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LA SAPIENZA
IN ISRAELE

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LA SAPIENZA IN ISRAELE
GERHARD VON RAD

LA SAPIENZA
IN ISRAELE
Presentazione e revisione a cura di
NICOLA NEGRETTI

MARIETTI
Titolo originale dell'opera:
WEISHEIT IN ISRAEL
Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1970

Traduzione italiana a cura di


Carlo Bocchero

Proprietà letteraria 1975


PREFAZIONE
all'edizione italiana

La s to ria e la s a p ie n z a

1. Forse è vero che nella vita di un uomo, così come nella vita di
un popolo, alla fase eroica o profetica succede il momento sapien­
ziale. Successione questa che può essere caricata di tanti significati,
del rinsavimento di don Chisciotte o della disillusione scettica dell'Ec-
clesiaste, ma che qui riceve solo il senso di una distanza critica ri­
spetto alla propria vita, al proprio pensiero, ai propri scritti.
L'ultima opera di Gerhard von Rad (1901-1971), il grande esegeta
tedesco dell'A.T. da poco scomparso, si intitola Weisheit in Israel
(« La sapienza in Israele »).
Come mai questo autore, che normalmente nella sua vasta produ­
zione si è occupato dello studio delle tradizioni storiche d'Israele1,
verso la fine della sua vita si concentra sulle tradizioni sapienziali
della Bibbia?
La ragione di questo fatto non sta, a nostro parere, in un'empirica
mutazione del campo d'interesse, ma deriva dall'orientamento pro­
fondo del pensiero di Gerhard von Rad e dall'esigenza di risolvere
un'aporia fondamentale dell'esegesi veterotestamentaria: quella tra
creazione e storia, tra mondo e salvezza, tra ragione e fede.

2. Superando i limiti della metodologia gunkeliana2, nell'indagine


delle narrazioni bibliche Gerhard von Rad non solo ha sottolineato
con maggiore incisività il significato teologico che è sotteso all'evolu­
zione storica delle singole tradizioni3, ma ha anche cercato di inter-

’ Per una bibliografìa delle opere di von Rad cfr. Probleme biblischer Theologie, a cura di
H. W. Wolff, Mùnchen 1971, 665-681.
* Cfr. H. Gunkel, Genesis, in HAT 1, 1, Gottingen 1901, 19667, VII-C.
3 Come significativo di questa linea cfr. lo studio: Zelt tind Lade, in NKZ 42, 1931, 476-498
(= ThB 8, Miinchen 1965, 109-129). Cfr. anche: Der Heiìige Krieg im alien Israel, Zurich 1951,
Gottingen 19695.
2 PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

pretarle nel contesto redazionale di una intera opera storica4. In tale


maniera non solo ha messo in evidenza l'intervento di Jahve nei
singoli avvenimenti della storia, ma ha valorizzato anche sintesi sto­
riche sempre più vaste in cui Israele ha voluto dare continuità all'in­
tervento di Jahve nella storia5.
Da una corretta analisi redazionale nasce il discorso teologico e,
soprattutto delle tradizioni storiche di Israele, Gerhard von Rad ha
tracciato una riflessione teologica6, che da un lato esprime la visione
unitaria degli eventi a cui si è sempre orientata la fede di Israele,
dall'altro lato lascia sussistere nella loro individualità le diverse teo­
logie circa la storia della salvezza7.
L'esegeta tedesco è stato cosciente del fatto che la tendenza teolo­
gica all'unità è possibile in ambiti ben definiti, garantiti da un uso
attento del metodo storico-critico. Una teologia biblica non può stra­
fare 8 e deve accontentarsi di accettare i singoli insegnamenti dell'A.T.:
quale possibilità seria esiste, ad esempio, di congiungere in unità le
tradizioni storiche e le tradizioni sapienziali in Israele?
Qui l'unità è una prospettiva molto lontana, raggiungibile proba­
bilmente per altre strade.
3. Come abbiamo detto, l'interesse per le tradizioni storiche è stato
prevalente in quasi tutta la produzione di Gerhard von Rad e l'affer­
mazione che Israele è il popolo della storia, Jahve il dio della storia,
vale ora come un assioma irrefutabile dell'esegesi veterotestamentaria.
Gerhard von Rad si è però dedicato anche allo studio delle tradi­
zioni sapienziali9 e soprattutto partendo da questo ambito, è stato
spinto a ricercare come il filone sapienziale, preoccupato della cono­
scenza dell'ordine originario della creazione, si possa connettere con
la fede centrale di Israele nell'intervento storico di Jahve. Dove sta
la salvezza? negli atti storici salvifici o nella conoscenza dell'ordine
originario?
4 Inizio di un nuovo modo di accostamento del Pentateuco è certamente l’opera: Dos form-
geschichtliche Problem des tìexateuch, in BWANT 78, Stuttgart 1938 (= ThB 8, Miinchen 1965,
9-86). Notiamo un uso approfondito del metodo redazionale nel commento al Genesi: Dos erste
Buch Mose. Genesis, in ATD 2-4, Gottingen 1953 (trad, it., Brescia 1972). Già nei lavori prece­
denti: Geschichtsbild des chronistischen Werkes, in BWANT 54, Stuttgart 1930;- Die Priesterschrift
im Hexateuch, in BWANT 65, Stuttgart 1934 (cfr. soprattutto 166-189 anche in ThB 48, Miinchen
1973, 165-188) è evidente un interesse redazionale, allo scopo di enucleare il discorso teologico
un'opera.
5 Cfr. G. von Rad, Teologia dell'Atttico Testamento, II, Brescia 1974, 499-500.
6 Cfr. G. von Rad, Theologie des Alien Testaments, I: Die Theologie der geschichtlichen
Vberlieferungen Israels, Miinchen 1957, 19696 (cfr. trad, it., Brescia 1972). La teologia dell’A.T. è
un’opera centrale non solo del pensiero di von Rad ma della stessa teologia biblica.
7 Queste teologie, oltre che nei due documenti del Pentateuco: lo Jahvista e il Sacerdotale,
sono visibili nell'opera del Deuteronomista (cfr. M. Noth, Vberlieferungsgeschichtliche Studien,
Tiibingen 19673, 1-110) e del Cronista.
» Cfr. G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, II, Brescia 1974, 506.
9 Cfr. Josephsgeschichte und altere Chokma, in VTSuppl 1, Leiden 1953, 120-127 (= ThB 8,
Miinchen 1965, 272-280); Die Josephsgeschichte. Ein Vortrag, in BibSt 5, Neukirchen 1954 (trad, it..
Gli inizi della nostra salvezza, Torino 1974, 128-147); tìiob 38 und die altàgyptische Weisheit, in
VTSuppl 3, Leiden 1955, 293-301 (= ThB 8, Miinchen 1965, 262-271); Die altere Weisheit Israels, in
KuD 2, 1965, 54-72; Aspekte alttestamentlichen Weltverstàndnisses, in EvTh 24, 1964, 57-73 (= ThB
8, Miinchen 1965, 311-331); Die Weisheit des Jesus Sirach, in EvTh 29, 1969, 113-133.
PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA 3

Questa tensione conduceva a delle domande ancor più radicali: il


contrasto tra storia e conoscenza del mondo è insanabile? che rap­
porto esiste tra fede storica e conoscenza del mondo?
Sulla base di questa problematica si rivela necessario non solo
riflettere sul concetto di storia ma anche sul modo con cui Israele
intende la realtà in generale10.
Proprio a questa esigenza interna alla ricerca esegetica e derivata
dalle contraddizioni del pensiero biblico, tenta di rispondere l'ultima
opera di von Rad sulla sapienza in Israele ", opera che per tanti
aspetti assume l’andatura della riflessione filosofico-teologica e che
ora viene presentata al lettore italiano.

4. La risposta che al problema del rapporto tra creazione e storia,


mondo e salvezza, ragione e fede si può derivare dalla riflessione
sapienziale, è secondo von Rad complessa e articolata.
Vi è prima di tutto da sottolineare la profonda unità esistente per
Israele tra conoscenza razionale e conoscenza di fede “, tanto da
poter dire che « per esso le esperienze del mondo erano sempre
anche esperienze di Dio, e le esperienze di Dio erano per esso espe­
rienze del mondo » ,3.
Nell'esperienza del mondo è implicito un costante atteggiamento di
fiducia negli ordinamenti del mondo stesso, di fiducia quindi in Dio,
che ha posto in atto questi ordinamenti. Il « timore di Jahve » 14 è
appunto la dimensione più vera della conoscenza del mondo e que­
sta categoria del « timore di Jahve » suppone l’inserimento nella
comunità cultuale, nella quale si celebrano le gesta salvifiche sto­
riche di Jahve.
Il mondo che viene così conosciuto non è la « natura », ma la
« creazione » 15, un mondo cioè demitizzato, in cui Jahve non è una
forza cosmica, ma il creatore, da cui ogni dualismo metafisico viene
bandito, con la radicale conseguenza, così acutamente avvertita da
Giobbe, che le contraddizioni storiche appaiano come un « fenomeno
intradivino » “. Il mondo non è un « cosmo » che riposi nella sua
compiuta autosufficienza, ma una realtà che ha continuamente biso­
gno dell’intervento creatore di Jahve.

5. È chiaro il rapporto che esiste tra mondo, conoscenza empirica


e Jahve. Questo è stato lo sforzo di riflessione della sapienza antica.

10 Cfr. H. W. Wolff - R. Rendtorff - W. Pannenberg, Profilo teologico di Gerhard von Rad, in


GdT 75, Brescia 1974, 35. 70-72. 77-84.
11 G. von Rad, Weisheit in Israel, Neukirchen-Vluyn 1970.
12 G. von Rad, op. cit., 86.
13 G. von Rad, op. cit., 87.
14 G. von Rad, op. cit., 91-96.
15 G. von Rad, Aspekte alt testament lichen Weltverstdndnisses, in ThB 8, 1965, 317: « Schopfung,
das hiess radikale Entgotterung, Entdàmonisienmg der Welt ».
* G. von Rad, op. cit., 318.
4 PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

Ma nelle riflessioni più recenti dei saggi, la sapienza non è tanto


vista come una dimensione della ricerca umana aperta a Jahve, ma
qualcosa di immanente alla creazione l7, come l’ordine originario che
chiama l’uomo alla sua sequela promettendogli ogni bene di vita,
offrendogli in una parola la salvezza “.
Come si può conciliare questo quadro della sapienza con l'imma­
gine di una salvezza operata da Jahve mediante i suoi interventi
nella storia? Non esplode proprio a questo livello il radicale con­
trasto, soggiacente al pensiero biblico, tra visione del mondo e vi­
sione della storia?
Gerhard von Rad percepisce pienamente il contrasto e va per ten­
tativi nella ricerca di ima soluzione all'interno della riflessione sa­
pienziale w.
La conclusione a cui giunge20 non è, a suo parere, risolutiva. Si
tratta più che altro di una armonizzazione, che non mantiene nella
loro integrità i due poli del dilemma.
L’autore di questa armonizzazione è il Siracide (cfr. Eccli 24,7-11):
la sapienza, l’ordine originario della creazione che invita e conduce
l’uomo alla salvezza, dopo aver cercato inutilmente tra gli altri po­
poli, trova il suo luogo di riposo in Israele. Questa sapienza si
identifica con la Torah: la Torah è appunto la rivelazione dell’ordine
originario della creazione a Israele.
L’aspetto di armonizzazione sta appunto qui, nel fatto che l'intera
storia salvifica di Israele viene riassunta nell’ordine originario della
creazione, in una specie di determinazione originaria dei tempi da
parte di Dio21 che, sviluppata soprattutto nell'ambito dell’apocalit­
tica, sarà la morte della storia.
Per Gerhard von Rad il problema del come si possano collegare
in una sintesi seria la concezione di una storia fatta di interventi
divini con l’idea della sapienza, rimane sostanzialmente un problema
aperto.

6. Questa linea di ricerca continua. Forse l’intuizione di von Rad,


sviluppata nella sua ultima opera, secondo cui occorre dare maggior
peso all'esperienza del mondo nell’ambito della fede biblica, va ri­
presa e approfondita22. Forse è necessario riscoprire il significato
del rapporto tra creazione e legge in Israele, senza dover concludere
con l'affrettata affermazione che la salvezza viene in questo modo

17 G. von Rad, Weisheit in Israel, Neukirchen-Vluyn 1970, 190-205.


18 G. von Rad, op. cit., 205-213.
19 Un tentativo è documentabile prima in: Aspekte alttestamentlichen Weltverstdndnisses, in ThB
8, 1965, 322-331, e poi in: Die Weisheit des Jesus Sirach, in EvTh 29, 1969, 113-133, testo ripreso
in: Weisheit in Israel, Neukirchen-Vluyn 1970, 309-336.
» Cfr. G. von Rad, Weisheit in Israel, Neukirchen-Vluyn 1970, 213-216.
21 Cfr. G. von Rad, op. cit., 337-363.
22 Cfr. i saggi recentemente raccolti e nuovamente pubblicati di H. H. Schmid, AUorientalische
Welt in der alttestamentlichen Theologie, Ziirich 1974.
PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA 5

« destoricizzata » 23. Probabilmente bisognerà chiarire in che misura


questa problematica è per Israele un prodotto interno della sua
riflessione e non qualcosa di importato, magari sotto l'influenza
dell'ellenismo24, quasi il primo sussulto e sgomento di fronte a una
cultura filosoficamente agguerrita.
Ma non c'è nulla nella sicura meditazione dei saggi che faccia
intuire un tale sgomento. E non c e motivo di rifiutare a Israele la
capacità di elaborare una propria filosofia. Poiché appunto di filosofia
si tratta.
Su questo terreno l'esegesi veterotestamentaria ha compiuto solo
i primi passi. Finora il terreno preferito dell'indagine è stata la pro­
duzione storica di Israele e da lì si è partiti per analizzare le altre
tradizioni, preoccupati di vedere come e in che misura esse si armo­
nizzano con la riflessione storica.
Forse è giunto il tempo di portare in primo piano la visione che
Israele ha del mondo e di considerare la sua concezione della storia
come parte di tale visione.

N ic o l a N egretti

23 Cfr. M. Limbeck, Die Ordnung des Heils. Untersuchungen zum Gesetzesverstàndnis des
Fruhjudentums, Dusseldorf 1971, secondo cui la creazione e Israele stanno sotto l'unica volontà
divina, dimodoché la consegna della legge a Israele non è altro che il disvelamento dell'ordine
divino che comprende e determina tutta la creazione.
24 Cfr. J. Marbock, Weisheit itti Wandel. Untersuchungen zur Weisheitstheologie bei Bert Sira,
Bonn 1971; Th. Middendorp, Die Stellung Jesu Ben Siras zwischen Judentum und Hellenismus,
Leiden 1972; R. Braun, Kohelet und die friihhellenistische Popularphilosophie, Berlin 1973;
B. L. Mack, Logos und Sophia: Untersuchungen zur Weisheit stheologie im hellenistischen Judentum,
Gottingen 1973.
PREFAZIONE

Quando un autore vede passare il suo libro nelle mani del lettore,
desidererebbe accompagnarlo con una parola personale. Desidererebbe
dire con tutta semplicità, scopertamente quello che più gli è importato
e — senza nulla minimizzare — ciò che non ha giudicato bene mettere
al centro del suo studio in questa occasione. Desidererebbe indicare
alcuni passi che non avrebbe potuto scrivere senza lo stimolo di amici
e altri in cui non è riuscito a chiarire le idee che aveva in testa. Ma sa
anche che il suo libro può far carriera senza un arringa del genere.
Si afferma volentieri che oggi lo studio della sapienza in Israele è
« moderno ». Non è questa Vopinione delVautore. Senza dubbio appaio­
no monografie piene di pretese e numerosi studi particolari. Ma non
cè forse da chiedersi se i metodi che caratterizzano il nostro studio
dell’A.T. favoriscono una visione più chiara della letteratura didattica?
Ormai in troppi hanno intrapreso lo studio esaustivo di temi sempre
più vasti e hanno cercato di determinare connessioni spirituali sempre
più grandi nella vita d'Israele. Dove resterebbe ancora uno spazio per
la meditazione d’una sentenza sovraccarica di riflessione! A ciò si ag­
giunge il problema che si pone oggi in maniera molto intensa, della
preistoria di una determinata cerchia culturale e in materia di sapienza
porre questo problema significa entrare subito nel vasto campo della
sapienza al di fuori d'Israele. Da questo momento Vattenzione delVese-
geta si svia dal testo e si fissa su un soggetto più vasto, di modo che
il testo è lasciato a se stesso con la sua pretesa di dire la verità; ci si
è serviti di esso soltanto come di un trampolino per la ricerca di qual­
cos’altro di molto più generale.
In questo libro il problema della tradizione e dei suoi confini si
porrà poco; ciò capiterà soltanto quando si tratterà di precisare la ve­
rità che una sentenza didattica pretende enunciare. Quando ci si mette
ad ascoltare realmente quel che ci dice un testo, pur classificato in
s PREFAZIONE

maniera soddisfacente nella sua « tradizione », si solleva un enorme


quantità di problemi.
Quanto agli studi attualmente in corso, questo lavoro non cerca di
darne un riassunto completo. (Vautore è molto cosciente del fatto che
la ricerca si serve di distinzioni molto più sottili in materia di struttura
formale delle sentenze). Qui vi sono affrontati piuttosto alcuni pro­
blemi di fondo. La comprensione della letteratura didattica d'Israele
dipende strettamente dalla misura in cui riusciamo a rappresentarci
la sua maniera specifica di porre le questioni e ad appropriarci del suo
modo di pensare; giacché Israele ha dovuto affrontare Vavventura del-
Vemancipazione della ragione in una maniera che gli è propria. Non
resta dunque alVautore che pregare il lettore di esporsi alle tensioni
in cui evolvono gli insegnamenti dei saggi e di mettere in opera tutta
la capacità di contemplazione di cui dispone. Res loquuntur!
La nostra bibliotecaria, M.Ue A. Findeiss, ha sempre manifestato no­
tevole abnegazione sia nel procurarmi la bibliografia sia nel rivedere il
manoscritto prima della stampa.
In alcuni passi la benevola collaborazione di M. Hermann Timm,
dottore in teologia di Heidelberg, m ha aiutato ad essere più chiaro e a
trovare migliori formule.
G erhard von R ad

Heidelberg, marzo 1970


ABBREVIAZIONI

ANET Ancient Near Eastern Texts relating to the Old Testament, Princeton
AOT Altorientalische Texte zum Alten Testament
ATD Das Alte Testament Deutsch, Gottingen
BBB Bonner Biblische Beitrdge, Bonn
BibSt Biblische Studien
BK Biblischer Kommentar. Altes Testament, Neukirchen
BWANT Beitrdge zur Wissenschaft vom Alten und Neuen Testament, Leipzig-
Stuttgart
CBQ The Catholic Biblical Quarterly, Washington
EvTh Evangelische Theologie, Miinchen
HAT Handbuch zum Alten Testament, Tubingen
JBL Journal of Biblical Literature, Boston
JJS Journal of Jewish Studies, London
KuD Kerygma und Dogma, Gottingen
NKZ Neue Kirchliche Zeitschrift, Leipzig
OTS Oudtestamentische Studien, Leiden
RGG Die Religion in Geschichte und Gegenwart, Tubingen
ThB Theologische Blatter, Leipzig
ThLZ Theologische Literaturzeitung, Leipzig
ThR Theologische Rundschau, Tubingen
ThZ Theologische Zeitschrift, Basel
TWNT Theologisches Wòrterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart
VT Vetus Testamentum, Leiden
VTSuppl Vetus Testamentum (supplementi), Leiden
ZÀS Zeitschrift fur die Agyptische Sprache und Altertumskunde, Leipzig
ZAW Zeitschrift fur die alttestamentliche Wissenschaft, Berlin
ZDPV Zeitschrift des Deutschen Paldstina-Vereins, Leipzig
ZNW Zeitschrift fiXr die neutestamentliche Wissenschaft und die der
alteren Kirche, Giessen-Berlin
ZThK Zeitschrift fiir Theologie und Kirche, Tubingen
PARTE I

INTRODUZIONE
IL PROBLEMA

Nessuno vivrebbe un sol giorno senza notevoli difficoltà, se non po­


tesse lasciarsi dirigere da una vasta conoscenza empirica. Questo sapere
tratto dall'esperienza gli insegna a capire ciò che capita nel suo am­
biente, a prevedere le reazioni dei suoi vicini, a impegnare le proprie
forze al momento giusto, a distinguere l'avvenimento eccezionale da
quello abituale, e molte altre cose ancora. A dire il vero, l'uomo non è
molto cosciente di essere guidato in questo modo, come pure non si
rende conto di aver elaborato da se stesso soltanto una minima parte
di questo sapere sperimentale. Questo sapere gli si impone, vi è im­
merso dalla sua più giovane età e solo a mala pena gli riesce di modifi­
carlo un po' da parte sua. Ma è molto raro che l'uomo si metta a ri­
flettervi e a pensare che questa esperienza, esaminata più da vicino, è
un fenomeno estremamente complesso. Evidentemente, noi l'abbiam
detto, questo sapere è costituito da esperienze che son state capitaliz­
zate e che vengono senza posa corrette. Ma non si danno esperienze
senza condizioni preliminari. L'uomo fa per lo più le esperienze che
s'aspetta di fare e alle quali è preparato in ragione delle idee che si è
fatto del mondo che lo circonda. L'esperienza suppone una presa di
coscienza di sé che ci è data in anticipo; non diviene esperienza sino
a che io non la posso situare o classificare nel contesto di ciò che com­
prendo di me stesso e del mondo. Può così capitare che l'uomo trascuri
esperienze possibili che gli si offrono, perché gli manca la capacità di
registrarle e non è in grado di inserirle nel panorama delle sue con­
cezioni.
Questo sapere tratto dall'esperienza non è soltanto un fatto molto
complesso, è anche una realtà vulnerabile; non può essere diversa-
mente giacché rende all'uomo un servizio inestimabile permettendogli
di muoversi nello spazio in cui si svolge la sua vita, senza esservi com­
pletamente estraneo e di considerare fino a un certo punto questo spa­
zio come qualcosa di ordinato, di strutturato. Questo sapere sperimen-
2. von rad . la sapienza in israete
14 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

tale non si costruisce con un solo individuo né con una generazione.


Esso non acquista il suo grado e il suo carattere d'obbligazione che
quando può rappresentare il bene comune di tutto un popolo o di una
larga classe della popolazione. Ma è giustamente per la sua proprietà
di bene comune che questo sapere empirico accede a una zona perico­
losa. Va da sé che, in ragione d'un lungo periodo di collaudo, esso può
rivendicare come qualità la stabilità e la validità. Ma nella misura in
cui è il bene di tutti, esso è minacciato di semplificazione o di genera­
lizzazione di verità che non si possono generalizzare che entro certi
limiti. Così lo spazio organizzato nel quale l’uomo è invitato a ripa­
rarsi è una realtà costantemente minacciata. Esso è già fondamental­
mente messo in questione da qualsiasi esperienza di senso contrario;
inoltre, questo sapere può anche svilupparsi di colpo nel senso d'una
gigantesca illusione, diventando impermeabile all'esperienza d'una
realtà nuova o combattendola. In questo processo, accanto a fasi
d'apertura o di movimento, vi sono pure fasi di pesantezza e di con­
servatorismo. Tuttavia, ciò non significa che queste debbano essere
considerate come puramente negative. Anch'esse obbediscono a certe
necessità, a quelle cioè di edificazione e di concentrazione verso l'in­
terno. Dappertutto s'incontrano pericoli, tanto nell'apertura verso
l'esterno quanto nell'elaborazione intellettuale delle esperienze fatte.
Tutti i popoli civilizzati si sono dedicati alla cultura letteraria di
questo sapere sperimentale e ne hanno accuratamente collezionato le
proposizioni, soprattutto sotto forma di proverbi e di sentenze. Si tratta
di una delle attività più elementari dello spirito umano, il cui scopo
pratico è di allontanare dairuomo i dispiaceri, i mali, tutto ciò che con­
tribuisce a diminuire la vita. Non soltanto il mondo circostante, con­
cepito come oggetto, stimola nell'uomo il desiderio di conoscerlo; ma
le sue stesse tendenze e reazioni incalzano l'uomo e ne fanno a sua
volta l'oggetto di contraccolpi. In ogni caso, l'uomo deve sapersi orien­
tare nel mondo che lo circonda, per potervisi mantenere.
Così, ciò che noi abbiamo descritto come una delle funzioni più ele­
mentari dello spirito umano è già un fenomeno di grande comples­
sità, giacché il cammino che deve essere percorso per passare da una
esperienza che si giudica degna di nota alla sua espressione nel lin­
guaggio — e a questa specifica espressione! — è ben lungi dall'esser
sufficientemente esplorato. Quando un'esperienza ha trovato la sua
espressione in un proverbio, una sentenza, una massima o un afori­
sma, tutta un'elaborazione stratificata ha trovato il suo compimento.
Nel frattempo, questa esperienza deve essersi manifestata nella sua
validità. Dove avviene ciò? Quali condizioni si sono trovate necessa­
riamente all'origine di questo genere di produttività dello spirito? La­
sciato da parte il proverbio, pare che la poesia gnomica sia stata legata
a fasi precise nella vita intellettuale dei popoli. Come si può determi­
narne il rapporto con altre opere letterarie di tipo « filosofico » (welt-
anschaulich)? Viene forse a colmare una lacuna? E soprattutto: Da
I. IL PROBLEMA 15

quali forze intellettuali è sostenuto questo processo? Dalla ragione o


piuttosto da una certe forma d'intuizione? La sentenza — lasciamo da
parte i suoi generi particolari — può muoversi nei quadri più diversi
della vita. Come detto banale, essa può appartenere al mondo della
gente semplice. Può anche coronare un poema di prim'ordine, come
una pietra preziosa in un gioiello. L esigenza a cui deve soddisfare in
ogni circostanza è la brevità, la densità — pur mantenendo la chia­
rezza — e in certi casi la plasticità; in breve, essa deve essere facile
da ricordare.
Anche l'antico Israele si è occupato a coltivare queste conoscenze
empiriche. Non vi è nulla di straordinario nel fatto che esso pure sia
giunto alle stesse constatazioni degli altri popoli dell'antichità. Straor­
dinario è piuttosto che molte delle esperienze più elementari gli si
sono presentate sotto una luce del tutto differente, soprattutto perché
le ha percepite in un quadro prettamente religioso e spirituale. Ma la
« realtà » non era forse unica?
In questo libro viene intrapreso il tentativo di capire un po' meglio
il fenomeno che abbiam preso l'abitudine di raggruppare sotto il titolo
globale di « sapienza in Israele ». Si tratta di far risaltare alcuni spe­
cifici movimenti di pensiero e temi teologici nei quali evolveva questa
sapienza d'Israele e da cui potremmo, in ogni caso, derivare un'inter­
pretazione più conforme ai fatti. Il cammino da percorrere per capire
questo grande sforzo spirituale d'Israele, che insegue in maniera così
meravigliosa lo spartiacque tra la conoscenza e la fede, passa attra­
verso lo studio di un numero infinito di testi. Un buon numero di essi
imporrà al lettore una riflessione assai lunga, sia a causa del loro con­
tenuto sovente duna profondità strana, sia a causa della loro forma
artistica; altri ci paiono molto banali e non riusciamo più a scorgerne
l'importanza del contenuto. Ma ciò dovrebbe giustamente metterci in
guardia, perché grazie ad essi noi dovremmo constatare che non com­
prendiamo più bene il lavoro spirituale decisivo che sta sotto a que­
sti enunciati pragmatici. Si trova in essi una capacità di prender le
distanze: ci si distanzia dall'or dinario, dal quotidiano, da ciò che tutti
conoscono e quindi che nessuno conosce e approfondisce. Ci vuole una
certa arte per vedere oggettivamente e per tradurre in parole le cose
che sono sempre esistite. Non è forse in esse che si nascondono i più
grandi enigmi?
Il materiale letterario così raccolto resiste — il che complica note­
volmente il nostro lavoro — a ogni classificazione in punti di vista tra
loro collegati. Alla fin fine ogni sentenza, ogni poema didattico esiste
per se stesso e non richiede alcuna interpretazione che parta da altri
poemi didattici dello stesso genere. In effetti, per appropriarsi questi
testi, il lettore dovrà consacrarvi molto tempo e impegnarsi in una
riflessione sul tutto come sulle singole parti — così vuole questo ge­
nere poetico! Giacché ogni sentenza, ogni poema didattico ha il suo
particolare carattere, la sua particolare concentrazione, la sua densità,
i6 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

di modo che essi ci stanno di fronte con un fare poco malleabile, clas­
sificabile, benché abbiano più d'un tratto in comune. Non è facile di­
sporli in maniera coerente secondo la loro sostanza e le loro tendenze.
Tuttavia li si può ordinare in funzione di alcune categorie di problemi;
si possono trattare insieme alcune delle idee principali che si trova­
vano manifestamente in primo piano nell’insegnamento. È questo il
metodo che noi useremo. Ma si vedrà subito che questo metodo di
ordinare non è praticabile che entro certi limiti perché non si può
esporre in maniera esaustiva alcun soggetto, alcuna problematica nel
testo in cui li si incontra. Nessun soggetto può essere spiegato per se
stesso; per essere compreso appieno, deve essere sempre ricollocato
nella prospettiva delle idee del tempo. E qualunque sia la mobilità, la
variabilità di questo insieme di concezioni al quale si ricollegano gli
insegnamenti, esso costituisce tuttavia un'unità indivisibile. Di modo
che il lettore dovrà accettare in questo libro alcune ripetizioni a pro­
posito di concezioni di base costitutive. Una piccola tavola di parole-
chiave in fondo al volume potrà rendere un servizio per trovare più
facilmente ciò che avremo esposto in ordine disperso.
Questo studio si è fissato come obiettivo di comprendere nelle sue
tendenze fondamentali qualcosa della conoscenza del mondo e della
vita propria dell'antico Israele e soprattutto della sua concezione della
realtar A quale risultato si giunge quando-sir accostano ,i testi partendo
dalle tensioni religiose e spirituali specifiche in cui questi testi sono
stati scritti e compresi nell'antico Israele? Una difficoltà si erge sul
nostro cammino quando tentiamo di rispondere a questa domanda: ci
mancano le categorie veramente adatte all'universo della lingua e del
pensiero ebraico e che sono indispensabili per poter esporre la ma­
niera in cui Israele concepiva l'uomo e il mondo. Non ci resta dunque
che servirci innanzitutto delle nozioni che ci sono familiari. Nelle pa­
gine seguenti si parlerà molto di « ordinamenti », di « leggi specifi­
che » della creazione, di « concezione profana del mondo », ecc. Ma
noi saremo subito obbligati — appena queste nozioni saranno immesse
nel dibattito — di demolirle o per lo meno di limitarle poiché ci na­
scondono ciò che Israele pensava veramente l.
Vi è pure un'altra difficoltà su cui l’autore deve intendersi in anticipo
con il lettore. Se ci si riferisce agli articoli che danno resoconto delle
opere scientifiche di consultazione, alle monografie e agli studi parti­
colari di questi ultimi decenni, si potrebbe sembrare che la « sapien­
za » d'Israele, d'Egitto o dei popoli mesopotamici è un soggetto assai
conosciuto e molto ben circoscritto. Questo tuttavia non si può am­
mettere. Al contrario, la nozione di « sapienza » è diventata sempre
più confusa, in ragione del numero crescente di lavori scientifici pub­

1 « Siete quindi invitati a fam e lettura con benevola attenzione e a mostrarvi indulgenti...; in
effetti, non vi è equivalenza tra cose espresse originariamente in ebraico e la loro traduzione in
un'altra lingua ». Prologo al libro dell'Ecclesiastico (Siracide). Il nipote ha tradotto in greco l'opera
del nonno.
I. IL PROBLEMA 17

blicati in questo settore, al punto che alcuni orientalisti sono perve­


nuti ad escluderla dal campo delle loro ricerche2. Nei libri didattici
dell'A.T. si parla spesso di quella sapienza che l'uomo deve acquistare;
essa viene raccomandata, distinta dalla « follia », ecc. Ma ce stata u n a
sapienza d'Israele come « movimento spirituale », il che sarebbe qual­
cosa dissolutamente diverso? E se fosse questo il caso, non sarebbe
molto più conveniente caratterizzare i fenomeni, i problemi, il cam ­
mino della riflessione con una precisione maggiore della etichetta:
« sapienziale » divenuta così vaga? Se si scarta questo titolo collet­
tivo, ci si trova di fronte a documenti della più totale diversità. L a
designazione di un testo come « sapienziale », e d'altronde tutta la n o ­
zione di « sapienza » considerata come un fenomeno d'insieme, non è
affatto direttamente ancorata alle fonti. Soltanto nei lavori di ricerca
questa nozione è apparsa e s'è imposta. Essa appartiene a quel num ero
relativamente elevato di concetti biblico-teologici il cui valore e conte­
nuto non sono fissati una volta per tutte e che devono essere rim essi
in questione di volta in volta per precisarne l'esattezza d'uso3. È pos­
sibile che i ricercatori abbiano esagerato nell'uso acritico di questa
nozione; può anche darsi che questa nozione suggerisca una cosa m a i
esistita come tale, di modo che essa porterebbe pregiudizio all'inter­
pretazione dei testi in questione.
È dunque giusto chiedersi se il « cliché » convenzionale di « sapien­
za » non è oggi un ostacolo più che un vantaggio perché esso dissimula
ciò che racchiude piuttosto che definirlo correttamente. Stando così le
cose, non ci resta quindi altra via duscita che trarre fuori il meglio
possibile da questo titolo convenzionale i singoli fenomeni e ripren­
derne l'esame sotto gli aspetti modificati che possono avere oggi. N es­
suno contesta che la sapienza abbia a che fare con la conoscenza um a­
na, che essa sia una forma particolare del sapere e del comportamento
umano, cosicché abbiamo senza dubbio ragione di avvicinare il sogget­
to in maniera più generale, senza idea preconcetta, domandandoci in ­
nanzitutto qual è il desiderio di conoscenza in Israele, su quali oggetti
e in quale maniera particolare ha tentato di manifestare la sua validità.
A mio parere, tale questione non è ancora stata posta, perché gli spe­
cialisti del passato non hanno avuto conoscenza dell'intensità e della
mobilità di questa volontà di conoscenza d'Israele, cosicché il cam po
di tensione specifica nel quale evolveva questa volontà di conoscere è
loro sfuggito.
L'esame del libro dei Proverbi è stato raggiunto tardi dalla grande
ondata della critica storica che nell'ambito della scienza biblica è in i­
ziata con la seconda metà del x x v i i secolo. Ciò non ha nulla di sorpren-
2 W. G. Lambert, Babylonian Wisdom Literature (I960), 1; H. Brunner, Agyptologie, in « H and-
buch der Orientalistik », 1« parte, vol. I, 1970, 133.
3 Sono già state formulate obiezioni contro l'uso sommario della nozione di sapienza, per e se m ­
pio: H. H. Schmid, Wesen und Geschichte der Weisheit (1966), 7, 185; H.-J. Hermisson, Studien zu r
israelitischen Spruchweisheit (1968), 12 s.
18 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

dente, giacché, in questi testi i criteri della critica delle fonti erano
inutilizzabili. Ci si poteva quindi attenere all’autenticità del libro dei
Proverbi di Salomone — tranne qualche modifica — ancora nella se­
conda metà del xix secolo. Il rapido cambiamento d’opinione è incon­
testabilmente scattato in seguito allo studio storico-critico della Bib­
bia, ma la convinzione che il libro dei Proverbi doveva essere consi­
derato nel suo insieme come il prodotto della comunità giudaica post-
esilica non poteva richiamarsi a risultati precisi forniti dall’analisi cri­
tica dei testi. Ci si è piuttosto lasciati guidare da un'immagine astratta
che ci si era fatta dei movimenti intellettuali e religiosi e della loro
evoluzione nell'antico Israele4. Soprattutto nel dogma rigido della « re­
tribuzione individuale » si credeva di discernere un elemento caratteri­
stico dell'epoca tardiva. È stato particolarmente negativo il fatto che,
in questa fase della ricerca, non ci si è liberati da una problematica
troppo poco sfumata, come noi la constatiamo oggi. Alla stregua dei
Salmi o dei Profeti, si considerava i Proverbi come un libro essenzial­
mente religioso che si doveva interpretare soprattutto partendo dalla
sua pietà e dalla sua idea di Dio. Ma poiché il risultato di queste ricer­
che sistematiche non era del tutto soddisfacente — ci si imbatteva in
considerazioni razionali, anche opportunistiche, in primo luogo nel­
l'estrema povertà di testi direttamente religiosi — si è pensato di dover
concludere dal contenuto di questo libro a una perdita di sostanza reli­
giosa evidente in questa sapienza post-esilica.
La ricerca non è uscita dall’ombra di questi poco felici giudizi di va­
lore religioso sino a che non ha cominciato a prendere in considera­
zione i testi sapienziali dei grandi paesi civilizzati confinanti con Israele
e la loro parentela con il materiale israelitico. È in particolare nell'an­
tico Egitto che vi sono stati libri sapienziali la cui origine si stendeva
dal terzo millennio avanti Cristo fino ad un'epoca molto tardiva. La
constatazione che un intero passo del libro della sapienza d'Amene-
mope era stato riprodotto quasi parola per parola nel libro biblico dei
Proverbi (Prov 22, 17 - 23, 11) ebbe un effetto rivoluzionario. L'idea che
la sapienza era un fenomeno religioso di Israele dopo l’esilio si rivelò
completamente falsa. La sapienza, si scoprì improvvisamente, è un fe­
nomeno comune a tutto l’Oriente, il prodotto di una civilizzazione da
cui Israele ha, in grande misura, molto più ricevuto che donato. Nello
stesso tempo, le obiezioni sorte contro una datazione risalente all’epoca
regale si sono rivelate infondate. Da quel momento era perfettamente
legittimo intraprendere da una parte o dall'altra un vasto studio com­
parativo del materiale sapienziale5. Il risultato di questo lavoro, che
4 Così G. Holscher pone ancora l'antica letteratura dei proverbi alla fine dell’epoca persiana:
Geschichte der israelitischen und jiidischen Religion (1922), 148.
5 W. O. E. Oesterley, The Wisdom of Egypt and the Old Testament (1927); W. Baumgartner,
Israelitische und altorientalische Weisheit (1933); J. Fichtner, Die altorientalische Weisheit in ihrer
israelitisch-judischen Auspragung (1933); H. Ringren, Word and Wisdom (1947); H. Gese, Lehre
und Wirklichkeit in der alien Weisheit (1958); H. H. Schmid, Wesen und Geschichte der Weisheit
(1966). W. Zimmerli ha preso una nuova direzione occupandosi dei problemi interni del libro dei
Proverbi: Zur Struktur der alttestamentlichen Weisheit, in ZAW 51, 1933, 177 ss. Circa trent'anni
I. IL PROBLEMA 19

non è terminato al momento attuale, è stata la constatazione dell'am­


piezza del tutto inattesa dei tratti comuni, delle rassomiglianze, delle
dipendenze che collegano la sapienza israelitica a quella dell’antico
Oriente. Ma ciò che era meno logico, è che si è partiti principalmente,
per interpretare queste comparazioni, dal punto di vista della sapienza
dell'antico Oriente. Nel corso di questa interpretazione della sapienza
d’Israele dovevano sorgere questioni inquietanti. Quale atteggiamento
aveva questa sapienza parzialmente importata in Israele di fronte alla
fede in Jahve che si sapeva così esclusiva? Si trattava in questo caso
d'uno sforzo intellettuale più o meno neutro nei confronti della reli­
gione e che ha potuto installarsi senza altro incidente nella prossimità
di culti totalmente differenti? Si sostiene attualmente l'opinione che la
fede israelita in Jahve e la sua enorme forza d'urto religiosa non sia
entrata negli insegnamenti sapienziali se non con molta esitazione6. Si
è persino arrivati a descrivere l'insegnamento della sapienza come un
corpo estraneo nel mondo dell'Antico Testamento7. Pare che la pratica
della comparazione con la sapienza dei popoli civilizzati confinanti ab­
bia oggi perso una parte del suo slancio. Soltanto quando le particola­
rità degli sforzi epistemologici d'Israele saranno conosciute con suffi­
ciente chiarezza allora potrà forse essere intrapresa una comparazione
secondo un sano metodo. Ma i fondamenti d'un processo di compara­
zione di questa natura devono essere posti molto più profondamente
e più solidamente *. Ciò che ci manca oggi è un lavoro sulla sapienza
d'Israele, che rifletta in maniera molto più decisa di quel che è stato
fino a questo momento, su ciò che è specifico nell’oggetto del suo stu­
dio e che si lasci, molto più di quel che è stato fatto sinora, dettare i
temi e porre le questioni dai testi didattici stessi; in breve: un lavoro
che si sforzi di penetrare nel mondo dei pensieri e dei valori e nelle
tensioni che erano propri dell’insegnamento di saggi. Si tratta quindi
di fare uno sforzo preciso per vedere la « realtà » della vita — con
quale facilità gli esegeti hanno questa parola sulle labbra! — proprio
come Israele la vedeva, si tratta nello stesso tempo di essere pronti a
prendere sul serio innanzitutto le esperienze fondamentali che Israele
afferma di aver fatto attraverso numerosi secoli nel quadro di questa
<realtà ».

più tardi, U. Skladny, Die Ultesten Spruchsammlungen in Israel (1962), l'ha seguito. Lavori parti­
colari di notevole importanza sono stati quelli di W. Zimmerli e di R. E. Murphy, R. B. Scott ha
poco fa eccellentemente mostrato la strada seguita dalla ricerca in questi ultimi decenni: The Study
of the Wisdom Literature, in « Interpretation » 24, 1970, 20 ss.
6 H. H. Schmid, op. cit., 148 e altrove.
7 H. Gese, op. cit., 2.
8 II processo di comparazione è inoltre complicato dal fatto che non sappiamo quasi niente del
cammino che ha percorso questo materiale didattico (venendo forse dall'Egitto) per arrivare in
Israele. Può essere stato assai complesso, giacché si assegna alla letteratura siro-palestinese un
importante ruolo - d ’intennediaria. Recentemente testi dell'antica Ugarit (1500-1200 a. C.) hanno dato
finalmente il loro atteso contributo alla sapienza internazionale (o più precisamente: babilonese).
J. Nougayrol, Ugaritica V, in « Mission de Ras Shamra » voi. 16, 1968, 273 ss., 291 ss. In un caso,
si dovrà ammettere un processo di infiltrazione, diversamente si tratterà eventualmente di maestri
di sapienza ambulanti che l'hanno portata direttamente in Israele. H. Cazelles, Les Sagesses du
Proche-Orient ancien (1963), 27 ss.
20 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

Risiede nella natura stessa di questo materiale la difficoltà a datare


con precisione, anche nei casi più favorevoli, collezioni di sentenze,
poemi didattici o enigmi. La datazione di Prov 10-29 all’epoca regale
preesilica non è più contestata, mentre alcuni indici linguistici ob­
bligano a scegliere una data tardiva per i dialoghi di Giobbe e soprat­
tutto per l'Ecclesiaste. Dovremo quindi di primo acchito tener conto
dei profondi cambiamenti circa le tesi e i problemi posti da testi che
si distribuiscono nel corso di diversi secoli. D'altra parte, vi saranno
pure cose che restano identiche, convinzioni che si sono mantenute
senza modifiche fino alle epoche più recenti. Spesso è molto difficile
operare una distinzione tra l'antico e il più recente, tra il convenzionale
e l'irruzione di nuovi problemi e, di conseguenza, datare relativamente
una certa problematica che si esprime a un dato momento. Così, la
querela sulla vanità della vita e l'invito, pieno di rassegnazione, a gode­
re della vita non è affatto in sé un segno certo di epoca tardiva; essa
è un soggetto di riflessione in tutto l'antico Oriente, e la si incontra
nelle epoche e nelle circostanze più diverse. Non dobbiamo quindi stu­
pirci di incontrare testi nettamente tardivi che contengono tesi che
avrebbero potuto ugualmente trovarsi in contesti molto antichi. Que­
sto è il motivo per cui, tutte le volte che penseremo di poterlo fare,
raggrupperemo senz'altro citazioni tratte da opere di epoche differenti.
In numerosi casir è assolutamente impossibile assegnare certe proposi­
zioni della sapienza ad un'epoca precisa, tanto più che lampanti diffe­
renze non si spiegano forzatamente con una successione nel tempo.
Quanti ricercatori erano sicuri di poter considerare Prov 1-9 come la
più recente collezione dell'opera! e che poco rimane di valido negli ar­
gomenti avanzati sinora, quando li si consideri più da vicino!
L'epoca di cui analizziamo l'eredità letteraria, comincia col nascere
di una sapienza di scuola all'inizio del periodo regale. La presenza
d'una sapienza tribale più antica non deve essere contestata in linea
di principio; anzi, essa è molto verosimile9. Ma è un fenomeno così dif­
ficile da determinare che la nostra ricerca non la considera come un
soggetto sui generis. Del resto, la tesi d'una relazione tra essa e la sa­
pienza di scuola si è rivelata molto discutibile. Conviene dire una volta
per sempre che non abbiamo considerato come nostro obiettivo la ri­
cerca di eventuali forme d'una sapienza più antica dietro i poemi didat­
tici del libro dei Proverbi. Noi prendiamo il materiale come ci è pre­
sentato dai compilatori e, sotto questa forma, abbiamo buone ragioni
di considerarlo come una sapienza di scuola. Consideriamo il Siracide
(Ecclesiastico) come il punto cronologico più recente, non nel senso di
una conclusione — dove ce ne sarebbero in questo settore? — ma nel
senso d'un taglio ben evidente, d'una transizione verso mutate forme
9 La questione d ’una sapienza familiare o tribale anteriore a quella di scuola è stata recente­
mente posta da J'.-P. Audet, Origines comparées de la double tradition de la loi et de la sagesse
dans le Proche-Orient ancient, in € XXV Congresso intemazionale degli Orientalisti », Mosca 1960,
1962, vol. I, 352, e soprattutto da E. Gerstenberger, Wesen und Herkunft des « apodiktischen
Rechts » (1965), soprattutto 110 ss.
di pensiero. Vi saranno però frequenti occasioni d'indicare linee che
vanno molto al di là del Siracide. Ciò sarà necessario soprattutto per
quel che concerne alcuni elementi della letteratura apocalittica.
Uno dei mezzi per acquistare una giusta intelligenza dell'insegnamen-
to dei saggi, è lo studio dei concetti. Questa via sembrerà promettente
a molti, ma non verrà qui percorsa. Senza dubbio potremmo raggrup­
pare una serie di nozioni il cui uso nelle tradizioni didattiche è parti­
colarmente notevole; ma fare un'analisi del contenuto specifico di que­
ste nozioni e del modo d'usarle, per giungere a conoscenze solide sulla
natura dei loro problemi e sull'essenza di quest'insegnamento, sarebbe
a nostro parere un'impresa senza esito. Lo studio dell'Antico Testa­
mento dal punto di vista della storia delle tradizioni ci ha mostrato
come, all'intemo di certe correnti tradizionali di natura cultuale, legale
o didattica, alcune nozioni apparivano con una grande costanza, per­
ché erano terminologicamente costitutive, ma il loro significato era
molto variabile. E se, a rigore, questa difficoltà poteva essere superata
attraverso una nuova forma della ricerca concettuale, un'altra difficoltà
sarebbe assolutamente decisiva. È un fatto riconosciuto che Israele non
lavora con un preciso apparato di nozioni, neppure nella riflessione
teorica. Si è troppo poco interessato all'elaborazione di concetti rigo­
rosi, giacché disponeva di altre possibilità per precisare il suo pensiero,
del « parallelismus membrorum » ad esempio, che potrebbe gettare nel­
la disperazione chiunque volesse analizzare i concetti con una certa
onestà. Come aver presa su una frase come la seguente, dal punto di
vista della storia dei concetti:
Io, Sapienza, sto insieme con l'accortezza (*òrm a)
e possiedo la scienza della riflessione ( mezim m ò t )? (Prov 8,12)

Si tratta senza alcun dubbio d'una formula poetica di massimo gra­


do. È perciò molto difficile tradurla in una frase che sia chiara per
noi! Si ha l'impressione che il linguaggio di questi poemi didattici con­
servi con le nozioni un rapporto del tutto diverso da quello che cono­
sciamo. Chi non si sbarazza di queste parole considerandole come am­
pollosità verbali — e bisogna guardarsi dal farlo — si trova in una
grande confusione.
Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d'Israele:
per imparare sapienza e disciplina (m usar ),
per comprendere ( hàbin) i detti istruttivi (bind);
per ricevere lezioni (m usar) di buon senso (haskèl),
di giustizia (?edeq), di probità (mtfpaf) e di rettitudine ( mèSarim );
per dare accortezza ('òrm a) agli inesperti,
ai giovani scienza (da'at) e riflessione ( mezim m à ).
Che il saggio ascolti e guadagnerà in dottrina (leqah),
e l'intelligente ( nabón) acquisterà in abilità (tahbulót). (Prov 1,1-5)

Come potrà un'esegesi che prende sul serio le parole rendere conto
di questa raccolta di espressioni? che significa ciascuno di questi con­
22 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

cetti? In che senso si ordinano tra di loro e si distinguono l’uno dal­


l’altro? È davvero difficile ammettere che il prologo del libro dei Pro­
verbi si presenta sotto la forma di un rosario di parole vuote e sonore.
Allora? È forse necessario che un concetto più ampio, per il quale non
si dispone più d'una parola adatta, sia forgiato davanti al lettore e che
si ammucchi in qualche maniera in questo spazio un certo numero di
nozioni note, perché attraverso questo ammasso sia suggerita la vera
dimensione che si intende dare al concetto10. Le diverse nozioni utiliz­
zate si distinguono certamente le une dalle altre; ma forse non in un
senso che si potrebbe precisare concettualmente, perché è evidente che
esse si collegano pure le une alle altre. Attraverso l'accumulazione di
tante nozioni, il testo sembra aver di mira qualcosa di più completo,
di più vistoso, che non sarebbe adeguatamente espresso con una sola
delle idee impiegate. Non si è ancora in grado di rispondere alla que­
stione posta dalla storia degli stili, cioè a quale fase della capacità
d'espressione poetica d’Israele può corrispondere un simile testo.
Nelle riflessioni appena fatte si presenta un problema che non ci la­
scerà più fino alla fine del nostro sforzo per giungere a una compren­
sione della letteratura didattica: se, cioè, non c’è stata in Israele al­
cuna tendenza a classificare la molteplicità dei fenomeni per mezzo di
concetti astratti, a maggior ragione dobbiamo essere più coscienti di
ciò che questa maniera di comprendere Dio, il mondo e l’uomo ha di
particolare. Non dobbiamo servirci acriticamente delle astrazioni che
ci sono familiari (natura, storia, mondo, creazione, provvidenza, ecc.),
ma cercare di comprendere come Israele si è messo di fronte al mondo
in cui si trovava. Una realtà infatti che non è captata da concetti col­
lettivi oggettivanti si presenta diversamente; e anzi — lo si sarà già
intuito — aderisce molto più strettamente all'uomo n.

10Su questa forma di pensiero « stereometrico », cfr. p. 33.


11 Evidentemente, Israele ha pure fatto uso di astrazioni come sostegno del pensiero (giustizia,
timore, conoscenza, istruzione, ecc.). Ma la questione è questa: a che cosa servivano queste astra-
zioni, come gli erano utili, quando non servivano a nulla? Si potrà dire in maniera molto generale
che si è sempre servito di alcune nozioni astratte, ma che non è mai giunto a racchiuderle in
astrazioni più vaste.
II

LUOGHI E RAPPRESENTANTI
DELLA TRADIZIONE DIDATTICA

Se si pone il problema dell’ambiente in cui si è formato il libro dei


Proverbi, quale risulta dalle diverse collezioni di proverbi, i primi pun­
ti di appoggio che abbiamo sono le soprascritte che precedono ogni
singola collezione *. C’è dapprima il titolo che attribuisce l’intero libro
al re Salomone (Prov 1,1) e che è stato fissato della tradizione gene­
rale; così pure la collezione particolare dei capitoli 10-15 viene posta
sotto il nome di Salomone ; infine Prov 25-27 sono designati come « pro­
verbi di Salomone, raccolti dagli uomini di Ezechia, re di Giuda »
(25, 1). Attualmente, si è inclini a non mettere più in dubbio questa
notizia, qualunque cosa si pensi del ruolo di Salomone come autore.
Questa indicazione ci informa che vi è stato a corte un lavoro di reda­
zione sistematicamente organizzato e che esso era concluso già all’epo­
ca regale. I « Detti per Lemuel » sono indirizzati a un re (Prov 31,1 ss.).
Se si riconosce che un numero assai grande di proverbi suppone in ef­
fetti circostanze tipiche della corte, il primo risultato della nostra ri­
cerca sarà di ammettere che il libro dei Proverbi ci riconduce soprat­
tutto alla corte regale come a un luogo tradizionale di custodia della
sapienza. Ciò corrisponderebbe esattamente a quel che sappiamo delle
corti d’Egitto e di Mesopotamia. Queste opere didattiche sono testimo­
niate in maniera particolarmente ricca in Egitto dove esse sono attri­
buite di preferenza a re o ad alti funzionari della corte. Così pure in
Mesopotamia; si pensi al saggio ministro Ahikar, di cui la narrazione
sottolinea in maniera stereotipa che « tutta l’Assiria dipendeva dal suo
consiglio », e al suo insegnamento ch'egli indirizza al nipote e succes­
sore nella carica 2. Ciò richiama d’altronde la situazione dell’antico Isra­
ele ; ad esempio basti pensare ad Ahitofel, consigliere di Davide: s'egli
1 H libro dei Proverbi si compone di nove collezioni distinte: I. Prov 1 -9 ; II. 10 - 22, 16; HI.
22. 17 - 24, 22; IV. 24, 23-34; V. 25 -29; VI. 30, 1-14; VII. 30, 15 - 33; V ili. 31. 1-9; IX. 31, 10-31.
Le diverse soprascritte permettono di supporre che ciascuna collezione ha avuto dapprima il pro­
prio processo di formazione tradizionale.
2 II racconto di Afcikar è trascritto presso Gressmann, in AOT 1926?, 454 ss., e Pritchard, in
ANET, 426 ss., Tob 14, 10 fa allusione al personaggio principale di questo racconto che a quell'epoca
era universalmente conosciuto.
24 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

dava un consiglio, era come « se si fosse consultato Dio stesso » ( 2 Sam


16, 23). Pertanto il compito principale di questi alti funzionari di corte
era quello di consigliare il re in fatto di politica3.
I progetti si consolidano con il consiglio;
fa’ la guerra con molta prudenza. (Prov 20, 18)
La vittoria sta nel gran numero dei consiglieri. (Prov 24,6b)

Consigliare il re con parole pronunciate avvedutamente era una ca­


rica piena di responsabilità che esigeva competenze molto precise,
acquistabili solo attraverso una lunga educazione. Non è quindi per
caso che, in tutte le opere didattiche, l’insegnamento sull’uso giusto e
sull'uso falso della parola giuoca un ruolo così considerevole. Questi
funzionari partivano assai frequentemente in viaggio e dovevano rap­
presentare, nelle missioni politiche e grazie alla loro arte oratoria, gli
interessi del loro paese presso le corti straniere4. Ma l’arte dei consi­
gli politici e le regole delle relazioni diplomatiche non erano certamente
la sola cosa che si poteva imparare a corte. Si parla una volta di « sag­
gi, che avevano la conoscenza dei tempi » (Est 1, 13); si penserà in que­
sto caso ad astrologhi o a personaggi che credono di possedere la scien­
za dei segni. Ma non è tutto: dovremo occuparci con maggiore ampiez­
za del significato che si attribuiva al fatto di conoscere il tempo favo­
revole per un'impresa. Daniele e Giuseppe esercitano l’ufficio di inter­
preti dei sogni regali (Gen 41,14ss.; Dan 1,17; 2,28). Si sa che nel-
l'Oriente antico l’interpretazione dei sogni aveva preso le dimensioni
d’ima vera scienza e si può ammettere, in seguito ad Is 3, 3, che una
funzione analoga esisteva anche alla corte di Gerusalemme. Nel libro
tardivo della Sapienza di Salomone sono enumerate diverse branche
delle scienze naturali insegnate a quell'epoca; sono l’astronomia, la zoo­
logia, la demonologia, la psicologia, la botanica e la farmacia (Sap. Sai.
7,18 ss.). Non è giusto affermare che tutti questi settori scientifici si
siano sviluppati solo nella fase più tardiva. Il libro dei Proverbi non
contiene che una sapienza concernente la vita ed è certamente solo un
settore degli sforzi compiuti per giungere a quel tipo di conoscenza
sapienzale, sforzi che già da un’epoca antica dovevano riposare su una
base molto più ampia.
Ma la questione si complica pure da un altro punto di vista. Malgra­
do la nostra prima definizione del quadro in cui è potuto nascere il
libro dei Proverbi, non è possibile vedervi unicamente un prodotto del­
la conoscenza dell’ambiente di corte, utile alla cultura degli alti fun­
zionari. Il quadro sociale da cui escono le sentenze particolari ed an­
che gruppi interi di sentenze, il genere dei problemi affrontati, le ma­
terie che esse trattano possono venire selezionate con una certa preci­

3 P. A. H. de Boor, The Counsellor, in VTSuppl 3, 1955, 42 ss. Esempi particolarmente belli di


questa forbita eloquenza, nel corso di un consiglio di guerra, si trovano in 2 Sara 17.
4 Eccli 34, 11 s.; Prov 22, 21; Eccli 39, 4.
II. LUOGHI E RAPPRESENTANTI DELLA TRADIZIONE DIDATTICA 25

sione; il risultato è che il mondo in cui esse vivono non è in ogni caso
la corte5. Al contrario, le sentenze aventi a che fare col mondo ristretto
della corte e degli alti funzionari sono, nell'insieme, relativamente po­
che 6. S'impone così l'ipotesi che i saggi di corte, gli « uomini di Eze­
chia » tra gli altri, hanno lavorato come compilatori di un insegnamen­
to esterno a quello della corte, cosicché la sapienza non ebbe affatto
come quadro di vita solo la corte. È chiaro che essa deve aver avuto
molto presto i suoi centri di cultura nel paese, in uno strato più vasto
della popolazione, dove si è orientata maggiormente verso i problemi
posti dalla vita di un ambiente borghese e contadino agiato7.
Sarebbe molto utile poter ottenere dall'A.T. qualche informazione
circa l’istruzione pubblica in Israele, ma le ricerche numerose molto
accurate, che sono state fatte, sono rimaste quasi senza risultato8. La
prima indicazione diretta si trova nel libro tardivo del Siracide dove
una volta si parla della « scuola » (bèt hammidràS: Eccli 51, 23). Tutta­
via, pare fuor di dubbio che nell’antico Israele ci sono state delle scuo­
le; questo almeno ci viene indicato dalle condizioni dei paesi confinanti
di alto grado di civilizzazione, anche se non si deve dimenticare che que­
ste condizioni non possono essere trasportate tali e quali in Israele che,
dal punto di vista della cultura, era in una situazione molto più mo­
desta. D’altra parte, conosciamo indirettamente l’esistenza di queste
scuole dall’alto livello della letteratura già agli inizi della monarchia.
La sua qualità ci obbliga ad ammettere l'esistenza della professione di
scriba, perché mai essa avrebbe raggiunto un tale livello senza ima
cultura proveniente da questo ambiente. In Israele pure si è scritto;
bisognava quindi che si insegnasse l’arte di scrivere. La scrittura non è
mai stata insegnata senza esservi accompagnata da una dottrina. Ne
consegue che in Israele devono esserci state scuole di diverso genere.
Le cose rituali e le complesse distinzioni tra il puro e l’impuro sono
state probabilmente insegnate in scuole sacerdotali. Gli scribi del Tem­
pio di Ger 8, 8 sono stati certamente formati in modo diverso dai gio­
vani funzionari di corte. E i Leviti devono aver ricevuto, essi pure,
un’istruzione diversa che li preparava all’interpretazione delle tradi­
zioni antiche o alla loro diffusione tramite la predicazione9. Infine, era
necessaria un’istruzione preparatoria del tutto diversa per lavorare nel­
la cancelleria di Esdra dove venivano elaborati gli editti del Grande Re.
Vi è un genere di proposizioni interrogative che — pensiamo — si
collegavano almeno indirettamente a una specie d ’attività scolastica.
» Vedere sull’argomento soprattutto le analisi di U. Skladny.
• Proverbi regali in particolare in Prov 16, 10-15; 25, 1-7.
T II giovane la cui educazione musicale e retorica è così ben descritta in 1 Sam 16, 18, proviene
da Betlemme. Questo ci spiega anche come Amos abbia potuto usufruire di questa sapienza pedago­
gica; cfr. H. W. Wolff, Amos’ geistige Heimat (1964), e H.-J. Hermisson, op. cit., 88 ss.
• Circa la questione delle scuole in Israele cfr. di recente soprattutto H.-J. Hermisson, op. cit.,
97 ss.; W. McKane, Prophets and Wise Men (19662), 36 ss.; L. Diirr, Das Erziehungswesen im Alten
Testament und im antiken Orient (1932); L. Jansen, Die spdtjudische Psalmendichtung, ihr Entste-
hungskreis und ihr « Sitz im Leben » (1937), 57 ss.
• Circa la pratica della predicazione, cfr. G. von Rad, Das jilnfte Buch Mose, in AID 1964, 13 s,
e passim.
26 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

Esse sono sparse un po' in tutto l'A.T. e le descriveremo qui sotto la


voce di domande di scuola.
Può uno mettersi del fuoco in seno
senza che i suoi vestiti s’infiammino?
O può un uomo camminare su carboni ardenti
senza bruciarsi i piedi? (Prov 6, 27 s.)

Tutti ricordano la serie di domande poste in Am 3,3-8, definite da


tempo come « sapienziali ».
II papiro cresce senza stagno?
La canna si sviluppa senza umidità? (Giob 8, 11)
A chi gli: Ah!? a chi gli: Qimè!?
A chi le liti? a chi i lamenti?
A chi le ferite senza motivo? a chi gli occhi arrossati?
A coloro che fanno tardi accanto al vino,
a coloro che vanno ad assaggiare vino drogato. (Prov 23, 29-30)

Isaia 28,23-29 è un magnifico esempio di stile catechetico. Tratta


dell'attività complicata e tuttavia piena di significato deiragricoltore al
momento della semina e della m ietitura10. In Ez 15,1-3 si trova una
catechesi sull'inutilità del legno della vigna. Che si tratti in questi casi
di esposizioni istruttive ce lo indica la presenza di esortazioni inaugu­
rali (Lehreròffnungsruf) a cui si è prestato da poco attenzione!1. Altri
esempi di questa « esortazione inaugurale » si trovano in Deut 32,1 ;
Is 34, 1; Sai 49, 2-5. Il poeta del discorso di Elihu (Giob 32; 33, 1-3;
34, 1 s.) l'ha stilizzata con la maggiore ampiezza: questa esortazione ad
ascoltare un insegnamento occupa più d'un capitolo! Per datare queste
esposizioni di scuola, è importante notare che la forma dell'esortazione
che inaugura un insegnamento è già attestata all'epoca preesilica. È
possibile che questo insegnamento si concludesse con un regolare esa­
me finale Se ne parla una volta più tardi (Dan 1, 19 s.). Cosa non da­
remmo per sapere fin dove si estendeva l'esame dei ragazzi di corte!
Esempi molto semplici costituiscono le risposte alle domande che li
provocano.
Qual è -l'uomo che ama la vita,
che desidera prolungarla per godere la felicità?
Preserva la tua lingua dal male,
e le tue labbra da parole d'inganno! (Sai 34, 13 s.)

to vedi il testo p. 130 s.


11 Su queste « esortazioni inaugurali », cfr. H. W. Wolff, Hosea, in BK 15/1, 1965, 122; esempi:
Deut 32, 1; Is 28, 23; 34, 1; Sai 49, 2-5.
12 Circa l'interrogazione scolastica che nell'insegnamento egiziano sfociava chiaramente in un
esame, cfr. G. von Rad, Gesammelte Studien (1958), 267 ss. Cfr. Afeikar, col. I, tavola 40, 10 s.
In Eccli 10, 19 si trova il modello di una piccola catechesi: « Quale razza è degna d'onore? — La
razza dell’uomol — Quale razza è degna d'onore? — Coloro che temono il Signore! — Quale razza
è degna di disprezzo? — La razza dell’uomo! — Quale razza è degna di disprezzo? — Coloro che
violano la Legge! ». Nel libro IV di Esdra si trovano parecchi esempi di dialoghi didattici (5, 43 ss.;
6, 53 ss.; 7,1 ss. 45 ss.; 8, 1 ss. 35 ss.). La frequente esortazione: «Osservate quindi» in Enoc
2-5 (ogni volta riguardante una conoscenza della natura), non potrebbe derivare da una pratica del­
l'insegnamento? « Osservate e vedete come gli alberi si mostrano tutti... Osservate e vedete come si
coprono di foglie verdi...» Enoc 4,1; 5,1 e altrove.
II. LUOGHI E RAPPRESENTANTI DELLA TRADIZIONE DIDATTICA 27

Nessuno si stupirà di vedere il settore teologico inglobato in questo


insegnamento didattico.
Chi è salito al cielo e chi ne è disceso?
Chi ha raccolto il vento nelle proprie mani?
Chi ha rinchiuso le acque nel suo mantello?
Chi ha fissato i confini della terra?
Qual è il suo nome e quale il nome di suo figlio?
Lo sai? (Prov 34, 4)
Chi ha misurato le acque con il cavo della mano,
ha preso le dimensioni dei cieli col palmo,
e ha raccolto la polvere della terra in un terzo di misura?
Chi ha pesato le montagne con la stadera,
e le colline con la bilancia? (Is 40, 12)

È lo stile dei questionari catechetici che si collegano evidentemente


ai temi degli inni. Ci fermiamo qui, anche se gli esempi si potrebbero
moltiplicare. A noi interessa soltanto la forma stilistica della questione
di scuola che come procedimento di stile letterario è passata anche in
contesti del tutto diversi. Si tratta sovente di quelle che siamo soliti
chiamare domande retoriche. Ma non sempre. Ci sono anche altri modi
d'impiego. Comunque, si tratta sempre di cose che l'uomo può e deve
sapere in ogni circostanza. Disgraziatamente, sulla questione principale
da noi posta in tale contesto, quella cioè dei rappresentanti di queste
dottrine, in particolare di quelle dei Proverbi, quindi sulla questione
concernente la funzione dei saggi, non si può dire gran che di sicuro.
Come raffigurarci l'attività di un maestro di sapienza? Da quale mo­
mento bisogna calcolare l'esistenza di maestri di sapienza come gruppo
professionale?
È noto che l'aggettivo hàkàm da noi tradotto non sempre esatta­
mente con « saggio » non è applicato soltanto a persone che esercitano
una certa professione, ma designa piuttosto persone che sono « compe­
tenti », « al corrente » in un certo senso e in qualche settore13. Così può
applicarsi anche ad artigiani o a marinai. 2 Sam 13, 3 mostra chiara­
mente che questo termine è totalmente estraneo ad una gerarchia di
valori: esso caratterizza un uomo che conosce tutti i raggiri e tutte le
malizie che gli permettono di raggiungere i propri fini a corte. Egli
« se ne intendeva * in questo campo. E lo stesso feto che non trova la
via d'uscita dalla matrice è un bimbo «poco saggio»! (Os 13, 13)14.
L'aggettivo sostantivato « il saggio » si incontra sovente nel libro dei
Proverbi di Salomone, ma anche qui ci troviamo disgraziatamente —
nei testi preesilici — di fronte ad un significato non del tutto chiaro.
Nella maggioranza dei casi, il saggio non è il rappresentante di una

« Es 36, 8; 31, 3. 6; 35, 35; 1 Re 7, 14; Is 40, 20; Ger 9, 16; 10, 9; Ez 27, 8; del resto, sul piano
semantico, le cose sono identiche per il « sophos » greco; cfr. H. Frankel, Dichtung und Philosophie
des frilhen Griechentums (1962), 275, e U. Wilckens, in TWNT, VII, 467 ss.
u Come pure Es 1, 10; Ger 4, 22; Giob 5, 13.
28 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

funzione, ma semplicemente l’uomo saggio, tipicamente opposto allo


stolto o al m atto1S. D’altronde la stessa cosa avviene nei dialoghi poste­
silici di Giobbe dove, ad esempio, gli amici di Giobbe ricevono una
volta la qualifica di saggi (Giob 34, 2; cfr. 17, 10). Un piccolo gruppo
di citazioni del libro dei Proverbi lascia intravedere dietro il termine
« saggio » uomini che si occupavano professionalmente dell’insegna­
mento e della compilazione di proverbi didattici,6. Le raccolte di pro­
verbi, di cui prima si è parlato, hanno trovato — anche per l’antico
Egitto, come sappiamo — un uso nelle scuole dei funzionari d’Israele,
per esservi copiate o studiate dagli allievi; ma non è verosimile che sia­
no state compilate in vista della scuola, cioè come manuali scolasticin.
La lingua è relativamente instabile anche nei testi postesilici. Si vede
però apparire, soprattutto presso il Siracide, il profilo del saggio, mae­
stro erudito, che si delinea in modo sempre più preciso. Nell’Ecclesia-
ste, la potenza delle parole dei saggi è paragonata a quella del pungolo
del bifolco (Eccle 12, 13).
Se si passa in rassegna il gran numero di testi per vedere se ve n’è
qualcuno che si radichi nel campo dell’istituzione e ci possa così dare
un punto d’appoggio, si sarà sorpresi nel constatare che vi sono due
stati i cui titolari portano già, quasi convenzionalmente, il titolo di sag­
gi: il re e i suoi più alti consiglieri Si deve quindi intendere questo
attributo più come una nozione tradizionale ancorata nel passato che
nel senso di un giudizio su una precisa persona: il re è saggio allo stes­
so titolo del vizir e consigliere supremo della corte. Questa elevazione
a tipo fa di chi riveste queste due cariche l’oggetto privilegiato del­
l’esposizione letteraria. È ciò che rivela la storia di Ahikar, il saggio
ministro del re Sennacherib, così diffusa in tutto l’antico Oriente, ed
è pure il caso della tradizione sulla saggezza esemplare di Salomone. È
per noi di maggiore interesse il piccolo gruppo di testi che usa l’agget­
tivo « saggio » come sostantivo per designare ima professione. In Ger
18, 18 si trova citata a fianco della funzione di sacerdote e di quella di
profeta una funzione del saggio il cui compito consiste nel dare consi­
gli; ed è a consigli politici che bisogna pensare. Il testo di Ez 7, 26,
molto vicino a Ger 18, 18, nomina a fianco dei profeti e dei sacerdoti
un terzo gruppo: gli anziani. Non è molto probabile che siano stati in­
segnanti di professione. In Ger 50, 35 s., i saggi di Babilonia sono indi­
cati come terzo gruppo a fianco degli abitanti e dei funzionari (Sàrim),
il che farebbe forse pensare a uno stato avente una funzione speciale
a fianco dell'uomo politico.
Solo dai testi dell’epoca tardiva possiamo trarre alcuni dettagli su
ciò che comportava quest’attività di maestri e sul modo con cui questi
uomini consideravano la loro funzione.

■5 Ad esempio: Prov 14, 3.24; 15, 2.7; 21, 20; 29, 11.
* Prov 22, 17; 24, 23; 13, 14; 15, 12 s. Cfr. H.-J. Hermisson, op. cit., 133 ss.
17 H.-J. Hermisson, op. cit., 122 ss.
18 Re: Is 19, 11; 10, 13; Ez 28, 3. Funzionari: Gen 41, 33; Is 19, 11; 30, 4; Ger 50, 35; 51, 57.
II. LUOGHI E RAPPRESENTANTI DELLA TRADIZIONE DIDATTICA 29
Diverso è il compito di chi applica la sua anima
e il suo pensiero alla legge delTAltis siimo.
Egli investiga la sapienza di tutti gli antichi,
e consacra dì tempo libero alle profezie.
Conserva i racconti degli uomini celebri
e penetra ili groviglio delle parabole.
Egli esplora il senso nascosto dei proverbi
e si interessa degli enigmi delle parabole.
Prende servizio tra i grandi,
e lo si nota in presenza dei capi.
Egli viaggia in paesi) stranieri,
ed ha fatto l'esperienza del bene e del male tra gli uomini.
Già dal mattino, con tutto il cuore,
si rivolge al Signore, suo creatore;
innalza la sua anima verso l'Altissimo,
apre la bocca per la preghiera
e supplica per i propri peccati.
Se questa è da volontà dedl'Altissimo Dio,
egli sarà riempito dello spirito d'intelligenza.
Egli stesso diffonderà parole di sapienza,
nella preghiera renderà grazie al Signore.
Acquisterà rettitudine nel giudizio e nella conoscenza,
e mediterà i suoi misteri nascosti.
Egli mostrerà l'istruzione che ha ricevuto
e metterà la sua fierezza nella legge deli-alleanza del Signore.
Molti loderanno il suo senno,
e non lo si dimenticherà.
Il suo ricordo non si cancellerà,
il suo nome vivrà dii generazione in generazione.
Le genti proclameranno la sua sapienza
e l'assemblea celebrerà le sue dodi.
S'egii vive a lungo, il suo nome sarà più glorioso di mille altri,
e se muore, il suo nome gli basta. (Bcoli 39, 1-11)

Questo poema può essere considerato come il ritratto ideale del


saggio, del maestro dell'epoca del Siracide (200 a. C. circa). In ogni ca­
so vi sono enumerati gli elementi principali di una professione in cui
si era al servizio della conoscenza della verità. Se si segue il cammino
delle idee del poema, il primo oggetto della ricerca sarebbe la « legge
deirAltissimo »; di conseguenza, questo genere di maestro doveva es­
sere di preferenza uno scriba. Si può comunque dire con certezza che
gli antichi maestri di sapienza non erano scribi. Se si analizza l'ordine
in cui si susseguono i diversi enunciati del poema, sembra che, dal co­
me viene descritta, vi siano diverse tensioni in questa funzione: in Eccli
39, 1 ss., infatti, l'insieme dei compiti assegnati al saggio (ad eccezione
del versetto 8b) è descritto con qualche differenza. In ogni caso, lo
studio della torah vi appare semplicemente come uno dei settori d'atti­
vità posto sullo stesso piano degli altri; per cui si potrebbe quasi arri­
vare a supporre che nel nostro testo all'immagine dell'uomo istruito
si è aggiunto un nuovo tratto, quello della scienza delle Scritture. Il
primo segno distintivo sarebbe quindi la conoscenza approfondita del­
la tradizione che si rifà agli antichi, come pure la capacità di occuparsi
3. von rad. la sapienza in israele
30 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

di predizioni. A questo compito si aggiungeva un costante perfeziona­


mento delle capacità didattiche e un’attività d’interpretazione delle sen­
tenze e degli enigmi. Occasionalmente, questo tipo di saggio poteva en­
trare al servizio d'un sovrano e, in questa posizione, viaggiare ai suoi
ordini ed estendere i suoi studi a contatto con altri popoli. Ora, tutto
ciò doveva essere basato su una relazione personale di preghiera con
Dio, poiché Dio solo ha il potere — se questa è la sua volontà — di
accordare i carismi che renderanno il saggio capace di esercitare una
carriera feconda d’insegnamento. La fine del poema dà alcune indica­
zioni sulla considerazione di cui godrà nella vita pubblica e sulla glo­
ria che gli sopravvivrà.
Se questo testo, preso nel suo insieme, ci mostra piuttosto i linea­
menti esteriori dell’attività intellettuale di un maestro di sapienza (Ec­
cli 14, 20-26) ci fa penetrare di più nel segreto ; questo poema didattico
infatti descrive la relazione interiore del saggio con la verità a cui si è
consacrato. Questa pittura incomparabile dell’eroe scientifico testimo­
nia una cultura altamente spirituale. In filigrana — poiché non vi è un
paragone sistematicamente sviluppato — gioca l’immagine dell’amante
che corre dietro all’amata e si tiene appostato vicino alla sua casa. Con
quale maestria si parla degli approcci e del raggiungimento che ricom­
pensa lo sforzo teso verso la sapienza ! Uno sguardo gettato dalla fine­
stra, un origliare alla sua porta, un ritirarsi vicino al suo focolare, una
sosta alla sua ombra — è tutto ed è m oltol9.

10 II testo è tradotto a p. 154.


I ll

FORME DI ESPRESSIONE
DELLA CONOSCENZA

Lo spirito umano, nel corso della sua storia, ha scoperto e coltivato


diversi mezzi per esprimere e fissare le conoscenze acquisite. Se ci ac­
costiamo dall’estemo ai saggi d’Israele ci colpirà innanzitutto una ca­
ratteristica che li lega gli uni agli altri malgrado l’estrema diversità di
forma e di contenuto: il loro insegnamento è formulato in forma poe­
tica, è poesia! Non si può considerare questa caratteristica come un
fatto accidentale privo di valore ‘. Questa particolarità non può essere
separata dal fenomeno della conoscenza come fosse un semplice com­
plemento accidentale; è piuttosto attraverso e nella concezione poetica
che ha luogo la conoscenza. In effetti, non si può trattare il fenomeno
dell’espressione poetica come una trasfigurazione di esperienze che vie­
ne dall’interno dell’uomo, uno svuotamento della loro realtà, perché
sul piano estetico esse sarebbero molto meno interessanti; non si può
quindi considerarle come un fatto che ha più dell’apparenza che della
realtà. Questa concezione essenzialmente soggettiva dell’estetica che in
genere ha dominato nel xix secolo non è in grado di rendere giustizia
alla poesia, soprattutto a quella di un popolo dell’antichità poiché
l’espressione poetica era essa stessa una forma specifica della conoscen­
za della realtà e, presso i popoli antichi, ima delle forme preponderan­
ti. Essa esprime un incontro intenso con la realtà e con gli avvenimen­
ti; e, nella misura in cui fa risaltare dalla massa informe dell’esperienza
l’avvenimento particolare che vien colato nella forma d’una parola, es­
sa stessa fa parte di quest’avvenimento. In verità, ogni arte è imitazione
del reale, ma in questa realizzazione si compie sempre un processo di
cambiamento. L'essere è messo in evidenza in una dimensione della
verità di cui ciascuno può riconoscere la validità. Chi pensasse che il
desiderio umano di conoscere può esprimersi veramente solo nel lin­
guaggio delle scienze cosiddette esatte, non potrebbe fare a meno di

1 H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), 77 ss., soprattutto 94.


LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

classificare le conoscenze d’Israele, di cui ci occupiamo, tra i risultati


di uno sforzo « prescientifico », « precritico » ed ancora molto ingenuo,
non foss'altro per la loro forma poetica. Non si potrà tuttavia conte­
stare che, sotto questa forma poetica, è in azione un potere molto acuto
di differenziazione intellettuale.
Se si abbraccia la vasta gamma dei generi sapienziali e ci si interessa
ai particolari, alle caratteristiche formali, alla scelta delle parole, ecc.
si avrà presto l’impressione che i saggi non sono di molto inferiori al
moderno erudito; si sono infatti sottomessi ad una fatica altrettanto
notevole per quel che riguarda la maniera formale di esporre letteraria­
mente le loro conoscenze. Ben inteso, alla comunicazione dottorale del­
la conoscenza moderna, per la quale il linguaggio è un fatto accessorio,
non resta che la possibilità di un linguaggio scientifico in prosa. Se
l'esposizione non è redatta in una prosa barbara, il fatto è considerato
come un abbellimento complementare, ma il valore, il peso delle cono­
scenze così comunicate non ne sono fondamentalmente modificati. Non
vi è nulla, né nell'A.T. né nell'antico Oriente, che corrisponda a que­
sta forma moderna di comunicazione didattica della conoscenza, inau­
gurata dai Greci. Non è qui il luogo di citarne le ragioni, basti afferma­
re semplicemente che Israele non poteva esprimere in questo modo la
sua esperienza della realtà. Le esperienze del reale di fronte a cui si
trovava potevano esprimersi correttamente soltanto in forma artistica.
C’era, ad esempio, tutto un settore di conoscenze (della natura) che si
potevano esprimere soltanto in forma di inni. Occorrerà quindi che
prestiamo un’attenzione del tutto speciale alle forme a cui Israele fa
ricorso per esprimere le sue conoscenze. Il che ci permetterà contempo­
raneamente di avvicinarci alquanto ai materiali che ci sforziamo di ca­
pire, poiché non ci si può limitare ad occuparsi di forme; si ha sempre
a che fare con una sostanza, con un contenuto. Per noi si tratta di mol­
to più che di una semplice registrazione esteriore di generi didattici
specifici. Se crediamo seriamente che le forme sono inseparabili dal
contenuto, potremo presentare al lettore qualcosa del contenuto stesso,
benché a tutta prima sotto un aspetto ancora limitato.

I . L a SENTENZA ARTISTICA

Bisognava forse che si giungesse alla scomparsa quasi totale del-


l'« epigramma » e dell’« apoftegma » dalla vita dell’uomo moderno e
dalla poesia recente per prendere coscienza della singolarità di questa
straordinaria attività dello spirito che ha avuto un ruolo così prepon­
derante in tutte le civiltà dei tempi passati. È raro ormai incontrare
uomini per cui un adagio ben fatto significhi qualcosa di più che una
fioritura retorica e la cui vita e riflessione si radichino in questi soste­
gni dell’esistenza, che servono loro come indispensabili indicatori nelle
piccole e grandi decisioni da prendere. Non si è lontani dal chiedersi
I I I . FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 33

se noi moderni, perdendo l’epigramma, non abbiamo anche perso una


dimensione della conoscenza specifica del mondo. Per quel che riguar­
da Israele, ci si può chiedere se questa sapienza proverbiale non era
più importante degli stessi dieci comandamenti — i quali venivano ri­
chiamati raramente, nelle grandi feste — quando si trattava di pren­
dere decisioni nella vita quotidiana, di orientarsi nella giungla dell'esi­
stenza di ogni giorno. Questa eredità proverbiale d’Israele era eviden­
temente di natura molto diversa per origini e forme. Una quantità as­
sai grande può venire da una sapienza popolare molto antica; quanto
al resto, può provenire da libri, forse da una letteratura straniera, pas­
sando per scuole che l’hanno resa popolare. Come nel Medioevo gli
scrittori latini sono stati utilizzati didatticamente nelle scuole conven­
tuali 2, così nelle scuole d’Israele ci si può essere occupati delle tradi­
zioni proverbiali dell’antico Egitto o di Edom. Se il detto popolare
mostra una tendenza al linguaggio nobile, poiché usa volentieri uno
stile elevato, la sentenza artistica, uscita dalle scuole, vi si distingue
per una cultura nettamente più curata nella forma e nel contenuto. È
quindi meglio parlare di poesia proverbiale. È con questa che noi ab­
biamo a che fare nei Proverbi di Salomone, poiché l’idea, un tempo
correntemente ammessa, che le sue sentenze risalivano a detti popolari
non può più essere difesa \ Come noi le leggiamo oggi, provengono dal­
l’insegnamento di scuola, il che non esclude evidentemente che vi ab­
bia potuto trovare posto questo o quell’altro proverbio popolare4.
La forma poetica più elementare era per Israele, come anche per gli
altri popoli dell’antico Oriente, il « parallelismus membrorum », con il
quale il poeta è obbligato ad esprimere in due versi due aspetti della
stessa realtà. Da Herder in poi si è tenuto fin troppo l’elogio di que­
sta « rima d’idee », come è stata così opportunamente chiamata. È in­
discutibile che essa offre al poeta una miniera inesauribile di possibi­
lità per modulare poeticamente il pensiero. Ma questo parallelismo è
anche appropriato nella trasmissione delle conoscenze acquisite? Il rad­
doppiamento di ogni frase, che gli è essenziale, non porta forse ad una
certa confusione e ad una mancanza di precisione? Lo si potrebbe af­
fermare se si trattasse d’ottenere, in queste espressioni della conoscen­
za, la massima precisione concettuale possibile. Ma non si tratta di que­
sto. Quel che si ricerca non è tanto la precisione del concetto, bensì
quella del profilo della cosa che si ha nello spirito, per quanto possi­
bile in tutta la sua ampiezza5. A questo riguardo il libro dei Proverbi
abbonda di espressioni plastiche incomparabili e molto precise. Anche
l’anticò Israele conosceva l’obbligo della precisione del linguaggio; ma
3 F. Seiler, Das deutsche Sprichwort. Grundrìss der deutschen Wolkskunde (1918), 16.
3 H.-J. Hermisson, op. cit., 52 ss.
4 Quel che noi chiamiamo sentenza, proverbio, corrisponde all'ebraico mòlo/. Ma questa parola
copre una gamma di significati più vasta: può essere un adagio, un modo di dire usuale, un intero
poema didattico. H.-J. Hermisson, op. cit., 38 ss.; A. R. Johnson, in VTSuppl 3, 1955, 162 ss.
5 « Per i Semiti, il parallelismo è per così dire la stereometria del pensiero espresso, costante-
mente cesellato e concepito per il massimo d ’effetto », B. Landsberger-W. von Soden, Die Eigenbe-
grifflichkeit der babylonischen Welt (1965), 17.
34 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

la esigeva piuttosto nella trasmissione dei fatti stabiliti che non nella
formazione dei concetti.
Si può scorgere nel monostico costruito in due metà parallele la for­
ma fondamentale della poesia proverbiale dell'antico Israele; ma biso­
gna resistere alla tentazione di considerarlo come il punto di partenza
d'uno sviluppo verso forme letterarie sempre più ampie. L'idea che al­
l'origine si trovino le unità più piccole, mentre quelle più lunghe sono
venute successivamente, si è rivelata falsa per quel che riguarda la
poesia didattica6. Il monostico impone spesso esigenze molto più ele­
vate e richiede una ben maggiore elaborazione intellettuale che un
poema didattico pienamente svolto! Il monostico è in genere molto più
denso ed offre molto più spazio libero per la comprensione e l'applica­
zione che non il poema didattico il cui contenuto è più nettamente cir­
coscritto.
Il peso e la bilancia giusti sono in mano airEtemo;
tutta i pesi del sacco sono opera sua. (Prov 16, 11)
Non è bene avere riguardo alla persona del malvagio,
per fare torto al giusto in giudizio. (Prov 18, 5)
Il falso testimone non resterà impunito,
e chi dice menzogne non sfuggirà. (Prov 19, 5)
Un saggio parte all’assalto di una città di forti,
ed abbatte il baluardo in cui essa confidava. (Prov 21, 22)
Rimuovi dalla tua bocca ‘la falsità,
dalle tue labbra i raggiri allontana. (Prov 4, 24)

Questi proverbi sono articolati parallelamente, sono cioè il prodotto


di una volontà artistica che ha conferito loro un'impronta. I proverbi
popolari non nascono in questa forma. Gli esempi citati mostrano la
forma più semplice di parallelismo: il sinonimo, in cui i due membri
della frase, separati dalla cesura, dicono press'a poco la stessa cosa.
L'ultimo esempio è inoltre costruito chiasticamente (il verbo e l'ogget­
to si incrociano); offre una raffinatezza particolare di stile di cui la
poesia ebraica molto spesso si è servita.
Chi disprezza il prossimo è privo di senno,
ma l'uomo che ha intelligenza tace.
Chi diffonde la calunnia svela i segreti,
ma chi ha lo spirito fedele li custodisce.
Quando viene a mancare la prudenza, il popolo cade;
la salvezza è nel gran numero di consiglieri.
Chi garantisce per altri si trova male,
ma chi teme d'impegnarsi è in sicurezza.
Una donna che ha grazia ottiene la gloria,
ma un trono di vergogna è una donna che disprezza l’onestà (LXX).
L’uomo buono fa del bene alla propria anima,
ma l'uomo crudele molesta la propria carne. (Prov 11, 12-17)

4 Cfr. Kayatz, Studien zu Proverbien 1-9 (1966), 2 ss. Cfr. sul problema W. F. Albright, nel suo
articolo: Some Canaanite-Phoenician Sources of Hebrew Wisdom, in VTSuppl 3, 1955, 4.
IH. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 35

Sono esempi di quel che vien chiamato il parallelismo antitetico;


quasi l'ottanta per cento di tutti i proverbi della collezione Prov 10-15
sono di stile antitetico. Come ci si può rendere conto, i contrasti sono
netti, ma le innumerevoli possibilità di variazione di questa forma di
stile consistono nel fatto che i contrasti non si corrispondono esatta­
mente nella loro antitesi. Non si dice esattamente il contrario di ciò
che precede — una tautologia di segno contrario — poiché ciò rischie-
rebbe di diventare noioso. Come enunciato, l'antitesi possiede una cer­
ta autonomia capovolgendo da parte sua con una grande libertà l'idea
proposta. Si tratta in ogni caso di una possibilità di opposizione tra
parecchie altre; si stimola così la riflessione ulteriore lasciando spazio
al pensiero. Una forma poetica particolarmente bella si trova in quel
che vien chiamato il parallelismo sintetico:
I capelli bisulchi sono una corona d'onore;
è sul cammino della giustizia che la si trova. (Prov 16, 31)
Un servo prudente domina su un figlio disonorato,
ed avrà parte all'eredità con i fratelli. (Prov 17, 2)
La morte e la vita sono in potere della lingua;
chiunque l'ama ne mangerà i frutti. (Prov 18, 21)

II secondo membro è lungi dal ripetere ciò che diceva il primo, pur
modulandolo; né dice d'altra parte il contrario. Ciò che lo caratterizza
è che prosegue l'idea introdotta, sovente nel senso di una gradazione,
del passaggio a una nuova idea. La prima idea tende a superarsi ma
sempre nella stessa direzione e per una sorta di prolungamento. Biso­
gna che qualcosa di particolarmente sorprendente si sia imposto al
poeta, tra le direzioni in cui la sua prima idea poteva essere prolunga­
ta. Spesso è una generalizzazione, spesso anche una specificazione per
la quale ciò che è stato detto si trova completato.
I proverbi formulati comparativamente sono particolarmente apprez­
zati, soprattutto nella collezione Prov 25 - 277.
È meglio poco con la giustizia,
che grandi redditi con l'ingiustizia. (Prov 16, 8)
£ meglio un pezzo di pane secco con la pace,
che una casa piena di carni con le discordie. (Prov 17, 1)
£ meglio abitare nell'angolo di una soffitta,
che condividere la casa con una donna attaccabrighe. (Prov 25, 24)
È meglio un rimprovero aperto, che un’amicizia nascosta. (Prov 27, 5)

Bisognerà separare i proverbi di paragone di cui si parlerà in un


altro capitolo8:
Come una città forzata e senza mura,
così l'uomo che non è padrone di se stesso. (Prov 25, 28)

7 H. H. Schmid, op. cit., 159, nota 69, propone di considerare questa formulazione non come
comparativa, ma come esclusiva: « È buono... e non lo è... ».
8 Rimando a pp. 114 ss.
36 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

Come uno smalto d'argento su di un vaso d'argilla,


così ilabbra ardenti e un cuore malintenzionato. (Prov 26, 23)
Come <nubi e vento senza pioggia,
così l’uomo che si vanta a torto delle sue liberalità. (Prov 25, 14)

Il fenomeno di « appercezione gnomica » (Petsch), cioè un genere


particolare di scoperta della conoscenza e la sua fissazione in ima for­
ma linguistica precisa, quella deirepigramma, è presente in tutte le
civiltà del mondo e deve essere di conseguenza considerato come
un espressione molto elementare del processo di scoperta del conoscere
umano. All'analisi, questa forma di attività dello spirito umano non è
priva di complessità; per ben capirla è essenziale notarne la stretta
corrispondenza, l'unità di contenuto e di forma. Non è che la conoscen­
za fosse presente in qualche dove e che soltanto le mancasse la forma
conveniente. No, essa esiste solo in questa forma o non esiste affatto.
L'avvenimento della scoperta di una conoscenza e la sua espressione
verbale rappresentano un solo e medesimo atto. Non si tratta quindi
in questo genere di formulazione di trovare innanzitutto un mezzo di­
dattico utilizzabile che permetta di dare più coesione e forza d'urto al
contenuto. Il significato costitutivo che vien dato alla parola, alla for­
ma del linguaggio, risale ad attività noetiche molto più elementari. In
questi proverbi la frequenza delle paronomasie, l'assonanza, l'allitte­
razione ci mostrano ancora qualcosa della funzione evocatrice di signi­
ficato — che ci pare magica — attribuita al suono delle parole 10. Non
si contesterà che le assonanze, giochi di parole e altre forme simili, son
potuti diventare molto più tardi, in un'epoca di raffinatezza letteraria,
mezzi per ornare uno stile di cui i maestri si servivano per mostrare
la loro abilità di linguaggio. È difficile al riguardo tracciare un confine,
e questo vale anche per l'eccesso di sinonimi di cui si è già parlato. Si
esita tuttavia a vedere nello strano cumulo di nozioni sinonime di Prov
1, 1-5 ad esempio, una retorica più o meno vuota. È più giusto suppor­
re che questa accumulazione di sostantivi evocatori di significati di­
versi inizia il tentativo di tracciare una determinata zona semantica
attraverso l'addizione di nozioni pregnanti. In Giob 18, 7-10 si accumu­
lano i termini tecnici della caccia, in Giob 4, 10 s. vi sono cinque ter­
mini per designare il leone (africano, asiatico, femmina madre, giova­
ne leone, ecc.) u. Vi è forse il desiderio del saggio di farsi ammirare per
le sue parole e le sue conoscenze zoologiche? Non si può sfuggire del
tutto a questa impressione. Ma ciò porterebbe forse ad escludere che
vi sia qui qualcosa di più che « enfasi vuota » (Duhm su questo testo),
che la quantità di parole abbia una funzione esorcizzante che allarga
...

9 II copulativo « è » manca. Se lo si aggiunge traducendo, si rende l'espressione più grossolana:


infatti in questa forma affatto semplice della giustapposizione « si lascia fluttuare la scelta del sog­
getto e del predicato della frase tra i due fenomeni giustapposti» (Hermisson, op. cit., 145).
10 G. Bostrom, Paronomasi i den àldre hebreiska maschallitteraturen (1928).
" L. Kohler, in ZDPV 62, 1939, 121 ss.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 37

il significato? Con una sola parola per indicare il leone, il maestro non
avrebbe potuto dire ciò che gli stava a cuore: chi crea la disgrazia fi­
nisce presto o tardi nella disgrazia.
Anche se le sentenze sono state elaborate in ambiente di scuola, la
loro stilizzazione non è immediatamente pedagogica. Nella grande mag­
gioranza sono affermazioni che si presentano in forma di tesi perfetta­
mente neutre, senza mettere direttamente in causa il lettore. Esse non
sono di natura imperativa, hanno piuttosto una tendenza retrospettiva
ed hanno soprattutto un valore empirico. A loro modo nel loro settore,
vogliono affermare una certezza, il cui valore non presenta alcun dub­
bio. Si presentano le esperienze, si traggono le conclusioni, il risultato
si impone da sé 12. La differenza tra gli avvertimenti e le constatazioni
è evidente. Mentre gli avvertimenti suggeriscono all'uditore un com­
portamento del tutto chiaro, le constatazioni, pur notevoli, conservano
sempre un'imprecisione che è loro propria, qualcosa che rimanda più
lontano e più in alto, che permette numerose associazioni d'idee e che,
in talune circostanze, non impedisce un'interpretazione figurata 13.
Si è detto sovente che queste constatazioni sono esclusivamente trat­
te dall'esperienza. È stata certamente necessaria una lunga osservazione
di circostanze analoghe perché si potessero individuare a poco a poco
certe regole; e noi possiamo dire di capire questa poesia sentenziosa
soltanto quando sappiamo vedervi all'opera un'intelligenza instancabile
che pone problemi pressanti al mondo che la circonda e non indietreg­
gia mai nel tentativo accanito di scoprire qualche ordinamento nel
mondo circostante e di fissarlo. Evidentemente l'esperienza non era tut­
to. Certo, Israele era convinto che gli avvenimenti e le circostanze par­
lavano all'uomo, ma pur avendo essi un linguaggio, parlavano in ma­
niera chiara e senza equivoco, erano facilmente compresi? Inoltre: gli
avvenimenti dovevano dapprima diventare esperienza; essi dovevano
essere colti e capiti. Bisognava innanzitutto che il simile, l'identico,
fosse percepito come simile e identico prima che lo si potesse catalo­
gare. II tutto poi doveva essere portato sul piano di una lingua strut­
turata. No, decisamente, tra gli avvenimenti e i proverbi che ne parla­
no, vi è tutto un lungo lavoro di riflessione pieno di complicazioni e le
tappe di questo lavoro non hanno lasciato tracce; non si può che sup­
porle in seguito a partire dal risultato finale, dai proverbi in forma di
tesi. Si è trattato di molto più che duna nomenclatura la più fedele
possibile al materiale di esperienze date in precedenza, cioè del compi­
to piuttosto tecnico di valorizzarla il meglio possibile nella pratica, si
è trattato anche di dargli una forma che serva da modello ad un atto
12 W. Preisendanz, Die Spruckform in der Lyrik des alten Goethe und ihre Vorgeschichte seit
Opitz, in « Heidelberger Forschungen » 1, 1952, 13 s.
13 Le « parole d'esortazione » o d'awertimento sono molto meno numerose della quantità di con­
statazioni, di affermazioni, nelle collezioni di Prov 10-29. Le troviamo soprattutto nella collezione che
ricalca in parte l’egiziano Amenemope: Prov 22, 17 - 24, 22; inoltre 25, 6-10.16 s. 21 s.; 26, 12; 27,
1 s. 10 s. 13. 23. Sul problema particolare degli avvertimenti ed esortazioni identiche che troviamo
in altre parti dell’A.T. (ad esempio in Deut), cfr. W. Richter, Rechi und Ethos (Versuch einer
Ortung des weisheitlichen Mahnspruches), 1966.
38 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

umano vitale. In ogni fissazione gnomica si produce anche un'umaniz-


zazione dell'uomo.
L'interpretazione della sapienza proverbiale ha quindi i suoi proble­
mi. « Bisogna avere spirito per comprendere il loro spirito e senti­
mento per sentire la bellezza della loro espressione! » 14. Non si con­
clude nulla, evidentemente, a voler comprendere le sentenze partendo
dalla soggettività del loro autore, perché non vi è nulla in esse che si
limiti alla persona; tutto è ad un livello superiore alla persona, valido
in generale. Dobbiamo senza dubbio tener conto di certi processi in­
tellettuali che han portato alla creazione d'una sentenza; e ciò sempli­
cemente perché essa non è stata il prodotto di un'ispirazione istanta­
nea, ma di una elaborazione intellettuale. Questo è però tutto ciò che
possiamo dire al riguardo. La sentenza deve parlare da sé ed è questo
che ci pone di fronte al problema più delicato: quello dell'orizzonte
generale, religioso e filosofico, del contesto da cui la singola sentenza
è potuta uscire e a partire dal quale può essere capita. Il genere stesso
dell'epigramma implica che una cosa vera si esprima in una concen­
trazione massima sul soggetto trattato e prescindendo completamente
dalle contingenze, dalle concomitanze, ecc. Gli epigrammi, le sentenze
devono essere capiti da tutti, in modo-che non ne siano limitate le pos­
sibilità di comprensione; d'altra parte essi non si difendono da se stes­
si neanche contro interpretazioni audaci. Tuttavia questa validità ge­
nerale, che è voluta, ha pure i suoi limiti. In una sentenza moderna,
avvertiamo subito il momento in cui cessa un'interpretazione o un'ap­
plicazione fedele e dove comincia un'interpretazione abusiva. Tanto
più facilmente si può quindi giungere, in una sentenza antica, al punto
in cui il suo senso si altera, e questo semplicemente per il fatto che si
son persi di vista i fattori religiosi e filosofici costitutivi della mede­
sima. Questo è capitato nell'esegesi passata che ha visto nei Proverbi
l'espressione di una religione diventata superficiale, razionalista e op­
portunista. Ma ancor oggi, la ricerca contemporanea non ha risolto in
modo soddisfacente il problema della prospettiva entro cui interpre­
tare le sentenze del libro dei Proverbi. Uno sguardo su Esiodo po­
trebbe aiutarci a restare più sensibili a questo fatto. Nel suo libro
Le Opere e i Giorni, le sentenze invitano costantemente al paragone
con la poesia sentenziosa della Bibbia Egli, che ha scritto inoltre
riflessioni cariche di mitologia nella Teogonia, era in fondo un uomo
che considerava la vita nella prospettiva d'un opportunismo triviale.
Abbiamo qui la possibilità di avere sotto mano, presso un solo e me­
desimo autore, il contesto religioso e filosofico profondo con cui si
può mettere a confronto senza difficoltà né tensione questo genere di
poesia sentenziosa. Il contesto teologico deve essere preso in conside­
razione anche per gli scrittori della poesia sentenziosa dell'A.T. Non
14 J. G. Herder, Spruch und Bild insonderheit bei den Morgenldndem, in « Suphan *, voi. 16, 9 s.
15 Infine, O. Ploger, Gottes Wort und Gottes Land, in «Festschrift fiir H. W. Hertzberg», 1965,
159 ss. Già F. Hòlderlin aveva trattato la questione in un'opera dottorale di licenza.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 39
conosciamo i nomi degli « autori », ancor meno conosciamo i soggetti
teologici di cui possono essersi occupati in altre occasioni e, malgrado
ciò, non dobbiamo lasciar cadere il tentativo di ricostruire il quadro
intellettuale e religioso da cui sono uscite le sentenze. Non si tratta
affatto di un'impresa senza esito e d’altra parte questo problema par­
ticolare non potrà essere affrontato che in un altro contestol6.
Se ci siamo sforzati di evitare le interpretazioni scorrette delle sen­
tenze antiche, dobbiamo tuttavia disporci a capire che, nel corso della
loro trasmissione nel tempo, le sentenze si sono modificate nelle di­
verse epoche parallelamente con le trasformazioni intellettuali e reli­
giose. Il senso di una sentenza non è mai stato assolutamente costante
perché l'intelligenza che vi si avvicinava era in continuo movimento.
Le sentenze sono state trasmesse d’epoca in epoca come eredità spiri­
tuale del passato, ma chi poteva impedire a coloro che sono venuti
dopo di adattare semplicemente un proverbio al loro orizzonte intel­
lettuale particolare e di estrarne il senso che loro s’imponeva? Dovre­
mo quindi tener conto d'una grande mobilità e d'ima grande libertà
nell'interpretazione ulteriore. La sentenza sapienziale: « La via dell’uo­
mo non è in suo potere » (Ger 10, 23) è presa al volo in un passo degli
scritti di Qumran, quindi in un’atmosfera religiosa profondamente mo­
dificata (1 QS XI, 10; 1 QH XV, 12 s.). Senza che cambi l’ordine delle
parole, le sentenze parlano a generazioni successive portando loro l'in­
segnamento di cui hanno bisogno!
I casi in cui una sentenza è stata sottoposta ad una modificazione di
forma o di sostanza nel corso del processo di trasmissione sono molto
più rari. Nella collezione redatta dagli uomini di Ezechia, si legge al­
l’inizio:
La gloria di Dio sta nel nascondere le cose;
Ja gloria dei re sta nelUnvestigare le cose. (Prov 25, 2)

È una bella sentenza piena di respiro che permette al pensiero di


muoversi in ogni sorta di direzioni! Vi si parla dell’onore regale della
ricerca (il re era in quel tempo il responsabile e il promotore privile­
giato di ogni ricerca di sapienza); ma, prima, vi è la parola di Dio la
cui gloria sta nel segreto, il che significa che il suo mistero deve essere
rispettato e venerato dall’uomo. Dio nasconde, i re cercano — gloria
all’imo ed agli altri! Quale conoscenza di Dio e dell'uomo in questo
pugno di parole! Nel libro tardivo di Tobia (in sec. a. C.), questo pro­
verbio si è trasformato:
È bello custodire il segreto del re,
mentre conviene rivelare e pubblicare le opere di Dio. (Tob 12, 7)

Anche qui Dio e il re sono uno a fianco dell'altro sempre sotto il


segno del segreto e della rivelazione. Ma non si tratta più di attitudini

16 Vedi Conoscenza, e timore di Dio, soprattutto pp. 60 ss.


40 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

di ciascuno dei due, bensì del comportamento che gli uomini devono
tenere nei loro confronti. Una volta deviata la sentenza in questa dire­
zione, è — fatto sorprendente — l'opposto che ne risulta: si deve par­
lare delle opere di Dio, si devono tacere i segreti di un re. Come pure
la sentenza ben nota che afferma che un padre che ama il proprio fi­
glio lo corregge (Prov 13, 24), applicata ai rapporti tra Dio e l'uomo, ha
preso un contenuto completamente diverso: non ci si deve sottrarre
alla correzione di Dio, « perché Jahve corregge colui ch'egli ama, come
un padre il figlio prediletto » (Prov 3, 11 s.).

