un modo di
verso di affrontare gli oggetti per trarre le sue conoscenze.
Come abbiamo visto, gli insegnamenti interamente orientati verso la
pratica non miravano a migliorare luomo, ma ad umanizzarlo. Bisogna
quindi considerare queste regole come gli elementi della ricerca di una
civiltà nell'antico Israele. Neirinsegnamento dei saggi si esprime
un'umanità, un umanesimo che non fa il minimo tentativo per eman
ciparsi nel senso di un essere nuovo e migliore, né sul piano sociolo
gico e politico, né sul piano individuale. In nessun punto l'uomo viene
incitato a identificarsi a un modello ideale che trascende la sua natura.
Non è un essere diviso, non deve sforzarsi di raggiungere una specie
di liberazione, il passaggio ad una dimensione ancora situata davanti
a sé. Dal punto di vista educativo, manca a quest'insegnamento ogni
pathos di redenzione.
Ci si può domandare se quest ultima frase è ancora valida per alcune
dottrine della sapienza più recente. Nella dottrina della sapienza origi
nale, si trattava infatti non di questo o quest'altro insegnamento che
potrebbe essere utile all'uomo nella propria vita, ma di una chiamata,
di un ultimatum rivolto all'uomo nella sua interezza. Si trattava di
vita o di morte. La voce che parlava così non era quella di questo o quel
maestro, ma la voce dell'ordine del mondo stesso che chiamava luomo
a sé e gli offriva tutto ciò che lo può completare. Infatti qui si tratta
veramente della salvezza dell'uomo e quello che i maestri espongono
in tale campo ha tutte le caratteristiche di una dottrina della salvezza.
Ma forse non quelle di una « dottrina della redenzione ». I maestri ela
borano una sola conoscenza con la più estrema acutezza: ciò che costi
tuisce l'umanità delluomo è ascoltare. Senza questo incessante ascolto
dell'ordine stabilito da Dio, egli è perduto. Ma in fondo, neppure
questa conoscenza era nuova; i maestri precedenti infatti erano essi
pure convinti che le regole erano salutarmente orientate verso l'uomo
che si rifugia in esse.
Se si volesse parlare qui di una soteriologia, essa sarebbe piuttosto
eretica, nella forma che ha preso, rispetto alle idee tradizionali del
culto e delle istituzioni storiche di salvezza. Poiché la salvezza non
deriverebbe da una discesa di Jahve nella storia, né da una mediazione
umana qualsiasi, sia quella di un Mosè, di un Davide o di qualche pa
triarca, ma dai dati originali della stessa creazione. Sembra così nascere
una tensione teologica di fronte alla fede tradizionale in Jahve ed è
difficile immaginarne una più intensa. Abbiamo visto i maestri, nel
Siracide e in quella che vien chiamata l'apocalittica, occuparsi della
storia, anche della storia mondiale. La competenza che i saggi avevano
nell'interpretare l'avvenire, li ha posti una volta ancora, in un'epoca re
cente, nella prospettiva di compiti nuovi. Ma, per quanto fossero gigan
teschi gli abbozzi della storia elaborati dall'apocalittica, non si poteva
più conferire alla storia il significato specifico di un campo nel quale
hanno luogo avvenimenti unici fondanti la salvezza.
CONCLUSIONI 279
30 Opinione di W. Zimmerli, Ort und Grenze der Weisheit, in « Gottes Offenbanmg», 1963, 314 s.
31 « I discorsi piacevoli sono un favo di miele, dolci per l'anima e salutari al corpo » (Prov 16,
24). I « discorsi piacevoli » ('imri nd'am) sono graditi a Dio e agli uomini (Prov 15,26). Ci man
cano ancora criteri validi per valutare sul piano della storia dello stile, le forme poetiche dei
saggi. Non c’è forse stata in loro una modifica dello stile, una specie di passaggio dal « classico *
al « barocco » o ad un « manierismo »? Ciò non avrebbe nulla di sorprendente per una produ
zione che ha pure ricercato la raffinatezza dell'espressione ed ha coltivato quest'arte per secoli.