II. Altre f o r m e d i p o e s ia d id a t t ic a

Nell'esposizione che segue, non abbiamo l'intenzione di riunire tutte


le forme letterarie attraverso le quali le esperienze d'Israele si sono
espresse in vista dell'insegnamento. La possibilità e la necessità stessa
di rivestire una data conoscenza con tale o tal'altra forma letteraria
si è imposta a seconda della materia d'insegnamento e della situazione
di chi l'insegnava. Non si potrà tuttavia portare in ogni caso la prova
che alcune conoscenze hanno potuto esprimersi solo in una determi­
nata forma e non in un'altra. D'altra parte, è solo in certi rari casi
che si sceglieva come forma un rivestimento neutro. È quindi neces­
sario farsi una qualche idea sulle forme letterarie più caratteristiche.

1. Proverbi numerici
Il censimento, l'enumerazione di cose, di modi d'essere, di virtù, ecc.,
è uno dei bisogni più elementari dell'uomo che ricerca l'ordine: ne
abbiamo una gran quantità di esempi nelle forme più svariate e in
tutte le civiltà 17. Anche nei cosiddetti proverbi numerici ci troviamo di
fronte a questa volontà ordinatrice, così profondamente ancorata nel­
l'uomo, e precisamente in una forma proverbiale molto specifica che è
stata coltivata non solo in Israele, ma negli altri paesi dell'antico
Oriente e che ha sempre più attirato l'attenzione degli esegeti18.
Vi sono sei cose che Jahve odia,
anzi sette ch'egli ha in orrore:
gli occhi ailteri, la lingua mentitrice,
le mani che spargono.di sangue innocente,
il cuore ©he trama progetti iniqui,
i piedi che corrono in fretta al male,
il falso testimone che dice menzogne,
e chi suscita le discordie tra i fratelli. (Prov 6, 16-19)

17 E. R. Curtius, Europàische Literatur und lateinisches Mittélalter (19634), 499.


1BCirca le sentenze numeriche, in particolare presso i popoli vicini d’Israele, cfr. G. Sauer, Die
Spriiche Agurs (1963); W. M. Roth, The Numerical Sequence x/x+1 in the Old Testament, in
VT 12, 1962, 300 ss. Idem, Numerical Sayings in the Old Testament, in VTSuppl 13, 1965;
H. W. Wolff, Amos' geistige Heimat (1964), 24 ss.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 41
Tre cose fanno tremare la terra,
e ve ne sono quattro ch’essa non può sopportare:
imo schiavo che giunge a regnare,
uno stolto che è sazio di pane,
una donna disdegnata che si sposa,
e una serva che eredita dalla padrona. (Prov 30,21-23)

Le caratteristiche di questo stile sono facili da riconoscere in questi


due esempi. Dapprima l’introduzione, che è piuttosto generale quanto
al tema e che comporta un’enumerazione crescente (da uno-due a nove-
dieci); poi la serie che segue, in cui le cifre date sono riempite di un
contenuto in funzione della cifra più alta. L’intenzione di questa forma
di sentenza è sempre la stessa: riunire cose identiche, ma — quel che
veramente sorprende — affermando l’identità di cose che, prese indi­
vidualmente, sono nettamente differenti. È verosimile che queste mas­
sime sono servite pure nella scuola per insegnare e per istruirsi. Ma
ciò non risponde ancora alla domanda sulla singolarità di questa for­
ma sentenziosa, la quale ha — con molta probabilità — un’analogia
col gioco dell’enigma. La domanda: Qual è la cosa più alta? Qual è la
cosa peggiore? Qual è la cosa più rapida? è diffusa nel mondo intero19.
Una volta formulata, essa ha qualcosa di stimolante, giacché ciascuno
si sforza di trovare la risposta — « puoi scommettere tre o quattro
volte ». L’introduzione di queste sentenze numeriche ha effettivamente
il carattere di sfida: la menzione delle cifre ed il silenzio su ciò che si
vuol dire provocano l’uditore e risvegliano la sua curiosità20.
Vi sono tre cose che hanno un bel portamento,
e quattro che 'hanno una bella andatura:
il leone, il forte tra gli animali,
che non indietreggia idi fronte a nessuno;
il gallo che cammina .spavaldamente,
il capro ohe guida il gregge,
ed il re quando compare (?) in mezzo ai popolo. (Prov 30, 29-31)

Si dà come scontato che la regina di Saba abbia « messo alla prova »


Salomone con enigmi (1 Re 10, 1). Un enigma deve essere « aperto »
(Sai 49, 5) ed è certo che sentenze enigmatiche facevano parte del re­
pertorio dei maestri di sapienza (Prov 1, 6; Sai 78, 2; Sap 8, 8; Eccli
39, 3). Da questo al gioco degli enigmi riportato dall’incantevole storia
di III Esd 3 non vi è che un passo. I giovani paggi del re Dario ingan­
nano la noia delle loro veglie rispondendo ad enigmi, in particolare
alla domanda: Qual è la cosa più potente? Ognuno deve deporre la
soluzione sigillata sotto il guanciale del re e si aspettano una buona

19 Per la civiltà greca cfr. B. Snell, Dichtung und Gesellschaft (1965), 103.
20 II numero degli oggetti enumerati era libero. Già lo schema: uno-due è attestato (Sauer, op.
cit., 88). Ad esso si contrappone Eccli 25, 7-11 con nove-dieci. Più il numero è alto, più la sen ­
tenza è incolore. T ra Prov 30, 18 s. ed Eccli 25, 7 ss., si produce un vasto sviluppo che declina nello
stile. Là, quattro cose che sembrano sorprendenti alla ragione, ma si lasciano ancora da lei gerar-
chizzare (cfr. pp. 116 ss.). Qui, una numerazione incontrollata dei più importanti beni della v ita
(discendenza, donna, amici, timore di Dio, ecc.).
42 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

ricompensa quand'egli pronuncerà il verdetto. Il primo dice: il vino;


il secondo: il re; il terzo: le donne21. Potrebbe darsi che le sentenze
numeriche appartengano immediatamente al genere degli enigmi.
L enigma è il gioco della scoperta della verità: l'uno nasconde o ma­
schera, l'altro fa uscire alla luce la verità che era nascosta.
A chi gli « ah! »? a chi gli « oimèl »?
A chi le liti? a chi d lamenti?
A chi de ferite senza motivo? a chi gli occhi arrossati?
A coloro che fanno tardi accanto al vino,
a coloro che vanno ad assaggiare vino drogato. (Prov 23, 29 s.)
Cosa vi è di più pesante del piombo?
Qual è il suo nome? Lo stolto! (Eccli 22, 14)

Tuttavia, non si può parlare di un genere speciale per l'enigma. Se


l'abbiamo visto comparire in una sentenza numerica, lo vedremo più
lontano sotto i tratti di un'allegoria.

2. Lo stile autobiografico
Non è raro che le conoscenze siano presentate come ima scoperta
personale, un'esperienza fatta dal maestro in persona:
Son passato presso il campo di un pigro,
e presso la vigna di un uomo di poco senno.
Ora, ecco: tutto era invaso dalle ortiche... (Prov 24, 30-34)
Sono stato giovane... sono invecchiato;
ma non ho mai visto il giusto abbandonato,
né la sua discendenza mendicare il pane.

Ho visto il malvagio nella sua potenza...


è passato, ecco, non è più;
10 cerco e più non 'lo trovo! (Sai 37, 25.35 s.)
Nella mia giovinezza, prima dei miei viaggi,
con franchezza ricercai la sapienza...
Alla porta del santuario io l’apprezzai,
e fino alla fine la ricercherò.
Fioriva come uva che matura,
11 mio cuore metteva in essa la propria gioia.
Sulle sue orme i miei piedi avanzavano,
e dalla mia giovinezza l ’ho ricercata.
Ho teso alquanto d’orecchio verso di lei, ho imparato,
ed ho scoperto molto insegnamento. (Eccli 51, 13-16)
Quanto a me, ultimo venuto, ho vegliato,
come un racimolatore dietro ai vendemmiatori.
Per la benedizione del Signore, sono giunto il primo,
e come un vendemmiatore, ho riempito il torchio.
Riconoscete che non ho lavorato per me soltanto,
ma per tutti coloro che cercano insegnamento. (Eccli 33, 16-18)

21 La risposta del terzo paggio («m a su tutto la verità la vince ») è certamente un'addizione ulte­
riore. Su questo racconto, cfr. W. Rudolph, in ZAW 61, 1945, 176 ss. L'idea che questa storia sia di
orìgine greca non mi pare necessaria.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 43

Si tratta certamente molto di più di una forma tradizionale di stile,


in cui il maestro poteva occasionalmente esprimere il suo insegna­
mento e che può dar luogo a più vasti sviluppi. L'interesse di noi mo­
derni per la biografia degli autori biblici non deve quindi trarci in
inganno: non si tratta infatti di avvenimenti veramente vissuti o, al
massimo, essi si trovano mascherati sotto una forma molto convenzio­
nale \ Forse nel Siracide possiamo supporre la presenza di una con­
fessione personale ed originale. Ma, anche nel caso in cui ci trovassimo
di fronte ad una clausola di stile, non si tratterebbe di qualcosa di
neutro e d'insignificante. È certo che essa anima l'insegnamento e sti­
mola l'interesse dell'uditore; ed è probabile che ciò significhi qualcosa
di più che uno scaltro procedimento didattico. Le conoscenze di cui si
occupavano questi maestri non avevano in sé niente di personale. Ab­
biamo già parlato dello sforzo fatto per elevarle al livello di una vi­
sione generale. Per se stesso si allontanavano da ciò che era personale
e contingente per raggiungere il vero trans-personale. Sembra quindi
che vi sia una specie di contraddizione tra la forma ed il contenuto.
Ma proprio in questo risiede una certa attrattiva; il maestro infatti
mostra in tal modo che queste conoscenze devono essere radicate nella
vita individuale; con questa forma di stile, il maestro prende intera­
mente sotto la sua responsabilità personale le conoscenze che tra­
smette.

3. Il grande poema didattico


La massa di testi che si trova sotto questa rubrica potrebbe da sola
essere oggetto di uno studio di critica stilistica. Negli studi fatti sinora
le diverse forme di sentenze han fin troppo occupato il primo posto,
mentre manca uno studio sui poemi didattici più rilevanti. Nei discorsi
degli amici di Giobbe troviamo già quattro di questi poemi sulla fine
del malvagio, del « violento »; si può quindi parlare di un modello d'in­
segnamento che ha goduto presso i saggi di un certo favore. In tre
casi, si è conservata ancora un'indicazione didattica stereotipa: « Que­
sta è la sorte che Dio riserva al malvagio »; oppure l'« introduzione del
maestro »: « Ti sto per parlare, ascoltami » (Giob 8, 8; 15, 17; 27, 13).
Una volta, è la conclusione che dice: « Questa è la sorte che Dio riserva
al malvagio, questa è l'eredità che Dio gli destina » (Giob 20, 29)
Ecco la sorte che Dio riserva ai malvagio,
l'eredità che Dio destina all'empio.
Se ha figli in gran numero sono per la spada,
e i suoi rampolli mancano di pane.

» Esempi: Sai 37, 25.35 s.; 73, 2 ss.; Giob 4, 8; 5, 3; Prov 7, 6 ss.; 24, 30 s.; Eccli 31, 12 s.
* Partendo da Is 17, 14, B. S. Childs ha consacrato uno studio interessante alla formula: « Que­
sta è la sorte... * e vi ha visto una forma di discorso originario della scuola di sapienza: Isaiah and
the Assyrian Crisis (1967), 131 ss. (Ai testi citati si potrebbe aggiungere Ger 13, 25 e Sap 2, 9). Non
sono sicuro che essa sia una formula di conclusione. In Giob 27, 13 sta all'inizio, probabilmente
anche in Ger 13, 25. In Giob 8, 13 e Sap 2, 9 si trova in mezzo.
44 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

Coloro che scampano sono sepolti nella morte,


e le loro vedove non li piangono.
Se accumula il denaro come la polvere,
se ammucchia i vestiti come argilla,
è lui che accumula, ma il giusto che si veste,
è l'integro che ha il denaro in sorte.
La sua casa egli l’ha costruita come una « tela di ragno »,
come la capanna che costruisce un guardiano.
Si corica ricco e muore spoglio,
apre gli occhi e tutto è scomparso.
I terrori lo sorprendono come acque,
un turbine lo porta via nel mezzo della notte.
II vento dell'est ilo solleva e lo trascina,
lo strappa violentemente dalla sua casa.
Lo si dixsegue senza pietà ed egli deve fuggire.
Si battono ile mani alla sua caduta,
gli si fischia 'dietro dal luogo che iegli lascia. (Giob 27, 13-23)
In questi quattro modelli d'insegnamento viene dipinto in uno slan­
cio retorico pieno di foga il ritratto tipico del malvagio, come pure la
sorte tipica che gli è riservata dopo una vita il cui inizio può essere
stato pieno di successo. I terrori lo assalgono e la vendetta, la nemesi,
lo colpisce fatalmente alla fine, cosicché egli diventa motivo di orrore
e di disgusto per coloro che gli sopravvivono. Egli porta la maledizio­
ne, è senza discendenti, è oggetto di spavento tra i suoi amici.
Ciascuno di questi quattro poemi è un capolavoro in sé e suppone
uditori molto esigenti. Disgraziatamente, è impossibile rispondere al
problema sollevato da questi poemi, cioè della persona che può essere
loro servita da modello, della categoria sociale di questi « empi »
{rasa), di questi « violenti » ('àrìs), di questi « spregiatori di Dio »
(hànèf) poiché tutto è esageratamente tipizzato. In questi poemi di­
dattici, l'elemento specificamente teologico non appare in primo pia­
no; il loro oggetto è meno la punizione di Dio che la disgrazia
come tale.
Accanto a questo genere, ve ne sono ancora altri che non è possibile
paragonare con quelli che abbiamo appena ricordato, come ad esem­
pio Tavviso contro le cattive compagnie (Prov 1, 10-19), il poema delle
« benedizioni della sapienza » (Prov 2, 1-22). E soprattutto entrano in
questo gruppo i poemi che pongono apertamente problemi teologici (in
egittologia si parla di « letteratura di contestazione »24); tra essi, al­
cuni salmi (Sai 37, 49; 73, 139)25.

4. Il dialogo
Non è certo la porzione minore della letteratura di contestazione
deirantico Oriente quella rappresentata dai dialoghi: la forma dialo­
gata è infatti il mezzo più naturale di sviluppare un problema. Accanto
24 E. Otto, Der Vorwurf an Goti (Zur Entstehung der dgyptischen Auseinandersetzungsliteratur), in
« Vortràge der Orientalistischen Tagung in Marburg », Fachgruppe Àgyptologie, 1950 e 1951.
25 Più ampiamente pp. 185 ss.
I I I . FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 45

alla copiosa e ben nota letteratura dialogata della Mesopotamia e del­


l’antico Egitto, la letteratura didattica d’Israele non vi può essere an­
noverata che per il dialogo tra Giobbe ed i suoi amici, dialogo che ec­
celle d’altronde per sublimità su quelli delle altre letterature26. Biso­
gnerebbe innanzitutto stabilire se i dialoghi molto più semplici delle
favole come quella di Jotam o della disputa tra il tamerice e la palma-
dattero 27 costituiscono uno stadio letterario preliminare ai grandi poe­
mi dialogati. Si nota inoltre l’assenza d’uno studio sul carattere spe­
cifico del lavoro di riflessione compiuto nei grandi dialoghi: esso ci
porterebbe a paragoni — in ogni caso dubbiosi — con i dialoghi greci
o moderni. Non vi è nulla di sorprendente nel fatto che questi dialoghi
ignorino ogni descrizione personale e psicologica dei dialoganti; quel
che mette a disagio il lettore attuale è piuttosto l’assenza di un reale
scambio tra un interlocutore e l’altro. In Giobbe si ha sovente l’im­
pressione ch’egli non abbia affatto ascoltato e a volte i due antagonisti
sembrano difendere la stessa causa, quando ad esempio, affrontano il
tema della libertà di Dio. Questa lacuna solleva la difficoltà maggiore:
l’assenza di una definizione chiara della questione dibattuta o di un
progresso percettibile del pensiero. Se Giobbe inizia un lamento (7, 14),
cade ben presto nel genere convenzionale della lamentazione indivi­
duale e segue il suo svolgimento tradizionale senza riferimento ad ima
situazione biografica, cosicché si perde ben presto di vista il problema.
E tuttavia il dialogo di Giobbe non gira a vuoto; vi si può discernere
un progresso di pensiero; ma non è una sola, sono parecchie idee che
vengono affrontate simultaneamente, di modo che si passa dall’una al­
l’altra durante il discorso. Tuttavia, bisogna usare discrezione. Questo
cammino della riflessione è forse più sconcertante che lacunoso; si può
facilmente constatare che le questioni vengono sezionate in numerose
sfaccettature, e viene così evocata una profondità ed ampiezza del pro­
blema che non apparirebbe nella ricerca di una soluzione con il metodo
del progresso lineare. Innanzitutto la visione d’insieme! Di questo si
tratta, molto più che di acquistare una conoscenza che possa essere
formulata con dei concetti condensati in una sola frase. E nella sua
contemplazione il poeta parte sempre da una totalità.
In un’epoca più tardiva — tanto per rimanere all’essenziale — un
altro dialogo è stato composto in Israele; appartiene a ciò che di più
grandioso è stato scritto in seno a questo popolo: è il dialogo tra Esdra
e l’angelo interprete, nel libro di Esdra, che è uscito direttamente dalla
tradizione sapienziale ". Esdra vi espone la disperazione angosciosa che
si è impadronita dei giudei devoti al tempo della catastrofe abbattutasi
su Gerusalemme nel 70 d. C. L’angelo risponde offrendo alla medita­
zione del disperato precetti della sapienza antica. A tali estremi non ci

Sul « tema di Giobbe» nella letteratura sumero-accadica, cfr. H. Gese, op. cit., 51 ss.
27 Cfr. H. Gressmann, in AOT, 294 s.; Pritchard, in ANET, 410.
n G. Ree se, Die Geschichte Israels in der Auffassung des friiheren Judentums, tesi in edizione
meccanografica, Facoltà di Heidelberg, 1967, 136 ss.
4. von rad. la sapienza io i&raefc
46 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

conducono di sicuro i discorsi a tavolino, tenuti probabilmente ad Ales­


sandria tra i saggi giudei e Tolomeo Filadelfo. Alle domande poste dal
re, i giudei non si trovano mai in imbarazzo nel dare la giusta risposta;
dal punto di vista letterario non è certo un capolavoro79.

5. Favola ed allegoria
Oggi abbiamo perso ogni relazione diretta con la favola che fu a suo
tempo una « grande potenza letteraria »; dobbiamo appropriarcene pas­
sando attraverso la percezione storica. Anche qui abbiamo a che fare
con una delle forme originali deirattività intellettuale deiruomo. Si è
insistito giustamente sul fatto che la favola non perseguiva per sua na­
tura uno scopo morale, ma si limitava a presentare semplicemente una
verità, una realtà, qualcosa di tipico in sé30; e non è raro ch'essa di­
pinga la realtà con estrema crudezza31. Il fatto poetico è certamente
molto notevole, poiché nella favola si produce un travestimento della
realtà quotidiana, una specie di alienazione nell'irreale e nel fatato. Ma
sotto questo vestito strano, la verità risalta con più evidenza che nella
vita quotidiana dove essa è così sovente trascurata. Si ha quest'effetto
soprattutto quando la realtà descritta è spinta al comico. L'impiego
d'animali e di piante che si trova nelle favole della letteratura dell'an-
tico Oriente è considerevole. Evidentemente, le favole sono un genere
che allorigine appartiene ad ogni uomo e non è soltanto il privilegio
di una classe di eruditi; ma per raccoglierle e diffonderle sono certa­
mente intervenute le scuole col loro contributo. Nell'A.T. abbiamo un
piccolo numero di favole e ciò può essere spiegato dalla prospettiva
religiosa che è stata determinante nel formarsi della letteratura
d'Israele.
Gli alberi andarono ad ungersi un re e metterselo a capo. Dissero all'ulivo:
« Regna su di noi ». Ma l’ulivo rispose loro: « Devo rinunciare al mio olio che
mi assicura l'omaggio degli dei e degli uomini per andare a dominare sugli
•alberi? ».
Gli alberi dissero al fico: « Vieni tu, regna su noi ». Ma il fico rispose loro:
« Devo rinunciare alla mia dolcezza e al mio frutto squisito per andare a do­
minare sugli alberi? ».
Gli alberi dissero alla vigna: « Vieni tu, regna su noi ». Ma la vigna rispose
loro: « Devo rinunciare al mio vino che rallegra gli dei e gli uomini, per
andare a dominare sugli alberi? ».
Allora tutti gli alberi dissero al rovo: « Vieni tu, regna su noi ». E il rovo
rispose agli alberi: « Se veramente volete ungere me come vostro re, venite,
rifugiatevi sotto la mia ombra; altrimenti un fuoco uscirà dal rovo e divorerà
i cedri del Libano! ». (Giud 9, 8-15)

79 La lettera dello pseudo-Ari stea è del 100 a. C. circa. L’utilizzazione di tradizioni più antiche è
possibile. Cfr. P. Riessler, Altjiidisches Schrifttum ausserhalb der Bibel (1928), 193 ss.
30 K. Meuli, tìerkunft und Wesen der Fabel, in « Schweizerische Archiv fiir Volkskunde » 50,
1954, 65.68.77. La favola può evidentemente avere diverse funzioni secondo la varietà dei suoi tipi.
E. Leibfried, Fabel (1967).
11 Vedi ad esempio la favola crudele dell'awoltoio e dell'usignolo in Esiodo, Le Opere e i
Giorni, vv. 202 ss.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 47

Questo capolavoro di pensiero rigoroso e di perfezione nel linguaggio


non è una poesia popolare, ma un poema artistico perfetto nel suo ge­
nere che va preso come tale. Questa favola s'ispira — e ciò capita facil­
mente — al mondo politico ed esprime il pensiero di una società per
la quale ogni forma di monarchia è sospetta, per non dire intollerabile.
Solo un buono a nulla, che non può contribuire in alcun modo al bene
comune, sarebbe capace di esercitarla. Ma costui, che non ha niente da
offrire, ha sufficiente sfacciataggine per invitare gli altri a mettersi sot­
to la sua protezione e minacciarli senza vergogna. La favola osa pren­
dere una posizione estrema: ridicolizza infatti la monarchia, cioè la
monarchia assoluta delle città cananee. L antichità di questa favola non
si può contestare, ma è quasi impossibile determinare il suo inseri­
mento politico in Israele. Questo genere di polemica ha avuto senz'al­
tro il suo pubblico, che deve essersi divertito parecchio per questa
satirai2.
Il pruno del Libano mandò a dire al cedro del Libano: « Concedi tua figlia
in sposa a mio figlio! ». E le bestie selvatiche che sono nel Libano passarono
e calpestarono il pruno. (2 Re 14, 9)

Anche questa favola ha avuto senza dubbio una funzione in una cir­
costanza politica, giacché essa appare come risposta ad un re che di­
chiara guerra. È evidente che essa non è completa: è troppo corta e
Tazione molto vaga e sembra piuttosto riferirsi a una domanda di ma­
trimonio contraria alle regole di precedenza. Si ha l'impressione che
sia stata compendiata e limitata agli elementi che potevano servire in
una circostanza politica. Tempi felici quelli in cui, nelle relazioni diplo­
matiche, i re potevano combattere con le armi spirituali della favola!
A tale contesto appartiene anche il racconto del profeta Natan sul­
l'uomo ricco che aveva preso al povero la sua unica pecora (2 Sam
12, 1-4). Anche in questo caso è facile osservare che solo molto da lon­
tano la favola riguarda il delitto che Davide ha perpetrato contro Uria.
Il tratto che domina questa favola, cioè le relazioni affettuose e com­
moventi tra il povero e la sua pecora, non corrispondono evidente­
mente in nulla al caso di Uria. Inoltre, Davide non solo aveva preso la
moglie, ma anche la vita di Uria. Questi sono indici sicuri che il rac­
conto non è stato composto ad hoc e che esisteva a sé, indipendente­
mente dal caso a cui Natan lo applica. Ma vi è una cosa più impor­
tante da notare. Qui, come in 2 Re 14 o nella favola di Jotam, l'inter­
locutore contribuisce ad una giusta applicazione della favola con il com­
mento che vi aggiunge; il racconto acquista in tal modo chiaramente
un significato didattico, che originariamente gli era estraneo. Un simile

32 Circa la favola di Jotam cfr. in particolare W. Richter, Traditionsgeschichtliche Untersuchungen


zum Richterbuch (1963), 282 ss. Da tempo si sa che essa non è in relazione precisa con la situa­
zione storica. Quando Jotam parla, i Sichemiti hanno da molto tempo un re e non hanno alcuna
possibilità di sceglierne uno. Ma non si chiedeva ad una favola che si potesse applicare punto per
punto alla realtà. L'essenziale era l'idea principale; il resto era lasciato all'uditore.
48 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

cambiamento di significato poteva facilmente aver luogo nella favola.


Con la sua utilizzazione in una data situazione biografica o politica, si
compie in essa ima trasformazione profonda: acquista infatti in tal
modo tratti allegorici. Evidentemente tutti i particolari della favola
non « aderiscono » perfettamente quando li si applica a una data situa­
zione, ma ve n ’è un certo numero che favorisce immediatamente un’in­
terpretazione attuale, mentre si tace il particolare non pertinente. Av­
viene la stessa cosa nelle due favole del profeta Ezechiele: quella della
grande aquila che ha strappato un ramo ad un cedro del Libano (cap.
17) e quella della leonessa e dei suoi piccoli (cap. 19); tutt’e due stanno
per diventare pure allegorie. Ci si può domandare se Ezechiele ha an­
cora usato del materiale veramente tratto dal genere della favola. Se
così fosse, l'avrebbe fatto con molta libertà, perché qui, a differenza
delle favole citate in precedenza, la materia del racconto è già forte­
mente modellata dall'uso che ne vien fatto. Il genere della favola viene
in larga misura disintegrato dal profeta in vista dell’obiettivo che si è
proposto.
Le circostanze storiche che, in Ezechiele, avevano subito un inizio
d’interpretazione allegorica sono state elaborate nell’apocalittica in
grandi affreschi enigmaticamente allegorici dell'intera storia d'Israele;
così, ad esempio, la visione degli animali (Enoc 85 - 90) dove tutti
gli avvenimenti principali della storia d'Israele si riflettono nella sorte
mutevole di un gregge di montoni e di tori, e così pure nella visione
delle nubi (Baruc siriaco 53-71). Trovandoci qui di fronte allo stile del­
le visioni oniriche si è portati a pensare che questa forma d’allegoria
ha fatto parte all'origine dell'antichissima scienza orientale dell'inter­
pretazione dei sogni. I sogni di Giuseppe, covoni prostrati e stelle,
quelli del Faraone, vacche grasse e magre, spighe, che vengono pure
spiegati allegoricamente, sono forse molto diversi (Gen 37, 5 ss.; 41,
1 ss.).
Questa forma di discorso che nasconde e attraverso la dissimulazione
suscita la riflessione, si incontra pure in ben altri elementi didattici:
Bevi le acque della tua cisterna,
le acque che escono dal tuo pozzo.
Le tue sorgenti devono forse spandersi al di fuori?
I tuoi ruscelli versarsi sulle .pubbliche piazze?
Siano per te sodo,
e non per degli stranieri nello stesso tempo.
Sia benedetta la tua sorgente,
e metti la tua gioia nella donna della tua giovinezza,
cerva degji amori, gazzella piena di grazia... (Prov 5, 15-19)

Questo discorso è un avvertimento che è dapprima suggellato in


un'allegoria. È solo a partire dall’ultimo mezzo versetto che viene rive­
lato il senso dell'immagine: la cisterna, la sorgente è la sposa. Contem­
poraneamente le sorgenti ed i ruscelli fan pensare alla potenza genitale
e ai figli. Quindi: Tieniti lontano dalle donne altrui, rimani fedele alla
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 49

tua! Il travestimento allegorico è un mezzo per presentare con maggior


finezza retorica l'esortazione, affinché essa produca maggiore im­
pressione.
Ricordati del tuo creatore durante i giorni della tua giovinezza, prima che
arrivino i giorni tristi e si avvicinino gli anni in cui tu dirai: « Non vi trovo
alcun piacere »; prima che si oscurino il sole e la luce, la lima e le stelle e
le nubi ritornino dopo la pioggia, tempo in cui i guardiani della casa tre­
mano, in cui gli uomini forti si curvano, in cui quelli che macinano si fer­
mano perché van diminuendo, in cui si oscurano quelli che guardano dalle
finestre, in cui i due battenti della porta si chiudono sulla strada quando si
affievolisce il rumore della macina, in cui ci si alza al canto delTuocello, in
cui si indeboliscono tutte le figlie del canto... prima che la fune d'argento si
sciolga, che il vaso d'oro si rompa, che il secchio si frantumi sul margine del
•pozzo e che la ruota si spezzi sulla cisterna. (Eccle 12, 1-6)

La celebre allegoria deirinvecchiamento viene ora introdotta con l'av­


vertimento: Ricordati del tuo creatore prima che arrivino i giorni tri­
sti della vecchiaia! Ma qui si tratta anche di una forma che origina­
riamente era quella dell'enigma. Che cos'è? I guardiani della casa tre­
mano, gli uomini forti si curvano, le schiave che macinano diminui­
scono, ecc.? Risposta: È l'età! I dettagli, dei quali ciascuno necessita
di un'interpretazione, presi insieme rappresentano il corpo umano co­
me una casa ancora abitata ma che cade lentamente in rovina. I « guar­
diani * sono le braccia, gli « uomini forti » le gambe, le « schiave che
macinano » i denti, poi vengono gli occhi e le orecchie. La mescolanza
occasionale di immagini e di termini propri non dava noia agli antichi,
e le allegorie complete sono veramente rare. Spesso, una descrizione
tocca L'allegoria solo in alcuni punti per abbandonare poi subito que­
sto stile, e soprattutto il passaggio dalla metafora all'allegoria è molto
fluido. Tuttavia, ovunque vi è una serie di elementi immaginosi che
richiedono una spiegazione particolareggiata, si può parlare di discorso
allegorico33.

Si parla di « racconto didattico » quando la descrizione è priva di


procedimenti enigmatici e quando un insieme di fatti viene esposto in
maniera chiara secondo il suo corso ordinario. Vi sono importanti dif­
ferenze nel modo con cui l'autore se ne serve per esprimere il suo in­
tento didattico. La storia di. Giuseppe usa a questo proposito una gran­
de discrezione, sia quando raggiunge il parossismo sia quando si ferma
ai particolari, ad esempio nella descrizione della castità di Giuseppe,
dove si sente chiamato in causa solo chi è capace di ascoltare con fi­
nezza. Così nel racconto in prosa di Giobbe: sono gli avvenimenti, le
parole pronunciate ad insegnare. Solo nelle frasi che riassumono l'azio-

** À. J. Bjòrndalen ha iniziato uno studio interessante della nozione moderna di allegoria (risa­
lendo a Goethe e a Schelling): Tidskrift for theologi og kirke (1966), 145 ss. Per l’A.T. vale l'asser­
zione ch£ bisogna parlare dì allegoria quando si presenta un discorso con due o più metafore in
relazione reciproca di significato.
50 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

ne (Giob 1, 22; 2, 10b) il narratore lascia il racconto per interpellare il


lettore. Gli accenti didattici sono molto più marcati in un racconto,
che riferisce un avvenimento osservato da un saggio sulla strada (Prov
7; 6 ss.). La storia di Tobit distribuisce pure in modo molto diretto e
aperto il suo insegnamento: qui, infatti, non è solo l'avvenimento che
istruisce; il narratore pone sulla bocca degli attori lunghe istruzioni.
Questi racconti didattici raramente sono stati « scritti » ad hoc ; di re­
gola, hanno trasposto in forma nuova antichi materiali narrativi. Ciò
è chiaro per tutti nel caso del racconto di Tobit34. In quello di Giu­
seppe non è possibile dimostrarlo; tuttavia è quasi sicuro che la storia
del vizir che giunge al vertice della potenza e degli onori deve aver
avuto la sua preistoria. Questa doveva già perdersi nella notte dei tem­
pi per il narratore della Genesi.
Il livello dell'arte narrativa nell'antico Israele può essere misurato
dalla maestria con cui sono forgiate le esposizioni. Se ciò è vero per i
racconti artistici dei due libri di Samuele, ad esempio, lo è pure per i
racconti didattici. La narrazione della storia di Giuseppe pone il let­
tore, fin dalle prime frasi, al centro di un mondo brulicante di pas­
sioni: da una parte l'amore del padre, dall'altra l'odio dei fratelli. Poi
vengono i due sogni di Giuseppe che attirano l'attenzione su di un av­
venire ancora velato. La narrazione si chiude con la frase: « I suoi fra­
telli nutrirono invidia contro di lui, ma suo padre conservò il ricordo
di queste cose » (Gen 37, 11). L'azione inizia solo quando il padre man­
da Giuseppe, senza difesa, presso i fratelli occupati a condurre i loro
greggi. Il vertice dell'arte narrativa è raggiunto dal narratore del libro
di Tobit. La narrazione consiste in due parti parallele che si corri­
spondono formalmente. La prima parla del vecchio Tobit che ha se­
polto un morto che giaceva vicino a casa sua e che è caduto comple­
tamente in rovina per avvenimenti incresciosi legati a questo atto.
L'altra narra la storia di una giovane a cui un cattivo demone ha stran­
golato i fidanzati la notte delle nozze. Questi due esseri umani pregano
Dio di accordare loro la morte, indipendentemente l'uno dall'altro e ad
una grandissima distanza. Dio ascolta la preghiera di questi due esseri
che non si conoscono ed unirà il loro destino per il loro bene (Tob 1-3).
Solo al cap. 4 comincia veramente l'azione.
È naturalmente impossibile fare una distinzione precisa tra i rac­
conti didattici e gli altri generi narrativi; il passaggio è troppo fluido.
Il libro di guerra di Giuditta appartiene forse maggiormente al rac­
conto storico? Materialmente ci porta nel mondo politico-militare e
narra l'eroismo di una donna attraverso un groviglio assai confuso di
ricordi storici. E malgrado ciò si deve riconoscere, al di là della tra­
smissione di un avvenimento sensazionale, un'intenzione didattica. Il

u È notoriamente la storia « del morto riconoscente ». Bisogna tuttavia sottolineare che questa
materia antica è stata modificata nel racconto attuale fino a diventare irriccnoscibile. Così il fatto
di sapere che questo racconto ha una lontana preistoria non è di alcuna utilità per la compren­
sione del racconto così come esso si presenta a noi attualmente.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 51

tema del libro è infatti l'idea che il Dio d'Israele è unico: questa unicità
è messa in dubbio e viene dimostrata storicamente. In maniera molto
più chiara si possono qui catalogare i racconti di Daniele, soprattutto
Dan 1, 3-6. La loro datazione non risale all'epoca della terribile perse­
cuzione religiosa di Antioco Epifane (167 a. C.), ma ad un'epoca molto
più antica, in una situazione di diaspora in cui i giudei non erano af­
fatto perseguitati, ma vedevano invece aprirsi davanti a loro il cam­
mino alle più alte cariche pubbliche. Eppure, precisamente questa leal­
tà dei grandi re nascondeva la possibilità di conflitti religiosi del tutto
particolari.

6. Preghiere
Un risultato sicuro nella ricerca dei generi letterari, è che, nel sal­
terio come in altre opere in prevalenza recenti, si trovano « salmi sa­
pienziali ». Dietro quest'affermazione rimangono molte cose oscure:
non si può infatti parlare di un genere determinato di preghiere didat­
tiche, ma al massimo di lingua e temi comuni. Non possediamo criteri
solidi per determinare questi salmi, anzi, questi poemi appartengono a
diversi generi letterari che sembrano imitare. È quindi piuttosto un'im­
pressione generale di erudizione e di senso dell'istruzione, un'impres­
sione di preponderanza della riflessione teologica, ecc. che ci autorizza
a distinguere questi salmi dalla grande massa dei salmi di carattere
essenzialmente cultuale. Non si può in ogni caso cercare nel culto il
posto e la culla di questi poemi. « Il problema suscitato dall'esegesi dei
salmi non è quello dei salmi cultuali, è quello dei salmi non cultuali »35.
La cerchia dei salmi posti in questo gruppo è tracciata qui in maniera
più larga, là in maniera più stretta; il che non ha nulla di sorprendente
poiché non conosciamo le caratteristiche precise del genere. Abbiamo
chiaramente a che fare con una forma di poesia di scuola che è stata
presentata agli allievi nell'epoca postesilica. È possibile che i saggi ab­
biano scritto preghiere di questo genere per loro edificazione, ma l'im­
pressione che esse siano a doppia facciata — preghiere indirizzate a
Dio e lezioni fatte agli allievi — non esiste che presso l'osservatore mo­
derno. Sono in ogni caso delle vere preghiere e l'elemento patetico, a
volte grandioso, di questi inni non è artificioso. L'aspetto didattico non
viene evidenziato36; spesso lo riconosciamo solo dalla scelta delle pa­
role e dei temi che incontriamo altrove in testi chiaramente didattici.
Ci basti sapere che i maestri, ad un'epoca molto remota, erano ca­
paci in grado eminente di dominare lo stile di ogni genere di salmi,

35 S. Mowinckel, Psalms and Wisdom, in VTSuppl 3, 1955, 205. Criteri formali caratteristici di
questo genere letterario in Gunkel-Begrich, Einleitung in die Psalmen (1933), 389 ss.; H. L. Jansen,
Die spàtjiidische Psalmendichtung, ihr Entstehungskreis und ihr c Sitz im Leben » (1937), soprat­
tutto 133 s.
34 Nella poesia sapienziale extra-canonica, l ’elemento didattico appare maggiormente in primo
piano. Così, ad esempio, in Sai. Salomone 15, il rapporto è rovesciato: è più insegnamento che
preghiera.
52 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I

dall'inno alla lamentazione individuale passando attraverso l'azione di


grazie e queste forme mutuate dal culto sono state per essi veicoli
molto adatti ad esprimere le loro conoscenze e i loro problemi. Se i
generi che essi hanno adottato sono ancora relativamente facili da ri­
conoscere, qualcosa di nuovo è apparso nelle mani di questi maestri;
la preghiera infatti si è così elevata ad una forma letteraria di alta qua­
lità ed è diventata un modo specifico di esprimere certe conoscenze.
Ciò è particolarmente vero per il genere dell'inno. Per Israele, vi erano
certe conoscenze che non potevano essere espresse che nella forma di
inni, per quanto strano questo ci possa sembrare! Abbiamo quindi il
diritto di fermarci a lungo su questi testi innici nelle considerazioni
che seguiranno. Per il passaggio dalla forma della preghiera allo sta­
dio letterario, è caratteristica l'indicazione che Tobit ha « scritto » il
suo canto di lode (13, 1). Sappiamo inoltre con precisione che il Sira­
cide ha composto inni e non è stato il primo a farlo. Un gruppo parti­
colare è costituito dai poemi che pongono problemi o sviluppano ri­
flessioni, affrontando il tema delle grandi tribolazioni e presentando so­
luzioni ai problemi che minacciano la fede (Sai 49; 73; 139)37. Un altro
gruppo è composto dai Salmi della torà, in particolare i Salmi 1 e 119,
che celebrano la rivelazione della volontà di Jahve come fonte di ogni
conoscenza e come bussola indispensabile nella vita38. In tutti i testi
qui menzionati desta continuamente meraviglia la facilità con cui, qua­
si senza stacco, le riflessioni più lancinanti e i canti di lode conservano
gli uni accanto agli altri la loro legittimità. In nessun posto questo
fenomeno è così sorprendente come nel genere letterario alla cui ori­
gine vi è il diritto sacro: la dossologia di giudizio, che è stata fog­
giata da questi maestri nella forma letteraria della preghiera39.
Se volessimo proseguire l'enumerazione delle forme letterarie usate
da questi maestri, il che sarebbe perfettamente possibile, avremmo lo
stesso risultato: tutte queste forme ed il loro contenuto devono es­
sere definiti come opere poetiche, come prodotti dello spirito poetico
nell'uomo. Si deve ricordare a questo proposito che nell'antichità la
poesia era intimamente mescolata alla vita quotidiana, il che d'altronde
è ancora vero per l'Oriente attuale. Il passaggio dalla prosa della con­
versazione corrente alla poesia era allora molto più facile e più natu­
rale: ovunque nella vita corrente, ed anche nelle relazioni diploma­
tiche dei capi di Stato, la poesia aveva i suoi diritti. Ciò si spiega sem­
plicemente per il fatto che in quel tempo si riconosceva al fenomeno
poetico una funzione molto diversa, molto seria anche nella vita pub­
blica, perché si attribuiva all'espressione poetica il potere speciale di
esprimere la verità. La sua funzione non si limitava alla comunicazione
di conoscenza concreta: essa era in grado di far risaltare con maggior
evidenza fatti e circostanze della vita. Essa possiede in proprio qual­
37 Cfr. pp. 185 ss.
™ Ne fanno parte i Sal 1; 34; 37; 49; 73; 111; 112; 119; 127; 128 ;139.
39 Su quella che vicn chiamata dossologia di giudizio, vedi p. 178 s.; pp. 185 ss.
III. FORME DI ESPRESSIONE DELLA CONOSCENZA 53

cosa di più intenso, di più condensato, per cui l’evocazione della realtà
ch'essa racchiudeva nella parola poteva aspirare ad un più alto grado
di verità. Avveniva così che un immenso settore di conoscenze fonda-
mentali circa il mondo e la vita non poteva esprimersi che in forma
poetica e l'espressione poetica era assolutamente indispensabile alla
vita e alla conoscenza. Questa funzione evocatrice della poesia poteva
possedere la gravità di uno scongiuro o d'un incantesimo, come ancor
oggi una parola poetica può esercitare un potere magico.
Non ci si può ingannare circa l’importanza dello sforzo intellettuale
messo in atto dai nostri maestri di sapienza a meno che si rimanga
indifferenti di fronte a tutto questo materiale o si ignori il punto focale
di questa sapienza capace di produrre opere d’arte. Pindaro, che si è
fatto un punto d’onore nel legare la sapienza alla poesia, descrive que­
sta forma di comunicazione della conoscenza come un « lavoro », una
« fatica ». L’intelletto non è il solo ad essere impegnato; si tratta di un
sapere già assimilato, di un sapere a cui l’uomo si riferisce e di cui
vive ". Se la conoscenza veniva in tal modo elevata ad una forma uma­
na così eminente, ci si spiega la sua caratteristica più notevole: quella
del gioco41. In un gran numero di sentenze, soprattutto nelle forme
enigmatiche come la favola, il proverbio numerico, l’allegoria, nei loro
giochi di parole ed infine nel genere faceto, questo carattere di gioco
è manifesto. Le forme letterarie dei saggi ci confermano questa cu­
riosa constatazione, che vi sono cioè delle conoscenze che non pos­
sono tradursi che nella forma di un gioco intellettuale. La parola di
Pindaro, benché sia difficile tradurla in ebraico, è del tutto valida in
Israele quanto al suo significato: « Cieca è la mente di chi esplora sen­
za le Muse il cammino profondo della sapienza »42. Pare che Israele
non si sia posto alcuna domanda sul fenomeno dell’arte poetica; ma,
in questo campo, è stato di un'audacia estrema, ha raggiunto dei ver­
tici. Bisognerà che conserviamo il ricordo di quest’aspetto delle cose:
ci rivelerà infatti più tardi che Israele ha saputo fondare in modo sor­
prendente il suo diritto di giocare con la verità contenuta nel mondo.

40 « 11 proverbio si distingue dall'enunciato che comunica semplicemente un’informazione con­


creta, per il fatto che sa cogliere non solo il concreto, ma l'umano, un atteggiamento interiore, un
rapporto spirituale con questo concreto... » (W. Preisendanz, op. cit., 12).
41 H.-G. Gadamer, op. cit., 97 ss.
42 Ho tratto le due citazioni di Pindaro (Peana 7b) da B. Snell, Dichtung und Gesellschaft
(1965), 134.
PARIE II

L’EMANCIPAZIONE DELLA RAGIONE


E I SUOI PROBLEMI
IV
CONOSCENZA E TIMOR DI DIO

Quella che dalla scienza biblica viene comunemente chiamata « sa­


pienza » d'Israele non è designata nella letteratura didattica delTA.T.
con un nome unico e valido in ogni caso. La parola ebraica hòkmd non
rivendica la priorità come concetto; è una parola tra le altre. Vi sono
le parole di radice identica tebùnà e bina che traduciamo con « intelli­
genza ». Inoltre la parola da!at («conoscenza») occupa largo spazio.
La parola mezimmà: « progetto », « pensiero », « abilità » ha un ruolo
neirinsegnamento e significa press'a poco la stessa cosa. Infine, per non
menzionare che i più importanti, bisognerebbe segnalare la parola
musar che significa dapprima « correzione », ma ben più sovente il
risultato di questa, l'educazione, il che ravvicina alla parola greca
« paideia » *. La vicinanza di significato di queste parole si può arguire
dal fatto che le troviamo spesso insieme e non è raro che nel paralleli­
smo esse si basino su una specie di sinonimia che ci è difficile a volte
capire. Naturalmente queste parole non sono sinonime in senso stretto,
ma i maestri pensano di poter illustrare correttamente l'oggetto del
loro discorso non tanto con nozioni nettamente distinte le ime dalle
altre, bensì mettendo a fianco a fianco parole di significato affine. No­
tiamo negli esempi seguenti l'accostamento quasi faceto delle nozioni
di « sapienza », « intelligenza », « conoscenza », « abilità » e domandia­
moci quale compito si impone all'esegeta di fronte a questo stato di
cose.
Veramente, Jahve concede la sapienza;
dalla sua bocca escono la conoscenza e l'intelligenza. (Prov 2,6)
Poiché la sapienza verrà nel tuo cuore,
e la conoscenza sarà la delizia del tuo spirito;
la riflessione veglierà su di te,
l'intelligenza ti custodirà. (Prov 2, 10 s.)

1 teb&nS: Prov 2 ,2 .3 .6 ; 3,13; 8,1; 10,23; 14,29; 15,21; 17,27; 20,5; 24,3; Èrnia; Prov 3,5;
9, 6; da'at: Prov 1.4; 9,10; 11,9; 13,16; 24,4.5; 30,3; mezimmà: Prov 1,4; 3,2; 5,2; 8,12;
musar: Prov 1,8; 3,11; 4,13; 10,17; 12,1; 13, 18.24 (22, 15); 15,32.33 ; 23,12; 24,32.
58 LA SAPIENZA IN ISRAELE • PARTE I I

Chi risparmia «le parole conosce la scienza,


e chi ha lo spirito calmo è un uomo intelligente. (Prov 17, 27)
L'inizio della sapienza è il timore di Jahve,
e la scienza dei santi è l'intelligenza. (Prov 9, 10)
Un cuore intelligente acquista la scienza,
e l'orecchio dei saggi) cerca la conoscenza. (Prov 18, 15)
Il saggio è più potente che l'uomo forte,
■e chi ha scienza è più che un uomo potente. (Prov 24, 5)

È evidente che non si raggiunge la sostanza di questa forma di lin­


guaggio se si vuole ad ogni costo attenersi alle sfumature concettuali.
Una distinzione tra queste nozioni interviene certamente, ma bisogna
tener conto di un cerimoniale della parola che è quasi diventato un
gioco. Se si cerca ciò che si esprime in queste forme, si troverà senza
dubbio che si tratta meno di sfumature intellettuali che di una volontà
di convincere. Già l'uso del procedimento della ripetizione è vicino al
linguaggio didattico. Per il loro contenuto queste sentenze sono natu­
ralmente in relazione con la capacità umana di conoscere: esse enun­
ciano qualcosa che si può insegnare e che l'allievo deve far proprio
incorporandolo alla sua « intelligenza », al patrimonio delle sue co­
noscenze.
A questo proposito si pongono numerose domande. Come concepiva
Israele questa conoscenza? Di quali fenomeni si occupava e quali scopi
perseguiva? La sua riuscita dipendeva da certi principi, forse religiosi?
Sarebbe soprattutto importante vedere più da vicino come i maestri
univano questa volontà appassionata di conoscere con la loro fede in
Jahve. Incontreremo costantemente queste domande nel corso delle
nostre riflessioni. Ma è conveniente precisare sin d'ora alcuni elementi
fondamentali.
1. Sembra facile rispondere alla questione circa la condizione preli­
minare indispensabile a ogni possesso della sapienza e deUmtelligenza.
L'A.T. non dice forse a diverse riprese che è Jahve che concede la sa­
pienza? Ma questa convinzione non è stata sempre condivisa da tutti,
i testi infatti che designano espressamente la sapienza come un dono
eccezionale di Jahve risalgono tutti chiaramente ad un'epoca tardiva2.
Bisogna perciò concludere che l'idea che ogni sapienza proviene da Dio
è stata certamente subordinata ad alcune considerazioni teologiche che
sono venute in primo piano in un'epoca di maturità relativamente re­
cente. Per i saggi che insegnavano in quest'epoca, il dono della ragione
nell'uomo e la capacità di fare distinzioni utili non erano sullo stesso
piano degli altri doni di Dio — onore, vita, ricchezza, discendenza —

2 Es 28, 3; 31, 3.6; 35, 31.35; 36, 1 s.; 1 Re 3, 4 ss. 28; 5, 9 ss.; Sai 51, 8; 119, 98; Giob 35,
11; Prov 2, 6; Eccle 2, 26; Dan 1, 17; 2, 21. 23; cfr. a questo proposito M. Noth, Die Bewiihrung von
Salomos « gòttlicher Weisheit », in VTSuppl 3, 1955, 225 ss,
IV. CONOSCENZA E TIM OR DI DIO 59

ma erano concepiti e riconosciuti come un fenomeno di natura spe­


ciale e soprattutto di valore teologico particolare. L'idea che la sapien­
za e la scienza vengono da Dio ha il valore di un'affermazione teologica
maturamente soppesata. Sapienza e scienza han cessato in questo caso
di essere qualcosa che è dato a ciascun uomo « per natura ». Alloccor-
renza i saggi parlano di questo dono come di un fenomeno d'ispi­
razione.
10 sono giovane e voi siete vecchi,
perciò temo nelTesporvi il mio parere.
Mi son detto: « Parlerà l’età,
11 gran numero di anni insegnerà la sapienza ».
Ma nell'uomo, è lo spirito, il soffio di Dio che dà l'intelligenza.
Non sempre è l'età che procura la sapienza,
né la vecchiaia che rende capaci di giudicare.
Ecco perché dico: « Ascoltai ».
Anch'io esprimerò il mio pensiero.
Ho atteso le vostre parole,
ho seguito i vostri ragionamenti.

Sono infatti pieno di parole,


dentro di me lo spirito mi forza,
il mio intimo è come un vino senza sfogo...
devo parlare per respirare di sollievo,
aprirò le labbra per rispondere. (Giob 32, 6-11. 18-20)

Un giovane maestro di sapienza si presenta qui in grande forma,


quasi pretenziosamente bardato di una sufficienza barocca. Abilmente
comincia con l'esporre l'alternativa in cui si trova: la cortesia gli co­
manda di tacere e la verità di parlare! Ogni uditore gli riconosce il di­
ritto di decidere per la seconda possibilità, poiché — qui si esprime il
pensiero essenziale — è Dio stesso che gli ha affidato una conoscenza
impegnativa. Quest'amico di Giobbe dipinge la conoscenza che gli vie­
ne da Dio in termini che fanno pensare ad una forma d'ispirazione pro­
fetica. Lo Spirito l'ha « costretto » nel suo intimo più profondo. La
scienza che gli è toccata in sorte è una realtà intensa a cui non è in
grado di resistere. La forma di linguaggio da lui scelta fa parte della
cultura dei maestri di sapienza più recenti, i quali disponevano di un
vasto campo di forme e di immagini di cui si servivano per esporre
con arte i loro sviluppi retorici.
In Eliphaz, un altro amico di Giobbe, l'atto della conoscenza teolo­
gica prende ancor più fortemente il carattere di un'esperienza trascen­
dente. Egli premette a una sentenza molto semplice un prologo teolo­
gico in cui la sindrome di una rivelazione è descritta con una preci­
sione che non troviamo in nessun profeta, e ciò in un'epoca in cui pro­
babilmente i profeti non erano più conosciuti che attraverso i libri!
Ma proprio questo esigeva il gusto letterario sofisticato di uno strato
colto d'Israele in epoca tardiva.
6o LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

Una parola è giunta furtivamente fino a me,


ed il mio orecchio ne ha raccolto il bisbiglio.
Quando le visioni notturne agitano il pensiero,
quando gli uomini sono lasciati al sonno profondo,
sono stato preso da terrore e da spavento,
tutte le mie ossa tremarono.
Un soffio passò sul mio viso,
e i miei capelli si drizzarono.
Una figura d'aspetto sconosciuto era davanti ai miei occhi,
ed intesi una voce che mormorava dolcemente:
« L'uomo è forse giusto di fronte a Dio? ». (Giob 4, 12-17)

Detto ciò, non dobbiamo credere che questi saggi abbiano conqui­
stato una gloria a buon mercato con un'enfasi verbale vuota. Essi ave­
vano gravi problemi da risolvere e non potevano affrontarli che con
una grande concentrazione del pensiero e si sentivano autorizzati a
questo lavoro delicato da un'ispirazione divina diretta. Si può anche
constatare un parallelismo tra l'importanza dei problemi che s'impone­
vano ai maestri e lo sfoggio letterario che mettevano in opera nelle
loro esposizioni. Di conseguenza, il bisogno di legittimare le conoscenze
acquisite — per la maggior parte di natura teologica — si precisava a
partire da un'ispirazione divina che le precedeva. Una parentela con le
idee di origine profetica si presentava spontaneamente. In effetti, in
questi testi si esprime un sentimento della grandezza che si addice ad
un'acquisizione importante di conoscenze: si assegnava a loro un'ori­
gine divina, il che imponeva di adottare un'espressione letteraria corri­
spondente. Essere convinti che Dio stesso assiste l'uomo nei suoi sfor­
zi di conoscenza, evidentemente non bastava. Nonostante questa assi­
stenza divina, i maestri non erano dispensati dall'obbligo di argomen­
tare con cura e di rifiutare le opinioni false dopo matura riflessione.
Inoltre, i maestri dei tempi posteriori, come il Siracide, l'autore della
Sapienza di Salomone e gli apocalittici, si son sentiti in dovere di mo­
strare che erano al corrente delle conoscenze dei popoli stranieri per
restare all'altezza del sapere del loro tempo.

2. Se ritorniamo alla sapienza sentenziosa più antica come la tro­


viamo soprattutto nella raccolta di Prov 10-29, il fossato tra essa e
quel che abbiamo appena detto appare molto largo; non riusciamo in­
fatti a rintracciare in essa la pretesa di fondare teologicamente la co­
noscenza su una comunicazione divina particolare. Si cercherebbero
invano riflessioni precise circa l'origine delle conoscenze esposte; del­
l'importante eccezione di Prov 1, 7 e 15, 33 parleremo ben presto. Come
gli oggetti a cui si applicavano questi sforzi di conoscenza erano di na­
tura secolare, terrestre — problemi della vita umana quotidiana —
così si pensava manifestamente che il lavoro di riflessione e di compi­
lazione, che ne era la conseguenza, era un impegno secolare il quale
null'altro esigeva, che di essere condotto con metodo ed attenzione.
IV. CONOSCENZA E TIMOR DI DIO 61

Sulle labbra dell’uomo intelligente si trova la sapienza,


ma la verga è per id dorso di chi è privo di senno. (Prov 10, 13)
Lo schernitore cerca la sapienza e non la trova;
ma per l’uomo intelligente, la scienza è cosa facile. (Prov 14,6)
Acquistare la sapienza è meglio che l’oro;
acquistare l’intelligenza è preferibile all’argento. (Prov 16, 16)
I progetti dei cuore umano sono acque profonde,
ma l’uomo intelligente vi sa attingere. (Prov 20, 5)
Chi frequenta i saggi diventa saggio. (Prov 13, 20)

Se si passano in rassegna queste sentenze ed altre analoghe, si con­


stata subito che la sapienza e la sua acquisizione è un fatto umano
accessibile a tutti. È chiaro che nell’ambito di queste sentenze non si
percepisce alcun altro problema. L'acquisizione della sapienza è posta
interamente sul terreno della decisione umana; di conseguenza nei pro­
verbi didattici l’allievo è interpellato come qualcuno che è in grado di
« acquistare la sapienza » (Prov 15,32 ; 16,16). Il contatto frequente
coi saggi rende saggio (Prov 13, 20); in caso di necessità, « il bastone
dà la sapienza » (Prov 29, 15). Il problema della sua origine non è as­
solutamente posto. Le sentenze non danno mai l'impressione che Israe­
le abbia potuto considerare questa capacità di sapere o il suo affina­
mento come un privilegio particolare accordato dal suo Dio. Anzi, a
differenza del suo esclusivismo in fatto di convinzioni religiose, Israele
non solo è stato al corrente degli sforzi del sapere presso gli altri po­
poli, ma li ha pure esaminati e non ha esitato ad appropriarsi di ciò
che poteva essergli utile.
Così, proprio nel settore in cui il lettore moderno si è incontrato con
una idea dell’universalità del potere umano di conoscere, idea che gli
è abituale e gli pare la sola possibile, si apre per Israele una proble­
matica particolare, ma molto caratteristica. Per illustrarla dovremo
risalire un po’ più indietro.
II desiderio di conoscere della sapienza antica, la sua passione per la
cultura e lo zelo con cui essa ha cercato di fare propri i prodotti della
cultura corrispondente degli altri popoli contrasta con la mentalità
dell’epoca che ha preceduto la monarchia e che durava ancora ai tem­
pi di Saul. Sia che parliamo di un brusco processo di secolarizzazione,
di una scoperta deU'umano, di una umanizzazione quindi, sia che par­
liamo dello sbocciare di una volontà razionale di conoscere, in ambe­
due i casi, questo movimento intellettuale molto intenso è stato certa­
mente preceduto dal crollo interiore, dalla decomposizione di una con­
cezione della realtà che possiamo definire con una formula molto fe­
lice di Martin Buber: « il pansacralismo ». £ evidente che ci mancano
molti elementi per ricostruire questa mentalità primitiva d’Israele,
perché molte tradizioni di quell’epoca — si pensi all’epoca dei Pa­
triarchi, di Mosè e della vita nel deserto — ci sono giunte in larga m i­
sura impregnate dello spirito della nuova epoca. Ma vi sono pure rac-
5. voo rad, la sapienza in Israele
62 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

conti che riflettono ancora lo spirito dell’epoca che precede questa


grande rivoluzione. I racconti particolareggiati che dipingono una fase
degli scontri guerreschi di Saul e dei Filistei (1 Sam 13 s.) ci aprono
prospettive interessanti. Se si segue la successione piuttosto compli­
cata degli avvenimenti si vede chiaramente che il narratore mette tutto
lressenziale, vittorie e disfatte militari e tutti i conflitti umani, in rap­
porto con il mondo del sacro e del rituale: il voto d'astinenza che Saul
impone alla truppa, la maledizione globale pronunciata contro ogni
eventuale trasgressore, la richiesta di un segno dal cielo da parte di
Gionata, il « terrore di Dio » che sconvolge il campo dei Filistei, il pa­
sto prematuro di carne ritualmente impura fatto dai soldati stanchi,
il « riscatto » di Gionata condannato a morte per sostituzione di per­
sona e molte altre cose ancora. Il fenomeno della guerra si svolge chia­
ramente in un contesto rigorosamente sacralizzato. Abbiamo qui, senza
ombra di dubbio, una forma di credenza estremamente antica che rite­
neva ogni avvenimento inquadrato da regole sacre e riti. La potremmo
chiamare « credenza pansacrale ». Si può evidentemente obiettare che
si tratta in questo caso di un episodio militare abbastanza fuori del­
l'ordinario e che nei fatti ordinari ci si sapeva perfettamente servire
del comune buon senso, anche nei tempi antichi. È incontestabile. Tut­
tavia dev’essere avvenuto qualcosa di decisivo, un cambiamento fon­
damentale nella nozione di realtà, nella prospettiva dellapprendimento
dei fatti come l'uomo li coglieva nella sua esistenza, soprattutto dopo
Salomone. Si dia uno sguardo alla storia detta della successione di Da­
vide (2 Sam 6-1 Re 2) che è stata scritta solo due generazioni dopo
l'arcaica relazione di guerra che abbiamo appena menzionato! Come
stata secolarizzata la scena su cui gli uomini si muovono! La disgrazia
non è provocata da trasgressioni dell'ordine sacrale. Gli avvenimenti
sono determinati dalla volontà politica di un re importante, ma anche
dalle sue debolezze, dall'ambizione, dagl'intrighi politici, dalle avven­
ture amorose. Essi sembrano prodursi secondo uno stretto concatena­
mento causale, secondo una legge inerente agli avvenimenti e agli uo­
mini. Il che non impedisce al narratore di insistere sul fatto che tutti
i fili dellmtrigo sono nelle mani di Jahve.
Non è necessario insistere di più: dietro a questa storiografia, vi è
una nozione della realtà, una concezione della vita e del suo contesto
che si è profondamente modificata rispetto a quella del « pansacrali-
smo »; è anche chiaro che l'antica sapienza d’Israele si è essenzialmente
sviluppata sotto il segno di questa mentalità razionale. E per rispon­
dere al problema che sorge immediatamente, di sapere qual è la con­
cezione teologica che caratterizza questa nuova mentalità, si potrà dire
senza esitazione: è il fatto di riconoscere un’autonomia relativa all’or­
dine immanente degli avvenimenti e di attribuire un valore autonomo
ai beni dell’esistenza (vita, proprietà, onore, ecc.). Bisogna tuttavia re­
stringere quest'affermazione dicendo che non può essersi trattato di
una « scoperta » poiché, rigorosamente parlando, la vita sarebbe im­
IV. CONOSCENZA E TIMOR DI DIO 63

pensabile senza tener conto almeno implicitamente di questi dati. E p ­


pure vi è qui un enorme differenza, che si rivela nella capacità di a r ti­
colare i dati percepiti con un grande rigore e in maniera neutra, e si
rivela soprattutto nel secolarismo così discusso della maggioranza delle
sentenze antiche. Senza dubbio il lettore non deve aspettarsi di incon­
trare nella formulazione deirinsegnamento una nozione corrispondente
in qualche modo a quella di « autonomia ». Non si troverà mai la fo r­
mulazione di questo problema e ciò a causa della forma rigorosamente
affermativa, mai interrogativa dell'insegnamento dei saggi. Ciò nono­
stante, l'esperienza deH'autonomia, del valore proprio è presente d ap ­
pertutto nelle sentenze dell'antica sapienza. Se essa insegna a ricono­
scere delle regole — e lo fa abbondantemente — ha già oggettivato
una realtà di esperienza immanente al mondo e si comporta alla stessa
maniera con i beni della vita che sono considerati del tutto n eu tra­
mente come realtà che determinano la vita degli uomini. (Per p o rtare
questa presa di coscienza sino in fondo si potrebbe parlare anche della
malignità propria di certe cose, ecc.).
La questione decisiva per noi è naturalmente di sapere come la fede
nell'intervento di Dio tra gli uomini si presentava nel suo rapporto co n
questo senso della realtà così profondamente modificato. Si può sp e­
rare di trarre qualcosa dall'insegnamento dei saggi a questo riguardo.
Conviene innanzitutto notare che queste conoscenze dell'autonomia e
dell'immanenza che hanno superato la soglia della coscienza non sono
mai entrate in conflitto con la fede in Jahve. Non si possiede alcun in ­
dizio che provi che esse abbiano smantellato, come si potrebbe c re ­
dere, la fede nell'onnipotenza di Jahve.
Eccoci così posti di fronte al problema propriamente detto del senso
della realtà nei maestri di sapienza; il nostro compito sarà di affron­
tarlo nelle pagine seguenti. Il processo di secolarizzazione che è senza
dubbio cominciato all'inizio dell'epoca regale, non procede parallela-
mente, neirinsegnamento dei saggi, con un crollo della fede nell'onni­
potenza di Jahve. Sarebbe un fatto molto semplice e a noi familiare.
Vediamo piuttosto questi maestri — che potrebbero sembrarci a volte
in quello stato di sicurezza tipico dei sonnambuli — insegnare le cono­
scenze deH'autonomia dei fatti insieme con la fede nellonnipotenza d i
Jahve ed anche mescolare questi insegnamenti. È scomparsa la nozione
di un'esistenza immersa in un ordine sacrale che la circonda da ogni
parte. Ma la fede in Jahve non ne ha subito alcun danno. Essa si è
inserita in una forma del tutto nuova di realismo.
È chiaro che la « secolarizzazione » con cui Israele ha effettivamente
imparato a osservare sotto una nuova luce il suo mondo, era una f o r ­
ma molto particolare del suo senso della realtà. Bisogna quindi g u ar­
darsi dal metterla sullo stesso piano di alcune nozioni popolari m o ­
derne. Senza dubbio, il desiderio di scienza dei maestri si rivolgeva a l
campo immenso delle esperienze più quotidiane e a volte più banali in
cui l'uomo non ha mai finito di imparare. Nella vita sociale, nella v ita
64 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

economica, ma anche nell'atteggiamento dell’uomo verso se stesso


— nella moderazione o nell'eccesso — si constatavano alcune regole
che valeva la pena di fissare. Ma — e questo è più difficile per noi —
la cerchia di queste conoscenze stabilite era incomparabilmente molto
più vasta perché comportava esperienze che l’uomo faceva con Dio: gli
antichi credevano infatti di avere percepito certe regole, certi ordina­
menti anche in questo campo. In fin dei conti, la benedizione di Dio
era pure un’esperienza, come i suoi esaudimenti e la sua maniera di
contrariare i progetti umani. Non era forse evidente che non si poteva
disprezzare impunemente la volontà di giustizia di Dio?
Il fatto che, nel grande catalogo delle conoscenze sperimentali del­
l'uomo, si presentavano congiuntamente esperienze riguardanti Dio ci
impone di riprendere lo studio di un aspetto della nozione di realtà
in Israele che ha un'importanza decisiva per la comprensione corretta
dei nostri testi. L’esegeta moderno è costantemente tentato d’intro­
durre nei testi antichi la troppo famosa tensione tra fede e pensiero,
tra ragione e rivelazione. Si sono così tratte conclusioni un po' troppo
affrettate sulla preponderanza delle sentenze secolari nei confronti di
quelle religiose. Si è concluso ad esempio che questa sapienza prover­
biale antica non era stata concepita dalla fede in Jahve e che si tro­
vava ancora ai primi inizi di un processo di permeazione da parte di
questa fede. A ciò si può rispondere decisamente: per Israele vi fu un
solo mondo empirico, percepito attraverso un organo di conoscenza in
cui la ragione e la fede non erano separate. Avveniva la stessa cosa nei
profeti. La realtà che circondava Israele era per essi molto più vasta
di come potremmo definirla noi, sia sul piano politico o sociale o etico
o qualsiasi altro piano. I popoli vicini, i grandi imperi, gli avveni­
menti politici e strategici erano avvertiti dai profeti in maniera acuta,
molto più acuta che dalla maggioranza dei loro contemporanei; ma
non era ancora qui tutta la realtà in cui Israele era collocato. Il peso
delle colpe, i compromessi col male, le disobbedienze e le loro conse­
guenze erano cose altrettanto reali e la cosa più reale al mondo era la
parola di Jahve che penetrava nella vita d’Israele come una potenza
distruttrice o costruttrice. Tutto ciò si trovava sullo stesso piano,
quello delle esperienze che possono fare gli uomini. Ci si deve quindi
guardare da una concezione della sapienza che vedrebbe il suo carat­
tere essenziale nell’attività di una ragione autonoma nei confronti della
fede. Amos stesso ha impegnato la sua ragione in un modo rigorosa­
mente conseguente nella scoperta della realtà d'Israele. Essa gli ha
insegnato a vedere negli avvenimenti storici che si preparavano una
logica che aveva le sue radici nella « realtà » stessa. Il suo contributo
è consistito nello smascherare questa logica di fronte a cui tutti chiu­
devano gli occhi e nel riconoscervi una volontà perfettamente chiara
di Jahve. I maestri non hanno dibattuto problemi così gravi ma ci si
può chiedere se il loro pensiero e quello dei profeti non hanno attinto
alla stessa fonte.
IV. CONOSCENZA E TIMOR DI DIO 65

Quando Jahve approva le vie di un uomo,


gli dispone a favore anche i nemici.
Meglio poco con la giustizia,
che grandi entrate con L'iniquità.
II cuore deiruomo riflette al cammino da seguire,
ma è Jahve che dirige i suoi passi.
Oracoli sono sulle labbra del re,
la sua bocca non dev'essere infedele quando giudica.
Il peso e la bilancia giusti sono da Jahve,
tutti i pesi della bisaccia sono opera sua.
L'atto criminale è in orrore ai re,
è infatti sulla giustizia che il trono è stabilito. (Prov 16, 7-12)

In questo gruppo di proverbi si alternano (senza dubbio per caso)


frasi che esprimono una « esperienza di Jahve » con frasi che espri­
mono una « esperienza del mondo ». Le fraintenderemmo supponendo
qui una separazione, come se in un caso parlasse l'uomo alla ricerca
di una conoscenza oggettiva, mentre nell'altro vi fosse il credente. Il
semplice fatto che nella sapienza delle sentenze antiche i testi riguar­
danti un'esperienza di Dio e quelli che riguardano un'esperienza del
mondo si mescolino tra di loro senza alcuna regola (in proporzioni va­
riabili), parla assolutamente contro l'idea che vi sia una qualche ten­
sione nell'organo della conoscenza. Israele non ha conosciuto affatto
l'« impasse » in cui noi ci troviamo alla lettura di questi testi. La sua
grandezza consiste forse in questo, nel non aver separato la fede dalla
conoscenza: le esperienze del mondo erano sempre per lui esperienze
di Dio e le esperienze di Dio esperienze del mondo3. Si è detto a buon
diritto che in ogni conoscenza entra in gioco anche un atteggiamento di
fiducia4. Qui, nelle*sentenze sapienziali: una fiducia nella stabilità delle
relazioni elementari tra uomo e uomo, una fiducia nella conformità degli
uomini e delle loro reazioni, una fiducia nella costanza delle regole che
reggono la vita umana o, di conseguenza, esplicitamente e implicitamen­
te, una fiducia in Dio che ha messo in vigore queste regole. Se interpre­
tiamo le sentenze formulate in termini essenzialmente terrestri parten­
do dalla loro vasta prospettiva spirituale, è certo che esse pure sono
fondate sulla conoscenza di Dio e sulla fiducia in lui; proprio perché
questa conoscenza di Jahve era così forte, così indiscutibile, Israele ha
potuto permettersi di parlare dell'ordine di questo mondo in una forma
così secolarizzata. Per molto tempo gli esegeti si sono limitati soprat­
tutto alle sentenze che parlano di Dio e trattano argomenti religiosi,
perché pensavano che qui in primo luogo si trovasse il contributo tipi­
co d'Israele nei confronti della sapienza dell'antico Oriente. Ma oggi, le
sentenze che non affrontano questi argomenti sono per noi molto più
interessanti. Senza essere areligiose, cioè rimanendo naturalmente le­

3 Vedi a questo proposito le riflessioni che ha esposto K. Schwarzwflller, sul senso della realtà
in Israele: Theotogie und Phdnomenotogie (1966), 139 ss.
4 E. Spranger, Die Magie der Seeìe (1947), 52.
66 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I

gate a Jahve, esse ci mostrano una libertà nel comprendere la realtà di


questo mondo la cui autorità proviene dalla fede in Jahve.
Ma dietro l’affermazione, da noi formulata, che le esperienze di Jahve
erano per Israele esperienze del mondo e viceversa, si nasconde un al­
tro problema: vi erano due campi di esperienza che Israele in ultima
analisi ha distinto o ve n’era uno solo? È chiaro che non abbiamo il
diritto di separare attualmente un settore di esperienza religiosa da un
settore di esperienza secolare. Ma, d’altra parte, Jahve e il mondo non
son mai stati identici. Jahve incontrava l’uomo nel mondo. Ma perché
si mantenevano queste due serie parallele di dichiarazioni sulle « espe­
rienze di Jahve » e le « esperienze del mondo », come le abbiamo viste
giustapporsi in Prov 16, 7-12 (che ci è servito d’esempio per il libro dei
Proverbi)? Una sola risposta è possibile: Israele si era chiaramente im­
battuto, nella sua interpretazione « razionale » del mondo, con una dia­
lettica di esperienze che non si poteva né risolvere né allentare. Certo,
se Jahve e il mondo fossero stati identici, si sarebbe potuto esprimere
tutto molto più semplicemente! Ma ecco che Dio incontrava l’uomo nel
mondo e ciò soltanto nel caso isolato dell’esperienza, il che non postu­
lava l’identità di Dio e del mondo. L’« esperienza di Jahve » e l’« espe­
rienza del mondo » non dovevano certo identificarsi completamente, al­
trimenti gli enunciati delle sentenze avrebbero potuto essere invertiti
senza altra forma di procedimento. Ora bisognava rinunciarvi assoluta-
mente. In tale prospettiva, quell’apertura sulla « mondanità del mon­
do » non appare come la grande semplificazione liberatrice. Se si cerca
di capire questa interpretazione secolarizzata del mondo all’interno del
vasto quadro della fede in Jahve, appare essa pure come un fenomeno
complesso che comporta le proprie difficoltà intellettuali e che è lungi
dall’essere accettabile così com’è agli occhi del secolarismo moderno.
Teniamo per certo che in questi sforzi dei saggi tesi verso la cono­
scenza, anche quando hanno esposto le loro ricerche in forma total­
mente secolarizzata, non si è mai trattato (come diremmo noi) di una
conoscenza senza presupposti, che avrebbe potuto funzionare in ogni
caso indipendentemente dalla loro fede in Jahve. La cosa sarebbe im­
pensabile per il semplice fatto che, come abbiamo visto, i maestri non
hanno conosciuto altra realtà che quella che è interamente governata
da Jahve. In effetti, quel che le sentenze insegnano va molto più lon­
tano di ogni conoscenza neutra, per il fatto che si tratta di conoscenze
acquisite nella dimestichezza con una verità per la quale ci si è già
interamente impegnati. Si tratta di un sapere che si confessa; si po­
trebbe anzi dire che si tratta di un sapere che è più un fatto del ca­
rattere che deH'intelletto. Esplicitamente o implicitamente in queste
sentenze si pronunciano continui giudizi di valore, si risolvono proble­
mi morali; e ciò avviene attingendo da un fondo di conoscenze di base
che hanno sempre suscitato anche un obbligo morale. Un uomo era
considerato saggio solo quando sapeva modellare la propria vita secon­
do queste conoscenze interamente impregnate di valori. Era questo il
IV. CONOSCENZA E TIMOR DI DIO 67

compito che si assumevano i maestri. Da dove proveniva la loro inquie­


tudine, che si avverte in tutto il libro dei Proverbi, la loro infaticabile
argomentazione, il loro bisogno di contrasto? Ciò non proveniva dal
fatto che dubitavano delle capacità intellettuali dell’allievo, ma perché
sapevano che questa « scuola della sapienza » (Prov 15, 33) sovente era
per lui faticosa e non erano sicuri che egli giungesse a sottomettervisi.
Il saggio è anche il « giusto » 5. Nella sapienza si deve « camminare »
(Prov 28, 26); la sapienza è l'« intelligenza della propria via », che poi
bisogna naturalmente percorrere (Prov 14, 8).
Di fronte al saggio sta lo « stolto », l’insensato. Ma il suo comporta­
mento è determinato solo in parte da un « deficit » intellettuale. Si trat­
ta molto più in lui di una incapacità, di una mancanza di disposizione
a sottomettersi alle regole insegnate dal saggio. L’insensato è chi non
sa dominarsi, chi non tiene a freno le proprie passioni (Prov 29, 11), il
presuntuoso. La stoltezza è un disordine nel più intimo dell’uomo, di
fronte al quale ogni richiamo alla ragione fallisce; avviene a volte che
la stoltezza venga considerata una cosa irreparabile (ad esempio Prov
27,22). «Il cuore dell’insensato non è retto» (Prov 15,7). Questa man­
canza di « rettitudine » può naturalmente manifestarsi in diverse ma­
niere: insolenza, millanteria, a volte falsa sicurezza (Prov 12, 15; 14, 16;
28, 26, ecc.). La causa dev’essere cercata sempre allo stesso punto: una
lacuna nella conoscenza; si potrebbe anzi parlare di mancanza di reali­
smo (Prov 17, 24). L’insensato si inganna sulle sue capacità; vive nel­
l'inganno (Prov 14, 8). È questa la ragione per cui la stoltezza è sempre
qualcosa che minaccia la vita (Prov 10, 21; 18, 7). Questo rifiuto di
riconoscere l’ordine e i limiti assegnati all’uomo era molto più grave
di una mancanza per cui l’interessato doveva pagare il prezzo; era con­
siderata come una colpevolezza. È questa la ragione per cui l’insensato
era in una posizione sociale di svantaggio ; gli si rifiutava l’onorabilità
(Prov 26, 1. 8). Quando una verità si presenta all’uomo, non rimane
spazio per una decisione libera. Chi si rifiuta, si espone ad una condan­
na morale. In definitiva, questa mancanza di realismo comportava pure
un mancato riconoscimento di Dio. L’insensato ha del « rancore » con­
tro Dio (Prov 19, 3). Più tardi si è formulata questa stessa idea con
maggiore profondità teologica: « L’insensato dice nel suo cuore: non
c’è Dio » (Sai 14, 1). La stoltezza è un ateismo pratico. In questa valuta­
zione morale e teologica di una conoscenza incompleta, di un rifiuto
di riconoscere, viene abbozzata una delle concezioni antropologiche
più interessanti deH’A.T.6.

5 U. Skladny, op. cit., 11 s.


4 Abbiamo una visione meno chiara di ciò che rappresenta un altro tipo negativo d'umanità, il
lit (quattordici volte nei Prov, per lo più parallelo a « insensato »). Sul problema della sua tradu­
zione, le antiche versioni ci lasciano già nel dubbio. Il suo significato fondamentale è più quello di
« ciarlone » che di « schernitore » (H. N. Richardson, in VT 5, 1955, 166). I testi, compresi quelli
che hanno il verbo lì$3 indicano un atteggiamento di millanteria, di iattanza, di dissolutezza. « Il
vino è un Ii$t le bevande forti sono turbolente » (Prov 20, 1). Quel che è tipico è la non osser­
vanza, il disprezzo di un ordine sociale obbligatorio. Vedi più oltre, pp. 84 ss.
68 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

3. Il nostro sforzo per determinare ciò che è caratteristico della


ricerca sulla conoscenza e di cui troviamo i risultati nelle sentenze del­
la sapienza sperimentale dell'antichità ci porta qui a meditare una delle
formule più tipiche dell'insegnamento del libro dei Proverbi. La si tro­
va con leggere varianti cinque volte nella letteratura didattica, il che
non si può dire di alcun'altra sentenza e ci fa avvertire subito l'impor­
tanza che essa deve avere avuto.
Il timore di Jahve è l'inizio della sapienza;
gli insensati disprezzano la sapienza e l'insegnamento. (Prov 1,7)
L'ilnizio della sapienza è il timore di Jahve,
e la scienza dei santi è l'intelligenza. (Prov 9, 10)
Il timore di Jahve è l'insegnamento della sapienza,
e l'umiltà precede la gloria. (Prov 15, 33)
Il timore di Jahve è l’inizio della sapienza;
tutti quelli che l'osservano hanno una sana ragione. (Sai 111, 10)
Ecco: il timore del Signore è la sapienza,
evitare il male è l’intelligenza. (Giob 28, 28)
L'espressione « timore di Jahve » è attestata spesso nell'A.T. e ha di
conseguenza un significato molto largo7. In alcuni testi importanti essa
significa semplicemente l'obbedienza alla volontà divina e pare che in
questo senso i maestri abbiano inteso la nozione. Il lettore moderno
deve quindi eliminare dalla parola « timore » ogni idea emotiva o un
qualsiasi richiamo a una forma psichica precisa dell'esperienza religio­
sa di Dio. È molto verosimile che la nozione, in questo contesto, venga
usata in un senso umano ancora più generale, che si avvicina al nostro
« attaccamento », alla nostra « conoscenza di Jahve »8. Skladny lo inter­
preta come un atteggiamento positivo, conforme a Jahve, con tendenza
a significare l'idea di fiducia9. Sulla base di Prov 9,10 (tehilla) bisogna
intendere re&it nel senso di « inizia » e non di « parte essenziale »,
« compendio », « primizia » 10. La formula significherà quindi che il ti­
more di Dio conduce alla sapienza. Esso dispone ad acquistarla e la
insegna n.
Tra le cinque formule, quella di Giobbe 28, 28 è la più semplice: il
timore del Signore è la sapienza. Ma essa suona semplicemente di quan-
7 Cfr. la monografia di J. Becker, Gottesfurcht irrt Alteri Testament (1965). S. Plath, Furcht Gottes
(1962), è parzialmente superato da questo lavoro.
8 È notorio che la nozione di « timore di Dio » è in primo piano nei racconti elohisti (Gen 20,
11; 22, 12; 42, 51; Es 1, 17.21). Anche qui, l'aggettivo « timorato di Dio » dev’essere inteso in un
senso umano molto largo, equivalente approssimativamente ad « obbediente a Dio »; cfr. H. W.
Wolff, in EvTh 29, 1969, 62 ss.
9 U. Skladny, op. cit., 15 s., 64. Nelle più antiche sentenze si parla sovente del timore di Dio
(più che in Prov 1 -9), Prov 1, 29; 8, 13; 10, 27; 14, 27; 15, 16. 33; 16, 6; 19, 23; 22, 4; 23, 17; Giob
(1, 1) 4, 6.
10 Le due traduzioni («inizio» o «essenziale») sono possibili in sé. I significati si avvicinano.
A ragione si è detto che « inizio » è anche legato all’idea di eccellenza (primizie). Tutta la discus­
sione in J. Becker, op. cit., 214 s. Il significato « sostanza », « principio » non può essere tratto
dalla nozione di rèSit.
11 J. Becker, op. cit., 216. 229. Questa nozione è propria della sapienza d'Israele. La tradizione
sapienziale fuori d ’Israele ignora affatto un radicamento quasi programmatico della sapienza nel
timore di Dio. Vedi S. Plath, op. cit., 70.
IV. CONOSCENZA E TIMOR DI DIO <59

to si possa dedurre dal tagliente contrasto retorico, poiché queste due


realtà — il Signore e la sapienza — non possono venire identificate con
troppa semplicità. Anche in questo caso la parola « sapienza » è inter­
pretata. A questa formula lapidaria le altre vengono ad aggiungere del­
le sfumature. Se il timore di Dio è l'inizio della sapienza, qualcosa ci
è detto del punto di partenza della sapienza. La formula di Prov 15, 33
è simile: il timore di Jahve educa alla sapienza. Nonostante o piuttosto
a causa di queste varianti, l’idea fondamentale è abbastanza precisata.
È chiaro che si tratta di rispondere al problema del luogo della sapien­
za e non a quello del luogo del timore di Jahve. Inoltre, è chiaro che la
determinazione di questo luogo è fatta col mettere la sapienza in stret­
to rapporto col timore di Dio; infine è chiaro che il timore di Dio è
considerato come una realtà che precede in valore ogni sapienza. È alla
sua ombra che la sapienza si vedrà assegnare un posto; esso ne è la
condizione, conduce alla sapienza e la insegna.
Così, nell’antico Israele si è confermato il fatto che non vi è cono­
scenza che non porti chi vuol conoscere a porsi immediatamente il
problema della conoscenza di sé, dell’auto-comprensione. Israele non si
è abbandonato senza spirito critico alla sua sete di conoscere, ma ha
posto induttivamente il problema della possibilità e della capacità del
conoscere. Questa capacità di conoscere è diventata l'oggetto stesso
della sua conoscenza. La tesi che afferma che ogni conoscenza umana
si può ricondurre al problema delle relazioni con Dio è una tesi d'una
perspicacia penetrante. È vero ch'essa è stata così logorata in secoli
d’insegnamento cristiano che bisogna ritrovarne il mordente, l’accento
provocante. Racchiude in una forma estremamente lapidaria un conte­
nuto spirituale molto vasto che può essere concepito solo come il risul­
tato di un lungo lavoro di riflessione. Contiene in nuce tutta la teoria
della conoscenza d’Israele. Così concisa come la troviamo, essa può an­
che destare l’impressione di ima forma di polemica. Da dove verrebbe
la tesi così ripetuta, imperiosa, che ogni sapere sfocia nella conoscenza
di Dio, se non vi erano nello spirito dell’allievo altre possibilità di
acquistare la conoscenza, possibilità che vengono bandite rigorosamen­
te? Tuttavia, non possiamo dire niente di preciso su questo punto. In
ogni caso dietro questa tesi appare la consapevolezza che uno sforzo di
conoscenza può anche fallire, non solo perché si son fatte piccole man­
canze e piccoli errori di dettaglio, come se ne commettono dappertutto,
ma perché vi è uno sbaglio già nel punto di partenza. Si sarà compe­
tenti, si potrà sapere quali sono le regole della vita quando si partirà
da quel che si conosce di Dio e non prima. Israele attribuisce così al
timore di Dio, alla fede in lui, una funzione assolutamente essenziale
per la conoscenza umana. Tutti hanno seriamente pensato che solo la
conoscenza di Dio e del suo regno riusciva a porre l'uomo in un giusto
rapporto con gli oggetti della sua conoscenza e lo rendeva capace di
porre con più competenza i problemi, di scoprire con più perspicacia
i veri rapporti tra esseri e cose, di conoscere meglio la realtà. Si poteva
70 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

quindi dire che i cattivi non sanno ciò che è giusto mentre coloro che
cercano Jahve comprendono ogni cosa (Prov 28, 5). L'idea è chiara­
mente quella che il rivolgersi a Jahve facilita la delicata distinzione
tra il giusto e l'ingiusto; ma ciò non era valido soltanto per il campo
ristretto della morale. La fede non impedisce la conoscenza — come si
pensa normalmente oggi — al contrario: la fede emancipa la conoscenza,
le permette di giungere correttamente all'oggetto e le mostra la posi­
zione esatta nel campo delle numerose e svariate attività umane. In
Israele, la capacità di conoscere dell'uomo non si è mai staccata dal
fondamento della sua esistenza totale, cioè dal suo attaccamento a
Jahve, e non si è mai esercitata autonomamente. Anzi, si può parlare
— soprattutto nella letteratura didattica più recente — di uno sforzo
per mantenere la capacità di conoscere in stretto legame col fonda­
mento della vita d'Israele, di riportarvela e di non lasciare mai che se
ne distacchi. La conoscenza di coloro che disprezzano la parola di
Dio — domanda una volta Geremia — « che razza di sapienza può mai
essere per loro »? (Ger 8, 9 )12.
Soltanto un profeta poteva permettersi di regolare con una domanda
retorica appena abbozzata il grave problema del legame esistente tra
la conoscenza e il sapere riguardante Dio. L'espressione che il timore
del Signore è l'inizio della sapienza era il bene più personale d'Israele.
Nessuno deve pensare che si esprimeva in questi termini una cosa per­
fettamente chiara. Ci vorranno tutte le riflessioni dell’intero libro dei
Proverbi per trarre qualcuna delle conseguenze che questa tesi rac­
chiude. A partire da questo fondamento, Israele è introdotto in campi
del sapere di genere particolare, come del resto vive esperienze di ge­
nere particolare. In breve, il suo compito era di pensare entro i limiti
di un campo di forze circoscritto dalla pregiudiziale di un sapere ri­
guardante Dio. Tutto ciò che si può dire a favore o contro la sapienza
d'Israele è contenuto in questa frase. Il fatto che essa si sia impegnata
su questa strada verrà ribadita in modi diversi anche da Giobbe e dal-
l'Ecclesiaste.
Tuttavia, non bisogna cedere alla tentazione di assegnare all'espres­
sione che il timore di Jahve è l'inizio della conoscenza un valore di
programma esaustivo. Non si tratta di una tesi ardua, che Israele sa­
rebbe giunto a formulare dopo lunghe lotte, preferendola ad esperienze
orientate in altre direzioni. Tutt'altro: essa non dice nulla di più di
quel che è messo in pratica in tutte le sentenze. Essa non ha aggiunto
nulla di nuovo a ciò che era al fondo di ciascuna di esse e senza di

12 Non posso seguire l'opinione di McKane (Prophets and Wise Men, 1965, 47 s.). Secondo lui, i
rappresentanti deirantica sapienza, incaricati di compiti politici, svolgevano una funzione così op­
portunistica ed empirica che non potevano permettersi il lusso di principi religiosi o morali. Il
timore di Dio non era un elemento costitutivo della loro sapienza: essi dovevano prendere il mondo
così com'era. Ma non si può postulare negli uomini dell’antichità un’opposizione del genere tra il
mondo reale e la religiosità. I saggi, quando parlavano delle benedizioni di Jahve o dei limiti da
lui imposti, non hanno forse preso il mondo così com’era? Esiodo non ha fatto lo stesso? Si sono
forse permessi un lusso rispetto ai politici realisti?
IV. CONOSCENZA E TIMOR DI DIO 71

essa il tutto non sarebbe incompleto. Se mancasse, nulla cambierebbe


alla situazione, perché tutte le sentenze partono in fondo da questo
principio. Essa era importante solo per la sua significativa formula­
zione: il condensato di una conoscenza così vasta in una formula così
breve non ha equivalenti nel libro dei Proverbi. In un insegnamento
così fortemente centrato su indicazioni pratiche particolari, questa for­
mula sorprende per il suo concentrarsi su una questione di fonda­
mento, di principio; in essa si esprime un interesse teorico più che nel­
la maggioranza delle sentenze. È interessante vedere che la questione
dei principi di una giusta conoscenza è stata posta anche nella sapienza
antica e vi ha ricevuto una risposta fondamentale. Mentre la sapienza
più recente ha risposto teologicamente al problema delle condizioni
per l'acquisizione della sapienza (la sapienza viene da Dio), in quella
più antica la risposta è antropologica. La sapienza dipende interamente
da un atteggiamento giusto delluomo di fronte a Dio.
Nei poemi didattici raccolti in Prov 1 - 9, ritenuti in genere come i
più recenti, nei discorsi degli amici di Giobbe e nel Siracide, si è pro­
dotto un certo cambiamento riguardante l'oggetto che si vuole cono­
scere. Le svariate esperienze che si sono potute riunire nel vasto cam­
po della convivenza umana regrediscono nettamente. A questo pro­
posito si può parlare di una perdita di apertura. In primo piano appa­
iono piuttosto Tesarne e l'apprezzamento delle esperienze che si pote­
vano fare nel campo delle direttive di Dio, delle sue benedizioni e dei
suoi castighi. Anche in questo settore più specifico, si potevano fare
esperienze e si potevano trarre regole, la cui evidenza doveva persua­
dere l'allievo. Questo riferimento della fede ed esperienze reali ha la
sua legittimità. Se prima abbiamo detto che non vi è conoscenza senza
una confidenza attiva, si dovrebbe pure dire che non vi è fede che non
possa appoggiarsi nello stesso tempo su conoscenze e su esperienze 13.
L'ambito delle tematiche è più ristretto, il numero delle conoscenze
che possono fondarsi su esperienze religiose non è considerevole. D'al­
tra parte le conoscenze vengono esplicitate in una maniera molto più
approfondita. La cosa era necessaria, perché questi poemi didattici ri­
guardano soprattutto conoscenze teologiche che sono di portata fonda-
mentale e generale per l'uomo. La perdita di apertura è compensata
da una intensificazione della riflessione teologica. È in questo che ri­
siede tutta la differenza tra la collezione più antica e quella più recente
dei Proverbi.
Capita all'esegeta moderno di provare un sentimento di disagio quan­
do vede Israele occupato nell'esame e nella valutazione razionale delle
sue esperienze religiose, quando si pone il problema di sapere se è pos­
sibile decifrare una certa logica nelle direttive divine. Si domanda se
non si imbocca così una via che porta necessariamente a fare violenza
alla realtà per mezzo di uno schema religioso. Ma abbiamo visto che
13 H. Ott, Glaube und Vemunjt, in ThLZ 92, 1967, 401 ss. (411 ss.).
72 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I

in Israele il senso della realtà era molto più vasto e comportava un


maggior numero di realtà di quelle dell'uomo moderno. Inoltre per
Israele non vi era che un mondo indiviso dell'esperienza nel quale i
fenomeni notoriamente « reali » non erano più reali della colpevolezza,
della maledizione o della benedizione divina. I maestri più recenti non
fanno quindi se non quello che hanno fatto i loro predecessori, i quali
hanno trasmesso nelle loro sentenze nozioni derivanti esse pure dal­
l'esperienza di Jahve. Noi li vediamo proseguire esattamente lo stesso
cammino dei loro predecessori, a parte il fatto che si limitano ad al­
cuni temi nel riconoscimento della realtà umana e intensificano al ri­
guardo i loro sforzi teologici. L'argomentazione che si serve di espe­
rienze fondamentali specificamente religiose non deve nuocere affatto
alla comprensione della realtà. Se è corretta essa parte sì dalla realtà
(ma come la concepiva l'A.T.) e ne stimolerà la comprensione, renden­
dola capace di avere nozioni su alcuni dati e su alcuni rapporti quanto
mai reali. Il conflitto sorge soltanto quando queste nozioni che una vol­
ta erano giuste si cristallizzano « dogmaticamente »; quando dunque
l'esperienza non continua più a dare materia per la conoscenza e quan­
do ciò che è stato conosciuto non viene più senza posa verificato e spe­
rimentato, ma la conoscenza è essa pure sottoposta a regìa; quando
una conoscenza non autentica, perché costretta e deviata, entra in con­
flitto con l'evidenza della realtà, come la vede l'A.T. Sapere se uno sche­
ma religioso non si fa passare abusivamente per esperienza dovrebbe
essere una questione fondamentale da porre ad ogni testo e non solo
ai discorsi degli amici del libro di Giobbe. Non vi è pietà legittima
verso Jahve di cui dovremmo accettare senza critica la formulazione,
solo perché sembra evolvere in un ambiente che prendiamo per norma.
Incontreremo certamente qualche difficoltà nel rappresentarci gli og­
getti che Israele voleva conoscere nellambito della realtà in cui li ve­
deva. Ma, come si è visto, ciò riguarda non solo alcune concezioni dei
saggi, ma anche i Salmi e i Profeti. Poiché definiamo sempre le cono­
scenze partendo dal loro oggetto, sia che si tratti di conoscenze della
vita, della natura o del mondo, ci serviamo di una astrazione, di una
oggettivazione che suppone subito un tutto, « la vita », « la natura »,
« il mondo » come qualcosa di dato. Ora si pone qui, alla soglia stessa
del nostro esame, una questione di principio, il cui peso è considere­
vole. Non dobbiamo trasportare su Israele le nostre abitudini mentali;
mancheremmo di senso critico. Dobbiamo invece sottometterci all'esi­
genza di piegare il nostro spirito a rappresentazioni, a una « immagine
del mondo » che non ci è familiare. Avremmo già fatto un primo passo
se avessimo ben chiaro il fatto che Israele non ha conosciuto queste
nozioni globali che noi introduciamo quasi automaticamente nel pen­
siero come oggetto della nostra conoscenza o almeno come quadro pre­
liminare della nostra volontà di conoscere. Non distingueva tra una
« sapienza della vita », un'arte di vivere secondo le regole della società
e una « sapienza della natura », perché non era in grado di oggettivare
IV. CONOSCENZA E TIMOR DI DIO 73

questi campi nella forma di astrazioni del genere. Lo si nota facilmente


a proposito della nozione di « natura » che ci è diventata così indispen­
sabile e che Israele non ha affatto conosciuto. Inoltre: se usiamo que­
sto concetto nella nostra interpretazione dei testi dell’A.T., deformiamo
un elemento specifico dell’ottica d'Israele che non percepiva la neces­
sità di cogliere come un tutto l’oggetto della sua ricerca per poi spie­
gare i particolari sempre a partire dalla conoscenza di questo tutto 14.
Se si stabilisce un paragone con la problematica dei filosofi ionici che
— com’è noto — si sono occupati della ricerca dei principi cosmolo­
gici, si potrebbe vedere nella capacità di conoscere d’Israele un limite
che i Greci hanno superato sin dal loro primo sforzo, in altri termini
una forma di infantilismo filosofico. Ma sarà bene considerare questa
particolarità della conoscenza israelitica come un contributo personale
e specifico1S.
L’insegnamento d’Israele differisce profondamente anche dalle con­
cezioni della sapienza dell'antico Egitto. Il concetto centrale a partire
dal quale bisogna interpretare le dottrine dei saggi egiziani è quello
della « Maat », termine dal significato molto esteso. Lo si traduce con
« verità », « diritto », « giustizia », « ordine primordiale », « ordine co­
smico » ,6. Questa Maat garantisce la stabilità del mondo, cosmico e
umano-sociale. È di essa che vivono gli dei e gli uomini. Gli uomini de­
vono farla propria, devono da parte loro realizzare questa Maat, tra­
smetterla. Nel quadro del nostro studio c’interessa poco la sua posi­
zione divina, poiché in effetti il suo significato nella vita religiosa degli
antichi Egizi sembra sia stato limitato. Quel che ci pare importante no­
tare è che gli Egizi si sono rappresentati la struttura del mondo creato,
l'ordine cosmico come una realtà oggettiva, mentre Israele non ha co­
nosciuto niente di simile. Questa differenza specifica può difficilmente
essere sopravvalutata. Da questo punto di vista si deve certamente spie­
gare anche la « dottrina » dell’ambivalenza dei fenomeni, una specie di
dialettica nel pensiero dei maestri, su cui ritorneremo11. Nel campo
degli insegnamenti d’Israele, potevano esserci opinioni radicalmente
opposte. La stessa base giustificativa del « grado quasi inimmaginabile
di senso di certezza » nel pensiero degli Egizi18 può d'altronde essere
solo parzialmente paragonata con ciò che dava fiducia a Israele. La ra­
gione di questa incapacità di oggettivare determinate percezioni in ma­
niera mitica o speculativa deve essere cercata nelle particolarità della

u « Per la prima volta (in Anassimandro) appare ai nostri occhi una visione del mondo coe­
rente che racchiude tutta la realtà sulla base di una derivazione e di una spiegazione di tutti i
fenomeni * (W. Jaeger, Die Theologie der friihen griechischen Denker, 19642, 34).
15 La « formula universale quadripartita »: cielo-soggiorno dei morti-terra-mare, lo conferma da
parte sua (Giob 11, 8 s.), poiché essa non concepisce il « Tutto » come concetto, ma addiziona le
sue parti. Su questa formula, cfr. F. Horst, Hiob, in BK 16/1, 170.
1# Circa l'idea di « Maat » vedi H. Brunner, Agyptologie II, in « Handbuch der Orientalistik »,
voi Ir 2* sezione, 1952, 93 ss.; come pure, Altàgyptische Erziehung (1957), 142; S. Morenz, Gott und
Mensch im alteri Agypten (1964), 66. 118 s. 133, ecc.; H. Gese, op. cit., 11 ss.; H. H. Schmid,
op. cit., 17 ss.
" Vedi pp. 222 ss. e 275 s.
18 H. Brunner, Erziehung, 149. SuU'inammissibilità di opinioni contraddittorie, vedi ibidem, 142.
74 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

sua fede in Dio. In tutti i suoi sforzi per conoscere lo svolgimento de­
gli avvenimenti umani, Israele non s'incontrava sempre con Jahve che
raccoglieva tutto sotto il suo potere? Non vi è mai stato un solo campo
in cui Israele abbia potuto essere da solo con la sua ragione e l'oggetto
della sua conoscenza, cosicché il suo sforzo conoscitivo si è trovato —
ci si passi il paragone — in una situazione il cui esito era sensibilmente
più difficile. Gli era imposto, senza poter anticipare su ciò che non co­
nosceva e non aveva sperimentato, di attenersi a ciò che poteva essere
conosciuto in ciascun caso, nel campo dei problemi particolari e di
fissare così sempre il limite che era posto nei confronti di quanto non
era mai a sua disposizione. Israele era cioè obbligato a restare molto
più intensamente aperto alla categoria del mistero. Se parlava di mi­
stero — anche in questo caso manca la parola, non la realtà! — non
intendeva qualche vaga nozione che non avrebbe nome e si rifiuterebbe
ad ogni formulazione. Nei testi della sapienza didattica, si tratta molto
più di un apprezzamento della ragione che del sentimento. Il concetto
è preciso nella misura in cui si riferisce all'azione universale di Dio,
ambito del quale i saggi si sono applicati a ricercare le regole. Vi è, in
effetti, — come si è detto molto bene — non solo la profondità del­
l'abisso e dell'oscurità, ma anche la profondità della luce stessa: « il
mistero nella piena rivelazione » 19. Dovremo ancora parlare di questa
via della conoscenza che cammina lungo la frontiera del mistero.

19 R. Guardini, Gegenwart und Geheimnis (1957), 23.


V
SIGNIFICATO DELLE REGOLE
PER UN COMPORTAMENTO SOCIALE GIUSTO

In ogni tempo si è pensato di trovare nel libro dei Proverbi il luogo


in cui è condensata la moralità dell'antico Israele K Non vi è nulla da
obiettare a ciò se si lascia definire all'A.T. quel che Israele intendeva
per « morale » e non si tenta di determinarlo partendo da una serie di
concetti tradizionali dell'etica filosofica o teologica (libertà, coscienza,
dovere, ecc.). Se si cerca di capire le sentenze dei Proverbi sulla base
delle loro prospettive e della loro intenzione, non si tarda ad accorgersi
che esse sono radicate in un insieme di valori molto specifico e a noi
estraneo. Bisogna inoltre accettare come dato che questo insegnamento
non è affatto o per lo meno è pochissimo interessato all'acquisizione di
conoscenze teoriche e comunica piuttosto un sapere strettamente prag­
matico. Ma quel che importa maggiormente è sapere se questo insegna­
mento può veramente procedere, quanto al suo significato, dalla nozione
di «morale». È questo il suo contesto? Non erano forse piuttosto diret­
tive atte a guidare la vita o a risolvere le numerose difficoltà dell'esi­
stenza? Vi si trovano senza dubbio molti consigli che saremmo tentati
di catalogare tra i precetti « morali ». Ma, da questo punto di vista, le
sentenze contengono in un certo senso più, in un altro senso meno che
dei consigli di vita morale. Se si parte dalla problematica morale non
si coglierà che in modo incompleto il contenuto delle sentenze. La for­
ma che corrisponde veramente alla morale è l'esortazione, l'avverti­
mento all'imperativo. Ora questo genere è in minoranza nell'insieme
delle sentenze e il fatto che questi ammonimenti si ritrovino soprat­
tutto nella sezione parallela all'opera egiziana di Amenemope (Prov
22, 17 - 23, 11) ha favorito l'opinione secondo cui il genere dell'esorta­
zione non era una forma didattica autenticamente israelitica. Ma quel

’ Di conseguenza, si è volentieri accostata la «sapienza» nei manuali di teologia dell’A.T. sotto


la rubrica « etica ». Cfr. Th. C. Vriezen, Theologie des Alteri Testaments in Grundziigen (1957), 271
ss.; G. Hòlscher, Geschichte der israelitischen und jiidischen Religion (1922), 148 s.; P. van Imschoot,
Théologie de VAncien Testament (1954): i saggi sono i professori di morale d'Israele (p. 100).
76 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I

che ha maggior peso — e qui noi anticipiamo — è il sapere che la no­


stra nozione di morale può essere applicata solo forzatamente a quella
di « bontà » che era presente nell’antico Israele come nel mondo greco
degli inizi2.
Chi tenta di giudicare le regole di comportamento che s’imponevano
all’individuo in un popolo dell’antichità solleverà automaticamente il
problema delle norme morali fondamentali che reggono questo popolo.
Ma pur nella certezza che dalla letteratura di un popolo si può trarre
qualche informazione sulle norme etiche che lo guidano non ci si do­
vrà illudere sulla portata diretta che queste norme han potuto avere
nella vita individuale. Anche in Occidente il decalogo, il discorso della
montagna, l'imperativo categorico sono molto lontani dall'aver diretta-
mente determinato le decisioni dell’individuo. In genere l'individuo ri­
ceve gli imperativi che determinano il suo comportamento morale da
tutt'altra direzione. Per ognuno esiste prima di tutto una forma deter­
minata di vita comunitaria: famiglia, tribù o città. Questa vita collet­
tiva ha la sua atmosfera etica, che obbliga l’individuo a rispondere al­
l’attesa che la società ha nei suoi confronti; gli fornisce paradigmi e
scale di valori da tempo stabiliti. Di regola, l’individuo si conforma
senza riflettere a questi dati preliminari della società; e, inversamente,
le regole di comportamento si conformano a loro volta a questi dati
preliminari. Sarebbe dunque mancare di realismo voler comprendere
le regole di comportamento di una comunità come l’espressione più o
meno diretta di alcune convinzioni morali assolute. Il ruolo che un es­
sere umano deve sostenere nella comunità in cui è nato è determinato
e fissato ampiamente dalla storia sociale del suo gruppo umano. Ma il
modo con cui gioca questo ruolo e il jnodo con cui è portato a giocarlo,
in questo consiste l’essenziale che dobbiamo cogliere \ Dobbiamo quin­
di occuparci brevemente dei dati preliminari della storia sociale circa
la distribuzione dei compiti nel libro dei Proverbi.
Ciò che si può trarre dal libro dei Proverbi di Salomone circa le con­
dizioni sociali ed economiche, cioè circa il settore specificamente so­
ciale a cui appartengono le sentenze, è stato accuratamente studiato4.
Gli uomini vivono in genere da sedentari, gli uni in un quadro agricolo,
gli altri in città fortificate. Accanto al lavoro nei campi, vi sono arti­
giani o negozianti. Vi si parla pure del re e delle relazioni corrette che
si devono tenere nei suoi confronti, della benedizione di una vita con­
forme al diritto e dei suoi rischi. Vi sono ricchi e poveri, uomini liberi
e schiavi. Ma il mondo è considerato dal punto di vista dell'uomo li­

2 Sulla nozione di « bontà », cfr. pp. 78 ss. Essa non traduce una parola ebraica determinata,
ma è scelta per rendere un gruppo intero di nozioni che in ebraico poteva essere espresso con
attributi; tuttavia ?addlk, ;edakd = « conforme ad un comportamento sociale corretto » dovrebbero
in ogni caso apparire in primo piano.
3 Th. C. Vriezen parla giustamente di una « confluenza d'elementi religiosi e morali e di morale
sociale », op. ci/., 271.
4 Soprattutto nel lavoro di U. Skladnv. Per i proverbi di ammonizione, vedi W. Richter, Recht
und Ethos (1966), 183 ss.
V. SIGNIFICATO DELLE RECOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 77

bero e non come lo conosce lo schiavo, l’emarginato o chi è appena


considerato nella comunità, l’infermo o lo storpio che vi si trovano5.
Tutto ciò che si può ottenere dallo studio sociologico del libro dei Pro­
verbi corrisponde — lo si può dire con tutta sicurezza — alle condizioni
di vita dell’epoca preesilica della monarchia e nella quasi totalità dei
casi, all’ambiente colto di una città.
Ci pare molto strano che quasi non si senta l’eco delle crisi molto
gravi della vita sociale di quest’epoca, come esse risultano dalla predi­
cazione dei profeti (scontro tra le concezioni economiche cananee e il
diritto fondiario d e ll'a n tic o Israele: latifondi, vaste proprietà, miseria
dei contadini prima liberi). Segni di trasformazione o per lo meno ten­
sioni minacciose nei rapporti sociali, bisognerebbe cercarli con la lente
d’ingrandimento. L’impressione globale è quella di condizioni essenzial­
mente stabili e per nulla bisognose di riforma. Il fatto che si parli so­
vente di poveri e di povertà è lungi dal costituire una prova del con­
trario. Ne esistono sempre e ovunque; certo, quando ciò conduce a de­
gli indurimenti nella vita sociale, la coscienza percepisce la povertà
come uno stimolo. D’altra parte, le sentenze parlano della povertà in
maniera spesso fredda, senza alcun sentimento, poiché molto sovente
essa è considerata come l’effetto degli sbagli di coloro che la subisco­
no6. In una parola, essa è semplicemente presente (Prov 17,5). Sarebbe
evidentemente falso attendersi dalla letteratura sapienziale consigli di­
retti per risolvere i problemi sociali d'oggi. Quel che caratterizza la sua
concezione, è una enorme capacità d'inerzia. Il suo scopo è la ricerca
sulla vita in quel che ha di permanente; non si apre quindi ai problemi
sociali di attualità, ma a ciò che è sempre valido, a ciò che perdura
nelle relazioni sociali. Il che non significa che quella che vien chiamata
così volentieri l’etica della sapienza non abbia contorni abbastanza ca­
ratteristici.
Ma come affrontare il nostro problema, il modo con cui Israele e in
particolare i suoi maestri hanno inteso la « morale »? Un semplice
sguardo al libro dei Proverbi ci fa vedere che, nel mondo delle sentenze
didattiche, non ci si può aspettare delle riflessioni fondamentali su quel
che è l’azione buona. È un peccato! Si legge — è vero — in un passo
che il timore di Jahve comporta l’odio del male (Prov 8,13); ma a parte
il fatto che il problema di ciò che sono il bene o il male propriamente
detti, di cui si fa menzione senza posa, resta interamente aperto, una
frase di questa specie non ha la portata di una definizione della so­
stanza del problema. Essa non dice nulla di più di quanto dice: l’uomo
deve guidare la propria vita nel timore, nella conoscenza di Jahve ed è
posto di fronte all’obbligo di respingere il male e di scegliere il bene.
Non si può trarre da queste frasi e da altre sentenze analoghe un’infor­
mazione circa la sostanza dell’etica sapienziale, semplicemente perché

» Deut 23, 2 (Lev 21, 16 ss.); Giob 24, 5-12; 30, 3-8.
‘ Ad esempio: Prov 11, 16; 12, 11.24; 13. 4. 18.25; 18, 9; 19, 15; 20, 4.13; 21, 5. 17; 22. 7; 24, 34.
6. voci rad. la sapienza in itraete
78 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I

tra i maestri non era possibile alcuna discussione su ciò che era il bene
ed il male. Così noi non avremmo fatto altro che girare a vuoto.
La nostra indagine sulla nozione di bene come Israele lo intendeva
non approda a nulla finché cerchiamo la risposta nel campo dell'ideo­
logia, nel senso di una definizione. Israele ha affrontato il bene da una
visuale completamente diversa: il bene è stato da lui percepito sem­
plicemente come una forza, come qualcosa che determina interamente
la vita, come un'esperienza quotidiana, efficace, una realtà presente su
cui non vi era da discutere, come non si discute sulla luce o sull'oscu-
rità. Il bene era qualcosa di eminentemente attivo — gli antichi pensa­
vano a questo proposito in modo molto più pragmatico di noi. È buo­
no ciò che fa del bene; è cattivo ciò che causa danni. Il bene o il male
creano le situazioni sociali; in un senso affatto « esteriore », edificano
o distruggono la comunità, la proprietà, la felicità, la fama, la prospe­
rità dei figli e molte altre cose. Non si tratta quindi soltanto di impulsi
e di inclinazioni nel segreto del cuore umano, ma di forze suscettibili
di dare una forma all'esistenza e il cui potere era visibile agli occhi di
tutti. Si tratta di reazioni che si possono perfettamente constatare. E
ripetiamolo: su questa realtà del bene e del male che modella la vita,
non vi era presso i maestri alcuna discussione; il loro sapere a questo
riguardo era una convinzione fondamentale su cui si fondavano e da
cui provenivano tutti gli altri insegnamenti. Quanto a noi, ci è chiesto
di allontanarci un po' dalla rigidità dell'idea del reale che ci viene im­
posta dalla volgarizzazione scientifica del nostro tempo e di penetrare
in quell'atmosfera della realtà antica e biblica secondo la quale l'am­
biente inquadra molto più familiarmente l'uomo e corrisponde molto
meglio alla sua natura e al suo comportamento, favorendo ciò che è
giusto e vietando ciò che è inutile. Si tratta di un senso della realtà
che sa che l'individuo è molto più intensamente, più « organicamente »
legato ai movimenti del suo ambiente durante l'esistenza, un senso del­
la realtà che è in grado di comprendere l'intrusione del mondo circo­
stante nella vita delFuomo come una chiamata, ma anche come una ri­
sposta al suo comportamento, che conosce semplicemente come, da
questo lato, qualcosa di molto importante capita sempre all'uomo, il
male e il bene che gli parlano e non sfuggono in alcun modo alla sua
capacità di capire. Da questo momento il problema dell'etica della sa­
pienza didattica trova una risposta relativamente facile. L'uomo buono
è quello che sa contribuire all'edificazione del bene e alla distruzione
del male e che si sottomette alle regole, all'ordine che si delinea nel
mondo in cui vive. Il giusto, lo zelante, il moderato, il servizievole è
quello che ricaverà da questa bontà frutti di bontà. La bontà e i beni
sono strettamente legati in questo modo di pensare. In effetti, il bene
è ciò che fa del bene. La bontà era dunque sempre qualcosa di visibile,
di pubblico, mai soltanto qualcosa di puramente interiore; era un fe­
nomeno sociale. « Quando i giusti prosperano, la città è nella gioia...
Per la benedizione dei giusti, la città si innalza » (Prov 11, 10 s.). L'at­
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 79

teggiamento e l’azione dell’individuo vengono sempre considerati nelle


loro conseguenze sull'insieme della società.
I maestri — e non solo loro — chiamavano saddìk l’uomo che si com­
porta con giustizia e di conseguenza — abbiamo visto come ciò fosse
inseparabile — ha u n ’esistenza prospera. Abitualmente traduciamo
questo termine con « giusto », benché sappiamo che la parola ebraica
non corrisponde realmente alla nostra lingua e alle nostre concezioni.
Si attribuivano a questo termine di saddìk nozioni e criteri a cui diret­
tamente non pensiamo quando chiamiamo qualcuno « giusto ». In Isra­
ele l'uomo era giudicato così, nella misura in cui adempiva le condi­
zioni che una comunità gli imponeva. In questo si trovava la norma del
giudizio portato su di lui. È impossibile prevedere le esigenze che la
convivenza umana può imporre a un individuo. Per la maggior parte
dei casi era un servizio del tutto pratico che qualcuno doveva rendere
pagando di persona. Se egli si adeguava a ciò che nella comunità si at­
tendeva da lui, era considerato « giusto » (cosa che noi esprimeremmo
con altri aggettivi). Ma la parola ebraica era molto più ampia, non si
limitava alla giustizia esigita dalla giurisdizione: ogni qual volta un
uomo riconosceva rivendicazioni emananti dalla comunità a cui appar­
teneva e vi rispondeva, era « giusto » e i saggi (particolarmente nelle
sentenze di Prov 10 - 15) non cessano di ripetere che tutto ciò che viene
da un giusto siffatto è vantaggioso anche per lui — si è quasi tentati
di dire: lo colloca in una sfera di benedizione7. È un’aberrazione par­
lare di « dogma della retribuzione », perché non si tratta di postulati
ideologici, ma di esperienze che hanno trovato conferma nel corso di
una lunga serie di generazioni.'Lo saddìk è un uomo che, come ci ca­
pita di dirlo a volte, è « a posto ». Traduciamo questa parola con « giu­
sto ». È accettabile se ci si ricorda del fatto che la « giustizia » a cui
soddisfa il giusto non è generalmente un diritto scritto, ma comporta
esigenze umane molto estese.
È utile notare qui la stretta vicinanza tra le concezioni della Grecia
primitiva e quelle d'Israele. « Aretè » — da non tradurre con virtù, ma
piuttosto con bontà e a volte con merito — designa in Esiodo e in altri
autori il merito personale strettamente legato al successo. Essa è piut­
tosto un fine della vita, un « premio », poiché all’idea di bontà si ag­
giungeva come complemento quella della riuscita, della posizione ono­
revole*. Anche in questo caso, la bontà di un uomo è un fenomeno
7 Sul rapporto tra condotta e retribuzione, cfr. p. 121 s.
• E. Schwartz, Die Ethik der Griechert (1951), 19 ss. € E considerato uomo di valore colui che
riesce; sta qui 1'"aretè* di Esiodo * (op. cit., 23). Cfr. anche H. Frànkel, Dichtung und Philosophie
des friihen Griechentums (1962), 475-478. « Si intende la bontà come capacità e questa nozione in­
clude tanto il successo ricco di benedizioni a cui si tende quanto la stima di cui gode la persona
capace » (op. cit., 136). « La buona volontà e il grande sforzo non bastano per fare un uomo "buo­
no”; l'impresa deve raggiungere un successo visibile » (op. cit., 351). Su questa nozione dell’utile,
cfr. anche B. Snell, Die Entdeckung des Geistes (1955), 220 ss. Pare che il termine ebraico tuSijjà
si avvicini molto alla nozione greca primitiva di « aretè ». Esso mette in difficoltà il traduttore per­
ché non ha equivalente in italiano. In alcuni testi, questa parola sta ad indicare una qualità sog­
gettiva (Prov 3, 21); egualmente, in rapporto con Dio: Is 28, 29; Giob 11, 6. Poi altrove è il « suc­
cesso », la € riuscita », Prov 2, 7; 8, 14; 18, 1, ecc. Cfr. G. Kuhn, Beitrdge zur Erklàrung des Sa-
lomonischen Spruchbuchs (1931), 3 s.
8o LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I

molto più vasto: l’agire bene e l’essere buono sono due facce di una
stessa realtà.
Quest’ordine d’idee comune all'antichità è difficilmente compren­
sibile se si parte dagli elementi di un idealismo etico. Il modo peggiore
di intendere questa « idea di successo » sarebbe il sospettarla di utilita­
rismo e di eudemonismo9. Dietro a questa concezione della vita non vi
è il punto di vista utilitaristico e prosaico dell’uomo che ha preso in
mano la propria esistenza, ma vi è l’atto rinnovato senza posa dell’uo­
mo che si situa nell’ordine divino che gli è imposto e in cui solo può
trovare la benedizione. Si potrebbe quasi dire che la conoscenza del
bene si acquisiva solo nella vita comune, da uomo a uomo, da situa­
zione a situazione; tuttavia non si ripartiva ogni volta da zero, perché
vi era sempre il sostegno di un antico sapere, di un'esperienza molto
ricca. I maestri hanno faticato parecchio nel dirigere i giovani all'esatta
conoscenza del bene e del male. Ciò non significa che per essi il bene
era problematico nella sua natura, ma che necessitava di una grande
esperienza, data l’infinita mutevolezza delle situazioni umane e la ten­
denza dell'uomo ad ingannarsi circa l'identità del bene. Sovente esso
non appare in superficie, non si mostra in modo da poter essere rico­
nosciuto da un giovane. « Una via pare giusta ad un uomo e alla fin
fine si dimostra la via della morte! » (Prov 14, 12). Occorrono quindi
occhi esercitati e imo spirito vigilante per poter distinguere il bene dal
male; la conoscenza a volte deve essere impartita al fanciullo a colpi
di verga (Prov 29, 15). È sempre difficile vivere secondo il bene che si
è conosciuto. Secondo l’opinione dei saggi, l’uomo deve essere formato
a questa conoscenza e a questo atteggiamento mediante l’educazione.
In tutte le loro sentenze cariche di esperienza, nelle loro esortazioni,
negli esempi che citano, essi parlano tanto del bene quanto del male,
considerandoli come una verità generale che in fin dei conti illumina
immediatamente l’uomo di buona volontà.
Si può affermare che questa concezione del bene come potenza che
favorisce la vita e la comunità è comune a tutta l’antichità. Tutto l'in­
sieme di queste nozioni ci apparirà molto complesso se l'analizziamo
partendo dalla distanza che lo separa da noi. Per gli antichi, esso ora
invece molto semplice e perfettamente chiaro. Non vi è nulla di buono
che non faccia nello stesso tempo anche del bene. Il possesso della roba
fa del bene all'uomo, come la benedizione della prole, l'onore, una
buona fama, un buon matrimonio, un buon amico; un uomo la cui con­
dotta è ratificata da tali benefici è quindi buono. Nella sua « dottrina
dei beni », questa etica è in effetti sorprendentemente realista. Essa non
critica mai lo sforzo dell'uomo teso verso la felicità e la perfezione, an­
che nei suoi eccessi, ma Io presuppone semplicemente come un dato di

9 Correttamente esposto da H. Gese, op. cit., 7 ss., e da U. Skladny, op. cit., 85 s. Se si vuole
parlare di « idea di successo », si può farlo poiché è effettivamente il problema di Esiodo: « Come
è fatto il mondo che ci circonda e come agire in esso per riuscire il meglio possibile nella nostra
vita? » (H. Frankel, op. cit., 128 s.l.
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 8l
fatto. Questa aspirazione alla felicità — dovremmo dire con maggior ri­
serva: questa aspirazione a sussistere, a non fallire, a considerare la
vita come protetta da un ordine salutare — è profondamente radicata
nell’uomo e sarà sempre approvata. I maestri la sostengono mostrando
le strade che vi portano.
Qual è l’uomo che ama la vita,
che desidera prolungarla per godere la felicità?
Preserva la tua lingua dal male,
e le tue 'labbra da parole d’inganno. (Sai 34, 13 s.)
I maestri insegnano all’uomo ad acquistare, a conservare e a non di­
sprezzare quel che essi chiamano volentieri « la vita », il che significa
l’insieme di tutto ciò che può essere compiuto, di tutti i beni che pos­
sono essere patrimonio di un uomo. Quel che viene dato qui sotto for­
ma di consiglio riguarda tutti. Non c’è un esclusivismo etico, non vi è
alcun posto per esigenze supreme di ordine morale a cui solo una pic­
cola cerchia di simpatizzanti sarebbe in grado di sottoporsi; nessun
spazio per una forma qualsiasi di eroismo morale, per un fanatismo
virtuoso, per un solipsismo etico. Alla loro mente non sarebbe certo ve­
nuta l’idea che l’uomo possa opporre con insolenza il suo modo di vive­
re a un mondo che si ergerebbe contro di lui, indifferente o addirittura
ostile. Gli ordinamenti stabiliti si ponevano di fronte a lui come qual­
cosa di onnipotente; era legato nei loro confronti e nessuno gli doman­
dava il suo assenso.
Non ci si deve però fraintendere quando affermiamo che questi inse­
gnamenti mancano di ogni esclusivismo, che non si rivolgono a coloro
che vogliono perfezionarsi a un livello superiore della massa o che ri­
guardano tutti. Non si rivolgono, come potremmo facilmente pensare,
all’uomo astratto. Anzi: questo « tutti » è una comunità ben determi­
nata, storica e sociologica, in cui si sono imposte determinate regole e
norme, mentre altre regole che altrove potrebbero essere in primo pia­
no, qui mancano. È vero che l’immagine dell’uomo che risulta da que­
sti insegnamenti è per molti aspetti valida al di là del tempo e per tutti
gli uomini. In questa valutazione non bisogna perdere di vista che l’im­
magine occidentale dell’uomo ha assimilato nel corso di un processo
secolare quella dell’Antico Testamento, di modo, che noi tendiamo facil­
mente a farne un assoluto. È fuor di dubbio che l’immagine dell’uomo
fornitaci dalle sentenze del libro dei Proverbi è stata modellata in modo
quasi unico, dal punto di vista culturale e sociale, da tutta una serie
di fattori. Un altro problema che si pone è quello di sapere se le regole
di comportamento del libro dei Proverbi devono essere considerate co­
me un’« etica professionale » e un’« etica di funzionari », il che signi­
ficherebbe che esse sarebbero valide nell'essenziale solo per una classe
superiore e ristretta della società10. Se la prendiamo globalmente, bi­
10 Sul problema di un'« etica professionale », cfr. H.-J. Hermisson, op. cit., 94 ss. Skladny crede
di poter vedere in Prov 28 s. un modello per il sovrano, op. cit., 66.
82 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

sogna rispondere di no a questa domanda: non si può constatare un


interesse particolare per la vita dei funzionari superiori, non più che
per l'esistenza dello schiavo o dell'emarginato sociale o cultuale. In pri­
mo piano vi sono le condizioni di una classe media relativamente agia­
ta. Quel che è certo in ogni caso, è che vi son tracciate regole il cui va­
lore non si limita ad un gruppo sociale determinato, ma che sono va­
lide per tu tti11. Anche gli schiavi e le schiave, la cui menzione non è
rara, devono essere sottomessi a queste regole senza particolari riserve.

Come in tutti i popoli, il sentimento dell'onore era molto forte in


Israele. Nel Siracide viene considerato come il bene supremo.
Abbi cura del tuo nome,
poiché esso ti rimarrà più a lungo di mille tesori preziosi.
Una vita agiata dura un numero limitato di giorni,
ma un nome onorato rimane per sempre. (Eccli 41, 12 s.)

Si possono constatare alcuni cambiamenti nella nozione di onore in


Israele. Quella che appare negli insegnamenti dei Proverbi è tipica di
una società agricola e borghese agiata. Quanto ai discorsi di Giobbe
che parlano della sua onorabilità distrutta, sono interamente impre­
gnati dall'idea che dell'onore si faceva il grosso proprietario già resi­
dente in città.
Oh! non potrò io ritornare come ai mesi del passato,
come ai giorni in cui Dio mi proteggeva...!
Se uscivo per andare alla porta della città,
e se mi facevo preparare un seggio al mercato,
i giovani si ritiravano al mio arrivo,
i vecchi si alzavano e si tenevano in piedi.
I notabili arrestavano i loro discorsi,
e si mettevano la mano sulla bocca;
la voce dei nobili zittiva,
e la loro lingua aderiva al palato... (Giob 29, 2. 7-10)

Si vede qui che l'onore di cui Giobbe si stimava degno era una parte
importante della luce che Dio faceva risplendere su di lui. Quest'onore
era d'altra parte qualcosa di valido pubblicamente. Non era un merito
privato di Giobbe, ma una qualità riconosciuta senza la minima discus­
sione da ogni uomo per bene, che era nello stesso tempo un uomo con
beni! È la lode del giusto, di chi è sotto ogni aspetto soccorritore (vv.
12-17). Tutta questa concezione dell'onore dev'essere capita a partire
da un ordine sociale fondato sulla religione, nel quale i beni « palpa­
bili » sono visti in modo sorprendentemente realistico ; in cui si aveva
una visione molto chiara della bontà dell'individuo e nello stesso tem­
po della benedizione di cui Dio lo ricolmava. L'insensato è senza ono­
re, senza gloria (Prov 26, 1. 8), è « disordinato », non giunge ad inse-

1 H.-J. Hermisson, op. cit., 96.


V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 83

rirsi nell'ordine che è imposto a tutti gli uomini, a motivo di una qual­
che debolezza interiore.
Ma a fianco di questa nozione « sociale » d'onore, ne esiste un'altra
molto più interiorizzata.
11 timore di Jahve è un insegnamento della sapienza,
e l’umiltà precede l'amore. (Prov 15, 33)
L'uomo che ha sapienza è lento alla collera,
e mette la sua gloria nel dimenticare le offese. (Prov 19, 11)
È un onore per l'uomo astenersi dalle contese,
ma ogni stolto si abbandona alla collera. (Prov 20, 3)
L'orgoglio dell'uomo lo umilia,
ma chi è umile di spirito ottiene l'onore. (Prov 29, 23)

Anche il povero può essere onorato (Eccli 10, 31). La gloria del sa­
piente, come il Faust se la vede tributare dalla « folla », è ancora sco­
nosciuta. Solo nel Siracide appare la coscienza del sapiente e della sua
gloria (Eccli 39, 9-11). In questo insegnamento etico sorprende l'assen­
za di una educazione orientata alla formazione della volontà politica12.
Si paragoni semplicemente questo con l'educazione greca nella quale
si trova in primo piano l'impegno di destare un sentimento giusto nei
confronti dello Stato. Ogni individuo è un membro dello Stato e gli
appartiene. L'arte politica veniva considerata come la più grande sa­
pienza ; non era stata data agli uomini da Prometeo, ma proveniva di­
rettamente da Zeus l3. Il libro dell'Ecclesiaste vuole essere il testamento
di un re; vi è infatti all'inizio qualcosa sui doveri regali. Ma quante
possibilità di istruire chi governa vi rimangono inutilizzate, come in
tutto il libro dei Proverbi! Manca anche l'educazione del giovane alle
virtù militari e aristocratiche. Se nelle sentenze dei Proverbi manca
l'educazione della volontà politica, non si ha neppure l'impressione che
si badi molto a un'educazione sul comportamento necessario in guerra.
Chi è lento alla collera vale -più di un eroe,
chi è padrone di sé vale più di un conquistatore di città. (Prov 16, 32)
Un saggio va all'assa'lto di una città di eroi,
e abbatte il baluardo in cui essa confidava. (Prov 21, 22)
Un saggio è « più potente » « di un uomo forte »,
e un uomo accorto « più di un uomo vigoroso ». (Prov 24, 5)

Non si pensa così in una società feudale. Si potrebbe quasi indivi­


duare in queste sentenze un risentimento contro il suo ideale. Vi è sì
un re ma, nell'insieme, l'atteggiamento nei suoi confronti è piuttosto
riservato 14. Il suo « sdegno » e, in un senso più generale, il suo umore
sono realtà con cui bisogna fare i conti. Ma tutto sembra far vedere

12 Altrettanto sorprendente in Esiodo che viveva in un'epoca di disordine sociale!


13 H. Frankel, op. cit., 125 s. 145. W. Riiegg, Antike Geisteswelt (1964), 464. 531. J. Fichtner è
inesatto quando parla di « nazionalizzazione » della sapienza d’Israele nel sottotitolo della sua ben
nota opera. Ugualmente in Fohrer, Einleitung in das Atte Testament (1965), 337.
14 Prov 16, 14; 19, 12: 20, 2; 28, 15.
84 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

che queste sentenze suppongono un ordine borghese agiato, un mondo


in cui le relazioni personali da uomo a uomo prevalgono di molto sulle
funzioni e le istituzioni. Si affrontano le relazioni con i figli, le mogli,
i vicini, luomo saggio e lo stolto. Vi si parla di esperienze fatte a con­
tatto dell'orgoglio o della pigrizia, dell'inettitudine o della collera, della
destrezza o della mitezza. Il tema del discorso assennato o più ancora
quello del silenzio opportuno sono inesauribili; poiché « la morte e la
vita sono in potere della lingua » (Prov 18, 21) e ben più ancora: « l’ini­
zio di ogni azione è la parola » (Eccli 37, 16)1S. Nel mondo tratteggiato
da queste sentenze didattiche, di tutte le grandi istituzioni pubbliche
risalta solo la vita giuridica, cioè il giusto comportamento nella comu­
nità giuridica locale, soprattutto per quel che riguarda l'importante
funzione del testimone e — come si è detto — il potere regale è ricor­
dato in un numero molto esiguo di passi16.
Quest'ordine sociale è ritenuto come qualcosa di predeterminato ed
evidentemente è stabile. In ogni caso non diventa mai l'oggetto di una
discussione. Non è né fondato teologicamente né teologicamente sotto­
posto ad una critica sostanziale. Per i maestri, è più importante e più
interessante ciò che avviene in questo quadro sociale prestabilito e il
modo con cui avviene. Il loro sguardo sull'attività degli uomini, sul
loro atteggiamento nelle diverse situazioni, sulle loro qualità e su tutto
ciò che è paradossale, è penetrante malgrado una tendenza manifesta
a creare tipi didattici. I loro giudizi in materia sono di un'estrema so­
brietà, spesso molto accentuati, non di rado patetici nella forma. Se
bisogna esprimere qualcosa che caratterizzi questa concezione della vi­
ta in numerose sentenze didattiche e che è, fino ad un certo punto, de­
terminato anche dalle condizioni sociologiche, dovremo rifarci all'idea
di circospezione, di prudenza. Si stima maggiormente il temporeggia­
mento, la discrezione nell'agire che l’attività prorompente. Ogni atteg­
giamento affrettato è a priori sospetto, come ad esempio l'acquisizione
precipitosa di beni17, l'« arricchimento improvviso », la chiacchiera inop­
portuna. Si tende a una economia delle proprie forze. Un impegno inu­
tile dev'essere evitato, tenersi lontani dai conflitti vani non è vergo­
gnoso e non bisogna mirare più in alto di quanto le circostanze lo per­
mettano. Si è coscienti dei pericoli di ogni estremo, di ogni assoluto,
anche nel campo morale.
Quando viene l'orgoglio, viene anche il disonore,
ma nell'uomo prudente si trova la sapienza. (Prov 11, 2 )18
Cominciare una contesa è aprire una diga,
prima che la lite scoppi, ritirati! (Prov 17, 14)

'5 La parola opportuna: Prov 12, 14. 18 s.; 13, 2; 15, 1 s. 4; 16, 24; 20, 15; 24, 26; 25, 11. 15; 29,
20, ecc. Il silenzio opportuno: Prov 11, 12 s.; 12, 23; 13, 3; 17, 27; 20, 19; 21, 23; 23, 9; 30, 32, ecc.
16 Sentenze sulla funzione del testimone: Prov 14, 5. 25; 17, 23; 18, 5; 19, 5. 28; 21, 28; 24, 28; 25, 18.
17 Cinque sentenze parlano di beni acquistati affrettatamente: Prov 13, 11; 19, 2; 21, 5; 28, 20.22.
18 La nozione di « prudente », « modesto », « moderato * si trova anche in Eccli 16, 25; 35, 3
(34, 22) e soprattutto in Mi 6, 8; cfr. H. J. Stoebe, Und demiitig sein vor deinem Goti, Wort und
Dienst, in « Jahrbuch der Theol. Schule Bethel » 6, 1959. 180 ss.
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 85

Non vantarti di fronte al re,


e non prendere il posto dei grandi!
È meglio che ti si dica: Sali quassù!
piuttosto che tu venga umiliato di fronte ad un notabile! (Prov 25, 6 s.)
È come prendere per le orecchie un cane che passa,
l'immischiarsi in una disputa in cui non si ha a che fare! (Prov 26, 17)
L’uomo paziente resiste fino alla sua ora,
ma alla fine la sua gioia esplode. (Eccli 1, 23)
Se vuoi farti un amico, comincia col metterlo alla prova,
e non aver fretta di confidare in lui. (Eccli 6, 7)
È frequente l'avvertimento contro l'orgoglio in tutte le sue forme.
Questo atteggiamento potrà sembrare poco « eroico » a chi è stato edu­
cato secondo altri criteri m orali19. Esso è tuttavia proprio a tutta l'an­
tichità. Bisogna rimanere vigilanti o agili per poter riuscire sempre.
Nella testardaggine e nell'arroganza si nascondono i più grandi pericoli
che l'uomo si prepara.
Il saggio non si vergogna di imparare da altri né di «riconoscere il proprio
errore. Non è la sapienza, ma la stoltezza che si ostina. Osserva gli alberi.
Sposando i movimenti della tempesta essi conservano i loro più teneri rami;
ma se s'impennano contro il vento, eccoli strappati con le loro radici.
(Sofocle, Antigone, vv. 710-715)

Modello di questa formazione umana — nettamente influenzata dal­


le dottrine egizie — è l'uomo « paziente », di « sangue freddo », che ha
« nel suo cuore la moderazione ». È l'antitesi di chi ha « l'animo pron­
to », che « si accende », del bollente che si lascia trascinare dai suoi
impulsi e dalle sue passioni e si lascia dettare da esso la regola di vita20.
Chi è pronto alla collera commette scempiaggini,
ma l’uomo di riflessione è nobile. (Prov 14, 17)
Chi è lento alla collera è ricco di intelligenza,
ma chi è pronto ad adirarsi proclama la sua follia.
Un cuore calmo è la vita del corpo,
ma rinvidia è la carie delle ossa. (Prov 14, 29 s.)
Un uomo violento provoca le contese,
ma chi è lento alla collera placa le dispute. (Prov 15, 18)
Chi modera le parole è dotato di conoscenza,
l’uomo di sangue freddo è un uomo intelligente. (Prov 17, 27)
Non frequentare l’uomo iracondo,
non andare con la testa calda. (Prov 22, 24)
Un uomo collerico suscita contese,
un impetuoso commette molti peccati. (Prov 29, 22)
Possiamo dunque trarre questo risultato delle considerazioni fatte fi­
nora: i maestri parlano delle loro esperienze e delle loro regole nel
19 Prov 11, 2; 13, 10; 16, 5.18; 21, 24; 29, 23. È da qui che bisogna partire per comprendere l'or­
rore per il « ciarlone » e per il « millantatore », cfr. p. 67, nota 6. Vedi anche il monologo del-
1*« empio » quando prende coscienza del suo stato: « A che cosa ci è servito il nostro orgoglio?
che cosa ci sono valsi ricchezza e vanto? Tutto ciò è passato come un'ombra... » (Sap 5, 8 ss.).
20 H. Brunner, Altdgyptische Erziehung (1957), 4 s. 120, 122.
86 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

quadro di una vita che, tanto dal punto di vista dell'ordine sociale
quanto di quello della scala dei valori e dei criteri utilizzati, è da molto
tempo giunta alla stabilità delle forme e delle idee. Essi non si preoc­
cupano di modificare queste idee fissate in precedenza o di sostituirle
con idee migliori. Abbiamo già avuto l'impressione di una curiosa as­
senza di principi — almeno per il nostro modo di pensare — che ca­
ratterizza le esortazioni e le regole di condotta. Non incontriamo alcuna
discussione sul bene e sul male e se si volesse cercare una comune nor­
ma fondamentale a cui possibilmente ricondurre le numerose regole di
comportamento, non si raggiungerebbe alcun risultato soddisfacente.
Bisogna subito abbandonare l'illusione, dato il mondo spirituale in cui
Israele ha vissuto e pensato, che questa norma possa consistere in
un'idea filosofica prestabilita. Ma questa norma avrebbe potuto iden­
tificarsi con una determinata istituzione dell'A.T. — diciamo ad esem­
pio — il decalogo! I maestri sono forse partiti, nelle loro regole di con­
dotta, dal decalogo e dai suoi comandamenti, applicando ciò che vi è
proibito e ciò che vi è comandato in maniera generale alle svariate si­
tuazioni della vita? L'hanno — se così si può dire — cambiato in mo­
neta spicciola?21. Si può rispondere recisamente in modo negativo a
questa domanda. Il fatto che l'adulterio, il furto e la calunnia sono
considerati come riprovevoli sotto ogni aspetto non ha il valore di una
prova, poiché erano visti in questo modo dappertutto nell'A.T. e molto
al di là del suo ambiente. Inoltre, le azioni da cui i maestri mettono in
guardia sono sólo eccezionalmente qualificate come « peccati » di fronte
a Dio. La parola designante un'azione sbagliata che appare in primo
piano nelle parti più antiche del libro dei Proverbi è pe$<£ che non deve
in ogni caso essere tradotta con « peccato », perché, in una forma o
nell'altra, designa sempre un crimine contro altri esseri umani22. È
significativo come in nessuno dei passi dei Proverbi — ve ne sono do­
dici — questo « crimine » sia considerato come un peccato dell'uomo
contro Dio, ma sia invece concepito come uno scacco nei rapporti tra
uomo e uomo23. No, il decalogo non può essere considerato come la
« norma morale » da cui sono partiti i maestri per formulare le loro
sentenze. Ma allora, da dove sono partiti?

Vi è ancora un cammino relativamente sicuro per giungere a preci­


sare meglio le norme dalle quali, stando al parere dei maestri, il com­
portamento umano doveva essere determinato. Ci porta alle motiva­
21 H. Lamparter ha ordinato la sua esegesi secondo quest’idea direttrice: Das Buch der Weisheit
(1959), 165. 201 ss. Si era cosi certi non molto tempo fa che nell'insegnamento sapienziale « l'appli­
cazione delle prescrizioni morali contenute nella Legge come dottrina oggettiva veniva fatta ... alla
vita soggettiva dell'uomo » che l ’esegesi poteva partire da questo punto; cfr. O. Zòckler, Die
Spriiche Salomos (1867), 1 (!). Nelle sentenze più antiche, si parla a volte di custodire o di abban­
donare la torà (Prov 28,4.7.9; 29,18). Questa parola, che bisogna tradurre con «insegnamento»,
significa ovunque nei Proverbi, anche nei testi recenti (Prov 6, 20. 23; 31, 26), l'insegnamento dei
saggi e non la «legge». Particolari in J. Fichtner, op. cit., 82 ss.
22 H. W. Wolff, Dodekapropheton, in BK 14/2 (Amos, 1969), 185 s.; R. Knierim, Die Hauptbegriffe
fiir Siinde im Alten Testament (1965), 177 ss.
« Prov 10, 12.19; 12, 13; 17, 9. 19; 19, 11; 28, 2.13.24; 29, 6.16.22.
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 87

zioni che vengono quasi regolarmente date nelle parole di avvertimento


e di esortazione della sapienza. Per provocare migliori disposizioni ad
obbedire, i maestri non solo hanno esortato, ma hanno anche corredato
le loro esortazioni con motivazioni molto chiare. Com'è da prevedersi,
esse hanno una grande diversità di forme. Poiché ai maestri premeva
rendere il loro insegnamento plausibile caso per caso, non è sorpren­
dente che essi abbiano presentato argomenti di diverso tipo.
Le sentenze esortative che si rivolgono all’allievo in forma impera­
tiva sono in numero molto ristretto rispetto alle sentenze dichiarative
nelle collezioni più antiche di proverbi, il che è sorprendente. Le tro­
viamo ammucchiate — altrove esse sono isolate — nelle due collezioni
Prov 22,17-24,34 e 25-27. Ci interesseremo in modo particolare
delle motivazioni legate a parecchie di queste esortazioni24.
Non frequentare l'uomo iracondo...
«affinché non ti abitui alle sue vie,
e non prepari un laccio per la tua vita ». (Prov 22, 24 s.)
Non essere di quelli che prendono impegni finanziari...
«Se non hai di che pagare,
ti porteranno via il letto sotto di te». (Prov 22, 26 s.)
Non essere tra i bevitori di vino...
« Poiché l'ubriacone e chi si abbandona agli eccessi impoveriscono,
e la sonnolenza si riveste di stracci ». (Prov 23, 20 s.)
Non tendere insidie al giusto...
« Poiché sette volte il giusto cade e si rialza,
ma i cattivi sono precipitati nella disgrazia ». (Prov 24, 15 s.)
Non affrettarti a riferire tutto quello che hai visto,
« perché alla fine non ti trovi senza saper cosa fare,
quando il tuo vicino ti avrà ingiuriato». (Prov 25, 8)
Metti raramente piede nella casa del tuo prossimo,
«perché non si stanchi di te e ti detesti ». (Prov 25f 17)
Non vantarti per il domani,
« perché non sai quel che può portarti una giornata ». (rov 27, 1)
Cura bene i tuoi greggi...
« Perché i beni non durano sempre,
né la ricchezza di generazione in generazione ». (Prov 27, 23 s.)

Se si passa in rassegna questi esempi, si vede subito che le motiva­


zioni presentate e che ci occupano qui sono lungi dall'essere le sole pos­
sibili. È certo che le esortazioni avrebbero potuto essere fondate su al­
tri motivi e rimanere altrettanto efficaci. Ciò significa quindi che esse
non esprimono un qualche principio, ma accompagnano le raccomanda­
zioni con un’intenzione pratica e pedagogica. Si constata inoltre che,
ogni volta, vengono avanzati argomenti di genere del tutto differente.
Qui si argomenterà sottolineando l'insicurezza, la fragilità dei rapporti
umani (Prov 22, 27; 27, 1), là si insisterà sulle conseguenze sgradevoli
24 Lo stesso genere di motivazioni interpretative è aggiunto agli enunciati giuridici; cfr. B. Gemser.
The Importance of the Moth? Clause in Old Testament Law, in VTSuppl 1, 1953, 50 ss.
88 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I

che possono sopravvenire (Prov 23, 21; 27, 24), ecc. Non è necessario
entrare nei particolari. Il denominatore comune di queste motivazioni
è che si fondano sull'esperienza: non far del male alla tua carne per
inavvertenza e per ignoranza! « L'uomo buono fa del bene a se stesso e
l'uomo crudele tormenta la propria carne» (Prov 11, 17). Abbiamo
dunque a che fare con regole di condotta tratte da ciò che l'uomo può
sperimentare da se stesso. L'allievo non ha bisogno di grandi sforzi
per essere illuminato da queste motivazioni. Se abbiamo parlato di
esperienze, si tratta qui di esperienze di alcuni ordinamenti, di alcune
leggi la cui evidenza ha convinto gli uomini nel corso di successive
generazioni. Il comportamento umano non è quindi regolato in questo
caso da norme morali, ma dall'esperienza di un insieme di leggi natu­
rali quanto mai immanenti.
A questo punto il lettore stenterà a soffocare una domanda: Il com­
portamento umano corretto si lascia dirigere solo dall'esperienza e,
almeno in un popolo dell'antichità, non bisogna forse tener conto di
un'ampia fondazione religiosa dei suoi principi etici? E le premesse
di questo fatto non erano forse fin dall'inizio ampiamente riunite nel­
l'antico Israele? In altri termini: il modo di comportarsi, come è inse­
gnato nelle sentenze del libro dei Proverbi, non è forse « teonomo » e
in che senso lo è?
Le motivazioni che prima abbiamo raccolto non sono effettivamente
le sole. Ne esistono altre che ci rinviano a Jahve, al suo giudizio e al
suo regno:
Non spogliare i poveri...
« Perché Jahve difenderà la loro causa
e toglierà la vita a coloro che li spogliano ». (Prov 22, 23)
Non spostare il confine della vedova...
« Perché il suo vendicatore è potente,
egli difenderà la sua causa contro di te ». (Prov 23, 11)
Libera quelli che vengono portaiti a morte...
Se dici. Ah! Noi non sapevamo!,
« Chi pesa i cuori non lo vede?
Chi veglia sulla tua anima non lo conosce?
E non rende forse a ciascuno secondo le sue opere?». (Prov 14,11 s.)
Non rallegrarti per la caduta del tuo nemico...
« Affinché Jahve non lo veda e gli dispiaccia,
e distolga la sua collera da lui (su di te) ». (Prov 24,17 s.)
Figlio mio, temi Jahve e il re...
« Perché improvvisamente viene da essi la sventura,
in maniera imprevista il castigo che essi infliggono ». (Prov 24, 22)
Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare...
« Perché son carboni ardenti che tu accumuli sul suo capo,
e Jahve ti -ricompenserà ». (Prov 25, 21 s.)

Qui finalmente il lettore moderno crede di avere trovato ciò che


cercava da tempo, poiché si parla di Dio non solo come fondatore
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 89

del diritto e dell’ordine, ma anche come colui che veglia su quest’or­


dine e al quale l’uomo deve sentirsi legato nel suo comportamento.
Ma questa serie di motivazioni teologiche sarebbe forse sufficiente a
risolvere la questione del modo di vita di Israele, cioè che si tratta di
un genere di vita nettamente governato dalle leggi di Dio, nettamente
« teonomo »? Non sarebbe meglio ammettere che il risultato della no­
stra inchiesta resta molto al di qua di quel che ci attendevamo? È sor­
prendente che Israele, che era d’altronde così strettamente legato a
Jahve, si lasci superare a questo proposito dal greco Esiodo, poiché
nell’esposizione da lui fatta della sapienza popolare della Grecia antica
nelle Opere e i Giorni, l’aspetto religioso è incontestabilmente più netto
e più preciso. Il riferimento a Zeus, l’autore e il custode del diritto
secondo cui ogni uomo deve regolare il proprio comportamento, è qui
interamente aperto al senso della pietà25. Riconosciamo dunque che
I’« ethos » del libro dei Proverbi manca totalmente di questa coerenza
religiosa. Un indice, e non il solo, di ciò è il fatto che a fianco di allu­
sioni espressamente religiose a Dio e alla sua volontà giusta, si trovano
esortazioni che non si possono giustificare se non ricorrendo a regole
che funzionano in modo neutro. E queste ultime sono la maggioranza!
Supporre che esistano due fondamenti etici di natura totalmente di­
versa che si mescolano tra di loro, un sistema di regole immanenti o
un sistema direttamente teonomo, non è affatto verosimile. Ma perché
allora questa duplice categoria di motivazioni e fino a che punto si
tratta di una sola norma?
Ponendo questo problema, ci ritroviamo di fronte alla stessa dialet­
tica che abbiamo già incontrato parlando della presenza di Jahve e del­
l'autonomia delle regole che governano la realtà interna del mondo26.
Anche qui, cioè nel problema della norma delle sue azioni, Israele si
trova di fronte a una specie di « mondo intermedio » che per le leggi
che gli sono proprie non può essere identificato interamente con le ma­
nifestazioni di Jahve; non esitava però a lasciarsi imporre come criterio
del suo comportamento gli ordinamenti che vi poteva incontrare. La
convinzione dei saggi era che Jahve ha delegato alla creazione una tale
dose di verità e che egli stesso è così pienamente presente in essa, che
l’uomo è posto su un terreno morale solido se impara a decifrare que­
sti ordinamenti e a conformare il suo atteggiamento alle esperienze
acquisite. Quanto a noi che veniamo ora ad abbozzare le idee degli an-

25 Ploger nota giustamente che, in Esiodo, il comandamento divino e l ’insegnamento umano sono
molto più vicini di quanto avvenga nelle esortazioni della sapienza dell'A .T., in « Festschrift Hertz-
berg » 1965, 166. Egli cerca la ragione di questo fatto sorprendente — a torto, secondo me — nel­
l'evoluzione storica della sapienza dell'A.T., cioè nella mancanza di penetrazione della fede in
Jahve all’intemo della sapienza antica. La causa non potrebbe essere il contrario? Non si può pen­
sare che, nella traduzione in greco (LXX), l’accento si sia spostato spesso su una moralità e una
religiosità estranee ad Israele? La prospettiva è incontestabilmente diventata più religiosa, ma anche
più razionale rispetto al testo originale. Sulla traduzione dei Proverbi nei LXX, vedi soprattutto
G. Gerleman, The Septuagint Proverbs as a Hellenistic Document, in OTS 8, 1950, 15 ss.; come pure,
Studies in the Septuagint: I I I Proverbs, in « Lunds Universitets Arsskrift » 52/3, 1956, e recente­
mente W. McKane, Proverbs (1970), 3347.
“ Vedi sopra, pp. 62 ss.
90 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

tichi, dobbiamo precisare che ci è permesso di usare la nozione di


« esperienza » solo nel senso che essa aveva per Israele. Insegnando la
conoscenza di determinate regole, di un ordine, l'esperienza insegnava
le verità supreme, le verità riguardanti Dio. Per questo la nozione a
volte utilizzata di « autonomia », di « leggi proprie », non può essere
impiegata che in un senso ristretto. In fin dei conti era sempre Jahve in
persona che luomo vedeva di fronte a sé; in lui la mediazione del­
l'avvenimento in apparenza neutro scompariva. È assai sorprendente
che quest'ordine che regolava la vita umana non sia mai stato ogget-
tivato e non sia mai diventato l'oggetto di una definizione teorica. Di
regola, i maestri fanno menzione della sua esistenza solo nell'ambito
casistico, quando si tratta praticamente di portare l'uomo a prendere
una decisione. Solo in poche occasioni le sentenze si innalzano al di
sopra della casistica e passano al piano teologico delluniversale. Diamo
alcuni esempi per la riflessione del lettore e per non attribuire in fin
dei conti alle sentenze che parlano esplicitamente di Jahve un'impor­
tanza maggiore. È fuor di dubbio che esse in definitiva non hanno peso
maggiore di quello che fanno allusione a regole che agiscono nell'im­
manenza, ma esse sfuggono al sospetto che pesa sulle esortazioni di­
dattiche, d'insegnare cioè un « ethos » teonomo ancorché di un genere
particolarmente distanziato e dialettico.
Gli occhi di Jahve sono in ogni luogo,
e sorvegliano cattivi e buoni. (Prov 15, 3)
Soggiorno dei morti e abisso sono aperti davanti a Jahve;
quanto più il cuore dei figli deiruomo! (Prov 15, 11)
Tutte le vie deiruomo sono pure ai propri occhi;
ma chi pesa gli spiriti è Jahve. (Prov 16, 2)

Non sono raccomandazioni, avvertimenti o rimproveri in senso for­


male; ma, per definire il modo di vedere della sapienza delle sentenze,
occorre allargare il cerchio e includervi il materiale proveniente dalle
sentenze dichiarative. Si vedrà che, secondo i detti dei maestri, l'uomo è
sempre ed ovunque in una relazione di « partner » con Jahve, relazione
generalmente nascosta, ma a volte anche espressa direttamente e fon­
damentalmente. Da dove vengono i giudizi severi contro gli uomini
che disprezzano i loro genitori?27. Senza dubbio dall'esperienza che essi
sono sotto l'interdetto provocato dalla loro cattiva azione, ma anche
dalla conoscenza del diritto come Jahve lo vuole. Avviene la stessa
cosa per il vivo interesse manifestato nei confronti dei poveri e che si
incontra di frequente nella sapienza28. Si parla a volte del « creatore »
dei poveri29. Da dove viene la consapevolezza che Jahve scruta i cuori?30.

27 Prov 1, 8 s.; 19. 26; 20, 20; 30, 17.


» Prov 14, 21; 19, 17; 22, 9; 28, 3. 27a; 29, 7; 31, 9; Giob 24, 4; 29, 12-16; 31, 16. 19 s.; Eccli 4, 1-
10; 7, 32; 29, 9.
» Prov 14, 31; 17, 5; 22, 2.
» Prov 16, 2; 17, 3; 21, 2.
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 91

Ma sia che i saggi offrano stimoli per la buona condotta sia che cer­
chino di impedire il male, caratteristico è che si rivolgono sempre alla
riflessione delluomo, a una maniera migliore di considerare le cose,
per interpellarle attraverso questa riflessione. Si tratta di fare proprio
il diritto, ciò che è giusto, tramite la comprensione. Vi sono molte cose
da imparare e da capire, anche nel campo morale!
Chi ama la correzione ama la scienza;
ma chi odia il rimprovero è stupido. (Prov 12, 1)
I saggi accumulano la conoscenza. (Prov 10, 14)
I pensieri del giusto sono orientati verso il diritto. (Prov 12, 5)
Questa comprensione non balza immediatamente allo sguardo, essa
può essere il frutto di un lungo cammino della conoscenza. Si deve
conoscere la regola che governa il rapporto tra la condotta e la rimu­
nerazione. Bisogna affinare la propria sensibilità per cogliere il lin­
guaggio che si può percepire negli avvenimenti.

Studiando le sentenze dei saggi non abbiamo una risposta chiara


alla domanda che riguarda la maniera con cui il comportamento
umano deve essere determinato. In ogni caso non si può giungere a
designare una sentenza, un poema didattico e un principio in cui si
potrebbe trovare un programma, un'indicazione sul fondamento e il
fine della condotta umana. Questa assenza di direttive in cui la quin­
tessenza dell'etica d'Israele si troverebbe brevemente formulata, po­
trà sorprenderci, ma è precisamente una caratteristica di quest'inse­
gnamento. Di fronte ad ogni ricerca sui principi etici, non si deve forse
semplicemente parlare di una certa assenza di principi e in ogni caso
di una notevole mobilità di aspetti, di argomenti, ecc? La disinvoltura
con cui si traevano motivazioni, ora di qui ora di là, per meglio illu­
strare tale o tal'altra esortazione non era già l'indice che quest'inse­
gnamento poco si fondava su dei principi? Ma allora da dove partiva?
Innanzitutto abbiamo a che fare col significato primario attribuito al­
l'esperienza: se una determinata affermazione aveva la sua origine nel­
l'esperienza dei padri, essa poteva subito aspirare ad un valore norma­
tivo 3l. Dietro alla diffidenza che si prova nei confronti delle forti pas­
sioni e di ogni comportamento precipitoso, e che ha preso forma nel­
l'invenzione di alcuni tipi, come l'uomo di sangue freddo, vi sono na­
turalmente delle esperienze. La benedizione che viene dalla bontà è
stata essa pure ampiamente e profondamente sperimentata: abbiamo
visto che la bontà della condotta si univa ai beni dell'uomo e della
prosperità; e finalmente, tutte queste esperienze sono state legate ai
dati preliminari di un ordine sociale determinato e molto stabile. Esse
pure sono annoverate tra i precetti didattici. Ma, all'interno di questi
insegnamenti in vista di una condotta giusta, intervengono anche espe-
* Vedi in seguito pp. 174 ss.
92 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I

rienze che si son fatte immediatamente con Jahve — egli si manifesta


come l'aiuto di quelli che sono senza difesa e « compie » in modo
molto personale con la sua benedizione la buona azione fatta da un
uom o32. Bisogna che ricordiamo una volta ancora la concezione molto
particolare della realtà in costante movimento intorno all'uomo. Do­
vremmo completare quest'idea dicendo che questi movimenti permet­
tono di conoscere anche regole per le quali luomo può decifrare le
norme del suo comportamento. In questi movimenti della realtà, Jahve
era all'opera, mettendo ordine e g u id a n d o S i poteva descrivere que­
sta realtà in maniera neutra, come un insieme di regole che contene­
vano una chiamata rivolta all'uomo, ma si poteva anche parlare di chi
si trovava dietro questi movimenti e questa chiamata. Nel quadro men­
tale in cui queste regole di comportamento si presentano così razio­
nali, così « terra terra », il modo diretto di parlare di Jahve e soprat­
tutto la facilità con cui queste sentenze si allineano con le altre sen­
tenze hanno qualcosa di sorprendente per il lettore moderno. L'uomo
è sempre interamente nel mondo e ha sempre a che fare direttamente
con Jahve. Non vi è qui lo spazio per pensare a ima rivelazione che,
portata da una specie di foga profetica, non intenderebbe richiedere
l'accordo dell'uomo. Anzi, la comprensione dell'evidenza di queste re­
gole e della loro utilità si afferma lentamente nell'uomo. L'ethos della
sapienza presente nelle sentenze parte da un sapere che è interamente
accessibile alluomo. Secondo l'insegnamento dei saggi, la vera ma­
niera di comportarsi è un fatto di giusta intelligenza; ma è anche un
problema di fiducia34. Questa fiducia — bisogna dire: in queste regole
o in Jahve? — è senza incrinatura nelle sentenze. Dietro l'esortazione
così grave di non fare rappresaglie per il male subito (Prov 20, 22),
di non fare affidamento su se stessi in presenza del malvagio (Prov 24,
29), non vi è un principio morale superiore — almeno come noi lo
penseremmo — ma qualcosa d'altro, la fiducia in un ordine superior­
mente guidato da Jahve, il richiamo al bene come potenza favorevole
alla vita. Questo lo sappiamo; e si potrebbe forse dire, a nostra sor­
presa : « L'intelligenza d'un uomo lo rende paziente » (Prov 19, 11)35.

In appendice, conviene almeno porre una questione che non è sug­


gerita direttamente dalla letteratura didattica, ma che comunque si
presenta al lettore della Bibbia. Se i maestri hanno considerato il bene
come qualcosa di luminoso in sé, il narratore della rivelazione divina
al Sinai e della proclamazione dei dieci comandamenti (Es 19 s.) ha
dovuto pensare ben diversamente a questo proposito. Descrive infatti

32 Prov 22,23; 23,11; 25,22. Sulla «retribuzione», cfr. pp. 125 ss.
33 Più diffusamente circa il rapporto tra la condotta e la rimunerazione, pp. 121 ss.
34 Esposizione più particolareggiata, pp. 125 ss.
M Sull’atto di « coprire gli sbagli » (Prov 10, 12; 17, 9; 19, 11) come forma specifica della sa­
pienza, vedi R. Knierim, Die Hauptbegriffe fiir Siinde im Alten Testament (1965), 119 ss. Coprire
uno sbaglio significa tacerlo, distoglierne gli occhi, ripararlo forse. Sotto il tema: « Cause ed effetti »,
riprenderemo lo studio di quest'insieme di immagini, cfr. pp. 125 ss.
V. SIGNIFICATO DELLE REGOLE PER UN COMPORTAMENTO GIUSTO 93

un avvenimento che ha terrificato Israele. Ciò che è luminoso in sé,


come può essere terrificante? Le cose si complicano per il fatto che i
risultati di un'analisi della pericope del Sinai con i metodi della storia
delle tradizioni mostrano con sufficiente chiarezza che la proclamazione
del decalogo è stata collegata secondariamente alla manifestazione si­
naitica di Jahve36. (Anche il dodecalogo detto « sichemita » — Deut 27,
15 ss. — forse più antico del nostro decalogo, non è presentato come
parola di Dio). È pur sempre vero che, nella descrizione attuale, il ter­
rore si estende anche alla comunicazione dei comandamenti (Es 20,
18-21). Se Jahve in persona appare a proclamarli (direttamente con la
sua parola) suscitando il terrore d'Israele, significa che essi sono rite­
nuti come qualcosa di completamente nuovo. Ciò suggerisce l'ipotesi
che dietro a questo inserimento del decalogo in un contesto così spet­
tacolare si erge un'interpretazione nuova, l'inizio di un profetismo dal
carattere più esigente e di tendenza più teologica. Si considerano or­
mai i comandamenti come un appello diretto di Jahve ad Israele, e di
conseguenza come un avvenimento da temere.

30 E. Gerstenberger, op. cit., 93 e altre.

7. von rad. la sapienza in israelc


VI
LIMITI DELLA SAPIENZA

Vi è ancora una direzione in cui possiamo estendere la nostra ri­


cerca sulla sostanza costitutiva del pensiero dei saggi. Nel corso delle
note che precedono e nei testi citati, abbiamo avuto occasione di ri­
flettere su alcuni limiti che lo sforzo di conoscenza dei saggi, le loro
esortazioni alla padronanza di vita, il loro insegnamento per una buona
condotta avevano incontrato. È utile fermarsi ancora un po’ su questo
tema perché sembra che non vi sia miglior luogo per ben capire tutto
l'apparato di quest’insegnamento che le sentenze in cui i saggi parlano
dei limiti contro cui ha urtato la loro sapienza. In queste situazioni
limite, infatti, la sapienza diviene comunicativa in un modo particolare
e interessante.
È molto importante vedere chiaramente l’orizzonte intellettuale a
partire dal quale bisogna capire ciò che è detto dei limiti. Si può par­
lare dei limiti imposti all’uomo sotto molti punti di vista. Lo scettici­
smo può farne argomento di riflessione e, in senso contrario, uno spi­
rito religioso sprovvisto di senso critico può evocare a propria conso­
lazione questa coscienza dei limiti di fronte a certe prove e a certe
difficoltà del pensiero. Qual è il luogo specifico del discorso sui limiti
imposti all’uomo nei più antichi maestri di sapienza?
Abbiamo già visto una volta come all’epoca degli inizi della monar­
chia — senza dubbio in seguito ad influenze delle civiltà circostanti —
vi sia stato un certo movimento di emancipazione intellettuale che si
è manifestato come un nuovo modo di concepire il mondo e l’uomo e
con una produzione letteraria molto abbondante che ha superato il qua­
dro del genere puramente didattico '. Si può osservare, almeno in alcuni
ambienti, la nascita di un nuovo senso critico che è sfociato — forse
soltanto in uno strato intellettuale superiore — in una profonda revi­
sione delle idee ricevute. Se prendiamo la parola « razionalismo » (in
tedesco Aufklàrung) nel senso della ben nota definizione di Kant come
1 Vedi pp. 61 ss.
VI. L IM IT I DELLA SAPIENZA 95

l'uscire dallo stato di minorità, sarà lecito pensare che lo stato di


maggiore età a cui l'uomo accede, anche in Israele è consistito innanzi­
tutto nell'affrontare criticamente il mondo dell'esperienza e le sue leggi
proprie. Il pensiero è entrato in una forma nuova di responsabilità. È
chiaro che anche la fede in Jahve la quale viveva così intensamente
l'esperienza di una presenza immediata di Dio, ha dovuto esprimersi
in modo nuovo di fronte a questo nuovo senso critico. La realtà ha do­
vuto liberarsi dalla tutela rassicurante dell'ordine sacro patriarcale: è
stata immersa profondamente nel mondo, è stata vista come una realtà
interamente di questo mondo. Può sembrare che questo processo di de­
sacralizzazione, questa riduzione del mondo alla sua natura di mondo,
sia stato accolto con un eccessivo entusiasmo dalla teologia contempo­
ranea perché talora si è creduto vedervi una specie d'appoggio biblico
a favore di alcune moderne parole d'ordine. Ma ciò che si è verificato
a quest'epoca in Israele corrisponde molto poco alle teorie moderne
poiché insieme con questa effettiva riduzione del mondo alla sua vera
natura era collegata un'idea altrettanto intransigente sulla guida degli
avvenimenti da parte di Dio e sulla sua penetrazione in tutti i campi
della creazione. A volte, non si è capito che il racconto storico della
successione al trono di Davide, che è d'un realismo così affascinante
(viene sempre citato a questo proposito come il documento più sor­
prendente di questa nuova mentalità), non è poi così accessibile come
sembra al lettore d'oggi, il quale potrebbe considerarlo come un pre­
cursore della scienza storica moderna per la sua perspicacia razionale
e per il suo pensiero in cui la causalità è l'elemento più logico. In real­
tà, con rare ma accurate allusioni alla mano di Jahve che guida la
storia, si presenta carico di una tensione teologica considerevole: esso
attualizza un brano di vera storia terrestre senza separarla minima­
mente dall'intervento divino. È in questo che risiede il suo specifico
contributo teologico.
Abbiamo così precisato la polarità nella quale si muovono gli inse­
gnamenti più antichi dei saggi. Anche le loro sentenze si trovano sotto
il segno della stessa tensione tra una mondanizzazione radicale e una
conoscenza della libertà d'azione illimitata di Dio. Da una parte si
vedeva la vita dell'uomo inserita in una serie di regole che possono
essere controllate; d'altra parte la si vedeva totalmente dipendente da
una presenza assolutamente personale di Dio. Si potrebbe supporre
che i saggi abbiano provato una certa fatica a mantenere nel loro inse­
gnamento questa tensione senza sbilanciarsi in un senso o nell'altro.
Ora, non vi è traccia di questa difficoltà. Con grande facilità essi si
dedicano allo studio del vasto campo di cose che si possono conoscere.
Con fiducia, essi traggono profitto da ciò che esperimentano e mettono
in opera tutti i mezzi didattici per permettere all'allievo di familiariz­
zarsi con l'evidenza della dottrina che gli viene esposta. Ma questa li­
bertà nell'uso delle esperienze, quest'autorità con cui danno forma alla
vita, non è il loro solo o il loro ultimo contributo. Arriva il momento
96 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

che i saggi sembrano togliersi la terra di sotto ai piedi parlando, come


spinti da un ardore contrario, dei limiti imposti alla sapienza e alla
padronanza della vita, ossia di occasioni in cui tutta l’abilità dell'uomo
è soppressa.
Tutte le vie dell’uomo sono pure ai propri oociti,
ma chi pesa gli spiriti è Jahve.
E Jahve che dirige i passi dell’uomo,
ma l’uomo può capire la propria via? (Prov 20, 24)
Queste due sentenze non parlano d’una esperienza o d’una evidenza,
ma di un fatto sconosciuto, di una cosa che sfugge al calcolo umano.
I maestri traggono quindi l’uomo fuori dalla sicurezza delle sue perce­
zioni e dei suoi giudizi di valore. Ciò che egli stima giusto può benis­
simo apparire sotto un’altra luce a Dio e il cammino che si propone
di seguire è stato determinato da Jahve. Non sopravvalutiamo quindi
le nostre possibilità di comprensione! Non vi sono qui affermazioni ge­
nerali di fede che i saggi oppongono alla sufficienza umana. No, dietro
questi avvertimenti vi erano nuovamente alcune esperienze che non si
dovevano tralasciare anche se andavano contro corrente. Non erano af­
fatto delle eccezioni marginali; non si trattava di rimbalzi isolati che
bisognava in una maniera o nell’altra superare. Questa cosa scono­
sciuta la si poteva incontrare in ogni tempo e dappertutto nella vita;
perciò questo gruppo di sentenze ha la sua importanza nel gioco degli
insegnamenti.
I progetti del cuore dipendono dald’uomo,
ma la risposta della bocca viene da Jahve. (Prov 16, 1)
In questo caso, il cuore e la bocca sono posti in notevole contrasto
come campi in cui l’opposizione tra l’uomo e Dio può essere percepita
in modo particolarmente chiaro. La parte dell’uomo sono — dice il
testo ebraico — « i preparativi del cuore », l’abbozzo dei progetti, le
incessanti previsioni. È il suo campo; ne è padrone. Ma i preparativi
del cuore non raggiungono ancora nulla. Ciò che è decisivo è la maniera
con cui l’uomo può esprimerli con la parola. Ed ecco il pensiero di
questa sentenza: il cammino che va dai progetti incessanti alla parola,
alla parola giusta, appropriata, pronunciata « al momento esatto » è
lungo; le situazioni più svariate, che sfuggono al potere dell’uomo, pos­
sono verificarsi nel frattempo. Ma precisamente in questo imprevedi­
bile, in ciò che non è calcolabile si trova Dio e, d’un tratto, senza che
ci siamo accorti di nulla, egli ci h a sottratto l’affare di mano. Allo
stesso modo si possono interpretare le tre sentenze che seguono:
II cuore dell’uomo medita la via da seguire,
ma è Jahve che dirige i suoi .passi. (Prov 16, 9)
Casa, ricchezze sono eredità dei padri,
ma da Jahve viene una moglie intelligente. (Prov 19, 14)
Nel cuore di un uomo vi sono molti progetti,
ma è 'la decisione di Jahve ohe si compie. (Prov 19, 21)
VI. LIM ITI DELLA SAPIENZA 97

Si tratta anche qui di limiti di cui luomo deve rimanere cosciente


quando vuole prendere in mano la direzione della propria vita. Ma non
è l’idea da sempre conosciuta e così sovente deplorata dell'angustia dei
limiti della vista umana. Sarebbe qualcosa di relativamente banale.
Si tratta non di ciò che l'uomo ignora e dovrebbe e potrebbe tuttavia
sapere, ma di qualcosa che non potrà mai sapere2. Una volta ancora
solo il fatto viene attestato mentre il suo senso per l'uomo resta inde­
terminato. Si potrebbe quasi supporre che i saggi han visto come van­
taggioso questo limite grazie al quale diventa evidente che Dio ha lul-
tima parola in tutti i progetti umani. Dio potrebbe prendere l'uomo
sotto la sua protezione, anche contro i suoi propri piani. Per gli anti­
chi, questo limite era percettibile in quel fattore interamente impreve­
dibile e pieno di mistero che sembrava introdursi tra i preparativi e
l'esecuzione dei progetti. È qui, pensavano i maestri, che si può spe­
rimentare la presenza del dito di Dio. Beninteso, frasi di questo tipo
non pretendono di essere un insegnamento esaustivo sul modo con cui
si distinguono teologicamente l'attività umana e quella di Dio (l'uomo
che progetta, Dio che dispone). Sono soltanto degli esempi di vita con
cui si può dimostrare in modo chiaro l'inserimento del mistero divino.
Dal progetto dell'uomo non parte alcun cammino prevedibile che con­
duca irrevocabilmente all'esecuzione. I beni ereditati hanno certa­
mente una qualche consistenza di cui si tiene conto nei progetti. Quan­
do si tratta di scegliere una sposa che sia la giusta, entrano in gioco
tanti elementi imponderabili, cosicché bisogna concludere che è Jahve
a donarla.
Non vi è né sapienza, né intelligenza, né consiglio di fronte a Jahve.
Il cavallo è equipaggiato per il giorno della battaglia,
ma la vittoria appartiene a Jahve. (Prov 21, 30 s.)

In questo proverbio sorprendente, la conoscenza del limite già intra­


vista nelle precedenti sentenze è formulata nella maniera più assoluta
e più accentuata. È sorprendente innanzitutto se si pensa che non è
assolutamente sua intenzione mettere l'uomo in guardia contro l'acqui­
sizione e l'uso della sapienza o di impedirgli d'« equipaggiare » il ca­
vallo prima della battaglia. Se fosse staccato dal contesto, si potrebbe
prenderlo come il risultato di un agnosticismo teologico estremo, ma
ciò vorrebbe dire misconoscerlo assolutamente. La sua intenzione è
piuttosto quella di mettere in guardia contro l'errore di credere che
ponendo in opera la sapienza e i preparativi umani si abbia una ga­
ranzia di successo. L'uomo deve sempre rimanere pronto all'intervento
di Dio che sfugge ad ogni calcolo, poiché tra il ricorso alla sapienza

2 Alludendo chiaramente a queste sentenze, Geremìa dice tra l'altro: « Lo so, Jahve, la via del­
l'uomo non è in suo potere; non sta all’uomo, quando cammina, dirigere i suoi passi » (Ger 10, 23).
Ugualmente il vecchio Tobit dice dei « sentieri » della vita: « La sapienza non è data ad ogni na­
zione, è il Signore che dona ogni bene » (Tob 4, 19). Ma si ha l'impressione che quel che era av­
vertito come un'antinomia nelle antiche sentenze è in Tobit l'espressione di una pietà affatto
semplice.
98 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I

più sperimentata e ciò che effettivamente si verifica, vi è sempre una


grande incognita. È forse questa una dottrina pericolosa? Ci doman­
diamo se non deve sempre esserci, a partire da quest’importante fat­
tore sconosciuto, un velo di rassegnazione che si stende su ogni cono­
scenza e su ogni azione umana. Questa domanda ha una risposta sol­
tanto nel grado di fiducia che l’uomo è capace di mettere in questo
intervento di Dio che trascende ogni progetto. La duplice sentenza di
Prov 31, 30 s. può avere un effetto corroborante, ma in altre condizioni
religiose potrebbe anche avere un effetto deprimente. In quest’ultimo
senso l'Ecclesiaste parlerà più tardi a suo modo di questa conoscen­
za3. Nel contesto attuale, la constatazione dei limiti di ogni progetto
umano non ha certo nulla di deprimente, ha piuttosto un carattere libe­
rante: « È dal Signore che viene la vittoria! ». Non è quindi una posi­
zione isolata, ma va considerata come una delle idee più profonde a
cui sono giunti quei maestri: è veramente saggio solo chi non pensa di
esserlo. Considerarsi saggio è un segno sicuro di stoltezza.
Vedi un uomo che si crede saggio?
C’è più speranza per uno «tolto ohe per lui! (Prov 26, 12)
Non vantarti per il domani,
tu non sai quel che un giorno può portarti! (Prov 27, 1)
L’uomo ricco si crede saggio,
ma il povero intelligente lo scruta a fondo. (Prov 28, 11)
Chi ha fiducia nel proprio cuore è uno stolto,
ma colui che cammina nella sapienza sarà salvato. (Prov 28, 26)
Confida in Jahve con tutto il cuore,
e non appoggiarti sulla tua saggezza! (Prov 3, 5)
Non considerarti un saggio!
Temi Jahve e allontanati dai male. (Prov 3, 7)

Nessuno ha apprezzato tanto l’acquisizione della sapienza e del sen­


so della realtà come i maestri di sapienza; ma essi sapevano anche che
ogni qual volta essa rende l’uomo sicuro di sé e lo spinge a gloriarsi,
è già scomparsa.
Nessuna ragione è stata data per sostenere la convinzione che un
uomo che si crede saggio tradisce un atteggiamento interiore quasi
disperato. Come ciò capita sovente, viene stabilita una regola senza
enunciarne la ragione teologica profonda. È forse la preponderanza di
ciò che sfugge al sapere che doveva impressionare proprio il saggio?
Ma la soluzione dev’essere cercata in un’altra direzione. Si incontra
continuamente in Israele una certa indignazione contro ogni forma di
falsa sicurezza e contro ogni vanteria per le quali l’uomo troppo pro­
fondamente dimentica la propria condizione. Avviene così che prima
di una battaglia Jahve prende delle misure affinché Israele non ne
« tragga vanto » (Giud 7, 2). In Deut 9, 1-6, si trova un’allocuzione
completa che precede il combattimento e che avverte Israele a non ri­

3 Vedi oltre, pp. 205 ss.


VI. LIM ITI DELLA SAPIENZA 99

durre gli interventi di Jahve a ricompense dovute alla giustizia e alla


rettitudine del popolo. La scure può forse gloriarsi di fronte a chi la
brandisce? (Is 10, 15). Non è quindi la limitazione quantitativa delle
capacità umane che impedisce la sicurézza e la millanteria; è piuttosto
qualcosa che può avere soltanto un fondamento teologico: la glorifica­
zione di sé è inconciliabile con la fiducia in Jahve. Anche la padronanza
della vita predicata dalla sapienza doveva approdare inevitabilmente a
questa alternativa. Così, in questo caso ugualmente, l'insegnamento dei
saggi si radica nelle convinzioni fondamentali più solide della fede in
Jahve. L'ultima cosa che si potrebbe rimproverare a questi insegna-
menti sarebbe il disprezzo della sapienza; ma il confine è tracciato con
una nettezza sorprendente: essa non può mai diventare l'oggetto della
fiducia su cui si appoggia l'uomo durante la vita.
Non si vanti il saggio della sua sapienza,
il forte non si glori della sua forza,
non si vanti il ricco della sua ricchezzal
Ma chi vuole gloriarsi si vanti
di avere intelligenza e di conoscermi,
di sapere che io sono Jahve che fa grazia
ed esercita il diritto e la giustizia sulla terra,
poiché è in questo che io mi compiaccio. (Ger 9,23 s.)

In quest'oracolo probabilmente autentico di Geremia, il profeta si


erge contro tutto ciò su cui la vanità umana ha l’abitudine di appog­
giarsi. Se vi è qualche ragione per vantarsi, il solo motivo potrebbe
essere la conoscenza di Dio. Non si può dire che questo avvertimento
si diriga contro lo sforzo di conoscenza messo in opera dai maestri di
sapienza, le cui idee ci sono presentate nelle sentenze del libro dei Pro­
verbi. Anzi, Geremia ha molto giustamente interpretato le idee più
profonde dei maestri e ha conferito loro l’espressione più lapidaria e
più maestosa.
Quasi per avere una spiegazione narrativa della sentenza che dichiara
inconsistente ogni sapienza di fronte a Jahve (Prov 21, 30), si può leg­
gere il racconto del consiglio di guerra di Assalonne nel quale Jahve
ha « infranto » in maniera drammatica il consiglio del saggio Achito-
phel (2 Sam 17, 14)4. Quando lo si interrogava, era come « se si fosse
consultato Dio stesso ». Achitophel era consigliere di Davide, ma si
era tuttavia unito alla rivolta contro di lui. E Davide sapeva che il suo
consiglio era irrecusabile; perciò la sua situazione era disperata. Con­
tro questa superiorità gli uomini erano disarmati; per cui Davide si è
rivolto a Jahve, chiedendogli di rendere folli « i consigli di Achitophel »
(2 Sam 15, 31). Jahve ha esaudito la preghiera del suo unto, ma non ha
lasciato che il saggio si ingannasse — il che avrebbe potuto benissimo
verificarsi. Il consiglio di Achitophel è stato giusto, il solo giusto come
sempre; ma, in una specie di smarrimento, il consiglio di guerra l'ha

- W. M. W. Roth, in VT 18, 1968, 70 s.


IOO LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

respinto5. Sarebbe bello avere un più gran numero di racconti di que­


sto genere che illustrino in modo così plastico il senso di una sentenza!
In questo caso la « distruzione », l'aberrazione di una sapienza umana
così superiore appare in una prospettiva sommamente consolante, poi­
ché Jahve si è servito di questo mezzo per salvare il suo unto dall'umi-
liazione più profonda. Ma è incontestabile che si possono immaginare
altre circostanze in cui questa sentenza potrebbe prendere un signifi­
cato molto più minaccioso.
Perciò colpirò ancora questo popolo
con prodigi e partenti;
e la sapienza dei suoi saggi perirà,
e l'intelligenza dei suoi uomini intelligenti scomparirà. (Is 29, 14)
Si tratta di nuovo della sapienza dei saggi che è resa vana da un
intervento di Dio. Sopravverranno avvenimenti di fronte ai quali l'in­
telligenza dei saggi dovrà scomparire, « nascondersi ». L'orizzonte è più
oscuro. Isaia vede la notte discendere a causa delle catastrofi politiche
e nessuna intelligenza umana sarà all'altezza di questi avvenimenti.
Abbiamo evidenziato soprattutto le sentenze che parlano di Jahve
come colui che limita ogni signoria umana della vita, perché esse co­
stituiscono nel campo dell'antica sapienza israelitica una testimonianza
impressionante del fatto che la comprensione del mondo di questi mae­
stri non fosse soltanto religiosa, ma specificamente sostenuta dalla fede
in Jahve, Dio d'Israele. Se notiamo uno scarto tra la sapienza antica e
quella più recente perché quest'ultima è più teologica, dobbiamo pure
rilevare che questa distinzione è relativa, nel senso che riguarda piut­
tosto l'intensità dell'impegno nelle singole questioni teologiche che i
principi; anche l'antica sapienza sapeva che ogni vita è determinata da
Jahve ed aveva idee particolari sull'azione divina che stimola o frena
gli uomini.
Ricordiamo una volta ancora il curioso dualismo che ci ha colpito
nel modo con cui vengono fissate le esperienze nei proverbi! I maestri
oscillavano volentieri tra due possibilità di espressione: una maniera
del tutto neutra di affermare un fatto causale e una maniera più con­
fessionale che parlava di un'azione diretta di Jahve sull'uomo. Questi
5 Achitophel aveva consigliato di inseguire senza sosta il re in fuga, di non lasciargli alcun mar­
gine di tempo per riprendersi. Non vi sarebbe stata battaglia e la faccenda sarebbe stata pronta­
mente regolata. Ben diversa è la proposta del suo avversario nel consiglio di guerra, Huschai: non
bisogna tralasciare la mobilitazione rituale di tutto il popolo. Huschai parteggiava per Davide; vo­
leva lasciargli guadagnare tempo per raccogliere una schiera. I due discorsi, soprattutto quello di
Huschai, sono modelli della retorica più colta, di un uso prezioso del linguaggio a cui gli allievi
venivano condotti dai maestri. L'idea che Jahve può rendere stolto il più saggio era forse un tema
umico?
Io annullo i segni degl'interpreti,
proclamo insensati gli indovini,
faccio indietreggiare i saggi,
e converto la loro scienza in follia. (Is 44, 25)
Egli rende stolti i consiglieri,
altera la ragione ai giudici...
Egli toglie la parola ai più eloquenti
e il senno ai vecchi! (Giob 12, 17. 20)
due generi di espressione correvano per così dire parallelamente. Que­
sto ci è parso singolare; in ogni caso i due aspetti non si mescolavano
in una medesima sentenza. L'una formulava un fatto in modo « pro­
fano », raltra lo presentava come una confessione di fede. Non vi è
stato scontro tra i due sistemi di causalità di uno stesso avvenimento.
Ma nei proverbi riguardanti Jahve e ricordati da ultimo, le cose av­
vengono in modo diverso. Nella stessa sentenza — impresa perico­
losa! — si parla insieme di Dio e dell'uomo. Vi si riconosce la presenza
di Dio che accompagna l'uomo, la sua presenza in ogni avvenimento
umano. Ma non è più semplicemente una giustapposizione; ormai Dio
e l'uomo — cooperando nello stesso avvenimento — si separano consi­
derevolmente l'uno dall'altro. I maestri hanno messo didatticamente in
evidenza questa separazione sopprimendo la continuità tra l'intenzione
umana e la realizzazione effettiva. In questo intervallo che sfugge al
calcolo, essi hanno visto l'ambito di competenza riservato a Jahve. Ciò
nonostante l'aporia era lungi dall'essere superata. Non si poteva mo­
strare che Dio penetra totalmente e incontestabilmente nel mondo, an­
che a prezzo dell'abbandono del carattere secolare del mondo. I mae­
stri hanno stimato opportuno parlare minuziosamente delle regole e
degli ordinamenti in vigore nel mondo in cui vivevano, ed hanno do­
vuto tener conto dell'azione degli uomini come di un fattore apparte­
nente all’insieme. D'altra parte essi si ritenevano incaricati in ogni
caso di rendere attenti alla mano di Dio che agisce direttamente nel­
l'esistenza umana. Soltanto in questo modo rendevano giustizia alla
dialettica di ogni esperienza.
Abbiamo così risolto il nostro problema circa il luogo teologico spe­
cifico in cui si situava la parola riguardante i limiti della sapienza. Essa
non serve a velare una difficoltà del pensiero. Occupava piuttosto l'in­
tervallo tra le due tesi opposte sull'esperienza e costituiva sì un avver­
timento dato all'uomo, ma certamente non per renderlo cosciente della
sua schiavitù. Quando Israele si sarebbe mai lagnato di questa miste­
riosa presenza di Dio in tutta l'attività umana? Questa compagnia di­
vina, che ora limita i progetti dell'uomo, ora Io porta al di là dei fini
che lui stesso si era assegnato, era in ultima analisi una dottrina con­
solante e permetteva di misurare i limiti umani. Con questa dialettica
degli aspetti, i saggi hanno segnato con la loro impronta il pensiero
religioso di tutto l'occidente6.
Come i saggi avrebbero potuto risolvere il problema di pensiero che
qui si pone, se non si è imposto loro? Non era loro compito definire

6 £ vero! quel che agisce dall'eternità


ci spinge qui o là, senza che comprendiamo,
e, come per caso, per il nostro bene ci porta
a domandare consiglio, a decidere, a fare!
Ef come sostenuti, noi arriviamo al fine.
Sì, provare ciò è la felicità suprema
e non esigerlo è nostro umile dovere.
Nella pena attenderlo è nostra consolazione.
(J. W. v. Goethe, Die naturtiche Tochter, atto V, scena VII).
102 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

filosoficamente il rapporto tra le leggi immanenti e la libertà della vo­


lontà di Jahve. Il loro compito era eminentemente pratico: cercavano
di porre i loro rilievi nel campo di forza di esperienze vitali molto di­
verse e in parte contraddittorie. Essi non potevano dare a ciascuno un
itinerario praticabile per il suo cammino personale, ma avevano di
mira qualcosa di molto più importante: con il loro insegnamento trat­
to dall’esperienza, essi introducevano l'allievo nel costante andirivieni
del significato delle cose, ora avvertito ora smarrito, e lo guidavano
così a portare il proprio contributo su questo campo di battaglia sti­
molante che è la conoscenza della vita. Così hanno fatto molto di più
che se avessero semplicemente portato i loro allievi a meglio risolvere
un problema di pensiero teologico. Ridotto all’essenziale, questo fe­
condo insegnamento di vita sembra essere determinato da una note­
vole dialettica: non lasciarti scoraggiare nella mobilitazione di tutte le
tue forze per familiarizzarti con tutte le regole efficaci nella vita. Ogni
forma di ignoranza ti sarà di danno, solo lo « stolto » crede di saperne
abbastanza. Ma l’esperienza insegna qualcosa di più: non devi mai
essere pieno di sicurezza, ma devi sempre restare aperto a una nuova
esperienza; non sarai mai veramente saggio, poiché in ultima analisi la
tua vita non sarà determinata dalla regola ma da Dio.
Dopo tutto quel che è stato detto, conviene essere prudenti nell’uso
della nozione di « ordine », di « regola » che non abbiamo creduto di
poter evitare nelle nostre riflessioni. Si può veramente dire che i mae­
stri sono stati preoccupati di cercare un ordine del mondo? I risultati
del nostro studio, ed in particolare la discussione sulle sentenze riguar­
danti Jahve, lasciano piuttosto intravedere che non si può parlare di
un ordine cosmico realmente esistente tra Dio e l’uomo7. Quel che si
può constatare è che le enunciazioni dei maestri evolvono sul piano di
una dialettica che non può, in fondo, essere risolta. Essa parla di re­
gole in vigore e contemporaneamente di un’azione circostanziata di Dio.
Anche la sapienza più recente parla dei limiti imposti al sapere uma­
no, ma la forma della sua esposizione è cambiata. Dato che essa si
serviva molto poco della forma sentenziosa, non aveva la possibilità
di alternare tra proverbi concernenti ciò che si può conoscere e pro­
verbi riguardanti l’inconoscibile. La forma generale del discorso didat­
tico particolareggiato offriva altre possibilità, tra cui l’inserimento di
parti inniche corrispondenti. Già nelle sentenze dell’antica sapienza si
può considerare il mistero del governo di Dio come un argomento d’in­
segnamento. Ma i maestri più recenti sono più loquaci su questo tema.
È evidente che il fascino di questo fenomeno del mistero e delle sue
dimensioni è notevolmente aumentato. Quel che rimane è l'« impasse ».
Il modo improvviso con cui il discorso della ragione si trasforma in
7 In due passi del libro di Geremia si trovano inni tanto più sorprendenti in quanto ambedue par­
lano chiaramente di « ordini » nella creazione (Ger 31, 35 s.)( nel cielo e sulla terra (Ger 33, 25).
La dialettica che ci ha occupati precedentemente è qui risolta; gli « ordini » ;hukkót) si presentano
in effetti come un sistema di leggi proprie della creazione.
VI. LIM ITI DELLA SAPIENZA 103

una glorificazione dei misteri ha qualcosa di irritante per il lettore


moderno.
... Egli fa cose grandi e insondabili,
meraviglie senza numero! (Giob 5, 9)
Pretendi forse di scrutare i pensieri di Dio,
giungere alla conoscenza dei limiti deirOnnipotente?
« Più alto del cielo »,
che cosa puoi fare?
Più profondo del soggiorno dei morti!
che ne puoi sapere? (Giob 11, 7 s.)
La potenza e il terrore appartengono a Dio;
Egli fa regnare la pace nelle sue alte regioni.
Le sue armate non sono forse innumerevoli?
Sopra chi non sorge la sua luce? (Giob 25, 2-3)
Dio è grande, ma la sua grandezza ci sfugge,
il numero dei suoi anni è impenetrabile. (Giob 36, 26)
Non lo sai tu forse? non l'hai imparato?
Jahve è un Dio eterno,
che ha creato i confini della terra:
Egli non si affatica e non si stanca,
inscrutabile è la sua intelligenza. (Is 40, 28)
Se questo è il Dio che agisce nelle leggi e neirordine come li cono­
sciamo, è facile vedere in quale tensione si muoveva il pensiero dei
saggi. Più che ogni altro popolo deirantichità, Israele sapeva che tutto
ciò che è vivente è racchiuso sotto il governo regale di Dio, sotto il suo
« zelo ». Ma nella misura in cui si sapeva che Dio è presente e in azione
nell'ordine stabilito, il mondo, di cui si cercava di padroneggiare la
conoscenza, veniva coinvolto nella prospettiva del grande mistero che
circonda Dio. Perciò i maestri, specialmente quelli dell'epoca più re­
cente, sanno parlare con emozione deirinscrutabilità del mondo. Così
pure il discorso di Dio nel libro di Giobbe percorre manifestamente
tutti i settori del mondo per insegnare con lo stile della questione di­
dattica a vedere questo mondo e ciò che vi avviene nella sua incom­
prensibilità. Sì, luomo stesso, partendo dalla composizione armoniosa
del suo corpo, si contempla nella prospettiva di questo mistero:
Sei tu che hai formato i miei reni,
che mi had tessuto nel grembo di mila maidre.
Io ti lodo perché sono una creatura così meravigliosa.
Le tue opere sono ammirevoli...
Id mio corpo non era affatto nascosto di fronte a te,
quando sono stato fatto in un luogo segreto,
tessuto nelle profondità della terra.
Quando non ero che un embrione, i tuoi occhi mi vedevano
e sul tuo libro era scritto
ognuno dei giorni che mi era destinato
prima che ancora esistesse.
Quanto i tuoi pensieri, o Dio, mi sembrano impenetrabili!
Quanto è grande il loro numero!
Se li conto, sono più numerosi
dei granelli di sabbia. (Sai 139,13-18a)
104 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II

L'intero salmo è un esempio tipico che mette in evidenza questa pe­


netrazione reciproca della fede e della conoscenza. La volontà di cono­
scere è così dinamica che anche nel limite che le viene assegnato, essa
è testimone deirimperscrutabilità di Dio. Il timore di Dio non solo abi­
litava alla conoscenza, ma aveva pure una funzione eminentemente cri­
tica nel tenere desta la coscienza di colui che cercava di conoscere, ri­
cordandogli che la sua capacità di conoscere si rivolgeva verso un
mondo nel quale domina il mistero. Questo timore l'ha educato nel
senso della disponibilità, dell'incontro con l'insondabile e l'imprevedi­
bile e gli ha insegnato che il campo nel quale si possono riconoscere
leggi solide e controllabili, è in effetti molto ristretto. Non bisogna tut­
tavia dimenticare che i saggi non parlano mai in senso stretto di un
mistero del mondo. I misteri del mondo non hanno in ogni caso esi­
stenza propria: l'uomo non vi incontra che il mistero di Dio. La capa­
cità di conoscere d'Israele non si è mai allontanata dall'ombra del
grande mistero di Dio. Sta qui il lato affascinante di questa ricerca
della vita: l'audacia di darsi delle regole in un mondo in cui bisogna
calcolare ad ogni istante che si può incontrare la realtà totalmente
incommensurabile di Dio. La tranquilla sicurezza con cui essa perse­
gue i suoi sforzi su un tale terreno e di fronte ad un tale « partner » è
attraente. Senza dubbio, marciando di pari passo con un'arditezza cre­
scente nell'interpretazione delle direttive di Dio, appare — cosa cu­
riosa, sovente sulla stessa bocca! — un insegnamento patetico sui mi­
steri del potere divino. Il mistero di Dio è diventato argomento d'inse­
gnamento. E a volte, i maestri potevano superarsi, in particolare quan­
do lasciavano capire che il mistero di Dio che essi avevano percepito
era ben lungi dall'essere il mistero di Dio interamente, ma ne era sol­
tanto il margine più esterno.
Di fronte a lui il soggiorno dei morti è nudo,
l’abisso non ha veli.
Egli stende il settentrione sul vuoto,
sospende la terra sul niente...
Ecco, questi non sono che i contorni delle sue vie,
è il leggero mormorio che di lui ci perviene!
Ma chi capirà il tuono della sua potenza? (Giob 26, 6. 7. 14)
Chi lrha visto e potrebbe renderne conto?
Chi può glorificarlo come egli merita?
Restano molti misteri più grandi di quelli,
poiché noi abbiam visto solo un piccolo numero delle sue opere.
(Eccli 43,31 s.)

Se è lecito misurare il livello di conoscenza di un popolo dalla co­


scienza di ciò che sfugge al suo sapere, Israele ha acquisito una vasta
scienza! Non si può affatto affermare che fuori d'Israele la sapienza
dell'antico Oriente si sia avventurata in simili aporie.
È molto dubbio che si possa tacciare di ottimismo la caratteristica fonda-
mentale di questa antica sapienza pedagogica per distinguerla da una sapienza
VI. LIMITI DELLA SAPIENZA 105

teologica più pessimista8. Se ili suo ottimismo si fonda sul rapporto tra buona
azione e salvezza, rapporto che non è stato « ancora » messo in discussione,
ci si può chiedere a buon diritto se non è piuttosto la dottrina degli amici di
Giobbe, di Gesù di Sirach e della Sapienza di Salomone che potrebbe essere
chiamata ottimista di fronte alla sapienza antica che abbiamo visto argo­
mentare ancora con molte precauzioni, e che è lungi dall’essere « ingenua­
mente impassibile». Non si può considerare Giobbe e l'Ecclesiaste come i
rappresentanti di tutta una fase della sapienza, ma essi sono gli avvocati di
problemi che sono sorti dal cuore di questo sistema di concezioni. La com­
parsa di problemi difficili non è in sé una cosa fondamentalmente nuova.
Si potrebbe scrivere una storia intera di queste comparse nella quale il pro­
blema di Davide 2 Sam 24,17 non sarebbe il terminus a quo. La fede nella
validità del rapporto tra buona azione e salvezza non era d'altronde specifica
deirinsegnamento sapienziale. Essa era diffusa in tutta l'antichità e non era
un postulato; ma un'esperienza molto vasta aveva imparato a considerare
questo rapporto come un ordine divino che governa ogni vita umana. Non si
constata una rottura profonda né una revisione fondamentale in questa idea.
La differenza tra l'antica sapienza pedagogica e la sapienza teologica più re­
cente -non può essere colta nell'opposizione ottimdsta^pessimista. Ogni epoca
ha i suoi conflitti con la realtà e più esattamente con le idee che essa si fa
della realtà. Resta sempre qualcosa che non si può fare entrare nel sistema.
La volontà di conoscere di ogni tempo ha una propria certezza che essa sola
riceve, e deve arrestarsi di fronte a certi limiti. Così, il suo ottimismo come
il suo pessimismo sono di genere particolare. Non è giusto che l'esegeta fac­
cia risaltare un aspetto particolare aiH'intemo di questo processo, sempre
molto instabile, dell'acquisizione e della perdita di significato, per farne il
criterio di due grandi fasi dell'insegnamento d'Israele.

8 Tra gli altri B. Gemser, Spriiche Salomos (1937), 55 ss.; I. C. Rylaarsdam, Revelation in Jewish
Wisdom Literature (19632), 63; U. Skladny, op. cit., 82; H. Ringgren, Spriiche (1962), 45; R. B. Y.
Scott, Proverbs, Ecclesiastes in « Anchor Bible » 1965, p. XIX; O. Plòger, Festschrift fiir Hertzberg
(1965), 172.
PARTE III

MATERIE PARTICOLARI
DELL* INSEGNAMENTO
V II
ELEMENTI DI UNA PADRONANZA
DELLA REALTÀ

Dopo le questioni di natura fondamentale che abbiamo esaminato, ci


resta da vedere più da vicino alcune esperienze particolari che Israele
ha fatto nel vasto campo della percezione della realtà. Se parlassimo di
« realtà » in genere, supereremmo sensibilmente il quadro espressivo
delle sentenze e dei poemi didattici, poiché questo campo non è qui
percepito come un tutto, come un’unità, come un insieme armonioso,
nella maniera in cui siamo inclini a considerarlo con il nome generico
di « creazione ».
Il libro dei Proverbi ci presenta piuttosto una molteplicità di realtà
isolate di cui si riesce a stento ad avere una visione d’insieme. Il pas­
saggio dalla molteplicità alla realtà una, totale e coerente, non si è
compiuto *. Non si dica che ciò deriva da una certa incapacità d’Israele
all’astrazione, poiché, dietro questa esitazione a ordinare concettual­
mente l’esperienza della realtà, potrebbe rivelarsi un carattere del tutto
specifico dell’esperienza che Israele ha fatto del mondo. Si potrebbe
piuttosto sostenere che la forma dell’insegnamento, rivolta verso la
pratica, offriva poche occasioni di abbandonarsi a un concatenamento
di astrazioni. In breve, dobbiamo in ogni caso tenere conto di questo
fatto, sia che vediamo in esso un limite, sia che lo consideriamo una
forma specifica dell’esperienza del mondo.
Avvertiamo inoltre come una difficoltà supplementare l’assenza totale
di ogni ordine, di ogni disposizione delle materie nelle collezioni di
sentenze e di insegnamenti. È molto raro che il lettore incontri un
gruppo di proverbi in cui si trova una certa identità di contenuto. Que­
sti piccoli gruppi organizzati, essendo troppo rari, sono privi d'impor­
tanza per capire l’insieme della serie di sentenze. Inoltre, quel che com­
plica le cose, è che il materiale d ’insegnamento a cui ci accostiamo,
costituisce — a quanto pare — il prodotto di almeno otto secoli di ri­
flessione, e tuttavia resiste ad ogni classificazione cronologica. Da una
parte, si deve tener conto dei movimenti spirituali e intellettuali im-
1 Soprattutto nei lavori di J. Fichtner e di U. Skladny.
X. von rad. la sapienza in isrtele
no LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

portanti nel corso di questa tradizione multisecolare; d'altra parte, si


deve ammettere — soprattutto in queste materie specificamente didat­
tiche — una costanza, una persistenza, una stabilità sia per quel che
riguarda la problematica che per quel che riguarda le conoscenze fon­
damentali. In modo molto generale, si fanno oggi risalire le collezioni
di Prov 10-29 all'epoca regale. Se le paragoniamo con i poemi didat­
tici di Prov 1-9, si potrebbero considerare questi come più recenti, a
causa della loro riflessione più decisamente teologica; ma la cosa non
è affatto sicura. Non è ancora stata data la prova che questo genere
d'insegnamento fosse esclusivo dell'epoca postesilica. Forse dobbiamo
vedere negli insegnamenti di Prov 1 - 9 i rappresentanti di un altro
gruppo di tradizioni didattiche.
Quel che si è dapprima imposto come oggetto d'importanza prima­
ria nello studio della sapienza è stata la questione delle circostanze
esterne che i poemi didattici suppongono: il quadro politico, sociale
ed economico, ma naturalmente anche la questione dell'atteggiamento
interiore delluomo di fronte all'uomo e dell'uomo di fronte a Dio.
Ponendo il problema delle opinioni espresse nelle sentenze, potremmo
senza dubbio distinguere interessanti raggruppamenti in questi pro­
verbi. Ma ci si può chiedere se è possibile fare ancora qualcosa di più
a questo proposito. Sembra oggi più interessante e più importante in­
terrogare i proverbi e gli insegnamenti circa il lavoro di riflessione in
essi contenuto. A partire da che cosa si sono analizzati i fatti? Che
cosa si è cercato e che cosa si è creduto di trovare in essi? Se si è cre­
duto di potervi discernere una specie di ordine, com'è stato artico­
lato? Potremmo così giungere a capire le sentenze ad un livello più
profondo nel quale appare qualcosa di comune tra loro, e nello stesso
tempo individuare alcuni fenomeni fondamentali, che sono stati avver­
titi più o meno in tutti i settori della vita e per i quali i maestri hanno
provato un interesse particolare, dato che vi ritornano continuamente.
Non dimentichiamo che la grande maggioranza delle sentenze adotta
lo stile di semplici dichiarazioni e non quello di esortazioni o di avver­
timenti. Esse constatano semplicemente le esperienze fatte. Potremmo
cominciare da questo punto poiché si potrebbe già rispondere alla do­
manda: Che cosa constatano le sentenze in particolare? dei giudizi? dei
fatti? dei rapporti di causalità? come considerano i rapporti di Jahve
oppure dell'uomo con gli avvenimenti del mondo circostante?

I . L a FISSAZIONE DEI FATTI E LA RICERCA DI ANALOGIE

Il libro dei Proverbi è pieno di sentenze in cui si esprimono giudizi


categorici. Partendo dal valore della sapienza e dalla futilità della stol­
tezza, i saggi inculcano nel modo più chiaro quel che si deve pensare
di questo o quel comportamento e di questa o quell'altra qualità uma­
na. A tale genere appartengono, ad esempio, un notevole gruppo di
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ III

sentenze, quelle che iniziano con « è meglio... » (« È meglio un piatto di


legumi con l'amore che un bue grasso accompagnato dall'odio », Prov
15,17), il genere tó'ebà o sentenze d’« abominio » (« ... sono in abomi­
nio a Jahve ») e i proverbi di beatitudine (« Felice chi... » 2. Anche que­
ste sentenze constatano giudizi che sono per sé evidenti nel campo di
una scala di valori ben definita. Al riguardo non è necessario che ci
dilunghiamo troppo. Dalla suddetta categoria si distinguono nettamente
altre sentenze nelle quali non viene emesso un giudizio; il maestro si
limita ad esporre nella loro evidenza alcune esperienze di comporta­
mento. Questi fatti evidenti si verificano così sovente che vi si può
individuare una specie di regola. Tuttavia non si formula la regola, ma
viene evidenziato un caso tipico, nel quale chiunque riflette discernerà
immediatamente la regola. Il ricco ha molti amici, il povero invece è
odiato dal suo stesso compagno (singolare!) (Prov 14, 20); ogni qual
volta il ricco ha bisogno degli amici, troverà sempre aiuto, ma il po­
vero sarà respinto anche dall'amico; il ricco troverà dappertutto chi
lo ascolta, ma se il povero parla, si dirà: Chi è? (Eccli 13, 23): ecco
semplicemente come stanno le cose. Si prende atto di una situazione
senza cambiarla; bisogna tenerne conto, senza ragionare troppo al ri­
guardo. Il compratore comincia col trovar da ridire sulla mercanzia,
ma una volta combinato l'affare, se ne va tutto contento (Prov 20, 14):
ecco un tratto comico, ma chi vuole conoscere gli uomini deve essere
al corrente di comportamenti anche singolari; verrà il momento in cui
questo sapere potrà venirgli utile. Costantemente, le sentenze ritornano
sui contrasti della vita sociale e sugli enigmi che nascono in questo
campo di tensioni.
La fortuna del ricco è per lui una fortezza,
ma la povertà è la rovina del bisognoso. (Prov 10, 15)
Il povero parla supplicando,
ma il ricco risponde con durezza. (Prov 18, 23)
Il ricco e il povero si incontrano;
è Jahve che li ha fatti l'uno e l'altro. (Prov 22, 2)
Il ricco commette un’ingiustizia, se ne vanta;
il povero è colpito, diventa supplichevole! (Eccli 13, 3)
Il ricco lavora per ammucchiare beni,
e quando si ferma, è per saziarsi di piaceri;
il povero lavora senza avere di che vivere,
e quando si ferma, cade nella miseria. (Eccli 31, 3-4)

Non si tratta qui di contestare o di abbattere questo stato di cose.