Non è forse In questa categoria che bisognerebbe classificare la retorica applicata di Elihu (Giob
32-37)?
33 H. U. von Balthasar, Herrtichkeit (eine theologische .Ksthetik), voi III, 2» parte, 1967, 319ss.
CONCLUSIONI
33 II contrasto è ancora più forte nei profeti, poiché essi vedono la sapienza delle nazioni già
respinta all'ombra del giudizio divino: Is 19, 11 ss.; 44, 25; Ez 28, 12 ss.; Abd 8.
INDICI
INDICE BIBLICO
ANTICO TESTAMENTO
Genesi D euteronomio
1 117, 229, 241 4,19 166
1,31 227, 264 9,1-6 98
2 261 23,2 77
2 ,6 148 27,15 ss. 93, 162, 167
5,24 186 32 260
10 117, 118, 180, 256 32,1 26
13,17 148 32,6.29 262
14,19.22 140 32,18 140
20,11 68 32,37 ss. 262
22,12 68 32,39 127
26,26 242
31,10 130 Giosufe
37,5 ss. 48 2 -1 0 258
37,11 50 1,6 ss. 179
41,1 ss. 48
41,14 ss. 24 G iudici
41,33 28 2 ,6 - 3 ,6 258
42,21 181 6 -8 258
42,51 68 1,2 98
45,5 182 9,8-15 46
50,20 182
1 S amuele
E sodo 3,18 178
1,10 27 13 s. 62
1,17.21 68 14,38 ss. 179
12 241 16,18 25
15,16 140
15,23-25 2 S amuele
127
15,26 127 6 62
19 s. 92 11,1 133
20,4 167 12,1-4 47
20,18-21 93 13,3 27
20,20 184 14,14 178
28,3 58 15,31 99
3 1 ,3.6 27, 58 16,10 181
32 168 16,23 24
35,31.35 58 17 24
35,35 27 17,14 99
36, l s . 58 21 179
36,8 27 24,17 105
IR e
L b v it ic o 2 62
21,16 ss. 77 3 264
1 Re G iobbe
3,4 s s .28 58 4,12-17 60
3,9 263 4,17-21 193
3,16-28 264 5-14 191
5,9 ss. 58, 274 5,2 191, 277
7,14 27 5,3 43
8,33.34. 35.38. 5,3-7 123
45.46.47 193 5,8 s. 192
10,1 41 5,9 103
17,18 179 5,13 27
22,19 ss. 240 5,17-19 182
5,17 ss. 192, 205
2 Re 5,18 127
1,6 127 5,20 ss. 268
2,3 ss. 186 5,21.23 s. 26 183
5,7 127 5,26 130, 270
14 47 5,27 175
14,9 47 6,5 115
6,8-10 199
2 Cronache 7,1 ss. 230
36,22 248 7,1-4 196
7,14 45
T obia 8,3 192
8,8 43
1 -3 50 8, 8-10 175
4 50 8,11 ss. 26, 115
4 ,5 232 8,11-13 123
4,19 97 8,11-21 175
6,17 128 43
8,13
8,2 128 175
8,14 s.