Una protesta del genere si è già espressa ampiamente in Israele, a tem­
po e luogo dovuti. Con queste sentenze, invece, ci troviamo su un ter­
reno dove non si considerano le rivendicazioni sociali. Se volessimo
indagare il cammino intellettuale che si verifica in queste sentenze, ci

* Sentenze d'« abominio »: Prov 3, 32; 6, 16; 8, 7; 11, 1.20; 15, 8 s. 26; 16, 5; 17, 15; 20, 10.23;
« Beatitudini »: Prov 3, 13; 8, 32. 34; 14, 21; 16, 20; 20, 7; 28, 14; 29, 18.
112 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

troveremmo innanzitutto di fronte allo stupore per i fatti concreti e


per le contraddizioni constatabili. Il povero non è arricchito, né il cat­
tivo migliorato; ma in questo stupore si acquista ima conoscenza. Se
tali constatazioni non possono ancora rientrare in una scala di valori,
l’uomo fa bene a inserirle nella sua conoscenza delle regole. È compren­
sibile che questo genere di sentenze sia particolarmente attirato dai
fenomeni sorprendenti, enigmatici. Ma che sia difficile riconoscerli e
che sollevino problemi complicati, è ima cosa che va al di là del qua­
dro espressivo della sentenza; questa infatti ha già svolto il proprio
compito constatando la presenza dei fatti. Quanto a spiegarli o a valu­
tarli, non è più suo compito.
Il soggiorno dei morti e l'abisso sono insaziabili,
così gli occhi dell'uomo non si saziano. (Prov 27, 20)
Qui nuovamente un fatto che supera del tutto la comprensione. L'in­
saziabilità dell'occhio e quella del soggiorno dei morti che può sempre
inghiottire nuove ombre si possono semplicemente constatare come un
fenomeno affatto enigmatico. Constatazioni del genere assumono un
aspetto quasi inquietante quando vi interviene Dio stesso.
Un ipovero e uno strozzino si incontrano,
Jahve ha dato ad entrambi la vista. (Prov 29, 13)3
Non bisogna trascurare un settore particolare a cui i saggi hanno
dedicato buona parte delle loro osservazioni, benché siano restati, an­
che in questo caso, del tutto neutri nelle loro constatazioni: è lambito
della vita interiore dell'uomo. Sul terreno della psicologia o di fronte
al problema di sapere come ciò che è dentro all'uomo si riflette al­
l'esterno oppure si nasconde, come l'uomo è solo, tanto nelle gioie
quanto nelle pene, i saggi son riusciti a formulare sentenze particolar­
mente efficaci. Essi hanno colto e fissato le realtà più segrete. L'autore
del poema di Giobbe si sofferma a descrivere con cura le angosce e le
visioni che tormentano l'uomo potente4 e il Siracide tenta spesso di
affrontare il fenomeno così ambivalente della vergogna5. Si trovano
però cose simili anche nelle sentenze della letteratura più antica.
Un cuore conosce le proprie afflizioni,
un estraneo non riesce a condividere la sua gioia. (Prov 14, 10)
Nel bel mezzo del ridere il cuore può essere afflitto,
e la gioia può finire nel cordoglio. (Prov 14, 13)
Lo spirito dell’uomo lo sostiene nella malattia,
ma lo spirito abbattuto chi lo solleverà? (Prov 18, 14)
Vediamo lo stesso fenomeno nel campo delle « scienze naturali ».
Quando lggiamo che l'ape è uno dei più piccoli esseri alati, ma che il
suo prodotto è di una dolcezza squisita (Eccli 11, 3), si tratta della
3 Cfr. Prov 29, 22a. Le due sentenze ricordano Amenemope, cap. 25: (Il dio) abbassa mille uo­
mini a suo gradimento; innalza mille uomini al grado di ispettori.
4 Giob 8, 20 ss.; 20, 22 ss.
5 Eccli 4,20-26 ; 41,14-42.8. Vedi pp. 222 ss.
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 113

semplice constatazione di un fatto sorprendente, senza alcun intento


moraleggiante. A fianco di queste sentenze senza pretese, si possono ci­
tare le splendide descrizioni di animali del discorso di Dio nel libro
di Giobbe, poiché la differenza in questo caso sta semplicemente nella
maggiore eleganza della descrizione artistica6. Dal materiale disponi­
bile (lo struzzo, Giob 39, 13-18; il cavallo, 39, 19-22; il coccodrillo, 40,
25-41, 26) scegliamo la descrizione dell'ippopotamo:
Ecco l'ippopotamo a cui ho dato vita come a te!
Mangia fieno come un bue.
Osservalo! La sua forza è nei reni,
il suo vigore nei muscoli del suo corpo!
Lascia penzolare la coda come un cedro;
i nervi delle cosce sono fortemente intrecciati;
le sue ossa sono tubi di bronzo,
le sue membra come sbarre di ferro.
È la prima delle opere di Dìo;
« egli l'ha fatto dominatore dei suoi simili ».
Le montagne gli forniscono legno,
e tutti gli animali selvaggi che vi si trastullano.
Si sdraia sotto il -loto,
in mezzo alle canne e alle paludi.
Le piante di loto lo coprono con la loro ombra,
i salici del torrente lo circondano.
Straripi pure la corrente del fiume, egli non trema;
il Giordano si precilpiti nella sua gola, egli resta calmo.
« Chi » riuscirebbe a prenderlo per gli occhi?
O forargli il naso con un anello? (Giob 40, 15-24)
Inserito nel discorso di Dio, questo brano è orientato verso un deter­
minato tema teologico. Ma se lo si estrae da questo clima teologico
particolare, si vede immediatamente che nella sua redazione originale
non esprime alcuna preoccupazione religiosa o morale. Le allusioni agli
animali come modelli di alcune virtù umane — questa tendenza ben
nota dell'educazione morale — avevano pure una funzione nella peda­
gogia d'Israele e soprattutto in quella dell'antico Egitto (« Va' dalla
formica, o pigro... », Prov 6, 6 ss.). Anche nell'antica Babilonia vi erano
descrizioni dettagliate di animali e dei loro organi, ma facevano parte
della letteratura sacra e servivano alla scienza della divinazione7. Quan­
to sono diverse le descrizioni bibliche degli animali! Si preoccupano
unicamente di descrivere il fenomeno e di sottolinearne la stravaganza.
In questo modo di porsi di fronte ad un elemento del mondo enigma­
tico che circonda l'uomo, in questa concentrazione sul fenomeno stesso,
senza collegarlo subito all'uomo e al suo universo, si può vedere una
particolarità della conoscenza del mondo nell'antico Israele; la sapienza
egizia non ha per niente conosciuto descrizioni di animali che non
avessero uno scopo moraleggiante8. Questa capacità di apertura alla
4 H. Richter, Die Naturweisheit des ALten Testaments im Buche Hiob, in ZAW 70, 1958, 1 ss.
7 W. von Soden, in B. Landsberger-W. von Soden, Die Eigenbegrifflichkeit der babylonischen Welt
(1965), 70 s.
8 Comunicazione verbale di E. Otto.
114 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II

realtà non ha forse una corrispondenza nel realismo di tanti racconti


dell'A.T.? Se ci si chiede quale è stata l'intenzione concreta di queste
descrizioni, e quindi la loro origine, si dovrà nuovamente pensare alla
scuola9. La loro intensa poesia non ci impedisce di considerarle come
poemi nettamente didattici. In questa categoria si potrebbe anche por­
re il poema didattico Is 28, 23 ss. che tratta delle diverse attività del­
l'agricoltore10. Quando l'autore della Sapienza di Salomone riconosce
che da Dio viene la conoscenza di tutti i fenomeni terrestri, lo svol­
gersi dell'anno, la posizione degli astri, la varietà delle piante, la forza
delle radici (Sap 7, 15 ss.), cita rami del sapere che dovevano verosi­
milmente essere già insegnati nelle scuole antiche.
Un altro passo audace nella padronanza della realtà è descritto nelle
seguenti sentenze:
I cieli nella loro altezza, la terra nella sua profondità,
e il cuore dei re sono impenetrabili! (Prov 25, 3)
II vento del nord produce la pioggia,
la lingua dissimulatrice volti irritati. (Prov 25, 23)
Come nubi e vento senza pioggia,
così l’uomo che si vanta di falsi regali. (Prov 25, 14)
Il ferro si aguzza con il ferro;
un uomo stimola l'altro. (Prov 27, 17)
Anche qui, sono fatti che vengono constatati — lo stile ebraico è ini­
mitabile in italiano — ma in ogni sentenza vi sono due fatti posti l'uno
a fianco dell’altro. Le constatazioni paiono molto distanti l'una dal­
l'altra: che cosa possono avere in comune la distanza tra il cielo e la
terra e il cuore di un re? Ma vi è qualcosa che collega le due consta­
tazioni in apparenza così poco simili: la loro insondabilità. Precisa-
mente la scoperta del legame che unisce due fenomeni totalmente diffe­
renti viene considerato dalle sentenze come un guadagno di conoscenza.
Si tratta, a rigore di logica, di tre constatazioni, poiché la conoscenza
di un fattore comune esistente tra le due constatazioni della sentenza
viene ad aggiungersi come terzo elemento importante.
Un simile sforzo di conoscenza è reperibile nei proverbi che iniziano
con « come », nei quali si fanno paragoni di genere molto diverso. Que­
ste sentenze si trovano in gran numero nel libro dei Proverbi (soprat­
tutto nella collezione dei cap. 25-27) e neU'Ecclesiastico.
Quale è l ’aceto per i denti e il fumo per gli occhi,
tale è il pigro per chi lo manda. (Prov 10, 26)
Come un cane che ritorna a quel che ha vomitato,
così l'insensato che ritorna alla sua follia. (Prov 26, 11)
Come il fuoco si spegne in mancanza di legno,
così la disputa si placa quando non vi è calunniatore. (Prov 26, 20)

9 Sta forse qui la spiegazione del fatto che il poema pone l'ippopotamo nel Giordano? Il ter­
mine « Giordano » è semplicemente eliminato da molti esegeti.
t0 Su Is 28, 23 ss., vedi p. 131.
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 115

Se premi il latte ne esce burro,


se premi il naso ne esce sangue;
se premi la collera ne esce discordia. (Prov 30, 33)
Chi tocca la pece gli si attacca alla mano;
chi frequenta lo schernitore ne impara le vie. (Eccli 13, 1)
Fumo e vapore precedono il fuoco,
le ingiurie precedono lo spargimento di sangue. (Eocli 22, 24)
Il senso di questi aforismi verrebbe notevolmente svalutato se si vo­
lesse vedere in queste comparazioni semplicemente un procedimento
di stile didattico e retorico per illustrare un'affermazione. Queste com­
parazioni non sarebbero forse terribilmente ricercate? Esse non hanno
una funzione pedagogica, ma una funzione noetica; servono a mettere
in evidenza analogie; bisogna apprezzarle come scoperta di elementi
comuni, che si possono constatare anche tra fenomeni di natura del
tutto differente11. Ma non si tratta di fenomeni il cui accostamento è
semplicemente fortuito, poiché mancherebbe a questa combinazione
l'essenziale, cioè il suo carattere di necessità. Anzi, il fatto di accostarli
fa risaltare delle relazioni che indicano un ordine superiore, nel quale
i due fenomeni sono legati l'uno all'altro. Con ciò, qualcosa del loro
carattere contingente, incontrollabile è superato ed essi sono inseriti
in un ambito in cui regna l'ordine. Si potrebbe quasi dire: quanto
più le cose paragonate sono distanti, tanto più la scoperta di analogie
dev'essere interessante, perché mette in evidenza qualcosa delle dimen­
sioni dell'ordine conosciuto. Ma chi può dire se le nostre nozioni di
distanza e di vicinanza tra le cose corrispondono a quelle degli anti­
chi?12. Il riferimento alle analogie era particolarmente apprezzato nelle
controversie in cui esse dovevano assicurare il rigore della tesi da
difendere. Si vede forse ragliare l'asino presso l’erba tenera, il bue mug­
gire quando gli portano il foraggio? Gli amici di Giobbe non potevano
trarre altra conclusione se non che egli avesse buone ragioni per
lamentarsi (Giob 6, 5; 8, 11 ss., ecc.). A questo proposito, il magnifico
poema dei movimenti circolari degli elementi risale molto indietro.
Il sole, il vento e l'acqua sono soggetti alla stessa legge dell'eterno
ritorno. Questo non è formulato, ma viene fatto intendere con una
descrizione:
Una generazione va, un’altra viene e la terra sempre rimane.
Il sole si leva, il sole si corica,
si affretta al luogo da cui si leverà nuovamente;
11 Questo coordinamento di analogie ha avuto un ruolo anche nel pensiero greco. « Partendo dal­
l'ipotesi che la stessa logica e le stesse leggi regnano nella vita umana e nella natura, Solone trae
argomenti dai rapporti di causa ad effetto in meteorologia per fissare correttamente la responsa­
bilità negli avvenimenti politici » (H. Frànkel, op. cit., 599). « Dalla nube viene la violenza della
neve e della grandine, ed il colpo di tuono proviene dal fulmine scintillante. Così, dai grandi
uomini viene la rovina della città » (ibidem, 262).
12 Vi è ancora una forma di combinazione di concetti, la paronomasia. Benché i maestri ne ab­
biano fatto un uso abbondante, noi non riusciamo più a percepire il vantaggio noetico, il guadagno
di conoscenza che poteva risultare dall'accostamento di assonanze simili. Pare che la parola fun­
zionasse in questo caso come suono e veicolo di una nozione. Possiamo supporre che, con l'identità
sonora delle parole messe in serie, si ottenevano alcuni effetti suirascoltatore. Il materiale lingui­
stico si trova in G. Bostrom, Paronomasi i den aldre hebreiska maschajliteraturen (1928).
Ii6 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

il vento soffia verso il mezzogiorno, poi soffia verso il nord,


gira e rigira e riprende il suo percorso.
Tutti 1 fiumi corrono al mare e il mare non viene riempito.
E i fiumi continuano a scorrere verso la loro foce. (Eccle 1, 4-7)
Non è impossibile che questo testo sia stato in origine un poema
didattico sulle conoscenze della natura senza alcun rapporto con l'uomo
e i suoi problemi13. Ma nel contesto attuale va molto più lontano:
apre una prospettiva sullo spazio in cui si svolge la vita umana e
prelude così ai pensieri melanconici di Qohelet sull'esistenza dell'uomo.
Qui, l'analogia tra ciò che avviene nel mondo esterno e nella vita
umana non si limita a un solo particolare, ma riguarda la totalità.
Infine, bisogna anche ricordare in questo capitolo la conseguenza
a minore ad maius (o a maiore ad minus : « se è così qui, quanto più
là »). Anch'essa collega due fenomeni che non hanno niente di comune.
Non si tratta di una constatazione di analogie, ma di una conseguenza
che deriva da un ordine di grandezza noto. Se qualcosa è vero in una
questione di poco conto, a maggior ragione lo dev'essere in una que­
stione maggiore e viceversa.
Il soggiorno dei morti e l'abisso sono (aperti) di fronte a Jahve;
quanto più i cuori dei figli dell'uomo. (Prov 15, 11)
Vi sono dei poveri che sono onorati per il loro sapere,
e dei ricchi che sono onorati per la loro ricchezza.
Chi è (già) onorato nella povertà,
quanto più lo sarà nella ricchezza!
E chi è disprezzato nella ricchezza,
quanto più lo sarà nella povertà! (Eccli 10, 30 s.)
Se le sentenze comparative si accontentano di fissare ciò che vi può
essere di comune tra due fenomeni, i proverbi numerici vanno invece
molto più lontano. Il numero dei fenomeni riuniti in qualche analogia
varia da due a dieci.
Vi sono quattro cose minuscole sulla terra,
ma sono sagge tra i saggi:
le formiche, popolo debole,
ma che, d'estate, assicura il proprio cibo;
gli iraci, popolo senza vigore,
ma che dimora nelle rocce;
le locuste: non hanno re,
eppure marciano tutte in buon ordine;
la lucertola: si cattura con la mano,
ma frequenta i palazzi del re! (Prov 30, 24-28)
Si è già visto che la forma dei proverbi numerici si avvicina molto
a quella degli enigmi. Ciò non cambia per nulla la nostra asserzione,
che si tratti cioè della conoscenza di quello che ha caratteri comuni.
L'elemento ludico proprio ad ogni invenzione poetica della verità com­
pare in primo piano con maggiore prepotenza in questo caso che al­
13 Secondo l’ipotesi di O. Loretz, Qohelet und der Alte Orient (1964), 254.
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 117

trove. Nell’esempio citato, non si può parlare di una gradualità nell'enu­


merazione, e tuttavia pare che l'ultimo fenomeno sia più meraviglioso
dei precedenti.
Tre cose sono insaziabili,
e quattro non dicono mai: Basta!
Il soggiorno dei morti, la matrice sterile,
la terra, mai sazia d'acqua,
il fuoco, che non dice mai: Basta! (Prov 30, 15 s.)
Vi son tre cose che mi superano,
e quattro che non conosco:
la strada dell’aquila nei cieli,
la strada del serpente sulla roccia,
la strada della nave in pieno mare,
la strada dell'uomo verso la donna! (Prov 30, 18 s.)
Questi due proverbi numerici sono notevoli perché gli esempi non
sono riuniti in ragione di ciò che si conosce di essi. Quel che hanno di
comune è il loro aspetto incomprensibile. Nel primo esempio sono
riuniti dei fenomeni d’insaziabilità, nel secondo « strade » enigmatiche ;
bisogna sapere, per capire l’ultimo esempio, che la parola ebraica cor­
rispondente alla nostra parola « strada » significa anche « comporta­
mento », « modo d'essere », « modo d’agire ». Anche in questo caso
l’ultimo esempio supera i precedenti.
Nel quadro di questa esposizione in cui ci occupiamo della fissazione
del concreto, dell’inventario del reale, bisognerebbe anche interrogarsi
sulla parte avuta da Israele nella « scienza per enumerazione » o « scien­
za di elenchi » diffusa in tutto l’antico oriente. In tal caso — negli
« onomastika » egizi in particolari — veniva intrapresa nella forma di
lunghe serie di sostantivi una enumerazione la più completa possibile
di tutto ciò che il mondo comprendeva. E certo che in Israele erano
noti degli « onomastika » e che sono stati elaborati poeticamenteM.
Un altro problema è invece quello di sapere se Israele ha lavorato
indipendentemente in questo campo o se — come pare più probabile —
si sia servito di modelli egizi. Comunque stiamo le cose, a noi non è
pervenuto un solo « onomastikon » nella letteratura israelitica. È un
caso diverso quello della cosiddetta tavola delle nazioni che si trova
in due recensioni: in Gen 10 e nel libro dei Giubilei, cap. 8-915. Ci si
può domandare se questi testi appartengono ancora al genere della
scienza degli elenchi, poiché l’espansione dei popoli nei loro territori
è presentata come un avvenimento storico, in Gen 10 come genealogia,
in Giub 8 - 9 come una ripartizione globale della terra con sorteggio.
È verosimile che queste tavole delle nazioni risalgano a carte geogra-
u G. von Rad, Hiob 35 und die altàgyptische Weisheit, in VT Suppl 3, 1955, 293 ss. = Gesammelte
Studien (1958), 262 ss. Nuovi studi hanno mostrato quanto l’esposizione così lapidaria delle opere
della creazione in Gen 1 si fondasse su una conoscenza della natura molto ramificata, diffusa nei
testi della scienza delle liste: S. Herrmann, Die Naturlehre des Schopfungsberichtes, in ThLZ 86,
1961, 413 ss.; W. H. Schmidt, Die Schopfungsgeschichte der Priesterschrift (19672), 32 ss.
15 G. Holscher, Drei Erdkarten. Ein Beitrag zur Erkenntnis des hebràischen Altertums, in
« Sitzungsbericht der Heidelberger Akademie der Wissenschaften », Phil.-Hist. Klasse 1944/1948, sag­
gio 3, 1949.
ii 8 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

fiche disegnate. Israele deve aver seguito modelli babilonesi in questo


caso, poiché anche la celebre carta terrestre di Anassimandro dipende
dai modelli babilonesi16. Ad ogni modo, la tavola delle nazioni di Gen 10
è un documento che presenta un significato unico in tutto l'antico orien­
te per il vasto complesso di realtà storiche che circondavano Israele.

II. Ca u s e e d e f f e t t i del rapporto condotta -r e t r ib u z io n e

Dietro la constatazione di analogie si poneva già il problema di un


ordine trascendente. Si poneva innanzitutto il problema di un ordine
parallelistico della giustapposizione. Nelle pagine seguenti si tratterà
del problema delle cause e degli effetti, d'un ordine che si può cono­
scere in una successione di fenomeni17. In ambedue i casi abbiamo a
che fare con uno dei compiti principali che il desiderio di conoscere
dei saggi si è imposto, in particolare quello della padronanza del « con­
tingente ». Con la nozione di contingente, intendiamo semplicemente i
fatti di ogni tipo che luomo non si spiega a partire da una necessità
a lui nota. Quotidianamente, senza posa, l'uomo incontra il contin­
gente (il caso) il cui senso e la cui necessità interna gli sono a tutta
prima nascosti; soltanto occasionalmente egli giunge a riconoscere
dietro a questo contingente una necessità interna che lo spiega. Da que­
sto momento, l'avvenimento perde il suo carattere di contingente e al
suo posto nasce la conoscenza di un ordine che regna dietro gli avve­
nienti. Molto più dell'uomo moderno, l'uomo antico è rimasto turbato
dalla preponderanza del contingente: nella misura in cui si sapeva da
esso dominato, sentiva crescere in sé un'impressione di generale insi­
curezza. Era per lui una minaccia il fatto di essere incessantemente
determinato e scompigliato da circostanze che sfuggivano ad ogni inter­
pretazione. È proprio un istinto originale nell'uomo il voler delimitare
il più possibile il campo del contingente, con tutti i mezzi di un'atten­
tissima osservazione e di sforzarsi, dov era possibile, di dare un senso
per quanto profondamente occulto al contingente inspiegabile.
Anche Israele si è assoggettato allo sforzo di scoprire una « legitti­
mità » percettibile negli avvenimenti che si producevano. La prima
cosa da fare era ricercare caso per caso ciò che poteva aver preceduto
l'avvenimento da interpretare. Era possibile comprendere l'avvenimen­
to come qualcosa che era stato prodotto? Si deve partire da questa
problematica per capire le sentenze che definiscono ciò che capita
abitualmente prima di questo o queiraltro avvenimento.
L’arroganza annuncia la rovina,
e lo spirito altero la disfatta. (Prov 16, 18)

14 A. Lesky, Geschichte der griechischen Literatur (1963:), 188 s.


ir Per la distinzione del problema di giustapposizione da quello della successione, cfr. H.-J. Her-
misson, op. cit., 152.
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 119

Il tentativo di capire alcuni fatti partendo dalle loro cause domina


la maggior parte delle sentenze assertive. In modo del tutto naturale,
la vita sociale e i suoi contrasti a volte brutali tra poveri e ricchi erano
quanto mai atti a suscitare la riflessione e conducevano a porsi dei
problemi sulle cause. Il pigro impoverisce (Prov 10, 4; 24, 30 ss.).
Si deve fare a tempo i preparativi (Prov 10, 5). Ci si deve attenere al
lavoro della terra e non inseguire «chimere» (Prov 12, 11). Se una
fortuna « affrettatamente » raccolta non è solida non c#è da stupirsi
(Prov 13, 11; 20, 21; 21, 5). La fortuna non è quindi una cosa fortuita;
essa dipende in gran parte dairatteggiamento dell'uomo. Solo non si
deve considerare il fatto di essere ricco o povero come tale, ma come
qualcosa che si è prodotto in seguito ad un insieme di circostanze;
si tratta di ricercare i principi, le condizioni che gli uomini stessi hanno
posto perché quest'avvenimento si produca. Vi sono regole che si pos­
sono fissare; chi non le osserva impoverisce.
Tuttavia, vi è qualcosa che sorprende: se tra i vantaggi della vita ve
n'era uno che godeva in Israele duna considerazione unanime, era
appunto la proprietà, il benessere, lopulenza; ora l'esperienza ha do­
vuto constatare che anche questo vantaggio così altamente apprezzato,
non era un valore costante e chiaro. Lungi dall'essere considerata come
un valore assoluto, la prosperità si rivela da parte sua affatto relativa.
Nel giorno della collera, la ricchezza non serve a nulla,
ma la giustizia libera dalla morte. (Prov 11, 4)
Chi confida nella ricchezza vi affonderà,
ma i giusti rinverdiranno come le fronde. (Prov 11, 28)
C'è chi è preservato dal peccato dalla sua povertà,
e nel riposo non è consumato (dai rimorsi). (Eccli 20, 21)
L'insonnia causata dalla ricchezza fa dimagrire la carne,
i fastidi che essa procura cacciano il sonno. (Eocli 31, 1)
Nessuno qui s'immaginerà che la ricchezza potrebbe essere conside­
rata sospetta in virtù di qualche principio ascetico, idea che è stata
completamente sconosciuta ad Israele. Non vi sono espressi principi
filosofici, ma la semplice esperienza di limiti evidenti. Queste constata­
zioni avevano un'importanza capitale per la conoscenza israelita del
mondo, cioè la conoscenza della pluralità dei significati che potevano
assumere i fenomeni. Non era possibile prendere atto d’un atteggia­
mento, d'un'esperienza, d'un valore della vita umana senza che ne appa­
risse il carattere ambiguo 18. In ogni caso se ne vedevano i limiti ed
era possibile interpretarla in parecchi modi. È così che la stessa po­
vertà, che da sempre era considerata in Israele come un terribile
intralcio per l'esistenza e a cui non ci si adattava mai completamente,
poteva occasionalmente presentarsi in una luce positiva.
È meglio un pezzo di pane secco con la pace,
che una casa piena di carni con le discordie. (Prov 17, 1)

18 Vedi pp. 222 s.; 234 s.


120 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II

Meglio il povero che vive onestamente,


che l’uomo «ricco» dalle labbra perverse. (Prov 19, 1)
Meglio poco con il timore di Jahve,
che un grande tesoro con la discordia! (Prov 15, 16)

Nel modo con cui si cercava di affrontare il fenomeno della povertà,


si può trovare un modello del pensiero sapienziale: nelle prime sen­
tenze citate, essa è apparsa come un fenomeno di carattere negativo,
di cui l'uomo è responsabile. Ma questa verità incontestabile doveva
sussistere vicino ad altre verità del tutto differenti; da una parte, in
effetti, la ricchezza non ha un significato unico, e d’altra parte, sotto
certi aspetti, la povertà può anche apparire come un valore. Queste
« verità » vivono quindi a fianco a fianco senza nuocersi e attestano
l’ambivalenza dei fenomeni studiati.
Per quel che riguarda le cause e gli effetti, si poteva prendere co­
scienza di tutta una serie di esperienze nelle relazioni quotidiane tra
uomo e uomo ed era possibile esprimerle didatticamente. Ma è impos­
sibile citare tutto quel che i maestri hanno notato in fatto di reazioni,
di colpi e contraccolpi negli atteggiamenti piacevoli e spiacevoli degli
uomini tra di loro. Quante esperienze vi sono raccolte sugli effetti dei
castighi (Prov 20,30), dello zelo (Prov 13,4), delle buone compagnie
(Prov 13, 20), delle relazioni con le donne (Prov 12, 4; 18, 22; 23, 27),
con le persone su cui non si può fare affidamento (Prov 10, 26; 12, 17;
14, 25; 16, 27; 17, 8; 24, 23), con i re (Prov 25, 6) e soprattutto sull'ef­
fetto della parola, del discorso buono o cattivo!
Anche in questo caso il campo della psicologia occupa un ampio
spazio. La legge di causa ed effetto è avvertita fin nei movimenti più
intimi dell’anima.
Speranza differita rende il cuore malato,
desiderio soddisfatto: un albero di vita! (Prov 13, 12)
Cuore gioioso rende bello il volto,
cuore afflitto rende lo spirito abbattuto. (Prov 15, 13)
Cuore gioioso, eccellente rimedio,
spirito abbattuto dissecca le ossa! (Prov 17, 22)
Il cuore modifica il volto dell’uomo,
sia in bene, sia in male. (Eccli 13, 25)
Passione e collera abbreviano i giorni,
le preoccupazioni rendono vecchi prima del tempo. (Eccli 30, 24)
Poiché l’afflizione porta alla morte,
cuore abbattuto perde il proprio vigore. (Eccli 38, 18)

Alcune di queste constatazioni del rapporto di causa ed effetto


rischiano di non sembrare gran che importanti al lettore moderno.
Egli dovrà ricordare che il suo atteggiamento nei confronti del mondo
che lo circonda è essenzialmente diverso. Volendo con semplicità for­
mulare la differenza, potremmo dire che l’uomo attuale si stupisce
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 121

molto più di ciò che è irregolare, di ciò che non si può far entrare
nel quadro delle leggi conosciute, mentre gli antichi erano più attenti
al delinearsi di alcune regole costanti nell’intreccio degli avvenimenti
quotidiani. Sarebbe certamente un errore supporre che le regole e le
leggi sono sempre facili da decifrare nel corso degli avvenimenti ; vi
possono essere dei casi in cui la cosa è possibile, ma in altri casi
era necessaria una riflessione molto più penetrante; e in questi casi,
vediamo i saggi impegnarsi a fondo nello sforzo di conoscenza. Questo
si nota in modo del tutto particolare quando vengono ammucchiate
constatazioni paradossali. Che un tale sia generoso e tuttavia si arric­
chisca, mentre un altro è avaro e ciononostante impoverisce (Prov 11,
24), che il pane ottenuto con astuzia sia gradevole al palato, ma dopo
la bocca sia piena di ghiaia (Prov 20,17), che una città piena di guer­
rieri sia assalita e vinta da un saggio (Prov 21,22), che una lingua dolce
possa spezzare le ossa (Prov 25,15), che un uomo sazio disprezzi il miele
quando l’affamato trova dolce quel che è amaro (Prov 27, 7), che l'or­
goglio umilia l'uomo (Prov 29, 23), che le percosse possono essere bene­
fiche al fanciullo (Prov 23, 13 s.): tutto ciò non costituisce a prima
vista una scienza molto sconcertante? Ciò che è buono non lo è sempre,
ciò che è dolce non è sempre dolce, il forte non è sempre forte?
Evidentemente no! Come abbiamo visto in precedenza, si tratta di
nozioni che mostrano come non si debba mai accordare alle cose un
valore assoluto, poiché esse hanno una quantità di significati. In ogni
momento, qualcosa di assolutamente contrario può ergersi contro le
esperienze più collaudate ed è a questo punto che nasce la sorpresa:
questa irruzione del contrario non significa assolutamente l'irruzione
del caos nella conoscenza. Anzi! Gli si fa posto, gli si accorda il valore
di conoscenza acquisita ; si può benissimo veder apparire dietro questo
paradosso, dietro ciò che sembra contravvenire alle leggi, un sistema
di regole nuove.
A questo proposito, è indispensabile ricordare ancora una volta quel
che i saggi possono dire di alcuni effetti di genere particolare, quelli
che da un atto buono o cattivo si riflettono sul loro autore. Solo da
poco tempo vediamo più chiaro in questo problema del rapporto tra
condotta e retribuzione, poiché anche Israele condivideva le idee uni­
versalmente diffuse di una forza attiva, regolare, immanente, che il
male come il bene possedevano. Israele era convinto che ogni atto,
cattivo o buono, liberava un’energia che presto o tardi si ripercuoteva
sul suo autore w. Ciascuno aveva quindi a portata di mano la possi-
19 Opera fondamentale: K. Koch, Gibt es ein Vergeltungsdogma itti A.T., in ZThK 52, 1955, 1 ss.
Vedi a questo proposito le critiche di F. Horst, Gottes Recht (1961), 286 ss. R. Knierim ha accura­
tamente studiato il problema del rapporto tra quest’« ordine » e la libertà d'azione di Jahve in:
Die Hauptbegriffe fiir Siinde itti A.T. (1965), 85 s. Il fenomeno della « sfera d'azione che determina
il destino » (K. Koch) — di fatto, una specie di « ordine » — nelle sentenze della sapienza più
antica è presentato in modo eccellente. Nella storia di Giuseppe, invece, si nega che questa sfera
d'azione operi automaticamente: essa è interamente sottoposta alla volontà di Dio che dispone libe­
ramente deU'uoroo per guidarlo (R. Knierim, op.cit., 85). Su questo contrasto, cfr. p. 180 s.
122 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

bilità di sottomettersi alla forza attiva della maledizione o della bene­


dizione. Questa concezione non era d'altronde specificamente « sapien­
ziale »; essa esisteva da tempo prima di essere formulata didattica-
mente dai saggi. Era così profondamente radicata negli spiriti che nes­
suno in Israele ne era affrancato, neanche i profeti. Geremia descrive
una volta la disgrazia con cui Jahve sta per colpire il popolo come il
« frutto dei suoi pensieri » (Ger 6, 19). È la malvagità di Gerusalemme
che Jahve riverserà su di lei (Ger 14, 16). È utile ricordare che questa
definizione ontologica del bene e del male ha avuto un valore univer­
sale non solo per l'antico oriente, ma anche fino all'alba dei tempi
moderni.
Se in questo caso si tratta, come si è visto, di una conoscenza che
si fondava su una base molto più larga di quel che avviene di regola
per le dottrine insegnate nelle scuole, sarebbe molto sorprendente
che questa regola che determina la vita nel suo fondamento non appa­
risse anche nelle sentenze di scuola. Effettivamente, i maestri non si
stancano di esortare alla vigilanza in questo campo e di mettere sotto
gli occhi degli allievi le conseguenze che ne derivano. Nelle seguenti
sentenze la cosa è detta in modo particolarmente perentorio:
Sicuramente il malvagio non resterà impunito,
ma la posterità dei giusti sarà salvata. (Prov 11, 21)
Rovesciati, i malvagi non sono più nulla;
ma la casa dei giusti rimane. (Prov 12, 7)
Non sbagliano forse coloro che tramano il male?
Benevolenza e fedeltà per chi medita il bene. (Prov 14, 22)
Beni abbondanti nella casa del giusto,
ma le entrate delTempio sono disperse. (Prov 15, 6)
Chi scava una fossa vi cade,
e la pietra ricade su chi la fa roteare. (Prov 26, 27)
Sorprende vedere con quale imparzialità queste constatazioni sono
fatte, veramente come se si trattasse di una legge stabilita, di un fatto
dimostrato. Sarebbe in effetti aberrante voler comprendere queste
sentenze ed altre analoghe da un punto di vista teologico parlando di
un « dogma della retribuzione ». Non si tratta, in queste sentenze, di
un atto giuridico divino, di un'azione giudiziaria che per giunta col­
pirebbe l'uomo con la benedizione o col castigo; si tratta di riconoscere
un ordine, una regola di vita di cui si può fare l'esperienza. Se una
sentenza parla una volta di Jahve in tale contesto, se parla della sua
benedizione o del suo castigo, se dice che egli ricompenserà il mise­
ricordioso per il bene fatto (Prov 19, 17), non è una nuova concezione
che appare, ma molto semplicemente l'idea che è Jahve colui che ha
fondato quest'ordine e veglia su di esso. Affronteremo in seguito le do­
mande di fondo che saranno poste in un'epoca posteriore a quest'or­
dine stabilito in modo così rigido.
Sarà difficile all'osservatore contemporaneo tener conto di tutto que­
sto mondo di rappresentazioni; inclinerà infatti a dedurle da qualche
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 123
teoria estranea alla vita e si stupirà di fronte al suo senso ristretto della
realtà. Ma qualunque sia la sua attenzione nell'accostarla, sarà ancor
lontano dal percepire tutte le insufficienze di questa concezione. Senza
dubbio, molte delle formule che esprimono la suddetta convinzione
hanno un aspetto assai provocante nella loro forma di antitesi brutale ;
tuttavia era necessario che avessero questa forma. Non bisogna nem­
meno interpretarle come se il giusto fosse d'un tratto preservato da
ogni disgrazia. Una buona parte delle opposizioni dall'apparenza troppo
semplicistica tra la benedizione del giusto e la maledizione del mal­
vagio è dovuta alla semplificazione indispensabile ad ogni insegna­
mento. Queste sentenze non domandano di essere comprese in modo
troppo teorico e ve ne son di quelle che parlano molto chiaramente
dell avversità che può colpire il giusto.
Sì, il giusto cade sette volte, ma si rialza,
gli empi, invece, affondano neirawersità. (Prov 24, 16)
Su ogni carne, dall'uomo all'animale
— ma sui peccatori sette volte di più —
cadono la peste, il sangue sparso, la febbre, la spada,
la devastazione, la distruzione, la fame e la morte. (Eccli 40, 8 s.)

Frasi del genere non sono prive di realismo, soprattutto perché


parlano di esperienze che hanno trovato costante conferma e si ripe­
tono incessantemente in una società. La rettitudine sarà sempre
portatrice di effetti che favoriscono lo spirito comunitario, aumenterà
la stima di colui che la pratica, mentre ogni male sarà ben presto
avvertito dalla collettività come un oltraggio che va a ricadere sul suo
autore. Bisogna anche saper aspettare; gli avvenimenti non sono sem­
pre perfettamente chiari sin dairinizio.
Ho visto lo stolto mettere radici,
e d'improvviso la sua casa « corrompersi ».
I suoi figli sono rimasti lontani dalla fortuna,
oppressi alla porta, senza difensori.
Quel che hanno raccolto ha nutrito l'affamato,
[...] gli assetati ne hanno bramato le sostanze.
No, il male non nasoe dalla polvere,
la disgrazia non cresce uscendo dalla terra,
è l'uomo che « genera » la propria sventura,
come le faville volano verso l'alto. (Giob 5, 3-7)
II papiro cresce se non c'è uno stagno?
La canna s'innalza dove non vi è acqua?
Anche strappata nella sua freschezza,
prima di ogni erba si dissecca.
Questa è la sorte di chi dimentica Dio,
così svanisce la speranza di ogni empio. (Giob 8, 11-13)

Che si tratti di male o di bene, si allude sempre a forze che hanno


un ampio raggio d azione, poiché la bontà di un uomo non fa del bene
124 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

a lui solo, ma anche alla generazione che segue, come i discendenti


del malvagio sono colpiti dalla sua rovina20.
Ritroviamo qui la concezione essenzialmente pragmatica della natura
del bene e del male che avevamo già messo in evidenza in un capitolo
precedente21. Il bene — l'abbiam visto — non è mai stato considerato
unicamente come un fenomeno morale; il bene e i beni sono una sola
e medesima realtà. Beninteso, il merito e l'onestà d'un uomo fanno
parte del suo valore, della sua bontà; ma d'altronde anche il successo
e una vita ricolma di beni ne sono parte integrante. Questa realtà del
bene e del male che non determinava soltanto la vita dell'individuo,
ma aveva pure un significato sociale, è stata descritta in varie maniere
dai maestri. Tipicamente di origine sapienziale è la trasformazione delle
vecchie concezioni popolari in poemi didattici imponenti, come li tro­
viamo nei discorsi degli amici di Giobbe2Z. Vi sono due novità: da una
parte la forma artistica elegante che sa servirsi di effetti di contrasto,
dall'altra parte il fatto di estendere le antiche concezioni all'insieme
della vita. Se prima l'interesse era legato soprattutto alle conseguenze
di un determinato atto individuale, ora si descrive l'intero quadro di
una vita che soggiace alla legge degli effetti duna maledizione:
La luce del malvagio deve spegnersi,
la sua fiamma ardente non può brillare.
La luce si oscura sotto la sua tenda,
e la sua lampada, sopra di lui, si spegne.
I suoi passi vigorosi son trattenuti;
i suoi progetti « lo portano alla caduta ».
poiché i suoi piedi lo gettano in un laccio,
ed egli avanza in mezzo a reti.
La trappola lo prende al tallone,
il laccio lo stringe solidamente.
II nodo che deve prenderlo è nascosto in terra,
un tranello lo attende sul sentiero.
Egli è in preda a terrori ossessionanti,
che lo seguono passo passo.
La sua rovina lo insegue affamata,
e la disgrazia si tiene a suo fianco.
Il malie divora la sua pelle,
le sue membra sono divorate dal primogenito della morte.
Viene strappato dalla sua tenda dove si credeva in sicurezza,
è trascinato verso il re dei terrori...
Il suo ricordo scompare dal paese,
il suo nome viene cancellato dalla contrada.
Spinto dalla luce alle tenebre,
egli si vede bandito dalla terra.

30 Prov 11, 21b; 14, 26; 20, 7; Giob 15, 34; 18, 16. 19; 27, 14; Eccli 44, 10 s. « Sì, la stirpe del­
l'empio è sterile; un fuoco divora la tenda dell’uomo venale » (Giob 15, 34). Si confronti con Esio­
do: « Se qualcuno rende intenzionalmente una testimonianza menzognera con falso giuramento, pro­
fana il diritto e lo rende irrimediabilmente cieco. La sua discendenza scomparirà neU’awenire,
oscura e dimenticata. Ma chi ha giurato la verità, la sua discendenza è benedetta nell'awenire »
(Le Opere e i Giorni, w . 282-285).
21 Vedi pp. 78 ss.
29 Vedi pp. 43 ss.
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 125

Egli non ha né discendenza, né posterità nel suo popolo,


nessun superstite nel suo esilio.
La sua fine tragica colpisce di stupore l'occidente,
e l'oriente ne è colpito di spavento.
Questa dunque è la posizione dell'empio,
questo il destino di chi non conosce Dio. (Giob 18, 5-21)

Il poema comincia con l'immagine del focolare le cui ceneri si raf­


freddano e delle lampade che si spengono. La casa non è più abitata!
Poi descrive retrospettivamente le reti in cui cade l'uomo maledetto.
Egli è abbandonato a tutte le tentazioni immaginabili; in una parola
porta in sé la maledizione. Senza discendenza, egli è oggetto di spa­
vento per una vasta cerchia di persone. Tutto ciò non avrebbe potuto
essere detto nello stesso modo dal coro di una tragedia attica? Tutto
è descritto come se nel concatenamento complesso di fatalità si com­
pisse una necessità immanente. Non si parla di un intervento divino
diretto e quel che è curioso è l'interesse testimoniato per la psicologia.
Gli effetti della disgrazia nella vita intima delluomo hanno sempre
più preoccupato i saggi. Nella Sapienza di Salomone (1 secolo a. C.), si
trova una descrizione particolareggiata di tutti i terrori e le allucina­
zioni che assalgono i nemici del popolo di Dio, « chiusi nella prigione
senza chiavistelli » della loro angoscia. Il testo è un documento di un
realismo psicologico e anche psichiatrico inquietante23. Non possiamo
riprodurne che dei frammenti:
Che si fosse agricoltori o pastori oppure occupati in lavori solitari, sorpresi,
si subiva l'ineluttabile necessità; poiché tutti erano stati legati dalla stessa
catena di tenebre. Il vento che soffia, il canto melodioso degli uccelli sui
rami fronzuti, il mormorio armonioso delle acque che precipitano il loro
corso, il rude fracasso delle rocce che cadano a valanga, la corsa invisibile
di animali saltellanti, gli ululati delle bestie più selvagge, l'eco che rimbal­
zava nelle cavità delle montagne: tutto li riempiva di terrore e li paralizzava.
Il mondo intero infatti brillava di luce scintillante e attendeva liberamente ai
suoi lavori; su di essi soli si stendeva una pesante notte, immagine delle te-
tenebre che erano loro riservate. Ma più che le tenebre, essi erano di inco­
modo a se stessi. (Sap 17, 16-20)

Quanto al bene, era esso pure una potenza e i maestri si sono inge­
gnati a spingere i loro allievi a confidare in questa potenza vivificante.
Sono dottrine belle e veramente sagge che essi hanno offerto, come
quella della forza salutare della buona parola24. Anche in questo caso,
la conoscenza del potere riparatore di una buona condotta è legata
ad uno sguardo profondo nell'intimità dell'uomo. Ma non bisogna
perdere di vista che, nelle sentenze seguenti, non vengono trasmessi
imperativi categorici, bensì esperienze fissate all'indicativo. Chiudere
gli occhi con indulgenza mantiene ed edifica le relazioni con gli altri.

23 H. Tellenbach, Sinngestalten des Leidens und des Hoftens, in « Conditio humana » (Festschrift
E. W. Strauss, 1966), 310.
24 Prov 12, 18: «La lingua dei saggi guarisce », 12 , 20.25; 15, 1.
9. von rad. la sapienza in isracic
126 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

Con la benevolenza e la fedeltà si espia il peccato,


col timore di Jahve si evita il male. (Prov 16, 6)
Chi getta il velo su un errore coltiva l'amicizia,
chi divulga la cosa divide gli amici. (Prov 17, 9)
L'abfflità d’un uomo sta neiressere longanime,
la sua fierezza sta nel passare su un'offesa. (Prov 19, 11)
Se il tuo nemico ha fame, dàgli da mangiare,
se ha sete, dissetalo.
Così accumuli carboni sulla sua testa,
e Jahve lo compirà per te! (Prov 25, 21 s.)25
Se Tumore del re si mostra contro di te,
non lasciare il tuo posto:
la calma infatti evita molti errori. (Eccle 10, 4)
Per finire il nostro esame del pensiero dei saggi sulla causalità,
bisogna ancora menzionare una curiosa esitazione, una riserva reli­
giosa di cui Israele deve essersi occupato fino ad un'epoca molto tar­
diva, nel campo terapeutico. Era possibile in questo settore indurre
altrettanto facilmente — o altrettanto difficilmente — alcune cause
da alcuni effetti? Sfortunatamente abbiamo un solo testo che ci dia
uno scorcio illuminante sulle riflessioni dei saggi:
Sii amico del medico, poiché di lui si ha bisogno,
e anche a lui, Dio ha attribuito un ruolo36.
È in effetti da Dio che il medico è istruito,
e dal re che riceve doni.
La scienza del medico gli fa portare la testa alta,
ed egli può stare davanti ai nobili.
Dio trae dalla terra i rimedi
che l’uomo assennato non disprezza.
Non è forse il legno che ha reso dolce l'acqua,
per manifestare il suo potere di fronte ad ogni uomo?
È lui che dà agli uomini l'intelligenza,
per essere glorificato dalle sue opere potenti.
Con esse il medico calma il dolore,
e il farmacista ne fa dei miscugli,

35 La formula dei « carboni ardenti » si spiega con un rito di espiazione egizia nel corso del
quale il colpevole portava sulla testa, in segno di conversione, un catino pieno di carboni ardenti;
cfr. S. Morenz, in ThLZ 78, 1953, 187 ss. La traduzione « Jahve lo compirà per te » parrà poco abi­
tuale; ma il verbo ebraico non si traduce in ogni caso con « contraccambiare », « ricompensare »,
come se Jahve aggiungesse qualcosa all'atto umano mettendovi « di tasca sua », se così si può dire.
Il verbo Sillém dev'essere compreso partendo dalla relazione condotta-retribuzione e significa
« rendere completo », « perfezionare », nel senso che Jahve, nel momento di una buona azione,
suscita il rapporto condotta-retribuzione. D'altra parte se ne parla altrove come del funziona­
mento di una regola neutra. Ma, per un insieme di nozioni così generalmente diffuse, non ci si può
aspettare un'identità di espressione. Sulla base di quanto abbiamo visto in precedenza (pp. 65 ss.)
non c'è nulla di sorprendente nel fatto che una volta questo rapporto condotta-retribuzione sia
concepito come il funzionamento di una regola, un'altra volta come un atto compiuto direttamente
da Jahve. K. Reinhard ha fatto notare in Erodoto un bell'esempio di presentazione del tutto natu­
rale e tuttavia deliberata di « retribuzione » che colpisce l ’autore di un atto: la morte di Cambise
corrisponde esattamente al sacrilegio che ha commesso verso il bue Api egizio (Erodoto III, 29, 64),
cfr. K. Reinhard, Vermachtnis der A n tik e (1960), 156 s. « Il castigo interviene da se stesso per
meccanismo immanente, secondo Solone * (H. Frànkel, op. cif., 270).
36 Molti traduttori preferiscono il testo greco che parla di « creato ». Ma l'ebraico hàlak non
significa mai creare, bensì « spartire » tra diverse persone. È meglio attenersi al testo ebraico, poi­
ché l’idea di una « parte » attribuita da Dio all'uomo è attestata nella letteratura didattica (Eccle
2, 10. 21; 3, 22, ecc.).
VII. ELEMENTI DI UNA PADRONANZA DELLA REALTÀ 127

affinché le sue opere non scompaiano


e l'aiuto venga dalla terra.
Figlio mio, nella malattia, non tardare,
prega il Signore, ti guarirà.
Allontanati dall'ingiustizia, conserva le mani pure,
offri la tua offerta, il sacrificio di commemorazione,
presenta un'offerta pingue nella misura in cui i tuoi mezzi lo permettono!
Ma fa ricorso anche aJ medico,
ed egli non si allontani d a te,
poiché tu hai anche bisogno di lui.
Vi sono momenti in cui il buon esito è nelle sue mani,
poiché lui pure invoca Dio,
affinché faccia riuscire la sua diagnosi
e accordi la guarigione e il rimanere in vita.
Chi pecca agli occhi del suo Creatore
cade nelle mani del medico! (Eccli 38, 1-15)
Quel che sorprenderà il lettore, è la diversità di idee che qui si
presentano quasi con incoerenza. In questo testo, si ha tanto a che
fare con un poema didattico omogeneo quanto con una successione
di opinioni discutibili molto diverse che si possono sostenere di fronte
a questo 0 a quell’altro problema. Il problema sta qui: come com­
portarsi di fronte alla malattia? Che ne è della legittimità del medico?
Se si parte dall’ultima frase lapidaria che conclude il brano, la legit­
timità e la necessità del medico sono riconosciute. Ma quel che è inte­
ressante è l’esitazione, la costrizione con cui questo « sì » è pronun­
ciato. L’evidenza empirica non è ancora giunta a imporne pienamente
la legittimità; la prova ha ancora qualcosa dell'effetto dell'aceto sui
denti, o del fumo negli occhi (Prov 10,26). Ci troviamo piuttosto di
fronte ad una enumerazione molto particolareggiata di vari argo­
menti teologici: è Dio stesso che assegna al medico il campo della sua
attività; lui pure prega Dio affinché la diagnosi riesca ed è Dio stesso
che fa crescere le piante medicinali. Viene anche avanzata ima prova
scritturistica per raccomandare l'uso dei rimedi (allusione al racconto
di Es 15, 23-25).
Come in tutto l’antico oriente, anche in Israele la medicina si è
liberata con estrema lentezza dagl’impacci del sacro. In Israele il pro­
cesso era inoltre rallentato da difficoltà particolari. Non solo gi era
imposto di distaccarsi da credenze profondamente radicate nel potere
dei demoni, o nel monopolio di alcuni dèi guaritori rinomati (cfr. 2 Re
1, 6), ma anche dall’idea di una funzione e di un privilegio di Jahve;
l’dea infatti che Jahve era il solo a poter guarire si è propagata in
Israele con un esclusivismo particolare (Es 15, 26) 2!. D'altronde non è
ancora Jahve colui che provoca la malattia? è forse ima punizione?
Perciò si poneva la domanda: si aveva il diritto di usurpare il privi­
legio terapeutico di Jahve? Infatti questo gusto di conoscere che si
esercitava con tale ingenuità in tutti i campi incontrava di colpo un
problema che toccava la radice stessa della fede in Jahve. Beninteso,
V Es 15, 26; Deut 32, 39; 2 Re 5, 7; Os é, 1; Giob 5, 18, ecc.
128 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

in Israele non si disdegnava a priori la terapeutica e l’uso dei rimedi


e, come nel resto del mondo, si utilizzavano le conoscenze disponibili
dell’epoca. Tuttavia la guarigione sopraggiungeva solo in alcuni casi,
in alcune condizioni specifiche, e non poteva essere paragonata nella
sostanza con qualsiasi altra tecnica in cui l’uomo si serviva delle sue
conoscenze delle leggi di causalità per raggiungere gli obiettivi fissati.
Jahve era competente in un senso molto più diretto ; gli uomini, sacer­
doti o profeti, erano in questo campo semplicemente i suoi servitori.
Quel che era dibattuto, non era quindi l’uso dell’arte di guarire in sé,
ma il fatto di sapere se l’esercizio della medicina poteva essere affidato
a una professione profana che facesse a meno dell’autorizzazione del
sacro. Si può così definire la posizione del Siracide come una delle
ultime, decisive tappe del razionalismo. Ma la vittoria non sembra
ancor del tutto acquisita, poiché il Siracide deve faticare parecchio
per dimostrare in modo sempre nuovo che l’arte medica è anche al
servizio di Jahve. L’ultima idea espressa minaccia di rovesciare nuo­
vamente l’intero edificio così laboriosamente costruito in favore della
legittimità dell’arte medica.
Pare che il narratore del libro di Tobit non abbia più conosciuto
questo problema. Nella descrizione di una guarigione avvenuta, mostra
come l’arte medica fosse ancora, anche ad un’epoca tardiva, stretta-
mente imparentata con l’esorcismo. Il fegato e il cuore di un pesce
bruciati su brace d’incenso cacciano il demonio che minacciava gli
sposi la notte delle nozze (Tob 6,17 ; 8,2). Invece, la guarigione della
cecità del padre col fiele del pesce non ha nulla di miracoloso, ma è
di carattere puramente medico. Il trattamento è descritto con un vivo
interesse per i particolari: Tobia sparge il fiele sugli occhi del padre
« e quando essi furono bene cosparsi, gli sfregò gli occhi e le pellicole
bianche caddero in scaglie dai due lati delle sue palpebre » (Tob 11, 12).
Abbiamo qui l’esposizione di un capitolo di medicina ebraica. Sap­
piamo d’altronde che questa terapia era diffusa nell'antichità28; in
questa occasione è lo stesso messaggero divino che la insegna agli
uomini. Tuttavia le guarigioni sono intraprese dagli uomini che sono
stati beneficiari di questo tipo d’insegnamento. È molto probabile che
questo racconto abbia inteso eliminare le obiezioni e le riserve nei
confronti di simili terapie. I lettori che hanno una cultura sapienziale
e per i quali questo libro è stato scritto, avranno letto comprendendoli
i testi medici e nello stesso tempo saranno rimasti fortificati nella
loro convinzione della legittimità di questa terapia. È un angelo che
l’ha insegnata ed è a lui che gli uomini devono questo sapere benefico.

28 L’uso del fiele del pesce per il trattamento delle malattie degli occhi è attestato a parecchie
riprese nelle fonti antiche. Troviamo un esempio assiro in F. Stummer, Echter Bibel, ad loc.
Vili
VI È UN TEMPO PER OGNI COSA..

Vi è un tempo per ogni cosa, un tempo per fare tutto sotto il cielo,
tempo di partorire e tempo di morire,
tempo di piantare e tempo di sradicare,
tempo per uccidere e tempo per curare,
tempo per abbattere e tempo per costruire,
tempo per piangere e tempo per sorridere,
tempo per lamentarsi e tempo per danzare,
tempo per lanciar pietre, tempo per raccoglierne,
tempo di abbracciare, tempo di fuggire l'abbraccio,
tempo per cercare, tempo per smarrire,
tempo per custodire e tempo per gettare,
tempo per stracciare e tempo per ricucire,
tempo per tacere e tempo per parlare,
un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace. (Eccle 3,1-8)1
Ecco ancora un poema didattico! All'inizio è posta la tesi, il tema
dell'insegnamento. Il corpo del poema ha come scopo quello di dimo­
strare, in modo concreto e in una forma molto vicina ai proverbi
numerici, la tesi formulata in teoria e in modo generale. Questa dimo­
strazione si opera per mezzo di una serie di antitesi — ve ne sono
quattordici — che lasciano chiaramente intendere come dev'essere
compreso il tema dell'insegnamento posto bruscamente all'inizio: di
due cose contrarie non se ne può fare che una alla volta2 e per sapere
ciò che conviene fare in ogni caso, bisogna sapere che ogni cosa ha il
suo momento favorevole. Questo poema didattico è inserito in un con­
testo sapienziale relativamente recente che trae conseguenze personali
da questa dottrina nel corso di una riflessione molto calzante. Sem­
brerebbe indiscutibile trattarsi di una conoscenza acquisita in epoca
tardiva, mentre si tratta piuttosto di una tesi che si è trovata in ogni
1 Su Eccle 3, 1-11 vedi K. Galling, Das Rdtsel der Zeit im Vrteil Kohelets, in ZThK 58, 1961,
1 ss. Vi si trovano anche riflessioni sui singoli problemi; cfr. più di recente J. R Wilch, Time and
Event (1969), 118 s.
2 K. Galling, op. cit., 6.
130 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PASTE I II

tempo al centro della sapienza dell'antico Oriente3. D'altra parte lo


studio del fenomeno in causa potrebbe continuare ancora nella storia
del pensiero. Di che cosa si tratta?
Abbiamo nuovamente qui un'esperienza elementare accessibile ad
ogni uomo, in tutti i tempi e a tutti i livelli di civiltà: l’attività umana
non ha lo stesso successo e la stessa opportunità in ogni momento,
ma il suo successo e il suo significato sono legati ad alcuni momenti,
la possibilità di riuscita dipende dall'istante favorevole. Vi è nuova­
mente in questo caso un’esperienza dei limiti imposti alla volontà
umana di vivere: l’uomo non può fare altro che piegarsi a questa neces­
sità, poiché essa sfugge ad ogni influenza. Se non vi è nient’altro da fare
che constatare questo limite come un dato di fatto, all’uomo è lecito
in cambio riflettervi — anzi di più: egli può tentare di trarne profitto
e di riconoscervi una specie di regola misteriosa. In ogni caso, questa
esperienza confermava la constatazione già fatta prima in un altro con­
testo, che cioè nelle esperienze del mondo che circonda l’uomo non si
poteva scoprire nulla che possedesse un valore assoluto. Tutto ciò che
cadeva sotto l’esperienza era in una maniera o in un'altra limitato e
relativo.
Quel che è in causa è l’enigmatica dipendenza di ogni avvenimento
nei confronti del « tempo favorevole »4. L'albero porta frutto « a suo
tempo », i covoni vengono riposti nel granaio « a loro tempo » (Giob
5,26), gli uccelli migratori conoscono « il loro tempo » (Ger 8,7 ; cfr.
Gen 31, 10). Quando una fanciulla arriva all’età delle nozze, il suo
« tempo » è venuto (Ez 16, 8). È essenziale che ogni impresa umana
abbia luogo a suo tempo. Ciò è particolarmente vero della parola
umana che — com'è noto — era posta dai maestri di sapienza in cima
a tutti gli elementi che danno un senso alla vita.
Gode l’uomo che sa rispondere bene,
quanto è gradevole una parola detta a proposito! (Prov 15, 23)
Frutto d’oro su cesellature d’argento,
cosi una parola detta a proposito. (Prov 25, 11)
Musica in giorno di lutto, tale è un racconto in tempo inopportuno,
ma la sferza e la correzione sono in ogni tempo la sapienza. (Eocli 22, 6)
Non trattenere la tua parola nel momento in cui può essere utile. (Eccli
4,23)
Al contrario, se i « tempi sono tristi » e non è data alcuna possibilità
alla parola, « il saggio tace » (Am 5, 13). Anche per il medico vi è un
tempo propizio affinché il suo intervento riesca (Eccli 38, 13; Ger 8,15).
3 H. H. Schmid, op. cit., 33 s.; « Lo scopo dell’insegnamento sapienziale era in gran parie
quello di conoscere il tempo giusto, il luogo giusto, la misura giusta dell’azione umana » (Schmid,
op. cit., 190). Vedi la sentenza di Pittacos: « Conosci il momento favorevole] », B. Snell, Leben und
Meinungen der sieben Weisen (1952), 101.
4 W. Zimmerli, Das Buch des Predigers Salomo (1962), passim. La parola ebraica usata r/r non
corrisponde esattamente al nostro « tempo ». Da una parte, è più ristretta, perché tende a signifi­
care « tempo fissato », « tempo opportuno », « momento ». D’altra parte è più vasta, poiché laspetto
temporale può passare in secondo piano, cosicché la si può rendere con « occasione », « possibi­
lità »; cfr. J. R. Wilch, op. cit., 129 e passim,
V ili. VI È UN TEMPO PER OGNI COSA.. 131

La più bella illustrazione della tesi del momento favorevole per ogni
cosa è sviluppata nel mirabile poema suirattività del contadino. A
prima vista la sua attività pare sorprendentemente incoerente e biz­
zarra, ma si dimostra subito piena di senno quando si pensi che egli
sa esattamente in qual momento iniziare il suo lavoro. Non passa il
suo tempo in arare; interrompe quest'attività per dedicarsi ad un altro
lavoro per il quale nel frattempo è giunto il momento opportuno.
Prestate orecchio ed ascoltate la mia voce!
Siate attenti a ben comprendere la mia parola!
Il contadino non fa che arare?
Solca, erpica senza posa la terra?
Dopo averne spianato la superfìcie,
non vi semina forse Taneto e il cimino,
poi il gramo e l'orzo nel luogo opportuno,
e il farro al margine?
Colui che gli ha insegnato queste regole,
è il suo Dio che l'ha ammaestrato.
L'aneto non viene schiacciato col rullo,
e la ruota del carro non passa sul cimino.
Si batte l'aneto col bastone,
e il cimino con la verga.
Si schiaccia il frumento da pane?
Non lo si calpesta senza fine,
non gli si fa passar sopra la ruota del carro e i cavalli,
non lo si macina.
Questo pure viene da Jahve Sabaot,
il cui consiglio è mirabile e la capacità immensa. (Is 28, 23-29)5

Le due strofe si chiudono — la seconda in modo più accentuato —


con l'indicazione che l'agricoltore ha ricevuto da Dio stesso un inse­
gnamento per la sua complessa attività. Vi è qui un problema scot­
tante, poiché l'uomo non può essere soddisfatto di constatare la propria
dipendenza totale dal tempo che capita. La sua volontà di vivere si
troverebbe sottomessa ad un'incertezza quasi insopportabile e ciò so­
prattutto perché questo limite è sempre mobile e riappare continua-
mente in un altro luogo. L'informazione, presente nel poema sul con­
tadino, che Dio gli comunica ad hoc le istruzioni necessarie vale, in

5 Si può paragonare a questo testo Prov 27, 23-27:


« Bada bene allo stato del tuo bestiame minuto,
abbi cura del tuo gregge;
poiché la ricchezza non è eterna,
un tesoro non si trasmette di generazione in generazione.
Dopo la falciatura dell'erba, appare il guaìmo
e il fieno delle montagne viene raccolto;
Vi sono agnelli per i tuoi vestiti,
capri per pagare i tuoi campi,
latte di capra a sufficienza per nutrirti (...)
e per il mantenimento delle tue serve ».
Questo poema didattico è lungi dal raggiungere l’arte di quello dTs 28, 23 ss. Il suo contenuto
non è molto elevato e si avvicina piuttosto alle regole paesane piene di bonomia: Non trascurare
nulla nel tuo lavoro agricolo! Al contrario, in Is 28, 23 ss., non è il contadino ad essere istruito,
ma è l’alunno che impara il significato del lavoro della campagna per essere incitato a trame u n
sapere fondamentale.
132 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

modo così assoluto, solo per questo mestiere particolare. Sfortunata­


mente non lo si poteva dire in blocco di ogni attività umana. All’uomo
non restava nient’altro da fare che affrontare egli stesso, a partire da
ciò che poteva conoscere, questa realtà contingente che lo minacciava.
Non ha forse la possibilità di conoscere, con l'aiuto di un esame preciso
delle circostanze, il tempo favorevole per un atto e di piegarsi al tempo
che capita agendo o astenendosi dall'agire? I maestri hanno risposto
affermativamente a questa domanda. Essi hanno ritenuto che si potesse
benissimo insegnare all'uomo a riconoscere il momento favorevole
di un’azione anche nei casi difficili, attraverso una stima accurata delle
circostanze e un esame preciso della situazione. « Figlio mio, fa’ atten­
zione al tempo favorevole »! (Eccli 4, 20). È certo che i maestri della
sapienza antica hanno pure guidato i giovani con quest’esortazione,
raccomandando loro di adattarsi secondo le possibilità al fenomeno
del tempo conveniente, di esaminare le circostanze che si presentavano
e di utilizzare il momento riconosciuto opportuno. Se in questo campo
si erano riunite e studiate esperienze per prevedere il rischio del tem­
po6, si poteva anche aspettare il momento favorevole senza apprensione:
L’uomo paziente resiste fino all’ora (favorevole),
ma alla fine la sua gioia aumenta.
Trattiene le parole fino al momento (giusto),
e le labbra di molti narreranno la sua intelligenza. (Eccli 1, 23 s.)
Così quel che era un limite è potuto diventare una felice occasione,
poiché l’uomo vi ricavava la possibilità di afferrare quel che a tutta
prima era stata una limitazione sgradevole della propria vita e di fame
lo strumento della propria signoria per poter ancora percorrere, per
quanto possibile, una parte del cammino col vento in poppa. Se l’occa­
sione favorevole si presenta, bisogna saper cogliere quel che essa ci
offre, bisogna « riscattarla » (Ef 5, 16). La sapienza era anche questo:
saper discernere il momento buono. Come di un bimbo ancora nella
matrice, si poteva dire che non era « abile », che non era saggio, se
non coglieva il momento propizio per inoltrarsi nel collo dell’utero
(Os 13, 13).
Qui, l’Ecclesiaste esprime il suo disaccordo. È ancora pienamente
d’accordo con la tradizione sul fatto che ogni cosa, ogni atto ha il suo
momento favorevole, ma quale vantaggio c’è per colui « che lavora »,
se non « può trovare » (Eccle 3, 11) coi propri mezzi la regola del tempo
stabilita da Dio, che è senza dubbio saggia e ben concepita?
Affrontando questo difficile problema, non bisogna dimenticare che
l’Ecclesiaste lo coglie da un lato del tutto nuovo, nel suo aspetto teo­
logico: può l’uomo riconoscere i tempi come Dio li ha fìssati per lui?
Ma questo non è il senso di ciò che gli antichi saggi insegnavano. Essi
concepivano la conoscenza del tempo in modo molto più secolare, come

6 K. Galling: « Non ricava alcun beneficio finché non può far entrare nei suoi piani il “rischio’
del tempo » (op. cit., 2).
V ili. VI È UN TEMPO PER OGNI COSA.. 133

un elemento dell’arte di vivere che si sforza di lasciarsi istruire dal­


l’esperienza.
Nel libro dei Proverbi, vi sono relativamente pochi testi riguardanti
quest’insegnamento. Grazie alle indicazioni fornite da altre fonti lette­
rarie, li si può completare in modo tale che non rimane alcun dubbio
che questa concezione era profondamente radicata nella sapienza cor­
rente d’Israele. Se si fosse del parere che l’idea del tempo conveniente
non può aver avuto la sua origine che nel quadro di un rigido determi­
nismo teologico, essa sarebbe difficilmente conciliabile con le idee della
fede in Jahve dell’epoca precedente. Lo Jahve dei profeti che ricreava
ogni ora storica in un « turbine tempestoso » e che poteva all’occor-
renza «pentirsi» delle sue decisioni, non era lo stesso Dio che ha fissato
in anticipo il suo tempo ad ogni avvenimento. Ma il fatto di sapere
che le cose hanno il loro tempo e che lo si può riconoscere in qualche
modo, può essere compreso in diversi modi, non unicamente dal punto
di vista di una dottrina della predestinazione di cui farebbe parte.
Se vi era un tempo in cui i re si mettevano in guerra (2 Sam 11, 1), in
cui i covoni venivano riposti nel granaio, in cui una buona parola
comunicava qualcosa, si era ancora estremamente lontani da ogni idea
di una predeterminazione fatale risalente alle origini. La conoscenza del
tempo favorevole era, come ogni conoscenza dei maestri antichi, fon­
data sulla esperienza affatto semplice di alcuni ordinamenti, di alcuni
limiti che si potevano discernere nelle cose. E questo sapere, come
ogni altro sapere, era racchiuso agli occhi degli antichi maestri nella
fede in Jahve, in modo tale da non limitare né la libertà di Jahve né
quella dell'uomo. Nell’Ecclesiaste, è vero, la dottrina del tempo sembra
già legata ad un determinismo teologico; con questo essa si è mutata
inaspettatamente in una grave inquietudine7.

7 Vedi più sotto, pp. 236 ss.


IX
L'AUTORIVELARSI DELLA CREAZIONE

Affrontiamo a questo punto uno dei problemi più frequentemente


discussi di tutta la letteratura sapienziale. Come devono essere intesi
i grandi poemi didattici come Prov 8# Giob 28, Eccli 24 ed altri, che
parlano della « sapienza » come di una realtà personificata, immanente
alla creazione? Non è facile abbracciare con un solo sguardo la lette­
ratura scientifica su questo tema. Se la si passa in rassegna, potrebbe
sembrare che il più grande enigma risieda nel problema dell'origine
storica di questo gruppo di nozioni veramente singolare, le quali par­
lano di una sapienza che si rivolge personalmente all'uomo. Si è ri­
sposto in modo molto vario a questo problema certamente importante;
ma esso è secondario rispetto ad un altro problema, quello del signi­
ficato per la fede in Jahve di questa concezione come attualmente
appare nei testi. (Se si crede di poter parlare di una ipostasi, non si è
dispensati dall'obbligo di rispondere alla domanda: Che cosa intendeva
Israele precisamente con questo?). A prima vista, i testi in questione
appaiono totalmente isolati, sembrano non aver alcun legame con il
loro contesto, hanno l'aspetto di massi erratici. Ma, dopo una constata­
zione del genere, bisognerebbe ancora chiedersi se questo gruppo di
nozioni non dovrebbe essere interpretato a partire da raggruppamenti
più vasti.
È chiaro che i testi suddetti causano difficoltà all'esegesi. Ciò si deve
innanzitutto alla loro mancanza d'interesse per le definizioni che do­
vrebbero fornire al lettore e che ci paiono indispensabili; e d'altra
parte ciò si deve all'estrema enfasi poetica che troviamo in essi. In
effetti, il cumulo patetico di termini ha sovente come effetto quello di
mantenere incerto il senso di ciò che si dice, rendendone difficile la
definizione. Ma la difficoltà in cui ci troviamo come interpreti può
provenire, in parte almeno, dal fatto che ci accostiamo a questi testi
ponendo problemi che non sono coerenti con la loro ottica. Noi cer­
chiamo idee, domandiamo definizioni, vogliamo concetti, quando Israe­
le parla di fatti e descrive un avvenimento. Bisognerà tenere presente
questo tipo di divergenza.
IX. L#AU TORI VELARSI DELLA CREAZIONE

I. L a s a p ie n z a i m m a n e n t e a l m o n d o

1. Vi sono per l'argento le miniere,


per l'oro luoghi dove lo si raffina.
2. Il ferro viene estratto dal suolo,
si trae il rame dalla pietra fusa.
3. Si mette fine alle tenebre,
si esplora fin nelle profondità...
4. Dimenticati, senza un luogo su cui posare il piede,
sono sospesi, penzolano lontano dagli uomini.
5. La terra da cui esce il pane,
la si rigira in profondità, « con » il fuoco.
6. Qui, le pietre sono il giacimento dello zaffiro
che contiene particelle d’oro.
7. Vi è un sentiero: nessun rapace lo conosce,
l'occhio dell'avvoltoio non lo vede,
8. le bestie selvatiche nobili non lo calpestano,
il leoncello non vi ha mai camminato.
9. Si mette la mano sulla roccia,
si rovesciano i monti dalle loro basi.
10. Nella roccia si scava una galleria,
e l'occhio scorge ciò che è prezioso.
11. Si chiudono le perdite d’acqua perché non gocciolino più,
si porta alla luce ciò che era nascosto.
12. Ma la sapienza da dove viene?
Dov'è il giacimento dell'intelligenza?
13. Nessun uomo ne conosce il prezzo,
non la si trova sulla terra dei viventi.
14. L'oceano primordiale dice: « lo non la contengo *,
il mare dice: « Non sta presso di me ».
15. Non la si può scambiare con oro puro,
o pagarla a peso d'argento.
16. Non la si pesa in cambio dell'oro di Ofir,
dell’agata preziosa o dello zaffiro.
17. Non può essere paragonata all’oro o al vetro,
non la si può scambiare con un vaso di oro fino.
18. Coralli e cristalli non meritano menzione,
possedere la sapienza vale molto più che le perle.
19. Al confronto con essa il topazio di Kush non ha valore,
l'oro puro non entra in paragone con essa.
20. Ma la sapienza da dove viene?
Dov'è il giacimento dell’intelligenza?
21. Essa è nascosta agli occhi di ogni vivente,
è occulta agli uccelli del cielo.
22. L'abisso e la morte dichiarano:
« È per sentito dire che la conosciamo ».
23. Dio salo ne conosce la via,
lui solo sa dove essa si trovi.
136 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

24. Poiché egli vede fino alle estremità della terra,


egli scorge tutto quanto è sotto i cieli.
25. Quando determinò il peso del vento,
quando fissò la misura per le acque,
26. quando impose le leggi della pioggia
e .tracciò la strada al rombo del tuono,
27. allora la vide e la soppesò1,
■la eresse e la mise alla prova,
28. (Poi disse all'uomo: Ecco, il timore del Signore è la sapienza,
fuggire il male, ecco l'intelligenza.) (Giob 28)

In questo poema che non manca di potenza2 vi è un'idea molto sem­


plice che viene sviluppata con ampiezza, con una sorta di compiacenza
ad accumulare le parole. In contrasto sorprendente con le sue capacità
quasi illimitate di « homo faber », l'uomo non può assolutamente deter­
minare il luogo in cui si trova la sapienza, mentre sarebbe la cosa
più preziosa di tutte. Dio solo l'ha vista e instaurata. Per fare risaltare
con più forza questo contrasto, il poema dipinge la cosa più straordi­
naria che l'ingegnosità umana osa intraprendere: la perforazione di
gallerie nella montagna. L'uomo penetra in un'oscurità assolutamente
sconosciuta; anche là dove lo sguardo penetrante degli animali selva­
tici nulla vede, egli trova ancora un cammino. La durezza della roccia
non lo ferma, giunge a colmare cascate d'acqua; nei pozzi delle miniere,
gli uomini sono sospesi a corde! È così che luomo giunge a portare alla
luce pietre e metalli preziosi. Ma dove si trova la sapienza, da dove
viene? La nozione di « sapienza » è posta parallelamente a quella d'« in­
telligenza » (bina), come sinonimo, il che mostra una volta di più che
non vi è interesse per una definizione concettuale precisa. Evidente­
mente chi legge o ascolta sa già di che si parla. Il secondo stico non
dà l'impressione di portare novità. Per noi le nozioni di « sapienza »
e d'« intelligenza » hanno qualcosa di strano in tale contesto, poiché
non designano una virtù umana o qualcosa che l'uomo possa acqui­
stare, ma al contrario qualcosa di molto lontano dall'uomo. Nulla si
può dire del luogo in cui si trova: essa non è né nell'oceano primordiale
né nel mare; nessun essere vivente l'ha vista. Tutto ciò che si può dire
è che, alla creazione del mondo, Dio ha avuto a che fare con essa. Le
espressioni vaghe — egli « l'ha calcolata », « l'ha instaurata », « l'ha
scrutata » — implicano l'idea che l'ha creata. In ogni caso, essa è di
fronte a Dio, sottomessa al suo potere che crea l'ordine. Dai vv. 25-26
non si può dedurre che essa sia stata l'aiuto di Dio al momento della
creazione, poiché le attività di Dio nei confronti del vento e della piog­
gia da una parte e nei confronti della sapienza dall'altra, sono simul­

1 Più precisamente: « egli la contò »; in altro modo J. Reider: « egli la sperimentò » (in VT 2,
1952, 127).
2 Questo poema è stato manipolato. Per mezzo del ritornello (w . 12.20), non si riuscirebbe a
ristabilire un’articolazione equilibrata delle strofe. Sono forse scomparsi dei ritornelli (ipotesi di
G. Fohrer, ad loc.)? Questi ritornelli sono all’inizio o alla fine delle strofe? Nei LXX mancano i
vv. 14-19.
IX. LAUTORIVELARSI DELLA CREAZIONE 137
tanee; anch'essa è stata l'oggetto di un atto divino. Ma soprattutto,
bisogna dire qualcosa della sua età, del suo « terminus a quo »: essa
risale all’epoca in cui Dio ha imposto alle opere più misteriose della
creazione il loro ordine.
Se, facendo l’esegesi, non si ammette in anticipo l’idea vaga di una
parentela con concezioni mitologiche apparentemente parallele nelle
religioni dei popoli vicini, non si potrà certo parlare della sapienza
come di una ipostasi in questo insieme di testi3. È uno dei concetti
a cui vien fatto immediatamente di pensare quando ci si occupa di
storia generale delle religioni, ma che invece di chiarirlo, altera il pen­
siero d’Israele. In questa sapienza non vi è nulla di immediatamente
divino e neppure nulla di mitologico; non è certamente una qualità
divina oggettivata e non vi è neppure la possibilità di parlare a suo
riguardo di una personificazione. Questa sapienza va ricercata nel mon­
do: essa è presente senza che vi si possa mettere le mani sopra. Se non
fosse di questo mondo, l’allusione agli uomini che rimescolano le
viscere della terra sarebbe priva di significato. E d’altra parte — ciò è
veramente qualcosa di molto curioso — essa si trova ad una certa
distanza da tutte le opere della creazione. Questa « sapienza », questa
« ragione » dev’essere in qualche modo il « senso » che Dio ha intro­
dotto nella creazione, essa deve significare il suo segreto, il suo mistero
creatore; tuttavia bisogna ricordare che il poema pensa meno ad una
realtà ideale che a qualcosa di materiale. Dio ne conosce « il luogo »,
egli l’ha « misurata », « stabilita ». Ritorneremo più tardi sul fatto
che, in un’epoca recente della storia d’Israele, queste idee si sono cer­
tamente sviluppate grazie ad influenze esterne al pensiero israelitico.
Per quanto riguarda l’insegnamento di questo poema, bisogna essere
prudenti nel paragonarlo agli altri testi sapienziali (Prov 8; Eccli 24
tra gli altri). Questo poema non dice tutto quel che vi è da dire sulla
« ragione » creata, presente nel mondo. Non è detto che l’uomo sia
totalmente privo della capacità di percepire questa sapienza. Come
potrebbe parlarne? Il cammino logico del poema è piuttosto questo:
la sapienza, l’ordine che Dio ha destinato al mondo, è ciò che vi è di
3 II concetto d'ipostasi è stato adottato nella scienza religiosa per designare un fenomeno che
appare in numerose religioni. La definizione di S. Mowinckel: « Una essenza per metà autonoma,
per metà considerata come la forma di rivelazione di una divinità superiore, che rappresenta la
personificazione di una qualità, di una attività, di un membro, ecc., di una divinità superiore » (in
RGG2 11, 1928, 2065) ha incontrato un'accoglienza molto vasta. Recentemente, è stata definita in modo
un po' diverso: si tratta di una realtà « che partecipa dell’essenza di una divinità che interviene
attraverso di essa nella sua azione nel mondo, senza che l'essenza di questa divinità si limiti al­
l’azione di questa ipostasi » (G. Pfeifer, Ursprung und Wesen der Hypostasenvorstellungen in Juden-
tum, 1967, 15). La nozione, così formulata, non favorisce molto la comprensione dei testi che stu­
diamo; essa non tiene conto di quel che hanno di specifico e rischia d ’indurre in errore. Né in
Giob 28, né in Prov 8, 22 ss., né in Eccli 24, si tratta mai della personificazione di una qualità
divina. Può il concetto d ’ipostasi applicarsi ad una realtà che — in tutti i testi menzionati — è
l'oggetto di un’attività divina? Ma c ’è di più: vien da chiedersi se ha senso definire dapprima
una nozione precisa, poi partendo da essa studiare i testi. Sarebbe più giusto il metodo inverso;
interrogare dapprim a i testi e, se si giunge a conclusioni particolari, formulare un concetto per
esprimerlo. Il caso sarebbe diverso se si volesse considerare il termine d ’ipostasi in modo molto
generale come l'oggettivazione o la personificazione di una nozione. In questo caso, il termine po­
trebbe applicarsi ai testi menzionati; ma poiché, per il momento, è ancora soggetto a molte ipo­
teche, ce ne asteniamo completamente.
13» LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

più prezioso. Ma, mentre l'uomo ha trovato una strada che lo conduce
a possedere tutte le ricchezze, non trova la via che lo porta al mistero
della creazione. Solo Dio ne conosce il luogo, se n'è occupato fin dalla
creazione del mondo. Se l'uomo non può fissare e cogliere questo mi­
stero, ciò significa evidentemente — questa conseguenza si trova ancora
nell'ambito del poema — che sfugge alla sua impresa, che non può
essere oggetto del possesso dell'uomo. Mai questi ne è il padrone, come
lo è degli altri oggetti preziosi. Il mondo non concede il segreto del
suo ordine. Andare oltre nell'esegesi non è possibile.
Quale quantità di esperienze, quale perseveranza nella riflessione
devono aver preceduto la composizione di un simile poema, prima che
vedesse la luce ! Di tutto questo lavoro preliminare, niente ci è rimasto.
Si è concordi neH'ammettere che questo poema è stato inserito
secondariamente nei dialoghi del libro di Giobbe, cosicché è molto
difficile rispondere al problema della sua comparsa nel tempo: può
essere recente come può anche essere antico. Qualora si ammetta che
la sua datazione è posteriore all'esilio, rimane il problema di sapere
se solo in un'epoca così tardiva han potuto esprimersi conoscenze di
questa natura. Con ogni verosimiglianza, l'ultimo verso del poema
dev'essere considerato come un'aggiunta: proviene da qualcuno che
non ha voluto lasciare solo il lettore di fronte ad una conclusione
negativa così maestosa. La partecipazione dell'uomo alla sapienza ri­
mane intatta; il cammino che vi porta è il timore di Jahve. In questo
modo il compilatore non solo abbandona il tema del poema, ma usa
anche la parola « sapienza » in un senso del tutto diverso, nel senso
cioè della sapienza umana.
1. La sapienza non chiama forse,
l'intelligenza non alza la voce?
2. In cima alle colline, sulla strada,
« in mezzo » ai sentieri, essa si apposta;
3. presso le porte della città,
sulle vie d’ingresso essa grida:
4. « Uomini, siete voi che io chiamo,
la mia voce si rivolge ai figli degli uomini.
5. Imparate quindi l'accortezza, voi semplici!
Insensati, imparate la ragione!
6. Ascoltate, ho da dirvi cose importanti,
le mie labbra si aprono per dire ciò che è retto.
7. Sì, la mia bocca proclama la verità,
alile mie 'labbra il male è in abominio.
8. Tutte 'le parole delle mie labbra sono giuste,
esse non hanno nulla di falso né di tortuoso.
9. Tutte sono franche per chi è intelligente,
rette per chi possiede il sapere.
10. Preferite i mìei insegnamenti all’argento,
e la conoscenza all'oro puro.
11. Poiché la sapienza vale più delle perle,
nessun gioiello gli si può paragonare.
IX. l ' a UTORIVELARSI DELLA CREAZIONE

12. Io, la sapienza, sono vicina all'accortezza,


dispongo della conoscenza e della riflessione.
13. Il timore di Jahve è l'odio del male,
io detesto l'orgoglio, l’arroganza, la cattiva condotta
come pure la bocca perversa.
14. A me appartengono il consiglio e il buon senso,
a me l'intelligenza, a me la potenza!
15. Per mezzo mio regnano i re,
e i potenti fanno decreti giusti.
16. Per mezzo mio i capi governano,
e i grandi giudicano la terra.
17. Io amo coloro che mi amano,
chi mi cerca mi troverà.
18. Presso di me sono la ricchezza e la gloria,
i beni durevoli e la giustizia.
19. Il mio frutto è migliore dell'oro, dell’oro fino,
i miei prodotti migliori dell’argento puro.
20. Io cammino sul sentiero dèlia giustizila,
sul cammino del diritto,
21. per procurare beni a coloro che mi amano,
e riempire il loro tesoro».
22. Jahve mi ha creata all'inizio dei suoi piani,
prima delle sue opere più antiche.
23. Fin dall'eternità io fui stabilita,
fin daill’inizio, prima dell'origine della terra.
24. Quando d'oceano primordiale non esisteva io fui partorita,
quando ancora non vi erano sorgenti zampillanti.
25. Prima che le montagne fossero fondate,
prima che vi fossero le colline, fui partorita.
26. Prima che egli facesse la terra e le campagne,
e i primi elementi della polvere del mondo.
27. Quando consolidò i cieli, io ero là,
quando pose la volta celeste sull'oceano,
28. quando fissò le nubi dall'alto,
quando fece zampillare con forza le sorgenti dall’abisso.
29. Quando mise un confine ai flutti del mare,
affinché le loro acque non ne superassero il bordo,
quando consolidò le fondamenta della terra
30. Io ero al suo fianco come la sua prediletta,
facevo giorno per giorno le sue delizie,
trastullandomi senza posa alla sua presenza,
31. divertendomi sulla superficie della terra,
e ponendo le mie delizie nel vivere tra gli uomini'.
32. Ed ora, figli miei, ascoltatemi,
33. ascoltate l'insegnamento e diventate saggi,
non respingetelo.
34a. Beato l'uomo che mi ascolta,
32b. Beati coloro che osservano le mie vie!
140 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II

34b. Vegliando giorno per giorno davanti alla mia porta,


per osservarne gli stipiti.
35. Poiché chi trova me ha trovato la vita,
egli otterrà il favore di Jahve.
36. Ma chi mi offende danneggia se stesso,
chiunque mi odia ama 'la morte! (Prov 8)

Questo grande poema è nettamente diviso in tre parti. Prima parte:


w. 4-21 (w . 4-9, esortazione inaugurale di stile barocco): contiene un
appello della sapienza agli uomini, in cui si espongono il suo valore
e il fatto che essa è indispensabile. Seconda parte: vv. 22-31; in certo
senso, una parte indipendente; la sapienza vi parla delle sue origini
misteriose che risalgono fino all'epoca della creazione del mondo; terza
parte: vv. 32-36, in cui riappare, introdotto dalla formula caratteristica
« e ora », il tema esortativo della prima parte che sfocia in un appello
pressante ad ascoltare la sapienza, poiché la vita e la morte ne dipen­
dono4. Noi ci occuperemo innanzitutto della parte intermedia. Prima
di porci i problemi sollevati da questa parte del poema didattico,
conviene far notare brevemente la sua costruzione artistica: si deli­
neano quattro sottogruppi. Nel primo e nell'ultimo, la sapienza parla
di se stessa (vv. 22 s.; 30 s.). Nella prima delle due sezioni centrali
(vv. 24-26), si parla dello stato delle cose prima della creazione (« prima
che... »), e nella seconda (vv. 27-29), della creazione da parte di Jahve
(« Quando egli... »).
Il testo di Prov 8, 22-31 è stato sovente studiato ed il suo vocabolario come
le idee che vi si esprimono sono stati esaminati in ogni senso5. Se si consi­
dera l ’insieme, la sezione vv. 22-31 non ha che una funzione ausiliaria. La sua
importanza sta solo nel fatto che la voce che si rivolge agli uomini si pre­
senta in prima persona. Se si vuole ben capire colei che parla, si deve risa­
lire fino alla creazione del mondo da parte di Dio, poiché là si trova la sua
origine. Proprio lei è stata il testimone della creazione, come « inizio dei suoi
piani », cioè come ciò che vi è di meglio nella creazione. Non vi è una ragione
che obblighi a partire dal nissakti del v. 23, « io fui stabilita », « consacrata ».
Il verbo holalti « sono stata partorita » deve essere inteso nel senso più largo
del termine (come in Deut 32, 18). Il verbo kànàni del v. 22 non offre una
difficoltà insormontabile. I LXX traducono con ektisen (creò), Àquila, Sim­
maco e Teodozione con ektesato (acquistò). La Peschitto ha il termine siriaco
corrispondente al verbo ebraico bàrà (creare). Dietro questa differenza, non
vi è tuttavia alcun problema serio. Si sa che kdnà significa acquistare (crean­
do) e può a volte riferirsi a Dio (Es 15, 16; Sai 74, 2). In qualche caso, signi­
fica «foggiare, formare» (parlando di Dio), di modo che quesito verbo fa
l'impressione di essere un vestigio cultuale e mitico (Gen 14, 19, 22; Sai 139,
13, ecc.)6. Non ci sono dubbi che questo verbo significhi nel v. 222? « creare »,

* Il testo di Prov 3, 13-26 è disposto allo stesso modo del poema Prov 8; ne è soltanto più
corto. Vi si trova anche, collocato tra l'esaltazione della sapienza (vv. 13-18) e una nuova chiamata
a seguirla (w . 21-26), un brano intermedio (vv. 19-20) che considera la funzione della sapienza alle
origini: « Con la sapienza, Jahve ha fondato la terra, ha stabilito i cieli con l'intelligenza. Per la
sua scienza furono creati gli abissi e le nubi stillano la rugiada ».
5 Molto attentamente da R. Stecher, Die persónliche Weisheit in den Proverbien Kap. 8, in
ZThK 75, 1953, 411 ss.
6 P. Humbert, in « Bertholet-Feslschrift ». 1910. 229 ss.; P. Katz, The Meaning of the root qn h \ in
JJS 6, 1955, 126 ss.
IX. L'a l TORI VELARSI DELLA CREAZIONE 141

ma anche se si esitasse su questo significato, che cosa cambierebbe? In ogni


caso la sapienza fa parte del mondo delle creature. Si è discusso senza posa
sul termine *àmón del v. 307: con la punteggiatura masoretica, non è del tutto
chiaro. I LXX traducono con harmozousa, da cui proviene il termine della
Volgata. Questa traduzione conferma l'opinione di coloro i quali pensano che
ad esso si debba sostituire il termine ebraico ’ammari = capo dei lavori,
termine che viene forse dall’accadico ( ummanu = operaio) e si trova in Ger
52, 15, testo d'altronde poco sicuro. Soprattutto Sap 7, 21; 8, 6 sembrano mi­
litare per l 'interpretazione « operaio », poiché qui la sapienza è effettivamente
chiamata technìtis = « artigiana », « operaia ». D’altra parte non si può pre­
tendere che questo significato si addica siile altre espressioni dei v. 30 s. (gio­
care, scherzare). Ciò conduce all'altra interpretazione che le fa concorrenza:
al v. 30, si parla di un fanciullo. Il termine in discussione dev'essere letto
*àmùn = « prescelto, favorito, beniamino ». A sostenere questa supposizione
è la traduzione di Aquila tithènoumenè = « fanciullo adottato, prediletto ».
Queste differenti lezioni non vanno sottovalutate; dietro di loro vi stanno di­
verse concezioni teologiche che culminano nella questione: la sapienza ha
forse collaborato alla creazione del mondo, vi ha partecipato come « demiur­
go»? Non è più possibile dirimere la questione partendo dailla sola critica
testuale: ila lunghezza delle discussioni l'ha mostrato a sufficienza. Rimane
ancora una possibilità per determinare il significato di questo termine con­
troverso.

La difficoltà testuale menzionata viene relegata nell’ombra da una


difficoltà ben più grande. Le idee riguardanti l'esistenza di una sapienza
anteriore alla creazione e concepita come una persona cosciente dotata
della parola sono così rare e si collegano così male a quel che sappiamo
o pensiamo di sapere dell'antica fede in Jahve, che da tempo ci si è
posti la domanda: si è forse Israele lasciato influenzare su questo
punto da una visione mitologica delle cose provenienti dall'esterno?
Ma è nuovamente sceso il silenzio su questa teoria, prima ammessa
con totale fiducia, che abbiamo cioè a che fare con un « mito della sa­
pienza » orientale. Non si è riusciti a mettere la mano su fonti esterne
ad Israele, che possano servire di prova; si è rimasti ad una ricostru­
zione puramente ipotetica, postulata a partire dal materiale biblico.
Bisognerà procedere con minore sicurezza e chiedersi innanzitutto qual
è l'origine di questa curiosa forma di discorso dei vv. 22-31. Conosciamo
questo stile di discorso solenne in prima persona, con la ripetizione
caratteristica « prima che... prima che », dalle autopresentazioni di
alcuni dèi egizi. Non si può negare che vi sia qui un'affinità con questo
genere di testi egizi. Ma vi è di più ! Di recente si è fatta attenzione
ai testi egizi che parlano di una divinità la quale, padre della « Maat »,
rappresentata come sua figlia, si fa abbracciare da lei e la bacia, preci­
samente dopo averla posta « sul suo naso » 8. Il parallelismo con la
sapienza prescelta da Jahve, suo fanciullo amato che gioca davanti a
lui, è affatto sorprendente; poiché la « Maat » divina — nozione centrale
dell'insegnamento sapienziale egizio — incarna il diritto, lordine che

7 R. B. Y. Scott, Wisdom irt Creation: The 'Amón of Proverbs V ili, 30, in VT 10, I960, 213 ss.
B Chr. Kayatz, Studien zu Proverbien 1-9 (1966), 76 ss., 93 ss. (contro R. N. Whybray, Proverbs
V ili, 22-31 and its supposed prototypes, in VT 15, 1965, 504 ss.).
10. von rad. la capienza in israelc
142 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

presiede il mondo, in breve, la giustizia *. Anche qui non può rimanere


alcun dubbio; i maestri israeliti si sono ispirati ad idee riguardanti
la dea egizia dell’ordine e ne hanno pure adottato alcune forme parti­
colari di linguaggio10.
Quindi quel che possiamo dire dell'influenza extraisraelitica sul no­
stro testo, è che nei vv. 22-29 è stata ripresa molto nettamente la forma
stilistica di proclamazione di una divinità egizia e che nei v. 30 e s. la
concezione egizia di una divinità innamorata della verità personificata
(Maat) si è aperta la strada in un modo o in un altro — e non senza
modificazione interna — fino al nostro poema. Rimane da sottolineare
che, nel testo vv. 22-31, si può constatare una duplice influenza che
proviene da due settori del tutto indipendenti del culto egiziano.
Ma che cosa significa tutto ciò? Unicamente che idee provenienti
dall'esterno sono venute in aiuto ad Israele quando ha avuto bisogno
di proseguire la sua riflessione nel proprio campo specifico. L’intro­
duzione infatti di queste nozioni straniere nel campo della riflessione
ebraica ha modificato molte cose. Quel che è descritto in Prov 8 come
« sapienza », come ordine cosmico, non può più facilmente essere para­
gonato con l'idea della « Maat » egizia. Essa non ha una condizione
divina, non è neppure una qualità ipostatizzata di Jahve; è piuttosto
qualcosa che da lui è stata creata e ha ricevuto una funzione da com­
piere. Benché distante da tutto ciò che è creato, essa è una realtà
immanente al mondo, anche se è il primogenito delle opere create, la
creatura che trascende tutte le creature. Questa posizione a parte della
sapienza di fronte a tutto ciò che è creato, ugualmente sottolineata da
Giob 28, è di grande importanza nel nostro poema didattico.
In queste condizioni, gli esegeti parlano quasi regolarmente di una
« speculazione sulla sapienza ». Si vuol dire con questo che la fede
d’Israele si è elevata in questi testi al livello della speculazione, a
dichiarazioni che hanno abbandonato il terreno dell'esperienza reli­
giosa e sono piuttosto il prodotto di una capacità intellettuale di
deduzione e di astrazione. Ma è urgente modificare questo modo di
vedere. In Egitto, l’idea di un ordine primordiale che racchiude la
natura così come la vita umana risale alle epoche più remote. Non si
può supporre un’idea analoga in Israele? L'ipotesi secondo cui alla
concezione di un ordine generale ha fatto seguito solo molto più tardi
una speculazione tardiva che si sforzava di conoscere gli ordinamenti
particolari ha forse molti argomenti in suo favore? Su quale base si
appoggiava lo sforzo perseverante che mirava a fissare i singoli ordi­
namenti — soprattutto la ricerca di analogie tra i diversi campi del-
9 Cfr. p. 68 s. « La nozione centrale della dottrina dei saggi è la Maat, il "diritto*, la “giustizia",
b o rd in e primordiale”. Come dea, Maat appartiene al sistema religioso di Eliopolis in cui essa ap­
pare come figlia del dio-sole. Come ordine perfetto di ogni cosa, essa è discesa tra gli uomini al
"temno delle origini” »; H. Brunner, Àgyptologie, in « Handbuch der Orientalistik », vol. I, sezione
2. 1952, 93.
10 Così, la puntazione masoretica della parola ‘mn = *àmdn = operaio, pare finalmente essere
un’interpretazione teologica tardiva. Cfr. pp. 156 ss. La parola suonava originariamente ’imùn e
significa « beniamino », « prescelto », « amato », come da molto tempo è stato ammesso.
ix . l 'au to r iv ela r si della c rea zio n e 143

resistenza — se non sul principio di un ordine universale degli esseri,


ordine immenso che si giunge a cogliere solo parzialmente? Senza
questo principio fondamentale, ogni sforzo di conoscenza delle regole
particolari non era forse illusorio? La più antica sapienza sperimentale
parla, essa pure e spesso, di Jahve come Creatore u. Egli ha creato i
poveri, lorecchio e l'occhio dell'uomo; anche i pesi di pietra di cui ci si
serve al mercato sono sue « opere ». Non vi è alcun dubbio che la
ricerca più antica delle leggi che reggono le cose si riferiva implicita­
mente in Israele ad un insieme e tendeva a ritrovarlo. Il che non vuol
dire che si possa pretendere di datare il poema didattico di Prov 8
ad un'epoca remota; vi sono tuttavia buone ragioni per chiedersi se il
poema di Prov 8, come quello di Giob 28, esprimano veramente una
concezione del tutto nuova. Cosa vi è di verosimile nell'idea che una
dottrina possa improvvisamente apparire in un gruppo di testi didattici
relativamente recenti senza alcun legame con dottrine della stessa
epoca o di epoca precedente?
Non sarebbe mai stato necessario parlare di speculazione sapienziale
per il semplice fatto che in Prov 8 si parla di un avvenimento, di qual­
cosa che giunge all'uomo nel mondo e che proviene realmente dal
mondo. Abbiamo già incontrato parecchie volte l'idea di uno choc di
rimbalzo dell'ambiente sull'uomo, di una potenza ordinatrice che lo
influenza e lo corregge. Questi testi relativamente recenti trattano
quindi di una forza ordinatrice la cui presenza è stata sempre percepita
in Israele. Senza dubbio si esprime in essi una generazione di maestri
che si è trovata di fronte alla necessità di riflettere più seriamente
e di formulare in modo nuovo un oggetto contenuto implicitamente
da molto tempo nell'insegnamento sapienziale 12. Parlano di quest'or­
dine in termini molto sottili, già all'estremo limite di ciò che si può
dire nel quadro della lingua ebraica. Israele non sarebbe giunto ad
esprimere queste cose senza l'aiuto delle nozioni egiziane, poiché i
mezzi tradizionali di espressione non esistevano per questo genere
d'oggetto; nondimeno sarebbe più conforme alla realtà considerare il
brano centrale del nostro poema come un'interpretazione rinnovata di
un'idea molto antica, anche se non ancora formulata.
Nell'inno didattico: « Tutte le tue opere, le hai fatte con sapienza »
(Sai 104, 24) compare in definitiva la stessa conoscenza che in Giob 28
e Prov 8, 22 ss., dove essa è semplicemente sviluppata in modo più
differenziato.

" Prov 14, 31; 16, 4. 11; 17, 5; 20, 12; 22, 2; 29, 13.
12 Come mai quest'oggetto di conoscenza può essere stato designato col termine hSkm&ì È diffi­
cile credere che questo sia un termine del linguaggio corrente. Bisogna piuttosto pensare che que­
sta parola hSkmà che con questo significato differisce molto dall'uso corrente, fosse un termine
tecnico della lingua erudita. È probabile che i maestri abbiano cercato un termine corrispondente
press’a poco alla maat egizia (in Giob 28, 12. 20 si aggiunge parallelamente la parola bìndy « senno *).
Se l'ebraico fd à k à (giustizia) ha potuto avere un senso più vicino alla « maat » egizia, nella mag­
gior parte dei casi (H. H. Schmid, Gerechtigkeit als Weltordnung, 1968, 61), non vi è alcuna neces­
sità di tradurla sempre cosi. D'altronde il termine hSkmS è più vicino, in questo caso, all'oggetto
che si vuole designare.
144 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

Jahve, con da sapienza, ha fondato la terra;


ha stabilito i cieli con l’intelligenza.
È per ila sua scienza che furono scavati gli abissi
e le nubi stillano la rugiada. (Prov 3, 19 s.)

Il lettore è spinto a riferire questo « con la sapienza » alla sapienza


creatrice di Dio ; si tratterebbe così di un attributo divino. Ma potrebbe
anche trattarsi di una qualità della terra, in questo senso: la creazione
è stata edificata nello stato di sapienza, di razionalità, da Dio. Tuttavia
la questione è un po’ oziosa; infatti, qualunque sia l’interpretazione,
non si può scartare l'idea che bisogna assegnare alla creazione la
qualità di essere ordinata secondo un ordine pieno di sapienza. Una
formula del Siracide è interessante: Dio ha « diffuso » la sapienza « su
tutte le sue opere » (Eccli 1, 9). Non è possibile intendere questo ter­
mine « diffuso » nel senso di un’immagine poetica fantastica; si tratta
piuttosto di un fatto cosmologico reale, l'inserimento di qualcosa di
particolare nella creazione, di modo che, come ce l’insegna Giob 28,
questa cosa vive in essa misteriosamente e interiormente. Infine sarà
bene menzionare anche il canto dei Serafini di Is 6, 3, benché non si
tratti qui della sapienza ma della gloria. Ma la tesi che « la gloria di
Jahve » riempie tutta la terra esprime pure una qualità immanente
alla creazione, con questa sola differenza che essendo redatta nel lin­
guaggio dell’inno usa una nozione esteticamente più intensa, quella
della gloria di Dio.
Nella linea di quest’idea si situa anche il brano centrale del poema
di Prov 8, che si deve sempre considerare in rapporto al poema nella
sua interezzal3. Se abbiamo considerato la dottrina della « sapienza »
che dal mondo si rivolge all’uomo, come la reinterpretazione di una
concezione molto antica, saremo molto interessati alle modificazioni
che si sono verificate nel corso del processo di trasmissione. Secondo
la storia delle tradizioni, una nuova interpretazione non si limita mai
a dire la stessa cosa in una forma « più moderna »; comprende sempre
un accrescimento di sostanza. Il poema didattico di Prov 8 supera
l’antica dottrina nella spiegazione dell’idea di base non solo perché
giunge ad esprimere particolari sui rapporti tra Jahve e quest’ordine
del mondo. Quel che è più interessante, nella nuova impostazione,
è che quest'ordine del mondo si rivolge direttamente all’uomo per inci­
tarlo e stimolarlo, come lo farebbe una persona. Non è quindi una
qualità di Dio che viene oggettivata, ma una qualità del mondo, cioè
questo misterioso elemento per mezzo del quale l’ordine cosmico si
volge verso l’uomo per ordinare la sua v ita14.
Israele si è quindi trovato di fronte allo stesso fenomeno di quasi
tutte le religioni antiche, soprattutto le religioni naturali, che ne
13 Bisogna distinguere attentamente da questa le idee sulla sapienza in Sap cc. 6-9 o in Enoc
42; 91, 10. Per quel che riguarda queste dottrine, dobbiamo tener conto di un processo di tradi­
zione movimentato nel quale si è verificata costantem ente una nuova interpretazione.
M Contro R. N. Whybray, Wisdom in Proverbs (1967)af 103; in Prov 8. la sapienza non è «un
attributo di Jahve ».
IX. L’AUTORI VELARS I DELLA CREAZIONE 145
sono rimaste affascinate: una provocazione religiosa dell’uomo da parte
del mondo. Ma non si è mai lasciato andare fino a divinizzare o a tra­
sformare in mito il fondamento del mondo. L’ha interpretato in modo
del tutto diverso, perché si è limitato a considerare questo fenomeno
nella prospettiva della fede in Jahve come creatore.
Questo qualcosa d’immanente al mondo, che i testi chiamano « sa­
pienza », lo possiamo semplicemente descrivere con una perifrasi. Sia
che lo chiamiamo « ordine primordiale », « mistero dell’ordine », « ra­
gione cosmica » o « senso » incorporato da Dio nel mondo della crea­
zione, oppure « gloria » del mondo, ne parleremo in ogni caso solo
nella forma di una personificazione figurata. Questa personificazione
è molto diversa da un processo di stile decorativo arbitrario che il
maestro, rotto agli esercizi della retorica, avrebbe potuto sostituire con
ima nozione del tutto diversa per facilitarne la comprensione. Questo
modo di dire è stato, anzi, interamente determinato dal suo oggetto,
da ciò che doveva essere descritto e non poteva essere evocato che
in questo modo per evitare di perdersi nel verbalismo, poiché quest'or­
dine originale parlava all’uomo, cosa che tra breve dovremo esaminare
più da vicino. Non era una scelta arbitraria, poiché l’elemento perso­
nale era indispensabile. Questa ragione del mondo era presente prima
di ogni creatura, come un fanciullo che gioca sulla terra; essa era là,
come qualcuno che è « amato », che « fa le delizie » di Dio; e fin dagli
inizi — cosa importante per lo scopo a cui mira l'intero poema didat­
tico! — essa si è rivolta agli uomini gioiosamente, con gaiezza. A diffe­
renza di Giob 28, questa sapienza immanente è stata considerata, più
che sotto l’aspetto razionale dell’ordine economico, sotto quello este­
tico: come « prescelta », essa « fa le delizie » di Dio, « gioca » e, da
parte sua, « trova le sue delizie » nel frequentare gli uomini. I due testi
parlano di una realtà interamente circondata da un profondo mistero.
Nel culto, essa faceva l’oggetto delle lodi, nelle scuole era l’oggetto della
meditazione: che cosa è di preciso questa realtà, che interviene nella
vita umana, da una parte strettamente legata ad ogni essere creato e
dall'altra parte manifestativa del potere di Jahve?

II. La c h ia m a t a

Il misterioso brano centrale del nostro poema didattico non dev'es­


sere soltanto collegato all'esame dell’insieme delle parti prima e terza,
ma dev'essere anche confrontato con altri testi didattici che gli sono
parenti prossimi. Da questo gruppo di testi risulta in primo luogo un
vasto tema didattico trattato una volta molto a fondo, un’altra volta
appena abbozzato.
146 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II

La sapienza non chiama forse?


l'intelligenza non alza forse la voce?...
« Uomini, siete voi che io chiamo,
10 grido verso i figli degli uomini». (Prov 8, 1. 4)
(La sapienza) ha mandato le sue ancelle15,
e invitato sulle alture della città. (Prov 9, 3)
La sapienza grida per le strade,
sulle pubbliche piazze alza la voce.
Nei luoghi più rumorosi essa grida,
alle porte della città pronuncia il suo discorso. (Prov 1, 20 s.)

11 tema è Io stesso: la sapienza — sappiamo approssimativamente


quel che bisogna intendere con questo — chiama gli uomini. Eccoci
infine giunti al fatto che forma l'oggetto propriamente detto del poema.
E quale fatto! In questa chiamata non si tratta di un qualche dialogo
privato, quasi esoterico, che soltanto degli iniziati potrebbero inten­
dere. Non si tratta di cose nascoste, poiché stanno « sulle alture »,
« sulla strada », « ai crocevia » (Prov 8, 2). Non è nel recinto sacro del
santuario che essa parla, ma in pubblico, nellambiente più profano.
Quel che essa dice è semplice e chiaro: occorre ascoltare ed imparare
quel che ha da dire (Prov 8, 5 s. 10. 32); essa vuol far uscire gli uomini
dal semplicismo e dalla chiacchiera vuota (Prov 1, 22), promette la
ricchezza e l'onore, ma anche la giustizia (Prov 8, 18. 21). Promette
persino la vita, la benevolenza divina e la sicurezza.
Poiché chi trova me trova la vita,
egli otterrà il favore di Jahve. (Prov 8,35)
Chi mi ascolta rimane in pace,
sarà tranquillo senza temere la disgrazia. (Prov 1, 33)
Queste sono parole di grande portata; a maggior ragione bisogna
domandarsi come Israele si è rappresentato tutto ciò. Era chiaramente
opinione dei maestri che luomo è interpellato dal seno della creazione,
da una volontà ordinatrice a cui non potrebbe sfuggire. Questa volontà
si esprime innanzitutto nella vita personale delluomo. Essa è la moti­
vazione e la fonte del comportamento etico. Presta ascolto a que­
sta voce,
...allora comprenderai giustizia, equità e rettitudine,
tutti i sentieri che portano alla felicità.
Quando ila sapienza entrerà nel tuo cuore,
quando il sapere farà le tue delizie,
la prudenza veglierà su di te,
l'intelligenza ti custodirà,
per allontanarti dalla via malvagia,
dall'uomo dai propositi perversi...
Per custodirti anche dalla donna straniera,
e dalla sconosciuta dalle parole adescatrici...
Così camminerai nella via dei buoni,
terrai il sentiero dei giusti. (Prov 2, 9-20)
15 0 bisogna forse tradurre: « essa ha rimandato »? M. Dahood, Proverbs and N o rth w est Semi­
tic Philology (1963), 16 s.
IX. L AUTORI VELARSI DELLA CREAZIONE 147

Ma questa volontà ordinatrice — che è una potenza! (Prov 8, 14) —


supera di molto i limiti della vita privata. Essa nutre una pretesa
esorbitante:
Per mezzo mio regnano i re,
e i principi decretano il diritto;
per mezzo mio i capi governano,
e i notabili giudicano tutta la terra. (Prov 8, 15 s.)

Questa dichiarazione è di grande importanza, poiché non abbiamo


per cosi dire altro testo corrispondente. Bisogna concludere che sia
l'arte di regnare sia la conoscenza del diritto — non soltanto in
Israele, ma sulla terra intera — devono essere ricondotte a questa
potenza ordinatrice16. Si è in diritto di dire ch'essa è la fonte del
possesso della verità di tutti i popoli; il suo potere si estende su tutti
i popoli e tutte le nazioni (Eccle 24, 6). Ma il campo di forze di questa
potenza ordinatrice comprende anche il settore della natura al di fuori
deirumanità. Il dualismo che ci è familiare, l'ordine della società
umana da una lato e lordine naturale dall'altro, era totalmente scono­
sciuto agli antichi. L'ordine cosmico regna tanto sulla natura che sul­
l'uomo, attraverso la « legge morale », come diremmo noi.
La famosa autopresentazione della sapienza nel libro del Siracide è
formulata in modo poetico e patetico. Affronta un po' più chiaramente
il problema dei rapporti tra la sapienza e la natura.
Sono uscita dalla bocca dell'Altissimo
e come un vapore ho coperto la terra.
Ho piantato la mia tenda nei cieli
e il mio trono era una colonna di nube.
Da sola ho fatto il giro del cerchio dei cieli,
ho percorso la profondità delle acque primordiali,
nei flutti del mare, su tutta la terra,
presso tutti i popoli e tutte le nazioni ho regnato. (Eccli 24, 3-6)

Quanto alla concezione fondamentale dell'esistenza e della funzione


della sapienza alle origini, queste frasi non vanno al di là della presen­

16 Si può pensare a questo proposito all'inno di Cicerone nel quale celebra la filosofia come
« inventrix legum » e « magistra raomm et disciplinae » (Tusculanae 5, 5). Una relazione con le
idee orientali è possibile (Poseidonies!); cfr. H. Hommel, Ciceros Gebeishymnus an die Philosophie,
in « Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften », Phil.-hist. Klasse, saggio 3,
1968, in particolare p. 13.
17 H. Conzelmann ha accreditato l’ipotesi che in Eccli 24, 1-6 è stato utilizzato un inno egizio
a Iside; cfr. Zeit und Geschichte, in « Festschrift fiir Bultmann », 1964, 255 ss. Questa constatazione
corrisponde molto bene con quello che lo sfondo tradizionale di Prov 8, 22 ss. lascia intravedere
(cfr. p. 141 s.). Sul piano ermeneutico, il caso è interessante perché un testo ripreso parola per
parola poteva ricevere in Israele un significato totalmente diverso, di modo che ogni particolare
del testo fa risaltare espressioni notevolmente modificate. E forse esistito un mito della sapienza
che cerca e che è delusa? Così si è creduto in seguito al celebre articolo di Bultmann in Eucha-
risterion fiir Gunkel, voi. 2, 1923, 1 ss. (cfr. U. Wilckens, Weisheit und Torheit, 1959, 160 ss.), m?
è estremamente dubbio. Si giunge ad errori fatali se si interpretano testi come Prov 1, 20 ss., Giob
28 e Eocli 24 partendo da questo « mito della sapienza * come da un a priori. Giob 28 deve restare
fuori causa, poiché in esso si parla soltanto di una sapienza nascosta nella creazione (e non in
cielo). Anche Prov 1, 20 ss. non contribuisce in nulla a questa problematica (Chr. Kayatz, op. cit.,
128). L'idea è evidente solo in Enoc 42,1-3. Esiodo. Le Opere e i G iorni , vv. 197-201 parla del
ritorno al cielo di due dee deluse.
148 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

tazione di Prov 8, 22 ss. (diverso è il caso dei testi in cui il Siracide


identifica questa sapienza alla Torah)1B. Anche nel poema citato sopra,
la sapienza è creata (v. 8: « colui che mi ha creata »; v. 9: « egli mi ha
creata », cfr. Eccli 1, 4. 9). L'affermazione che essa è uscita dalla bocca
deirAltissimo (v. 3a) è pure nella linea del primo racconto della crea­
zione dove è forte l'insistenza sulla creazione per mezzo della Parola.
L'idea che essa ha coperto la terra al pari di un vapore va intesa
come un'esegesi ardita di Gen 2, 6 19. In ogni caso tutto ciò indica
una stretta appartenenza della sapienza alla terra: se si parla di un
trono, non si intende designare qualcosa di soprannaturale. Di questa
dichiarazione non si può ritenere null'altro oltre al fatto che essa è
presentata non come un fanciullo, ma come una sovrana. A questo
proposito, l'affermazione che essa ha percorso tutta la creazione, dai
cieli all'oceano primordiale, è importante. La formula « percorrere un
determinato ambito » era un tempo una formula dello stile giuridico
simbolico: si tratta di un atto giuridico reale e soltanto dichiarato20.
Così la sapienza ha formalmente stabilito il suo diritto di proprietà
ed esso si estende al mondo intero. La sapienza non si limita a regnare:
essa parla.
Un nuovo aspetto di questa enigmatica figura compare in un altro
testo importante. La voce di quest'ordine primordiale non si rivolge
all'uomo in modo da rimanere sempre a sua disposizione quando egli
ne abbia bisogno, come una fonte permanente di verità. Essa può
anche allontanarsi dall'uomo che non la custodisce.
Poiché ho chiamato e voi avete rifiutato,
poiché ho steso la mano senza che nessuno vi ponesse attenzione,
poiché voi avete trascurato i miei consigli
e non avete voluto i miei ammonimenti,
a mia volta, mi farò beffe della vostra miseria,
me ne infischierò di voi quando verrà lo spavento,...
Allora mi chiameranno e io non risponderò,
mi cercheranno e non mi troveranno.
Essi detestavano il sapere,
non amavano il timore di Jahve,
■non volevano il mio consiglio,
disprezzavano tutti i miei insegnamenti.
Mangeranno quindi il frutto della loro condotta,
si sazieranno dei loro consigli! (Prov 1, 24-31)21

La perdita di questa voce ordinatrice avrà conseguenze catastrofiche:


la paura, lo spavento, la miseria cadranno sull'umanità. Gli uomini sa-
10 Cfr. P. van Imschoot, La sages se dans VAncien Testament est-elle une hypostase?, in « Col-
lationes Gandavenses » 21, 1934, 10.
19 Gen 2,6: « una 'èd usciva dalla Verrà per irrigare il terreno ». I LXX traducono la parola
difficile 1èd con * sorgente », e in Giob 36, 27 con « nube ». 11 targum rende *dd di Gen 2, 6 con
« nube ».
20 Gen 13, 17: « Alzati! Percorri il paese in lungo e in largo, perché io te lo darò »; cfr. a que­
sto proposito D. Daube, Studies in Biblical Law (1947), 37 s.
21 II poema didattico Prov 1, 20-33 ò quanto alla forma un curioso ibrido, poiché in diversi
punti si avvicina molto fortemente al genere profetico del rimprovero e della minaccia. Quanto alla
sua posizione è invece da considerarsi « sapienziale ». Particolari in Chr. Kavatz, op. cit.. 119 ss,
ix . l ' a u t o r iv e l a r s i d e l l a c r e a z io n e 149

ranno lasciati a se stessi, dovranno vivere dei loro progetti, il che vuol
dire che si distruggeranno da sé. Se si accorgono che, per continuare
a vivere, hanno bisogno di questa chiamata, la voce rimarrà muta.
Anche in questo caso si tratta della presentazione di un fatto!
Prima di trarre dai testi gli ultimi elementi riguardanti il rapporto
tra la sapienza e l'uomo, fermiamoci un istante. Questa sapienza che
abbiamo considerato come l'ordine primordiale del mondo, come il
segreto della sua creazione, governa allo stesso modo la creazione
esterna all'uomo e il campo sociale e umano. Se la si vuole considerare
come il Logos del mondo, cosa che s'impone al lettore moderno, ci si
dovrà ricordare che questi testi non parlano di qualcosa di astratto,
di un principio, di una ragione cosmica, ma di qualcosa di creato che
ha la propria realtà come le altre opere della creazione. Quest'ordine
primordiale non è presente soltanto nella creazione, ma è rivolto anche
all'uomo per assisterlo, si occupa di lui: lo interpella direttamente.
Questa chiamata non è un mistero che l'uomo dovrebbe decifrare,
è rivolta pubblicamente « sulle piazze rumorose » (Prov 1, 20 s.). Tutte
queste indicazioni non permettono di sollevare alcun dubbio sul fatto
che questa chiamata può essere intesa dall'uomo senza alcuna difficoltà.
Da tutto ciò emergono dei problemi che sta alla teologia biblica af­
frontare. Incontriamo innanzitutto l'idea che il mondo non è muto, ma
ha un suo messaggio nell'inno: il mondo si proclama creatura di fronte
a Dio; il cielo « racconta », il firmamento « annuncia » (Sai 19, 2). « Tut­
te le opere rendono grazie a Dio » (Sai 145, 10). Nell'ambito di una
teofania, si può dire: « I cieli proclamano la sua giustizia (di Dio) »
(Sai 97, 6). Questo discorso di una parte della creazione appare qui
come un fenomeno concomitante alla rivelazione che Dio fa di se
stesso. Ma è poco verosimile che i cieli ricevano il potere di rendere
testimonianza solo in occasione di quest'avvenimento e in precedenza
siano stati muti.
Nel Salmo 148, Israele, nel ruolo di corifeo, invita tutta la creazione
fin nelle sue più lontane regioni ad associarsi alla lode. Non è prolis­
sità poetica che qui si esprime, ma l'idea di una vera testimonianza che
emana dal mondo. Incontriamo qui per la prima volta un accosta­
mento molto stretto tra l'inno e la sapienza. La sola differenza consi­
ste nel fatto che questa testimonianza della creazione si rivolge, se­
condo l'insegnamento dei saggi, non a Dio, ma all'uomo, la qual cosa
era già compresa nella forma dell'inno 22.
Interroga pertanto il bestiame per istruirti,
gli uccelli del cielo, per informarti.
I rettili dedla terra ti daranno lezioni,
i pesci del mare ti ragguaglieranmo.
Poiché chi ignora, tra tutti loro,
ohe la mano di Jahve ha fatto tutto ciò? (Giob 12, 7-9)

23 La parentela tra la sapienza e l'inno ed i suoi temi è conosciuta da tempo. Il Siracide non
è stato il primo saggio a comporre inni.
150 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE 111

Quante parole didattiche! Con quest’idea di un messaggio della crea­


zione indirizzato all'uomo, ci troviamo in stretta vicinanza con la dot­
trina della chiamata rivolta all'uomo dall’ordine cosmico. £ vero che,
in un caso, si trattava di una testimonianza che deve portare l’uomo
a riconoscere e ad adorare il Creatore, nell’altra di un invito a lasciarsi
condurre in tutte le decisioni della vita dagli insegnamenti dell’ordine
primordiale; ma le due cose sono poi così differenti? Se, secondo Giob
12, 7 ss., il mondo si manifesta all'uomo come creazione, non si può
separare il fatto che parli nello stesso tempo del suo ordine meravi­
glioso. Inoltre, quel che noi poniamo sotto la voce di ordine morale
era, secondo lo spirito del poema didattico, radicato nell’ordine pri­
mordiale fin dall’origine del mondo. Questa chiamata rivolta all’uo­
mo dal mistero dell’ordine è perfettamente chiara, come abbiamo vi­
sto; essa presenta pure i caratteri di un discorso che viene da Dio,
benché si tratti di una voce proveniente dal creato (che parla di Jahve
in terza persona, Prov 8, 13). Essa risuona dappertutto; è impossibile
sfuggirle; e il modo con cui pone l'uomo di fronte all’obbligo di sce­
gliere tra la vita e la morte pare un ultimatum. Anche i beni ch’essa
promette non possono essere definiti diversamente da quelli della sal­
vezza, ed è qui che sta il problema: un essere, un io che non è certa­
mente Jahve in persona e che chiama a sé gli uomini con un tono di
autorità assoluta! Quale profeta avrebbe osato pretendere di chiamare
gli uomini a sé? E chi all’infuori di Jahve può dire all’uomo: Colui che
mi trova, trova la vita (Prov 3, 18; 8, 35; 9, 6; Eccli 4, 12)? È perduto
chiunque non si apre a questa chiamata. E infine: questa voce di sal­
vezza non si trova alla portata dell'uomo quando piace a lui; l’uomo
può perderla con la sua disobbedienza poiché essa gli si rifiuterà (Prov
1, 24-27).
Si può affermare decisamente che nei testi esaminati non è Jahve
che parla. La cosa è sconcertante perché, in questi testi, si tratta ap­
punto della forma stilistica di un'autorivelazione divina. La situazione
differisce visibilmente da quella dei profeti che non si rivolgono mai
ai loro uditori nello stile della prima persona. Solo occasionalmente
appare l'« io » profetico e sempre ai margini del loro messaggio, il cui
stile è quello di una parola di Dio. La novità nei nostri testi sta nel
fatto che nel colloquio tra Jahve ed Israele interviene un rivelatore che
non si era presentato finora. Parla in prim a persona e con un tono pie­
no di pretese; egli è certamente superiore al più grande profeta, è il
mistero stesso della creazione del mondo. Secondo il pensiero dei mae­
stri, Jahve poteva, per raggiungere gli uomini, servirsi di un altro in­
termediario, oltre ai profeti e ai sacerdoti. Questo intermediario è la
voce dell’ordine primordiale che emana dalla creazione e l’interesse
particolare dei saggi era attirato da questo mediatore della rivelazione.
L'intero discorso di Dio nel libro di Giobbe parte dallo stesso princi­
pio, poiché anche in questo caso Dio dà la parola alla sua creazione e
le affida la missione di aprire gli occhi di Giobbe.
IX. LAUTORIVELARSI DELLA CREAZIONE

Immediatamente ci si pone il problema dei possibili rapporti tra que­


sta rivelazione propria della creazione e la voce di altri strumenti della
rivelazione che si sono espressi tramite il culto e la storia (narratori),
oppure la voce di coloro che erano guidati da un carisma personale.
Tutto quel che possiamo constatare è che questo problema qualunque
ne sia la ragione, non si è assolutamente posto ai saggi. Essi erano in­
teramente occupati a cogliere l'appello di questa voce e ad assicurarle
una diffusione. La pretesa ch'essi abbiano voluto opporre in uno spi­
rito di esclusivismo polemico questo canale di trasmissione della rive­
lazione a tutti quelli che Israele aveva fino a quel momento conosciuto,
non si fonda su alcuna base solida. È molto più probabile che la voce
di questa rivelazione sia venuta a colmare una lacuna, per rispondere
teologicamente a un bisogno che si era manifestato.
Se si considera il carattere di ultimatum di questa chiamata e l'im­
portanza dei beni promessi, è poco verosimile che questa dottrina del-
l'autorivelazione del creato abbia potuto associarsi alle più antiche tra­
dizioni di Jahve senza suscitare tensioni. D altra parte non si può facil­
mente ammettere ch'essa si sia semplicemente opposta ad esse, poiché
in altri contesti, i maestri parlano di Jahve con molta naturalezza e
hanno sempre dato a questo nome una densità tradizionale estrema.
Sarebbe difficile supporre che sulla bocca dei maestri questo nome
abbia potuto spogliarsi di tutta la sostanza che gli era inseparabilmen­
te legata. D'altra parte, non bisogna cancellare i contorni di questi testi
didattici, poiché non parlano esattamente di Jahve, ma di una voce
che ha tutte le qualità di una rivelazione. Devono esserci stati in Israe­
le, e in particolare nelle scuole, gruppi che hanno considerato come
loro principale missione quella di rinviare l'individuo alla voce che
proveniva dalla creazione e di portarlo così ad affidare la sua vita, con
tutte le possibilità di conflitti in essa contenuti, a questa forma di rive­
lazione. I maestri non hanno il minimo dubbio sul fatto che si può
intendere questa rivelazione personale della creazione. Come dirà Pao­
lo, essa « si lascia vedere dall'intelligenza » (Rom 1, 20).
L'epoca dei re ha visto l'inizio di un certo processo d'individualizza­
zione nel corso del quale ci si è posti molto più intensamente che nel
periodo della fede arcaica in Jahve il problema della partecipazione
dell'individuo, della parte ch'egli aveva nel rapporto con Jahve. La fede
più antica era molto impreparata per rispondere a questo problema
posto dal punto di vista dell'individuo, poiché lo stesso decalogo e i
gruppi affini di comandamenti non erano di alcun aiuto nell'intrico
della vita individuale e non pretendevano di esserlo. Questa presa di
coscienza dell'individuo, con tutti i problemi che sorgevano a questo
riguardo, può essere relativamente seguita nel suo tracciato grazie ad
un gran numero di testi dell'A.T.a . Il modo con cui l'individuo che
prende progressivamente coscienza del suo isolamento si stacca dai Ie-

» G. von Rad, Teologia dell'Antico Testamento, vol. II, Brescia 1974, 299 ss.
152 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

gami precedenti, si è espresso nelle forme più diverse. Questo processo


ha messo gli uomini in presenza di nuove possibilità religiose e di pro­
blemi insospettati. Di conseguenza i portavoce della fede in Jahve han­
no dal canto loro affrontato la mutevole situazione in modo molto di­
verso. I saggi hanno recato un contributo — e certo non il meno im­
portante — per tentare di risolvere i problemi posti, attraverso la dot­
trina della creazione che si rivela personalmente. Nel loro tentativo di
chiarire la realtà che circonda luomo, sono incappati, nella profondità
della creazione, in un fenomeno che possedeva una forza espressiva
eminente. Non solo la creazione ha un essere, ma sprigiona pure un
messaggio, comunica una verità!
Questa verità si rivolge di preferenza, se teniamo presente ancora
una volta la sua offerta secondo il grande discorso rivelatore di Prov 8,
agli individui, agli « uomini », in particolare a quelli di una classe ele­
vata: essa promette l'intelligenza, la scienza, la perspicacia, il senno,
la sapienza, il consiglio, il successo, la forza, la ricchezza, la gloria. I
saggi cercavano di diffondere questa voce nel loro insegnamento e nei
loro poemi didattici. È certo che in tal modo essi hanno liberato un
aspetto della realtà creaturale di cui la fede in Jahve non si era ancora
occupata ed il loro compito è stato così grande e così nuovo che l'al­
tro compito, quello di stabilire un compromesso con le tradizioni su
Jahve e la storia della salvezza, è passato provvisoriamente in secondo
piano; esso è stato intrapreso solo in un secondo momento.
Solo molto più tardi, a cominciare da Gesù di Sirach pare, è stata
compiuta l'armonizzazione; se ne è intrapreso lo svolgimento in modo
molto accurato. Il grande discorso in cui la sapienza si presenta e di
cui abbiamo già esaminato l'inizio continua in questi termini:
Tra tutti essi (i popoli) ho cercato il riposo,
ho cercato in quale eredità insediarmi.
Allora il creatore dell'universo m'ha dato un ordine,
colui che m'ha creata mi ha fatto alzare la tenda.
Egli mi ha detto: Stabilisciti in Giacobbe,
entra nell'eredità d'Israele.
Prima dei secoli, fin dall'inizio egli mi ha creata,
eternamente io esisterò.
Nella tenda santa, in sua presenza ho officiato,
e così in Sion mi sono stabilita.
Ho trovato il mio risposo
nella città ch'egli ama quanto ama me
e a Gerusalemme esercito il mio potere. (Eccli 24, 7-11)

Si vede così tracciare una linea che va dall’ordine prim ordiale fino
alla rivelazione di Jahve nella tenda della testimonianza e nel tempio
di Gerusalemme, abbozzo superbo e audace della storia della salvezza:
l'ordine primordiale (la sapienza) si è cercato tra gli uom ini un'abita­
zione e si è visto assegnare da Dio il popolo d'Israele. Soltanto qui
esso si poteva sviluppare, perché soltanto qui un accesso gli era aperto
e si era pronti a servirlo degnamente; in Israele infatti l'ordine pri-
IX. l ' a UTORI VELARS I DELLA CREAZIONE 153
mordiale si era rivelato nella forma della Torah. Ma è giusto dire
come si fa sempre, che, in questo modo, la teologia della Torah è pene­
trata nella sapienza e se l’è presa a carico? È esattamente il contrario
che si è verificato: la sapienza ha tentato di spiegarsi il fenomeno della
Torah partendo dai suoi principi, e questo in modo poco tradizionale M.

III. L ’a m o r e s p ir it u a l e (ero s)

Dopo queste considerazioni, ritorniamo al problema dei rapporti tra


la sapienza immanente al mondo e l'uomo. Vi è tutto un insieme di
dichiarazioni non ancora menzionate, in cui Israele ha espresso l’ultima
parola, quel che vi è di più sorprendente su questi rapporti. Questo
mistero dell'ordine del mondo non si limita a interpellare l'uomo, lo
ama! Il tema del linguaggio amoroso si sviluppa nei testi, da Prov 1 a 9
fino alla tardiva Sapienza di Salomone, passando attraverso il Siracide,
con una tale ampiezza che qui si tratta visibilmente di un insieme di
rappresentazioni che i maestri hanno esposto su una base molto larga25.
Abbiamo la possibilità innanzitutto di esaminare i testi in cui la sa­
pienza è presentata come una donna che invita apertamente nelle stra­
de e sulle piazze gli uomini ad entrare in casa sua.
La sapienza si è costruita la casa,
vi ha « innadzato » sette colonne
ha ucciso gli animali, preparato il vino,
ed ha pure imbandito <la tavola.
Essa ha mandato i suoi servi ed invita,
sulle alture della città:
chi è senza esperienza, vi entri
chi ha poco senno, essa lo interpella:
venite, mangiate del mio pane,
bevete il vino che ho mescolato. (Prov 9, 1-5; cfr. 1, 20 ss.; 8, 1 ss.)
È esatto pensare che questa notevole allegorizzazione è stata elabo­
rata dai maestri come immagine di contrasto con le pratiche che erano
state adottate in Israele e che provenivano dal culto della dea del­
l'amore, Astarte. Il racconto didattico di Prov 7, 1 ss. mostra chiara­
mente come le donne che avevano fatto un voto di fecondità sapevano
sedurre gli uomini per attirarli in casa loro Z7. Ma — questa è la dot­
trina dei maestri — chiunque risponde a quest’invito batte una strada
che porta alla morte (Prov 9, 13-18). La vera compagna che chiama a
24 Cfr. p. 220 s. Non si può quindi dire che la sapienza è qui sistematizzata a partire dall’idea
di alleanza; cfr. N. Lohfink, Dos Siegeslied am Schilfm eer (1965), 204 ss. Eccli 24 non è un’unità.
La sezione che comincia al v. 23: « Tutto questo non è altro che il libro dell'alleanza del Dio
Altissimo, la legge promulgata da Mosè... » è stata chiaramente integrata con questa presentazione
della sapienza. Lo stile in prim a persona si interrompe; è il maestro che parla per interpretare il
discorso della sapienza. Visibilmente Sirach si rivolge ad una tradizione che lo precede. Il v. 23
vien letto come se bisognasse chiarire un enigma.
29 A questo proposito, cfr. G. Bostròm, Proverbiastudien (1935), 156 ss.: «Die Weisheit als
Braut»; U. Wilckens, Weisheit und Torheit (1959), 174 ss.
38 Non è ancora stato spiegato in modo soddisfacente il significato di queste « sette colonne ».
v G. Bostrom, op. cit., 108 ss.
154 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

sé gli uomini, è la sapienza. Non è tuttavia il caso di pretendere che


tutto ciò che è stato detto in Israele sul rapporto amoroso tra la sa­
pienza e l'uomo sia stato elaborato partendo da questa polemica con­
tro gli usi cultuali stranieri. Conosciamo tante cose sull'amore per gli
uomini della dea dell’ordine, Maat, dalla lettura dei testi egizi24 che non
si potrebbe contestare un'influenza delle idee egizie, come pure un’in­
fluenza della poesia amorosa profana e della sua tematica. Senza com­
battere queste collusioni della storia delle religioni, noi ci interessia­
mo qui alle idee d'Israele che, a confronto con quelle egizie, hanno una
loro particolare fisionomia. Se si cerca di comprendere, a partire dalle
circostanze interne d’Israele, l'idea di una sapienza che invita ad ascol­
tarla, si giunge a questa conclusione: capita qualcosa di affatto straor­
dinario alla ragione che si apre alla conoscenza del mondo. Essa in­
contra qualcosa che le sta di fronte, è anzi superata dalla voce dell’or­
dine primordiale divino, poiché questa voce già si rivolge agli uomini;
essa è già partita loro incontro e parla loro dal luogo che la ragione
cerca senza mai raggiungere (Giob 28). Poiché il mistero del mondo va
incontro all’uomo e cerca di farsi ascoltare, questa sapienza deve e può
essere amata dall’uomo. Per questo motivo i maestri esortano: « Ama­
la, essa veglierà su di te » (Prov 4, 6), « Di’ alla sapienza: Sorella mia,
chiama amica l’intelligenza » (Prov 7, 4) « Con tutta l’anima tua avvi­
cinati a lei » (Eccli 6,26), « Essa fermerà il tuo orgoglio se l’abbracci »
(Prov 4, 8). Chi a lei si rivolge: « Come una sposa vergine, essa lo ac­
coglie » (Eccli 15, 2). E la sapienza risponderà: « Io amo coloro che mi
amano, chi mi cerca con sollecitudine mi trova » (Prov 8, 17). « Colui
che mi ascolta abita in sicurezza » (Eccli 4, 15). Essa dichiara felice
colui che, come un innamorato, veglia davanti alla sua porta giorno
per giorno (Prov 8, 34). I maestri in persona parlano nello stile della
confessione biografica della sua ricerca e dello splendido successo dei
loro sforzi.
Nella mia giovinezza... cercai apertamente la sapienza...
La mia anima ha combattuto per possederla
e non ho distolto il mio volto da lei.
La mia mano ha aperto la sua porta,
sono entrato e l’ho contemplata...
Mettete il vostro collo sotto il giogo,
le vostre anime ricevano l’insegnamento!
Guardate con i vostri occhi, come ho sofferto poco
per procurarmi molto riposo! (Ecoli 51, 13. 19. 26 s.)
È lei che ho amato e ricercato fin dalla mia giovinezza;
mi sono sforzato di averta in sposa,
e sono diventato l’amante della sua bellezza...
Ritornando a casa, mi riposerò presso di lei,
poiché la sua compagnia non mi causa affatto amarezza
né lo stare con lei afflizione,
ma piacere e gioia. (Sap 8, 2. 16)

28 Chr. Kayatz, op. cit., 98 ss.


29 La prediletta è anche chiamata « sorella », Cant 4, 9 s. 12; 5, 1 ecc,
IX. L'AUTORI VELARSI DELLA CREAZIONE 155
Così, sinché in Israele, si è elaborato un notevole ritratto ideale del­
l'uomo che conosce e che cerca. Quasi con ebbrezza si dipinge il de­
stino dell'uomo che s'impegna nel mondo, quando mette nella sapienza
la fiducia che essa gli richiede, ed ascolta il linguaggio che usa per ri­
volgersi a lui. Nessun autore descrive quest'immagine dell'uomo mosso
dalla passione del conoscere con tanta bellezza e purezza come il Si­
racide:
Beato l'uomo che medita sulla sapienza,
e che ragiona con la sua intelligenza...
Egli ne scruta i passi,
si protende alle sue finestre
e origlia alle sue porte;
si accampa vicino alla sua abitazione
e fissa un palo nelle sue mura,
alza la sua tenda nelle vicinanze
e si stabilisce in un rifugio di felicità;
pone il nido nel suo fogliame,
e sotto i suoi rami passa la notte,
sotto la sua ombra è protetto dal calore
e si stabilisce nella sua dimora. (Eccli 14, 20-27)

Se è mai esistito in Israele un qualche abbandono mistico dell'uomo


alla maestà dell'essere, è proprio in questi testi i quali sanno parlare
di un legame d'amore sublime tra l'uomo e il mistero divino della crea­
zione. Qui, l'uomo parte con gioia per immergersi in un senso della
realtà che l'invade; scopre un mistero che era già in cammino per
raggiungerlo e darsi a lui.
Essa gli si fa incontro come una madre,
come una sposa vergine, essa lo accoglie. (Eccli 15, 2)
La sapienza è splendente, non si offusca.
Coloro che l'amano la contemplano senza difficoltà.
Essa si lascia scoprire da coloro che la cercano,
previene coloro che la desiderano e si mostra ad essi per prima.
Chi la cerca daill'aurora non dovrà faticare:
la traverà seduta alla porta.
Dedicarvisi d'altronde è segno di una perfetta intelligenza,
e chi gli consacra le sue voglie sarà presto al riparo dall'affanno.
Lei stessa se ne va ovunque a cercare quelli che sono degni di -lei;
appare loro con benevolenza sulle strade,
sta in cima a tutti i loro pensieri. (Sap 6, 12-16)

La dottrina dell'« autorivelazione della creazione » si è sviluppata,


come si è visto, in testi numerosi e soprattutto molto diversi. Non vi
è perciò nulla di sorprendente nel fatto che si veda innanzitutto la
quantità di sfumature teologiche che danno ad ogni testo il suo carat­
tere particolare. Tale impressione d'indipendenza di ciascun testo si
sarebbe rafforzata se non ci fossimo limitati a parafrasi troppo corte,
ma avessimo potuto seguire i diversi enunciati nelle loro ramificazioni
per lasciarsi colpire frase per frase dalle più sottili gradazioni del pen­
siero. Non vi è alcun dubbio che l'oggetto di quest'insegnamento era
156 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

continuamente in movimento e doveva essere presentato caso per caso


in una forma estremamente diversificata. E tuttavia, a fianco delle va­
riazioni, non bisogna trascurare l’elemento stabile: se esaminiamo un
testo dopo l’altro, non vi troviamo esposte molte idee nuove. È piut­
tosto l'elaborazione di ciò che già esisteva all'inizio, ma non era ancora
stato articolato in questo modo in Israele; soprattutto abbozzo di li­
nee, all'occorrenza una combinazione d'idee fin qui isolate; ma non è
certamente l'apertura ad una conoscenza interamente nuova30. A que­
sto proposito, la dottrina dell'ordine primordiale che si manifesta al­
l'uomo può essere considerata come un caso modello della tradizione
sapienziale. Nessuno arriverà a supporre ch'essa abbia potuto saltar
fuori un bel giorno da un cervello originale che l'avrebbe espressa o
che abbia potuto essere presa in prestito dall’Egitto. Le sue radici sono
antiche, anche in Israele: esse affondano — come si è visto — nella
convinzione fondamentale da cui già era derivata la più antica sa­
pienza sperimentale: vi è una disposizione, un ordine nelle cose e nelle
circostanze; e quest’ordine non è un segreto, si autoproclama, cosic­
ché la dottrina tocca da vicino le idee dell’inno secondo le quali la
gloria maestosa della creazione rende testimonianza a se stessa. La no­
vità sta soprattutto nel fatto che quest’ordine, presupposto essenzial­
mente senza spirito critico dalla sapienza sperimentale antica, è ora di­
ventato l'oggetto stesso di una elaborazione teologica penetrante.
In ciò ohe dice dello stato originale della sapienza prima del tempo, Eccli 24
non si allontana in modo apprezzabile dal punto di vista teologico di Prov
8, 22 ss., fatta eccezione di qualche amplificazione erudita. Anche qui, la sa­
pienza è ima creatura idi Dio. Salo l'autore della Sapienza di Salomone — che
peraltro è da considerarsi sotto vari aspetti un depositario degno di fede del­
la tradizione didattica palestinese — ha abbandonato su questo punto la linea
seguita fin qui dadla tradizione e fa un passo decisivo nel senso della diviniz­
zazione mitica e speculativa della sapienza. Essa è «creatrice» (Sap 7, 12) e
«compagna del trono» (9,4) di Dio. Così la tradizione era abbandonata e qual­
cosa d'interamente nuovo appariva al suo posto31. L'autore cerca di descrivere
più esattamente questa sapienza « cosmica » con una serie di termini greci
interessanti: essa è «spirito» (1,6), «soffio» della potenza divina, «effusione»
della gloria dell’Onnipotente, atm is aporroia (7,25), «riflesso», apaugasma
della luce invisibile, « specchio senza macchia » del mistero di Dio (7,26). Ma
non ne risulta una definizione concettuale coerente. Il modificarsi delle idee
sulla sapienza dall'epoca del Siracide in poi permette di trarre la conclusione
che vi è stato a questo proposito un processo molto movimentato, che qui non
intendiamo esaminare. Il bel poema didattico Bar 3,9-4,4 si collega forte­
mente, sul piano letterario, a Giob 28 ed Eccli 24. In Enoc 42,1-3 e 91,10, la
questione della tradizione sembra essere più complicata.

31 Ciò è vero anche per il « gioco » della sapienza, Prov 8, 31. Già l’antica sapienza parla spesso
del piacere di giocare a contatto c o n -la verità, di un « delectari », di un fascino seducente; cfr.
p. 53 s.; cfr. H.-J. Hermisson, o p .c it., 136.
3T « Il libro della Sapienza pone la sapienza, espressione eterna dell’essenza di Dio e principio
del mondo, presso Dio e in un m ondo completamente separato da quello dei fenomeni. Si vede
questa dualità sin dal prim o capitolo e subito diventa chiaro che si concepisce così un dualismo
che separa il mondo divino, vera creazione incorruttibile, dal mondo diabolico, mondo improprio
e votato alla m orte * (D. Georgi, Z eit und G eschichte, in « Festschrift fiir R. Bultmann », 1964,
270). Cfr. anche p. 270 s.
JX. l ' à UTORIVELARSI DELLA CREAZIONE 157

Cerchiamo ora di ricostruire qualcosa del processo di trasmissione


che va dalla sapienza sperimentale antica alla dottrina della testimo­
nianza che la creazione rende a se stessa, la quale ha trovato la pro­
pria forma in Giob 28, Prov 8 ed Eccli 24. Le sentenze della sapienza
sperimentale erano in grado di elencare numerosi beni che potevano
attrarre l'allievo e portarlo airobbedienza: la sapienza preserva da
molteplici pregiudizi, conferisce l’onore, garantisce l'avvenire, ecc. In
qualsiasi condizione la si segua, essa promette un'intensificazione, un
compimento della vita. A questo proposito, i grandi poemi teologici
della collezione Prov 1 - 9 appartengono interamente alla tradizione de­
gli antichi maestri. Balza subito airocchio che qui si tratta per lo più
della « sapienza » in un senso totalmente differente da quello delle più
antiche collezioni. È chiaro che la riflessione didattica ha operato un
grosso lavoro di elaborazione; passi decisivi sono stati compiuti in tre
direzioni:
1. L'ordine percepito inizialmente in modo impreciso, senza rifles­
sione e sotto forme molteplici, deve essere diventato sempre più l'og­
getto stesso della riflessione. Esso è stato oggettivato e fissato concet­
tualmente (come « sapienza »), in quanto realtà omogenea, percettibile
in ogni esperienza.
2. Questa sapienza immanente alla creazione è stata staccata nei tre
grandi poemi didattici (Giob 28, Prov 8, Eccli 24) dalle opere della
creazione propriamente dette (vento, sorgenti, mare, montagne, ecc.).
Questa separazione ontologica dei fenomeni all'interno della creazione
è quanto vi è di più interessante. Era appunto questo il fenomeno che
i maestri percepivano come « chiamata emanante dalla creazione », co­
me « testimonianza del suo ordine » e che non era semplicemente iden­
tico alle opere propriamente dette della creazione.
3. Il rapporto dell'uomo con questo fenomeno si è poi modificato.
Quel che abbiamo opportunamente chiamato la provocazione fatta al-
luomo da parte del mondo era noto da sempre. Ma mentre i maestri
antichi trattarono questo fenomeno della volontà di conoscere in modo
essenzialmente attivo (nell'intenzione di trovare un ordine), i maestri
recenti si sono piuttosto considerati come l'oggetto del suo intervento.
Era la sapienza che agiva sull'uomo, sia con le parole sia con l'offerta
dei beni della vita e con l'invito ad entrare da lei.
Poiché chi trova me trova la vita,
egli otterrà il favore di Jahve,
ma chi mi offende ferisce se stesso,
chiunque mi odia ama la morte. (Prov 8, 35 s.)

Senza dubbio si parla spesso della conservazione o dell'acquisizione


della vita — intesa per lo più in un senso generale e assoluto — nelle
sentenze di vita pratica. La giustizia conduce alla vita (Prov 11, 19),
11. voti rad. la sapienza in israele
i 58 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

morte e vita sono in potere della lingua (Prov 18, 21), chi detesta i re­
gali corruttori vivrà (Prov 15, 27), ecc. Parlare in tal modo dell'acquisto
o della perdita della vita corrisponde airabitudine dei maestri di espri­
mersi con antitesi caratteristiche e piene di effetto. Ma, in Prov 8, 35 s.,
le cose sono molto diverse, nel senso che non è più l'attività conforme
all'oggetto e alla situazione che assicura la vita, ma lordine primor­
diale stesso, la cui offerta assicura lacquisizione di vita e che, con la
sua offerta, si rivolge direttamente e molto personalmente all'individuo.
La vita non dipende quindi più soltanto da un atteggiamento saggio,
ma dallaver « trovato » la « sapienza »32. Anche per essa luomo ottiene
il « favore di Jahve » (Prov 8, 35); è essa che mette in ordine tutta la
vita di fronte a Dio. Questa sentenza formula la conclusione di un no­
tevole lavoro di riflessioni teologiche e si trova molto distante nella
forma e nel contenuto dalle sentenze didattiche di Prov 10 ss. Si poteva
anche dire che la sapienza è il sommo bene e che il suo acquisto ha più
valore dell'oro e dell'argento (Prov 16, 16); ciò può essere compreso
molto bene nella prospettiva di questi insegnamenti. Quasi parola per
parola riappare il tema « più prezioso dell’oro », « dell'argento puro »,
in Prov 8, 19, ma in un contesto profondamente modificato. Ora è l'or­
dine primordiale stesso che si raccomanda come dispensatore di beni
in un discorso personale all'uomo. È l'« io » misterioso che aveva detto
in precedenza: « Coloro che mi amano, io li amo » (Prov 8, 17).
Con quest'ultima frase, siamo ritornati al gruppo di idee nel quale
si trovano le dichiarazioni più forti insieme alle più tenere su ciò che
capita alluomo nel mondo delle creature che lo circonda. L'esistenza
nel mondo dell'uomo aperto alla conoscenza si svolge sotto il segno di
un rapporto amoroso con il mistero dell'ordine. E collocata nel campo
di forze di una sollecitazione, di una ricerca reciproca, di un'attesa ne­
cessaria e nella prospettiva di compimenti spirituali preziosi. L’offerta
della sapienza che è alla ricerca dell'uomo, comprende tutto ciò di cui
egli ha bisogno nel suo isolamento: ricchezza e onore (Prov 8, 18.21),
direzione e protezione nella vita (Prov 1, 33 ss.; 2, 9 ss.; 4, 6; 6, 22; 7, 4
s.), conoscenza di Dio e riposo per l'anima (Prov 2, 5; Eccli 6, 28;
51, 27).
Con tutta l’anima tua avvicinati a lei,
con tutte le tue forze, segui le sue vie.
Interroga, scruta, cerca e trova,
afferrala e non lasciarla sfuggirei
Poiché alla fine troverai m essa il riposo,
ed essa si cambierà per te in gioia. (Eccli 6, 26-28)

Ed essa risponde in questo dialogo d'amore sublime e senza fine:


Colui che mi ascolta abiterà nelle mie stanze più segrete. (Eccli 4,15)

« Prov 1. 28; 2, 5; 3, 13; 4, 22; 8. 12; 17.


xx. l 'a u t o r iv e l a r si della c r e a z io n e 159

Per aiutare l’uomo in tutto ciò, la sapienza si è messa in cammino


come un'amante (Eccli 15, 2; Sap 6, 13-16), e sa anche aspettare alla
sua porta. Ciò che essa ha da offrire all’uomo, anzi, quel che essa ar­
reca all'uomo, lo si può definire con tutta la portata teologica di que­
sto termine: i beni della salvezza. Ogni sforzo per raggiungere il suc­
cesso e signoreggiare la vita è qui fuori causa. Quest’invito della sa­
pienza a votarsi a lei spiritualmente e questa consacrazione all’uomo
che essa testimonia, non sono più dei mezzi per raggiungere un obiet­
tivo nella vita, sono diventati un fine in sé.
Per esprimere tutto ciò, i maestri si son lasciati stimolare da tutte
le idee che circolavano nella vita spirituale dei popoli circostanti, han­
no anzi potuto trascrivere delle pericopi intere. Eppure tutto ciò è
stato fortemente estraniato dal suo senso originale. Il fatto che non
solo idee particolari dell’Egitto, ma a volte una sequenza intera di frasi
abbiano potuto essere riprese e conservate negli stessi termini — senza
correzioni! — e che queste parole e queste frasi abbiano potuto essere
in Israele svuotate fino in fondo del loro significato originario e riem­
pite di un significato di natura totalmente diversa, questo fatto è un
fenomeno ermeneutico che non è stato ancora sufficientemente esami­
nato in tutti i suoi aspettiM. Chi infatti — a parte gli specialisti della
Bibbia di questi ultimi tempi — avrebbe potuto, riflettendo su Prov 8,
22 s. o su Eccli 24, 2 ss., essere in grado di pensare all’autopresenta-
zione di una divinità egizia? La dottrina egizia della Maat non poteva
essere attestata in Israele. Nei confronti di essa tutto quel che prove­
niva dai principi della fede in Jahve doveva essere formulato in ter­
mini nuovi. Ci si ricordi ad esempio che l’idea della Maat che inter­
pella l’uomo era assolutamente estranea agli EgiziM. In realtà questo
era l’elemento costitutivo della dottrina dell’ordine primordiale poiché,
senza tale chiamata rivolta all’uomo, tutto il sistema israelitico di rap­
presentarsi la realtà si sarebbe sfasciato. È da questo che si può ve­
dere la profondità del fossato che separa la Maat egizia daH'insieme
di idee che si è formato in Israele (verosimilmente con il concorso del­
l'Egitto). Il rapporto tra l'ordine primordiale e Jahve è stato esso pure
necessariamente definito in modo ben diverso da quello esistente tra la
Maat e il dio Amon, poiché l'ordine primordiale fa parte del campo
della creazione. In definitiva, la personificazione dell'ordine primor­
diale sulla bocca d'Israele non era né un vestigio mitologico involonta­
riamente assorbito, né — come si è visto — una figura poetica e didat­
tica libera. La raffigurazione personificante era l'espressione la più esat­
ta possibile che si aveva a disposizione per spiegare la cosa. Soltanto
in questa forma i maestri potevano esprimere convenientemente ciò
che vi era di così straordinario, ciò che l’uomo provava nel suo incon-
33 Cfr. pp. 141 s., 147 s.
34 Comunicazione verbale di E. Otto,
i 6o LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

tro con l'ordine primordiale. Bisognava non tanto registrare la consta­


tazione neutra di un ordine primordiale, quanto fissare alcune espe­
rienze che l’uomo aveva fatto in quest’incontro. Non l’aveva sperimen­
tato soltanto come un ordinato organismo in situazione di quiete; si
sentiva anche provocato da quest'ordine, lo scorgeva in tensione per
raggiungere l'uomo, aveva la consapevolezza che quest'ordine è dispen­
satore di beni. Si vedeva condotto da esso a uno « status confessionis »
in cui doveva decidersi per tutta la sua esistenza.
Se siamo sulla buona strada ammettendo che l'idea di un'autopre-
sentazione dell'ordine primordiale appartiene, anzi si radica nell'antico
motivo innico della creazione che rende testimonianza di sé, possiamo
riprometterci ancora un po' di luce per rischiare il particolarismo
israelitico dei temi dell’insegnamento sapienziale. Se da una parte si
può constatare una quantità di punti comuni tra gli inni israelitici e
quelli delle religioni vicine, dall’altra parte l’idea di una testimonianza
che proviene dalla creazione è attestata solo in Israele. La dottrina
della rivelazione originale, in ciò che ha di specifico — cioè la chiamata
rivolta all’uomo —, si basa su idee autenticamente israelitiche e molto
antiche. Proprio su questo punto capitale cessa l'analogia con la Maat
egizia.
D’altronde, l'idea nella forma che ha preso nell’insegnamento dei
saggi è di nuovo profondamente separata da ciò che si intendeva in
Israele con il termine di « rivelazione ». La differenza capitale consiste
nel fatto che si sviluppa la dottrina di un tipo di rivelazione, che non
raggiunge l’uomo con una testimonianza specifica, irreversibile di sal­
vezza nella storia, ma procede piuttosto dalla forza ordinatrice ritenuta
autosufficiente. È lei la grande mediatrice e non i sacerdoti, i profeti
o le tradizioni attualizzate della storia della salvezza; attraverso la sua
chiamata che risuona nell’attualità più intensa ed i suoi doni, l’uomo
ha un posto presso Jahve. Il destinatario di questa rivelazione non è
quindi quell'Israele che è chiamato ad una relazione di alleanza con
Jahve — Israele come realtà teologica non è in alcun punto percetti­
bile — ma semplicemente l'uomo (cfr. Prov 8, 15 s.). I rappresentanti
di queste idee teologiche devono certamente essere stati uomini molto
impegnati in materia di conoscenza, dei maestri di sapienza cosmopoliti
che sono stati fortemente stimolati dai loro rapporti con la sapienza
dei popoli stranieri. Ma ancor più interessante della loro dipendenza
dagli stimoli esterni è il loro particolare contributo teologico.
Si delinea così nettamente un grande arco che va dalle sentenze del­
l'antica sapienza sperimentale fino alla dottrina dell’ordine primor­
diale. La realtà nella quale ogni vita è inevitabilmente inserita ha da
sempre provocato l'uomo. Anche Israele ha conosciuto questa provo­
cazione e certamente non soltanto ad un'epoca tardiva. L'ha assunta,
non ha capitolato di fronte all'aspetto visibile del mondo, spesso così
impenetrabile, non ha respinto i problemi relativi al significato, ad un
ordine che governa il mondo. Che cos’ha trovato? La sua ultima rispo­
ix . l ’a u t o r i v e l a r s i d e l l a c r e a z i o n e 161

sta è la dottrina dell’ordine primordiale. Ha scoperto il mistero di un


mondo rivolto verso di lui per aiutarlo, che si trova già in cammino
per incontrarlo, è già seduto alla sua porta e l’attende.
Quale coscienza di essere a casa propria nel mondo! Quel che capita
all'uomo da parte del mondo è radicalmente salutare, crea ordine, pro­
voca fiducia. È vero che i maestri sanno anche parlare a questo ri­
guardo di perdizione e di morte, ma questo non viene dall’esterno sul­
l'uomo, è un’eventualità propria alla sua vita interiore. Ci domandiamo
allora: che cosa è dunque questo mondo dal quale l’uomo non ha nulla
da sperimentare di dannoso? Questo problema lo riprenderemo un po'
più avanti *

K Cfr. p. 196 $.
X
LA POLEMICA CONTRO GLI IDOLI

Le nostre riflessioni ci hanno condotto ad un punto in cui è oppor­


tuno inserire uno studio sulla polemica contro gli idoli. Questo tema
era estraneo alle dottrine professate nei paesi civili vicini ad Israele;
in cambio, esso occupa un posto considerevole nei testi didattici della
Bibbia in verità, quelli di epoca tardiva. È inoltre un tema interes­
sante, perché appartiene espressamente al patrimonio caratteristico
della sapienza d’Israele. A partire da quali principi interni o esterni
si può spiegare questa polemica e come viene trattata? Siamo coscienti
di toccare nei nostri testi didattici solo un settore di quella disputa che
è stata ripresa di frequente in numerosi luoghi nel corso di un lungo
periodo. D’altronde anche nell’antichità greca e romana, la rappresen­
tazione degli dèi mediante immagini non era incontrastata e, nella
Chiesa orientale in particolare, la disputa riguardante l’uso delle icone
nel culto fu regolata in parte da una sottile argomentazione teologica,
in parte dalla forza brutale. Ci troviamo quindi sempre nel campo di
una discussione intellettuale che si è estesa per un grande numero di
secoli '.
Maledetto l ’uomo €116 fa un idolo scolpito o fuso, abominio per Jahve, opera
delle mani di un artigiano, e lo pone in un luogo nascosto. (Deut 27,15)

Questo è il primo divieto del più antico catalogo di proibizioni


d’Israele, il dodecalogo di Sichem. Ma, come balza immediatamente
alla vista, questo divieto è ampliato da numerosi elementi d ’interpreta­
zione. Dalla forma molto più breve di alcuni divieti che lo seguono, si
può argomentare che la dizione nella sua redazione originale fosse pro­
babilmente questa: « Maledetto colui che alza in segreto un idolo! ».
Gli elementi interpretativi sono un chiaro segno dell'intensità con cui
le epoche successive hanno studiato questo divieto delle immagini. La
prima delle due parentesi rimane ancora nel campo delle rappresenta-
1 J. Getfckcn, Der Bilderstreit des hcidnischen Altertums, in « Àrchiv ftir Religionswissenschaft »,
1916-1919, 286 ss.; H. von Campcnhausen, Die Bilderfrage als theologisches Problem der alteri Kir -
che, in Tradition und Leben (1960), 216 ss.
X. LA POLEMICA CONTRO GLI IDOLI I63

zioni sacrali: la formula « abominio per Jahve » constata originaria­


mente la trasgressione di un precetto del diritto sacro. Ben diversa è
la situazione della seconda parentesi: se l’idolo è definito come un’ope­
ra della mano dell’uomo, ciò costituisce naturalmente un giudizio ne­
gativo; ma questo giudizio proviene da tu tt’altra sponda. Che degli
idoli siano stati eretti da uomini non era per l’antico Israele una cir­
costanza aggravante (chi li avrebbe eretti, altrimenti?), ma la gravità
consisteva nel fatto che vi era a questo riguardo una dichiarazione
perfettamente chiara della volontà di Jahve. Quindi, se si respingeva
l’immagine cultuale come un’assurdità, perché l'uomo non può fab­
bricare un dio, significa che un cambiamento decisivo si era operato
nell’argomentazione: non era più infatti la volontà di Dio direttamente
percepita, ma la logica di una concezione secolarizzata del mondo, che
vietava questo atto. Ed è precisamente quest'argomento che noi incon­
triamo di continuo. Se Osea dice: « Col loro argento si fanno statue
fuse, idoli di loro invenzione, tutto lavoro di artigiani! » (Os 13, 2) ed
Isaia: « Si prostrano dinanzi all'opera delle loro mani » (Is 2, 8), ri­
sulta chiaro che i profeti dell’vin secolo condividevano già questo mo­
do di vedere.
Gli idoli dei pagani, oro e argento,
un’opera di mani d’uomo!
Hanno una bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono.
Hanno orecchie e non odono,
non il minimo soffio sulla loro bocca.
Come loro saranno quelli che li fecero,
ohiunque mette in essi la sua fede. (Sai 135, 15-18)

Questo testo è senza dubbio più recente. Lo citiamo qui perché dalla
sua forma si può dedurre che si tratta di un’imprecazione (v. 18), per­
ché vi sussistono in parte la vecchia concezione sacrale e il cerimoniale
di maledizione che essa comportava. Certo, il modo di affrontare il
problema è razionale fino alla noia. Rimane tuttavia fissato che l’im­
magine divina è considerata come oggetto della confidenza umana. Più
avanti incontreremo ancora questo tema della confidenza delusa.
Troviamo altri documenti della polemica contro la fabbricazione e
l’adorazione di idoli in alcuni libri profetici. Nel libro di Abacuc viene
messa in questione l'utilità di una scultura che è senza dubbio ricca­
mente confezionata, ma muta e senza « spirito » (Ab 2, 18 s.). Allo
stesso modo, Ger 10, 1-9 dichiara che non si ha nulla da temere da un
pezzo di legno tagliato nella foresta e artisticamente scolpito dall’uomo.
Questi idoli, bisogna rafforzarli coi chiodi perché non vacillino; bisogna
portarli perché non possono camminare. Come potrebbero provocare
la disgrazia sino al punto da doverli temere? Nel Deuteroisaia, questa
polemica occupa un posto molto più ampio. Vi ritroviamo la men­
zione che gli idoli sono fatti da uomini e devono essere fissati (Is 40,
19 s.; 41, 7). L'imminenza, evocata dal profeta, della prossima conqui­
LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

sta di Babilonia non manca di grandezza: gli idoli saranno caricati dal
vincitore su bestie da soma che quasi si accasceranno sotto il loro peso.
Obbrobriosamente gli dèi lasciano la città da essi santificata e che non
hanno potuto proteggere; se ne vanno in schiavitù (Is 46, 1 s.). Ma il
più importante è senza dubbio il grande testo di Is 44, 9-20. Se gli ar­
gomenti presentati non sono molto diversi da quelli dei documenti
citati sinora, la forma letteraria attira in ogni caso l'attenzione; vi si
potrebbe vedere un trattato sulla stoltezza d’innalzare e di adorare
idoli. Il tema è trattato con prolissità e l’autore si è compiaciuto di
caricarlo abilmente di effetto. Più ancora che negli altri testi, vien
messo in evidenza il lato comico della faccenda. Non occorre indignar­
si, è meglio ridere del fatto che l'artigiano dimentichi di bere e di man­
giare per compiere la sua opera, perdendo così le sue forze, e utilizzi
la metà del legno per cuocere ed arrostire gli alimenti, fabbricandosi
con il resto un dio2.
Tuttavia, questo tema è lungi dall’essere specificamente profetico,
malgrado le apparenze. I testi di Abacuc e di Geremia sono considerati
per buoni motivi come interpolazioni « sapienziali », diversamente da
quelli del Deuteroisaia, in cui la polemica entra in qualche modo nel
quadro della predicazione globale del profeta. Ma anche se gli attri­
buiamo il testo di Is 44, tesi che non è affatto incontrastata, occorre
precisare che il profeta segue qui con evidenza il modello di un inse­
gnamento che proviene originariamente non dai profeti ma dai saggi3.
Bisogna ammettere che questa polemica ha preso consistenza nelle
scuole solo a partire dall’epoca dell’esilio, perché solo allora Israele si
è trovato in mezzo a un popolo dominato da una religione idolatra. Per
quanto preponderante sia il motteggio, non ci si deve ingannare sui
destinatari di questi insegnamenti: non erano gli stessi idolatri, ma
Israele che non doveva lasciarsi influenzare per nessuna ragione dal
prestigio dei grandi idoli.
Forse il lettore odierno non dovrebbe dare troppo facilmente per
scontata questa polemica, come se il problema della legittimità degli
idoli fosse a quell’epoca così facile da dirimere come sembra a noi
oggi. Il fatto che il divino si riveli in una immagine è stato affermato
molto seriamente, prima e dopo Israele. Nelle religioni che circonda­
vano questo popolo, si pensava che gli idoli avessero un’anima e fos­
sero riempiti di un fluido divino. Si era convinti che l’idolo fosse per­
fettamente capace di vendicare immediatamente il delitto di chi lo sfi­
dava o lo offendeva4. La voce d’Israele, come voce di tutta una comu­
nità religiosa, era un fatto unico nel mondo antico. Perciò la polemica
contro gli idoli aveva una grande importanza e una grande attualità
2 I commentari ricordano volentieri a questo proposito i paralleli in Orazio ( S a tire . I, 8. 1 ss.);
« Trtmcus eram... » (« ero un tronco »). L'artigiano, non sapendo se deve fare un banco o un dio,
decide per il secondo. Ancora più sarcastica è la storia del calice di Amasi»: dapprim a sputac­
chiera e vaso da notte vien fuso per farne un idolo (Erodoto, li. 172).
3 Press’a poco in quest’epoca bisogna situare Deut 4, 28 che da p a rte sua è im parentato con
Sai 135, 15-18. L'argomentazione è totalmente nella linea dei documenti ricordati finora.
4 K.-H. Bernhardt, Gott und Bild (1956), 46 ss.; circa il fluido divino, vedi 24 ss.
X. LA POLEMICA CONTRO GLI IDOLI 165

per Israele, che era chiamato ad avere rapporti sempre più stretti con
il mondo delle nazioni. Bisogna tenerlo presente in tutti questi testi.
A proposito dei motivi esposti contro l'adorazione degli idoli — que­
sti idoli sono morti, sono l'opera delle mani delluomo — anche i testi
didattici più recenti (tranne un'eccezione) non fanno un passo avanti.
Questo, lo si può dire in anticipo. Bisognerebbe citare il racconto apo­
crifo di Bel5: Daniele in una conversazione con il re di Babilonia con­
testa che il Dio Bel mangi effettivamente gli alimenti posti ogni giorno
davanti al suo idolo, poiché non è che bronzo e argilla. Viene fatta una
scommessa. All'indomani mattina, tutti e due entrano nel tempio che
era stato sigillato la sera prima; il re crede di aver guadagnato la scom­
messa, poiché gli alimenti sono scomparsi. Daniele scoppia a ridere;
prima aveva fatto spargere della cenere per terra e può mostrare al re
le orme dei passi dei sacerdoti, delle loro mogli e dei loro bambini che
sono venuti di notte a cercare gli alimenti attraverso una porta segreta.
La novità in questo racconto quasi burlesco sta nel fatto che, nel culto
delle immagini, non vi è soltanto molta ignoranza, ma altresì un in­
ganno sistematico dei sacerdoti. La pretesa lettera di Geremia, la cui
datazione è più recente, cioè del 111 o del 11 secolo avanti Cristo, tratta
della stupidità del culto degli idoli6.
« Ornano di vestiti, come se fossero uomini, questi dèi d’argento, d'oro e di
legno; ma essi non si difendono né dalla ruggine né dai vermi; sono vestiti
di porpora, eppure bisogna spazzolare i loro volti a causa della polvere del
tempio ohe si accumula su di loro ». Li si deve proteggere dalla rapina per
mezzo di chiavistelli e di sbarre, si accendono davanti a loro lampade che
questi dèi non possono vedere. « Non si accorgono che la loro figura è anne­
rita dal fumo che saie dal tempio. Sui loro corpi e sulle loro teste svolaz­
zano pipistrelli, rondini o altri volatili; vi sono pure gatti ». « Non avendo
piedi, sono portati a spalle, mostrando agli uomini la loro vergogna. Anche
i loro servi sono confusi: poiché è per la loro assistenza che gli dèi si rial­
zano se cadono terra ». (Lettera di Geremia, w . 10-25)

Tutto ciò è pieno di arguzia e ci apre nello stesso tempo una pro­
spettiva sui luoghi di culto, poiché la descrizione degli idoli anneriti
dal fumo dei sacrifici, sui quali i gatti sonnecchiano, non è un'inven­
zione! Non si può tuttavia nascondere che la base di pensiero di tutta
questa argomentazione è stretta: essa dipende interamente dal fatto
di ammettere o non ammettere l'identità totale tra il dio e l'idolo. Poi­
ché gli idoli erano costruiti con materiali terrestri, i maestri non ave­
vano alcuna difficoltà ad accumulare attorno a questo fatto il loro
motteggio. È evidente che questa presa in giro non tiene conto della
serietà con cui le immagini cultuali sono venerate. Nessun partecipante
ad una processione solenne si sarebbe mai insospettito per il fatto che
l'immagine cultuale veniva portata. Il problema che viene subito alla
mente, di sapere cioè che cosa spinge gli uomini ad adorare delle im­
5 Questo racconto è una delle aggiunte al libro di Daniele che si trovano nei LXX.
6 La lettera di Geremia si trova nella Volgata e nella traduzione di Lutero al capitolo 6 del
libro di Baruc.
166 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

magini, non è in un certo senso mai posto. Ciò è dovuto, si pensa, alla
ragione offuscata degli idolatri; essi sono sedotti da cattivi spiriti, dice
il libro dei Giubilei7. La polemica si rivolge inoltre in modo curiosa­
mente schematico, senza sfumature, contro « l’idolo ». L'esegeta non
riuscirà a scoprire dietro i testi sempre eloquenti quali sono i culti
precisi che avrebbero potuto servire da modello*. I testi sono impor­
tanti perché ci mostrano per contrasto, nell'impotenza degli idoli, quel
che Israele possedeva di positivo in Jahve, secondo il parere dei mae­
stri: egli salva (Is 44, 17), mette sul trono e vi depone i re, accorda i
beni, esaudisce i voti, salva dalla morte, libera il debole dal forte, fa
vedere i ciechi, ha pietà delle vedove e fa del bene agli orfani (Lettera
di Geremia, w . 33-37).
Le riflessioni della Sapienza di Salomone, che provengono dal giu­
daismo della diaspora ellenistica di Alessandria, si distinguono in modo
notevole da tutte queste polemiche e dalla povertà della loro argomen­
tazione (cc. 13-15)9. Certo, la stupidità del culto delle immagini è anche
qui il tema principale. Quanto stoltamente agisce il marinaio che in­
voca un pezzo di legno più tarlato del suo bastimento ( 14,1 )! Così pure,
il tema tradizionale della fabbricazione degli idoli è ripreso su una base
più vasta (13, 10-19; 15, 7-10) e tuttavia, con quante sfumature e quan­
ta riflessione il tema viene trattato! Vi sono innanzitutto coloro che
prendono come dèi gli elementi, il fuoco, il vento, l’acqua e le stelle,
che sono impressionati dalla loro bellezza o dal loro aspetto terribile.
Pur non potendoli scusare, poiché dovrebbero riconoscere il creatore
nella creatura, una cosa parla in loro favore: essi cercano Dio e vo­
gliono trovarlo (13, 1-9). Questo rimprovero moderato lo si potrebbe
far risalire all’A.T. stesso, al Deuteronomio (4, 19) in cui è detto, con
una tolleranza che non si ritroverà più altrove, che Dio stesso ha asse­
gnato le stelle all’adorazione cultuale dei pagani. Ma l’influenza della
filosofìa stoica popolare potrebbe essere ben più fo rtel0. Al contrario,
7 Giub. 11, 4; 22, 18. La critica agli idoli è fissata dal libro dei Giubilei (n secolo a. C.) pro­
prio agl'inizi d'Israele. Già Abramo ha scorto la vanità del culto delle immagini della famiglia in
cui era cresciuto (Giub. 11, 16). La stessa partenza da Charan, lontano dalla sua parentela, è pre­
parata psicologicamente dalla sua opposizione al culto idolatrico della famiglia (Giub. 12). Stessa
cosa nell'Apocalisse di Àbramo, ancor più recente: Àbramo vede il padre Terach piallare un idolo;
i trucioli serviranno a cuocere il pasto. Abramo si fa beffe (Apoc. Abr. 1-6).
B O. Eissfeldt pensa che la descrizione della lettera di Geremia si riferisca ai culti babilonesi;
cfr. Einleitung in das A lte Testam ent (19643), 806.
9 H. Eising, Der W eisheitslehrer u n d die G òtterbilder, in « Biblica » 40, 1959, 393 ss.
10 F. Ricken, Gab es eine hellenistiche Vorlage fiir W eisheit 13-15?, in « Biblica » 49, 1968, 50 s.
Il contributo del pensiero ellenistico in quest'opera non potrà mai essere chiaramente determinato.
L'uso di nozioni del tutto estranee a ll’ebraico e appartenenti alla filosofia popolare ellenistica ha
condotto innanzitutto ad ammettere u n ’ampia ellenizzazione del pensiero ebraico. La ricerca più
recente si è allontanata da questa linea. Nozioni tipicamente greche devono servire all'autore per
presentare la sua eredità giudaica. O. Eissfeldt parla del « nocciolo totalmente giudaico del libro »
(op. cit., 814). Stessa opinione in Fichtner, Die Stellung der Sapientia Salom onis in d er Literatur-
und Geistesgeschichte ih rer Zeit, in ZN\V 36, 1937, 113 ss., e in J. Geyer, The Wisdom of Salomon,
in « Torch Bible * 1963, 18 s. Nel paragrafo che abbiamo accostato, non si possono riconoscere le
influenze che l’autore ha subito dal pensiero greco. La tesi di Fichtner (op. cit., 129) secondo cui
« gli elementi filosofici non sono che accessori retorici », va troppo lontano e non rende giustizia
alla problematica propria di quest'opera. Le componenti ellenistiche sono molto più giustamente
apprezzate presso C. Larcher O.P., E tu d e s sur le livre de la Sagesse, in « Etudes Bibliques » 1969.
fe difficile determinare più precisamente la prospettiva di comprensione sulla cui base occorre in­
terpretare i termini filosofici utilizzati.
X. LA POLEMICA CONTRO GLI IDOLI

coloro che adorano immagini fatte da uomini, quindi oggetti inanimati,


agiscono in modo assolutamente incomprensibile (13, 10-19). In questo
campo vengono presentate riflessioni sui motivi che hanno spinto gli
artigiani a fabbricare tali oggetti. Vi è da una parte la sete di guada­
gno (14, 2; 15, 12), dall’altra può avere avuto un ruolo anche l'ambi­
zione (14, 18). Infine è interessante che l'autore tenti di fare perfino
l’eziologia del culto idolatrico. Non potrebbe essere nato dal fatto che
un padre abbia fatto erigere l’immagine di un figlio morto prematura­
mente e sia giunto a prestargli gli onori divini? Da qui si è sviluppato
un culto segreto che è finito per diventare un’istituzione fissa. Oppure:
Forse si è fabbricata la statua di un sovrano, che coloro che non ave­
vano mai visto in forma umana hanno venerato come Dio (14, 15-17)?
Ma pur nella mobilità del suo modo di ragionare — la satira passa in
secondo piano, soppiantata dalla riflessione seria — l’autore giudica il
culto delle immagini altrettanto duramente quanto i maestri palesti­
nesi. Li supera anzi per alcuni versi considerando il culto delle imma­
gini come la radice di ogni depravazione morale. E questo giudizio è
ponderato con maturità: gli idoli, non essendo di condizione divina,
non possono naturalmente mantenere gli uomini nel giusto timore di
Dio (14, 12. 23-31).
Benché tutti questi testi che abbiamo brevemente considerati, pre­
sentino nell'insieme un concatenamento coerente di idee, ci pongono
tuttavia un problema. È noto che ciò che caratterizza il culto di Jahve,
fin dai tempi più remoti, è l’assenza di ogni immagine. Secondo la proi­
bizione delle immagini nel decalogo e nel dodecalogo, l’adorazione di
Jahve raffigurato era messa sullo stesso piano dell’omicidio, l’adulterio
o il furto (Es 20, 4 s.; Deut 27, 15). Poteva dunque sembrare che la
polemica dei maestri di sapienza contro ogni venerazione degli idoli
continuasse semplicemente quest’antica tradizione. Ma le cose non
sono così semplici. Non è sorprendente il fatto che nessuna di queste
polemiche si richiami nelle proprie argomentazioni all'antico divieto
delle immagini? Di più! Il riferimento a questo divieto avrebbe potuto
collegarsi a questo genere di argomentazione? C'era forse bisogno di
un comandamento divino così stretto per astenersi da una cosa che
pareva ridicola o per lo meno incomprensibile? L'argomento principale
di queste polemiche non risiedeva nel fatto che un comandamento di­
vino non doveva essere trasgredito, un comandamento che si erige bru­
talmente contro una tentazione che è profandamente radicata nell’at­
teggiamento di venerazione dell’uomo per la divinità, ma come si è
visto, risiedeva in un appello alla sanità fondamentale del buon senso
umano. In fondo non era necessario faticare molto per far risaltare la
stupidità e il ridicolo del culto degli idoli come esso appariva ai mae­
stri; non si trattava forse di una verità che dev’essere chiara per ognu­
no di primo acchito? Non è certamente così che veniva inteso l'antico
168 LA SAPIENZA IxN ISRAELE - PARTE I I I

comandamento che vietava le immagini. Che serietà mortale regna


sul racconto del vitello d'oro (Es 32)! Secondo il pensiero del narra­
tore, vi è ancora una reale tentazione; Israele — lasciato a se stesso
da Mosè solo per breve tempo — ha subito richiesto un culto di im­
magini. Ha ceduto ad una tentazione e turbato così gravemente le rela­
zioni col suo Dio. Un richiamo al buon senso umano sarebbe stato fuori
posto in questo caso, poiché il racconto suppone ancora una concezione
del culto e della realtà sacrale che determinava la religiosità di tutto
l’antico Oriente ed alla quale non si poteva rispondere con un sem­
plice richiamo alla ragione. In tutta l’atmosfera del racconto del vi­
tello d’oro, Israele è ancora molto lontano dai superiori motteggi di
Daniele 14,5 (Bel).
Come spiegare il passaggio da questo divieto cultuale ad una dimo­
strazione interamente razionale? Senza dubbio il divieto delle immagini
nell’antico Israele proclama già, in una prospettiva interamente sacra­
le, una certa concezione esclusiva dei rapporti di Jahve con le altre
raffigurazioni dell’ambiente che circondava Israele. Bisogna anche am­
mettere che il divieto delle immagini non ha dato vita a questa con­
cezione, ma che essa era già un’espressione condensata di una visione
sacrale del mondo il cui carattere specifico risiedeva nel fatto che una
rappresentazione della divinità, intesa come una manifestazione di po­
tenze divine, le era assolutamente inconciliabile Il fatto di sapere
che Jahve trascende teologicamente il mondo dev’essere tra le pri­
missime esperienze che Israele ha fatto con Jahve. Come si è detto,
quest’insieme di concezioni sacrali e cultuali di un mondo che non
può fornire alcuna forma per rappresentare Dio, ha preso un’impor­
tanza enorme per il modo con cui Israele, anche in epoca tardiva, ha
compreso il mondo, per il fatto che si è mantenuto al di là di tutte le
spinte illuministiche per una concezione razionale del mondo e nello
stesso tempo si è trasformato. Avremmo quindi il caso interessante di
una concezione di origine religiosa e sacrale dei rapporti tra Dio e il
mondo, che è stata accettata dalla ragione e ha contribuito finalmente
ad edificare un’immagine razionale del mondo di una chiarezza impo­
nente. Da questo momento diventava anche possibile portare in campo
gli argomenti di un pensiero puramente razionale. L’argomentazione
dei maestri di cui abbiamo parlato, non è né liberale nel senso di un
razionalismo la cui sostanza oltraggia la religione, né tanto meno filo­
sofica nel senso di una separazione tra l’elemento materiale e la spi­
ritualità della divinità. In fin dei conti, essa è teologica poiché nega alla
creatura la capacità di rappresentare il creatore. L’argomento della stu­
pidità del culto idolatrico, perché il vero creatore dev’essere ricono­
sciuto nella creatura, in nessun luogo è stato espresso con tanta chia-
11 G. von Rad, Aspekte alttestamcHtfichefi W ehvcrstandwsses, in EvTli 24, 1%4. soprattutto 18 ss.
- Gesarnmelte Stitdieti (1965), 313 ss.
X. LA POLEMICA CONTRO GLI IDOLI

rezza come nella Sapienza di Salomone (13, 1-9); ma non è una no­
vità se pensiamo alla dottrina della creazione che rivela se stessa, di
cui si è parlato nel capitolo precedente, ed in particolare alla sua voce
che si rivolge all'uomo. Chi comprendeva così il mondo — piena espres­
sione, piena testimonianza del Creatore — non poteva considerare la
costruzione di un'immagine di Dio tratta dagli elementi della crea­
zione se non come una stupidità. Con tale concezione dei rapporti tra
Dio e il mondo, Israele si è definitivamente separato dai culti dei po­
poli circostanti e si è progressivamente posto neirimpossibilità di ren­
dere loro giustizia. Ma questa totale incomprensione d'Israele per ogni
forma di culto idolatrico non è anch'essa un fenomeno?
XI
SAPIENZA E CULTO

Se i maestri di sapienza hanno condotto una polemica contro ciò che


era ai loro occhi un’adorazione di Dio fondamentalmente aberrante, il
culto degli idoli, doveva pur esserci in questo campo, di fronte a que­
ste aberrazioni, qualcosa da dire sulla vera adorazione di Dio in Israe­
le. Non è sorprendente che queste polemiche insistano così esclusiva-
mente sul lato negativo, come se non vi fosse veramente niente da dire
di positivo sull’argomento? Ora, ciò potrebbe a buon diritto essere il
segno che, per i maestri, l’esistenza di immagini delle divinità non fosse
in fondo un problema cultuale, ma piuttosto un fatto di concezione
generale del mondo. Se questa polemica dovesse essere considerata
come cultuale in senso stretto, gli idoli dovrebbero apparire in qual­
che punto come rivali di Jahve, come pericolosi concorrenti di fronte
alla pretesa di Jahve al monopolio dell’adorazione cultuale. Ma le cose
del culto e gli innumerevoli problemi che esse sollevano non hanno
mai fatto parte della materia insegnata dai saggi, il che fa sì che non
abbiamo alcuna ragione d’inserire un capitolo sulla sapienza e il culto
in questa sezione che ha per oggetto la trattazione di alcune « materie
d’insegnamento ».
Vi è, in realtà, un pugno di sentenze in cui, ad esempio, la preghiera
del giusto è preferita al sacrificio dell’empio (Prov 15, 8; 21, 27), in cui
è detto che è meglio un pezzo di pane secco e la pace che una casa
piena di sacrifici e di discordia (Prov 17, 1); si è messi in guardia con­
tro i voti pronunciati troppo in fretta e di cui ci si pente (Prov 20, 25);
si constata che la preghiera di un uomo nulla vale se rifiuta di ascol­
tare la legge nella vita quotidiana (Prov 28, 9). Nella stessa linea tro­
viamo Eccli 34, 23 s., che critica le offerte degli empi, soprattutto
quando sono costituite dai beni dei poveri. Se qualcuno si purifica e si
rende nuovamente impuro, quale significato può avere questa purifica­
zione? (Eccli 34, 30). Ma in tutto ciò, non si tratta affatto di culto, ma
di condizioni umane indispensabili a un atto di culto. Non farti strada
all’atto di culto con delle irregolarità! Il modo con cui l’elemento cul­
tuale si trova ai margini dell'insegnamento è certamente interessante,
poiché il culto appare qui unicamente come un affare personale del­
l'individuo. Esso si fonda sulla decisione di ciascuno ed è minacciato
da tutti i pericoli che possono nascere dalla vita individuale (precipita­
zione, assenza di principi morali, ecc.). Il mondo cultuale dei patriarchi
è invece nettamente separato dalla categoria personale. Le sentenze ci­
tate sopra mostrano per lo meno che i maestri si rivolgono a coloro
che avevano legami cultuali. Nella lettera di Aristea (142-171), che ri­
sale al 130 a. C. circa, si raggiunge il punto estremo della disintegra­
zione umanizzante, moralizzante, simbolica degli antichi ordinamenti
rituali. Quel che era obbligatorio dei precetti di purificazione e di of­
ferte nella legge di Mosè, diventa ormai il simbolo di qualità o modi
di essere umani! Gli ordinamenti sono riconosciuti e ammirati: senza
dubbio questi giudei della diaspora, quando vennero una volta o l'altra
a Gerusalemme, parteciparono alle grandi solennità cultuali del Tem­
pio. Se le concezioni spirituali del culto nella lettera di Aristea costi­
tuiscono un limite estremo, esse ci mostrano tuttavia la difficoltà che
esiste nel tracciare una linea di demarcazione tra una partecipazione
« mediata » ed una partecipazione « immediata » al culto. D'altronde
che cosa sappiamo di quel che pensavano su questo argomento i parte­
cipanti autoctoni del culto di Gerusalemme negli anni 600 o 400, se
pur si davano la pena di pensarci?
Vi è ancora una cosa che si può trarre direttamente dall'insegna-
mento dei saggi. Di quando in quando alcune nozioni ricordano quelle
che erano in origine radicate nel culto, ma che sono ormai utilizzate
interamente in un senso molto generalizzato, moralistico e spiritualiz­
zato l. Si tratta di sapere quali conclusioni si è potuto trarre da un uso
così profondamente modificato. Si presentano due possibilità che si
escludono in una certa misura a vicenda: i saggi erano spiritualmente
liberati dal mondo della pratica cultuale. Nozioni che erano costitutive
del culto, potevano essere usate dai maestri soltanto con un significato
la cui interpretazione era modificata, che era cioè « spiritualizzato »
e trasposto in altri campi della vita. In questo caso si può parlare di
un rapporto « mediato » dei saggi col culto2. Ma è più probabile che
la causa del distacco nei confronti delle cose del culto debba essere
semplicemente cercata nella delimitazione dei compiti che i maestri sa­
pevano di doversi assumere. Non erano sacerdoti e non ci si doveva
perciò aspettare che si servissero delle espressioni del culto in maniera
diversa da questa forma generalizzata ed umanizzata ch'esse avevano
preso nel linguaggio corrente. Parte del vocabolario con cui il culto si
esprime, entra sempre nella lingua quotidiana e l'uso di questo voca­
bolario è lungi dall'aver valore di confessione di fede, di presa di po­
sizione deliberata nei confronti del culto. Visto l'interesse dei saggi
1 È detto ad esempio che, di fronte a Jahve, le parole amorevoli sono « pure » (tàhdr, Prov
15, 26), che con l'amore il peccato è espiato ( kipper, Prov 16, 6), che il saggio «espia», «copre»
la collera del re (Prov 16, 14). Il \’erbo *akar — sempre attestato nel senso sacro di « rendere
tabù * — nelle sentenze significa « corrompere » (Prov 11, 17. 29; 15, 6. 27).
3 H. H. Schmid, op. cit., 53.
172 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

per le relazioni umane, non era molto possibile che queste nozioni ve­
nissero usate nel loro senso cultuale di origine. Ma non è neppure certo
che i maestri abbiano voluto utilizzare queste nozioni solo in questo
nuovo senso. La questione del loro atteggiamento nei confronti del
culto può quindi essere risolta a partire da questo materiale. Anche nel­
l’ipotesi che restasse solo la sentenza: « Praticare la giustizia e il diritto
è meglio agli occhi di Jahve che i sacrifici » (Prov 21,3), non si po­
trebbe vedervi un rifiuto del culto3. Senza dubbio essa sta a testimo­
niare una mentalità deliberatamente razionale che separa radicalmente
l’atto del culto dall’azione morale e li soppesa ambedue in modo da
dare un più alto valore all’azione morale. Ritroviamo qui il problema
della prospettiva spirituale e religiosa in cui si situavano gli insegna-
menti dei saggi e al di fuori della quale essi sono falsati4. Corriamo
certamente il pericolo di concepire questa prospettiva in modo troppo
moderno e troppo « intellettuale » e di misconoscere così le possibilità
che aveva il mondo antico di concepire la realtà.
Poiché in questo libro, noi affrontiamo essenzialmente i problemi
che provengono in maniera diretta dal materiale didattico e dai campi
di tensione in cui è collocato, non si può constatare in questo quadro
un problema del tipo « sapienza e culto ». Ciò non significa che noi con­
testiamo che, inteso in un senso più largo, esista un problema « sa­
pienza e culto » o addirittura che non sia ancora risolto: in che modo
10 sforzo di conoscere dei saggi, proveniente dal timore di Jahve, si è
messo in rapporto con le tradizioni dei ministri del culto? Le due cate­
gorie, ciascuna a proprio modo, conoscevano degli ordinamenti e la­
voravano per farli conoscere5. Questo problema potrebbe essere af­
frontato soltanto raccogliendo accuratamente tutte le fonti possibili
per cercarvi una soluzione e ciò supererebbe assolutamente il quadro
del nostro presente studio. Ciò che si può dire è che i rapporti tra sa­
pienza e inno sono innumerevoli. Qui sono i saggi che hanno preso a
prestito6. Ma si notano pure dei rapporti con il canto di ringraziamento
individuale. Qui — nella tendenza ad usare formule tipiche delle sen­
tenze — troviamo il caso inverso: il canto cultuale si serve di forme
espressive sapienziali, il che non è certo molto sorprendente, poiché
quando l’individuo prendeva la parola in un discorso solenne era que­
sta la forma di discorso di maggiore effetto che gli si imponeva.
3 H.-J. Hermisson, Sprache und R itus im altisraelitischen Kuit (1965), 123 s.
4 Cfr. pp. 38 ss.
5 Cfr. pp. 150 ss., 160 ss., 257 s., 261 e 278 s.
4 II problema delle relazioni reciproche tra inno e sapienza dovrebbe essere interamente ripreso
in rapporto con la convincente distinzione stabilita da F. Criisemann, tra inni « all’imperativo » e
inni « al participio »; cfr. F. Criisemann, S tu dien zur Formgeschichte von tiym nus und Danklied
in Israel (1969). L’inr.o participiale si incontra in parte nei libri profetici (sia come genere di stile
profetico, sia sotto forma d ’interpolazione). Altrove Io incontriamo nel libro di Giobbe. Esso è
definito nel suo contenuto da un tema sempre identico: le meraviglie di Dio nella sua creazione,
11 suo dominio sui fenomeni naturali, la sua guida sovrana sul destino degli uomini. Lo stile e i
temi di questo genere innico sono comuni a tu tto l'Oriente. L'ipotesi che abbia avuto un posto
nel culto d ’Israele prima dell'esilio è soltanto verosimile. La grande massa dei testi costituisce
piuttosto un certo genere di poema artistico coltivato in alcuni ambienti. Da ciò ad un uso in
grandi poemi didattici, non vi è c h e un passo: non vi sarebbe allora più r e l a 7Ìon e con il culto.
7 Così Sai 32. 1 s. M; 40. S s.; 41. 2; 118, 8 c altrove.
XII
FIDUCIA E AVVERSITÀ

I. Il f o n d a m e n t o d e l l a f id u c ia

Nelle argomentazioni che precedono, si è parlato con frequenza di


esperienze e di conoscenze acquisite. È sempre più evidente che questo
sforzo di conoscenza differisce profondamente da quello che deter­
mina il nostro rapporto attuale col mondo. L'intenzione conoscitiva di
Israele non si accostava agli oggetti con uno spirito di neutralità e di
riserva per adattarsi ad essi in un modo o in un altro. Gli oggetti sui
quali la conoscenza si esercitava non permettevano airuomo di assu­
mere l'atteggiamento dell'osservatore neutro; lo costringevano, invece,
a prendere posizione, rivendicavano addirittura — cosa singolare per
noi oggi! — la totale confidenza dell'uomo. Solo a condizione di un
forte acconto di fiducia globale, l'uomo poteva rischiare la vita così
come gli si presentava. Si ritrova questo problema ovunque i saggi
prendono la parola. I maestri non lasciavano all'oscuro i loro allievi
sulla posta che era in gioco in quest'impresa; si trattava nientemeno
che del guadagno o della perdita della « vita » l. I loro aforismi impo­
nevano una presa di posizione ed avevano di conseguenza, in modo ma­
nifesto o nascosto, il carattere di una confessione nei confronti di re­
gole considerate come benefiche, perché sostenevano la vita. La posi­
zione fondamentale di fronte ad una realtà così percepita era in fin dei
conti quella di una grande fiducia: i maestri sapevano di essere com­
pletamente al riparo in questa fiducia. Nessuno riuscirà a dedurre dal
loro insegnamento il minimo sentimento d'insicurezza, quale si prove­
rebbe di fronte ad un grande rischio o la minima inquietudine di
fronte a qualche oscura fatalità. Ma su che cosa si fondavano i mae­
stri quando cercavano di persuadere l'allievo — tenendosi lontani da
ogni scetticismo — che il suo impegno di vita avrebbe avuto esito
felice?

’ E. Schmitt, Lebeu in den W eisheitsbtichem Job, Spriiche und Jesus Sirach (1954).
12. w»n rad. la sapienza in israelc
*74 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

Per rispondere a questa domanda, bisognerà innanzitutto rivolgersi


alle sentenze che parlano in maniera diretta della fiducia in Dio e della
benedizione legata a questo atteggiamento.
Chi è attento alla Parola trova la felicità,
chi ripone la propria fiducia in Jahve è felice. (Prov 16, 20)
L'uomo invidioso provoca la discordia,
chi confida pienamente in Jahve avrà prosperità. (Prov 28, 25)
Il timore degli uomini è un laccio,
chi confida in Jahve è sicuro. (Prov 29, 25)
Confida in Jahve con tutto il tuo cuore,
non appoggiarti sulla tua intelligenza. (Prov 3, 5)

A queste si possono aggiungere altre sentenze analoghe:


Nel timore di Jahve c'è un saldo appoggio,
i suoi figli hanno in lui un rifugio. (Prov 14, 26)
Raccomanda a Jahve le tue opere,
i tuoi progetti si realizzeranno. (Prov 16, 3)
Una torre fortissima è il nome di Jahve!
il giusto vi confida ed è al sicuro. (Prov 18, 10)

Sono belle sentenze, sentenze importanti, senza che per questo si


possa dire che risolvano il problema essenziale che ci siamo posti, poi­
ché anche allargando la loro cerchia — cosa possibile — esse reste­
rebbero più o meno isolate e non avrebbero valore di programma per
l'insieme dell'insegnamento, non potrebbero cioè avere la funzione de­
terminante di un esponente fuori parentesi. 0 più lapidariamente: se
mancasse questo pugno di sentenze sulla fiducia in Dio, ciò non cam-
bierebbe sensibilmente lo stato di cose di cui dobbiamo discutere. Il
coraggio di vivere che avvertiamo dietro tutto l'insegnamento dei saggi
non sarebbe minimamente diminuito. In ogni caso, il discorso sulla
fiducia in Dio dev'essere interpretato più precisamente a partire dalle
concezioni specifiche dei maestri. Sarà il nostro prossimo obiettivo.
Abbiamo intenzione di trovare nei saggi una risposta al problema
posto dal loro coraggio di fronte alla vita, dalla fiducia che sostiene
tutto il loro insegnamento. A questa domanda, se bene li abbiamo com­
presi, i saggi non avrebbero risposto in maniera generale facendo rife­
rimento alla benedizione che accompagna la fiducia in Dio, ma ricolle­
gandosi invece a qualcosa in apparenza molto diverso, cioè all'evidenza
e al carattere reale dell'ordine che presiede la vita, così come appare
nel binomio condotta-rimunerazione. Quest'ordine, per il semplice fatto
d'esistere, si rendeva testimonianza da sé. Se ne poteva fare l'espe­
rienza e considerarlo come una forza benefica perché operava silen­
ziosamente, ma fedelmente, in seno ai rapporti umani incessantemente
variabili, nel senso di una compensazione, di un equilibrio. In que­
st'ordine è Jahve stesso che interveniva prendendo sotto la sua prote­
zione la bontà ed ergendosi contro il male. Era lui presente, come vo­
X II. FIDUCIA E AVVERSITÀ 175
lontà ordinatrice e sostentatrice, che stabilisce salutarmente il quadro
della vita e lo apre alle sue benedizioni2. Eliphaz conclude il suo gran­
de discorso in risposta a Giobbe con questo riassunto: « Tutto ciò,
l'abbiamo osservato; è la verità » (Giob 5, 27). Quest'evidenza era
tanto più costringente in quanto non si trattava in queste proposizioni
dell'atteggiamento soggettivo di un individuo che pensa siano vere. In
tal caso esse sarebbero state prive del benché minimo valore di obbli­
gatorietà; per elaborare una conoscenza empirica che abbia qualche
validità, la durata della vita individuale è troppo corta; è necessario
accumulare la riflessione e il controllo di parecchie generazioni. La
legittimità e il valore di queste dottrine risiedono essenzialmente nella
lunghezza delle tradizioni didattiche da cui procedono.
Non sai forse che da sempre,
da quando l'uomo fu messo sulla terra,
il’allegrezza del malvagio è breve,
e la gioia dell'empio non dura che un istante? (Giob 20, 4 s.)
Interroga la generazione passata
« bada » all'esperienza acquisita dai suoi padri;
noi, nati ieri, non sappiamo nulla,
la nostra vita sulla terra passa come un’ombra.
Ma essi t'istruiranno, ti parleranno
e il loro pensiero consegnerà queste sentenze:... (Giob 8,8-10)
Non disprezzare la tradizione degli antichi,
poiché essi a loro volta sono stati a scuola dei loro genitori. (Eccli 8, 9)
Io voglio istruirti, ascoltami!
Voglio parteciparti la mia esperienza
e l'insegnamento dei saggi,
quel che « i loro padri » hanno loro insegnato;
poiché essi soli hanno posseduto il paese
senza che alcun straniero si fosse loro mescolato. (Giob 15, 17-19)

Lultimo di questi quattro testi è interessante perché mostra che i


saggi non accoglievano le tradizioni senza criticarle, ma stabilivano
delle distinzioni. Le tradizioni assolutamente pure sono le antiche,
quelle che non hanno ancora subito l'influenza straniera. Se sapessimo
che cosa bisogna pensare di queste influenze straniere dalle quali
Eliphaz prende le distanze, avremmo fatto molti passi avanti nella rico­
struzione, peraltro problematica, dell'evoluzione delle dottrine all'in-
temo della sapienza d'Israele.
Una cosa è chiara: la credibilità delle dottrine dei saggi si fondava
sul fatto che si trattava di conoscenze e di esperienze che si erano fis­
sate in seguito a una lunga e accurata formazione. La fiducia nella vita
e, in ultima analisi, in Jahve poteva fondarsi, secondo la convinzione
dei maestri, su conoscenze ed esperienze determinate. Questa tesi forse

2 Nel modello didattico di Giob 8, 11*21 si rimprovera all’« empio » di vivere in una falsa fiducia.
La sua difesa non è che una < tela di ragno »: « S'egli si appoggia sulla sua abitazione, essa cede;
se vi si aggrappa, essa crolla » (Giob 8, 14 s.). Secondo noi dunque qui si parla di qualcos’altro
che non sia la semplice mancanza di fiducia in Dio.
176 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II

alquanto sorprendente è confermata dal piccolo prologo che apre la


collezione delle sentenze di Prov 22, 17 - 24, 22.
Porgi l'orecchio ai miei discorsi
e applica il tuo cuore alla « conoscenza »,
poiché sarà un piacere conservarli dentro di te,
assicurati sulle tue labbra come un « palo di tenda ».
Affinché in Jahve sia la tua fiducia
voglio farti conoscere oggi «le sue vie». (Prov 22, 17-19)

Sappiamo che un maestro israelita ha trascritto quasi parola per pa­


rola in questa collezione e nel suo prologo un modello egizio3. Per que­
sto è ancor più sorprendente il fatto che il passo sulla « fiducia » non
abbia nessuna corrispondenza nel testo egizio. È evidente che si tratta
di una formula che il maestro israelita ha sostituito a ima nota pedago­
gica di ordine molto generale ed è precisamente questa correzione
apportata da Israele che ci interessa. Posta in testa ad una collezione
di sentenze come una specie di programma, essa dice appunto che lo
scopo degli insegnamenti che seguono consiste nel fortificare la fiducia
in Jahve. Se ci si affida alle conoscenze e alle esperienze qui presentate,
la fiducia in Jahve non può che crescere; l'uomo può accettare da esse
la garanzia che egli si muove in un mondo da cui non ha nulla da te­
mere. Per ben valutare il tipo di questa fiducia, dobbiamo ricordarci
come Israele considerava la realtà empirica a contatto della quale era
continuamente posto. Come si è visto, conosceva solo un ambiente
unitario, determinato da regole e da decisioni divine. Gli avvenim enti
di questo mondo circostante non seguivano una regola rigida, un siste­
ma di leggi fisse, ma erano orientati verso l'uomo per stimolarlo o fre­
narlo con un’infinita mobilità; essi erano soltanto una parte degli in­
terventi immediati di Dio nei riguardi deiruomo. Se questa realtà
empirica poteva procedere soltanto dalla conoscenza di Dio, la cono­
scenza del mondo, da parte sua, poteva a sua volta fortificare la cono­
scenza di Dio. La tesi del timore di Jahve, inizio della sapienza, poteva
essere anche ribaltata, cosicché la conoscenza e l'esperienza potevano
condurre al timore di Jahve:
Figlio mio, se accogli le mie parole,
se conservi quel che ti ho ordinato,...
allora comprenderai il timore di Jahve,
scoprirai la conoscenza di Dio. (Prov 2, 1. 5)

Per Israele non vi era conoscenza che non implicasse una fiducia, una
fede, ma non vi era neppure fede che non si basasse su conoscenze4.
È interessante vedere come la stessa sapienza « teologica », di cui ab­
biamo inteso la voce, fosse fermamente legata a questo ruolo costitu­
tivo della ragione.

3 Vedi p. 18.
4 Vedi pp. 70 ss.
Considerate le generazioni passate e vedete:
chi dunque, confidando nel Signore, è stato confuso?
o chi, perseverando nel tuo timore, è stato abbandonato?
o chi l’ha implorato senza essere stato ascoltato? (Ecoli 2, 10)

Quel che qui viene discusso, è il problema della fedeltà di Dio. Ab­
bandona egli forse coloro che si legano a lui? La risposta a questo dif­
ficile problema non è data, come avrebbe potuto essere il caso e come
ci si attenderebbe, con un riferimento alla rivelazione che Dio fa di se
stesso, ma con un riferimento all'esperienza di parecchie generazioni,
cioè con una riflessione della ragione. E in questo modo che la legitti­
mità della fiducia in Dio vien messa in evidenza! La frase citata, in cui
si parla del centro stesso della fede, è tipica del ruolo che Israele ha
riconosciuto all'esperienza, anche nelle cose che riguardano la cono­
scenza di Dio e la fiducia in lui. Sarebbe bene prendere atto di questa
concezione presente nei maestri; sarebbe certo meglio che accusarli in
anticipo di un errore fondamentale sulla base della nostra abituale
definizione del rapporto tra ragione e fede. Dobbiamo ammettere che
un sapere considerevole, passato al vaglio della critica, è stato rac­
colto dai saggi; comportava numerosi segnali di avvertimento alzati
nella direzione dei limiti imposti alla conoscenza, ma la sua intenzione
ultima era di suggerire una grande fiducia nella solidità e nella co­
stanza delle regole, dell'ordine; il che significava confidare in Dio che
metteva in vigore queste regole e regnava attraverso di esse. Così bi­
sogna rispondere al problema del senso della « fiducia in Dio » che
sopra abbiamo posto.