11,12 128 8,20 ss. 112, 192
12,7 39 9, 5.13 200
13,1 52 9 , 11 s. 195
14,5 248 9,12 181
14,10 23 195
9,16.3
9,21 194
G iu d it ta
9,22 s. 30 s. 195
8,25-27 183 9 ,33 195
9,5 s. 241,247 9, 94 s. 194
16 231 10,2 194
16,6-11 231 10, 3.8-11.8 194
10,17 200
G iobbe 11,6 79
1,1 68 11,7 s. 103
1,5.22 189 11,8 s. 73
1,21 188 , 204 11,13-15 192
1,22 50 12,7-9 149
2,4 189 12,7 ss. 150
2,10 188, 189, 12,17.20 100
2,10 b 50 13,3 194
4,3 s. 190 13,14 s. 194
4,5 201 13,18 194
4,6 68 13,19 199
4,8 43 13,24 194
4,9 200 14,1 ss. 196, 230
4,10 s. 36 14,13 200
INDICE BIBLICO 287
Giobbe Giobbb
14,15 194 32,1 s. 198
14,19 184 32,6-11.18-20 59
15,16 192 32,18 ss. 197
15,17 43 33,1-3 26
15,17-19 175 33,12-20 192
15,21 191 33,13 ss. 205
15,34 124 33,14.19 ss. 179, 183
16,7 288 33,17 183
16,9 200 34,1 s. 26
16,9-17 196 34,2 28
16,12 194 34,10.12.17 b 203
16,19 195 34,10.12.31 ss. 192
17,7-9 203 34, 29.31-30 203
17,10 28 35,11 58
18,5-21 125 35,15 200
18,7-10 36 36, 8-11 192
18,16.19 124 36,10.22 192
19,6 203 36,22-30 203
19,10 184 36,23 192
19,11 200 36,26 103
20,4 s. 175 36,26-29 260
20,22 ss. 112 37, 2-16 203
20,23. 28 200 37, 5.14-17.
20,27 268 19.23 260
20,29 43 38 ss. 191, 255, 268
21,17. 20 200 38,1 -39,30 202
22-27 191 38,2 202
22,21-30 192 38,7 204
23,3-5 194 39,13-18 113
23,10-12 194 39,17 204
24 194 39,19-22 113
24,4 90 40, 3-5 197, 202
24,5-12 77 40,6-41,26 202
25,2-3 103, 260 40,8 203
25,4-6 193 40,15-24 113
26,6.7.14 104 40,25 113
26,14 260 41,26 113
27,2.4-6 194 42,1-6 202
27,5 198 42,2-6 197
27,13 43 42,7 ss. 189, 204
27,13-23 44
27,14 124
28 134, 136, 137, 142, 143, S alm i
144, 145, 147, 154, 156, 1 52
157 14,1 67
28,12.20 143 19 204
28,25.26 136 19,2 149
28,28 68 31,12 190
29,2.7-10 82 32,1 s. 10 172
29,12-16.17 82, 90 34 52
30,3-8 77 34,13 s. 26, 81
31,16.19 s. 90 37 52, 185, 186, 187
31,35-40 191 37,1 191
32 26 37,1.7b 185
32-37 191, 280 37, 2.10.20 185
288 INDICE BIBLICO
Salm i P roverbi
37,3.7.19. 1-9 23, 68, 71,153, 157, 266
22.34 185 1,9 20, 110
37,3.9.11.18. 1,10-19 44
22.27.29.34 185 1,20 s. 146, 147, 148, 153
37,25.35 s. 42 1,22 146
37,49 44 1,24-34 148, 150, 182
38,4 s. 179 1,28 158
40,5 s. 172 1,29 68
41,2 172 1,33 146, 158
41,5 179 2,1-5 176
49 52, 185, 186, 187 2,1-22 44
49,2-5 26 2,2.3 -6 57
49,5 41 2,5 158
49,6 s. 185 2,6 57, 58
49,8-10 185 2,7 79
49,13.21 185 2,9-20 146, 158
49,16 185 2 , 10 s. 57
51,8 58 3,2 57
73 52, 185, 186 3,5 57, 98, 174
73,2 b 186, 191 3,7 98
73,2 ss. 43 3,13-26 57, 111, 140, 158