II. R i s p o s t e a l l e e s p e r ie n z e d i dolore

Se possiamo sperare, con tutto quello che abbiamo visto, di avere


colto correttamente un aspetto decisivo del senso della realtà nell’an­
tico Israele, nessuno potrà tuttavia considerare questo senso del reale
come un sistema coerente e senza lacune, in cui ogni avvenimento pos­
sibile e immaginabile si inserirebbe senza difficoltà. Su questo punto,
gli esegeti si son facilitati a volte un po’ troppo il compito, attribuendo
ai maestri di sapienza un razionalismo in ribasso i cui bizzarri com­
pendi non sfuggono allo spirito meno prevenuto. La situazione di Israe­
le non era diversa dalla nostra: ovunque l’uomo parte alla conquista
della conoscenza del mondo, entra sempre in conflitto con gli oggetti
della sua conoscenza. Il suo calcolo non risulta mai senza resto; egli
deve senza posa rinnovare le formule del suo sapere. In effetti, l’im­
ponderabile, l’enigma assoluto non è mai una sola e medesima cosa;
ad ogni epoca esso si presenta diversamente. La volontà di conoscere,
ad ogni epoca, ha la propria sicurezza specifica e si vede costretta a
capitolare di fronte a limiti specifici.
i 78 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II

La nostra concezione della sapienza d'Israele è sempre appesantita


da una teoria curiosamente costruita. L'antico Israele, si dice, scari­
cava liberamente la pena della propria esistenza nella fede nel suo Dio.
Poi vennero i saggi che elaborarono con le loro teorie estranee alla
vita — in particolare col loro « dogma della retribuzione » — un si­
stema dottrinale che doveva sfociare alla fin fine in catastrofi teolo­
giche. Non si creda che agl’inizi Israele sia stato esente da prove scon­
certanti e che abbia potuto riposare tranquillamente al riparo della
propria fede senza aver bisogno di teorie esplicative! L’enigma, la mi­
naccia che pesa sulla vita, è stata avvertita in tutte le epoche. A que­
sto proposito, la condizione del maestro di teologia non aveva niente
di nuovo. Anche nei tempi antichi, la reazione di fronte alle minacce
più diverse poteva avere aspetti molto vari. Essa poteva accontentarsi
del luogo comune, quasi fatalista: « Siamo tutti mortali, come le acque
che scorrono a terra e che non si possono più raccogliere » (2 Sam
14, 14), come poteva anche sfociare nella rassegnazione più sublime:
« È Jahve faccia ciò che gli pare bene! » (1 Sam 3, 18). Ma molto al
di là, il problema del perché aveva da tempo condotto Israele ad al­
cune consapevolezze, soprattutto quella di peccato e di sofferenza, di
colpevolezza e di castigo, consapevolezze che vediamo già assillare
Israele nelle epoche più antiche. La conoscenza del legame tra con­
dotta e retribuzione era una delle più fondamentali. In modo partico­
lare si sapeva che quando gli uomini compivano delitti gravi, la disgra­
zia si sarebbe presto o tardi abbattuta sul criminale. Bisogna rendersi
conto che tutta la predicazione dei profeti relativa alle disgrazie future
si fondava su questa conoscenza. Essi l’hanno applicata alla vita indi­
viduale: l’uomo è punito da quella parte in cui ha peccato. Ma essi
hanno soprattutto allargato questa conoscenza applicandola alla vita
delle nazioni che dovranno perire, secondo loro, a causa dei loro errori
e della loro violenza.
Certamente, l’idea del legame tra condotta e retribuzione non era
una soluzione sempre valida, soprattutto per le piccole contrarietà
della vita. Essa era tuttavia così profondamente ancorata nella co­
scienza che in occasione di grandi prove, ad esempio al tempo di cala­
mità nazionali, sorgeva subito il problema di un peccato corrispon­
dente che portava, nel corso di grandi digiuni, ad una revisione delle
relazioni tra la comunità cultuale e Dio ed a solenni confessioni dei
peccati. Anche nella vita individuale, in alcune condizioni come una
grave malattia, si poteva pronunciare un’analoga confessione dei pec­
cati, una dossologia di giudizio. Le cose avvenivano quindi in questo
modo: prima di queste celebrazioni cultuali sopraggiungeva ima di­
sgrazia che atterriva le persone; come tale non era inequivocabile;
tutto ciò che si sapeva era che veniva da Dio e riguardava coloro che
ne erano colpiti. Solo i sentimenti suscitati dalla disgrazia, e in ogni
caso una interrogazione cultuale particolare, mettevano questa disgra­
zia in relazione con un peccato, e molto presto con un peccato ben
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 179

determinato. Questa domanda retrospettiva, che partiva da un disor­


dine grave della vita e cercava di rintracciare la colpa che vi si na­
scondeva dietro, domanda che è stata così vivamente rimproverata
agli amici di Giobbe, non era il prodotto di riflessioni dottrinali di
teologi impegnati, ma aveva la sua radice in concezioni religiose estre­
mamente antiche ed universalmente condivise. La disfatta subita da
Israele di fronte ad Ai ebbe per effetto che Giosuè si rivolgesse a Jahve.
È in questo modo che venne a conoscere il grave peccato commesso
da Acan (Gios 7, 6 ss.). Il silenzio di Jahve al momento di una inter­
rogazione oracolare di fronte all’assemblea convocata non poteva avere
altra ragione che in un peccato ancora sconosciuto (1 Sam 14, 38 ss.).
La successione degli avvenimenti è particolarmente chiara nel racconto
di 2 Sam 21. Gli avvenimenti sono messi in moto da una carestia di
tre anni. Davide interroga Jahve e viene a sapere che un delitto di
sangue pesa ancora sulla casa di Saul; prende quindi disposizioni per
purificare il paese. Ugualmente i marinai del racconto di Giona met­
tono in relazione — a giusto titolo, pensa l’autore — la tempesta sca­
tenata con un grave peccato che dev'essere espiato (Giona 1, 4 ss.). In
effetti, l’uomo è sempre il debitore della divinità, cosicché l’incontro
con un uomo di Dio, ad esempio, comporta anche dei rischi; può
« evocare » infatti qualche peccato nascosto della cui esistenza nessuno
dubita (1 Re 17, 18). Alcune frasi delle lamentazioni individuali ci con­
ducono molto vicino al problema di Giobbe.
Niente d’intatto nella mia carne sotto la tua collera,
niente di sano nelle mie ossa dopo il mio peccato,
i miei peccati infatti mi oltrepassano la testa
come un peso troppo pesante per me. (Sai 38, 4 s.)
Ho detto: « Pietà di me, Jahve,
guarisci la mia anima, poiché ho peccato contro di te! ». (Sai 41, 5)

Sono degli oranti che pregano nel corso di una grave malattia ed
anche in questo caso, come ci hanno insegnato questi testi, è un disor­
dine profondo alla radice stessa della vita a provocare in coloro che
sono colpiti la confessione del loro peccato. Per Elihu, la malattia è
uno dei mezzi di cui Dio si serve per rivolgersi all’uomo ed avver­
tirlo (Giob 33, 14. 19 ss.).
Cercando di definire il quadro specifico dei tentativi teologici dei
maestri di sapienza, non si deve pensare ch’essi abbiano edificato da
soli il loro sistema di rappresentazione. Vivevano essi pure della fede
tradizionale in Jahve e partecipavano pienamente a modo loro alla
liberazione e ai compiti ch’essa affidava agli uomini. La loro posizione
aveva di particolare solo il fatto ch'essi avevano l’incarico dell’inse-
gnamento. Di fronte alle sofferenze e alle diverse contrarietà degli
uomini, svolgevano un compito superiore a quello del puro osserva­
tore e si vedevano chiamati a mobilitare tutte le loro capacità di com­
prensione. Per poter giungere a conoscenze più generali, dovevano
l8 0 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

prendere una qualche distanza nei confronti delle circostanze indivi­


duali. Bisognava perciò tener conto di un gran numero di esperienze
in coloro che soffrono e vagliare accuratamente i risultati ottenuti,
fino a poter precisare alcune regole, alcune verità di valore universale
riguardanti la molteplicità dei mali che colpiscono gli uomini. Il loro
compito consisteva nel proporre alcune teorie sulla sofferenza, la sua
origine e la sua funzione nell'uomo, partendo dalla massa enorme di
esperienze riferite e formulando regole che s'imprimono nella memo­
ria. Inutile aggiungere che questo lavoro era irto di difficoltà e cor­
reva il rischio di difendersi dalla vita per mezzo di teorie tratte dalla
vita. Come vedremo più avanti, quest'occupazione non ha d'altronde
raggiunto un risultato omogeneo. È meglio non parlare a questo ri­
guardo di ottimismo o di pessimismo, dato che proprio le sentenze
della sapienza antica permettono di constatare, nello sforzo di una
padronanza sul contingente, una percezione a volte sorprendentemente
perspicace dei limiti dell'intelligenza umana e una conoscenza chiara
dell'ambiguità dei fenomeni.

Volendo ormai seguire le spiegazioni che i maestri hanno saputo


darci dell'enigma delle sofferenze umane, conviene farci un'idea del
campo entro cui han potuto evolvere le diverse interpretazioni. Esso
era relativamente stretto. Israele non ha mai tentato, neppure nella
tradizione sapienziale più recente, di giungere ad una concezione to­
tale del mondo e della vita: non è mai preoccupato d'altro che di pre­
cisare conoscenze parziali e di approfondirle. Ma ci si può domandare
se, per la sua fede in un Dio creatore (liberata dal timore dei demo­
ni!) e per la sua consapevolezza dell'unità della creazione, non gli ve­
niva offerto un magnifico principio ordinatore, di cui mancavano i
presupposti nelle altre religioni dell'antico oriente. Non vi è nulla
nell'oriente antico che si possa paragonare a Gen 10 in materia di
dottrina sull'unità della creazione e dell'umanità. Evidentemente è
solo a titolo di supposizione che si può enunciare la ragione per cui
i maestri israeliti non si sono basati su questo principio per tentare
di passare dalle conoscenze parziali a un abbozzo di conoscenza totale
del mondo, lasciando così inutilizzati elementi che sarebbero stati loro
molto utili. È difficile cercare questa ragione semplicemente in una
mancanza di spirito di sintesi. Dobbiamo ammettere che questo passo
verso la scoperta e l'assunzione di chiavi interpretative della realtà
non poteva essere superato da Israele per via di tutti i presupposti
risolutamente antispeculativi sui quali aveva edificato la sua cono­
scenza del mondo. Abbiamo già detto con quale profondità il mondo
era per Israele immerso nel mistero di Dio, al punto da minacciare
in questo modo la conoscenza più solidamente fondata. Il posto del­
l'uomo nel mondo come creatura in mezzo ad altre creature, non era
forse fissato in modo tale ch'egli non poteva mai assumere la posi­
zione del tutto obbiettiva di fronte al mondo che è propria del sem­
XII. FID I CIA E AVVERSITÀ 181

plice osservatore? È il legame profondo che lo legava al fondamento


empirico delle sue conoscenze che gli vietava il passaggio ad una
forma qualsiasi di gnosi. Israele ci appare, malgrado la sua fede che
congloba il mondo intero, implicato in una specie di guerra di posi­
zione sul terreno delle circostanze della vita, piuttosto che provvisto
di un’arma di rappresentazione d’insieme del mondo. Israele non ha
percepito l’unità del mondo con la contemplazione, ma l’ha percepita
altrove, nell’inno che unisce le creature le une alle altre. Bisogna ricor­
dare tutto ciò se si vuole giudicare equamente la posizione dei mae­
stri di sapienza, le loro conoscenze e nello stesso tempo la coscienza
che avevano dei limiti del proprio sapere. Non erano né piatti razio­
nalisti, né dottrinari fuori della realtà, con la risposta pronta per ogni
problema. Come abbiamo già detto, essi aderivano a quella linea
avanzata del fronte della conoscenza empirica umana in cui si può
cogliere il senso della vita, ma in cui bisogna anche saper rischiare
di perderlo. Finché si trattava di individuare un sistema di regole in­
terno alla società, di leggi avvertibili nella convivenza umana, quel
rischio ingenerava di sicuro tensione; ma, tutto sommato, l'avvertenza
del dissidio e del contrasto non era tale da mettere seriamente in
crisi la fede in Dio. Non avveniva così quando si trattava di trarre
profitto da esperienze che l’uomo, sotto la guida di Dio, aveva fatto
personalmente. In questo caso, la constatazione di esperienze di senso
opposto doveva provocare turbamenti. Se in questo campo le espe­
rienze non procedevano tutte nella stessa direzione, se anzi esse si
contraddicevano, potevano sorgere, data l’enorme importanza attri­
buita da Israele alle basi empiriche anche in questioni religiose, gravi
contestazioni che minacciavano la fede in Dio e nella sua potenza.
Senza dubbio la fede non si lascia scuotere o distruggere da qual­
siasi prova. Essa sa che bisogna riconoscere alla libertà di Dio ampio
spazio di imponderabilità. « Chi può dirgli: che cosa fai? »5. Ma, al di
là di questa convinzione, i saggi erano coscienti del fatto che molti
elementi dell’esperienza non si erano per nulla sottratti ad una spie­
gazione. Non è necessario che ritorniamo sul legame condotta-retribu­
zione: anche per i maestri di teologia più recenti, quest’idea rimaneva
incontestabile. Già il racconto didattico di Giuseppe espone ai lettori,
con ricchezza di particolari, il modo curioso con cui un delitto com­
messo può seguire l’uomo di anno in anno aspettandolo al varco e
finendo per colpirlo. Dato che i fratelli hanno procurato a Giuseppe
una così grande angoscia, devono a loro volta provare una grande an­
goscia davanti a lu i6. Essi ammettono questo, prima ancora di aver
fatto piena luce sul concatenamento dei fatti. Ma il racconto non si
limita a dimostrare la corrispondenza tra peccato e sofferenza; unico
nel suo genere, tende a raccogliere anche altre possibilità di spiega­

5 2 Sam 16. 10; Giob 9, 12: Dan 4. 32: Sap 12. 12.
» Gen 42, 21.
182 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I II

zione che s'intrecciano tra loro in una specie di contrappunto. Com­


pare infatti l'idea di purificazione. Le sofferenze dei fratelli derivano
da Giuseppe. Per due volte Giuseppe li pone con uno stratagemma
inquietante nella condizione di poter tradire nuovamente uno dei loro
fratelli; ma i fratelli sostengono la prova. Tuttavia, quello che più im­
porta al narratore è di mostrare attraverso lo svolgimento del racconto
che in tutta questa disgrazia e in queste complicazioni è miracolosa­
mente all'opera, un piano divino di salvezza. Quello che con malvagità
era stato progettato, Dio l'ha cambiato in bene (Gen 50, 20). Dio è
sempre intervenuto con la sua potenza, ma soprattutto nel momento
della sciagura e del male ha voluto raggiungere lo scopo del suo agire,
cioè la salvezza (Gen 45, 5). I maestri non hanno mai più osato pre­
sentare un intrecciarsi così ardito d'interventi divini e di azioni col­
pevoli da parte dell'uomo.
Anche nel caso di sofferenze che non erano provocate da una colpa
facilmente riconoscibile, e che si abbattevano sugli uomini in modo
apparentemente inspiegabile, una spiegazione molto seria si offriva allo
sforzo conoscitivo dell'uomo: Dio agisce in segreto all’interno di que­
ste sofferenze, ma dall'effetto finale si può capire che egli opera per
una educazione dell'uomo. L'idea che Dio persegue un'educazione salu­
tare nella vita individuale — idea vicina a quella di prova — occupa
uno spazio ristretto nell'A. T. Essa è, ad esempio, quasi totalmente
estranea alle riflessioni degli oranti sulle loro sofferenze nei salmi di
lamentazione7. Al contrario i maestri di sapienza riprendono volen­
tieri il tema. Dato che si occupavano dell'educazione umana e le attri­
buivano un grandissimo valore, è comprensibile che l'idea di un'edu­
cazione o di una correzione divina attraverso la sofferenza abbia tro­
vato presso di loro un'accoglienza particolare 8.
Sì, beato l'uomo che è corretto da Dio
e non sdegna il castigo dedl'Onnipotente!
Poiché egli, fa la piaga e la fascia,
colpisce e risana con la sua mano;
sei volte dall'angoscia ti libererà,
ed una settima il male ti risparmierà. (Giob 5, 17-19)
Non disprezzare, figlio mio, la correzione di Jahve,
e non avertela a male per il suo rimprovero,
poiché Jahve corregge chi ama,
come un padre il figlio prediletto. (Prov 3, 11 s.)
Vi è il crogiolo per l'argento, la fornace per l’oro,
ma Jahve prova i cuori! (Prov 17, 3)
Figlio mio, se pretendi servire il Signore,
preparati alla prova...
poiché l'oro è provato nel fuoco,
e gli eletti nella fornace dell’umiliazione. (Eccli 2, 1. 5)

7 Sai 116, 16.


» Prov 4, 13; 1. 24; 19, 18; 23, 13; 29, 15. 17; Eccli 2; 4, 17; 18, 13; 23, 2; 33; 34, 10.
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 183

Qui, il disordine che minaccia la vita è assorbito da una grande


fiducia nel modo con cui Dio guida l'uomo perseguendo, anche nelle
sofferenze, intenzioni salutari. Per questa guida Dio dispone di nume­
rosi mezzi. In un caso, avvisa lruomo con visioni notturne spaventose,
in un altro, « lo corregge » attraverso la sofferenza, l'avversione per
il cibo e la perdita delle forze (Giob 33,15 s. 19 ss.). Se si parla di
un'educazione attraverso la sofferenza, bisogna anche domandarsi a
che cosa mira quest'educazione. Certamente non ad una forma qual­
siasi di « santificazione » o ad un distacco da tutti i beni dell'esistenza.
Nel testo in questione, lamico di Giobbe pensa ad un ritorno a Dio,
a una preghiera, ad una confessione cultuale. Ma « ritorno » significa
ristabilimento dello stato precedente, reintegrazione nella comunione
che Dio offre all'uomo9. L'educazione suppone quindi che la vita del­
l'uomo a cui essa giunge, non è a posto: essa è provocata per « disto­
glierlo dalle sue opere e metter fine al suo orgoglio » (Giob 33, 17). In
modo più semplice e grandioso, Eliphaz mostra come la vita di chi
accetta il rimprovero ritrova la benedizione di Dio; poiché se l'uomo
è a posto con Dio, l'avversità si cambia in bene.
Tu sarai al riparo dalla frusta della lingua,
senza paura adl'avvicinarsi del predatore...
Avrai un patto con le pietre dei campi,
le bestie selvagge saranno in pace con te,
troverai la tua tenda prospera,
il tuo ovile al completo quando lo visiterai...
Entrerai maturo nella tomba,
come si ammucchia il covone a suo tempo. (Giob 5,21.23 s. 26)

Il Siracide ha scomposto questo fatto in atti isolati: dapprima la


sapienza divina si nasconde alluomo. Lo impegna in un'educazione
severa. Ma alla fine lo arricchisce con i suoi segreti.
...essa può condurlo per un cammino tortuoso.
Fa' venire su di lui timore e tremore,
lo tormenta con la sua disciplina finché possa dargli fiducia,
lo prova con le sue esigenze.
Poi lo riconduce sul cammino diritto
e gli scopre i suoi segreti. (Eccli 4, 17 s.)

La fiducia in Dio e nell'esistenza delle regole da lui stabilite occu­


pava, quindi, un largo spazio e poteva sprigionare molte energie di
resistenza e di perseveranza10. Anche quando non si poteva interpre-

9H. W. Wolff, Dos Thema * Umkehr » in der alttestam entlichen Propheiie, in Gesammelte Stu-
dien (1964). 153.
10 I ricordi storici sono pure illuminati (c semplificati!) da questa categoria interpretativa. Le
epoche di miseria della storia sono prove imposte da Dio; egli ha fatto così da sempre. « Per tutte
queste ragioni, rendiamo grazie al Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova come i nostri padri.
Ricordate quanto ha fatto ad Abramo, tutte le prove di Isacco, tutto quel che capitò a Giacobbe
in Mesopotamia di Siria quando custodiva le pecore di Labano, suo zio materno. Infatti, come
allora egli li provò per scrutare il loro cuore, cosi non è una vendetta quella che egli scaglia ora
su di noi, ma è piuttosto un avvertimento con cui il Signore raggiunge coloro che gli stanno
vicino » (Giudit 8, 25-27). Giacobbe presso Labano, « provato » da Dio, è un aspetto ignorato dalla
184 LA SAPIENZA 1 \ ISRAELE - PARTE I I I

tare espressamente l’avversità come un intervento educatore di Dio,


rimaneva sempre una possibilità, quella di mantenere la fiducia, di
saper attendere, di « sperare in Jahve ».
Non dire: « Renderò il male! ».
Confida in Jahve che ti salverà. (Prov 20, 22)
Sii calmo e fiducioso in Jahve.
... Chi spera in Jahve possederà la terra.
Spera in Jahve ed osserva la sua via. (Sai 37, 7. 9. 34)
Metti in Dio la tua fiducia ed egli ti verrà in aiuto,
segui una via diritta e spera in lui. (Eccli 2, 6)

La speranza è semplicemente il destino dell'uomo; tutti sperano, il


buono come il cattivo (Prov 10, 28; 11, 23). Non si può giudicare la
vita secondo l'apparenza del momento, ma bisogna guardare alla
« fine ». Con questa nozione importante, così caratteristica di un pen­
siero rivolto verso l'avvenire, non si intende alludere sempre alla
m orte11. La parola può essere tradotta anche con « avvenire ». Quel
che viene considerato in questo caso, è l'esito di una faccenda, il ter­
mine di un processo, nel quale si pone una certa speranza 12. Se real­
mente fosse vero il lamento di Giobbe, allorché dice che Dio stesso
annienta la speranza dell'uomo, saremmo di fronte a una constata­
zione terribile (Giob 14, 19; 19, 10).
La prova si presenta sotto un'altra forma quando l'esperienza in­
quietante della contraddizione appare non nella vita personale, ma
nell'esistenza degli altri; quando uomini il cui attaccamento a Jahve
è per lo meno dubbio sono apparentemente benedetti da Dio e coloro
invece che confidano interamente in lui mancano di questa benedi­
zione. In casi simili, era ben più difficile rimettersi alla volontà divina
e l'idea di una disciplina educativa non vi si applicava. Il problema si
traspose sempre più sul terreno di una riflessione teorica. È evidente
che ima fede come quella di Israele, la quale tentava con profonda
intensità di leggere nell'esperienza e intendeva verificare in essa la sua
verità, doveva scontrarsi con questo problema. Ciò sfociava sovente in
un « impeto di collera » da cui i maestri mettevano in guardia. La
risposta immediata a questi problemi era: attendi dunque un po'! Tu
non vedi ancora la « fine » ( yaharlt è ciò che viene dopo, l'avvenire).
Non arrabbiarti per i malvagi
e non invidiare gli empi.
Poiché per il malvagio non c'è avvenire ( yaharit )
la lampada dell'empio si spegne. (Prov 24, 19 s.)

tradizione della Genesi. Ma già in Es 20, 20, l'episodio del Sinai è concepito com e « tentazione »,
« prova ». Qohelet ha crudelmente caricaturato quest’idea sempre più centrale della prova divina.
Egli ritiene che il rifiutarsi di fare giustizia è una « prova » (letteralmente: « vaglio ») dell’uomo
provocata da Dio « affinché gli uomini vedano che sono vere bestie gli uni per gli altri » (Eccle
3, 18). Le prove divine servono a m ostrare all’uomo il suo nulla.
n Tale t comunque il senso nella frase di Geremia 17, 11, m utata dalla sapienza: « Nel pieno
dei suoi giorni, egli deve lasciarle (le ricchezze> e. alla fine, non è che uno stolto! ».
,J Prov 23, 18; 24, 14. 20.
Non adirarti per l'uomo arricchito,
per l’uomo che usa intrighi. (Sai 37, 7)

Vi sono nel salterio tre grandi poemi interamente consacrati a que­


sta problematica e che vanno considerati come poemi didattici sapien­
ziali n. Si tratta del problema della felicità degli empi. È interessante
che, nonostante le grandi differenze nei particolari, tutti e tre svilup­
pano la dottrina della sentenza citata sopra: solo la fine porta la solu­
zione del problema. Sono i Salmi 37, 49 e 73.
Il Salmo 37 è un acrostico, più precisamente una raccolta di sen­
tenze. Ma anche se non ha una struttura molto rigorosa, rimane legato
al suo tema: non adirarti contro i malvagi che hanno successo (w .
t. 7b), abbi fiducia, spera in Jahve; i giusti non saranno annientati,
essi possederanno la terra (w . 3. 7. 19. 22. 34) M. Quanto ai malvagi,
le cose vanno a finir male; ancora un po’ di tempo ed il malvagio è
scomparso (vv. 2. 10. 20). Le riflessioni del salmo sono semplici e non
seguono un cammino complicato. In sintesi il salmo afferma: ciò che
è importante è la fine. La fine (’affrìt) degli empi è la rovina, la fine
dei fedeli di Jahve è la salvezza (v. 37 s.). Per « fine », il salmo intende
appunto il compimento di un’esistenza in cui la salvezza ed il giudizio
di Dio saranno visibili all’uom o15.
Il Salmo 49 inizia con un'imponente « esortazione inaugurale » (Lehre-
rdftmtngsruf) che lo qualifica subito come poema didattico. Si par­
la anche di persone ricche e malvagie che minacciano visibilmente l'au­
tore in modo assai diretto (v. 6 s.). Il problema è affrontato proce­
dendo nella chiarificazione delle idee. La fede turbata deve ritrovare
il proprio fondamento attraverso la conoscenza di un ordine fonda-
mentale della vita che regna su tutti gli uomini “. Lo sguardo si volge
anche in questo caso verso la fine; questa volta si tratta della morte
a cui gli uomini non riflettono (vv. 13. 21) e della quale non possono
riscattarsi (vv. 8-10). Qui vi è un primo aspettol7; l’altro è espresso
nella confessione:
Ma Dio riscatterà la mia vita,
dalle unghie dello sheol, sì, mi strapperà. (v. 16)

Il senso della frase è discusso. Non si tratta naturalmente di espun­


gerla dal testo. Ma non si può interpretare la confessione supponendo
che l'autore speri di essere preservato dalla morte in una situazione

13 Su queste preghiere didattiche, cfr. p. 43 s.


u Non è chiaro ciò che il salmo intende per possesso del paese, dell’eredità, nozione su cui
ritorna spesso (w . 3. 9. 11. 18. 22. 27. 29. 34). Si tratta forse di piccoli contadini che temono —
cfr. Mi 2, 2 — di perdere la loro eredità a profitto dei grossi proprietari? Cfr. P. A. Munch, in
ZAW 55, 1937, 37 ss.; G. Bostròm, Proverbiastudien (1935), 53 ss.
15 Così Eccli 9, 11: « Non invidiare il successo del peccatore, tu non sai come finirà il suo
giorno ». « Il suo giorno » — è quello che manifesterà la realtà così com'fc.
’* Il salmo presenta grosse difficoltà testuali. Nessuno ha risolto l ’enigma del v. 11: « I saggi
devono morire, il folle e l'insensato sono distrutti insieme ». Sul Salmo 49, cfr. Fohrer, in « Ke
rigma und Dogma » 14, 1968, 256 ss.
17 Così pure Prov 11, 7: « La speranza del malvagio perisce con la sua morte ».
186 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

di pericolo grave — quindi provvisoriamente —, poiché allora Tanti-


tesi con la necessità di morire da parte del ricco spensierato diven­
terebbe incomprensibile. Il verbo in causa significa (a proposito della
morte) « portar via » 18. Sembra più logico intendere questa frase come
l'espressione di una speranza di vita in comunione con Dio che duri
oltre la morte. A proposito della condizione umana dopo la morte
nelllsraele postesilico, le nostre conoscenze sono troppo poco precise
per scartare di primo acchito come impossibile quest'interpretazione
della confessione nel Salmo 49.
Il Salmo 73 è pure un poema didattico. All’inizio si trova una sen­
tenza sulla genuina bontà di Jahve verso Israele. Essa ha la funzione
da una parte, di attirare l'attenzione del lettore, dall'altra di antici­
pare lo scopo a cui le riflessioni e le esperienze dell'autore sfocieran-
no. Segue poi nei w . 2-17 una testimonianza in prima persona che,
senza soluzione di continuità, confluisce in una preghiera che inter­
pella Dio. Questa testimonianza di esperienze vissute che hanno pro­
vocato una riflessione e sono giunte a un risultato, a una « soluzione »,
è una forma letteraria tipicamente sapienzialel9. I maestri hanno for­
mulato preghiere di uguale natura. È anche qui la « felicità degli em­
pi » (l'espressione appare al v. 3b) a provocare la rivolta. Disgrazia­
tamente la descrizione particolareggiata degli empi — è la più analitica
che possediamo — non permette di riconoscere in maniera più chiara
quale genere di uomini è preso di mira. Una volta ancora viene affron­
tato il problema della volontà di conoscere:
Allora ho riflettuto per comprendere:
ma quale pena fu questo ai miei occhi! (v. 16)

Questo scacco degli sforzi intellettuali mostra nettamente che l'au­


tore aveva raggiunto un punto molto basso. Per lui, i fatti sono andati
diversamente che per gli autori dei Sai 37 e 49. Egli non sapeva più
che cosa rispondere e gli era necessario molto più chc la semplice evo­
cazione di una verità della fede. Questa specie di paralisi rimase fin­
ché un avvenimento esterno operò un cambiamento; essa si mantenne
« fino al giorno in cui entrai nel santuario di Dio e presi visione del
destino finale ('aharit ) dei malvagi » (v. 17). Ciò di cui ha preso co­
scienza noi non lo sappiamo; era — pare — un'esperienza venuta dal­
l'esterno e che ha aiutato la sua fede, forse un giudizio di Dio in un
processo sacro. Liberato dalla sua grande tentazione, l'orante ritorna
a Dio che lo circonda più meravigliosamente di prima: io sono presso
di te; tu mi tieni, tu mi guidi, poi mi prendi. La mia carne e il mio
cuore possono consumarsi, Dio resterà mia parte e mio rifugio20.
Il gran numero di difficoltà testuali e l'oscurità di diversi particolari
« Portar via », « strappare » Gcn 5. 24; 2 Re 2, 3 ss.
« Vedi p. 42 s.
» Cfr. a questo proposito H.-J. Hermisson, Sprache und Ritus int altisraelitichen Kult (1965).
110 ss.
X II. FIDUCIA E AVVERSITÀ IS?

non arrivano a pregiudicare seriamente la superba architettura del­


l'intero poema, che passa dalla rivolta ad una fiducia totalmente nuo­
va. L'autore di questo salmo rimane solidamente legato all'esperienza,
tanto per quel che riguarda il giudizio di Dio quanto per ciò che con­
cerne la salvezza, e pone attenzione a ll”aharit, a ciò che vien dopo,
alla fine. Ma nella descrizione della profondità della prova e soprat­
tutto nell'espressione di una sicurezza senza limiti presso Dio, questo
poema supera di molto le prospettive dei Sai 37 e 49.
I tre salmi citati vanno considerati a partire da un atteggiamento
spirituale elevato, in cui la fede e lunghe esperienze sono sfociate nella
conoscenza di ordini e di regole precise. Essi non lasciano questo ter­
reno, ma hanno sufficiente vivacità per distinguere i problemi e le di­
scordanze che richiedono una soluzione ed un chiarimento particolari.
La vecchia questione della correlazione tra condotta umana e retribu­
zione necessitava se non di una risposta nuova, almeno di una rispo­
sta modificata. Questi salmi l'hanno data insegnando, di fronte alle
esperienze sconcertanti, a considerare con maggior coraggio di quel
che si era fatto fino a quel momento, la fine delle vie di Dio nei con­
fronti degli uomini. Con questo contributo, essi hanno rinforzato la
fede negli ordinamenti divini modificando una conoscenza che non era
più affatto sufficiente, e giungendo a proteggere questo insieme di re­
gole da ciò che lo minacciava. Come abbiamo già detto, l'uomo si tro­
va sempre in una situazione di conflitto col mondo che lo circonda.
Le circostanze di cui deve prendere atto non sono mai perfettamente
chiare ed è il suo istinto di conservazione, la sua forza di resistenza
interiore che si pone il problema del modo con cui giungerà a far
fronte airimprevisto. Egli è senza posa minacciato dalle strutture che
il suo bisogno di conoscere ha fissato; non è mai definitivamente ga­
rantito, è sempre in movimento, poiché i problemi a cui deve trovare
risposte soddisfacenti, cambiano col passare del tempo. Questi cambia­
menti nella presa di coscienza dei problemi nel corso delle generazioni
partono spesso da cause molto difficili da definire, situate nella pro­
fondità della vita mentale di un popolo, e possono effettivamente con­
durre a notevoli tensioni interiori.

II I . I l l ibr o d i G io b b e

Esistono degli indizi che permettono di dire che all'incirca verso la


fine dell'epoca dei re, l'impossibilità di veder chiaro nel modo con cui
la vita individuale era guidata ha posto alla fede in Jahve enigmi sem­
pre più insolubili. Questa inquietudine si è estesa ben oltre la cerchia
dei maestri di sapienza. Sappiamo che pure i profeti si sono scontrati
con queste difficoltà, come lo mostrano Ger 12, Ez 18 e Mal 3. Pare
anzi che i maestri non siano stati affatto i più notevoli rappresentanti
di questa inquietudine e che i problemi si sono imposti a loro venen­
i88 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

do piuttosto dall'esterno. Benché non manchino i testi che hanno tutti


come argomento questi punti di rottura minacciosi, non vediamo ab­
bastanza chiaramente le cose per poter abbracciare il fenomeno nel
suo insieme e spiegarlo sulla base di un contesto più vasto. Si parla
— con ragione senza dubbio — di una certa indipendenza dell'indivi-
duo in seno alla comunità cultuale e nello stesso tempo di una specie
di passaggio delluomo all'offensiva contro Dio. Il problema della par­
te che occupa l'individuo nelle sue relazioni con Dio si è posto in mo­
do più acuto e più critico. Si può parlare qui di una crisi; essa tut­
tavia non è giunta a livello di coscienza generale, poiché ciascuno di
questi testi, che abbiamo detto essere numerosi, occupa una posizione
isolata. Mentre i maestri si muovono negli altri casi su una base di
comprensione larga e data in anticipo, ciò non avviene in questo tipo
particolare di problematica. In ciascuno di questi testi, è un individuo
isolato il quale, senza una tradizione dottrinale a cui ricollegarsi, si
dibatte per trovare una soluzione che gli sia propria oppure cerca di
aiutare gli altri nella loro inquietudine. È certamente questo un fatto
molto caratteristico della natura della fede in Jahve che, proprio nelle
epoche più tardive, si presenta sempre meno come un insieme solido
di idee coerenti. La volontà di Jahve, le sue intenzioni nei riguardi
degli uomini non erano a portata di mano al punto che un'interpre­
tazione giusta si distinguesse con certezza da una falsa. Siamo total­
mente incapaci di designare una qualsiasi tradizione didattica come
quella a cui potrebbero ricollegarsi le colossali riflessioni del libro di
Giobbe, tanto nel racconto in prosa quanto nei dialoghi.
Nel racconto in prosa, ci vien presentato un uomo molto pio e ricco
di benedizioni, a cui sopraggiungono inaspettatamente catastrofi che
gli sottraggono i beni, i figli ed infine la stessa salute. Egli tuttavia
non può vedere nella perdita totale di ogni benedizione e nelle soffe­
renze corporali immense alcun motivo, per quanto piccolo, di deviare
dalla sua fedeltà verso Dio. Dio aveva dato, può anche riprendere (Giob
1, 21). Non è possibile accettare da lui il bene e rifiutare il male (Giob
2, 10). Con queste due confessioni, Giobbe non esprime alcuna verità
sofisticata o segreta. Il narratore gli fa semplicemente esprimere la
logica evidente di una fede in cui egli viveva con sicurezza al riparo
dalla tentazione. Giobbe non poteva evidentemente sapere che con le
catastrofi che si erano abbattute su di lui, si presentava uno stato di
cose del tutto particolare. In occasione di un'udienza celeste, Jahve
aveva attirato l'attenzione dell'accusatore, che dobbiamo rappresen­
tarci come una specie di procuratore celeste, su Giobbe e sulla sua
pietà senza macchia. L'accusatore non aveva potuto contestare questa
pietà, ma ne aveva messo in questione tanto più imperiosamente il
motivo: Giobbe non era sottomesso a Dio « senza ragione ». La cosa
apparirebbe in una luce ben diversa se Dio ritirasse la sua benedi­
zione a quest'uomo! Benché la prim a prova ordinata da Dio non abbia
raggiunto l'esito dato per scontato dall'accusatore, costui non si di­
chiara vinto. La persona di Giobbe non è stata toccata; anche lui è un
egoista; « pelle per pelle »! « l'uomo abbandona tutto ciò che possiede
per salvare la propria vita! » (Giob 2, 4). Ma anche questa volta, la
prova ben più dura non rivela niente di nuovo; Giobbe conserva la sua
« integrità », cioè la sua pietà. Il caso è illustrato a sufficienza. Lo
stato di benedizione precedente di Giobbe può essere nuovamente rista­
bilito. Egli potrà vedere i suoi figli e i figli dei suoi figli e morirà vec­
chio e sazio di giorni21. È certo che questo racconto in prosa dev'es­
sere considerato quanto al genere come un racconto didattico. Non è
per la forma un semplice « racconto popolare », ma una prosa che ha
grandi pretese artistiche. Vi è una pietà disinteressata (« senza ricom­
pensa anche nell'estrema necessità »)? La risposta è positiva. È natu­
ralmente molto importante che Giobbe non abbia la minima idea di
tutto il prologo celeste che ha preceduto i suoi mali e che non abbia
saputo niente. Egli non sapeva che Dio si era in anticipo fatto garante
per lui e che tutti gli esseri celesti che avevano assistito al colloquio
attendevano le reazioni di Giobbe con viva impazienza. Senza saperlo,
Giobbe ha giustificato con le sue confessioni la « parola d'onore » con
la quale Dio si era fatto garante per lui. Quest'uomo seduto sul suo
mucchio di cenere, coperto di malanni, « soffre in quanto gloria e
orgoglio di Dio »22. Il racconto presenta in tal modo Giobbe nel ruolo
di un giusto testimone di Dio il quale, in un momento di estrema im­
portanza, si è chiaramente schierato per l'interesse di Dio. Parlare con
« impertinenza » contro Dio era considerato come una cosa abomine­
vole. Era necessario in una situazione decisiva, dire di Dio « quel che
era giusto » 23. Dietro questo racconto devono trovarsi riflessioni molto
sottili sulla sofferenza; ma non si ha l'impressione ch'esse siano già
nella prospettiva di quella specifica tentazione a partire dalla quale,
come si è visto, i maestri dovevano far trionfare la fiducia in Jahve.
Nessuna traccia di lotta interiore o di tensione teologica! Con quale
sangue freddo questo racconto osa sostenere di fronte ai lettori che
una persona sicuramente innocente — la cui innocenza è confermata
da Dio stesso — abbia dovuto soffrire tanto!
In questo racconto di Giobbe è stato inserito (probabilmente alcuni
secoli più tardi) l'enorme blocco letterario dei dialoghi e dei grandi
discorsi di Dio24. Bisogna imparare a leggere attentamente questi dia­
loghi; innanzitutto bisogna risolvere il problema della loro natura. Non
sono « controversie »; la situazione di partenza è assai chiara: si tratta

21 II racconto è certam ente passato attraverso un processo letterario piuttosto com plicato prim a
di giungere a noi nella form a in cui lo conosciamo. La formazione letteraria della m ateria a p a r­
tire da stadi an terio ri più semplici può essere rico stru ita approssim ativam ente grazie ad alcune
discordanze; cfr. G. Fohrer, S tu d ia i zum B uch H iob (1963), 26 ss. 44 ss.
22 J. G. H erder, V om G eist d er ebràischen P o esie, in < Bibliothek theologischer Klassiker », voi.
30, 137.
n Giob 1, 5. 22; 2, 10; 42, 7 ss.; cfr. G. F ohrer, o p . c it., 35 s.
24 Non si giungerà mai a spiegare in modo soddisfacente l'articolazione del racconto e dei d ia­
loghi di Giobbe sul piano letterario in tu tti i suoi aspetti, fi certo che il racconto ha subito brevi
m utilazioni e correzioni di testi; cfr. G. F ohrer, op. c it., 7 ss.
13. von rad. la sapienza in itraekr
190 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

di conversazioni di un sofferente coi suoi amici. Quel che dobbiamo


aspettarci, sono lamenti da una parte e un aiuto spirituale dall'altra 75.
Ciò che Giobbe ha così spesso fatto in precedenza diventa ora la mis­
sione degli amici nei suoi confronti: esortare e rialzare con parole
chi cade (Giob 4, 3 s.). Quest'attesa è pienamente confermata dai di­
scorsi e dalle risposte. È giusto che i lamenti come le consolazioni
prendano una forma molto appassionata e sfocino ogni volta in una
lotta aperta; ma non è qui l'essenziale di questi dialoghi. Anche nelle
lamentazioni dei salmi troviamo il grido di dolore perché i vecchi
amici sono diventati nemici26. Ma quel che più sorprende è vedere
come Giobbe si muove fin nei minimi particolari in conformità con
10 stile e con i temi affrontati nei salmi di lamentazione. Solo pochis­
sime cose nei suoi discorsi costituiscono una nuova poesia, senza pre­
cise analogie nel campo della storia delle forme. E tuttavia possiamo
constatare un cambiamento d'accento, una tendenza all'assoluto di
alcune forme tradizionali del discorso e soprattutto una composizione
molto abile: tutte caratteristiche che fanno dell'insieme qualcosa d'as-
solutamente nuovo e di unico nel suo genere. Ogni discorso di Giobbe
— ma anche dei suoi amici — comporta una serie di unità formali
che anche un occhio poco esercitato riesce a distinguere facilmente.
Qui risiede una difficoltà per il lettore moderno. Poiché queste unità
formali sono intenzionalmente giustapposte, ma senza transizione, vi
sono in questi discorsi dei salti, a volte molto netti, da un'idea all'altra.
11 poeta non presenta nei discorsi di Giobbe una « biografia psichica »
che potrebbe rispondere alle moderne esigenze della psicologia; lascia
invece che Giobbe ed i suoi amici esprimano il loro sentimento nelle
forme letterarie della loro epoca. Anche in un'esposizione così poco
ordinaria come quella di Giobbe, l'antico poeta non può fare a meno
di attingere a forme convenzionali del discorso. Gli amici non appaiono
affatto come personalità dal profilo ben netto. A fianco del solitario
che dà in escandescenze, il loro compito si esaurisce nel presentare le
idee tradizionali. I « partner » del dialogo non giungono, ascoltandosi
gli uni gli altri, a sganciarsi da alcune tesi caratteristiche legate tra
loro in modo assai debole. Nel loro modo di condurre il dibattito, le
loro idee non si avvicinano molto le une alle altre. Ciò ha un duplice
effetto: da una parte il dialogo manca di progressione, dall'altra, lo
spazio spirituale da superare si allarga. I discorsi si ripetono e pro­
cedono solo a giri concentrici.
Tutte queste constatazioni, che s'impongono prima e soprattutto nel
campo formale, mostrano che i dialoghi si svolgono in un quadro in­
tellettuale fortemente circoscritto da idee, giudizi di valore e interpre­
tazioni convenzionali, in un quadro in cui l'elemento personale, le opi­

25 C. W estermann, Der Aufbau des B ach es Hiob (1956), 4 ss.


34 Ad esempio Sai 31, 12; 88, 9. 19. Le stru ttu re del discorso che troviamo nei dialoghi sono
state paragonate da Westermann a quelle corrispondenti nei Salmi di lamentazione; cfr. op. c it.,
25 ss.
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 191

nioni di cui l'individuo prende da solo la responsabilità, appaiono mol­


to meno di quanto il lettore moderno non immagini. Giobbe stesso è
profondamente legato al modo di pensare della propria epoca e, come
vedremo, ha più di un punto in comune con i suoi amici. È quindi
ancor più significativo eh egli sia potuto giungere a una dichiarazione
così grandiosa. Ci si può domandare se le tesi di Giobbe hanno incon­
trato nell'antichità un'adesione ed una comprensione così grandi come
presso il lettore moderno. Numerosi esempi possono essere citati per
mostrare che l'antichità avvertiva ben più chiaramente i rischi di un
atteggiamento così solitario (Antigone!). Si teneva una posizione molto
più cauta nei confronti di una critica degli usi stabiliti e si pensava
che una tale ostinazione dell'individuo in posizioni radicali avesse un
effetto distruttore. I maestri d'Israele avevano anch'essi delle preoc­
cupazioni a questo proposito. Lo scandalo intellettuale di fronte a
quello che non trova chiaramente, scandalo da cui prende inizio la
strada della rivolta contro Dio, essi lo chiamavano « dare in escande­
scenze ». Vi vedevano — un po' sulla linea della felicità degli empi —
qualcosa di falso e biasimevole. Anche Giobbe ha dovuto sentirsi dire
che « la stizza fa perire l'insensato e l'irritazione consuma lo stolto »
(Giob 5, 2). Infatti, come definire il comportamento di Giobbe altri­
menti che un « dare in escandescenze »?27.
Il dialogo si compone di tre grandi serie di discorsi nei quali Giobbe
risponde ad ogni intervento dei suoi tre amici (cc. 5-14; 15-21; 22-27).
Nel corso di questo scambio, Giobbe prende la parola molto più spes­
so e in genere più a lungo degli altri. La terza serie è mutila nella
seconda metà, a partire dal c. 24. I discorsi molto eloquenti di un
quarto amico, Elihu, ai cc. 32-37, sono un'aggiunta poetica posteriore
che separa assai nettamente la provocazione di Dio da parte di Giobbe
(31, 35-40) dalla risposta di Dio (cc. 38 ss.). Così Dio è, a fianco di
Giobbe e dei suoi amici, il terzo « partner » del dialogo28. Soltanto alla
fine egli prende la parola. È tuttavia giusto dire che questo misterioso
terzo interlocutore era già presente sin dall'inizio come persona inter­
pellata: il suo intervento è stato quindi preparato da lontano.
Giobbe e gli amici hanno in comune la convinzione che la sofferenza
che si è abbattuta su Giobbe venga da Jahve ed abbia un significato.
L'intero dialogo si svolge sulla base di questa tesi, tesi che non è d'al­
tronde soggetta ad alcuna discussione. Ma a partire da questo punto,
le opinioni divergono notevolmente. I tre amici sono d'accordo. Pur
esponendo la loro opinione con qualche differenza, l'intenzione del­
l'autore non era di differenziarli didatticamente. Tutto quello che han­
no da dire a Giobbe persegue una linea teologica relativamente unita­
ria. Il loro intervento consolatorio si articola, da una parte in insegna-
menti teorici, dall'altra parte, in consigli pratici riguardanti i prossimi

17 Sul € d are in escandescenze», cfr. P rov 3, 31; 23, 17; 24, 19; Sai 37, 1; 73, 3.
» C. W esterm ann, o p. c it., 6 e 15,
192 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

impegni che Giobbe deve assolvere. Le considerazioni teoriche attin­


gono largamente alle idee accettate universalmente e all'esperienza tra­
dizionale. In ciò risiede la loro forza. A Giobbe non può sfuggire la
loro evidenza e dovrà trarne le conseguenze, sperano gli amici. La loro
argomentazione e la loro consolazione possono così riassumersi:
Nessun uomo è senza peccato, nessuno è puro di fronte a Dio. An­
che gli angeli non meritano la fiducia di Dio; quanto meno l'uomo
« che beve l'iniquità come l'acqua » può essere giusto di fronte a Dio!
(Giob 15, 16). La situazione dell'uomo che è per giunta interamente
soggetto aH'effimero è quindi sfavorevole di fronte a Dio, poiché non
può presentarsi di fronte a lui ponendo domande e presentando esi­
genze. La sua vanità ed il suo peccato non lo permettono. Ora, Dio
punisce il peccatore. Nella corrispondenza tra condotta e retribuzione,
gli amici vedono una regola di vita fondamentale stabilita da Dio. Essi
non cesseranno di ricordarlo a Giobbe, in particolare nei poemi didat­
tici relativi alla fine dell'uomo violento di cui si è già parlato. Essi
non pretendono che Giobbe sia un uomo violento, ma sicuramente lo
chiamano in causa quando lo esortano ad esaminare la propria vita in
funzione di questi casi tipici. Essi sono persuasi che Dio ha pronun­
ciato un verdetto attraverso le sofferenze intense che opprimono Giob­
be e l'idea che Dio potrebbe aver commesso un'ingiustizia appare loro
assolutamente inammissibile29. Ne risulta logicamente una serie di con­
sigli pratici con cui vogliono aiutare Giobbe. Questo verdetto di Dio è
rivolto a Giobbe soltanto; egli solo può comprenderlo e dargli un sen­
so. Tutto tende a portare Giobbe a resipiscenza. È per questo che la
consolazione culmina nell’esortazione: cedi a questo rimprovero e dà
ragione a Dio!30.
Per meglio capire il pensiero degli amici, si deve sapere che la forma
di una confessione sacra eh essi raccomandano con tanta insistenza a
Giobbe di pronunciare, è diventata sempre più una forma essenziale
della preghiera in epoca tardiva. Il cammino era il seguente: l'indivi­
duo (o la comunità), provato da circostanze dolorose, riconosce che
la sua sofferenza è un atto di giudizio salutare di Dio. Egli (o essa)
riconosce il suo peccato e si confessa in un cantico di lode alla giu­
stizia di Dio. Sospende così in una certa misura il processo che è in
corso contro di lui e può sperare di rientrare in grazia presso Dio31.
Che si intendesse questo intervento di Dio nella vita individuale come
un'azione piuttosto punitiva o piuttosto educativa, la sfumatura non
ha molta importanza. In questo dunque consisteva l'intervento conso­
latorio degli amici di Giobbe: arrenditi al castigo di Dio, ciò servirà
al tuo bene ! Se ti ribelli, invece, ti spezzerai contro di lui
A questo punto vale la pena di gettare uno sguardo sulla parte della

Giob 8, 3; 34, 10. 12. 31 ss.; 36, 23.


10 Giob 5, 8 s.; 8, 20 s.; 11, 13-15; 22, 21-30; 36, 8-11.
" Circa la « dossologia di giudizio *, vedi p. 192 s.
Così ad esempio Giob 5, 17 ss.; 33. 12-20; 36, 10. 22.
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 193

preghiera deuteronomistica di consacrazione del tempio di Salomone


(1 Re 8), in cui sono enumerati diversi casi di liturgie di pentimento.
La pericope è ordinata secondo uno schema rigido:
Quando il tuo popolo Israele sarà battuto davanti al nemico perché ha pec­
cato contro di te... (v. 33)
Quando il cielo sarà chiuso e non vi sarà più pioggia perché hanno peccato
contro di te... (v. 35)
Quando essi peccheranno contro di te — poiché non vi è uomo che non pec­
chi — quando tu sarai irritato contro di loro e li abbandonerai al nemico...
(v. 46)

Il secondo membro dello schema tratta della conversione provocata


dairavvenimento che costituisce il castigo:
...se ritorna a te, loda il tuo nome, prega e supplica... (v. 33)
... se essi pregano in questo luogo, lodano il tuo nome e si pentono del loro
peccato... (v. 35)
...se essi si pentono e... se ritornano a te con tutto il loro cuore... (v. 47)

Il terzo membro dello schema parla del perdono richiesto:


... tu, ascolta nel cielo, perdona il peccato del tuo popolo... (v. 34)
...ascolta nel cielo la loro preghiera e la doro supplica... (v. 45)

A parte il fatto che non si tratta qui di un individuo, ma d'Israele


nel suo insieme, ritroviamo punto per punto tracciata in anticipo la
via che gli amici consigliano a Giobbe di seguire. All'inizio si trova il
disordine che provoca lo sbigottimento. Vengono poi una reazione del­
la coscienza che dà un senso alTavvenimento (cfr. il testo interessante:
« se qualcuno prova il rimorso della propria coscienza », v. 38), e la
conversione. Questo ritorno alla misericordia divina sempre accogliente
mette un termine al movimento provocato dal peccato. È presente an­
che l'allusione al peccato che incatena tutti gli uomini (v. 46)!33.
Anche Giobbe è convinto di aver a che fare nella sua sofferenza con
un intervento diretto, ossia con un giudizio di Dio. Ma in lui, il pro­
blema si pone in modo del tutto diverso che presso i suoi amici. Se
si cercano nel gigantesco agitarsi di lamenti, di rimproveri, di proteste,
d'invettive ch'egli rivolge alternativamente ai suoi amici e a Dio, i fili
conduttori che guidano il suo pensiero, si potrà enumerare tre serie
d'idee: Giobbe si sente a posto davanti a Dio e protesta costantemente
la sua innocenza. Egli vuol dire in questo modo che è incapace di
riconoscere nel suo caso il rapporto di corrispondenza tra il peccato

33 Come argom entazione degli amici, cfr. ad esempio Giob 4, 17-21; 25, 4-6. Nella « liturgia »
della grande siccità, Ger 14, si ritrova lo stesso ordine di fatti esterno ed interno: all’inizio, è
descritta la calam ità (w . 2-6). poi viene la preghiera d ’intercessione che comincia quasi come una
dom anda sul motivo della disgrazia: « Se i nostri peccati parlano contro di noi, agisci, Jahve, per
l’onore del tuo nome » (v. 7).
194 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II I

e il castigo affermato dai suoi amici. Non può confessare che il disor­
dine del suo rapporto con Dio proviene da lui, cioè da un grave pec­
cato eh egli avrebbe commesso. « Io vivevo tranquillo quand'egli mi ha
fatto crollare » (Giob 16, 12). Con una passione prodigiosa e senza il
minimo riguardo alle conseguenze possibili, egli afferma la propria
« giustizia » ( tummà ) davanti a Dio.
Ho ragione, non vedo più la inda vita
e disprezzo la mia esistenza! (Giob 9, 21)
Per il Dio vivente che mi rifiuta giustizia,
per rOnnipotente che rende la mia vita amara,...
le mie labbra non diranno niente di falso,
alcuna menzogna verrà sulla mia lingua.
Ben lungi dal darvi ragione,
fino aill'ultimo respiro, affermerò la mia innocenza.
Mantengo la mia giustizia e non cedo;
in coscienza, non ho motivo di arrossire dei miei giorni. (Giob 27, 2. 4-6)
Eppure, tutti i miei passi, egli li conosce!
NÒ passi al crogiolo: oro puro ne uscirò!
Il mio piede ha aderito ai suoi passi,
ho seguito la sua via senza deviare;
ho osservato alla lettera i comandamenti delle sue labbra,
custodito nel mio seno le parole della sua bocca. (Giob 23, 10-12)

Questa convinzione assolutamente incrollabile porta Giobbe alla ri­


flessione successiva: è necessario giungere a un dialogo tra lui e Dio.
Se Dio gli ha « rifiutato giustizia », le cose non possono restare a que­
sto punto:
Ma io ho da parlare alTOnnipotente,
voglio fare a Dio delle rimostranze. (Giob 13, 3)
Prendo la mia carne tra i denti,
pongo la mia vita nelle mie mani.
Egli può uccidermi: non ho altra speranza
che di giustificare davanti a lui la mia condotta. (Giob 13, 14 s.)
Oh! se sapessi come raggiungerlo,
arrivare fino alla sua casa,
aprirei un processo davanti a lui,
la mia bocca sarebbe piena di argomenti.
Conoscerei i termini stessi della mia difesa,
attento a ciò che mi direbbe. (Giob 23, 3-5)

Se Dio gli permettesse di esprimersi, parlerebbe senza timore (9,


34 s.); gli domanderebbe: « Fammi sapere perché mi citi in giudizio! »
(10, 2). « Perché nascondi il tuo volto e mi consideri come tuo nemi­
co? » (13, 24). Se egli potesse esporre in questo modo la sua causa
(13, 18), potrebbe indurre Dio a parlare. Non è forse lui il suo crea­
tore, non potrebbe reclamare l'opera delle sue mani (14, 15)?34. Inoltre,

Giobbe si appella a Dio com e suo creato re anche in altre circostanze: cfr. Giob 10. 3. 8-11. 18,
X II. FID U C IA E AVVERSITÀ 195

Dio non è forse il difensore di tu tti quelli che soffrono? A questa do­
manda bisogna rispondere affermativamente. Il lettore rimane colpito
dalla impetuosità con cui Giobbe esprime a colpo sicuro la certezza
di essere in ogni circostanza al riparo della giustizia di Dio, fosse pure
al prezzo che Dio si schieri contro se stesso per difendere Giobbe!
Già fin d'ora, ho nei cieli un testimone,
lassù sta il mio difensore. (Giob 16, 19)

Giobbe non può tuttavia tranquillizzarsi con questa certezza. Collo­


cato su una base molto più ampia appare nei suoi lamenti l'argom ento
secondo cui è impossibile e senza speranza attendere da questo Dio la
giustizia (sarebbe questa la terza serie d'idee). Egli non presterà atten­
zione ai suoi argomenti, ancor meno vi risponderà (9, 16. 3). Dio è
libero a tal punto che stabilisce da sé il proprio diritto e non si cura
del fatto che gli uomini facciano appello a questo nome.
Uno è il vero e perciò lo dico:
egli fa perire allo stesso modo giusti e colpevoli.
Quando un flagello mortale si abbatte improvviso,
egli ride della miseria degli innocenti...
Anche se mi lavassi con la neve,
o purificassi le mie mani con la soda,
tu mi immergeresti -neir-immondizia,
e le mie vesti avrebbero schifo di me. (Giob 9, 22 s. 30 s.)

In questo processo non vi è un arbitro che faccia prestare giura­


mento alle due parti (9, 33). Questo Dio è così libero, così arbitrario
che non può essere citato a giudizio da parte dell'uomo:
Se egli passa su di me, io non lo vedo,
sorvola, impercettibile.
S'egli rapisce una preda, chi lo impedirà?
E chi oserà dirgli: «Che fai?». (Giob 9, 11 s.)

Risultato: se questo Dio non lo vuole, l'uomo non può assolutamen­


te far nulla per giungere a mantenere con lui dei buoni rapporti. Ed
è ben chiaro che, nel caso di Giobbe, Dio non lo vuole.

Eccoci giunti al punto in cui è impossibile differire il pesante com­


pito di rispondere, almeno con alcuni accenni, al problema della giu­
stizia e dell'ingiustizia che questo dialogo pone ad ogni lettore. E su­
perfluo avvertire che si deve procedere con precauzione in queste rifles­
sioni, poiché il poeta non muove un dito per guidare il lettore in que­
sto dedalo di opinioni teologiche. Lascia che questi uomini espongano
in lungo e in largo la loro posizione e che il dialogo si chiuda senza
soluzione. Anzi, alla fine il dissidio è maggiore che all'inizio. L'unico
indizio del centro di gravità del dialogo si trova nel fatto che il poeta
dà la parola a Giobbe dopo ogni discorso dei suoi amici per rispondere
loro; ne risulta così ch'egli parla più sovente.
196 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

Dove stanno le differenze tra Giobbe ed i suoi amici? Che Giobbe


si lamenti e che gli amici cerchino di indottrinarlo, è nell’ordine delle
cose: il consolatore si riferisce sempre nei suoi incoraggiamenti all'e­
sperienza generale. Certamente vi è pur sempre un carattere partico­
lare nel lamento di Giobbe. Innanzitutto, egli è d’accordo con il lamen­
to antico dell’umanità sulla brevità della vita e sui tormenti che l’as­
salgono (14, 1). La sorte dell’uomo sulla terra è un lavoro faticoso.
Come uno schiavo egli aspira all'ombra. Se si corica è per pensare:
quando farà giorno? Se si alza è per domandarsi: quando verrà la
sera? (7, 1-4). Giobbe si inserisce in questo lamento universale, poiché
esso esprime ampiamente i suoi mali. Egli si'riconosce così pienamente
uomo senza lasciarsi togliere il diritto di esprimere il proprio dolore
e senza desistere da una verità disperata. Ma questa verità di fronte a
cui si trova Giobbe ha ancora un carattere particolare. Bisognava met­
tersi a far della retorica per poterla esprimere. La coscienza che, nei
suoi mali, egli ha a che fare con Dio non era — come abbiam visto —
una novità. Quel che era inconcepibile ed insopportabile, è che Dio si
scagliasse su di lui, il giusto, e cercasse di ucciderlo con l’accanimento
cieco di un nemico.
Il suo furore strazia e m’incalza,
mostrando denti che stridono.
I miei avversari puntano su di me i loro sguardi,
aprono una bocca minacciosa...
Io vivevo tranquillo quand’egli mi ha fatto crollare...
Egli ha fatto di me il suo bersaglio,
mi accerchia con i suoi dardi,
trapassa i miei reni senza pietà,
e spande a terra la mia bile.
Apre in me breccia su breccia,
si scaglia su di me come un guerriero.
Ho cucito sulla mia pelle un sacco di lutto,
ho rotolato la mia fronte nella polvere.
II mio volto è arrossato a causa delle lacrime,
un velo d'ombra copre le mie palpebre.
Eppure, nessuna violenza nelle mie mani,
e la mia preghiera è pura. (Giob 16, 9-17)

Nessuno in Israele aveva ancora dipinto in tal modo l’atteggiamento


di Dio verso l’uomo. Nelle loro lamentazioni, gli oranti non usavano
mezzi termini quando rimproveravano a Dio la sua durezza. Ma qui, vi
è un tono nuovo che non era ancora risuonato: Dio, nemico diretto
dell’uomo, che lo tormenta a piacere, che — diremmo noi — gli com­
pare dinanzi nella caricatura di un diavolo, digrigna i denti, punta lo
sguardo (la traduzione greca parla di « pugnalate ») e strazia le viscere
di Giobbe. Bisogna dirlo, Giobbe si trova di fronte ad un'esperienza
totalmente nuova della realtà di Dio. Di fronte a qualcuno impondera­
bile, imprevedibile, terrificante di cui senza dubbio l’antico Israele ed
alcuni profeti qualcosa sapevano, ma davanti al quale gli amici di Giob-
be sono ridotti al silenzio, perché queste esperienze erano state com­
pletamente perse di vista durante tutta quest'epoca, e non soltanto da
parte della sapienza. La cosa determinante non era che Giobbe si tro­
vasse posto di fronte ad esigenze che superavano tutto ciò che fino a
questo momento era stato conosciuto in Israele; quel che è decisivo è
il problema del quadro spirituale in cui un conflitto di questo genere
si andava preparando e doveva essere risolto. Nel caso di Giobbe, que­
sto quadro era molto ristretto. Era il campo della coscienza di un indi­
viduo interamente ripiegato su di sé e che non poteva ormai più essere
raggiunto dalla voce dei suoi vicini. E il fatto veramente nuovo è che
Giobbe implicava Dio nella sofferenza in modo affatto nuovo, ben più
profondamente e più terribilmente. Non era più il Dio che castigava
sovranamente e colmava il destino umano; no, Giobbe vede un Dio che
penetra molto personalmente e con tutti i mezzi di cui dispone nella
sofferenza dove si scatena. È un sapere terribilmente isolato che gli fa
quasi perdere la ragione.
Il problema ermeneutico di sapere come il poeta stesso voleva che
si leggessero e si comprendessero i dialoghi non ha ancora ricevuto
alcuna risposta soddisfacente. Occorrerebbe dapprima affrontare con
maggiore spirito critico le reazioni che essi provocano nel lettore mo­
derno. Si può proprio dare per certo che Giobbe sia il solo ad aver
innalzato una protesta, mentre di fronte a lui gli amici appaiono sem­
plicemente come dei molesti rappresentanti della tradizione? Abbiamo
noi il diritto di supporre presso il lettore antico una gioia così una­
nime di fronte a questo ribelle religioso? Ma, a parte questo, dove
voleva arrivare l'autore dei dialoghi e dei discorsi di Dio? Dove e come
bisogna giungere per coglierne le dichiarazioni? È certo che per lui
la dichiarazione di pentimento di Giobbe, com'egli la pronuncia dopo
aver ascoltato il discorso di Dio (40, 3-5; 42, 2-6), aveva una grandis­
sima importanza. Ma dove e come l'autore (e non noi!) ha visto giu­
sto e dove ha visto falso? Il modo con cui sviluppa largamente le tesi
contraddittorie non milita a favore dell'idea ch'egli avrebbe voluto
portare il lettore a distinguere il bianco puro dal nero assoluto15. Le
cose non sono certamente così semplici. Ma la supposizione contraria
neppure soddisfa; egli non ha voluto dare al lettore l'occasione di sco­
prire in ogni caso, punto per punto, discorso dopo discorso, ciò che
vi è detto di vero e di giusto. Il giusto ed il falso non si lasciano met­
tere a nudo in questo modo totalizzando dei punti. Vuole piuttosto
mostrare i limiti e le aporie di una posizione fondamentale (la più
diffusa) opponendole un atteggiamento rivoluzionario diametralmente
opposto, ma vuole nello stesso tempo sottolineare le aporie della posi­
zione di Giobbe. I due atteggiamenti contengono delle verità. L'atteg­

35 Sgom enta co n statare come ci m anchino criteri certi per giudicare i discorsi degli amici. Il
poeta ha forse aggiunto alcuni tra tti caricaturali ai discorsi di Elihu (Giob 32, 18 ss.)? Deve forse
essere considerato, come pensano parecchi esegeti, un chiacchierone arrogante? Altri l’hanno lodato
per la sua m odestia e il suo profondo senso della sofferenza; cfr. C. K uhl. in ThR 21, 1953. 258.
198 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

giamento rivoluzionario era — come abbiamo detto — veramente at­


tuale e s'imponeva al poeta. Ma era poi veramente così totalmente
rivoluzionario nella sua sostanza?
Tutta la disputa tra Giobbe ed i suoi amici si fonda su una conce­
zione diversa della giustizia dell'uomo di fronte a Dio. Il punto di
partenza dell'argomentazione degli amici è: nessun uomo è giusto da­
vanti a Dio, perciò tutti devono soffrire * Questa concezione degli ami­
ci non era, come si è visto, specificamente « sapienziale », essa era
comune a tutto Israele, anzi a tutta l'antichità. Attraverso la sofferenza,
gli uomini sono condotti a rivolgersi a Dio e a confessare il loro pec­
cato. Allora Dio li può accettare ed i loro rapporti con lui ritornano
normali. Non si potrà quindi dire che gli amici non conoscevano al­
cuna giustizia umana davanti a Dio: essa consisteva nella loro con­
versione a Dio perché li potesse accogliere. Invece Giobbe dice: « Io
sono giusto davanti a Dio. È Dio che ha rotto le relazioni, non io ».
La risposta al problema del modo con cui bisogna considerare più pre­
cisamente questo « appoggiarsi » di Giobbe alla sua « integrità » (Giob
27, 5) richiederebbe una ricerca più approfondita. Giobbe attesta solen­
nemente nelle sue spiegazioni che non è cosciente d'aver commesso
un peccato così grave da spiegare l'eccesso della sua sofferenza. È ben
chiaro che con questa protesta Giobbe non pretende di essere definito
come assolutamente privo di peccati. La « giustizia » di fronte a Dio
non era un attributo che poteva essere conferito sulla base di una con­
tabilità di prestazioni morali. In fin dei conti, era Dio che poteva rico­
noscerla nell'uomo, sia a causa della sua fede, sia a causa della sua
confessione come figlio di Dio. Se Giobbe dichiara di essere in una rela­
zione giusta con Dio, non è a motivo di un bilancio morale stabilito
proprio per questo scopo, ma egli tende con la sua confessione a tro­
vare protezione in un rapporto con Dio, fissato ben prima di lui, e
che egli conosceva assai bene per poterlo rivendicare in suo favore.
Giobbe sa perfettamente che non ha risolto nulla con le sue dichiara­
zioni d'innocenza. Tutto dipende dal decreto di giustificazione pronun­
ciato da Dio. Perciò Giobbe deve entrare in dialogo con lui a qualun­
que costo. È interessante vedere con quale forza Giobbe vive il suo
dramma ancora in seno a rappresentazioni specificamente cultuali,
più forse dei suoi stessi amici37.
Così Giobbe è anche un giusto sofferente che vede la propria causa
interamente nelle mani di Dio ed abbiam visto quanto, malgrado il suo
terrore, egli sia spinto senza posa verso Dio. Solo presso di lui può
ricevere il decreto di giustificazione che aggiusterà la sua relazione con
Dio e, in tal modo, tutta la sua esistenza terrena. La sua sicurezza di
essere protetto contro ogni rimprovero è perfino sorprendente, tanto
34 Un significato ermeneutico particolare è d a attrib u irsi al testo di Giob 32, 1 s., perché gli
amici sono unanim i in questo caso.
37 Nelle sue proteste d'innocenza, Giobbe n o n si avvicina forse alle p ro teste degli innocenti p e r­
seguitati, quali troviam o nel salm i? Cfr. Gunkel-Begrich, E inieitung in d ie Psalm en (1933), 215 s.,
238; C. W estermann, op. cit.. 78 ss.
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 199

è imperturbabile. « Chi vuole entrare in processo con me? » (13, 19).


È col medesimo appello che il servo di Jahve, nel deuteroisaia, sfida
gli eventuali avversari:
Colui che mi assisterà nel mio processo è vicino,
chi oserebbe intentarmi un processo?
Allora presentiamoci insieme!
Chi pensa di avere un diritto contro di me?
Si avvicini a me!...
In realtà, il mio diritto sussiste presso Jahve. (Is 50, 8; 49, 4b)

Probabilmente Giobbe non avrebbe potuto dire altrettanto, poiché


non sa che il Dio che lo giustifica è così vicino; il Dio col quale Giobbe
si dibatte sarebbe dapprima dovuto diventare un altro Dio; sarebbe
dovuto cambiare completamente. Da questo Dio Giobbe non attende
nulla; a rigore attende la morte come liberazione (Giob 6, 8-10). Gli
nega il diritto di agire in questo modo verso un uomo e lo insulta per­
ché si abbassa a non essere più che la caricatura di se stesso. Il grido:
« Dio deve » ritorna senza posa nei suoi discorsi. Egli vuole continua-
mente costringere Dio a presentarsi a lui in modo tale che egli, Giob­
be, lo possa riconoscere come suo Dio. Abbiamo detto che Giobbe
faceva discendere Dio nella sofferenza in un modo incomparabilmente
più assoluto, più totale, e lo vedeva agire in essa in modo molto più
immediato, aprendo così delle prospettive sulla realtà di Dio che erano
nascoste ai suoi amici e molto verosimilmente a tutti i suoi contempo­
ranei. Era qui la sua nuova scienza. D'altra parte, egli contesta a Dio
il diritto di avvicinarsi a lui sotto quest aspetto; lo accusa di crudeltà
e di malvagità assoluta e si rifiuta di vedere in questo Dio il suo Dio.
Egli non è in grado di seguire questo Dio nella profondità di un tale
mistero.
Di fronte a questa irruzione di una nuova conoscenza di Dio, ma
anche di fronte allo scacco costante di questa conoscenza, dove sono
gli amici? È facile per loro indignarsi per la rivolta di Giobbe, poiché
nulla distinguono né della giustizia, né delTingiustizia di Giobbe. Per
comprendere l'enorme distanza in cui si situano i discorsi dei « part­
ner », occorre aver chiara la differenza assoluta delle posizioni di par­
tenza: gli amici partono dalla questione secolare e sempre nuova sulle
regole, cioè dal problema se nel rapporto vitale degli uomini con Dio
si possono percepire delle leggi. Essi rispondono affermativamente a
questo problema in funzione del legame tra condotta e retribuzione;
ma non è qui che risiede il loro errore. Se così fosse, si dovrebbero
giudicare allo stesso modo larghe porzioni della predicazione di giu­
dizio dei profeti. E non si potrebbe neppure rimprovevare loro di
aver diffuso le antiche conoscenze in una forma raffinata dell'arte reto­
rica. Del tutto diversa è la posizione di Giobbe: egli parte da una rela­
zione molto personale con Dio, nella quale si trovava e che improvvi­
samente scopre interrotta. Egli desidera un decreto divino di giusti-
200 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

Reazione personale e stima indegno di Dio il rifiutarglielo e il far pe­


rire la sua creatura in tormenti indescrivibili. Perciò giunge ad usare
tutti i mezzi della pietà e dell’oltraggio per costringere questo Dio
ch’egli considera ancora e sempre come il suo Dio ad uscire dalla sua
ambiguità. Per dare al suo stato di miseria un'espressione adeguata,
egli si serve largamente della lingua dei salmi di lamentazione che,
sotto la pressione di esperienze ben più intense, ricevono molto so­
vente l’accento di un’acutezza tale da superare le convenzioni.
Se Giobbe partecipa innegabilmente alla problematica « sapienzia­
le », questa partecipazione passa in secondo piano rispetto al fatto che
le sue prospettive teologiche si presentano nel colloquio in modo del
tutto diverso. L’immagine di Dio che gli si frantuma dinanzi, non pro­
viene dall’esperienza di determinate regole; tanto meno l’idea di Dio
per cui egli si batte. In fin dei conti, essa proviene dal dialogo che
Israele intrattiene da secoli col suo Dio nel culto; essa ha preso forma
di generazione in generazione a forza d’ascoltare l’affermazione che
Jahve era il Dio d'Israele, il suo difensore ed il suo salvatore. Giobbe
risale quindi molto al di qua della problematica dei suoi amici, fino
al problema elementare di sapere se la potenza che agisce verso di lui
è ancora il Jahve d’Israele. Finché questo problema rimane senza ri­
sposta, le verità sperimentali dei suoi amici non gli sono di alcun aiuto,
poiché suppongono sempre un Jahve incontestato. Egli le scarta per­
ché gli mascherano il suo vero problema. Quel che desidera appassio­
natamente sapere, non può accertarlo mediante l’addizione delle espe­
rienze d’ogni giorno. In una forma molto più elementare gli si pone al
fondo della sua esperienza di dolore la domanda: Jahve per me? Come
tutto sarebbe stato più semplice (e meno vero!) se egli avesse potuto
cavarsela in un modo o in un altro, cercando di spiegarsi secondo i
canoni religiosi tradizionali questa esperienza di Dio. Ma, per Giobbe,
la possibilità dell’incontro con Dio proprio nel profondo abisso della
sua sofferenza era innanzitutto la cosa più sicura di cui poteva par­
lare e questa certezza, nonostante lo scandalo religioso degli amici,
non l’abbandonerà fino alla fine del libro
Si potrebbe anche dire che Giobbe ha provato la « collera di Dio »
in modo nuovo. Per Israele « la collera », più che un castigo dosato,
era una realtà che non poteva più trovare posto nel pensiero umano
sull’ordine. Quel che era nuovo in questa esperienza che l’antico Israe­
le aveva già fatto della collera di Dio, era il fatto che questa collera
colpiva ora un individuo completamente isolato M.
Per Giobbe, quel che importava soprattutto, era l’autenticità, la ere-
M « ... le m iracle du Livre est précisém ent dans le fait que Job ne fait pas u n pas p o u r s ’enfuir
v ers quelque Dieu meilleur, mais dem eure en plein cham p de tir, sous le tir d e la colóre divine.
E t que là, sans bouger, au cceur de la nuit, au profond de l ’abìm e, Job, que D ieu traite en enne-
m i, fait appel nos pas à quelque instance supérìeure, non pas au Dieu de s e s am is, m ais à cc
D ieu méme q ui l ’accable » (R. de Pury, J o b ou V hom m e révo lté, in « Labor et F ides », 4» ed ., 29).
39 Infatti la nozione di « collera » Cap himd ka'as ) ha u n ruolo m aggiore nei d iscorsi di
G iobbe che in quelli degli amici. Si confronti Giob 9, 5. 13; 10, 17; 14, 13; 16, 9; 19. 11: 21. 17. 20
co n 4, 9; 20, 23. 28; 35, 15 (i testi che non sono chiari non sono menzionati).
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 201

dibilità di Jahve. Il suo zelo smisurato militava a favore di un « Jahve


per me ». Non è la sofferenza, come così sovente si è detto, ma Dio
che è diventato estremamente problematico40. Che la fede di Giobbe
possa passare attraverso una simile prova di rottura si spiega soltanto
perché anche Giobbe vive, pensa e lotta su un largo terreno di antiche
tradizioni riguardanti Jahve. Ci si può anche chiedere se i suoi legami
con le antiche tradizioni non erano più solidi che per i suoi amici. Egli
si richiama a quelle del Dio terribile deiresperienza come a quelle del
Dio che si è offerto da sempre ad essere il salvatore dei poveri e dei
malati e il difensore degli oppressi. Egli può vivere e respirare solo se
questo Jahve si presenta a lui.
Si è già parlato del ruolo essenziale che aveva il problema della fi­
ducia neirinsegnamento dei maestri di sapienza. Giobbe ha dovuto
ancora una volta porre questo problema della fiducia in un modo inte­
ramente nuovo, perché si è visto gettato sul piano di un esperienza
affatto nuova di Dio. Sul terreno di una spiritualità che tendeva così
fortemente ad intellettualizzarsi e a ritirarsi nel campo empirico e in
cui la conoscenza di Jahve, contrariamente ai tempi precedenti, si era
limitata alla fede nella creazione, l'esperienza del mistero di Dio do­
veva provocare un terrore del tutto nuovo. Se il dialogo di Giobbe e
dei suoi amici finisce senza aver raggiunto una soluzione, così avviene
pure per il dialogo con Dio che Giobbe ha proseguito passando acca­
nitamente sopra la testa dei suoi amici. Egli non si è smarrito e fino
alla fine ha protestato la sua innocenza. Ma ritorniamo agli amici. Che
cosa si deve loro rimproverare? Che la loro dottrina sia « congelata » 41,
non lo si può stabilire esegeticamente. L'argomentazione in Giob 4 - 5
non si presenta forse elastica per il continuo cambiamento dei suoi
aspetti? Rimarrebbe allora il fatto incontestabile che l'esperienza che
Giobbe fa della libertà e del carattere terribile di Dio era per loro non
solo estranea in questa forma estrema, ma addirittura incomprensibile.
A rigore di logica, la loro ingiustizia non risiedeva nelle esperienze da
essi esposte: esse avevano la loro legittimità a tempo e luogo debiti.
Il loro errore cominciava nel momento del confronto con le espe­
rienze di Giobbe, cioè nel momento in cui si mostravano incapaci di
ascoltarle e di associarvisi. Ma qui occorre legittimamente tracciare
anche i limiti imposti dalla forma di poema dialogato, di cui si serve
l'autore. Questa forma permetteva di esporre ampiamente le posizioni
avverse, ma essa non dava nulla di più. Se il poema dialogato in Israe­
le si eleva molto al di sopra degli analoghi testi babilonesi dal punto
di vista del movimento e del senso drammatico, sarebbe esigere una
cosa estranea a questo genere letterario attendersi un vero incontro,
un avvicinamento, una maniera di entrare nell'argomentazione dell'al­

40 Non è falso ripetere costantemente che si tr a tta del « problem a della sofferenza ». Ma ciò è
vero solo in u n senso molto ristretto, come problem a cioè di « questa » sofferenza che colpisce
« questo » uom o.
4] Cosi ritengono H. H. Schmid, op. c it., 178, e parecchi altri.
202 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

tro, un'elaborazione delle sue lacune, ecc. Il poeta si limitava al con­


trasto delle posizioni dando la priorità a quella di Giobbe. Riguardo
all'esperienza che Giobbe oppone a quella dei suoi amici, all'esperienza
cioè del Dio nascosto « sub specie contraria », vi era visibilmente al­
l'epoca in cui il poema è stato composto un enorme ritardo da colmare.
Jahve ha raccolto la sfida di Giobbe ed ha degnato il ribelle di un
lungo discorso42. Quale condiscendenza da parte di chi era stato in tal
modo messo in causa! Questa risposta si compone, se si tralasciano
alcune parti descrittive che possono essere interpolazioni, di un flusso
di controdomande, tutte riguardanti il modo meraviglioso con cui Dio
guida la sua creazione, l'edificio del mondo, le stelle, i fenomeni me­
teorologici, gli animali, ecc. Sai tu, conosci tu, decidi tu? Il tono di
queste domande è quello della più intensa ironia: Istruiscimi, poiché
tu sei così sottile; quanto dev'essere grande dunque il numero dei tuoi
giorni! La preghiera particolare di Giobbe che domandava di ottenere
un verdetto giustificatore di Dio non è ammessa in nessun punto e il
cerchio più largo dei temi affrontati nei dialoghi non è neppure preso
in considerazione. Ne consegue che si moltiplica il numero delle inter­
pretazioni possibili di questo discorso divino. È quanto mai chiaro che
il discorso contiene un rifiuto di Giobbe ed è proprio in questo modo
che Giobbe stesso l'ha inteso. Ma il problema di sapere a che cosa si
riferisce il rimprovero divino non può essere risolto in modo assoluta-
mente chiaro. Interessa soprattutto domandarsi se il discorso vuole
rimproverare l'arroganza di Giobbe o non deve essere inteso in un
senso più positivo43.
In due passi soltanto, il discorso di Dio che ovunque altrove lo in­
terpella in un modo così curiosamente indiretto, esprime un rimpro­
vero preciso. La prima volta proprio all'inizio del primo discorso
divino:
Chi è colui che confonde i miei decreti
con ragionamenti privi di senno? (38, 2)
La parola da noi tradotta con « decreti » era una parola importante
per i saggi. Essa si riferisce qui assolutamente a Dio e significa i piani
di Dio relativi alla sua creazione, includendo anche ciò che noi inten­
diamo per provvidenza44. La domanda posta è ironica, poiché se dei
piani meritano questo nome, soprattutto se sono divini, è difficile im­
42 È cosa certa che il discorso di Dio ha subito diverse aggiunte. Il fatto che sia costitiuto da
due p a rti che iniziano ogni volta in modo solenne (38, 1 - 39, 30; 40, 6 - 41, 26) p erm ette di sup­
porre che sia esistito in due versioni che sono state giustapposte al m om ento della redazione. Ciò
è ancor p iù comprensibile se si pensa che l'a tto di obbedienza di G iobbe esiste p u re in due ver­
sioni: 40, 3-5 e 42, 1-6.
43 Secondo H. Richter, in EvTh 18, 1958, 321, il discorso di Dio m anifesta che il giudizio e il
castigo pronunciati contro Giobbe sono legittimi. Perciò costringe Giobbe a ritirare la sua pretesa
a un decreto divino di giustificazione.
44 M. Pope ( The Anchor B ible, 1965), ad loc., traduce questo term ine con « provvidenza ». Già
in Isaia si trova la menzione di un « piano » di Jahve, m a riferita unilateralm ente alla pianifica­
zione della storia da parte di Jahve: Is 5, 19; 30, 1; cfr. Is 46, 10. Sul disegno nei confronti del­
l'individuo: Prov 19, 21.
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 203

maginare che li si possa « confondere », « oscurare ». Ma questa no­


zione, importante per tutto ciò che segue, contiene una seria intima­
zione rivolta a Giobbe, poiché egli aveva fortemente ribadito l'idea che
Dio agisce in modo assolutamente arbitrario nei confronti delluomo,
eludendo ogni specie di norma. L#altro rimprovero introduce il se­
condo discorso di Dio:
Vuoi tu veramente infrangere il mio giudizio,
condannarmi per assicurare il tuo diritto? (40, 8)

Nei suoi ragionamenti, Giobbe ha leso il diritto di Dio, potremmo


anche dire: la sua libertà. Bisogna a questo proposito pensare alle
querele di Giobbe che sosteneva che Dio gli avesse fatto torto (19, 6 e
spesso). Non è eh egli abbia desiderato ascoltare un verdetto d'inno­
cenza, ma ha considerato Dio come suo nemico e gli ha contestato il
diritto di agire in tal modo nei suoi confronti. Infatti, i due rimproveri
sfociano allo stesso punto: Giobbe si è permesso di opinare « senza
ragione » e sconvenientemente sulle cose che riguardano Dio.
Si potrebbe trarre da questo testo l'impressione che il discorso di
Dio releghi tutto ciò che riguarda il governo divino nei confronti del­
l'uomo nel campo deirincomprensibile. L'unica conseguenza da trarre
sarebbe quindi una sottomissione rassegnata, un agnosticismo teolo­
gico totale e soprattutto la fine di ogni relazione positiva tra l'uomo e
Dio. Quel che sorprende è che, nel discorso di Dio, alcune idee essen­
ziali degli amici ritornano a galla e nessuno ha ancora rimproverato a
costoro un agnosticismo teologico. Essi hanno senza dubbio rimprove­
rato a Giobbe il fatto che Dio non può più essere accusato dall'uomo
di ingiustizia e non può essere citato davanti ad alcun tribunale45.
E sono pure loro che, di fronte a Giobbe, hanno proposto l'argomento
deH'incomprensibilità delle azioni di Dio nella creazione46. Non si può
certo comprendere il discorso di Dio in modo così radicalmente esclu­
sivo, in modo cioè che rifiuti del tutto all'uomo ogni capacità di com­
prendere Dio.
Tutti gli esegeti pensano che il discorso di Dio è estremamente ur­
tante perché tralascia assolutamente la richiesta specifica di Giobbe
e Jahve non si abbassa in alcun modo a dare un'interpretazione di se
stesso. Non è certo che l'uomo dell'antichità abbia reagito in questo
modo. Potrebbe darsi che non si sia molto stupito di questa prova di
libertà divina. Giobbe stesso ha compreso molto più in fretta e più
immediatamente questo richiamo che il lettore moderno. Dio rinuncia
a dire qualcosa che spieghi i suoi « decreti » nell'intenzione di scartare
gli equivoci. Egli risponde piuttosto con domande che riguardano la
creazione, il suo ordine e la sua conservazione. Non si parla quindi di
teoria, di qualche principio di azione divina o di qualche cosa di simile,
45 Giob 34, IO. 12. 176 («O seresti forse condannare il Giusto onnipotente?»); 34, 29, 31-33: 36, 23;
37, 23b.
44 Giob 11, 7-9; 36, 22-30; 37. 2-16.
204 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II I

ma di fatti, di ciò che avviene quotidianamente. È la creazione che


fornisce a Dio la possibilità di rendersi testimonianza47. Una volta an­
cora giungiamo all'idea che la creazione ha qualcosa da dire che l'uomo
può intendere. Giobbe è rimandato a questa dichiarazione. In modo
alquanto diverso dal Sai 19 dalla dottrina delTordine primordiale, que­
sta testimonianza della creazione è concepita come una marea di que­
stioni imbarazzanti che rimandano l'uomo al mistero della creazione
e del governo delle cose da parte di Dio. Questa dichiarazione non è
qui considerata come una lode che sale verso Dio (benché se ne parli
in Giob 38, 7), ma come una parola che sollecita la riflessione del­
l'uomo. Poiché Giobbe non è capace di rispondere a nessuno di questi
interrogativi, il ribelle rimette, per così dire, il mondo intero tra le
mani di Dio per il quale esiste e dal quale soltanto è portato e conser­
vato. Egli ha quindi solennemente ritirato la sua querela, com’è evi­
dente, poiché sa che la sua sorte è così in buone mani nel mistero di
questo Dio. Egli poteva sentirsi tanto più sicuro presso questo Dio per
il fatto che l'intervento divino di cui era stato giudicato degno non
aveva per unico fine quello di incolparlo. Esso era nello stesso tempo
una testimonianza schiacciante della serenità con cui Dio si volge ver­
so un mondo che sfida tutti i criteri della razionalità umana, serenità
in cui si trova conglobato anche lo stupido struzzo « a cui Dio non
ha accordato intelligenza » (Giob 39, 17). Non vi è anche qui una chia­
mata divina a partecipare a questa gioia?43. Così Dio si è rivolto a
Giobbe e Giobbe lo ha immediatamente capito. Anche qui — come è
stato giustamente affermato — Dio ha puntato su Giobbe, non si è in­
gannato e non ha perso la sua posta in gioco. Sarebbe anche potuto
capitare che Giobbe rimanesse chiuso a questa chiamata ed allora Dio
sarebbe stato perdente49.
LUnserimento del grande poema dialogato -nel racconto molto più antico di
Giobbe soLleva per l’esegeta delle questioni molto difficili: si possono consi­
derare i dialoghi a parte? Nell’esegcsi bisogna prendere in considerazione la
luce proiettata su di essi dal resto del racconto? A. Jepsen ha preso sul serio
questo principio ermeneutico nel suo studio scrupoloso Dos Buch tìiob und
seine Deutung (1963). Dietro l'interpretazione che presentiamo, vi è la con­
vinzione della fondamentale autonomia del poema dialogato nei confronti del
racconto. Le differenze da una parte e dall'altra sono troppo grandi perché
si possa veramente abbracciarle con un solo sguardo. Qui, un Giobbe intera­
mente sottomesso, là il ribelle. Si può veramente mettere in relazione la lode
espressa da Dio a proposito del discorso di Giobbe (42, 7), la quale si ricol­

47 Dio lascia che la creazione, cioè qualcun'altro, p arli al suo posto. « Egli concede la parola
a q u est'altro e lo lascia (...) parlare am piam ente di sé. Conta evidentem ente s u l fatto che que-
s t’altro gli appartiene così totalm ente, gli è sottom esso e sta a sua disposizione in modo tale che,
se si p arla soltanto di esso, non si può fare a meno di parlare di lui, Dio. £ c o s i sicuro di que­
st'altro , che è sua creatura, che non ha (lich e) dubbi sul servizio che gli re n d e r à mostrandosi
com e sua creatura *. (K. B arth, K irche D ogm atik, voi. 4/1, I parte, 1959, 495).
48 Nel Sai 104, 31 è espresso chiaramente ciò che è detto qui tra le righe, cio è che « Dio si
rallegra della sua creazione ». Calvino dice a questo punto: « Status m undi in Dei laetitia fundatus
est. (La condizione del mondo è fondata sulla gioia di Dio) * (Opera lo a n n is C a lv in i, voi. 32, 97,
sul Sai 104, 31).
3 K. Borth, op. cit., 4%
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 205

lega sulle confessioni di 1, 21 e di 2, 10, con i lamenti e gli assalti di Giobbe,


soprattutto dopo che Dio ha respinto queste esplosioni nei suoi grandi di­
scorsi? E non si giungerebbe forse a fare violenza ai dialoghi se si volesse
comprendere la sofferenza a proposito della quale Giobbe discute in modo
così appassionato coi suoi amici, partendo di preferenza (come fa il racconto)
dall’idea di una prova divina? L'idea della sofferenza concepita come una pro­
va suscitata da Dio viene espressa solo occasionalmente nei discorsi dagli
amici (Giob 5, 17 ss.; 33, 13 ss.). Giobbe ha respinto lontano da sé un'inter­
pretazione così positiva della sua sofferenza.

IV. L'ECCLESIASTE

Il libro che porta il nome di Qohelet, denominazione d'autore che


non è ancora stata spiegata in modo soddisfacente e che Lutero tra­
duce con « Prediger », il predicatore — e la lingua italiana con Eccle­
siaste — è per la forma il prodotto di un genere letterario coltivato
in modo particolare nell'antico Egitto, il genere del « testamento rega­
le ». Esso contiene un certo numero di poemi didattici o di brevi sen­
tenze che, redatti per la maggior parte nello stile di un discorso in
prima persona, si presentano come l'esperienza personale di vita di un
saggio. Dopo che l'esegesi si è definitivamente liberata, pare, dall'idea
di un sistema coerente di pensiero e di una struttura interna proce­
dente per tappe, e si è orientata verso la convinzione che le unità let­
terarie devono venire spiegate per sé, sembra da qualche tempo in
qua che un nuovo cambiamento stia per operarsi in questa m ateria50.
Vi è un'unità interna che giunge ad esprimersi in un modo diverso da
quello di uno sviluppo lineare delle idee o di un progresso logico nel
cammino intellettuale, cioè attraverso l'unità di stile, di soggetto, di
tema che fa di un'opera letteraria un tutto e può conferirgli la qua­
lità di opera d'arte. Questo avviene soprattutto nel campo della lette­
ratura dell'antico Oriente che dev'essere giudicata secondo altri criteri.
Alcune nozioni capitali sulle quali Qohelet ritorna senza posa hanno
una funzione unificatrice; sono, ad esempio: « vanità », « inseguire il
vento », « pena », « parte », ecc. Neppure il lettore moderno può sfug­
gire alla solennità assolutamente priva di passione — a differenza di
Giobbe — e alla potenza della sua dizione. Il libro è quindi molto più
che una semplice collezione redatta in seguito. Nessun'altra collezione
di sentenze si presenta con una individualità intellettuale così pronun­
ciata, neppure quella del Siracide. Nei problemi che pone TEcclesia-
ste è totalmente nella tradizione della sapienza. A lui interessa « cer­
care », « esplorare » il corso delle cose, gli avvenimenti e si pone il
problema di ciò che è « buono » per lu o m o 51. Vi è una differenza inte­
ressante rispetto alla sapienza antica: ciò che attira il suo interesse,
è meno la fissazione e la discussione di esperienze isolate che l'insieme
53 O. Loretz, Q ohelet u n d d e r Alte Orient (1964), 212 ss.
v Usa il verbo tu r « in d ag are, p a rtire come esp lo rato re» , 1, 13; 1, 3; 7. 25.
14. vini r a d . la sa p ie n z a in is r n c lc
206 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

della vita e un giudizio conclusivo a questo riguardo. Qohelet è diven­


tato così molto più esigente sul piano teologico. Egli esprime certa­
mente il suo giudizio molto negativo come il risultato finale di un
gran numero di esperienze. Ma è chiaro che un giudizio così netto sulla
vita e sulla sorte dell'uomo non può basarsi esclusivamente su espe­
rienze. Entrano in gioco ben altri fattori, di cui parleremo in seguito.
Diamogli innanzitutto la parola e vedremo che tre idee fondamentali
sono al centro delle sue riflessioni: 1. Un'analisi razionale della vita
non giunge a trovarvi un senso che regga; tutto è « vanità ». 2. Dio
determina tutto ciò che avviene. 3. L'uomo non può giungere a cono­
scere quel che Dio ha stabilito, « l'opera di Dio » nel mondo. È inutile
dire che queste tesi si condizionano a vicenda, di modo che il peso di
un'affermazione non riguarda ogni volta solo una di esse, ma sono in­
separabili l'una dall'altra.
1. La vita è vanità. Tutta la fatica a cui ci si sobbarca non è assolu­
tamente in rapporto con i frutti che vengono raccolti (1, 3; 2, 22 s.).
Uno sguardo alle strutture sociali umane apre solo una prospettiva
senza speranza. Al posto del diritto regna l'ingiustizia (3,16). Che al di
sopra di un personaggio elevato si trovi un altro personaggio più ele­
vato e al di sopra di costui uno superiore (5, 7), che un uomo abbia
potere su un altro uomo (8, 9), ciò non porta a nulla di veramente
buono; non vi è nessuno che asciughi le lacrime dell'oppresso, nessuno
che consoli (4, 1). Onestà e rettitudine non servono a nulla. È sovente
il malvagio ad essere maggiormente favorito e la morte finisce col ren­
dere tutti gli uomini uguali (7, 15; 8, 10. 14; 9, 2). Ma il peggio è che
l’uomo non è assolutamente in grado di disporre dellavvenire e che vi
è esposto senza alcuna difesa. Non sa quello che sta per accadere; chi
infatti glielo potrebbe annunciare? (8, 7; 9, 1; 10, 14). Al di là del pro­
blema dell'avvenire, vi è per Qohelet il grave problema della morte la
cui ombra si estende su ogni interpretazione del senso della vita. Quan­
do Qohelet parla di destino (mikreh), viene compresa anche la m orte52.
Così è ad esempio nella famosa frase in cui si domanda se la sorte del­
l'uomo è veramente diversa da quella degli animali (3, 19). Nella gran­
de allegoria di 12, 2-6, egli svela senza pietà la decrepitezza della sem­
bianza umana nella vecchiaia, l'oscurità che va crescendo, « prima che
la fune d'argento si sciolga, che il vaso d'oro si rompa... » 53. Di fronte
a simili prospettive, non sorprende che quella che pareva la cosa più
certa per gli antichi, il valore cioè della sapienza di fronte a tutte le
forme di stoltezza, sia diventata molto dubbia. Bisogna, certo, rico­
noscere una superiorità alla sapienza in alcune circostanze spiacevoli.
Ma a che cosa serve se non viene riconosciuta e quindi rimane inutiliz­
zata? (9, 13-16). La riflessione sulla sapienza e la follia non è, anch'essa,
M Ritroviam o la parola « so rte » altrove, 2, 14 s.; 9, 2 s,
M Vedi il testo a p. 48 s.
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 207

un inseguire il vento? Infatti « molta sapienza, molta afflizione; più vi


è sapere, più vi è dolore! » (1, 16-18).
2. Malgrado tutte queste osservazioni deprimenti, Qohelet è ben lon­
tano dal considerare quel che avviene nel mondo come un guazzabu­
glio senz'ordine. Egli sa che vi è qualcosa che regna misteriosamente
come una regola in tutti gli avvenimenti; chiama volentieri questo
qualcosa con un nome neutro, il « tempo », e considera così il fatto
che tutte le attività e tutti gli avvenimenti sono soggetti ad una specie
di determinazione. Ricordiamo il grande testo di cui si è parlato in un
altro capitolo e che dice come vi sia un tempo, un momento per tutto,
per fare ogni cosa sotto il cielo (3, 1-8. 17). Egli ritorna senza posa su
quest'idea. Vi è un tempo ed un giudizio per tutto (8, 6). Questa deter­
minazione dell'esistenza non ha tuttavia niente di consolante, poiché
troppo sovente ciò che l'uomo ha faticosamente imparato viene messo
fuori gioco.
Osservo ancora quaggiù: ora la corsa non arride ai più veloci, né la lotta ai
più forti. Non vi è pane per i saggi, né ricchezza per gli intelligenti, né fa­
vore per i sapienti; poiché il tempo della fortuna arriva a tutti loro. L’uomo
non conosce la sua ora... (Eccle 9, 11 s.)

Contro questa misteriosa determinazione non c'è possibilità di resi­


stere. L'uomo gli è totalmente soggetto. « Di quel che è già stato, si
conosce il nome » (cioè: è stato evocato come avvenimento). Luomo
non può « gareggiare con ciò che è più forte di lui » (6, 10). Qui viene
precisato ciò che si nasconde dietro questa regola inflessibile; è Dio
stesso che determina le scadenze. È lui che ha « fatto » non soltanto i
giorni di felicità, ma anche quelli della disgrazia ed essi devono essere
subiti così come si presentano (7, 14).
Io so che il modo di agire di Dio è costante. È impossibile aggiungervi nulla
o nulla togliervi: Dio fa le cose in questo modo affinché lo si tema. (Ec-
ole 3, 14)

Anche in questo passo, l'accento è messo su ciò che è assolutamente


immutabile e che l'uomo deve subire. Ci troviamo quindi di fronte al
fatto curiosamente paradossale che, da una parte, il mondo e ciò che
vi capita appaiono a Qohelet totalmente impenetrabili e, dall'altra par­
te, egli riconosce che tutto è abbandonato all'azione di Dio. Il punto
nel quale questa azione di Dio gli è accessibile come una potenza ed
una realtà autentiche è l'esperienza del tempo fissato per ogni avveni­
mento. Le tesi che potremo citare in seguito mostreranno fino a qual
punto Qohelet sa che il mondo è dominato e preso a carico dalla libera
azione di Dio.
3. Questa conoscenza di Dio e del suo potere sul mondo non rac­
chiude per Qohelet, come si potrebbe credere, una specie di tregua per
il suo pensiero che, nella ricerca di sé, passa da un fenomeno all'altro.
È esattamente il contrario. Proprio con la conoscenza di Dio si collega
208 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

la più profonda ansietà del suo pensiero: qui si trova la causa pro­
fonda di tutti i suoi sforzi e della sua inquietudine. Per esaminare cor­
rettamente il suo problema, dobbiamo riprendere il grande testo che
tratta del tempo fissato per ogni atto. Esso è seguito da un testo molto
caratteristico nel quale Qohelet trae personalmente le conclusioni da
questa verità. Che cosa risulta da tutto ciò che avviene, in particolare
per luomo che cerca di padroneggiare la propria vita, cioè per l'uomo
« attivo »? Ecco la risposta:
Quale interesse ha l'uomo attivo nella fatica a cui si assoggetta? Ho visto a
quale lavoro Dio sottopone gli uomini perché si affatichino. Egli ha fatto ogni
cosa bella a suo tempo e ha messo nel loro cuore il tempo ilontano( ?) 5\
senza che si possa afferrare quel che Dio fa dall'inizio alla fine. (Eccle
3, 9-11)

Alla domanda del vantaggio che luomo può trame (jitrón ), Qohelet
risponde: delle tribolazioni! Ciò non dipende dai limiti posti da Dio;
le cose sono « belle », com egli dice. Tutto deriva dal fatto che l'uomo
non può « trovare » l'« opera di Dio ». Con questo vuol dire che l'uomo
non può adattarsi ad essa e far entrare nei suoi calcoli quel che Dio
decide ad ogni istante. È in questo senso ch'egli dice più avanti che
« l'uomo non conosce il suo tempo, la sua ora ». Cieco ed incosciente,
come le bestie che si gettano nella rete, egli è improvvisamente assa­
lito dalla « disgrazia », dal « tempo cattivo » (9, 12). Senza dubbio è an­
cora Dio che ha « fatto il giorno cattivo », ma questa non è una conso­
lazione, poiché l'uomo non può trovare quel che viene in seguito (7,14).
Una vanità accade sulla terra: vi sono giusti ai quali capita quel che merita
la condotta dei malvagi; e dei malvagi ai quali capita quel che merita la
condotta dei giusti. Anche questo, mi sono detto, è vanità! Approvai perciò
la letizia e cioè: l’unica cosa buona per l'uomo sotto il sole è mangiare, be­
re e stane allegri. (Eode 8, 14 s.)

Così Qohelet ha espresso ciò che egli considera in ultima analisi come
l'autentico giogo, il vero tormento della vita umana. Non sono le con­
trarietà in sé; è piuttosto una frontiera invalicabile che è messa alla
volontà di conoscere dell'uomo. Il lettore si domanda con inquietudine
ciò che rimane a Qohelet in una simile visione delle cose, nel quadro
di conoscenze così deprimenti. C'è ancora qualcosa per cui valga la
pena di vivere? Si può fare questa specie di calcolo: poiché Dio « crea »
il giorno buono come il giorno cattivo (7, 14), all'uomo non resta che
tenersi preparato per il bene che Dio è disposto a garantirgli, ed acco­
glierlo con una perfetta disponibilità. « Nel giorno della felicità, sii fe­
lice! » (7, 14). È anche questo un tema sul quale Qohelet ritorna costan­
temente con un'insistenza sorprendente. Ma non desta meraviglia, poi­
54 Non è ancora stata data una spiegazione soddisfacente del term ine *ol5m ch e si trova al v. 11
e che rendiam o volentieri con « eternità », benché significhi piu tto sto « Icm po lontano ». Cfr. l'enu­
merazione delle interpretazioni in O. Loretz, op. c it., 281, nota Z ìi. Si tr a t ta forse della difficoltà
che vi è nell'interrogare Torà per far entrare l'avvenire nei calcoli (così p e n s a Zimmerli, op. cit.,
ad loc.)?
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 209

ché troviamo qui finalmente un punto in cui 1azione di Dio nei riguardi
dell'uomo è molto chiara. Al problema della « parte » dell'uomo, cioè
del posto che gli è assegnato nella vita, diremmo oggi al problema del
senso della vita, Qohelet risponde positivamente, poiché è possibile ri­
conoscere in essa una volontà di Dio favorevolmente propensa verso
l'uomo. È la sola cosa che si possa chiamare « buona », « non vi è altra
felicità per l'uomo che rallegrarsi delle sue opere... poiché questa è la
sua parte» (3, 22; 5, 7 ) 55. Si è sottolineato con ragione che questo in­
vito a cogliere la gioia e tutto ciò che intensifica la vita non dev'essere
confuso con quella smania di vivere che s'installa così facilmente al-
lombra della disperazione. È piuttosto il contrario. Qui soltanto Qohe­
let si sente in armonia con una volontà di Dio, si vede di fronte a un
Dio che dà « poiché non dipende dall'uomo il mangiare, il bere e il sol­
lazzarsi. Io vidi che ciò proviene dalla mano di Dio » (2, 24). Con quale
emozione questo teologo insensibile parla di Dio quando affronta que­
sto tema!
Va', mangia il tuo pane nella gioia e bevi di buon animo il tuo vino, poiché
Dio ha già apprezzato le tue azioni. Porta sempre abiti bianchi e che l'olio
non manchi sulla tua testa! Godi la vita con la donna che ami, tutti i giorni
della vana vita che Dio ti dà sotto il sole, poiché sta qui la tua sorte nella
vita e nella fatica che sostieni quaggiù sotto il sole. (9, 7-9)

È molto difficile per noi, che non abbiamo molti punti di confronto
nella letteratura occidentale, interpretare correttamente un'opera si­
mile. Una cosa è certa: Qohelet non espone una dottrina in sé conclusa,
egli continua invece un'opera che si collega ad una tradizione dottrinale
molto antica, anche se sostiene tesi e solleva problemi molto partico­
lari. Non ha l'intenzione di operare una separazione netta tra la sua
« proprietà intellettuale » e l'eredità ricevuta; tuttavia la sua posizione
rivoluzionaria può essere abbastanza chiaramente delimitata. Bisogna
pure evidenziare un altra difficoltà che impedisce un'adeguata interpre­
tazione del libro. Non si trova nel testo, ma è lo stesso esegeta ad in­
trodurla. Egli si sente in effetti così immediatamente messo in causa e
confermato nel proprio sentimento vitale dalla malinconia di Qohelet
che ne rimane quasi interamente conquistato sin dall'inizio. Le affer­
mazioni di Qohelet gli paiono così evidenti che egli ha la tendenza a
considerarle come un passaggio brutale da una sapienza forzata e
« dogmatizzante » ad una visione del mondo ben più realista e più
vera. Ma è chiaro che, con un accostamento così parziale, entrano nel­
l'esegesi dei pregiudizi filosofici estranei alla questione, i quali portano
a valutazioni problematiche. Bisogna invece impegnarsi costantemente
a ricercare il valore specifico dell'insegnamento di Qohelet nella pro­
spettiva delle dottrine della sua epoca.
Si può vedere subito con quale immediatezza Qohelet si inserisca
nella tradizione dottrinale, dal modo con cui parla di Dio. Se si consi­
5' Sul problem a della « parte » del l'uomo nella propria vita, Eccle 2, 10. 21; 5r 18; 9, 6. 9; 11, 2.
210 LA S A P IE N Z A IN ISRAELE - PARTE III

derasse il suo insegnamento come una « filosofia » compiuta e perfetta,


si dovrebbe rimproverargli incoerenza di fronte a premesse teologiche
così deboli. Ma in questa faccenda — che Dio esiste e che agisce sovra­
namente nel mondo — egli condivide interamente le concezioni dei
maestri del passato. La novità allarmante è la sua opinione sul rap­
porto che esiste tra l’uomo e quest'® opera » continua di Dio, cioè il
fatto che, nella sua logica, questo rapporto sfugge completamente alla
percezione dell’uomo ed alla sua capacità di comprenderlo, di modo
che l’uomo è incapace di regolarsi su di esso56. Le conseguenze di que­
sta convinzione sono catastrofiche se le si paragona alla sicurezza che
aveva la sapienza dell’epoca antica. La ferma volontà di giungere ad
ima padronanza della vita, caratteristica principale della sapienza an­
tica, è spezzata. L’uomo ha perso il contatto con ciò che avviene nel
mondo esterno. Benché continuamente governato da Dio, il mondo è
diventato per lui muto. Ciò che avviene nel mondo, sempre in movi­
mento, in parte rivolto favorevolmente all'uomo, in parte sfuggente e
ostile, è profondamente imprigionato, sigillato nella sua logica. « Ri­
mane lontano ciò che era lontano e profondo ciò che era profondo:
chi lo potrà raggiungere? » (7, 24) 51. L'uomo infatti non può compren­
dersi né nel suo odio né nel suo amore (9, 1). Non si crea dialogo tra
l’uomo ed il mondo che lo circonda, meno ancora con Dio. Dio è an­
cora un « tu », un interlocutore? Se egli assicura tutto ciò che colma
la vita, si tratta semplicemente di ricevere nel silenzio un dono che
viene accordato nel silenzio. Qohelet si è adattato a questa situazione,
sia pure con ima rassegnazione che non lascia alcun lettore insensi­
bile. La differenza con Giobbe è brutale: manca ogni slancio verso
Dio, sia pure aggressivo, una qualsiasi rivolta contro una relazione tra
Dio e l’uomo che non ha più niente in comune con quanto aveva espe-
rimentato Israele nei tempi precedenti58. La domanda che Giobbe po­
ne: « Questo Dio è ancora il mio Dio? », Qohelet non la pone più.
Che cosa è avvenuto? La differenza con gli insegnamenti che costi­
tuiscono il libro dei Proverbi è così grande che bisogna almeno intra­
prendere un abbozzo di spiegazione. Come è già stato detto, si è visto
per lo più nelle tesi radicali di Qohelet un contrattacco alle dottrine
antiche che credevano di poter decifrare nell’esperienza, in modo trop­
po « ottimistico » o piuttosto mancante di realismo, l’intervento domi­
natore di Dio. È indiscutibile che Qohelet si oppone alle dottrine
correnti, ma la ragione della sua opposizione dev'essere chiarita.
Secondo l'idea prevalente, potrebbe sembrare ch'egli se la prenda solo
56 Sulla nozione molto estesa di « opera di Dio », cfr. G. von Rad, S tu d ia B iblica e t S e m itic a ,
in « F estsch rift fiir Th. Chr. Vriezen », 1966, 290 ss., specialmente 296 s.
57 « L ’opacità del futuro diventa così l'aspetto essenziale del carattere fo rtu ito della regola di
realizzazione tem porale del destino per l’uomo. L'uom o, incaricato di d isp o rn e, è essenzialm ente
alla ricerca del potere di disciplinare il futuro m ediante la previsione. Ma o gni azione um an a fal­
lisce di fro n te ad esso, poiché l'avvenire sfugge al progetto dell'uom o di fissare in anticipo la
forma d el m ondo e i piani della vita e, da mezzo di realizzazione dell'uom o, diventa u n fatto che
impone le sue esigenze e che è formato e dato in anticipo da una determ inazione e stra n e a » (E.
Wòlfel, L u th e r und d ie Skepsis. Eine Stuòie zu r Kohelet-E xegese Luthers, 1958, 49 s.)
58 Zim m erli vede disposizioni di ribellione contro Dio in 1, 13; 3, 10; 6, 10.
X II. FIDUCIA E AVVERSITÀ 211

con le tesi eccessive e insostenibili, come se combattesse qualche for­


mula indifendibile che definiva l’azione di Dio in modo troppo razio­
nale e troppo privo di mistero. È possibile che vi siano state formule
simili. Ogni spiegazione del mondo che vuol essere esaustiva porta in
sé il pericolo di un certo irrigidimento e, del resto, alcune tesi cadono
repentinamente nella parzialità, sotto l’effetto dell ardore didattico.
Questo è vero anche per Qohelet! Una spiegazione siffatta però non
soddisfa molto, perché Qohelet non se la prende soltanto con gli ec­
cessi della dottrina tradizionale, ma con tutta l’impresa. Questa accor­
dava all’esperienza una certa competenza nel decifrare l’intervento di
Dio negli avvenimenti — ma soltanto una certa competenza! Nessun
saggio ha mai preteso di comprendere « tutta l’opera di Dio », come ha
l’aria di crederlo Qohelet (8, 17); quanto a lui, contesta su tutta la
linea questa competenza all’esperienza umana. Se qualcuno è d’accordo
con lui a questo proposito, gli sarà diffìcile sfuggire alla conseguenza
che ne risulta, che cioè tutta la sapienza precedente si era lasciata pren­
dere nelle reti di un’unica eresia.
Per affrontare questa difficile questione, riprendiamo alla fine la dot­
trina così importante per Qohelet circa i tempi fissati da Dio, in parti­
colare la tesi secondo cui l’uomo non può assolutamente conoscerli e
non può trame alcun profitto per la propria vita. Queste disposizioni
nascoste agli uomini non significano per Qohelet se non sofferenza,
mentre gli antichi maestri pensavano che era necessaria all’uomo una
grandissima vigilanza per conoscere il tempo favorevole alla sua azio­
ne, che questa vigilanza non era affatto uno sforzo privo di riuscita
e che gli rimaneva sempre la possibilità, volta per volta, di far avan­
zare alquanto i propri affari sapendo cogliere il momento favorevole59.
Chi ha dunque ragione? Si può veramente dire che Qohelet è stato
un osservatore dotato di maggiore acutezza e riflessione? Dipende vera­
mente dal fatto che è stato il primo a liberarsi da pregiudizi « dogma­
tici »? La ragione di quest’opposizione inquietante è molto più pro­
fonda: essa risiede nei diversi principi di fede delle due parti. Più pre­
cisamente: l’esperienza a cui si riferivano i maestri antichi era di na­
tura diversa da quella che si esprime in Qohelet. Nei primi era un’espe­
rienza mantenuta sempre in dialogo con la fede; la ragione si palesava
senza mai porsi come un assoluto; essa sapeva di fondarsi sulla cono­
scenza di Jahve e di essere posta all’ombra della potenza di Dio. Non
esiste assolutamente nessun canone per dire quante conferme una ra­
gione siffatta, interamente inserita nella fede, poteva trarre dall’espe­
rienza. In Qohelet, invece, le cose stanno in maniera completamente
diversa. Se egli si sentiva senza protezione di fronte agli avvenimenti
ed abbandonato, « vulnerabile da ogni parte » (Zimmerli), ciò non di­
pendeva dalla straordinaria acutezza del suo dono di osservazione, ma
da una mancanza di fiducia. Abbiamo visto con quale intensità i saggi

“ Vedi p. 130 s.
212 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

di un tempo parlavano a Dio della loro fiducia e quanto i loro sforzi


di conoscenza erano strettamente intrecciati con la fiducia. Dato che
essi insegnavano esperienze che erano state percepite nella fede, essi
vedevano come scopo del loro insegnamento il rafforzamento della con­
fidenza in Jahve (Prov 22, 19). Sapevano pure che il mondo è avvolto
neirimprevedibile segreto di Dio, ma ciò non ha disorientato la loro
fede60. Qohelet invece ne è rimasto profondamente turbato. L'avvenire
non è forse per tutto Israele, e quindi anche per i maestri, il campo
esclusivo di Jahve, alle cui mani luomo può affidarlo con piena tran­
quillità? Qohelet invece soffre il mistero deirawenire come uno dei
pesi maggiori della vita61. Egli giunge così a questa frase mostruosa
per chi ha fede in Jahve: « Tutto ciò che viene è vanità » (11, 8). Da
questo punto, egli poteva unire la sua voce all'antico lamento delluma-
nità sul nulla della vita. Sono da lodarsi i morti e meglio ancora è il
non essere mai nati (4, 2). La grande angoscia di Qohelet risiede nel
fatto che, con una ragione che è stata quasi completamente abbando­
nata dalla fiducia nella vita, egli deve partire alla ricerca di una ri­
sposta sul senso della vita, sul problema della « parte » dell'uomo. Egli
la confronta con l'insieme della vita e le attribuisce il compito di ri­
spondere al problema della salvezza. I maestri precedenti erano più
modesti ed anche più intelligenti nei loro sforzi di conoscenza. Ai loro
occhi, il compito che dovevano affrontare, non consisteva nel rispon­
dere, per mezzo delle loro conoscenze ed esperienze valide solo par­
zialmente, al problema ultimo, quello della salvezza.
Noi non possiamo disgraziatamente precisare, dal punto di vista della
storia delle tradizioni, l'apporto specifico dei maestri alla fede in Jahve.
Ci si può fondare sul materiale didattico per dire che mai si è imposto
ad essi il compito di presentare qualcosa che rassomigli ad un sistema
completo, a una dottrina. Ma ciò che è fuori dubbio è che si trovavano
in una vasta corrente di tradizioni su Jahve e che attingevano dal loro
sapere e dalla loro esperienza. In Qohelet le cose stanno diversamente.
Non è una scuola che si esprime nella sua opera; noi abbiamo piuttosto
il diritto di considerarlo per quel che si dichiara, per un isolato molto
staccato dalla tradizione. Raramente nell'antico Israele il problema
della salvezza si è posto in modo così insistente ad un individuo iso­
lato. Qohelet ha tentato di rispondervi (con il risultato che conoscia­
mo) partendo essenzialmente dalle esperienze che nel suo ambiente gli
si presentavano. Chi ha approfondito il confronto di Qohelet con gli
insegnamenti della tradizione non potrà più così facilmente applaudire
questo ribelle solitario. Sarà piuttosto estremamente in imbarazzo per
il problema dell'esperienza a cui i due « partner » del dialogo si rife­
riscono con tanta insistenza per giungere tuttavia a conclusioni così
diverse. Potrà rendersi conto di come l'uomo sia rigorosamente pri­
gioniero del cerchio di esperienze in cui si muove e che gli viene of-
^ Clr. Prov 2 l.3 0 s. (testo p. 97).
Eccle 3, 11; 6. 12; 7, 14; 10. 14.
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 213

ferto di volta in volta dalla sua comprensione del mondo. Di fronte a


questo fatto, si sarà spinti di primo acchito a dare fiducia ad un soli­
tario che va contro corrente, per progredire nei campi dellesperienza
che non sono stati articolati dalla dottrina tradizionale o che sono stati
da essa respinti.
Ma d'altra parte, vengono fissati dei limiti a questo tentativo di
Qohelet di riflettere partendo da una situazione così risolutamente iso­
lata come la sua. Nell'intransigenza della sua problematica, egli è diven­
tato totalmente spettatore, limitandosi ad osservare, a registrare, a ras­
segnarsi. Rispetto ai saggi precedenti, egli ha oltrepassato un limite
che era stato imposto agli antichi, per una ragione qualsiasi. Mentre
essi non si servivano di alcuna astrazione sommaria per interpretare
le realtà della loro vita, Qohelet va subito airinsieme. Per trovare la
formula definitiva, egli accumula le esperienze della vita e il bilancio
finale è sempre: « vanità » ( hebel ). Questa parola si ritrova in tutto il
libro, circa trenta volte, come una corona. La sua ragione è alla ricerca
di un ultima astrazione; ma si espone a una controdomanda: questa
ragione è ancora il mezzo appropriato per risolvere il problema della
salvezza deiruomo? La domanda è tanto più giustificata in quanto
Qohelet si è ritirato da ogni forma di vita attiva e si è così escluso in
anticipo da un vasto campo di esperienze determinanti. Ora, i problemi
posti da Qohelet non possono ricevere risposta dalla sola teoria, poi­
ché il corso degli avvenimenti a cui si applica l'attenta riflessione del­
l'uomo, non costituisce un « fatum », un destino oggettivo, e soprat­
tutto sfugge e rimane chiuso ai calcoli globali di un osservatore che si
tiene in disparte. No, gli avvenimenti si presentano all'uomo in una
mobilità continua e con una grande varietà di sfaccettature. Il mondo
piomba su di lui, mostruoso, e lo sfida. I fatti possono apparire in
modo ben diverso agli occhi di chi gode di una fondamentale fiducia
nei confronti della realtà e agli occhi di chi è tentato dallo scetticismo.
Anzi, se si vuole essere più precisi: non solo « appaiono » diversi, ma
diventano e sono effettivamente diversi! Colui che ha fiducia incontra
anche ciò che è degno di fiducia. In breve, ciò che un osservatore sti­
ma esemplare tra la complessa molteplicità dei fatti che accadono, ciò
che di conseguenza egli mette didatticamente in luce, dipende dalla
sua posizione di partenza. Questa tesi però non può essere intesa nel
senso che l'uomo dipende in fondo soltanto dalle idee che si fa del
mondo esterno. A questo proposito, non esiste né soggettività né og­
gettività pura. Che un certo avvenimento non significhi nulla agli occhi
di Tizio e che un altro fatto — per noi così simile al primo da poterlo
confondere — abbia un senso per Caio e gli parli, crei insomma con
lui dei rapporti viventi che gli paiono pieni di significato, ciò non si
spiega soltanto col temperamento o con le idee dell'interessato. Ciò
rimanda al campo segreto del dialogo dell'individuo con il mondo in
cui vive e che non è un monologo deiruomo ripiegato su se stesso. In
questo dialogo anche il mondo parla con forza. Ma Qohelet era inca­
214 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

pace di entrare in conversazione col mondo che lo circondava e gli si


imponeva. Era diventato per lui un mondo estraneo, muto, che lo re­
spingeva, un mondo in cui egli non poteva più aver fiducia, a meno
che gli offrisse una pienezza di vita62. Al contrario, i saggi erano del
parere che, per mezzo del mondo che interpella l'uomo, era Dio stesso
che gli parlava e che solo in questo dialogo l’uomo si vedeva assegnare
il suo posto nella vita.

V . E pilogo su G io bbe e l ’E c c l e sia st e

Abbiamo analizzato due opere della produzione letteraria dell’antico


Israele che sono indubbiamente da considerarsi come dei vertici isolati
non solo di questa produzione, ma dell’intera letteratura universale.
Ciascuna segue la propria strada. Sono paragonabili non già per le loro
negazioni, ma semplicemente per il loro contrasto con la tradizione dot­
trinale. Il problema che si pone immediatamente pare sia quello della
loro influenza diretta sul pensiero e sull’insegnamento della loro epoca.
Hanno avuto — ci si domanda involontariamente — un effetto pode­
roso ed hanno riempito di sgomento le persone riflessive? Sappiamo
molto poco sulle possibilità d’influenza offerte ad opere di tal fatta nel­
l’antico Oriente. Quante copie di Giobbe sono circolate? Nella lettera­
tura di scuola, il libro è stato accolto a malapena. Si dovrà pensare di
primo acchito che il suo irraggiamento è stato debole. È forse pen­
sabile che due opere isolate siano riuscite ad imporre una revisione del
modo con cui l’antico Israele intendeva il mondo? Si poteva forse
cambiare per questa via una visione del mondo, la quale era tutt’altro
che un sistema elaborato da qualche pensatore? A ciò si aggiunge che
queste due opere non presentavano i segni della verità autentica con­
tro la falsità evidente. Opere di questo tipo servono a m ettere in luce
i problemi difficili e le aporie teologiche; ma, nel pensiero dei popoli,
non esiste alcun dovere che obblighi a creare un sistema di soluzioni
soddisfacenti. Da ogni spiegazione del mondo — elaborata nel corso
dei secoli — possono scaturire inaspettatamente delle profondità inso­
spettate, delle eruzioni la cui smisuratezza sfida in anticipo ogni para­
gone e la cui funzione pare risiedere semplicemente nel ruolo di dimo­
strare la fragilità di ogni spiegazione del mondo, per quanto essa sia
accuratamente costruita.
Il Siracide — si dice — ha conosciuto Giobbe, ma ogni uomo colto
dell’epoca poteva sapere che Giobbe aveva « seguito la via giusta » (49,
9). Se, tra il gran numero di testi che si crede di aver trovato nel Sira­
cide, l’uno o l’altro dimostra realmente che il Siracide aveva letto Giob­
be, la cosa sarà tanto più illusoria; egli ha infatti m antenuto una di­
63 Questa assenza di rapporto tra Qohelet e l'ambiente circostante, con tutto ciò che ne conse­
gue, è stata esposta in modo ragguardevole da H. Gese: Die Krisis der Weisheit bei Kohelet, in
Les S agesses du Proche-Orient (1963), 139 ss. Vedi a questo proposito più avanti, p . 268 s.
XII. FIDUCIA E AVVERSITÀ 215

stanza ed una freddezza tali che è molto difficile considerarlo anche


solo come partecipante al dialogo di Giobbe63. Nulla è giunto ad im­
pressionarlo in modo tale da impegnarlo a riprendere, alla luce di
Giobbe, l’esame della dottrina tradizionale. Le cose non differiscono
molto per Qohelet. Si è creduto di scoprire in un testo della Sapienza
di Salomone una polemica più o meno diretta contro una delle sue
tesi64. Niente è meno sicuro. Le frasi citate sulla vanità e sulla bre­
vità della vita, l’esortazione a godere quanto è possibile, possono pro­
venire soltanto da Qohelet? Esse sarebbero in ogni caso molto alterate.
Ma, nell'antico Oriente, il soggetto affrontato da queste tesi risale ai
tempi più lontani e non è proprietà letteraria di Qohelet. L'osservatore
che ricapitola e che conserva dei grandi periodi della storia solo un
pugno di opere letterarie soccombe troppo facilmente alla tentazione di
supporre rapporti troppo stretti e accostamenti in definitiva non molto
attendibili, soprattutto se si considera il carattere polemico di queste
opere. Per queste ragioni ci sembra dubbio che si possa parlare a pro­
posito di Giobbe e dell’Ecclesiaste di una crisi « della sapienza » in
Israele.

Infine, ancora una parola su Giobbe nella teologia cristiana. Non sul
Giobbe del racconto marginale, poiché la « storia della pazienza di
Giobbe » (Giac 5, 11) ha da sempre avuto il proprio posto nella pare-
nesi cristiana. Ma quale atteggiamento ha adottato nei confronti del
poema dialogato? L'impressione è discordante. È fuori dubbio che nel
corso dei secoli si è fatto un enorme lavoro d’interpretazione, lavoro
che non può non far arrossire di vergogna gli interpreti moderni per
la sua estensione e la sua erudizione e che è iniziato con le questioni
riguardanti la forma esatta del testo. Ma d'altra parte l’influenza teo­
logica del libro sulla dottrina della Chiesa è stata sempre molto debole.
A parte alcune voci isolate che sono rimaste senza effetto sull’insieme
— bisognerebbe tra esse calcolare la prefazione di Lutero del 1524 —
si constata che né la problematica di Giobbe, né la sua teologia sono
state veramente riprese ed assimilate dalla Chiesa. Ci si può doman­
dare se la Chiesa, nel caso in cui fosse rimasta aperta alle prospettive
teologiche del libro di Giobbe nel corso dei secoli passati, non avrebbe
affrontato le grandi contestazioni dell’uomo moderno in ima maniera
molto più valida e con uno spirito molto più distaccato6S. Diverso è il
caso dell’Ecclesiaste. Esso ha cominciato a riunire attorno a sé in
un’epoca recente una comunità di spiriti filosofici e letterari raffinati.

« Testi di C. Kuhl, in ThR 22, 1954, 266, noia 5.


« Sap 1, 1-20.
65 « Tutti questi scettici, antichi e moderni, questi pessimisti, questi derisori della religione e
questi atei sono dei compagni ingenui e senza malizia accanto a Giobbel Non sapevano e non sanno
contro chi facevano e fanno guerra con le loro alzate di spalle, i loro dubbi, le loro derisioni e
i loro rifiuti. Giobbe, invece, lo sapeva. Diversamente da loro, egli parla con cognizione di causa...
È strano che nessuno di quelli abbia avuto l'idea di mettersi alla scuola di Giobbe, per sapere
almeno quello che fanno e per essere, forse, capaci di esprimere le loro teorie in un modo un
po' più energico! » (K. Barth, Kirchliche Dogmatik, voi. 4/3, !■ parte. 466 s.).
XIII
LA SAPIENZA DI GESO DI SIRACH

Quale limite è stato imposto allo studio dei libri didattici dal carat­
tere semplicemente anonimo delle esposizioni e dalla difficoltà o dal­
l’impossibilità di datarli! Ben diverso è il caso di Gesù, figlio di Elea­
zaro, figlio di Sirach (che noi chiamiamo Gesù di Sirach o Siracide).
Abbiamo in questo caso un autore e conosciamo la sua epoca (180 a. C.
circa), la sua residenza (Gerusalemme, Eccli 50, 27) e il suo libro ci
informa, come pure il prologo di suo nipote, sulla sua professione, i
suoi studi e la sua produzione letteraria e poetica. Naturalmente non
bisogna aspettarsi di aver a che fare con una personalità di scrittore
originale nel senso moderno. Il Siracide è, egli pure, condizionato dalla
« tradizione dottrinale degli antichi che a loro volta sono stati alla
scuola dei loro padri » (Eccli 8, 9). Egli si considera come loro ese­
cutore testamentario; ci si può domandare s’egli era cosciente del fatto
di aver egli stesso sviluppato in modo apprezzabile la tradizione eredi­
tata. La questione più importante che dobbiam porre al suo libro, per­
ché conduce immediatamente agli elementi specifici dell’insegnamento
del Siracide, è quella del suo rapporto con la tradizione che ha eredi­
tato, la questione del modo con cui è stata riprodotta. Si possono di­
stinguere nuove tensioni nelle quali il pensiero di questi maestri è im­
plicato? In quale direzione si sono prodotti degli sviluppi fruttuosi?
Vediamo infatti l’insegnamento del Siracide in piena evoluzione. Ad
ogni passo è costretto a dare spiegazioni attualizzanti, evidentemente
nei confronti di ima situazione complessiva in completa trasforma­
zione 2. Il prologo ci fornisce una buona introduzione nel mondo delle
idee del libro — qui si può dare solo un’occhiata ad alcune caratte­
ristiche.
» Questo capitolo è comparso come articolo in EvTh 29, 1969, 113-133.
2 II suo libro non ha un piano sistematico. Particolarità del Siracide è invece la trattazione di
alcuni € temi » in forma di larghe unità proverbiali (rispetto verso il padre 3, 1-16; atteggiamento
verso i poveri 4, 1-10; gli amici 6, 6-17; le donne 9, 1-9; il governo 9, 17 - 10, 18; i medici 38,
1-15, ecc.). Queste unità non presentano una struttura interna; bisogna considerarle come blocchi
di tradizioni nei quali si trovano riuniti ogni sorta di elementi corrispondenti: l ’antico e il noto
come pure 1] nuovo e il sorprendente.
XIII. LA SAPIENZA DI GESÙ DI S1RACH 2 17

1. Ogni sapienza viene dal Signore,


essa è vicino a lui per sempre.
2. La sabbia del mare, le gocce della pioggia,
i giorni dei tempi antichi, chi li può contare?
3. L'altezza del cielo, l'estensione della terra,
la profondità dell'abisso e la sapienza, chi li può scandagliare?
4. Ma prima di ogni cosa fu creata la sapienza,
l'intelligenza prudente viene dai tempi più lontani.
5. La radice della sapienza, a chi fu rivelata?
le sue risorse, chi le conosce?
7. Vi è un solo essere saggio, molto temibile
quando siede sul suo trono: è il Signore!
9. È lui che l’ha creata, vista e misurata,
che l’ha diffusa su tutte le sue opere,
10. In ogni carne, secondo la sua generosità,
e che l’ha distribuita a coloro che « lo temono » \ (Eccli 1,1-10)

Dal punto di vista della storia delle tradizioni, quale preistoria com­
plicata ha dovuto conoscere questo piccolo paragrafo! Innanzitutto si
parla della sapienza che è presso Dio, quindi della sapienza di Dio
stesso. Essa è assolutamente impenetrabile (vv. 1-3). Dal v. 4 la nozione
si modifica, vi si parla della sapienza creata nel mondo, cioè debor­
dine primordiale, del primogenito delle creature, della sapienza che
Dio ha misurato giudiziosamente e concessa a tutte le sue opere create
(vv. 4-9). Al v. 10 si parla finalmente della sapienza che appare sotto
forma di una dote specificamente umana. Essa è di un genere diverso
dall'ordine primordiale attribuito alla creazione, poiché corrisponde ad
un atteggiamento umano di fronte a Dio. Il Siracide sembra a volte
considerarla come un carisma accordato da Dio4.
In queste frasi stringate risuona in forma di tesi quasi tutto l'essen­
ziale di ciò che è stato elaborato nella tradizione didattica. Il Siracide
fa una larga esposizione programmatica della nozione di sapienza. Una
ricca eredità a cui egli aveva adito, glielo permetteva. Gli « uomini di
Ezechia » (Prov 25, 1) non avrebbero potuto sviluppare così ampia­
mente la nozione di sapienza. Il Siracide sa perfettamente ch'egli è un
« ultimo venuto » in questa lunga tradizione didattica (33, 16): si con­
sidera modestamente come imo che racimola dopo la vendemmia
(ibidem). D'altra parte questo paragrafo è un esempio istruttivo di una
forma di pensiero e di insegnamento che ci è estranea e che è singo­
larmente poco preoccupata di una definizione netta. Al contrario: ogni
dichiarazione rimane in sospeso, non è « definita », resta aperta e per­
siste a fluttuare su una certa onda e si giustappone così alla seguente.
Le affermazioni che vorremmo con esattezza separare le une dalle altre
si ripercuotono in realtà le une sulle altre. Così l'autore ottiene lo

3 Per questa traduzione cfr. J. Haspecker, Gottesfurcht bei Jesus Sirach, in « Analecta Biblica >
»
30, 1967, 51 ss.
- Eccli 16, 25; 18, 29; 24, 23; 39, 6; 50, 27.
218 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE n i

scopo: circoscrive il fenomeno nella sua totalità com'essa è accessibile


all’esperienza umana, pur sfuggendo senza posa ad una definizione con­
cettuale precisa, perché se si cerca di fissarla concettualmente, essa si
perde nel mistero.
Così il Siracide ha esposto il soggetto che la sua dottrina vuole ac­
costare: la sapienza. È la sapienza e non il timor di Dio, ad esempio,
il soggetto del libro, dice ancora il Siracide nell'epilogo del suo libro
(50, 27-29)5. E tocca al lettore scoprire con quale significato il Siracide
si serve caso per caso della nozione di sapienza, che può essere nel
senso dell'ordine primordiale oggettivamente presente davanti all’uomo
o nel senso di una sapienza che l’uomo deve praticare. È certo che in
primo piano si trova la nozione di sapienza, come qualità umana per
la cui acquisizione occorre impegnarsi. A furia di esortazioni, il Sira­
cide insiste presso l’allievo perché non perda mai di vista questo bene
capitale6. Oltre a ciò, vi sono enunciati che non considerano la sa­
pienza come un oggetto dello sforzo umano. Anzi: è la sapienza stessa
che esercita l'attività determinante, mentre l'uomo ne è l’oggetto. Essa
gli viene incontro, l’accoglie, lo nutre e lo eleva (15, 2-7). A volte, si
traveste di fronte a lui, lo mette alla prova e lo atterrisce, fino a che
possa avere fiducia in lui e rivelargli i suoi segreti (4, 11-18). Come si
può definire ontologicamente la sapienza nella forma che essa qui as­
sume? In ogni caso come una potenza ordinatrice e salvifica nel campo
della creazione, potenza a cui l’uomo è sottomesso nel mondo, che lo
cerca e lo conduce alla conoscenza. Di questo fenomeno curiosamente
ambivalente, che veniva chiamato sapienza, tratta appunto il libro del
Siracide.
Ma tratta anche di un altro soggetto, che in lui prende quasi il va­
lore di un tema indipendente: del cammino cioè che conduce a que­
sto scopo importante, il timore di Dio. L’idea che la vera sapienza è
legata al presupposto del timore di Dio era solidamente sostenuta nella
tradizione. La massima che il timore di Dio è l’inizio della sapienza
era già il fondamento di ogni sforzo di conoscenza per gli antichi mae­
stri. Il Siracide ripete spesso questa tesi, una volta parola per parola
(1, 14). E tuttavia, quale differenza tra il prologo del libro dei Proverbi
(Prov 1,1-7) e quello del libro del Siracide (1,1-30)7. Di quale sfoggio
di parole ha bisogno il Siracide per sviluppare ciò che intende per
timor di Dio! Per gli antichi maestri di sapienza, si era detto tutto il
necessario con la frase che il timor di Dio è l'inizio della sapienza.
Tutti sapevano che cos’era il timor di Dio. Per il Siracide le cose non
erano più così semplici; doveva spiegare che cos'è questo timore di
Dio, che cosa significa per l’uomo, e soprattutto doveva raccomandarlo

3 Contro J. Haspecker, op. cit., 87 ss., 93 e altrove.


6 Cfr. ad esempio Eccli 6, 18-33.
7 I due prologhi sono visibilmente costruiti sullo stesso schema: delimitano l ’oggetto dell'inse­
gnamento e indicano la condizione a cui è legata l'acquisizione del bene supremo; stessa afferma*
zione in Haspecker, op. cit., 103,
XIII. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 219

con insistenza. Esso è gloria e fierezza, gioia e corona d'allegrezza (1,


11 s.); è radice e coronamento della sapienza (1, 18.20). Nello slancio
dell'esortazione, il timore di Dio è occasionalmente identificato con la
sapienza e la cultura stessa (1, 16.27). Di fronte a questo lusso retorico
facciamo prima di tutto l'esperienza di un elemento di storia del lin­
guaggio che erano il previlegio delle epoche precedenti. Le parole sono
logore, bisogna accumularle. Ma vi è qualcosa di più in gioco: le an­
tiche idee richiedono una nuova interpretazione, devono essere adat­
tate alle idee e ai gusti di un tempo diverso. Il che solleva il problema
di sapere se il Siracide, con l'idea di timor di Dio, concepisce la stessa
cosa degli antichi maestri.
Si può infatti toccare con mano un cambiamento considerevole nelle
idee. Nella sapienza precedente, per timor di Dio si intendeva la cono­
scenza che l’uomo aveva del legame che lo congiungeva a Dio, in par­
ticolare deirobbligo di obbedire alla sua volontà. Questa nozione che
descriveva allora un atteggiamento esistenziale, viene interpretata e
analizzata dal Siracide con una forte tendenza a farne una materia di
esperienza, nel senso di un contenuto di coscienza, di sentimenti, di
volizione. Il timore di Dio è gioia (1, 11), umiltà (1, 27), amore di Dio
(2, 15 s.). Come si vede, questo concetto può essere definito sotto di­
versi aspetti e dietro a ciascuna di queste definizioni si trova una lunga
tradizione di esperienza che potremmo ricostruire almeno nelle grandi
linee.
Il timore di Dio cerca Dio, è orientato verso di lui (32, 14 s.), confida
in lui e spera in lui (2, 6). Incontestabilmente, la nozione appare nel
Siracide con un accezione ben più larga e più generale. Ma soprattutto,
:1 timore di Dio aderisce alla Torah. Abbiamo raggiunto qui il punto
in cui in genere si è vista la differenza specifica tra il Siracide e l'an­
tica sapienza. Nel Siracide la Torah gioca un ruolo importante, e ciò
nettamente sotto la forma di una legge scritta8. Nelle antiche colle­
zioni didattiche manca ogni indicazione in questo senso. Non si è
forse qui prodotto un cambiamento radicale? Le norme delibazione
non vengono più derivate dal consiglio dei maestri o dal tesoro di
esperienza degli antichi, ma dalla Torah? L'alleanza tra legalismo e
sapienza pare solidamente stabilita9. Ma questa concezione non è giu­
sta. È curioso notare quanto essa si è fortemente mantenuta, quando
uno sguardo all'opera del Siracide l'avrebbe potuta abolire. Dov e mai
il materiale della Torah che si è infiltrato nella massa delle esortazioni
e dei consigli sapienziali? Dove mai si può discernere la Torah come
nuova norma che penetra nella sapienza?10. Non doveva prodursi su­
bito un conflitto fondamentale di criteri tra la Torah divina assoluta

• Testi: 1, 26; 6, 37; 10, 19; 15. 1. 15; 19, 17. 20. 24; 21, 11; 23, 27; 24, 23; 26, 23; 28, 7; 29, 1.
11; 31 [34], 8; 32 [35], 1. 2. 7; 35 [32], 15. 17. 23 s.; 37, 12; 39, 8; 41, 8; 42,2.
* J. Fichtner, Die altorientalische Weisheit in ihrer israelitisch-jiidischen Auspràgung (1933) e
molti altri. A p. 97 Fichtner parla di una « sapienza legalista » (nomistische Weisheit).
w O. Kaiser, Die Begriindung der Sittlichkeit im Buche Jesus Sirach, in ZThK 55, 1958, 58.
220 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

e i giudizi di valore della sapienza che consideravano ovunque il pro e


il contro? Vane preoccupazioni! La materia insegnata dal Siracide è
interamente estratta dalla tradizione dottrinale e non dalla Torah,
come ciascuno può constatare. Si tratta se mai di analizzare alcuni svi­
luppi di questa tradizione. E niente è cambiato, neppure i giudizi pru­
denti portati tradizionalmente sui fenomeni.
Non bisogna concludere, evidentemente, che nel pensiero del Sira­
cide la Torah non occupi un posto degno di menzione. Si tratta sol­
tanto di trovare il luogo teologico in cui essa ha la sua funzione spe­
cifica. Si noterà che essa si presenta sempre in modo curiosamente
formale, sbiadito, come una realtà « sui generis », la Torah, i « coman­
damenti ». Il Siracide non ne parla mai in modo più circostanziato;
ritiene tuttavia indispensabile farvi riferimento. Egli ne ha bisogno per
definire più esattamente il timore di Dio e per interpretarlo. Per timore
di Dio, abbiam visto, gli antichi maestri intendevano principalmente
l'obbedienza alla volontà divina. Questa volontà divina era presente per
l'epoca posteriore nella forma della Torah. La sola cosa che distingue
il Siracide dai maestri antichi, è che egli interpreta in modo nuovo la
nozione di timore di Dio per un epoca in cui la volontà di Dio si
esprime attraverso la Torah scritta. Ma in fondo, non considera la
relazione tra il timore di Dio e la sapienza diversamente dai maestri
dei secoli precedenti.
Brami tu la sapienza? Osserva i comandamenti,
il Signore te la darà. (1, 26)
Medita sul timore dell’Altissimo
e occupati senza posa dei suoi comandamenti.
È lui che fortificherà il tuo cuore,
e la sapienza che tu desideri ti sarà concessa. (6, 37)

In questo modo dunque il Siracide concepisce il rapporto tra la sa­


pienza e il timore di Dio. Certo, nel suo entusiasmo didattico gli capita
a volte di procedere ad identificazioni globali: la Torah è timore di
Dio e la sapienza è Torah n. Ma questo non ci autorizza a perdere di
vista il valore teologico che la Torah possiede ai suoi occhi: essa defi­
nisce ed interpreta la nozione di timore di Dio. Introducendo la Torah,
il Siracide non ha fatto un nuovo passo carico di conseguenze; nella
lingua della sua epoca, egli conserva una posizione che è sempre stata
di grande importanza nell'insegnamento 12.
Non è quindi giusto pensare che la missione specifica della sapienza
sia stata tolta ai maestri dalla Torah. Questa missione è considerata
effettivamente dal Siracide in modo alquanto diverso dagli antichi mae­
stri, ma non bisogna rendere la Torah responsabile di ciò. Semplifi­

11 Eccli 1, 16; 19, 20; 21, 11; 23, 27.


12 D'altra parte, il timore di Dio non è esclusivamente provocato dalla Torah. Anche la contem­
plazione delle grandi opere della creazione porta l'uomo al timore di Dio; cfr. Eccli 43; J. Haspe
cker, op. cit., 153.
X III. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 221

cando un po', possiamo chiarire così la situazione: non è la sapienza


che cresce all'ombra dellonnipotente Torah, ma al contrario il Sira­
cide si adopera a legittimare e ad interpretare la Torah sulla base delle
prospettive del pensiero sapienziale 13. Bisognerebbe dar qui la parola
al magnifico poema didattico di Eccli 24. Vi è descritto come l'ordine
primordiale, creato prima di tutte le altre creature e che penetra l'uni­
verso intero, ha cercato un luogo di riposo presso gli uomini per po­
tersi rivelare loro; Dio gli ha assegnato il popolo d'Israele: « Pianta la
tua tenda in Giacobbe, acquista una proprietà in Israele ». Non si
tratta qui soltanto di una legittimazione della Torah. La domanda po­
sta non è: Da dove viene la Torah? ma: In quale misura la Torah è
una fonte della sapienza? Si risponde: Poiché la Torah è un autopre­
sentazione dell'ordine primordiale, essa aiuta l'uomo ad acquistare la
sapienza. Nella parte finale (vv. 25-34), il poema ritorna ad esaltare la
sapienza e la sua pienezza14. Chi parte dalle esposizioni tradizionali
sulla storia della salvezza, dall'esodo d'Israele fuori dall'Egitto, verso il
deserto e dalla rivelazione di Dio al Sinai, non dovrebbe stupirsi troppo
per la differenza del punto di vista sulla preistoria della Torah di Mosè
che troviamo nel Siracide: essa è l'ordine primordiale del mondo in­
tero che si manifesta sotto nuova forma. In questa origine sta la sua
nobiltà. Come si scioglie la sua lingua quando dà la parola a questa
sapienza primordiale trapiantata in Israele!
Io mi sono radicata in un popolo pieno di gloria,
nel dominio del Signore, nel suo patrimonio.
Vi sono oresciuta come il cedro del Libano,
come il cipresso sul monte Hermon...
Come un terebinto, ho steso i miei rami,
sono rami di gloria e di grazia.
Sono come una vigna dai pampini deliziosi,
e i miei fiori producono la gloria e la ricchezza.
Venite a me, voi che mi desiderate;
saziatevi dei miei prodotti,
poiché il mio ricordo è più dolce del miele,
la mia eredità più dolce di un favo di miele. (Eccli 24,12-13.16-20)

Si noterà che non è la Torah, ma la sapienza che qui parla e proprio


allora il cuore del Siracide batte. La sapienza primordiale è considerata
qui come un fenomeno estetico affascinante! Quando si tratta della
Torah, il Siracide non si eleva all'altezza di dichiarazioni così liriche.
Altrove parla un po' più analiticamente della teofania del Sinai e della
rivelazione della Torah. Ma giustamente questo testo (e anche quello

J In questo senso, le esposizioni di E. G. Bauckmann, in ZAW 72, I960, 33 ss., hanno bisogno
di una revisione sostanziale.
14 La materia del poema didattico presenta delle asperità che potrebbero essere l'indizio di un
complicato processo di formazione in fatto di storia delle tradizioni. Al v. 22 cessa il discorso in
prima persona della sapienza e il passaggio al v. 23: « Tutto ciò non è altro che la legge data da
Mosè » è molto duro. La frase ha una risonanza simile alla chiave di un enigma. Ma i w . 1-22
volevano essere un enigma o la descrizione di fatti molto reali?
15. von rad, la sapienza in israele
222 LA SAPIENZA IK ISRAELE - PARTE III

che gli corrisponde nell’« inno degli antenati », 45, 5) dimostra a no­
stro parere l'incapacità del Siracide di sviluppare la nozione di Torah.
Se si guarda allo slancio retorico che s’impadronisce di lui quando può
lodare la sapienza, si ha l’impressione di ima certa povertà, quando egli
descrive il contenuto della Torah.
Egli disse loro: « Guardatevi da ogni male »,
diede loro dei comandamenti, ciascuno nei confronti del suo prossimo.
(Eccli 17, 14)

No, per il Siracide la Torah non è l’oggetto di un interesse previle-


giato. Egli la conosce, essa ha la sua funzione, ma in fondo ha per lui
importanza solo nella misura in cui la si comprende in funzione del
vasto insieme delle dottrine sapienziali. Se ci si domanda di qual ge­
nere di missione il Siracide si sente responsabile, incontreremo innan­
zitutto il problema di cui i maestri si sono occupati da sempre: la
signoria del contingente, cioè il problema del comportamento da tenere
di fronte ad avvenimenti che non possono essere interpretati da al­
cuna regola chiaramente conosciuta ed il problema ancor più arduo di
sapere se dietro questi avvenimenti sia in azione un ordine nascosto.
Il Siracide non si lascia superare dagli antichi maestri per la sobrietà
con cui percepisce i fatti, le realtà date, e per la conoscenza della loro
ambiguità che si oppone ad ogni sforzo umano di classificazione. Si
ha anzi l’impressione che, in lui, il senso critico si è vieppiù affilato.
Certamente, le antiche sentenze potevano discorrere in lungo e in largo
sulla frequente difficoltà che vi è nel giudicare le cose e sul carattere
ingannevole delle apparenze: proprio mentre si ride il cuore può essere
afflitto (Prov 14, 13) e qualcuno che fa il ricco può essere povero (Prov
13, 7); il silenzio stesso non può essere valutato con certezza, poiché
uno stolto che tace può passare per saggio; e può essere giusto osser­
vare il silenzio davanti ad uno stolto, ma può anche essere falso15.
Anche il Siracide invita costantemente alla riflessione. Precisamente in
questa occasione appare qualcosa di nuovo: dalla maniera con cui il
Siracide oppone brutalmente le cose nella loro ambivalenza, si avverte
ch’egli usa un metodo didattico coscientemente applicato.
Eccli 29, 1-13 tratta di prestiti e di cauzioni. Il capitolo comincia con
un’esortazione chiara a non sottrarsi al dovere di soccorrere, ma parla
anche della collera a cui ci si espone da parte di chi prende in prestito.
Più sorprendente ancora è il discorso circa la cauzione. L’uomo buono
fa cauzione al suo prossimo; ma subito dopo: una cauzione ha rovi­
nato molte persone felici. E più ancora: il disonesto si precipita a fare
cauzioni (essendo preoccupato di un profitto). L’allievo deve riflettere
alluna e all’altra realtà per poter fare più tardi ciò che è giusto. Stesso
atteggiamento per i consiglieri (Eccli 37, 7-15). C’è sempre a che fare

« Prov 17, 27 s.; 26. 4 s.


X III. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 223

con loro nella vita. Una volta sarà stupido ascoltarli, un’altra volta
sarà stupido ignorare i loro consigli. E poi rimane ancora il « consiglio
del cuore » (v. 13 s.). Si deve fare particolarmente attenzione alla co­
scienza, al cuore illuminato da Dio. Quanto può essere ambiguo il si­
lenzio! Uno tace perché non ha nulla da dire; un altro tace perché at­
tende il momento favorevole per parlare (20, 5-7). Quale ambiguità
nella professione di medico! Il capitolo inizia con la raccomandazione
a restare in relazione col medico, poiché è sempre Dio che ha creato
questa professione. E si chiude con la frase: « Colui che pecca agli
occhi del suo creatore cade in potere del medico! » (38, 1-15). In due
paragrafi il Siracide si esprime sul fenomeno della vergogna e ne dà
due interpretazioni diametralmente opposte: se si vive correttamente
non si deve avere vergogna, neppure della confessione dei propri er­
rori; della propria stoltezza invece bisogna arrossire (4, 20-26). Ma non
ogni tipo di vergogna è « conveniente » (41, 16). Si deve avere vergogna
di tutto ciò che è male, ma non della propria fede, né nella propria cor­
rettezza negli affari e in famiglia (41, 14 - 42, 8). La « morte è amara per
l'uomo che vive felice in mezzo ai beni, è benvenuta per il misero privo
di forza e per il vegliardo » (41, 1-2). In altri casi in cui il giudizio su
un fatto è evidente, per esempio nel caso dei figli, degli amici, il Sira­
cide si limita ad indugiare su aspetti a cui si pensa molto meno: un
amico si cambia in nemico (6, 9). « Meglio morire senza figli che avere
figli empi » (16, 3 b ) li. Dietro questa tecnica didattica di cui si potreb­
bero dare ancora numerosi esempi, vi sono delle conoscenze di cui i
maestri antichi non erano ancora coscienti. Le cose e le circostanze
dell’ambiente umano non sono affatto neutre per il loro valore e signi­
ficato. Ma non rivelano neppure all'uomo il loro significato e il loro
valore in modo immediatamente, chiaro. Anzi, lo confondono, poiché
scivolano costantemente da un lato all'altro tra il bene e il male, l'utile
e il nocivo, il sensato e l'assurdo. Qui sta il compito che viene asse­
gnato al maestro di sapienza, quello cioè di riconoscere il loro vero
valore in ogni caso, in ogni situazione. Il Siracide vede in questa ambi­
valenza dei fenomeni il più grande dei problemi, poiché in ogni situa­
zione vi è un solo atteggiamento che sia il buono, il giusto. Qohelet
avrebbe detto: In ogni caso, conoscere il fondo del problema è una
vana fatica. Effettivamente il Siracide esprime, sviluppando gli aspetti
negativi, delle conoscenze che Qohelet avrebbe formulato esattamente
allo stesso modo. Si pensi tra l’altro al suo scetticismo nei confronti
del desiderio di una numerosa discendenza (16, 1-3). Egli pure sa espri­
mere l'idea che alcuni penano e si affaticano per non raccogliere nulla
mentre altri, senza mezzi e senza facoltà speciali, prosperano semplice-
mente perché il Signore li guarda con favore (11,11-12). Il Siracide par­
la in questo caso proprio di Dio e a proposito di un'esperienza decisa­

14 Questa opposizione tra giudizi di valore assolutamente contrari circa una sola e medesima
realtà ricorda l’antica conversazione babilonese tra il padrone ed il suo schiavo (in AOT 1926*,
284-287), in cui la questione circa d ò che è giusto è degenerata in uno scetticismo faceto.
224 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

mente molto difficile da capire! Altrove mette in guardia contro un giu­


dizio basato sull'apparenza:
Non congratularti con un uomo per la sua bellezza,
e non disgustarti di nessuno a causa della sua apparenza!
L’ape è uno dei più piccoli esseri alati,
ma ciò ch’essa produce è di una dolcezza squisita.
Non disprezzare i vestiti del disgraziato,
e non farti beffe di chi porta lutto,
poiché le opere del Signore sono ammirevoli,
ma sono nascoste agli uomini. (Eccli 11, 24)

Anche in questo caso il Siracide traccia una linea che va risoluta-


mente nel senso teologico: le cose sono diverse da quel che paiono — le
persone brutte, coloro che portano lutto, coloro che sono perseguitati
dalla sventura, hanno la loro dignità e il loro valore — e ciò corrispon­
de esattamente all’ordine che Dio ha fissato per le sue opere. « L'agire
del Signore è nascosto all’uomo ». Si vede chiaramente come il Sira­
cide sia al corrente di ciò che ha tormentato così tanto l’Ecclesiaste.
L'agire di Dio è « nascosto » nella misura in cui la sua logica non è
chiara nel corso degli avvenimenti. Non si potrebbe pensare — per ri­
tornare una volta ancora a questo testo importante — che le cose
d’uso quotidiano, come l’acqua, il fuoco, il sale, l’olio, ecc., sono cose
neutre? No, dice il Siracide; neanche loro lo sono! Per l'uno si mo­
strano buone, per l’altro si trasformano in male (39, 26 s.). E ciò, na­
turalmente, per una disposizione segreta di Dio. Il Siracide non dubita
della sua sapienza e della sua bontà.
Come l’argilla nella mano del vasaio...
così gli uomini nella mano del loro Creatore,
quando questi assegna loro una sorte. •
Di fronte al male sta il bene,
di fronte alla morte la vita,
così di fronte all'uomo buono il peccatore.
Contempla quindi le opere dell’Altissimo:
stanno a due a due, l’una in faccia all’altra. (Ecdi 33, 13-15)

È questo uno dei testi più ricchi d’insegnamento. Come Qohelet, il


Siracide vede l’uomo circondato da Dio, senza scappatoie. Vi si aggiun­
ge in lui, un’idea di predestinazione, è certo che in queste frasi l'ac­
cento è posto sulla libertà e la validità delle disposizioni divine. Ma
ciò non semplifica le cose nel senso, ad esempio, che coloro i quali
sono determinati da Dio al bene, lo fanno. In tal caso il Siracide non
avrebbe avuto bisogno di scrivere il suo libro. Bisognerebbe piuttosto
dire che qui comincia il problema della vita. Poiché le disposizioni di
Dio, come qui sono esposte con sorprendente lucidità, si trovano in
opposizione polare. L’uomo è posto al centro di questo campo di forze
gigantesche, tra il bene e il male, tra ciò che conserva la vita e ciò
che provoca la morte. « Davanti a te egli ha posto il fuoco e l’acqua »
(15, 16). In questo dilemma il Siracide non offre all'uomo un morali­
XIII. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 225

smo piatto (come si è detto parecchie volte di lui!). Egli insegna la


difficile arte di trovare ogni volta il giusto aspetto nell’ambiguità dei
fenomeni che capitano, e di fare ciò che è giusto davanti a Dio. Per
esercitare l’allievo in quest’arte, il Siracide si serve del metodo d’inse­
gnamento che è per lui così caratteristico e ambivalente: questo così
curioso « tanto-tanto », non soltanto, ma anche. Nella realtà pratica
non può mai esservi che una sola soluzione giusta.
Si ammetterà che il Siracide non prende la vita alla leggera, non
sottovaluta cioè il compito di scegliere ciò che è giusto nelle circo­
stanze di un mondo in cui il governo di Dio è nascosto. Ma la dottrina
del Siracide non ha nulla di accasciato o di tormentato; essa è piut­
tosto sostenuta da una ferma speranza. Il mistero stesso, di cui egli
ha un’intima conoscenza, lo inclina all’adorazione. Egli non respinge
il compito che gli s’impone di padroneggiare la vita. La sua fiducia
nella sapienza, cioè nell’aiuto arrecato all’uomo da una capacità di
conoscere correttamente fondata e praticata, è quasi illimitata.
Come potrebbe un uomo trovare la sua strada in un mondo in cui,
come si è visto, tutti i fenomeni si modificano costantemente nel loro
valore e nel loro significato, se non riesce a sapere qualcosa del « tem­
po » al quale sono sottoposte tutte queste modificazioni? Il Siracide
ritorna senza posa al « Kairos », al momento favorevole 17 che l’uomo
deve trovare tanto per i piccoli compiti quotidiani quanto per le que­
stioni supreme del governo del mondo da parte di Dio, e che l’uomo
è capace di trovare; in questo il Siracide si distingue nettamente da
Qohelet. Non c’è motivo di sorprendersi quindi che, in questo quadro,
si tratti spesso del parlare con cognizione di causa e del saper tacere
al momento giusto. Vi sono di quelli che fanno silenzio perché pon­
gono attenzione al tempo. Lo stolto invece non lo fa (20, 6. 19 s.). È
quindi evidente che la sapienza e la stoltezza non sono apprezzate dal
contenuto del discorso, ma unicamente dall’inopportunità (22, 6) o dal­
l’opportunità (4, 23) di esso. Con gli amici, come con i nemici, biso­
gna ricordarsi della funzione che il tempo assume (6, 8; 12, 16; 19, 9).
Dappertutto esso gioca il suo ruolo e non bisogna perderlo di vista;
vi è il momento del prestito e della restituzione (29, 2-5), del bere vino
(31, 28), delle cure mediche (38, 13), ma soprattutto vi sono dei tempi
di estremo bisogno che l’uomo non deve affrontare senza esservisi pre­
parato18. Anche il Siracide può dare questa esortazione molto gene­
rica: « Figlio mio, tieni conto del tempo! » (4, 20), poiché « tra mat­
tino e sera il tempo cambia» (18, 16),9. Una volta ancora, notiamo
che questa conoscenza, come tale, è estremamente antica e preoccupa
ancora le epoche più recenti. Ma la prospettiva di comprensione in
cui la conoscenza antica si inserisce è notevolmente mutata. Il Sira­

17 Circa sessanta volte nel testo greco.


• 2, 2. 11; 3, 31; 5, 7; 10, 26; 18, 24 s.; 22, 23; 37, 4; 40, 24; 51, 10. 12.
19 L'interpretazione di 51, 30 è difficile;, secondo il testo ebraico, dovrebbe tradursi: « Compite
la vostra opera prima del tempo (belò 'è t\ ed egli vi darà a suo tempo la ricompensa ».
226 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE n i

cide non si accontenta più della semplice esperienza del cambiamento


dei tempi e dei compiti che ne risultano, ma mette questa conoscenza
in rapporto stretto con la teologia. È Dio che accorda all'uomo « il suo
tempo ». Anche in politica, egli nomina i capi « al momento buono »
(10, 4). Il Siracide sviluppa questo tema con ricchezza di particolari
in un grande poema didattico:
16. Quanto sono belle tutte le opere del Signore!
Tutto ciò ch'egli ordina capita a suo tempo.
17. Alla sua parola, l'acqua si è congelata come un muro,
e per la parola della sua bocca si è aperto il serbatoio d'acqua.
18. Su suo ordine, tutto ciò che desidera si compie,
e nessuno può arrestare il suo gesto di salvezza.
19. Tutte le opere delle creature gli stanno dinanzi,
non è possibile sfuggire al suo sguardo.
20. Egli vede tutto dal più lontano passato al più lontano avvenire,
e niente è straordinario ai suoi occhi.
21. Non bisogna dire: Cosa è quello? perché questo?
Poiché tutto è stato creato con una sua utilità.
21b. Non si può dire: Questo è peggio di quello,
poiché tutto si addice a suo tempo.
22. La sua benedizione straripa come un fiume,
e come un diluvio, disseta la terra.
23. Come pure la sua collera è data in retaggio alle nazioni
ed ha cambiato le acque in sale.
24. Se le sue vie sono diritte per gli uomini pii,
esse sono piene di ostacoli per i malvagi.
25. I beni sono stati creati per i buoni all'inizio,
e così i mali per i malvagi.
26. I generi di prima necessità per la vita deH'uomo
sono l'acqua, il fuoco, il ferro, il sale,
la farina,, il frumento, il latte e il miele,
il succo del grappolo, l'olio e il vestito.
27. Tutto ciò è un bene per i buoni,
ma per i peccatori si cambia in male.
28. Vi sono dei venti creati per il castigo,
e nella loro violenza spostano le montagne.
Nell'ora della distruzione scatenano la loro forza
ed appagono la collera del loro Creatore.
29. Il fuoco, la grandine, la fame e la peste,
tutto ciò è stato creato per il castigo.
30. I denti delle bestie selvagge, gli scorpioni, le vipere,
e la spada vendicatrice per l'estirpazione degli empi.
Tutti sono stati creati per uno scopo,
sono in serbo e saranno mobilitati a tempo richiesto.
3|. Quando glielo ordina, essi mandano grida di gioia,
e per servirlo, non trasgrediranno la sua parola.
32. Perciò, convinto fin dall'inizio,
ho riflettuto ed ho scritto:
33. Le opere del Signore sono tutte buone,
esse bastano al necessario a loro tempo.
34. Non si può dire: Questo è meno buono di quello,
poiché a suo tempo tutto sarà riconosciuto buono.
35. E ora, di tutto cuore mandate grida di gioia,
e benedite il nome del Santo! (Ecciti 39, 16-35)
X III. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 227

Il poema si apre in modo provocante con la tesi principale che sarà


ripetuta solennemente alla fine — a parte una breve dossologia — nel
senso di un « quod erat demonstrandum » (v. 33). Il tema affrontato
è quello del modo con cui Dio dirige gli avvenimenti, e la tesi soste­
nuta suona: questa direzione è valida in ogni circostanza20. L’insegna­
mento propriamente detto ha qualcosa di polemico. L'espressione:
« non si può dire » (vv. 21. 34), ripetuta due volte, mostra che il Sira­
cide parte da idee che sono diverse dalla sua. Egli combatte quindi la
pretesa di alcuni personaggi che pensano di poter giudicare caso per
caso l'azione di Dio, come se fosse una volta buona e un’altra meno
buona, di coloro cioè che credono di poter porre la domanda critica:
perché capita questo o quello? Non si mancherà di pensare a uomini
la cui fede ha subito una scossa e che mettono in dubbio la bontà e
senso di molte azioni di Dio. Il Siracide ha quindi dovuto porsi dei
problemi di teodicea. Ma il suo attacco contro questi dubbi ha — co­
sa che non è nuova per noi — un che di sdrucciolevole, poiché molti
argomenti si confondono. Vi è innanzitutto l’allusione molto nota alla
potenza e alla benedizione dell’azione divina nella creazione e nella
storia (vv. 176-23). Poi, senza soluzione di continuità, viene la tesi
della rettitudine delle vie di Jahve per coloro che gli appartengono, il
che significa che la fede e l’obbedienza sono le condizioni per la com­
prensione di queste vie; in seguito viene l’indicazione di una determi­
nazione divina al bene o al male, attiva sin dai primordi, o per lo
meno di una prescienza divina, idea che appare qua e là nel Siracide21.
Ma l’argomento propriamente detto del poema non è ancora stato
esposto, ed è di gran lunga il più interessante: « Ogni intervento di
Dio nel mondo è buono, soddisfa ogni bisogno al tempo conveniente ».
L’affermazione decisiva si trova beninteso nell'ultima parola: « a suo
tempo ». Il Siracide ha espresso l’idea molto antica di « tempo conve­
niente » in maniera teologicamente feconda ed è giunto tramite essa
a percepire un nuovo aspetto dell’attività di Dio. Non si arriva a co­
glierla partendo da un sistema generale di valori o da uno schema
interpretativo, ma partendo in ogni caso dall’istante in cui essa si
manifesta e dalla sua necessità. Così, l’azione divina può essere giu­
dicata in modo completamente negativo dal punto di vista dell’uomo,
come lo sono ad esempio il fuoco, la grandine, la peste, gli scorpioni,
i serpenti. Ma se Jahve si irrita, essi hanno pure il loro « tempo »
(v. 30) e l’azione di Dio è buona e giusta anche in questa forma. Tali
fenomeni in apparenza negativi sono pure « eccellenti » a loro tempo
(vv. 17. 34). Qui, la dottrina del Siracide sull'ambivalenza dei fatti
raggiunge la sua punta suprema e, nello stesso tempo, una sorpren­
dente importanza teologica. Anche l'azione diretta di Dio nel mondo

* Forse il Siracide riprende il € molto buono» di Gen 1, 31. O il poema fc una specie di inter­
pretazione più spinta della pericope della Genesi? Ad ogni modo egli non intende con « opere *
gli oggetti creati, ma l'azione di Dio.
21 Eccli 23, 20; cfr. p. 236 s.
228 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

umano si svolge per l'uomo sotto il segno di questa ambivalenza! Un


tentativo siffatto di affrontare il problema della teodicea è nuovo. Sen­
za dubbio, l'autore non rinuncia ad aiutare l'intelligenza umana con
degli schemi interpretativi; ma egli si sente dispensato dal compito
ingrato, a cui erano ancora costretti gli amici di Giobbe, di interpre­
tare l'azione di Dio globalmente a partire da una norma ben deter­
minata.
Si può dire qualcosa che riassuma le intenzioni perseguite dal Sira­
cide nell'insegnamento della sua dottrina? Certamente, egli vuole inse­
gnare la sapienza, la conoscenza, la signoria della vita, la cultura, ecc.
Ma il problema è di sapere in quale prospettiva egli vede queste cose
e come interpreta le dottrine tradizionali, come le modifica o le svi­
luppa. Non si potrebbe condensare tutto ciò in una sola frase. Il Si­
racide è totalmente nella linea della tradizione degli antichi maestri:
il suo insegnamento è la dottrina di un uomo, cioè non viene diffuso
in forza di un ordine divino. Non rivendica per sé l'autorità di una
comunicazione diretta da parte di Dio; non è « proclamazione », « pre­
dicazione », ma parola da uomo a uomo, consiglio, esortazione, avver­
timento in tutti i problemi che possono ostacolare l'uomo sul suo
cammino. Malgrado l'autorità che il Siracide rivendica per sé, il suo
insegnamento resta dialogico e, come s'è visto, costantemente dialet­
tico, poiché si limita volentieri ad indicare due o più aspetti di ima
cosa. Ciò che è giusto volta per volta, solo l'allievo potrà trovarlo
« esistenzialmente », nella situazione in cui dovrà decidere. Ma come
il Siracide vede l'uomo posto in tale situazione di dialogo? Come l'uo­
mo giunge a conoscersi e a determinarsi?
24. Ascoltami ed acquista la conoscenza,
applica il tuo cuore alle mie parole!
25. Con misura farò scaturire il mio spirito,
e con cura proclamerò la mia conoscenza:
26. Quando all'inizio Dio creò le sue opere
ed, appena fatte, attribuì loro un posto,
27. egli ordinò le sue opere per sempre
e la loro dominazione per tutte le generazioni.
Esse non soffrono la fame né la fatica
e non lasciano mai il loro compito.
28. Nessuna ha mai urtato l'altra
e mai disobbediscono alla sua parola.
29. Poi il Signore volse gli occhi sulla terra
e la riempì dei suoi beni.
30. Di ogni specie di animali ne ricoprì la superfìcie
ed essi torneranno nuovamente ailla terra.

1. Il Signore ha tratto l'uomo dalla terra


per rimandarvelo poi.
2. Egli ha assegnato agli uomini un numero preciso di giorni, una dilazione,
ha affidato in loro potere ciò che è sulla terra.
3. Li ha rivestiti di forza come se stesso,
a sua immagine li ha creati.
X III. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 229

4. Ad ogni creatura, ha ispirato il terrore dell'uomo


perché egli domini bestie selvagge ed uccelli.
5. Egli formò per loro una bocca, una lingua, occhi ed orecchie,
diede loro un cuore per pensare.
7. Li riempì di scienza e di intelligenza
e fece loro conoscere il bene ed il male.
8. Ha messo il suo occhio nel loro cuore
per mostrare loro la grandezza delle sue opere.
9. Essi racconteranno la grandezza delle sue opere.
10. Loderanno il suo santo nome.
11. Egli accordò loro ancora la conoscenza,
diede loro in dono la legge di vita.
12. Ha concluso con essi un'ailleanza eterna
ed ha fatto conoscere loro i suoi giudizi. (Ecdi 16, 24-30; 17, 1-12)

Si sarebbe tentati di esaminare questo poema frase per frase ed


anche parola per parola per vedere come tradizione e interpretazione
vi si mescolino. Naturalmente il Siracide segue il racconto biblico,
più esattamente, il racconto sacerdotale della creazione. Ma quale dif­
ferenza solo a livello di lingua! Di fronte alla immobilità marmorea
degli enunciati di Gen 1, qui si esprime qualcosa di emotivo, una sog­
gettività commossa dal sentimento profondo della meraviglia. Nel qua­
dro della creazione deiruomo traspare lo stupore di fronte alle capa­
cità dello spirito umano: esso ha ricevuto il potere di parlare, di
vedere, di ascoltare e soprattutto di pensare, di distinguere il bene
dal male (v. 6 s .)22. Il Siracide in particolare parla volentieri del rap­
porto spirituale deiruomo con Dio, di cui non si parlava (in ogni caso
in modo esplicito) in Gen 1; si trattava qui visibilmente di definire
il rapporto di dominazione delluomo nei confronti del mondo. Ma il
Siracide interpreta il testo partendo dalla conoscenza delle opere di
Dio e dalla lode che l'uomo gli deve.
1. Una sorte penosa è stata fatta per tutti gli uomini,
un giogo pesante opprime i figli di Adamo,
dal giorno in cui escono dal seno materno
fino al giorno in cui ritornano alla madre universale.
2. L'oggetto delle loro riflessioni, il timore del loro cuore
è l'attesa ansiosa del giorno della morte.
3. Da chi siede su un trono nella gloria
fino al povero seduto sulla terra e la cenere,
5. non è che furore, invidia, turbamento, inquietudine,
timore della morte, rivalità e discordie.
E nel momento in cui, coricati, ci si riposa,
il sonno della notte non fa che variare le preoccupazioni:
6. Insomma, non si trova il riposo che un istante...
si è turbati dalle visioni della propria anima
come un fuggitivo davanti al nemico.
7. E se ci si sveglia...
si è affatto sorpresi che questa paura sia stata vana.

22 Molto curiosa è la frase che dice che Dio ha messo il suo occhio nel cuore umano; ciò signi­
fica che Dio ha reso gli uomini capaci di comprendere correttamente le sue opere. Come poteva
il testo ebraico rifarsi alla tradizione testuale greca che non è chiara? M. Z. Segai. S e fe r Bett-Sira
haschàìèm (in ebraico), 1958, ad loc. si attiene al testo greco.
230 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II I

.
8 Per ogni creatura, dall'uomo alla bestia,
ma per i peccatori, sette volte tanto,
9. la peste, il sangue, la discordia e la spada,
disgrazie, fame, tribolazioni, calamità... (Eocli 40, 1-9)

Il poema inizia come ogni lamentazione che tratta in modo molto


generale dei tormenti e della miseria della vita umana, come Giob 7,
1 ss. (« La sorte delluomo sulla terra non è una fatica? ») o 14, 1 ss.
Ma dove il Siracide vede la pena ed il giogo degli uomini? Non come
gli antichi nella malattia, la povertà, l'oppressione da parte dei ne­
mici, ma come dice il v. 2: essa è essenzialmente nel cuore dell'uomo,
nello spirito, cioè nelle sue ansietà e nelle sue passioni. Per questo
egli è senza riposo. E quando cerca il riposo notturno — testo splen­
dido! — è turbato dai fantasmi e dalle illusioni dei sogni. Egli fugge
persino davanti a semplici fantasmi. Questo quadro dell'uomo — di
nuovo un sorprendente contrasto dialettico con il precedente — mo­
stra con quale forza gli aspetti specifici dello spirito sono passati in
primo piano.
Tuttavia questi colori oscuri non sono tipici della mentalità del Si­
racide. L'oggetto centrale della sua dottrina non è l'uomo ripiegato
su di sé o sulla sua sofferenza; è qualcosa di molto più positivo poi­
ché si tratta per lui dell'uomo che si pone di fronte a Dio, delle pos­
sibilità ed anche degli obblighi che comporta questa relazione con Dio.
Nel suo « elogio degli antenati », egli lo indica con l'esempio dei gran­
di uomini del passato, come in un libro istruttivo d'immagini (Eccli
44 - 50). Ascoltiamo il Siracide stesso nel preambolo didattico che
serve da introduzione al quadro storico dei personaggi più famosi.
1. Tessiamo l'elogio degli uomini illustri
dei nostri antenati nel loro ordine di successione.
2. Il Signore ha creato a profusione la gloria
e mostrato la sua grandezza dai tempi antichi.
3. Alcuni uomini esercitarono l'autorità regale
e furono celebrati per le loro gesta;
altri furono accorti nei consigli
e si espressero con oracoli profetici.
4. Altri ressero il popolo con le loro risoluzioni,
la loro intelligenza della sapienza popolare
ed i saggi discorsi del loro insegnamento;
5. altri coltivarono la musica
e scrissero dei racconti poetici;...
7. Tutti furono onorati dai loro contemporanei
e glorificati durante i loro giorni.
8. Tra di loro alcuni lasciarono un nome
che si cita ancora con elogi...
13. Il loro ricordo rimarrà per sempre,
la loro gloria non si oscurerà.
14. Il loro corpo è stato sepolto nella pace
e il loro nome è vivente per le generazioni.
15. I popoli proclameranno la loro sapienza,
l'assemblea celebrerà le loro lodi, (Eocli 44, 1-15)
XIII. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 2JI

Coloro che possiedono una certa familiarità con le presentazioni tra­


dizionali della storia d'Israele, non cesseranno di stupirsi della diffe­
renza del punto di vista del Siracide. Non si tratta per lui delle diret­
tive di Dio, visibili o nascoste, dei suoi giudizi e delle sue disposizioni
in vista della salvezza, non si tratta della tensione tra promessa e com­
pimento, ma di grandi uomini. Sono loro e non Dio coi suoi progetti
che formano l’oggetto della descrizione e della lode Si va a passeg­
gio nella storia come attraverso le sale di un mausoleo24. Il che non
significa affatto che in questa retrospettiva storica si sia prodotto un
processo di secolarizzazione. La storia non è affatto diventata « senza­
dio ». Solo gli aspetti religiosi sono cambiati — senza dubbio notevol­
mente: poiché è Dio — dice il v. 2 — che ha innalzato questi uomini
alla gloria. Tutto l'inno è accordato su un tono: che cosa non ha
fatto Dio di questi uomini! Che cosa non hanno potuto compiere co­
me re, consiglieri, saggi, poeti! Occasionalmente, il poeta si lascia tra­
sportare dall'enfasi e si rivolge personalmente al suo eroe: « Come
eri glorioso, Elia, nei tuoi prodigi! » (48, 4). Siamo in modo netto da­
vanti a qualcosa di nuovo. L'uomo reso capace di azioni politiche e
spirituali diventa l'oggetto deH'ammirazione, talvolta anche del timore.
Alleato di Dio, egli è un fenomeno estetico che affascina il Siracide.
Aronne, vestito degli abiti sacerdotali, è ammirato come « delizia per
gli occhi » (45,12). Ma ciò è vero anche per le altre realtà della storia25.
È così che il Siracide vede l'uomo e tutto il suo insegnamento deve
essere compreso da questo punto di vista. Per il compito principale
che si è fissato, egli si colloca ancora interamente nella tradizione de­
gli antichi maestri: vuole educare i giovani alla vita (cominciando
dalle regole del galateo a tavola, 31, 12 s.). Le rapide occhiate ch'egli
getta sulla vita e che insegna agli allievi sono sorprendentemente vi­
vaci. Niente, in questo campo, è trasformato nelle regole legaliste pro­
prie della Torah. Il Siracide non ha quindi permesso che la Torah
sostituisse o restringesse la forma tradizionale della conoscenza e del­
l'insegnamento della sapienza. Eppure molte cose sono cambiate. Il
23 Viene utilizzato il termine cultuale arcaico hiltél, « lodare »!
34 L'inno di Giuditta 16 è dello stesso tenore. Esso glorifica, con ricchezza di particolari, Giu­
ditta e la sua azione (w . 6-11), pur essendo un inno a Jahve. Se vi è un luogo in cui si può pen­
sare ad un'influenza del pensiero € ellenistico », è qui. Ma che cosa significa questo? Chiaramente
che Israele ha visto aprirsi in quest’incontro spirituale un nuovo aspetto della valutazione dell'uo­
mo. Il coordinamento di quest’aspetto con la fede in Jahve viene perfezionato nel Siracide. Non è
verosimile che Eccli 24 debba essere considerato come una modificazione tendenziosa, quindi antiel-
lenistica, di Prov 8, 22 ss. (D. Michaelis, in ThLZ 83, 1958, 604) per m ostrare la superiorità della
conoscenza della verità in Israele. Come abbiamo già visto, il compito che si è prefissato il poema
didattico Eccli 24 è stato quello di stabilire un legame tra l’ordine primordiale e la Torah. Non si
può trovare nel suo libro qualcosa di più preciso sui rapporti tra il Siracide e l’ellenismo. Anzi,
vi sono molti elementi che fanno di lui piuttosto un « conservatore », per la sua epoca. Pare tu t­
tavia dubbio che si possa opporgli l'autore della Sapienza come progressista (A. Di Leila, Conser­
vative and progressive theology: Sirach and Wisdom, in CBQ 28, 1966, 139 ss.). Nell'Alessandria
ellenistica le cose stavano diversamente; l'autore della Sapienza poteva perfettamente passare come
un conservatore (di fronte a Filone, ad esempio).
25 Dopo il prologo, ambizioso nel suo programma, la descrizione delle singole personalità con­
trasta notevolmente. Il Siracide non oltrepassa gli attestati dell'antica letteratura, che devono es­
sere letti alla luce di questo prologo. L’immagine dei profeti, nel Siracide, è molto incompleta,
poiché egli li vede quasi unicamente come uomini prodigiosi. Cfr. 48, 1-16. 22-25. Da quale genere
(ellenistico?) il Siracide trae l’esclamazione: « Come eri (era) glorioso! », 48, 4; 50, 5?
232 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

modello dato come tipo di educazione si distingue notevolmente da


quello che gli antichi maestri avevano davanti agli occhi. Anch'essi
parlavano di Dio, ma lo vedevano maggiormente come il limite impo­
sto all'uomo nella sua conquista della signoria della vita. La forma­
zione dei giovani — forse per questa stessa ragione? — era molto più
neutra dal punto di vista religioso. Di fronte airintenzione pedagogica
del Siracide si erge il modello dell'uomo pio. Si potrebbe quasi ridurre
la sua dottrina alla frase: «Figlio mio, sii tutti i giorni fedele al Si­
gnore » (Tob 4, 5). È in ogni caso un ideale pedagogico molto interio­
rizzato e, quando si pensi all'importanza che il Siracide assegna al
timore di Dio e soprattutto all'umiltà, si potrebbe quasi parlare di un
tratto caratteristico di pietismo. Il suo atteggiamento di fronte a Dio
ha infatti qualcosa di fortemente sentimentale26.
Ma nel Siracide l'orizzonte della conoscenza è di un'estensione sor­
prendente; esso abbraccia molto di più che i semplici rapporti tra
Dio e l'individuo. Vi incontriamo questioni ed opinioni estremamente
serie: il mondo come creazione, il rapporto tra l'uomo e la verità
(Eccli 24), l'ambivalenza dei fenomeni e degli avvenimenti nei con­
fronti del bene e del male. Si vorrebbe a ragione sapere come si pre­
sentava il tesoro di conoscenze da cui il Siracide traeva il suo inse­
gnamento particolare. Non è possibile dimostrare ch'egli abbia avuto
a disposizione un insegnamento teologico globale su Dio, il mondo e
l'uomo; sarebbe questa una novità assoluta rispetto ai maestri anti­
chi. In ogni caso, nel largo ventaglio dell'insegnamento del Siracide,
l'uomo ebraico ha preso un posto nuovo, teologicamente molto carat­
teristico, di fronte a Dio e al mondo: circondato da grandi misteri,
sempre a confronto con l'insolubile, l'uomo si sente tuttavia protetto
da un ordinamento salvifico di Dio. La fiducia nella protezione e nella
benedizione vivificante che Dio accorda a coloro che lo cercano è così
grande che non si lascia sviare dalle esperienze contrarie. Dio mette
alla prova anche gli uomini « sub specie contraria » 27.
Così l'impresa di formazione dell'uomo da parte del Siracide viene
affrontata con altri presupposti. Anche gli antichi sapevano che il ti­
more di Dio, la sua conoscenza, è l'inizio della sapienza. Ma, per essi,
le cose erano molto diverse. La componente religiosa concerneva il
fatto della conoscenza piuttosto che il contenuto delle dottrine. Inve­
ce, il modello educativo del Siracide è l'uomo pio. Così la componente
religiosa prende il posto centrale. L'uomo che si sforza nella pietà,

26 II tema dell’« umiltà » ritorna nel Siracide nei contesti più diversi, cfr. 1, 27; 3, 17 s. 20;
4, 8; 7, 17; 10, 14; 13, 20; 18, 21; 45, 4. Al problema del cambiamento sopraggiunto nella sapienza,
della concentrazione sull'aspetto religioso, non si può rispondere che dopo uno studio sulla situa­
zione spirituale e religiosa nell’Israele postesilico. Pare certo che questo cambiamento non può
risalire da un influsso immediato della Torah. Le nozioni centrali della religione nel Siracide (timore
di Dio, umiltà) non si spiegano con la Torah. Si può parlare piuttosto dell’influsso di alcune cor­
renti religiose dell’Israele tardivo la cui pietà influiva sui maestri di sapienza. Si tratterebbe della
pietà dei sedicenti 'anàzvint. Cfr. R. Martin-Achard, Yahvé et les ranàwtm , in ThZ 21, 1965, 349 ss.
Nell’affermazione di D. Michaelis: « Ogni testimonianza di una immediata esperienza di Dio è as­
sente nel Siracide », in ThLZ 83, 1958 , 606, il Siracide è completamente frainteso.
Eccli 2. 1-18; 4, 11-18.
XIII. LA SAPIENZA DI GESÙ DI SIRACH 233

colui che teme Dio e gli dona il suo cuore, è l'uomo come lo vuole
Dio28. A lui solo si aprono le fonti della sapienza e della conoscenza.
Questa è dunque la ferma convinzione del Siracide, cioè che la fede
è anche un fattore formativo. Il timor di Dio è capace di fare del­
l'uomo qualche cosa. Esso favorisce luomo in ciò che riguarda la sua
conoscenza del mondo e il suo comportamento nei confronti degli altri
uomini. Esso lo forma, lo protegge e lo stimola. Lapidariamente: « Chi
cerca Dio riceve un'istruzione» ( musar, raxiSeia 32, 14).
Bisogna ancora dire che nel Siracide, molto più fortemente che nel­
l'antico Israele, il modello umano e gli insegnamenti culturali hanno
un carattere assai esclusivo dal punto di vista sociale. Il Siracide sa
perfettamente che questa cultura, questa formazione non è ugualmente
accessibile a tutte le professioni e a tutte le condizioni (38, 24-34) 29.
È un letterato e forma gli uomini a sua immagine. Si rivolge, tra i
giovani, agli intellettuali, il che alla sua epoca vuol dire: agli uomini
che hanno accesso ai libri e per i quali la letteratura occupa un posto
centrale nella vita. Lo slancio del desiderio di conoscenza propria­
mente detto, con tutti i rischi che comporta, si è intiepidito rispetto
alla sapienza precedente. Al suo posto appare sempre più un allarga­
mento della cultura e un erudizione letteraria. Questa formazione del­
l'uomo non manca, in qualche caso, di essere quasi cosmopolita! Il
Siracide mostra come lo sforzo culturale è interamente fondato sulla
religione nel bel ritratto da lui abbozzato di un maestro di cultura.
Anche gli antichi maestri hanno naturalmente frequentato i libri, ma
l'attività letteraria è diventata ora molto più ampia. Essa include
anche la riflessione sulla Torah e lo studio degli scritti profetici.
1. Differente è il caso di chi si applica
e medita la legge deirAltissimo.
Egli indaga la sapienza di tutti gli antichi,
si dedica allo studio delle profezie.
2. Conserva i detti degli uomini famosi,
penetra le sottigliezze delle parabole,
3. indaga il senso recondito dei proverbi
e s'occupa degli enigmi delle parabole.
4. Svolge il suo compito fra i grandi,
è presente alle riunioni dei capi,
viaggia fra genti straniere,
investigando il bene e il male in mezzo agli uomini.
5. Di buon mattino rivolge il cuore
28 J. Haspecker, op. c it., 209 ss. Con questa tendenza alla religiosità si spiega l'inserzione di
modelli particolareggiati di preghiere nell 'insegnamento (26,1-6; 33 [36], l-13a; 36,16&-22; 42,15 -
43, 33; 51,1-12). Il paragrafo sui doveri cultuali 31 134], 21 - 32 [35], 20 è oltremodo interessante.
È senza dubbio curioso che un m aestro di sapienza si esprima in sentenze circa il sacrificio, il
digiuno, l’impurità rituale, ecc. Il Siracide s'interessa molto alle condizioni personali, soprat­
tu tto morali, che egli considera come condizione preliminare ad ogni atto corretto di culto.
Non si devono offrire sacrifìci di beni male acquistati, di beni dei poveri ad esempio (31 [34],
21. 24; 32 [35], 14). Si deve presentare la propria offerta non in modo gretto, ma con gioia (32
[35], 10-12). È evidente com'è limitato il punto di vista con cui il Siracide affronta le istituzioni
cultuali. Per lui tutto si restringe all’aspetto morale o spirituale: « Mostrarsi caritatevole, è fare
u n ’offerta di fior di farina; fare l'elemosina è un sacrificio di lode » (32 [35], 2). Il Siracide non
ha letto questo nella Torah! Egli si avvicina piuttosto ad alcune concezioni dei salmi.
79 Eccli 7, 15 si esprime in altro modo.
*34 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE II I

al Signore, che lo ha creato,


prega davanti aH'Altissimo,
apre la bocca alla preghiera,
implora per i suoi peccati.
6. Se questa è la volontà del Signore grande,
sarà ricolmato di spirito di intelligenza,
come pioggia effonderà parole di sapienza,
nella preghiera renderà lode al Signore.
7. Egli dirigerà il suo consiglio e la sua scienza,
mediterà sui misteri di Dio.
8. Farà brillare la dottrina del suo insegnamento,
si vanterà della legge dell’alleanza del Signore.
9. Molti loderanno la sua intelligenza,
egli non sarà mai dimenticato,
non scomparirà il suo ricordo,
il suo nome vivrà di generazione in generazione.
10. I popoli parleranno della sua sapienza,
•l'assemblea proclamerà le sue lodi.
11. Finché vive, lascerà un nome più noto di mille,
quando muore, avrà già fatto abbastanza per sé. (Eccli 39, 1-11)

Come si è visto all'inizio, il Siracide ha scritto il suo libro per inse­


gnare la sapienza. Sarebbe quindi falso considerarlo esclusivamente
come una confessione della sua fede. Certo, alla sua epoca l'idea di
ciò che era la sapienza si era modificata e, di conseguenza, egli aveva
preso chiaramente posizione, senza dubbio con un impegno personale,
su questioni di fede. Ma il suo libro, per l'impostazione che ha, è
legato ad un obiettivo, il che vuol dire che il Siracide non cercava di
esporvi tutta la materia delle sue conoscenze. A questo proposito, vi
sono affermazioni importanti che, benché abbiano un grande peso
teologico, sono apparentemente trattate solo di passaggio, senza l'in­
tenzione di farne un oggetto di insegnamento. Ciò è vero ad esempio
del « peccato originale » e della legge di morte che risalgono ad Èva,
(25, 24) o della « cattiva inclinazione » creata (!) in tutti gli uomini
(37, 3 )30. Ma è soprattutto vero di alcune allusioni ad avvenimenti
escatologici che paiono avere poco rapporto con le dottrine centrali
del libro, ma non lasciano alcun dubbio sul fatto che il Siracide le
conoscesse e le condividesse31.
Il Siracide era cosciente di essere un successore, un epigono. Come
« ultimo venuto » nella lunga catena della tradizione, egli si è impe­
gnato a portare il suo contributo. Era una semplice raffinatezza lette­
raria che gli ha fatto dire di considerarsi come un « racimolatore die­
tro i vendemmiatori » (Eccli 33, 16)? Oppure si è accorto che l'opera
principale era stata realmente fatta prima di lui?
*> Sulla importante dottrina della < cattiva inclinazione », vedi E. Brandenburgcr, A dam und
C hristus (1962), 33 s.
31 Eccli 33 [36], 10: « Affretta la fine, ricordati del tempo ». In Tobia, la sapienza della vita è
molto più organicamente legata alla visione escatologica. Vi sono alcune affermazioni del Siracide
che hanno sollevato il problema se egli ha apertamente sostenuto l'idea di una « retribuzione nell'al
di là » o di una speranza nell'al di là (ad esempio 1,13; 2,3; 7,36; 9,11; 11, 26-28; 16,12; 17,23;
18, 24). Lo studio di V. Hamp, Zukunft und Jenseits im Buche Sirach (in BBB 1, 1950, 86 ss.) ha
tolto ogni fondamento a questa ipotesi.
XIV
LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEMPI

Trarremo la definizione dell'idea di determinismo dai testi stessi a


cui dobbiamo ancora dedicare brevemente la nostra attenzione. Con
determinismo si intende l'idea di una predeterminazione divina di al­
cuni avvenimenti e di alcuni destini, all'origine dei tempi. Essa si
distingue per un impegno teorico più forte dalla fede in una provvi­
denza, in una direzione data da Dio alla storia e alla vita. Ambedue i
concetti indicano che tutti gli avvenimenti dipendono da Jahve; ma,
nel primo caso, questa dipendenza è cercata nella presenza diretta
della mano di Jahve; nell'altro, si pensa che la volontà divina di gui­
dare la storia è in azione molto prima che gli avvenimenti abbiano
luogo. La prima di queste concezioni della storia sottolinea maggior­
mente la mobilità dei fatti storici, l'altra la loro immutabilità. Si deve
registrare una certa perdita del senso della presenza storica di Dio
nell'idea determinista; ciò è inevitabile. Tuttavia i passaggi sono molto
sfumati. Infine, bisogna ancora notare che con l'uso della nozione di
determinismo non si tratta mai di un insieme di idee filosoficamente
e conseguentemente elaborate. Così, ad esempio, la libertà di scelta
morale e religiosa dell'individuo non è molto presa in considerazione
da questo determinismo.
Ricordiamo l'antichissima e ampiamente diffusa esperienza del tem­
po favorevole, in virtù della quale ogni atto umano e ogni astensione
dall'agire hanno il « loro tempo ». Quest'idea del tempo favorevole,
come è espressa negli antichi maestri e in generale nell'antico Israele,
non può essere definita come determinista. Essa non ha importanza
teologica, come tanti altri insegnamenti della sapienza antica; è piut­
tosto un'esperienza « profana » che sapeva mettere a profitto l'arte
umana di vivere. Nella stessa linea si trova il famoso capitolo sul
tempo imposto ad ogni atto umano (Eccle 3, 1-9). In queste frasi,
Qohelet ricapitola tutto quel che gli antichi maestri sapevano da molto
tempo, ma unicamente per situare bruscamente questo antico tema
didattico in una prospettiva problematica. Quel che si diceva del tem-
236 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

po e dell'ora, egli lo concepisce nel quadro di un determinismo teo­


logico e si domanda che cosa significa per l'uomo il fatto che la sua
vita si svolga sotto questa specie di decreti divini che variano costan­
temente. Nulla — egli pensa — si può rimproverare a Dio a questo
proposito; egli fa ogni cosa « bella ». Ma manca all'uomo tutto ciò
che è indispensabile per comprendere queste disposizioni divine e per
adattarvisi; pertanto questa determinazione della propria vita costi­
tuisce per lui un « tormento », non è affatto per l'uomo un'offerta po­
sitiva con cui possa mettere a profitto una libertà momentanea l.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a quella conoscenza a cui si
giunge continuamente nell'analisi delle materie didattiche di questa
natura: la conoscenza fondamentale — in questo caso, quella dei tem­
pi favorevoli — è estremamente antica ed è trasmessa attraverso i
vari periodi storici. In questo processo di trasmissione, essa riappare
frequentemente in una nuova prospettiva, sotto una luce diversa, sco­
prendo nuove tensioni a cui i lettori devono fare attenzione. Il muta­
mento della prospettiva d'interpretazione in Qohelet introduce — per
quel che si può constatare nei vari vestigi letterari di quest'epoca —
una nuova fase interessante della lunga storia di questo tema didat­
tico. Bisogna certamente metterlo in relazione con la tendenza gene­
rale a porre le dottrine in modo più preciso su una base teologica,
tendenza che abbiamo già incontrato e che d'altronde si può consta­
tare parallelamente nei documenti della sapienza egizia più recente2.
Nella linea di questa « teologizzazione » si manifesta, un nuovo inte­
resse per il « tempo » e i « tempi »; esso è già riscontrabile in Qohelet
e nel Siracide nella massiccia accumulazione della parola 'ét = tem­
po fissato3. Qohelet sembra trovarsi in un periodo di transizione. Tut­
tavia presenta delle idee nettamente deterministe, il che lo separa in
una certa misura dalle tradizioni didattiche dei tempi precedenti e lo
collega alle epoche posteriori. Eccle 6, 10 è a questo proposito perfet­
tamente chiaro: « Quel che capita è determinato da tempo (propria­
mente: “da tempo se ne conosce il nome"): è determinato quel che
luomo diventerà. Egli non può discutere con chi è più forte di lui ».
Effettivamente, questa conoscenza della determinazione degli avveni­
menti si trova alla base di numerose sentenze di questo libro.
Il Siracide, che cronologicamente non è molto lontano dall'Eccle-
siaste, parla con maggiore chiarezza di una determinazione di tutti i
destini che da molto tempo è stata decisa da Dio. Egli « fin dall'inizio »
ha fissato i beni per coloro che sono buoni (Eccli 39, 25), ma anche
ogni sorta di calamità — fuoco, fame, peste, bestie selvagge, serpenti,
spada — che sono create in vista della parte che debbono avere; esse
sono « in serbo e si manifesteranno a loro tempo » (Eccli 39, 30). Gli

1 Vedi p. 207 s.
2 Cfr. S. Morenz, Goti und Mensch ini altea À g yp ten (1963), 65 . 84.
3 La tavola di O. Loretz (op. cit., 168) calcola in Qohelet q u a ra n ta passi con la parola 'et, ven-
lo tto dei quali provenienti dal testo Eccle 2-&.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEMPI 237

occhi di Dio vedono tutto; « ogni cosa gli è nota prima che avvenga,
ed egli la vede prima che giunga a compimento » (Eccli 23, 20) \ L'an­
gelo Raffaele poteva così dire al giovane Tobia che Sara « gli era de­
stinata fin dall’origine » (letteralmente: « preparata », Tob 6, 18). Dio
vede perciò gli avvenimenti due volte: dapprima nella loro predeter­
minazione originale, poi una seconda volta quando entrano nella sto­
ria « a loro tempo ». Ma l'essenziale è che « tutte le opere di Dio sono
buone a loro tempo » (qui si trova quasi parola per parola la stessa
confessione che abbiamo trovato prima in Qohelet: « Tutto ciò ch’egli
ha fatto è buono a suo tempo », Eccle 3, Ila). Non si può considerare
una cosa peggiore dell'altra, « poiché tutto, a suo tempo, sarà ricono­
sciuto buono » (Eccli 39, 33 s.).
L’intenzione di questa tesi è, in ultima analisi, non teorica o teolo­
gica, ma deliberatamente pastorale. Essa si rivolge a uomini che non
giungono ad orientarsi nella confusione degli avvenimenti5. Il maestro
concede loro che è praticamente impossibile all’uomo apprezzare nel
loro fondamento, secondo una scala oggettiva di valori, gli avvenimen­
ti. Li si può apprezzare — profonda sapienza! — solo in funzione del­
l’istante che Dio ha fissato loro. Quindi — ed in ciò consiste l’inse­
gnamento — le largizioni di Dio sono buone e giuste a loro tempo.
Quanto si è modificata la problematica rispetto alle epoche più anti­
che! Ai maestri precedenti interessava condurre gli uomini a osser­
vare, nei limiti del possibile, i « tempi favorevoli » e far progredire
in virtù di essi la volontà di vivere. Ma qui il maestro affronta una
crisi che i tempi fissati preparano, e distribuisce consolazione. Ma se
è la consolazione che il maestro vuole dispensare, si comprende ch’egli
non veda alcun motivo per affrontare i problemi che ha evocato nel
suo insegnamento. Naturalmente, a noi s’impone subito il problema
della libertà della volontà. Non era forse messa in questione? È note­
vole il fatto che Israele, che la sapeva così lunga sull’azione sovrana
di Dio verso l’uomo, non si è lasciato turbare da questo problema.
Anche nei casi estremi, egli non ha messo in dubbio la responsabilità
dell'uomo nelle sue decisioni e nelle sue azioni. Una volta, tuttavia, il
Siracide considera la possibilità che si possano trarre false conclusioni
dalla sua concezione fondamentale di carattere determinista:
Non dire: È il Signore che mi ha fatto peccare,
poiché egli non fa ciò che ha in orrore.
Non dire: È lui che mi ha traviato,
poiché non ha bisogno di un peccatore.
Jahve odia ciò che è male e abominevole,
e non permette che ciò sopravvenga a coloro che lo temono.
Dio, all’inizio, ha creato l’uomo
e gli ha dato il potere di pensare.
Se lo vuoi, tu puoi osservare i comandamenti,

4 Bisognerebbe forse citare anche E cd i 42, 18: « ... poiché l ’Altissimo possiede ogni scienza, egli
ha considerato i segni dei tempi ». M a la traduzione i incerta.
» Vedi p. 225 ss.
16. von rad. la sapicu/a io ismelc
238 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

restare fedele è la sua volontà.


Davanti a te, egli ha messo il fuoco e l'acqua,
stendi la mano verso ciò che vuoi.
Davanti all’uomo sono la vita e la morte,
quel che vuole gli sarà dato...
Egli non ha comandato a nessuno di peccare
e non dà visioni agli uomini di menzogna. (Eccli 15, 11-20)4

Ma dobbiamo ritornare all'idea della determinazione di tutto ciò


che avviene, poiché essa ha aperto ai maestri orizzonti più vasti di
quelli che avevano scoperto in precedenza.
7. Che cosa ha un giorno più di un altro,
dal momento che tutto Tanno la luce viene dal sole?
8. Essi sono stati distinti nel pensiero del Signore,
che ha diversificato le stagioni e le feste.
9. Egli ha esaltato e consacrato gli uni,
e fatto degli altri dei giorni ordinari.
10. Tutti gli uomini vengono dal fango,
dalla terra Adamo è stato formato.
11. Nella sua grande sapienza, il Signore li ha distinti,
ha diversificato le loro condizioni.
12. Ha benedetto ed esaltalo alcuni,
ne ha consacrati e li ha messi vicino a sé.
Ne ha maledetto e umiliato altri
e li ha respinti dal loro posto.
13. Come l'argilla nella mano del vasaio,
che la foggia a suo piacimento,
così gli uomini nella mano del loro Creatore
che li retribuisce secondo la sua giustizia.
14. Di fronte al male, vi è il bene,
di fronte alla morte, la vita,
così, di fronte all’uomo pio, il peccatore.
15. Contempla quindi tutte le opere deirAltissimo,
tutte vanno a due a due, una di fronte aill'altra. (Eccli 33, 7-15)

Questo testo è costruito molto intelligentemente: parte da esperien­


ze quotidiane, banali, dietro cui già si profila l'intero problema. Tutti
i giorni sono portati dal medesimo sole — ma quale differenza tra i
giorni! Tutti gli uomini sono fatti con lo stesso fango, ma come è
diverso il corso della loro vita! Dietro quest'enigma, vi è la sapienza
di Dio che ha stabilito distinzioni e determinato i destini. Il pensiero
penetra qui fino ai fondamenti stessi del reale. In quest'ampia pro­
spettiva, lelezione d’Israele, fenomeno storico di grande portata, ap­
pare anch'esso come un atto di separazione determinante che proviene
da Dio (v. 12). Ma questa esistenza unica d'Israele davanti a Jahve non
è, come ci si poteva attendere, l'obiettivo proprio dell'argomentazione
— e ciò è molto interessante — ma piuttosto un esempio di qualcosa
di più fondamentale: la determinazione, la sorte, la via di tutti gli

8 Anche i testi tard iv i conservano la possibilità della libera scelta dell'uom o, cfr. Enoc 98,4;
Giub. 30, 19 ss.; IV E sd ra 8, 55 s.; Bar. sir. 85, 2.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI T E M P I 239

uomini7. È quindi perfettamente logico che il pensiero risalga fino


agl'inizi dell'umanità, ad Adamo. Il problema degli ordini primordiali
porta automaticamente a quello delle origini. Era il caso dell'ordine
primordiale al momento della creazione, in Prov 8, 22, e lo è ugual­
mente qui nella questione delle regole del tempo. Molto importante è
anche la conclusione di questo esame: essa è priva di ogni interesse
teorico e filosofico che cerchi di riassumere in un punto l'intrigo di
tutte le possibili circostanze. L'interesse è più limitato, poiché non si
tratta di parecchie possibilità della predeterminazione divina, ma di
due soltanto, il bene e il male, la vita e la m orte8. Come si vede, die­
tro quest'analisi del Siracide, si incontra il problema della salvezza;
dove esso si pone, queste due sole possibilità entrano in discussione.
Vale la pena di ricordare che già il Siracide — a parte le sue inten­
zioni pastorali e parenetiche — applica la dottrina della determina­
zione divina dei tempi alla prospettiva d'insieme di tutti gli avveni­
menti che capitano; d'altra parte quel che lo preoccupa nella que­
stione della determinazione divina, è in definitiva soltanto il proble­
ma della salvezza, della vita e della morte. Ora, questa è esattamente
la base sulla quale poggeranno gli scritti didattici più tardivi, soprat­
tutto gli scritti apocalittici. Raggruppiamo qui di seguito alcuni passi
particolarmente notevoli e caratteristici di questa letteratura:
È lui (Dio) che fa alternare tempi e ore, che fa cadere i re e li innalza sul
trono. (Dan 2, 21)
Dio ha creato le nazioni nel mondo, ed anche noi; ci ha previsti dagli inizi
alla fine del mondo, fin nei minimi particolari, nulla è stato da lui trascu­
rato; egli ha previsto tutto di ciò che avviene in questo mondo, in anticipo,
e perciò questo avviene. (Assunzione di Mosè 12, 4 s.)
(Dio) sa che cosa è il mondo prima che sia stato creato, e ciò che capiterà
di generazione in generazione. (Enoc 39,11)
Il Santo e il Grande ha determinato i giorni per ogni cosa. (Enoc 92,2)
Allora (Giacobbe) vide in sogno un angelo discendere dal cielo con sette ta­
vole e le diede a Giacobbe. Egli le lesse e lesse tutto ciò che era scritto su
di esse, ciò che doveva capitare a lui ed ai suoi figli fin neH’etemità.
(Giubilei 32, 21)
Ogni essere ed ogni avvenimento viene dal Dio delle conoscenze, e prima
ch’essi ricevano l'esistenza, egli ha stabilito ogni loro piano.
Quando essi raggiungono la loro determinazione secondo il piano della sua
gloria, compiono la loro missione e (non vi è) nulla da cambiare.
(1 QS III, 15 s.)