73,2-17 186 3,18 150
73,16 186 3,19 s. 143
73,139 44 3,21 79
74,2 140 3,31 191
78,2 41 3,32 111
88,9.19 190 4,2 212
97,6 149 4,6 154, 158
104,24 143 4,8 154
104,31 204 4,13 57, 182
105 242 4,24 34
106 242 5,15-19 48
111 52 6 , 6 ss. 113
111,10 68 6,16-19 40, 111
112 52 6,20.23 86
118,8 172 6,22 158
119 52 6,27 s. 26
119,98 58 7,1 ss. 153
127 52 7,4 154, 158
128 52 7,6 ss. 43, 50
135,15-18 163, 164 8 134, 137, 140, 142, 144,
135,18 163 157
139 52 8,1 57, 146, 153
139,13-18a 103, 140 8,2 146
139,16 251 8,3 s. 148
148 149 8,4 140
8,5 s. 10.32 146
P r o v er bi 8,7 HI
1,1 23 8,8.9 148
1,1-5 21, 36 8,12 21, 57
1,1-7 218 8,13 68, 77, 140, 150
1,4 57 8,14 79, 147
1,6 41 8,15 s. 147, 160
1,7 60, 68, 265 8,17 154, 158
1,8 57, 90 8,18-21 146, 158
INDICE BIBLICO 289
Proverbi P roverbi
8,19-20 140, 158 13,3 84
8,21-26 140, 141 13,4.18.25 77, 120
8,22 ss. 137, 140, 143, 147, 148, 13,7 222
156, 159, 230, 231 13,10 85
8,27-29 140, 142 13,11 84, 119
8,30 s. 141, 142, 156, 280 13,12 120
8,32.34 111, 140, 154 13,14 28, 40, 270
8,35 146, 150, 157, 158 13,16 57
9,1-5 153 13,18.24 57
9,3 146 13,20 61, 120
9,6 57, 150 14, 3.24 28
9,10 57, 58, 68 14, 5.25 84
9,13-18 153 14,6 61
10-15 23, 35, 79 14,8 67
10,4 119 14,10 112
10,5 119 14,11 88
10,12.19 86, 92 14,12 80
10,13 61 14,13 112, 222
10,14 91 14,16 67
10,15 111 14,17 85
10,16 276 14,20 111
10,21 67 14,21 90, 111
10,22-26 23 14,22 122
10,23 57 14,25 120
10,26 114, 120, 127 14, 26 124, 174
10,27 68 14, 27 68
10,28 184 14,29 s. 57, 85
10,29 20, 37, 60, HO, 266 14,31 90, 143
11,1.20 111 15,1 s. 4 84, 125
11,2 84, 85 15,2.7 28
11,4 119, 276 15,3 90
11,7 185 15,6 122, n i
11,8 212 15,7 67
11,9 57 15, 8 s. 26 111, 170
11,10 s. 78 15,11 90, 116
11,12-17 34, 84 15,12 s. 28
11,16 77 15,13 120
11,17 88, 171 15,16. 33 68, 120
11,21 122 15,17 111
11,23 184 15,18 85
11,24 121 15,21 57
11,28 119 15,23 130
12,1 57, 91 15,26 124, 174
12,4 120 15,27 158
12,5 91 15,32. 33 57, 60, 61, 67, 68,69,83
12,7 122 16,1 96
12,11.24 71, 119 16,2 90
12,13 86 16,3 174
12,14.18 s. 84 16,4.11 143
12,15 67 16,5.18 85, 111
12,17 120 16,6 68, 126, 171
12,18 124 16,7-12 65, 66
12,20.25 125 16,8 35
12,23 84 16,9 96
13,2 84 16,10-15 25
290 INDICE BIBLICO
P roverbi P roverbi
16,11 34 20,18 24
16,14 83, 171 20,19 84
16,16 61, 158 20,20 90
16,18 118 20,21 119
16,20 111, 174 20,22 92, 184
16,24 84, 280 20,24 96
16,26 120 20,25 170
16,31 35 20,30 120
16,32 83 21,2 90
17,1 35, 119, 170 21,3 172
17,2 35 21,5.17 77, 84, 119
17,3 90, 182 21,20 28
17,5 77, 90, 143 21,22 34, 83, 121
17,8 120 21,23 84
17,9 86, 92, 126 21,24 85
17,14 84 21,27 170
17,15 111 21,28 84
17, 22 120 21,30 s. 97, 98, 212, 275
17,23 84 22,2 90, 111, 143
17,24 67 22,4 68
17,27 57, 58, 84, 85, 276 22,7 77
18,1 79 22,9 90
18,5 34, 87 22,15 57
18,7 67 22,17 18, 28, 75, 87
18,9 77 22,17-24,22 23, 37, 176
18,10 174 22,19 212
18,14 112 22,21 24
18,15 58 22,23 88, 92
18,21 35, 83, 158 22,24 85, 87
18,22 120 22,27 87
18,23 HI 23,9 84
19,1 120 23,11 18, 75, 88, 92
19,2 84 23,12 57
19,3 67 23,13 s. 121, 182
19, 5. 28 84 23,17 68, 191
19,11 28, 83, 86, 92, 126 23,20 87
19,12 83 23,21 88
19,14 96 23,27 120
19,15 77 23,29-30 26, 42
19,17 90, 122 24,3 57
19,18 182 24,4.5 57, 58, 83
19,21 96, 202 24,6 b 24
19,23 68 24,14.20 184
19,26 90 24,15 s. 87
20,1 67 24,16 123
20,2 83 24,17 88
20,3 83 24,19 s. 184, 191
20,4.13 77 24,22 88
20,5 57, 61 24,23-34 23, 28, 120
20,7 111, 124 24,26 84
20,10.23 111 24,28 84
20,12 143 24,29 92
20,14 111 24,30 s.34 42, 43, 77, 87, 119
20,15 84 25-27 23, 35
20,17 121 25 87, 112, 114
INDICE BIBLICO 291
P roverbi P rovbrbi
25,1 23, 211 29,18 111
25,1-7 25 29,20 84
25,2 39 29,22 85, 112
25,3 114 29,23 83, 85, 121
25,6 120 29,25 174
25,6-10.16 s. 30 s. 140, 251
21 s. 37, 85 30,1-14 23
25,8 87 30,3 57
25,11.15 84, 130 30,15-33 23, 117
25,15 121 30,17 90
25,17 87 30,18 41, 117
25,18 84 30,21-23 41
25,21 88, 126 30,29-31 41
25,22 92 30,32 84
25,23 114 30,33 115
25,24 35 31,1 ss. 23
25,28 35 31,1-9 23
25,29 23 31,9 90
26,1-8 67, 82 31,10-31 23
26,6 266 31,26 86
26,11 114 33,16 217
26,12 37, 98
26,17 85
26,20 114 E c clesia ste
26, 23 36 1,3 206
26, 27 122 1. 4-7 116
27 87, 114 1,13 205, 310, 255
27,1 s. 10 s. 1,16-18 207
13.23 37, 87, 98 2,3 205
27,5 35 2,10.21 126, 209
27,7 121, 276 2,14 s. 206
27,14 276 2,22 s. 206
27,17 114 2,24 209
27,20 112 2,26 58
27,22 67 3,1-8.17 129, 207
27,23 s. 87, 131 3,1-11 129
27,24 88 3,2-8 236
28 s. 81 3,9-11 208
28,2.13-24 86 3,10 210
28,3.27a 90 3,11 132, 212
28,4.7.9 85 3,14 201
28,5 70 3,16 206
28,9 170 3,18 184
28,11 98 3,19 206, 235
28,14 111 3,22 126, 209
28,15 83 4,1 206
28,18 86 5,7 206. 209
28,20.22 84 5,18 209
28,25 174 6,10 210, 236
28,26 67, 98 6,12 212
29,6.16.22 86 7,14 207, 208, 212
29,7 90 7,15 206
29,11 67 7,24 210
29,13 112, 143 7,25 205
29,15 61, 80, 182 8,6 207
292 INDICE BIBLICO
E c c le sia stic o
E c c l e sia s t ic o
34,30 170 49,19 247
35,3 84 50,2-7 218
35 (32), 15.17. 50,5 231
23 s. 219 50,27 216, 217
36,8.10 248 51,1-12 233
36,12 241 51,10-12 225
37,3 s. 223, 234, 272 51,13-16 42
37,4 225 51,13.19.26s. 154
37,7-15 222 51,23 25
37,12 219 51,27 158
37,16 84
38,1-15 127, 216f 223
38,13 130, 225 I sa ia
38,18 120 2,8 163
38,24-34 233 3,3 24
39,1-11 29, 234 5,19 202
39,3 41 6,3 144
39,4 24 10,13 28
39,6 217 10,15 99
39,7 260 17,14 43
39,8 219 19,11 28, 282
39,9-11 83 28,23-29 26, 79, 114, 131
39,1 « 5 226 29,14 100
39,17&-23 227 30,1 202
39,21.34 227 30,4 4
39,25 236 34,1 26
39,26 s. 224 40,12 27
39,30 227, 236 40,19 s. 163
39,33 s. 227, 237 40,20 21
40,1-9 230 40,28 103
40,2 230 41,7 163
40, 8 s. 123 44 164
40,24 225 44, 9-20 164
41, l s . 270 44,17 166
41,1-2 223 44,25 100, 282
42,2 219, 223 45,1 ss. 248
42,8 112 46,1 164
42,18 237 46,10 202
42,19 260
42,21-25 271
43 220 G e r e m ia
43,31 s. 104 4,22 27
43, 32 261 6,19 122
43,33 233 8,7 130
44,1-15 230 8,8 25
44,2 231 8,9 70
44,10 s. 124 8,15 130
44,16 249 9,16 27
44,50 230, 241 9,23 s. 99
45,4 232 10,1-9 163
45,5 222 10,9 27
45t 12 231 10,23 39, 97
48,4 231 12 187
48,25 260 13,25 43
49,9 214 14 193
INDICE BIBLICO 295
G erem ia D an iele
14,2-6 193 1,3-6 51
14,7 193 1,17 24, 58
14,16 122 1,19 26
17,7 265 2 248, 250
17,11 184 2,7 247
18,7-10 241 2,21.23 58, 239
18,18 28 2,28 24
27,5 ss. 248 4,32 181
31,35 s. 102 7 248
33,25 102 7,13 243
50,35 s. 28 14,5 168
52,15 141
O sea
6,1 127
B aruc 13,2 163
3,9 156 13,13 27, 132
3,2s. 282
4,4 156 A m os
3,3-8 26
L ettera di G e r e m ia 5,13 130
10-25 165 A bdia
33-37 166
8 282
E z e c h ie l e G iona
2,9 251 1,4 ss. 179
7,26 28
M ic h e a
15,1-3 26
16,8 130 2,2 185
17 48
A bacuc
18 187
19 48 2,3 251
20 258 2,18 s. 163
27,8 27
M a la c h ia
28,3 28
28,12 ss. 282 3 187
TESTAMENTO
R omani E f e s in i
5,16 132
1,20 151
8,28 268 G ia c o m o
9,11 242 5,11 215
296 INDICE BIBLICO
SCRITTI t a r d o g iu d à ic i
Parte I
INTRODUZIONE
I. Il pr o b lem a .
II. L uoghi e r a p p r e s e n t a n t i d e l l a t r a d iz io n e d id a t t ic a .
Parte II
L’EMANCIPAZIONE DELLA RAGIONE
E I SUOI PROBLEMI
IV . C o n o scen za e t im o r d i D io .
V. S ig n if ic a t o d e l l e r e g o l e p e r u n c o m p o r t a m e n t o s o c ia l e
g iu s t o ....................................................................................................................
V I. L im it i della s a p ie n z a .
Parte III
MATERIE PARTICOLARI DELL’INSEGNAMENTO
X I. S a p ie n z a e culto 170
Parte IV
CONCLUSIONI