Come si vede, i saggi sono stati capaci di variare sensibilmente que­


sto tema secondo le occasioni e di affrontarlo sotto diversi aspetti.
Ma dappertutto il tema è identico: da sempre sono state prese le deci­
sioni di Dio sulla vita e la morte, la salvezza e il giudizio, e i tempi

7 In m odo altrettan to stringato E noc 41,8: Dio ha separato gli spiriti degli uom ini (tra
luce e tenebre).
• P. W inter, B en Sira and th e Teachin g of the « Tw o W ays », in VT 5, 1955, 315 ss.
240 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

Essati si compiono esattamente secondo l’ordine loro assegnato. Que­


sta concezione ha qualcosa di sinistro, in particolare quando quest'or­
dine è considerato come qualcosa che Dio ha fissato nel suo intimo
e al quale deve attenersi9. I tempi esistono davanti a Dio come delle
realtà! « Egli non li sconvolge, non li fa sorgere, fino a che la piena
misura non sia giunta al suo culmine » (IV Esdra 4, 37). Nel genere
della letteratura testamentaria, è già irrevocabilmente fissata l'idea che
gli avvenimenti ed il loro tempo sono determinati fin dalle origini.
Altrimenti, come avrebbero potuto essere predetti tanti avvenimenti
che si succedono a catena, in un passato così lontano? “.
L'idea della determinazione dei tempi ha per colui che nutre qual­
che familiarità con le idee storiche dell’antico Israele qualcosa di sor­
prendente, quasi di sconcertante, poiché anche uno sguardo superfi­
ciale alle più antiche opere storiche rivela concezioni interamente dif­
ferenti nella presentazione della sovranità di Jahve sulla storia, ma
senza la traccia di un determinismo. Se leggiamo le storie patriarcali
jahvistiche, la storia della successione al trono di Davide o la predi­
cazione dei profeti sugli avvenimenti guidati da Jahve, l’idea di un
piano di Jahve che abbraccia dei grandi periodi è spesso evidente, ma
si tratta sempre nello stesso tempo di un intervento di Dio caso per
caso, assolutamente imprevedibile. La decisione riguardante la rovina
di Achab è presa solo in un consiglio celeste (1 Re 22, 19 ss.). Così
nella vocazione d’Isaia e, a partire da questa costantemente nei pro­
feti, sono state rivelate nuove decisioni divine riguardanti la guida
della storia. Ma anche quando la riflessione teologica si sforza di affron­
tare il problema della direzione della storia da parte di Dio sulla base
di un principio generale, ad esempio nella teoria della parola creatrice
di Jahve che ogni volta interviene nella storia, teoria professata dal
Deuteronomista, non si incontra assolutamente nulla che richiami,
anche da lontano, l’idea di una determinazione dei tempi dalle origini
da parte di Jahve11. Nulla si trova che si possa sapere in anticipo
partendo o da riflessioni o da studi. L’irruzione della parola è tanto
per il profeta quanto per i suoi uditori un avvenimento assolutamente
inatteso e così pure il suo compimento nella forma di un fatto spet­
tacolare. L’azione divina è sempre in corso ed il profeta si trova con­
tinuamente in presenza di nuove decisioni di Jahve.
Una volta, nei riguardi di una nazione o di un regno, io decreto di sradicare,
di abbattere e di distruggere: ma se questa nazione, contro cui ho parlato,
si converte dalla sua malvagità, allora mi pento del male che avevo deciso
di infliggergli. Un’altra volta nei riguardi di una nazione o di un regno, io

g Così ad esempio IV E sd 7, 74: Dio ha usato pazienza verso gli uomini, « non a causa vostra,
m a perché i tem pi erano d a lui fissati ».
10 « Nell'economia divina regna il grande principio: tu tto h a il suo tem po e la sua misura...
d al punto di vista dello spazio e del tempo; tu tto h a il suo giorno, la su a ora fissata, la sua
d u rata, anche gli atti escatologici, anche la fine. Ciò fa p arte d e ll’inventario dell'apocalittica * (P.
Volz, Die E schaiologie d e r jiid isch en G em einde im n e u testa m en tlich en Z e ita lter (1934), 138).
n Si possono vedere i particolari di questa « teologia della parola » in G . von Rad, Teologia
dell*A ntico T esta m en to , vol. I. Brescia 1972, 379 ss.; vol. II, B rescia 1974. 104 ss.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEMPI 241

decreto di costruire e dì piantare: ma se questa nazione compie ciò che mi


disgusta rifiutando di ascoltare la mia voce, allora mi pento del bene che
avevo intenzione di fargli. (Ger 18, 7-10)

11 fossato tra questa concezione della storia e la concezione deter­


ministica ed apocalittica sembra insuperabile. E tuttavia, le tradizioni
storiche e parzialmente quelle profetiche si sono imparentate alla con­
cezione deterministica della storia. Il primo maestro di sapienza che
ha attinto tradizioni dalla storia del suo popolo è stato il Siracide.
Egli — come si è visto — ha messo sullo stesso piano la voce del­
l'ordine primordiale e quella della Torah che era presente a Israele
dapprima nel tabernacolo, poi in Sion (Eccli 24, 10); parla di Lot, dei
Cananei assoggettati (16, 8 s.), dell'alleanza conclusa al Sinai (17, 12).
Ma soprattutto nell'elogio degli antenati, egli fa una specie di abbozzo
della storia d'Israele in cui, da Enoc a Neemia, onora gli uomini
che, come dice nel prologo, si sono resi illustri con la loro autorità
regale, i loro oracoli profetici, i loro pensieri, il loro insegnamento o
i loro poemi e sono stati onorati da Dio (Eccli 44 - 50). Mai si parla
in questi passi della determinazione divina dei tempi che altrove il
Siracide tiene in così gran conto. Evidentemente, la densità propria
di questo materiale storico era ancora troppo grande perché egli si
potesse assegnare una concezione della storia così estranea. Sta di
fatto comunque che in Eccli 36, 12 incontriamo l'idea che l'elezione
d'Israele risale ad una decisione originale di Dio. A questo riguardo,
alcuni testi del « Testamento dei Dodici Patriarchi » parlano un lin­
guaggio molto più chiaro, benché nei loro elementi essenziali siano
probabilmente contemporanei del Siracide. Asser, ad esempio, riferi­
sce che la disobbedienza dei suoi discendenti era già registrata sulle
tavole del cieloI2. Giuditta lo esprime ancor più nettamente. Ella dice
nella sua preghiera, ben inteso a proposito della storia d'Israele:
... poiché sei tu che hai fatto il passato, quel che capita ora e quel che capi­
terà più tardi. Il presente e l'avvenire, tu li hai conoepiti ed è capitato quel
che tu già avevi in mente. I tuoi piani si presentarono e dissero: Eccoci qui!
Poiché tutte le tue vie sono preparate ed i tuoi giudizi fatti con prescienza.
(Giudit 9, 5 s.)

Da questo punto di vista, interroghiamo ancora il libro dei Giubilei.


Il caso è particolarmente interessante perché in questo libro la vec­
chia tradizione non è evocata accidentalmente. L'intero libro è una
grande reinterpretazione della narrazione storica da Gen 1 a Es 12 per
un'epoca in cui le idee religiose si sono fondamentalmente modificate.
Già dal prologo veniamo a sapere che Dio ha mostrato a Mosè sul
monte Sinai « la storia passata e quella futura » (1, 4). Egli deve met­
tere per iscritto tutta questa storia (1, 26); essa è già registrata sulle

12 T est. A sser 7; cfr. anche T est. Levi 5. Circa la datazione dei « Testam enti cfr. E. Bicker-
m an, Th e d a te o j the T esta m en ts o f the T w elve P a tria rch s, in JBL 69, 1950, 245 ss.
242 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

tavole celesti dalla creazione « fino al giorno della nuova creazione »


(1, 29). Veniamo così a sapere attraverso alcuni particolari, come ad
esempio l'attribuzione del nome d'Isacco, che questa storia si è svolta
secondo la profezia delle tavole celesti (16, 3). Circa la maledizione
d'Isacco contro i Filistei (cfr. Gen 26, 26) è detto che essa « era scritta
sulle tavole celesti affinché gli (al Filisteo) capiti questo » (24, 33).
Veniamo inoltre a sapere, a proposito di Giacobbe, ch'egli ha letto
sulle sette tavole mostrategli da un angelo dal cielo « tutto ciò che vi
era scritto, ciò che doveva capitare a lui ed ai suoi figli fin nel più
lontano avvenire» (32, 21)13. La cosa è chiara: per quanto possiamo
vedere, l'idea della determinazione divina abbraccia qui la totalità del
materiale storico tradizionale. Quest'idea non gli è superficialmente e
accidentalmente associata, ma domina tutta la materia col suo inse­
gnamento sui periodi storici e spinge in secondo piano l'antica idea
della storia concepita come un campo di tensioni fatto di promesse
improvvise e di compimenti che si realizzano.
Si può constatare il grande cambiamento nella concezione della sto­
ria soprattutto nei sommari storici dell'apocalittica14. Il genere dei
sommari storici, cioè delle ricapitolazioni più o meno brevi o parti­
colareggiate della storia di Jahve con Israele, aveva già in Israele una
lunga storia. Non vi è quindi nulla di sorprendente nel fatto che, già
in tempi precedenti, questi sommari storici abbiano potuto essere
redatti sotto diversi punti di vista. Il Sai 105 racconta la storia d'Israe­
le sotto un aspetto ben diverso dal Sai 106.
Ma quanto differiscono i sommari storici dell'apocalittica da queste
varianti più antiche! Il semplice fatto che il sommario storico è ora
incorporato come profezia particolareggiata nel discorso-testamento di
un uomo del lontano passato (Enoc, Mosè, Esdra, Baruc) doveva mo­
dificare il modo di concepire la successione degli avvenimenti. Se essi
potevano essere predetti fin nei particolari da una rivelazione divina,
se lazione degli uomini poteva essere mostrata nei suoi sviluppi suc­
cessivi (Enoc 90, 41fo), ciò significa che Dio conosceva tutto in anti­
cipo. Questo fatto è costantemente attestato con insistenza. Mosè dice
che Dio ha tutto previsto nel mondo e che le cose avvengono di con­
seguenza (Assunzione di Mosè 12, 4). Prima del sommario storico del-
l'Apocalisse di Abramo, il lettore viene a sapere che il piano di Dio è
fissato per tutto l'avvenire che l'uomo ancora non conosce (Apoc. Abr.
26, 5). Henoc è giunto alla conoscenza dell'avvenire con lo sguardo
gettato nei libri celesti e sviluppa questa conoscenza nell'apocalisse
delle dieci settim ane15.
Questi sommari sono d'accordo con quelli più antichi nel presentare

13 Testo più sopra, p. 239. Paolo stesso ne parla (Rom 9,11): tra Giacobbe ed Esaù le sorti
erano decise da una libera scelta di Dio molto prima della loro nascita.
14 Si tra tta soprattutto di Enoc 85-90 (visione degli animali), Enoc 93, 3-10; 91, 12-17
(apocalisse delle dieci settimane). Ass. Mosè 2 - 10; IV Esd. 3, 4-27; Apoc. di Baruc 53-74 (visione
delle nubi).
^ Enoc 93. 1 s.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TE M PI 243

una storia guidata da Jahve ed interamente determinata dalla sua vo­


lontà. Ciò è vero evidentemente anche per l'apocalisse delle dieci set­
timane che parla di un intervento divino solo nel momento in cui ha
luogo la fine (Enoc 91,15), poiché — pensa l'autore — tanto l'arti-
colazione del corso del tempo in settimane quanto gli avvenimenti
presi singolarmente sono senza alcun dubbio guidati da Dio. La visio­
ne degli animali parla con maggiori particolari del posto che Dio as­
sume nella storia d'Israele (Enoc 85-90): Dio guida i figli di Gia­
cobbe in Egitto, parla a Mosè, provoca le piaghe, conduce il popolo
al Sinai, ecc. Infine, chiama anche i settanta pastori che pasceranno
senza pietà Israele. Nulla è cambiato nell'antica convinzione della so­
vranità totale di Jahve sulla storia. Ma essa come si manifesta in par­
ticolare? Nel fatto che Dio guida sistematicamente la storia al suo
fine, secondo i suoi piani, il che mira alla salvezza di coloro che fin
da principio sono stati eletti. In sostanza, però, questa storia non co­
nosce motivi di salvezza inerenti alla storia. Certamente, essa sa rife­
rire, accanto ai giudizi, interventi di guida e di liberazione. Ma, per i
lettori che verranno, queste testimonianze della salvezza sono attuali
soltanto sotto la forma di un insegnamento generale, che conferma il
governo di Dio sugli avvenimenti. In fondo, tutti questi racconti di
liberazione hanno qualcosa di episodico e non danno l'impressione di
un'efficacia storica decisiva. Essi non sono in grado di stabilire una
nuova relazione tra Israele e Dio. Ma questa concezione della storia
non ha bisogno di una nuova relazione, poiché la salvezza propria­
mente detta si è spostata ai margini della storia, nell'elezione e nella
determinazione alle origini e nell'apparizione improvvisa della salvez­
za alla fine16. Anche quest'azione di Dio dev'essere rivelata all'uomo;
ma l'atto rivelatore è unico: esso ha luogo aH'inizio e riguarda la
totalità della storia fino alla sua conclusione escatologica17. L'avveni­
mento della salvezza escatologica sarà preparato da Dio, non con cir­
costanze che sopravverranno in seno alla storia (si pensi al ruolo di
Ciro nel Deuteroisaia), Dio non parte da precedenti interventi salvifici
nella storia (neppure in forma di antitipo). La fine arriva improvvisa­
mente in un mondo storico sempre più offuscato ed i beni della sal­
vezza, da sempre preesistenti nel mondo celeste — « fino a che i tempi
siano compiuti » — (Figlio dell'uomo, nuova Gerusalemme), fanno la
loro apparizione. Se si paragona questa concezione della storia con
quella delle epoche precedenti, bisognerà vedervi una disintegrazione
teologica o più precisamente soteriologica della storia. Se quindi Esdra,
nella lamentazione in cui riassume tutta la storia di Dio e del suo
popolo, giunge alla conclusione che questa storia non ha mai rag­
giunto un fine — e ciò, meno per l'errore d'Israele che per quello di

16 D. Ròssler, Gesetz und Geschichte. Vntersuchungen zur Theologie der jiidischen Apokalyptìk
und der pharisaischen Orthodoxie (I960), 63 ss.
17 Dan 1, 13; Enoc 90,29 ss.; IV Esd. 8,52; 10,54; 13,36; 14,9; Ajoc. Baruc 59, 4-11. La
nuova Gerusalemme, preparata fin dalle origini, è stata già mostrata ad Adamo; Apoc. Baruc 4, >.
LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

Dio! — vi è in questo una conseguenza perfettamente logica. È stato


uno scacco, un piano ab o rtito 18. Rimane qualcosa in cui sperare? Bi­
sogna allora che la salvezza si manifesti come una cosa interamente
nuova; e colui che riceve la salvezza — anche ciò è importante — non
è più un Israele rinnovato, in una forma qualsiasi, ma un gruppo elet­
to scelto in seno ad Israele, come gli Assidei, o molto spesso l'indivi­
duo interpellato. Nella linea sempre più radicale di una salvezza indi­
viduale, la nozione stessa d'Israele comincia a decomporsi19.
Se questa disintegrazione soteriologica della storia era la conseguen­
za di una dottrina totalmente trasformata della salvezza, qualcosa di
nuovo appare nei sommari storici al posto degli interventi soteriolo-
gici: la divisione della storia in periodi numerici. Di regola questa
periodicità è stata sovrapposta tardivamente al materiale storico tra­
smesso. In un caso, essa corrisponde più o meno con i dati materiali
(apocalisse delle dieci settimane), in un altro, essa fa loro violenza per­
ché il materiale antico non vi si presta (visione delle nubi).
La domanda decisiva che dovevamo porre alla concezione antica
della storia in Israele, cioè in che misura essa era ancora capace di
attualizzare la storia di Dio con il suo popolo, Israele, non può nep­
pure più essere posta agli schemi storici dell’apocalittica. Quale grado
di pertinenza può ancora avere il passato compiuto? Non vi è affatto
bisogno di esposizioni molto estese per mostrare che la presentazione
della storia dei patriarchi o di Mosè, la storiografia deuteronomistica
o anche quella delle Cronache avevano un ben diverso valore di attua­
lità per la loro epoca di quello che si potrebbe riconoscere ai som­
mari dei libri apocalittici. Il Cronista stesso — benché abbia dovuto
sforzarsi un po’ per giungere a tale scopo — può ancora concepire
la sua esistenza levitica come totalmente uscita dalle disposizioni sa­
lutari manifestate in Davide ed è pronto, senza l'ombra di esitazione,
a legittimarla partendo da questo punto. Ma questo interesse per la
storia, cioè questo sforzo di comprendersi in tutta la propria esistenza
in funzione delle grandi istituzioni di Jahve immanenti nella storia,
in breve, questa eminente attualità del passato è totalmente estranea
ai nostri sommari, cosicché gran parte del significato attuale della sto­
ria di Dio e d'Israele è andata completamente perduta. Tuttavia, an­
che per l’apocalittico, il corso della storia ha una grande importanza.
Si può decifrare nella sua precisa determinazione la totale sovranità
di Dio sulla storia e la sua divisione in periodi permette all’osserva­
tore di riconoscere la propria posizione nella storia, alla fine cioè del
primo periodo cosmico, prima dell’irruzione del nuovo. Si è detto con
ragione che queste apocalissi storiche avevano la funzione di prova.
La fine è vicina e Dio tiene gli avvenimenti saldamente in mano. Attra-

ia IV Esd 3, 4-27; cfr. G. Reese, Die Geschichte Israels in der Auffassung des friihen Judentums
(tesi dattiloscritta della facoltà di Heidelberg). 1967, 131.
19 G. Reese. op. cit., 86. 149.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEM PI 245

verso questa conoscenza, esse comunicano la consolazione. Nei com­


pendi storici del libro di Daniele, questo mutamento nella concezione
della storia è già compiuto nei suoi tratti essenziali. Il destinatario
di quest’insegnamento storico non appare di persona in questo libro;
possiamo soltanto dedurlo « a posteriori ». Ma non vi è il minimo dub­
bio che da questa visione della storia dovevano derivare la consola­
zione e l’esortazione a resistere con fermezza.
In quel che viene chiamato il IV libro di Esdra ci è conservata
un’apocalisse che cerca di interpretare l’epoca successiva alla grande
catastrofe di Gerusalemme, nel 70 circa d. C.20. Il « partner » chiamato
in causa prende la parola ponendo il problema della teodicea con
grande accanimento in un potente dialogo con l’angelo. Questo libro
è un documento che denota più di ogni altro uno sforzo teologico
estremamente spinto sia dal punto di vista dei problemi sollevati che
da quello delle risposte proposte. Non solo la violenza primitiva con
cui si pone il problema della teodicea, ma anche la forma di dialogo
in cui è stilato l’intero libro, fanno involontariamente pensare al poe­
ma di Giobbe. La problematica di Esdra è evidentemente diversa: egli
non può rivendicare come Giobbe l’integrità dei suoi rapporti con Dio.
Anzi! Esdra sa che l’umanità, da Adamo, è soggetta al potere della
morte e spinta da una tendenza al male (le due idee si trovano già
in Eccli 25, 24). Che cosa pensare dei piani che Dio sembra avere for­
mato nei confronti di Israele, se non ha indicato alcun cammino per
acquistare la salvezza offerta? Egli non ha soppresso in loro la cattiva
inclinazione (IV Esdra 3, 20). « A che cosa ci serve avere ricevuto la
promessa dell'eternità se abbiamo compiuto le opere della morte? »
(IV Esdra 7, 119). Questa impresa divina doveva quindi andare a vuo­
to; Esdra non è perciò capace di comprendere il terribile giudizio che
si scatena ora sui giudei. I Babilonesi — con questo appellativo egli
intende i Romani — non sono migliori, e tuttavia, non sono colpiti
dal giudizio (IV Esdra 3, 28. 31). La violenza della disperazione di
Esdra, ma anche la sua intransigenza di pensiero non facilitano la
risposta dell’angelo interprete. Costui non ritorce al disperato che
qualche breve frase. Così la sua risposta non è concludente, perché
il suo insegnamento affronta sempre un altro punto e procede assai
liberamente nel suo modo di argomentare. Ma se si riassume il tutto,
un'idea relativamente coerente si oppone nelle risposte dell’angelo in­
terprete agli interrogativi di Esdra. Per quel che riguarda la storia —
ed essa sola qui ci interessa — egli non giunge a consolare Esdra.
Non lo contraddice: la storia è catastrofica (IV Esdra 4, 27). Ma ap­

20 A questo proposito cfr. recentemente W. Harnisch, Verhangnis und Verheissung der Geschi-
chte. Untersuchungen zum Zeit- und Geschichtsverstàndnis im 4. Buch Esra und in der Syr. Baru-
chapokalypse (1969). Per il nostro discorso è importante la seconda parte del libro: « La dottrina
della necessità del processo storico (il determinismo apocalittico) », 248 ss. « Le “apocalissi stori­
che" hanno interamente la funzione di prova nel IV di Esdra e nel Baruc siriaco. Con esse, è
fornita la prova della coerenza della storia ed è esaltata l'idea della prossimità della fine » (op.
cit., 265).
246 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

punto per questo essa offre ad Israele la possibilità di essere provato,


per ricevere nel secolo futuro i beni salutari promessi. La promessa
di vita per Israele — questo Esdra lo dimentica — non è caduca. Dio
non ha creato una sola era del mondo, ma due (IV Esdra 7, 50). Sta
qui la grande consolazione pronunciata dall'angelo. Chi procede nel
secolo presente deve mettere la sua speranza in quello che gli succe­
derà, perché nel secolo presente tutti gli avvenimenti sono predeter­
minati con precisione da Dio nella loro successione. Nulla capiterà
che non sia stato previsto da Dio molto tempo prima.
Egli mi disse: Proprio all'inizio del mondo,
prima che i portici del cielo fossero eretti,
io ho previsto tutto ciò,
e tutto è stato creato per mezzo mio e da nessun altro al di fuori di me,
e così pure la fine da me prevista e da nessun altro. (IV Esdra 6, 1-6)
(Dio) dirige le ore e quel che capita in queste ore. (IV Esdra 13, 58)

Non è necessario sottolineare ancora una volta il totale cambiamen­


to di prospettiva rispetto al modo con cui le epoche precedenti con­
cepivano la « storia della salvezza ». Si parla certo dell'elezione di
Abramo (IV Esdra 3, 13 s.; 5, 23 ss.). Ma una volta questa elezione è
descritta in relazione con la creazione di Adamo (IV Esdra 6, 54). Si
fa una volta menzione di una promessa di protezione divina (IV Esdra
3, 15 s.) e brevemente deiredificazione della città di Gerusalemme
fatta da Davide (IV Esdra 3, 23). Lo scrittore apocalittico riconosce
un'importanza molto maggiore alla rivelazione della legge a Mosè, a
motivo della promessa che vi è legata. Ma, dato che i beni salvifici
non saranno reali che nel secolo futuro, tutti questi fatti storici ap­
paiono sotto una luce teologica totalmente diversa. È così che l'ele­
zione di Abramo ha avuto luogo allo scopo di rivelargli i segreti della
fine dei tempi (IV Esdra 3, 23 s.). Come abbiamo già detto, non pos­
siamo scoprire le necessità interne che hanno portato a questo totale
cambiamento nella concezione della storia. Questo cambiamento è
forse già contenuto « in nuce » nelle tesi fondamentali dell'Ecclesiaste
e precisamente nel suo rifiuto di riconoscere leggi storiche immanenti
al corso degli avvenimenti? E il Siracide non ha egli pure trascurato
la vecchia ottica della storia della salvezza nel suo « elogio degli ante­
nati »? Ma la cosa più interessante è che l'idea, in sé molto antica,
della determinazione dei tempi ha preso in un'epoca tardiva una dire­
zione fortemente teologica così da diventare l'elemento costitutivo di
una nuova concezione della storia.
Bisogna affermare con forza la certezza che Dio ha il potere di gui­
dare la storia dalla penultima (nella quale crede di trovarsi lo scrit­
tore apocalittico) alla sua ultima ora. In una situazione in cui ci si
sapeva così vicini alla liquidazione di tutta la storia passata, come
avrebbe potuto sussistere qualche interesse per inserire nel tempo
presente, per legittimarlo, ciò che era storico? Con una formulazione
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEM PI 247

più semplice: una concezione della storia è nata nel momento in cui
nessuno più rende grazie per le prove salvifiche di Dio nella storia.
Unico motivo di lode è la previsione della fine apocalittica21. Il senso
della portata degl'interventi passati di Dio per il presente sta per
scomparire. La storia è diventata materia di erudizione che si deve
ricordare per l'insegnamento, ma soprattutto per determinare corret­
tamente l'ora che si sta vivendo.

La breve scorsa che abbiamo appena compiuto nella letteratura apo­


calittica aveva presente soltanto l'idea della determinazione dei tempi.
Ci si è presto accorti che avevamo a che fare con un'idea che è stata
assolutamente costitutiva per il pensiero apocalittico. Ma sapere se
bisogna indicarla come specificamente apocalittica è un altro proble­
ma. Che ogni avvenimento è predeterminato, che Dio sa in anticipo
tutto quel che riguarda ogni creatura, ch'egli ha fissato un giorno per
ogni cosa, che ha scelto i tempi e non li sconvolge né li anticipa:
tutto ciò non poteva già dirsi almeno della convinzione fondamentale
del Siracide, se non già di Giuseppe e del suo duplice schema di sette
anni? Abbiamo letto nel Siracide (Eccli 23, 20) e nel libro di Giuditta
(Giudit 9, 5) che i tempi sono fissati in modo irrevocabile e che gli
occhi di Dio contemplano ogni cosa prima che essa avvenga. Bisogna
ammettere che l'idea si è più intensamente sviluppata nei particolari
e che il suo significato fondamentale per il pensiero storico è diven­
tato chiaramente più preciso. Ma ciò dipendeva da un approfondi­
mento teologico piuttosto che da una vera differenza d'insegnamento.
Ci si deve anche domandare se il Siracide aveva l'occasione, nel qua­
dro del suo insegnamento, di sviluppare l'argomento degli avvenimenti
futuri.
Non bisogna evidentemente tentare di fare del Siracide un apoca­
littico; sono piuttosto gli apocalittici che dovrebbero essere conside­
rati come saggi. Se il Siracide dice che Dio « annuncia il passato e
l'avvenire e svela le cose nascoste » (Eccli 42, 19), con ciò non fa che
delimitare il quadro in cui l'apocalittica si svilupperà ulteriormente.
Il tentativo di estrarre ciò che è proprio dell'apocalittica da un'altra
tradizione (quella profetica, ad esempio) non si è finora imposta in
modo convincente. Se si vede una delle caratteristiche essenziali del­
l'apocalittica nell'allargamento dello sguardo fino alla storia universale,
cioè nell'interesse per la successione degli imperi e per la causa della
loro fragilità, troviamo già nel Siracide una riflessione su quest'argo­
mento, che anticipa, grazie alla menzione dell'« hybris », della violenza,
gran parte dei grandi abbozzi apocalittici (Dan 2; 7; IV Esdra 11 s.).
Nelle mani del Signore è il governo del mondo;
Egli suscita al momento giusto il capo che è necessario...

21 Enoc 90, 40; Baruc siriaco 75; Dan 7, 14.


248 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

La sovranità passa da una nazione all’altra


con l'ingiustizia, la violenza e il denaro. (Eccli 10, 4. 8)"

Per l’apocalittica, la prospettiva di una fine della presente economia,


di un giudizio e dell’apparizione di un’era di salvezza, cioè un’orien­
tazione risolutamente escatologica, è di un’importanza capitale. Senza
dubbio è difficile definire come escatologica l’idea che gli avvenimenti
sono fissati dalla predestinazione e capitano di conseguenza al mo­
mento previsto; lo stesso vale per la profezia di alcune dilazioni o
per la concezione periodica dei processi storici. Non si tratta di que­
sto, ma è l’attesa di un vasto compimento della storia, già fissato
nella determinazione divina e nel quale, come si è visto, si realizza
l’avvenimento della salvezza. Ma neppure quest’idea è interamente
nuova; non si può affatto designarla come specifica dell’apocalittica23.
Il Siracide già pregava in una lamentazione:
Risveglia il tuo furore, risveglia la tua collera,
distruggi l’avversario, annienta il nemico,
affretta la fine, fìssa il tempo! (Eccli 36, 8. 10)

L’uso assoluto della parola « fine » (kés) non permette altra conclu­
sione che questa: il Siracide ha conosciuto e condiviso la speranza di
un compimento della storia. Tobit dice cose simili in previsione del
futuro in cui il Tempio sarà ricostruito (Tob 14, 5)24. Non si può quin­
di paragonare il Siracide con le grandi apocalissi, perché si tratta di
opere che perseguono un ben diverso scopo letterario. Sono rami del­
la conoscenza del tutto differenti che vengono sviluppati da una parte
e dall’altra. Si deve certamente tener conto di uno sviluppo intellet­
tuale e spirituale tra l’epoca del Siracide e quella delle apocalissi;
forse giustamente nel campo delle idee escatologiche. Incontriamo ora
la forma letteraria del discorso-testamento nella quale vengono pubbli­
cizzate conoscenze che erano finora segrete. Vi è l’idea delle ere del
mondo e di un giudizio finale che chiude le ere del mondo non come
un avvenimento guerresco, ma come un atto giudiziario solenne. Vi
sono idee cosmologiche largamente sviluppate, altre che riguardano
22 L'idea di una « translatio imperii » divina ha una preistoria interessante nell’A. T. K. Baltzer
ha insistito sul profondo cambiamento verificatosi nell’idea messianica con la fine dello Stato di
Giuda. (Dos Ende des Staates Juda und die Messias-Frage, in Studien zur Theologie der alttesta-
mentlichen Vberlieferungen (1961), 33 ss.). In Geremia, nel Deuteroisaia e nell'opera storica del
Cronista, quest'idea passa in primo piano: Jahve ha affidato a Nabucodonosor la sovranità mondiale
(Ger 27, 5 ss.); egli ha suscitato lo spirito di Ciro (2 Cron 36, 22), e lo ha pure legittimato come
suo Unto donandogli la sovranità (Is 45, 1 ss.). D’un tratto appare qui l ’idea che Jahve investe
della sovranità universale a un dato momento un grande re. Ci si può domandare se q u est’idea è
« apparsa * a quest'epoca. Tra l’idea degli imperi che si decompongono e la dottrina dei periodi
del mondo (Esiodo) originariamente non esistono rapporti. Il fatto che si trovino mescolate in
Dan 2 e 7 è un problema della storia delle tradizioni a parte.
23 Contro Ph. Vielhauer, Neutestamentliche Apokryphen, vol. II, 1964, 420. Vielhauer pensa che,
nell’apocalittica, l’escatologia è fondamentale, essendo accessori gli elementi della sapienza. Prese
individualmente le apocalissi possono dare quest'impressione; dal punto di vista della storia delle
tradizioni, le cose sono verosimilmente inverse: il sapienziale è l ’elemento fondamentale.
* La frase di Tob 14,5 dice: hios pterothòsin kairòi tu aiònos (BA) hèos tu chròrtu hu an
plerothè ho chronos ton kairòn (S). Cfr. a questo proposito B. Feicke, in RGG3, vol. I li alla voce:
Iranische Religion, Judentum und Urchristentum, 881 ss.
XIV. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEM PI 249

l'angelologia e la demonologia e che a prima vista appaiono come


nozioni globali del sincretismo iraniano e caldeo le quali sono entrate
nella letteratura del giudaismo tardivo25. Rimane da domandarsi se
tutto ciò non si concepisce più facilmente come un fatto organico nel
senso di una sapienza che si è diversificata in tutto un ventaglio di
settori della conoscenza “. Non sarebbe la prima volta che la sapienza
d'Israele si è aperta ai risultati di una conoscenza straniera. Non co­
nosciamo certo il momento in cui questi elementi irano-caldei sono
stati adottati. Certamente il Siracide non ignorava Enoc, il cui ruolo
si è visibilmente confuso con quello del saggio leggendario dell'epoca
antidiluviana, come detentore di tutti i segreti terrestri e celesti. Egli
lo chiama « miracolo di conoscenza per tutte le generazioni » (Eccli
44, 16). « Per tutte le generazioni » vuol quindi dire che il suo sapere
ha un valore attuale che supera assolutamente i limiti della sua vita.
È verosimile che queste nozioni molto diffuse siano state adottate
soltanto in un’epoca in cui erano già apparse in grandi opere enci­
clopediche?
Sarebbe importante sapere se la predizione di avvenimenti immi­
nenti, in particolare per mezzo di segni o attraverso la loro interpre­
tazione, è appartenuta anche in Israele alla competenza dei saggi. Di­
sgraziatamente la loro eredità letteraria non offre a questo proposito
nessun reale punto d'appoggio. Ma alcune collezioni di regole di vita
individuale ne offrivano forse la possibilità e l'occasione? Il racconto
di Giuseppe che proviene dagli ambienti sapienziali, celebra Giuseppe
come un interprete competente di sogni e un rivelatore degli avveni­
menti futuri, e Daniele si trova in questa stessa linea. Il fatto che
abbiamo a che fare in larga misura con dei « vaticinia post eventum »
non deve turbarci, poiché le predizioni dopo l’avvenimento non sono
che l’imitazione, condensata in forma letteraria, di vere predizioni.
Alla luce di questa problematica, tutto un gruppo di testi dell’antico
Egitto, cioè quelle che finora sono state chiamate le profezie, potreb­
bero prendere un nuovo significato. Finora sono stati paragonati sol­
tanto con le profezie dei profeti dell’A. T., e con un risultato in pre­
valenza negativo27. Ma i loro autori sono dei saggi, quindi volta per
volta un maestro « che predice prima che il fatto avvenga e vede pri­
ma che il fatto capiti ». Questa forma di predizione — anche politica
— era in Egitto competenza dei saggi. È assai interessante trovare
nella celebre vita sapienziale di Merikare un passo di tutt’altro genere
25 Cfr. a questo riguardo le spiegazioni particolareggiate di Bousset-Gressmann, Die Religion des
Judentums im spdthellenistischen Zeitalter (1926). P- 469 ss.
26 S. Morenz ha esposto il ruolo giuocato dall’idea della determinazione divina nel pensiero
religioso degli antichi Egiziani — in particolare dei maestri di sapienza: Untersuchungen tur Rolle
des Schicksals in der àgyptischen Religion, in « Abhandlung der Sachsischen Akademie der Wissen-
schaft zu Leipzig», Philosophisch-historische Klasse, voi. 52, n. 1, 1960. È stato scoperto un testo
sapienziale dell'antica Ugarit, il cui ritornello dice: « Per opera di Ea sono tracciati i piani (pri­
mordiali). Secondo il suo beneplacito divino le sorti sono ripartite» Nougayrol, op. cit., 294s. Vedi
p. 19, nota 8.
27 S. Herrmann, Prophetie irt Israel und Agypten, Recht und Grenze eines Vergleichs, in VT
Suppl 9, 1962, 47 ss.
250 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE I I I

che vi è stato inserito e nel quale si trova la frase: « Eserciti oppri­


meranno altri eserciti, come l'hanno predetto gli antenati » Come a
ragione è stato detto, non si tratta qui di un carisma particolare, del
potere di svelare l'avvenire che altrimenti rimarrebbe nascosto, ma
« della convinzione che il mondo cammina secondo regole che si pos­
sono conoscere » e « che bisogna tener conto di un piano storico che
è fissato da lunga data e che è accessibile alla conoscenza » a. Chi non
penserebbe subito airapocalittica? D'altra parte, la differenza tra la
sapienza delle regole di vita individuale e quella della percezione del­
l'avvenire non appare così grande, poiché tutt'e due sono in ascolto
degli avvenimenti e ricercano delle regole. Forse dietro le predizioni
apocalittiche esistono devastazioni militari e altre cose simili, con cui
vi sono paralleli nei testi egizi più antichi, un importante materiale
tradizionale di alta antichità. Se si considera verosimile che la predi­
zione del futuro sia stata competenza dei saggi d'Israele, occasional­
mente, ad esempio, nelle epoche di oppressione e che essi siano stati
pure «versati nella scienza dei tempi» (Est 1, 13), si dovrà ammet­
tere che i frutti della loro produttività, per una qualsiasi ragione, non
hanno potuto essere raccolti. Le regole di vita destinate all'individuo
han potuto, da sole, occupare tutto lo spazio. È comunque vero che
il materiale tradizionale della visione dei quattro imperi di Dan 2, cer­
tamente anteriore ai Maccabei e all'apocalittica, ci offre un punto d'ap­
poggio sul modo con cui i saggi interpretavano l'avvenire. Soltanto
nell'apocalittica però questa funzione, che poteva ben essere molto
antica, giunge a un'espressione letteraria, e il materiale che la riguar­
da, si impone come materia d'insegnamento30. Riusciremo a vedervi
più chiaro solo quando sarà stato fatto un serio confronto tra le pre­
dizioni « ex eventu» dellapocalittica e il genere molto ramificato delle
predizioni « politiche » che troviamo nella letteratura egizia tardiva e
in quella greca e romana31.
L’idea della determinazione dei tempi è quindi anteriore all'apoca-
21 M eritare 68-69.
29 Su q u est’insieme di problemi, cfr. H. Brunner, Die • Weisen », ihre « Lehren » und « Prophe-
zeiungen » in altàgyptischer Sicht, in ZAS 93, 1966, 29 ss. Da lui sono prese le citazioni e le men­
zioni qui proposte: « Ho scrutato il tempo e predetto ciò che sarebbe capitato. Io me ne intendevo
in fatto di visioni sul futuro, poiché avevo scrutato il giorno di ieri e pensato al domani e sapevo
come comportarmi con ciò che stava per capitare ». Un pedagogo di principi si presenta come
qualcuno « che predice prima che il fatto avvenga e vede prima che il fatto capiti ».
30 II sogno dell'apocalisse delle nubi nel Baruc siriaco 53 è relativamente semplice nelle sue crea­
zioni immaginose. Baruc vede salire dal mare una nube gonfia di acqua bianca e nera; nel suo
margine superiore, egli scorge qualcosa come un fulmine. Questa nube ribolle sopra la terra e fa
piovere su di essa l'acqua nera e l'acqua bianca. Infine, essa fulmina la terra con il lampo che la
illumina tu tta intera. Da questo sogno, la cui descrizione occupa undici versetti, viene tratta un'in­
terpretazione che abbraccia tutta la storia, da Adamo alla venuta del Messia (cc. 56*74 = cento-
trentaquattro versetti!). La sproporzione quantitativa tra il sogno e l'interpretazione non ci mostra
forse, come già abbiamo dovuto imparare a proposito dei sogni di Daniele, che bisogna distin­
guere tra sogno e interpretazione? Lo schema della visione non è affatto calcato sulla storia poli­
litica, ma proviene da un materiale tradizionale più antico che ha dovuto essere svolto e sminuz­
zato in determinate particolarità per poter essere adattato alla storia precedente. Ad esempio, io
vedo questo modo di sminuzzare l'immagine nell'affermazione che l'avvicendarsi tra l'acqua bianca
e l'acqua nera è durato dodici epoche (53, 6), poiché questo particolare rivela tutta l'impalcatura
dell 'interpretazione.
11 Sulle profezie politiche « ex eventu », cfr. M. Hengel, Judentum und tìclìenismus (1969), 330 ss.
xrv. LA DETERMINAZIONE DIVINA DEI TEM PI 251

littica32. Disgraziatamente non possiamo dire nulla circa le cause par­


ticolari che hanno provocato un cambiamento così profondo nel pen­
siero storico. In questo caso, si avverte vivamente la grande lacuna
letteraria che si è prodotta tra il 400 e il 200 a. C. (Non possiamo
citare con certezza nessuna opera letteraria di quest'epoca).
In quella che vien chiamata l'apocalittica, l'idea della determinazio­
ne dei tempi ha preso una forma molto teologizzata e si è sviluppata
in una quantità di nuove germinazioni. Essa appare allora in stretto
legame con un interesse molto vivo del pensiero storico per l'escato­
logia che, come si è visto, all'origine non era assolutamente uno dei
suoi elementi costitutivi. Quel che è nuovo, è la sua relazione con la
dottrina molto discussa dei due eoni. È possibile in fin dei conti che,
stimolati da idee iraniane, ci si sia messi a distinguere due economie:
l'una che tende verso la fine, l'altra che « viene » e nella quale la so­
vranità di Dio fin qui nascosta si manifesterà attraverso tutti i beni
salvifici di cui dispone. Da questo momento la rottura con la conce­
zione d'insieme della storia come la conosceva l'antico Israele era to­
tale, poiché mentre in questa la salvezza destinata da Dio all'uomo era
situata nel passato e diventava determinante per il presente, in quel-
l'altra si attendeva la salvezza dal futuro, dall'irruzione del nuovo eone.
Sotto l'effetto di quest'idea completamente trasformata della salvezza
divina, l'interpretazione della storia ha subito per così dire un ribal­
tamento di 180 gradi, poiché ormai la storia non è più interpretata a
partire dal passato, ma a partire dalle cose ultime.

Aggiungiamo una breve nota su una presentazione sapienziale della


storia del tutto diversa, cioè sullo svolgimento della storia com'è de­
scritto nel libro della Sapienza di Salomone e che va dal primo uomo
fino al miracolo del mar Rosso (Sap 10 - 19). In questa narrazione
della storia, manca l'aspetto escatologico, come d'altronde mancano
la divisione in periodi e — globalmente parlando — la prospettiva dei
tempi fissati 33. Soprattutto non si può parlare qui della scomparsa di
un senso della storia valido per il presente. Anzi, tutto quel che si è
verificato, fin nei particolari, è a disposizione dell'uomo d'oggi perché
sia interpretato; tutto ha avuto un senso che si può decifrare negli
avvenimenti. Questo è capitato per educare, quello per mettere in
guardia, quello ancora per consolare o giudicare. Ogni fatto isolato

32 Una dichiarazione esplicitamente deterministica si trova in Sai 139, 16. Ab 2, 3 ed Ez 2, 9


appartengono terminologicamente ad un gruppo di idee deterministiche, cfr. P. von den Osten-Sacken,
Die Apokalyptik in ihrem Verhàltnis zu Propheiie und Weisheit (1969), 48 ss. Ma i passi suddetti
sono stati intesi in questo modo? Malgrado il suo « libro celeste », la predicazione di Ezechiele è
estremamente indeterministica. Tali reminiscenze mostrano soltanto che idee deterministiche erano
nell'aria in Israele, più di quel che pensiamo. All’opposto, vi è il fatto che la predicazione dei
profeti non ha alcun rapporto con questo gruppo di idee. Nei profeti postesilici può essersi pro­
dotto un certo cambiamento a questo riguardo.
33 Una volta, riflettendo sul castigo degli Egizi, l'autore riconosce: « Ma tu hai tutto regolato
con numero, peso e misura » (Sap 11, 20). L'espressione mostra ancora una volta quanto quest'idea
era familiare allo spirito dell’epoca. Ma non si può dire che essa impregnava tutta la concezione
della storia propria dell'autore. Si tratta qui piuttosto di un argomento occasionale.
252 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE III

trasmette spontaneamente alle generazioni, anche le più lontane nel


futuro, una dottrina ben definita. I motivi dell’azione divina sono evi­
denti; la storia è diventata perfettamente trasparente dal punto di
vista della ragione e della morale. Ciò permette all’autore di presen­
tarla con una forza di penetrazione che Israele non aveva ancora in­
contrata. Da oltre un millennio, la storia parla con un'immediatezza
sorprendente. Se si pensa infatti alla difficoltà che hanno sperimen­
tato lo scrittore jahvista ed anche il deuteronomista nel trovare un
significato divino agli avvenimenti che forniva loro un materiale tra­
dizionale piuttosto ingombrante; e soprattutto se si constata che que­
sti autori non hanno fatto quel che continuamente mette in pratica
l’autore della Sapienza di Salomone quando interpreta ogni racconto
tratto per tratto, ma hanno lasciato sussistere in quei racconti la den­
sità loro propria che non può essere razionalmente riordinata, si ve­
drà chiaramente in questo caso la profondità del cambiamento che si
è prodotto nella concezione della storia. In una maniera siffatta di
utilizzare le tradizioni storiche, la sapienza si avvicina molto all’apo­
calittica. In entrambi i casi, la storia è diventata materia di insegna­
mento, da cui si possono trarre senza grande fatica conoscenze per il
tempo presente. Ci si può però domandare con ragione se nella Sa­
pienza di Salomone è ancora storia quella che viene attualizzata o non
sono piuttosto degli insegnamenti che si possono perfettamente stac­
care dalla storia. La conoscenza dell’uomo e della sua mentalità che
si esprime in queste esposizioni storiche è certamente considerevole e
sorprendentemente sfumata. In particolare nelle descrizioni dell'impri-
gionamento degli uomini nella cecità, nell’angoscia e in strettezze an­
cor più sinistre, l’autore entra in dimensioni non ancora raggiunte
fino a questo momento dalle conoscenze psicologiche d’Israele34.

34 Un passo di Sap 17 è tradotto a p. 125.


PARTE IV

CONCLUSIONI
È possibile dire ancora qualcosa di conclusivo senza pregiudicare
la quantità delle materie affrontate e la diversità dei problemi posti?
Bisognerebbe innanzitutto giustificare il posto a parte assegnato ai
testi sapienziali e che è il punto di partenza, apparentemente poco cri­
tico, delle nostre ricerche. Il nostro studio si è limitato al gruppo di
scritti didattici che tradizionalmente vengono designati come sapien­
ziali. Il nostro problema non era di sapere se il cerchio degli scritti
sapienziali dev'essere allargato, se la nozione di « sapienza » dev'essere
estesa in questa o quella direzione. Nel caso in cui decidiamo di affron­
tare seriamente e in una forma nuova questo problema, pensiamo che
si può rispondervi correttamente solo se si comprende meglio il modo
di pensare, la problematica particolare e le conoscenze della sapienza
che si presentano direttamente come didattiche. Disgraziatamente tutto
concorre a convincerci che i « libri sapienziali » ammessi nell'A.T. de­
vono essere considerati solo come una piccola parte della produzione
didattica d'Israele. L'Ecclesiaste dice di se stesso: « Ho cercato di inve­
stigare accuratamente con la sapienza tutto ciò che avviene sotto il
cielo » (1, 13). Egli ha esposto soltanto una piccola parte di questi studi
e si può dire altrettanto per molti altri maestri di sapienza. Si deve
quindi ammettere che è soltanto una certa parte di libri didattici,
soprattutto quelli che si rivolgevano a una cerchia di lettori più gene­
rale — quella che vien chiamata « sapienza di vita » — che si è con­
servata attraverso i secoli. A quale fonte può dunque aver attinto il
poeta del discorso di Dio in Giob 38 s., per poter sviluppare una « scien­
za naturale » così multiforme? Egli ha dovuto disporre di un materiale
letterario molto ricco. Giobbe e il Siracide si sono sicuramente serviti
di testi « onomastici », nessuno dei quali ci è giunto. Alcune regole
d'interpretazione dell'awenire — quindi la scienza dei sogni premoni­
tori — non appartenevano forse alla competenza dei saggi? L'apocalit­
tica che ne è immediatamente seguita non ha fatto sorgere dal nulla
questi materiali e parecchi altri. Nel libro della Sapienza il Salomone
256 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

immaginario scrive una volta circa il significato della sapienza per


l’uomo. Le sue frasi sono interessanti poiché hanno il carattere della
descrizione di un oggetto:
Essa insegna temperanza e prudenza, giustizia e coraggio,
ora nulla nella vita è più utile agli uomini.
Si desidera ancora un sapere esteso?
Essa conosce il passato, congettura l’avvenire;
riesce a interpretare le massime e a decifrare gli enigmi,
essa sa in anticipo segni e prodigi,
così come la successione delle epoche e dei tempi. (Sap 8, Ib. 8)

Nella prima metà del testo, si riconoscono senza fatica sotto lo stile
ellenizzante i temi dell'antica sapienza pratica, l’educazione alla mode­
razione, alla perspicacia, alla rettitudine, ecc. Ma poi sono indicati dei
campi di conoscenza come la scienza dei segni premonitori, l'interpre­
tazione del futuro, che probabilmente non sono diventati competenza
dei maestri solo in un'epoca tardiva
Siamo quindi obbligati a considerare l’ambito delle scienze prati­
cate in Israele come notevolmente maggiore, pur senza potere, in man­
canza di documenti, determinarlo più precisamente. Non è verosimile
che la filologia, coltivata da tempi remoti in Babilonia, abbia avuto
anche in Israele un posto preminente e la menzione di un paio di
costellazioni non permette di concludere che ci si occupasse seriamente
di astronomia. Alcune liste di animali come pure la descrizione precisa
di animali esotici tradiscono un interesse zoologico. Si dovrebbe collo­
care la tavola delle nazioni (Gen 10) nella categoria della geografia
politica. Qui Israele presenta dei risultati sorprendenti: la nomencla­
tura genealogica dell’universo delle nazioni secondo la loro apparizione
storica è un fatto unico, molto al di là dell'antico Oriente. Il fatto che
la tavola delle nazioni si presenti a noi in una redazione antica (jahvi-
sta) e più recente (sacerdotale) permette di risalire a tutta una tradi­
zione di lavoro scientifico di cui solo i risultati sono giunti fino a noi.
Quel che non sappiamo, è se questo lavoro spettava ai saggi. Ma ci
si può domandare seriamente se la « scienza storica » coltivata in
Israele su una base molto estesa, come si sa, non dovrebbe prender
posto in questo catalogo. Tuttavia, qualunque cosa si faccia per cor­
reggere la nozione scolorita di « sapienza » diventa ormai soltanto
un'etichetta formale, si fanno avanti un certo numero di obiezioni,
di cui ora parleremo.

1 Si dovrebbe esaminare anche il « catalogo » dei campi di conoscenza di Sap 7,18-20; se ne è


parlato alle pp. 24, 113 s.
CONCLUSIONI 257

I.

Israele, come tutti i popoli, era in cerca della « regola logica »2.
« Regola » significa qualcosa di valore permanente, su cui si può con­
tare; « logica » significa che questa regola è universalmente evidente
e può essere immediatamente confermata e controllata dalla ragione.
Tuttavia è nella natura delle cose che questa validità e questa evidenza
non siano assolute, non escludano in anticipo ogni possibilità di discus­
sione, non vietino opinioni contrarie, in breve che la regola possa essere
modificata o finalmente sostituita da una migliore. Ci troviamo così
posti di fronte ad una prima definizione della natura della sapienza,
a dire il vero ancora molto generale. Di tutti i testi di cui abbiamo
dovuto occuparci, si può dire che sono in cerca di questa regola
logica o meditano su di essa.
Con questa definizione, una profonda separazione verrebbe stabilita
tra gli sforzi di conoscenza dei maestri di sapienza da una parte e
quella dei narratori e teologi della storia dall'altra. A giusto titolo d'al­
tronde, poiché l’attività intellettuale dei due gruppi è totalmente di­
versa e gli oggetti da loro studiati altrettano diversi. In un caso,
l’uomo ebreo passava in rassegna il quadro della propria vita partendo
da regole solide e raccoglieva quel che si può esprimere in leggi.
Nell’altro caso, egli incontrava decreti storici irreversibili di Jahve che
non si lasciavano sottoporre a regole e che apparivano a tutta prima
sotto il segno deH’avvenimento che ha luogo una sola volta. Nel primo
caso, si trattava di constatare una validità atemporale, esperienze
umane generali; nel secondo, si aveva a che fare con avvenimenti che
avvaloravano dei dati politici e cultuali unici nel loro genere. Vi era
anche un’altra differenza: da un lato, la ragione in cerca di regole
si dilatava nella conoscenza del mondo che circonda l’uomo e nella
ricerca di una signoria della vita; dall’altro lato, nelle circostanze della
storia come Israele se la rappresentava, l’iniziativa rimaneva a Jahve.
Con i suoi interventi salvifici (alleanza con i padri, esodo, alleanza del
Sinai, alleanza con Davide, ecc.), egli aveva colto di sorpresa gli uomini
e, nel suo modo di guidarli, essi erano oggetto di prove ch’egli imponeva
loro. È chiaro che anche nella conoscenza storica d’Israele la ragione
era attiva nel porre questioni e nell’elaborare soluzioni. Caratteristica
della sua attività, è che essa si è sempre meno accontentata di dipin­
gere particolari episodici e aneddotici, fatti isolati, e che ha aspirato
con un'audacia crescente ad abbracciare periodi storici sempre più
vasti. Nessuno degli innumerevoli racconti particolari che riferiscono
un avvenimento (tratto dal quadro) in cui l’uomo entra in rapporto
con Dio rimane isolato in se stesso. Tutti vanno intesi come gli elementi

2 H. FrSnkel, Dichtung und Philosophie des friihen Griechentums (1962), 293,


258 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

di un vasto insieme. Questo tentativo di percepire una « continuità »


si mostra già nelle « composizioni » minori, come il racconto di Ge­
deone (Giud 6 - 8), la descrizione degli avvenimenti della conquista
di Canaan (Gios 2-10) fino ai vasti affreschi delle opere storiche deute-
ronomistica e cronistica in cui la cosa è così manifesta che non è
necessario parlarne più a lungo3.
Se questi grandi raggruppamenti sono così influenzati dairintervento
unico di Jahve e da un riconoscimento, così singolare neirOriente
antico, della contingenza di tutto ciò che è storico — e che nessuna
teoria ideologica può interamente assimilare — Israele, tentando di
abbracciare periodi storici così vasti, si è trovato sempre più di fronte
a un nuovo problema, quello degli elementi costanti della storia, il
problema cioè di sapere se la complessità dei fatti che capitano una
sola volta non sia più apparente che reale e se non si possa vedervi
una ripetizione. È tipico della comprensione storica d'Israele che la
constatazione di ciò che è permanente nella storia è stato per questo
popolo solo un cammino secondario, mentre la concezione della storia
neH'antico Oriente partiva proprio da ciò che è tipico e schematico e
si è difficilmente scostata da questa linea4. Solo in un'epoca abbastanza
recente anche Israele ha tentato di cogliere nella storia ciò che essa
comporta di costante e di permanente, secondo un certo schematismo.
Così avviene nel prologo del libro deuteronomistico dei Giudici (Giud
2, 6 - 3, 6) in cui l'autore inizia a stabilire un rapporto tra l'azione
storica di Dio e la disobbedienza costante e ripetuta del popolo. Eze­
chiele ha spinto più lontano questo schematismo nel suo abbozzo della
storia delle origini d'Israele (Ez 20). Anche in questo caso, Israele era
in cerca di una « regola logica ».
Ma questo problema molto specifico, riguardante da una parte ciò
che è unico nella storia, dall'altra ciò che si ripete, problema che il
deuteronomista si è posto, non può essere messo in relazione con lo
sforzo di conoscenza dei maestri di sapienza di cui ci siamo qui occu­
pati. D'altronde — argomento di grande peso! — ci si serve nell'un
caso come nell'altro di una lingua e di una serie di concetti molto
diversi.
Recentemente, è stata fatta da diverse parti la proposta di conside­
rare la nozione di sapienza in modo più largo e di associarvi le opere

3 Nessuno ha contestato che anche i popoli vicini ad Israele abbiano percepito interventi degli
dei nella storia. Ma vi era in essi questo bisogno tenace di giungere alla conoscenza di una
continuità storica di vaste proporzioni? Nessuno può sostenere che questi popoli si sono sentiti
costretti a legittimare la loro esistenza e le loro relazioni con la divinità in abbozzi storici sempre
nuovi e sempre più ambiziosi. Quest’aspetto così importante del pensiero storico d'Israele non
appare in B. Albrektson, History and the Gods (1967). Invano vi si cerca la rilevanza specifica-
m ente teologica della storia. Non si afferra perché questa presentazione della storia elaborata
da Israele in tentativi sempre rinnovati non sarebbe una « nozione obbligatoria » per lo specialista
della Bibbia, se vuole comprendere come si è prodotta la « rivelazione » d ’Israele (contro J. Barr,
Alt und Neu in der biblischen Vberlieferung, 1967, 62).
4 H. Gese, Geschichtliches Denken im al ten Orient und im Alteri Testament, in ZThK 55. 1958.
127 ss., soprattutto 136.
CONCLUSIONI *59
narrative più antiche5. « Sapienza » non designerebbe una forma lette­
raria precisa del discorso e del pensiero: è perfettamente giusto. Ma se
prendiamo sul serio la sapienza nel suo modo specifico di pensare,
diventa difficile associarvi le « opere storiche » precedenti, poiché esten­
dendo in tal modo il concetto, non giungeremmo ugualmente a una
forma definitiva di pensiero comune. Come abbiamo già mostrato, gli
sforzi di conoscenza dei maestri e la loro produzione letteraria sono
stati così specifici che siamo nel giusto considerarli un fenomeno a sé.
Altrimenti, dove si potrebbe ancora tracciare una linea di demarca­
zione? Certo, è vero che alcune nozioni sapienziali si sono disseminate
lontano e che se ne incontra occasionalmente nelle narrazioni storiche.
Non vi è in ciò nulla di sorprendente, poiché quest'insegnamento non
proveniva affatto da qualche dottrina segreta, ma era diventato il frutto
comune di una cultura. Più che altrove, questo pensiero appare nel rac­
conto della successione al trono di Davide che è certamente stato
scritto da un uomo della corte di Salomone. Ma malgrado tutto, la
problematica religiosa e gli obiettivi a cui tendono queste opere son
ben diversi. Precisiamo la diversità solo su due punti:
1. L'insegnamento sapienziale aveva bisogno di una legittimazione.
Colui che insegnava la otteneva talora riferendosi alla tradizione con
cui era in accordo. Lo stesso avveniva con un riferimento all'ordine
primordiale di cui i maestri ritrasmettevano l'invito perché esso ne
aveva dato loro il potere. Ben inteso, il riferimento a Jahve stesso era
ancor più efficace. Uomini come Eliphaz ed Elihu si sono riferiti in
modo cerimonioso all'origine divina del loro insegnamento. Così fa­
cendo, essi si appoggiavano su idee profetiche. Un solo fatto è interes­
sante a questo riguardo: essi sentivano la necessità di offrire una
garanzia. Anche la formula che serve di programma all'inizio del libro
dei Proverbi, e cioè che il timore di Jahve è l'inizio della sapienza,
è a suo modo una legittimazione delle istruzioni particolari che se­
guono. Si poteva presentarle solo all'interno della conoscenza di Jahve.
A questo proposito come stanno invece le cose nelle grandi e nelle
piccole opere narrative? Non vediamo da nessuna parte che un narra­
tore faccia il minimo tentativo per giustificarsi. È un fatto ugualmente
curioso, poiché le tradizioni che all'occorrenza erano esposte avevano
un'importanza immensa per Israele. Ma è evidente che quel che veniva
raccontato, la tradizione attualizzata, possedeva in proprio un'evidenza
che rendeva inutile ogni legittimazione fornita dal narratore.
2. Nei capitoli precedenti si è spesso parlato della ricerca ragionata
delle regole e della valutazione didattica di tutte le esperienze che sono
state fatte riguardo alle direttive di Dio. Ma abbiamo anche visto con
qual attenzione i maestri notavano i limiti imposti alla loro sete di
conoscere. Il mondo che essi si sforzavano di conoscere era racchiuso
5 In particolare da J. L. McKenzie, Reflections on Wisdom, in JBL 86, 1967, 1 ss.; J. Barr,
op. cit., 69 ss.
2Ó0 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

nel grande mistero di Dio. Era un mondo nel quale si riconosceva che
« è gloria di Dio il nascondere le cose agli uomini » (Prov 25, 2), un
mondo in cui Dio compiva azioni immense ed imperscrutabili, mera­
viglie senza numero.
A lui appartengono il potere e il terrore:
egli fa regnare la pace nell’alto dei cieli.
Si possono contare le sue schiere,
e sopra di chi non sorge la sua luce? (Giob 25, 2-3)
Sì, Dio è così grande che supera la nostra scienza,
e il numero dei suoi anni rimane incalcolabile.
È lui che trattiene le gocce d'acqua,
e fonde in pioggia i suoi vapori;
le nubi la scaricano,
la fanno scorrere sulla folla umana...
Chi comprenderà ancora il cammino delle nubi,
il rumoreggiare cupo del tuono che viene dalla sua tenda...?
Dio tuona in modo meraviglioso con la sua voce, (Giob 36,26-29)
compie opere grandiose che ci superano...
Ascolta questo, Giobbe; soffermati
e rifletti alle meraviglie di Dio!
Sai tu come Dio comanda loro
e come la sua nube faccia balenare il lampo?
Sai tu come sospende >le nubi in equilibrio,
prodigio di una scienza perfetta?
Tu, i cui vestiti si scaldano
quando la terra riposa immobile sotto il vento del sud,...
insegnami che cosa dovremo rispondergli,
noi che non connettiamo per le tenebre.
...Lui, TOnnipotente, non possiamo raggiungerlo,
supremo per la forza e l'equità! (Giob 37, 5. 14-17. 19. 23)

Questa concordanza deirinsegnamento degli amici di Giobbe è im­


portante per noi, poiché serve a definire, tra l'altro, l'immagine del
mondo che essi si sono fatta. Lo spazio in cui la ragione può muoversi
è ristretto; è circondato dalle mura insuperabili dell'inesprimibile.
Questi maestri a cui si è attribuito così sovente un razionalismo a
terra sono pure i cantori dei misteri divini. Anzi: il mistero divino è
diventato esso pure oggetto d'insegnamento6. Rientra così nella mis­
sione di questi maestri il parlare non solo di quel che si può cono­
scere, ma anche dell'inconoscibile, poiché quel che si conosce non ha
alcun rapporto con ciò che è nascosto all'uomo:
Tutto ciò è l'esterno delle sue opere
e noi non ne cogliamo che una debole eco!
Ma il tuono della sua potenza, chi lo comprenderà? (Giob 26, 14)

6 Nella letteratura didattica più recente, non si può citare alcuna parola privilegiata per tra ­
durre l ’idea di « mistero ». La cosa in questione viene rappresentata, come si è detto sovente,
ma non è definita concettualmente. Solo nel Siracide il concetto di « nascosto * prende una certa
densità (nistirdt 4, 18; 42, 19; 48, 25. Cfr. anche Eccli 3, 21-24 e Deut 29, 28). Il saggio riflette
sui « m isteri », secondo Eccli 39, 7. R. E. Brown, The Semitic Background of the Term Mystery
in the New Testament (1968), 8 ss. Per il mistero escatologico viene usata nel libro di Daniele
la parola persiana ras.
Rimangono molti misteri più grandi di questi,
non abbiamo visto infatti che un piccolo numero delle sue opere.
(Eccli 43, 32)

I misteri, pensano i maestri, conducono all'adorazione colui che li


medita. Di regola si parla del mistero in stile innico. Raramente se ne
parla come di una cosa che opprime l'uomo mettendolo alla prova o
che lo conduce al limite della disperazione.
Mi sono stancato, o Dio, mi sono stancato, o Dio,
nel tentativo di comprendere.
Io ero più stupido di un uomo
e senza alcuna intelligenza umana.
Non ho imparato la sapienza
e ignoro la scienza dei santi.
Chi è salito al cielo e chi ne è ridisceso? (Prov 30,1-4a ) 1

Ripetiamo qui la domanda: dove mai uno dei narratori dei racconti
storici ci fa intravedere qualcosa di quest'aspetto della comprensione
del mondo? dove mai dice che una zona immensa del mistero divino
circonda i fatti narrati, dove lascia capire ch'egli si muove, come narra­
tore, nel campo di ciò che può essere spiegato, poi nuovamente del-
l'inspiegabile? dove ci fa intuire che ha tenuto conto della possibilità
di ingannarsi circa il suo oggetto? Gli avvenimenti si situano nella luce
della comprensione umana, limpidi come l'acqua di sorgente, netti nei
contorni. I fatti riferiti non appaiono mai come elementi di un governo
divino che si perde costantemente nel mistero. Bisogna concludere
che i saggi pensavano diversamente dagli « storici » a proposito delle
possibilità di conoscere l'oggetto della loro investigazione. Per essi,
questi oggetti erano lungi dall'essere evidenti. Quando si trattava di
valutare il processo generale degli avvenimenti nel mondo, l'incognito
di Dio era molto più costringente, il margine delle possibilità d'inter­
pretazione molto più vasto, cosicché la dimensione del mistero pren­
deva un'importanza teologica molto maggiore8.
Tutto ciò ribadisce la nostra idea, che sia necessario separare gli
sforzi di conoscenza dei saggi da quelli dei narratori dei fatti della
storia d'Israele9. Dobbiamo accontentarci di ammettere che gli sforzi
7 Questa traduzione si avvicina il più possibile al testo ebraico. Ma sono molti coloro che
dubitano della sua autenticità e la correggono; cfr. G. Sauer, Die Spriiche Agurs (1963), 97 ss.
■ Anche su questo punto, l'apocalittica tradisce il suo radicamento nella sapienza. Essa non
può accontentarsi di esporre i misteri divini.
9 Che ne è quindi dello Jahvista che costantemente viene posto in prossimità degli ambienti
della «sapienza» (da ultimo, H.-J. Hermisson, op. cit., 126 s. 133)? Nella sua opera si trovano
senza dubbio parecchie caratteristiche dell'insegnamento sapienziale: tra le altre la sua visione
razionale del mondo umano, il suo interesse per la psicologia, la sua distanza dal mondo cul­
tuale. Occorre tuttavia ricordare che l ’atmosfera liberale dell'ambiente di corte di Salomone non
può affatto essere considerata come un semplice prodotto della sapienza. Diversi fattori entrano
in gioco; abbiamo quindi a che fare con tendenze che, tra l'altro, possono aver influito anche
sulla sapienza. Per quanto riguarda il « kerygma » dello Jahvista, in particolare le sue allusioni
all'opera di benedizione che Jahve prepara da tempo nella storia d'Israele, non vi è alcun punto
in comune con la sapienza (H. W. Wolff, Das Kerygma des Jahwisten, in Gesammelte Studien
1964, 345 ss.). La domanda: « In quale misura e a proposito di che cosa si possono percepire
influenze sapienziali (in Gen 2 s., ad esempio)? », è meglio porla a qualche materiale riordinato
dallo jahvista; vi è però altro materiale per il quale, la domanda non si pone. Come si pre-
2Ó2 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

di conoscenza dei saggi, la ricerca cioè delle regole e la loro valuta­


zione, era un lavoro « sui generis » che aveva per centro le scuole.
Del resto, questo dualismo lo ritroviamo anche presso gli antichi
Greci e il punto d'incontro può essere trovato, anche in questo caso,
solo indirettamente, a titolo di ipotesi10. Se restiamo coscienti di queste
differenze che avevano visibilmente il loro motivo profondo nella diver­
sità dell'oggetto, si potrà anche parlare di caratteristiche comuni, poi­
ché vi è qualcosa di comune nel modo con cui l'oggetto viene affrontato
da una parte e dall'altra; le disposizioni e le direttive storiche potevano
essere esposte solo all'interno della conoscenza di Jahve; anche in que­
sto caso, il « timore di Jahve » era la condizione irriducibile della cono­
scenza. E le disposizioni e direttive di Jahve non erano l'oggetto
immutabile della conoscenza: esse si presentavano incessantemente in
una forma nuova, cosicché a volte Israele non è stato del tutto in grado
di prenderne coscienza. L'opera storica tardiva del deuteronomista non
è in qualche modo paragonabile alla « sapienza teologica » più recente,
per il fatto che era loro imposto di esporre la storia ancora una volta
sotto un aspetto totalmente nuovo, che cioè l'incontro con la storia
doveva essere ancora una volta assunto? Così, la storia stessa non era
l'oggetto passivo della conoscenza; essa era in effervescenza, per cor­
reggere Israele; essa parlava ad Israele.

II.

Se fatichiamo tanto nel definire correttamente il fenomeno della sa­


pienza come una forma determinata dello sforzo conoscitivo dell'uomo,
ciò non dipende, in ultima analisi, dalla nostra incapacità di trovargli
una corrispondenza nella vita intellettuale della nostra epoca. Il pro­
blema di sapere come l'uomo deve usare la ragione nelle relazioni
con i suoi simili e nelle circostanze della vita — soprattutto in tempo
di crisi — pesava molto sull'uomo antico il quale riteneva che gli fosse
necessario in questo campo un tirocinio e un insegnamento rinnovati
incessantemente. È il problema che viene costantemente sollevato nel-

sentano attualmente le cose, è utile sottolineare con maggior forza le differenze che i punti co­
muni. Il cosiddetto cantico di Mosè, Deut 32, con la sua retrospettiva sulla storia delle nazioni,
è una singolare mescolanza. Inizia con un invito che introduce l'insegnamento e chiama Israele un
popolo insensato e senza sapienza (w . 6. 29); ciò corrisponderebbe al vocabolario sapienziale. Tut­
tavia non è il caso, poiché questo poema si rivolge al popolo, nel suo insieme il che non è sa­
pienziale; il grido inaugurale non è rivolto ad uditori umani, ma al cielo e alla terra; al popolo
invece (vv. 37 ss.) viene presentata la prospettiva di un giudizio distruttore (nello stile di un
discorso divino). T utto questo, e soprattutto la descrizione della storia come testimonianza del­
l'infedeltà d’Israele, proviene chiaramente da una tradizione profetica. Proprio a causa di que-
st'innegabile influenza profetica, è insostenibile il tentativo di porre la datazione di questo canto
in un'epoca antica (x sec.l), come ha fatto W. Beyerlin nella Tradition und Situation, in
c Festschrift fiir A. Weiser », 1963 17 ss. Così Deut 32 non è neppure una prova che i maestri si
sono occupati di materie storiche.
10 K. von Fritz, Der gemeinsame Vrsprung der Geschichtsschreibung und der exakten Wissens-
chaften bei den Griechen, in « Philosophia naturalis » 2, 1952, 200. In Israele, il riconoscimento di
punti di partenza comuni doveva essere ancor più difficile.
CONCLUSIONI 263

l’Antigone di Sofocle: in che cosa consiste, in alcuni casi di conflitto,


la vera attività della ragione? Che cosa sarebbe giusto? In seguito a
che cosa si rivelerebbe l'assurdo? Vi sono qui dei problemi che preoc­
cupavano una vasta cerchia di persone e poter dare a questo genere
di problemi delle risposte liberatrici era il mezzo per cui un uomo
poteva giungere alla pubblica considerazione, presso i Greci come
presso gli Israeliti n.
Vale la pena di applicarsi un po' al problema di sapere come la
sapienza ha potuto perdere questo posto elevato nella scala dei valori
della vita intellettuale. Israele ed altri popoli antichi partivano dalla
convinzione che la verità poteva essere colta nel mondo oggettivo con­
creto e nei suoi movimenti e che questa verità era interamente acces­
sibile all'uomo. Il problema propriamente detto non era di sapere se
essa esisteva, ma come accedervi, poiché come fonte di conoscenza, essa
non era messa in dubbio. Nel vocabolario dei saggi dell'antico Israele,
non esiste una nozione uniforme per definire la capacità umana di
conoscere, che corrisponda alla nozione di « logos », di « ratio » o di
ragione. La « ragione », che ha preso il posto della sapienza, non era
per essi un inventario delle disposizioni naturali di ogni uomo; era
piuttosto qualcosa di simile a un dono carismatico che non era parte­
cipato a tutti. (I maestri di sapienza più recenti non avevano poi così
torto d'interpretare la sapienza come un carisma)12. Un cuore saggio
ed assennato, un cuore che « ascolta », tale era la sostanza della pre­
ghiera regale di Salomone (1 Re 3, 9). Quello che il saggio esemplare
augurava per sé, non era la ragione della coscienza moderna, che im­
pone le sue leggi e dispone sovranamente della materia morta della
natura, ma una ragione « comprensiva », un'intuizione della verità che
proviene dal mondo e interpella l'uomo. Nei suoi confronti egli era
totalmente ricettivo, il che non significava passività, ma un'attività
vigilante, applicata interamente a discernere la risposta, l'articolazione
intelligente13; mentre la ricerca della verità sulla base della nozione
moderna di ragione è piuttosto una prova di forza. Essa rende capaci
di decretare ed ognuno può avervi parte. La nostra ragione è deter­
minata dalla tecnica; essa è un sapere sulle possibilità di azione e, di
conseguenza, si oppone alla ricettività della sapienza ed è ostile ad ogni
intervento preliminare della fiducia. Il che non impedisce che quando
noi oggi parliamo di un « saggio », si sia conservato in questo termine
qualcosa della nozione che gli antichi avevano di ragione: designamo
in questo modo un uomo capace di offrire qualcosa di più di una cono­
scenza puramente applicabile a scopi tecnici e che propriamente par­
lando non ha metodo. Il giudizio di Salomone nella famosa storia della

11 Sofocle, Antigone, w . 683. 721. 727. 1027-1030. 1051. 1198.


12 Cfr. a pp. 58 ss.
13 La bella formula del « cuore che ascolta * pare che provenga dalla sapienza egizia. Il cuore
era qui considerato come « l'organo con cui l’uomo percepisce il senso e l'ordine del mondo ».
H. Brunner, Altàgyptische Erziehung (1957), 111 s.
264 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

rivalità tra le due donne a causa di un bimbo non si può ricondurre


ad alcun metodo scientifico di scoperta della verità; ma il re è riuscito
— noi diremmo intuitivamente — a rimuovere il velo che occultava
una situazione estremamente difficile e a manifestare la verità (1 Re
3, 16-28). La via per la quale il saggio giunge alla sua scienza rimane
oscura, ma è un’oscurità piena di promesse. Non si corre alcun rischio
a dargli fiducia in anticipo. Anzi, chi non vuole impegnare la propria
fiducia non potrà mai raggiungere la minima conoscenza in senso
oggettivo.
In 1 Re 3, Salomone avrebbe anche potuto dire, oggettivamente
parlando, ch’egli domandava a Jahve che il mondo non rimanesse muto
per lui, ma divenisse percettibile. La comprensione della ragione e
quella del mondo naturalmente si corrispondono. Così le conoscenze
che gli antichi saggi dispensavano sono veramente comprensibili sol­
tanto se le intendiamo il più esattamente possibile a partire dalla no­
zione di realtà che esse suppongono e senza la quale sono assolutamente
arbitrarie. Ogni realtà è impenetrabile; solo per chi non ha spirito
critico essa appare così chiara ed evidente ch’egli crede di poter sen­
z’altro misurare le idee di altri popoli e di altre religioni con le sue
personali. Israele vedeva la realtà che lo circondava in modo molto
diverso da Sofocle. Le dottrine con le quali Israele rispondeva alle
domande vitali sono nate da un universo intellettuale che si era total­
mente staccato dalla fede in potenze mitiche, immanenti al mondo.
Si tratta di una volontà di conoscere che una ragione lucida orientava
verso un mondo demitologizzato. Ma solo apparentemente Israele si è
con questa demitizzazione avvicinato alla maniera moderna di vedere
il mondo, poiché a questa secolarizzazione radicale corrispondeva l’idea
di un mondo altrettanto radicalmente dominato e guidato da Jahve,
l’idea del mondo creazione di Jahve.
Se si assume prudentemente la parola « creazione » nel suo senso
teologico, la tesi secondo cui la volontà conoscitiva d’Israele era orien­
tata verso la creazione, abbraccia già in fondo il problema in tutta la
sua singolarità. Ricapitoliamo i tre punti principali che abbiamo co­
stantemente incontrato.

1. Sul piano ontologico, la creazione è altra cosa dal « mondo »,


nel senso che per l’osservatore essa non è un oggetto neutro quanto al
« significato », dei cui vantaggi ed inconvenienti egli potrebbe dare un
giudizio distaccato. Come oggetto della più alta qualità — « tutto era
molto buono» (Gen 1, 31) — la creazione mette l’uomo in causa in
tutte le forme in cui si manifesta. Quando i saggi iniziarono i loro
sforzi, il problema era da tempo fuori discussione. Per essi era naturale
che la creazione fosse non solo degna di ogni fiducia, ma che anche
giustificasse questa fiducia. Il problema della fiducia, abbiamo visto,
era di un'importanza assolutamente capitale, poiché vi erano anche
forme di fiducia erronee — fiducia in ciò che si possiede, nella propria
CONCLUSIONI 265

sapienza, ecc. — che portavano alla rovina. I maestri sapevano perfet­


tamente che lo sforzo di acquistare la sapienza e il dominio della vita
poteva anche fallire inaspettatamente. Come si spiegherebbe altrimenti
l'arte della persuasione che essi mettevano in opera? E questo sforzo
fallirà — tale era la salda convinzione dei saggi — se non è fondato
su una vera fiducia. Allorché Geremia dichiara « felice l'uomo che con­
fida in Jahve » (Ger 17, 7), il suo pensiero si muove interamente nel
quadro della sentenza secondo cui il timore di Jahve è l'inizio della
sapienza (Prov 1,7 e seguente). L'« insensato » non è soltanto uno spirito
debole, ma un uomo che si oppone alla verità che gli viene incontro
nella creazione, un uomo che, per una ragione qualsiasi, non si fida
di un ordine che sarebbe per lui salvifico, ma che ora si erge contro
di lu i14.
2. Un secondo fatto era per i saggi fuori di discussione, che cioè la
creazione era l'illimitato campo d'azione della volontà divina e che
questa volontà vi si poteva manifestare o nascondere, disporsi alla
benedizione o alla riprovazione. Era altrettanto fermamente ammesso
che si poteva discernere la maniera con cui Dio vi regnava, pur la­
sciando al mistero, come si è visto, uno spazio e un diritto di esistenza.
Si comprende così facilmente che tutto ciò che avveniva in questo
spazio vitale conservato da Jahve si imponeva interamente alla volontà
conoscitiva d'Israele. Come i maestri sarebbero potuti giungere all'idea
di esercitare la loro volontà di conoscere esclusivamente sulle regole
che si potevano percepire nel campo delle cose e degli uomini, come
« regole autonome » in qualche modo, escludendo l'azione di Jahve
implicata in tutto ciò che avveniva? Le benedizioni e i rimproveri di
Jahve non erano essi pure delle esperienze? Non erano anche sfide lan­
ciate alla volontà di conoscere? Come si poteva parlare nel linguaggio
di una ragione lucida della guida del mondo, della sua messa in moto
da parte di Dio? Solo attraverso questi interrogativi possiamo affron­
tare lo sforzo specificamente teologico dei saggi. L'idea che Dio si mani­
festa nel mondo soltanto attraverso prodigi ed interventi occasionali
era scomparsa15. Ma — domanda attraente — che cosa restava se non
era più possibile presentare in maniera distinta l'azione di Dio accanto
ai fenomeni del mondo? Qualunque fossero le possibilità che potevano
offrirsi di parlare di un « accompagnamento » divino, non si poteva
prescindere in alcun modo dall'idea di una presenza segreta di Dio
nel mondo.
L'impresa di conoscere (che implica, come lo vediamo chiaramente
ora, l'obbligo di parlare di Dio) si è diramata in Israele, come possiamo
dedurlo dalla letteratura didattica vista nel suo insieme, in due « campi
d'attività » nettamente distinti. Ma se esaminiamo, distanziandocene
un po', il lavoro compiuto da ambo le parti, non è difficile constatare
Cfr. p. 67 s.
,5 Cfr. pp. 61 ss., 94 ss.
266 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

che l'oggetto della conoscenza è rimasto il medesimo. I risultati del


primo di questi « campi d'attività » si trovano soprattutto nelle sen­
tenze di Prov 10 - 29. Qui, gli oggetti — in particolare le esperienze
della convivenza umana — sono prevalentemente concepiti in modo
« secolare » o più precisamente il mondo circostante è affrontato in
maniera dialettica come una realtà mondana governata da Jahve. Si po­
teva dire che il successo era assicurato dalla qualità dei consigli dati
(Prov 24, 6), ma si poteva anche dire che il successo viene solo da Jahve
(Prov 21, 31). Nella maggioranza delle sentenze però, le regole scoperte
sono fissate come una specie di legislazione neutra immanente al
mondo. Non si parla molto di « cooperazione », di « accompagnamen­
to » di Jahve. Era un fatto risaputo ma, in questa faccenda della ricerca
delle leggi, Jahve appariva semplicemente sotto l'aspetto di un limite
imposto all'uomo 16. In ogni caso, la sua partecipazione agli avveni­
menti non era l'oggetto proprio delle ricerche effettuate dal pensiero.
Ben diverso è il cammino in materia di ricerca della conoscenza; qui
(soprattutto in Prov 1 - 9, nei discorsi degli amici di Giobbe e in larghe
parti del Siracide), il problema è il seguente: non è possibile consta­
tare nel modo con cui Dio dirige gli uomini regole che la ragione deve
conoscere? Sono senz'altro esistiti in Israele circoli o un'epoca per i
quali un approfondimento delle vecchie questioni su una base risoluta-
mente teologica si è rivelato necessario. È possibile riconoscere il cam­
biamento di prospettiva di questa problematica dal modo di trattare
il problema del rapporto tra condotta e retribuzione, ma soprattutto
dalla valutazione delle circostanze alle quali l'uomo è soggetto. In pre­
cedenza, il rapporto tra Tatto e le sue conseguenze era una regola più
o meno neutra, ora invece vi si vede un intervento personale di Dio che
è diretto all'individuo. Nel primo caso, il sapere su Jahve dava la
capacità di comprendere il mondo come tale; nell'altro, permetteva di
ordinare le esperienze religiose connesse al governo divino del mondo
e di ricercarvi delle regole. In un caso come nell'altro, la ragione si
muoveva al limite della sua competenza. Il rimprovero sovente formu­
lato di un irrigidimento « dogmatico » della sapienza recente dovrebbe
essere motivato esegeticamente con più precisione a partire dai testi.
Ciò mostrerebbe che l'irrigidimento è spesso dovuto all'esegeta che si è
dapprima forgiato uno schema secondo il quale vuole giudicare le
dottrine degli antichi17. Eccoci quindi arrivati al terzo punto in cui
il nostro interesse si sposta soprattutto sull'ontologia dei saggi.

16 Vedi pp. 95 ss.


17 II nostro impegno non è di « salvare » le opinioni sostenute dai m aestri, ma di cercare i
criteri applicabili e di tenerci lontani dai giudizi esterni non conformi ai fatti. Non saprei quindi
trovare conferma nei testi alla tesi principale del libro di H. H. Schmid: passaggio da una prima
forma di sapienza, autenticamente vivente, in vero rapporto con l'esistenza, ad un sistema dogma­
tizzante e fuori della storia (op. cit., 196). Su quale solida base si può fondare il rimprovero di
« abbandono della verifica con la realtà empirica »? Se si cerca di interpretare i testi a partire
dalla prospettiva ch'essi avevano della realtà, sarebbe difficile far derivare da essi un cambia­
mento di struttura così fondamentale. E ciò per il semplice fatto che ad ogni testo corrisponde
un « contesto » spirituale e che ogni tema d'insegnamento ha bisogno di u n quadro di compren-
CONCLUSIONI 267

3. Per l'esegeta moderno, la visione della realtà in cui egli vive urta
in modo quasi insopportabile con quella che gli si presenta nelle dot­
trine antiche. Egli cerca senza posa di liberarsi da questo imbarazzo
con qualche forma di critica. E questa critica tende in genere a rim­
proverare in modo particolare alla sapienza recente d'aver fatto subire
a tutta la realtà le costrizioni della ragione ,s. Giudizi di questo genere
non vanno molto lontano, finché colui che li pronuncia non sottopone
a critica la propria concezione della realtà, dato che anch essa può
sollevare obiezioni (a volte identiche!). Ma il problema è grave, poiché
è fuori di dubbio che uno dei più grandi ostacoli che un'intelligenza
corretta dei nostri testi incontra, risiede nell'atteggiamento assoluto,
privo di spirito critico, della nostra concezione popolare moderna della
realtà. Bisogna esercitare la massima prudenza nell'uso della nozione
di « realtà », poiché Israele era affascinato da realtà molto precise
che sono scomparse dal campo di visione del nostro tempo e faceva di
conseguenza entrare nel campo della realtà altre modalità, altre forme
di avvenimenti. La caratteristica principale del suo modo di vedere
la realtà consisteva nel concepire l'uomo posto in una relazione parti­
colare, esistenziale e dinamica, col mondo che lo circonda. L'uomo — si
trattava sempre dell'individuo — si sapeva inserito in una rete di re­
lazioni le più diverse con l'esterno e vi si sentiva a volte soggetto, a
volte oggetto. Se abbiamo parlato in questo o in quel punto dell'inizia­
tiva della volontà di conoscere d'Israele nei confronti degli oggetti del
suo ambiente, questo non era che un aspetto del problema. Si potrebbe
anche opportunamente dire che la sua volontà di conoscere era la ri­
sposta ad una provocazione, che essa veniva in seguito, costretta co­
m'era a prendere posizione di fronte a relazioni, a movimenti del
mondo circostante che erano più potenti dell'uomo. L'uomo era in pari
tempo l'oggetto di movimenti che, venendo da altri uomini o cose, gli
si imponevano. Ma questi movimenti del mondo circostante — sta qui
l'essenziale — non avvenivano in uno spazio esterno senza interrela­
zioni, secondo una legge estranea, ma si presentavano all'uomo molto
personalmente, con una mobilità infinita; essi corrispondevano al suo
comportamento fin nella profondità dei campi che noi chiamiamo « na­
turali ». Erano pronti ad accogliere l'uomo nell'infinita molteplicità
delle loro forme. Quel che ti capita ti è sempre commisurato! Chi ha
messo ordine nelle sue relazioni con Dio « avrà egli pure un patto

sione in cui può esprimersi. Spesso sarà impossibile dargli un solo senso, perché non potrà essere
compreso da un solo punto di vista. Non mi sembra possibile m ostrare la frattura, il progresso
verso una sapienza dogmatica secondaria che Schmid tenta di individuare (op. cit., 155 ss.) all'in-
tem o del gruppo di sentenze di Prov 10-29. Non si potrebbe vedere nella « teologizzazione » della
sapienza, nello sforzo per riportare la vita individuale e i movimenti dell’ambiente al centro del
campo d ’azione di Jahve, un nuovo slancio verso una nuova forma d'insegnamento legato all'esi­
stenza? Ciò che è immutabilmente specifico dell'insegnamento israelitico, ciò che abbiamo incon­
trato ad ogni passo e che è radicato fin dall'inizio nel pensiero di Israele, appare in maniera
troppo insufficiente nel libro di Schmid. Egli dice giustamente che la comprensione elaborata dalla
sapienza egizia non può essere fondata senza modifiche nella sapienza israelitica (op. cit., 198); ma
l'idea fondamentale dei due « strati », è là ch'egli l'ha trovata (op. cit., 79 s. e spesso).
18 W. Zimmerli, in ZAW 51, 1933, 204; H. H. Schmid, op. cit., 197.
268 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

con le pietre dei campi * e sarà l'amico delle bestie della terra (Giob
5, 20 ss.). Il mondo circostante non è soltanto l’oggetto della volontà
umana di conoscere. Nella misura in cui il mondo si volge verso di
lui, sarà l'uomo l'oggetto della proiezione del mondo su di lui. Si ricor­
dino i magnifici poemi sulla fine dell’uomo violento w. Di colpo, tutti gli
elementi del suo ambiente si ergono contro di lui per distruggerlo.
« I cieli svelano la sua iniquità e la terra si erge contro di lui » (Giob
20, 27). Inversamente: se Dio si compiace di un uomo, riconcilia anche
i suoi nemici con lui (Prov 16, 7). Nessuno ha formulato quest'espe­
rienza dell'accoglienza benevola del mondo circostante con maggiore
ampiezza e precisione di Paolo: « Noi sappiamo che ogni cosa concorre
al bene di coloro che amano Dio » (sunerghèi, Rom 8,28). Gli antichi
ben sapevano che quest'accoglienza, questo concorso di « ogni cosa »
poteva assumere per l’uomo le forme più complicate. Si erano fatte
anche esperienze inquietanti a proposito di questa sapienza universale,
attiva nei riguardi dell'uomo, che precedentemente abbiamo chiamato
ordine primordiale:
Essa si accosta dapprima a lui sotto mentite spoglie,
fa venire su di lui timore e tremore,
lo tormenta con la sua disciplina
finché possa dargli fiducia,
e lo prova con le sue esigenze(?).
Ma poi ritorna a lui sveltam ente e lo rallegra
e gli scopre i suoi segreti. (Eccli 4, 17-18)

Ovunque entriamo in contatto con la dottrina dei saggi, incontriamo


questa esperienza del mondo, questa fede nella guida degli avvenimenti,
soprattutto nell'idea del rapporto tra condotta e retribuzione. La crea­
zione ha qualcosa da dire all'uomo, tale era la convinzione dei maestri.
Non è mai impossibile decifrare le sue vie. Nel suo grande discorso
(Giob 38 s.) Dio lascia che la creazione gli renda testimonianza. Nella
dottrina della sapienza primordiale che si rende testimonianza in una
maniera chiara, questa convinzione trovava la sua formulazione più
perentoria, per il fatto che la realtà non si limita ad imporsi all'uomo,
ma lo interpella e lo sollecita. Per chi confida in quest’ordine, non solo
i movimenti del mondo circostante appaiono sotto un’altra luce (que­
sto, noi lo capiremmo!) ma anche le cose accadono in modo diverso!
Questo rapporto esistenziale, quest’accoglienza dell’uomo da parte del
mondo che lo circonda non doveva entrare nel campo della coscienza
in seguito a riflessioni particolari; era un fatto reale, una realtà che
precede ogni riflessione. Quest’idea non era, evidentemente, appannag­
gio esclusivo dei saggi; la loro funzione speciale consisteva soltanto
nel darle un'espressione didattica. Chiunque fa astrazione dall’idea
costitutiva di questo campo d'azione reciproca tra l’uomo e il suo
ambiente e intende valutare le sentenze dei saggi col metro del senso
18 Cfr. pp. 43 ss., 124 s.
CONCLUSIONI 269

moderno della realtà, vedrà buona parte dei loro discorsi sotto una
luce deformata, come postulati bizzarri e stupidi. Ora questi non erano
postulati, ma affermazioni nate dall’esperienza “. Ben inteso, ciò non
garantiva che l’esperienza sarebbe stata la stessa per tutti e sempre
perfettamente chiara. Si apriva qui un vasto campo di riflessioni le
più disparate. Esse non potevano mancare, poiché l'uomo ebraico
considerava con estrema attenzione i movimenti che gli si facevano
incontro, ne cercava l'interpretazione, si attendeva molto da loro, cosic­
ché era anche esposto ad alcune delusioni e ad alcune prove. Lo scet­
ticismo dell’Ecclesiaste è senza dubbio fondato sul fatto che questo
vivo rapporto esistenziale era diventato per lui problematico21.
Ma l'osservatore moderno che così volentieri sottoscrive le tesi (al­
lora isolate!) dell'Ecclesiaste deve anche ascoltare le altre voci che
in parecchie forme risuonano dietro le dottrine: il mondo ha un mes­
saggio, trasmette una verità! Come vi sarebbe un criterio oggettiva­
mente valido per il linguaggio che un uomo percepisce giungere a lui
dal mondo che lo circonda? Nella sua « sapienza », Israele ha tentato
— con l’aiuto di un insieme di regole estremamente mobile — di rap­
presentarsi questo linguaggio partendo dai suoi principi religiosi. L’ese-
geta dovrà guardarsi dall'errore ingenuo di credere che la « realtà »
e la sua esperienza sono cose neutre, date in anticipo ad ogni uomo
e con le quali le dottrine potrebbero assai facilmente essere confron­
tate. S’egli prende una tale posizione, si è chiusa ogni possibilità di
accesso a ciò che avveniva in Israele.

Dobbiamo spingere un po’ più in là la nostra indagine sulla com­


prensione della realtà da parte dei maestri di sapienza e superare un
passo decisivo. Se abbiamo detto che essi concepivano la realtà come
una creazione di Jahve, cioè come assolutamente non mitologica, ciò
significa che non erano in grado di vedere l'esistenza e l’azione di po­
tenze malvagie e nemiche di Dio nel mondo. Più precisamente: essi
ignoravano del tutto un male mitico e un male speculativamente ogget-
tivato. Israele era molto informato sul male, è vero, e nessuno potrà
dire che i maestri abbiano potuto mettere in sordina tutta una dimen­
sione della realtà. Nel mondo ch'essi dipingono ai loro allievi, non
manca nessuno dei grandi disordini nei quali gli uomini s’imbattono
lungo il corso della loro vita: povertà, malattia, stupidità, discordia,
ecc. Tutto ciò i maestri lo vivono e lo registrano in modo non essenzial-
20 Ogni critica moderna di questo antico senso della realtà dovrebbe essere rivista in funzione
del rapporto tra condótta e retribuzione, poiché si tratta di una cosa ben diversa e superiore a
una « dogmatica sapienziale » (H. H. Schmid, op. cit., passim). Sarebbe meglio parlare di un
pregiudizio dogmatico degli esegeti. Circa la distruzione del primato del « reale » rispetto al
« possibile », circa l’autorità del « possibile » nella visione della teologia sistematica, cfr. recen­
temente E. Jungel, Die Wett als Mòglichkeit und Wirklichkeit, in EvTh 29, 1969, 417 ss.
21 L’autore della Sapienza di Salomone si è visto costretto a dare spiegazioni curiose ai suoi
lettori che condividevano evidentemente le idee ellenistiche sulla natura, per poter loro spiegare
i miracoli dell'E sodo: «L'universo combatte per i giusti» (16, 17); la creazione « si erge» per il
giudizio e « si allenta » per la salvezza (16, 24); « gli elementi si scambiano le loro proprietà »
(19, 18).
18. von rad , la sapienza in israelc
270 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

mente diverso dagli altri uomini. L'esperienza del mondo non ha nei
maestri lacune importanti da cui si potrebbero dedurre mancanze e
assurdità nel loro insegnamento. Vedono ogni sorta di disordini, ma
li intendono a loro modo.
Ciò è vero anche per quello che dicono della morte. Israele ha avver­
tito la morte in modo molto diverso dall'uomo moderno. Israele era
molto più scandalizzato per l’introduzione della morte nel campo della
vita che per il fatto che in fin dei conti bisogna morire. La morte
poteva spingere il suo disordine nel più profondo della vita, poiché
la malattia, la schiavitù ed ogni pregiudizio grave inferto alla vita era
già, come lo mostrano i salmi di lamentazione, una forma di m orte22.
Cosicché i maestri si preoccupano molto poco, neirinsieme, della neces­
sità di morire irrevocabilmente. È molto difficile per noi vedere con
chiarezza, data la matassa complicata delle nostre idee preconcette,
quel che i maestri dicono della morte e ciò di cui non parlano. Non
intendiamo anche noi tutt'altra cosa quando parliamo in modo così
oggettivato della « Morte »? Nel loro insegnamento, essi parlavano so­
vente della necessità di morire, ma quasi sempre pensavano ad una
morte di cui ci si è resi colpevoli, ad una morte prematura, quella
che attende gli insensati, i dissoluti, i pigri. Contro questa morte, si
può fare qualcosa e per evitare i suo « lacci », si può condurre saggia­
mente la propria vita (Prov 13, 14). La morte poteva anche presentarsi
all'uomo come un perfetto compimento (Giob 5, 26). La morte non ap­
parteneva in proprio alla creazione; non era una potenza ordinatrice.
Non era affatto una « potenza » in sé, ma un avvenimento, un fatto
in sé ambivalente. Poteva essere « amara », ma poteva anche essere
« buona » (Eccli 41, 1 s.). Ma restiamo innanzitutto coscienti dei limiti
di una tale ricerca! Poiché il fatto di porre delle domande a sentenze
che sono state forgiate in vista di un obiettivo didattico preciso, cer­
cando di far dire loro qualcosa su idee religiose di ordine generale che
potevano trovarsi anche altrove, è un'impresa piena di rischio. La ne­
cessità di morire non si è imposta come vero problema del pensiero
che nel momento in cui la fiducia nella vita mantenuta da Jahve ha
cominciato a diminuire. È il libro dell'Ecclesiaste che mostra in modo
impressionante questa nuova situazione e tutte le sue conseguenze in­
quietanti
Constatiamo quindi questo: il mondo non contiene nulla che possa
ergersi ontologicamente contro l'uomo come un male oggettivo opposto
a Dio. Si è affermato giustamente che la rottura, la lacerazione del
mondo in un mondo divino intatto e un mondo empio del male si
avverte soltanto nella Sapienza di Salomone, opera ellenistica. La morte
è una realtà che non proviene da Dio. Dio ha creato l'uomo per la

22 Cfr. Barth, Die Errettung vom Tode in den (individuellen) Klage-und Dankliedern des Alteri
Testaments (1947), 53 ss.
23 W. Zimmerli, Dos Buch des Predigers Salomo (1962), 135 s.; N. Lohfink, Dos Siegeslied am
Schilfmeer (1965), 211 ss.
CONCLUSIONI 271

salvezza ed è per l'invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo
(Sap 1, 13; 2, 24). Di fronte alla sfera della carne caduca si erge lo
pneuma creatore della sapienza24. Ci si deve rendere conto che Giobbe
nella sua disperazione è ancora lontano da un tale dualismo metafisico.
Non vi si trova mai il minimo tentativo di persuadere i suoi amici
dell'esistenza di un male che abbia una provenienza diversa da quella
di Dio. Non è nel mondo ch'egli cerca la dissonanza; è presso Dio che
qualcosa non va più. Senza dubbio, la prossimità della morte lo turba,
ma unicamente perché essa gli toglie la possibilità di mettersi in ordine
con Dio. « La morte » non è assolutamente per lui il male supremo.
S'egli potesse mettersi a posto con Dio, tutto rientrerebbe nell'ordine
da sé. Su quest'argomento egli è interamente dello stesso parere dei
suoi amici. La controversia appare solo nel modo con cui ristabilire
quest'ordine e nel sapere da parte di chi dev'essere ristabilito. Ma
benché abbiano preso posizioni diverse su questi problemi, gli inter­
locutori sono tutti d'accordo su una cosa: in ogni conflitto dell'uomo
con i grandi disordini della vita, è sempre Dio l'unico competente.
Il mondo non può portare alcun contributo proprio alla soluzione.
Non è il campo di battaglia tra Dio e un male che è immanente al
mondo: in esso non vi è incrinatura. Da tutte le sue parti — ad ecce­
zione dell'inferno — sale un canto di lodi e tutte le sue parti con le
loro qualità sono a loro volta l'oggetto di una lode entusiasta. È un
mondo degno di fiducia da un capo all'altro e la visione dell'uomo,
quale viene presentata da queste dottrine, è assolutamente esente da
toni tragici. Anche se la vita rimane sotto il segno di molteplici limiti,
essi non sono mai giudicati e condannati come una fatalità e possono
essere sempre accettati.
Egli ha disposto nell'ordine le meraviglie della sua sapienza,
poiché egli è il medesimo dai tempi più remoti.
Non vi è nulla da aggiungergli e nulla da togliergli
e non ha bisogno dell'insegnam ento di nessuno.
Le sue opere vivono e rimangono per sempre
e in ogni circostanza, obbediscono a lui.
Tutte le cose sono diverse -l’una dall'altra,
ma egli nulla ha fatto di manchevole.
Una cosa completa l'eccellenza dell'altra:
chi potrebbe stancarsi nel contemplare la sua magnificenza?
(Eccli 42,21-25)
Quale sguardo sul mondo! Niente di sorprendente se i maestri che
sapevano di avere per compito di meditare su queste cose, si sono così
sovente sentiti portare alla lode. Con quale facilità le aride enumera­
zioni di ciò che esiste nel mondo prendono negli « onomastika » lo stile
degli inni ! Quanto era piccola la distanza tra la conoscenza e l'adora­
zione! È vero che poteva sembrare elevato il prezzo che Israele doveva
pagare col rifiuto di dividere il mondo in un dualismo insanabile, per
24 D. Georgi, Zeit und Geschichte, in « Festschrift fiir Bultmann », 1964, 270 ss.
272 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

poterlo contemplare come una creazione buona, rivolta in tutti i suoi


movimenti verso Dio. Era costretto a considerare tutti i disordini in­
quietanti come disposizioni di Jahve. Il Siracide critica una volta la
malignità dell'occhio umano. Nulla è stato creato di peggio! E perché
il cattivo amico è stato creato? (Eccli 34, 13; 37, 3). Si annuncia forse
in queste frasi il dualismo metafisico rappresentato dalla Sapienza di
Salomone? Al contrario, sono le conseguenze estreme che il « mo­
nismo » della fede in Jahve permetteva di dedurre. La lotta e la dispe­
razione di Giobbe hanno mostrato abbondantemente a quali prove an­
gosciose la fede d'Israele è stata condotta da questo monismo. Ma in
questa faccenda, Israele non aveva scelta e alla fine anche Giobbe
dovette sottomettersi ed ammettere che la sua vita era in buone mani
presso Jahve, anche se circondata dal suo mistero impenetrabile. Ricor­
diamo la sorprendente constatazione fatta: i saggi parlano molto di
misteri, ma non di quelli del mondo. Tutti sono misteri di Dio 25.

III.

Dopo tutto quello che abbiamo esposto, bisogna ancora rispondere


brevemente alla questione che abbiamo sollevata fin dall’inizio del no­
stro studio, che cos'era effettivamente la « sapienza » d'Israele e quale
definizione bisogna darne. Bisognerebbe cominciare col constatare che
la sapienza praticata dall'uomo era in Israele una risposta al confronto
tra la fede in Jahve ed alcune esperienze fatte nel mondo. Nella sua
sapienza, Israele si è costituito il campo di riflessione in cui potevano
essere affrontati tanto gli avvenimenti quotidiani nella loro banalità
e molteplicità quanto le questioni teologiche fondamentali. In tutte le
circostanze, questa sapienza deve quindi essere considerata come una
forma della fede in Jahve; forma che è ben delimitata dalla particola­
rità del compito assegnatole e che, nella struttura teologica dei suoi
enunciati, differisce sensibilmente dalle altre forme di espressione della
fede in Jahve. Ma fin dagl'inizi essa è interamente un'espressione di
questa fede nella sua forma specifica. In essa si trovano le risposte,
redatte sotto forma di regole, che i credenti hanno dato nel loro con­
fronto con la « vita », alla sfida che lanciava loro il mondo circostante.
La condizione che permetteva loro di prendere la parola in questa fac­
cenda era la conoscenza che avevano di Jahve. La condizione per il
mantenimento della vita era la fiducia in Jahve e nelle regole ch’egli
aveva stabilite. Il tema della vera fiducia, sul quale i saggi ritornano
senza posa, e l'avvertimento contro la falsa fiducia, sono caratteristiche
dell'insegnamento dei saggi, per i quali ogni cosa proviene da Dio e
tende in fin dei conti a lui. Tutte le proposizioni dei saggi, soprattutto

25 Vedi p. 103 s.
CONCLUSIONI 273

quelle che essi potevano dire partendo dalla nozione di un mondo cir­
costante rivolto con benevolenza verso l’uomo, hanno senso solo se si
ha fiducia nelle regole stabilite, cioè in ultima analisi in Jahve che
ha diritto a questa fiducia, essa pure giustificata da tempo attraverso
l’esperienza. Nello stesso senso opera la raccomandazione a non cre­
dersi saggio. Chi pensava e viveva in una relazione di « partner » con
Jahve non poteva ostinarsi nel suo punto di vista e doveva essere
pronto ad ogni istante ad accettare che la sua azione fosse contraria,
anche quando partiva da conoscenze provate.
£ sempre pericoloso parlare « della » sapienza d’Israele. Ricordiamo
che in tutti gli sforzi didattici e letterari ch’egli ha fatto e che si esten­
dono per diversi secoli, Israele non ha mai conosciuto una nozione di
questo genere che abbracci la totalità della letteratura che vi si rife­
risce. Nella produzione dei saggi non ha mai visto un insieme e non l’ha
mai distinta teologicamente dalle altre espressioni tipiche della fede di
Jahve. Tuttavia, si può sottolineare qualcosa di comune che è impor­
tante e che raccoglie gli sforzi sapienziali in un tutto; che cos’era la
sapienza se non il tentativo fatto da Israele per esprimere la sua uma­
nità, precisamente nel campo della realtà che avvertiva in modo così
specifico — che cos’era in fondo se non un umanesimo d’Israele? A
quale scopo miravano i molteplici sforzi, così caratteristici della sa­
pienza, per rendersi padroni del contingente? Lo scopo non era forse
unico, conquistare nella confusione degli avvenimenti uno spazio per
l’ordine, in cui l’uomo non sia eternamente sospinto dall'imprevedibile?
Egli ha bisogno di un tale spazio per poter vivere e fare qualcosa della
propria vita. Se questo spazio era definito da regole, come i saggi
credevano di averle constatate tramite l’esperienza, da un ordine nel
quale l'uomo può sentirsi al sicuro, l'umanità dell'uomo non era ormai
più minacciata se non dall'uomo stesso, dal suo disordine, dalla sua
stupidità. Come è già stato detto, i saggi non consideravano la presenza
di potenze anonime malefiche. Tutto ciò che era disordine e turba­
mento della vita veniva dall'uomo: qui dovevano mirare tutti gli sforzi.
Vediamo ancora una volta chiaramente quello che i maestri offrivano
e non offrivano all'uomo per trarsi d'impiccio! Non si parla della scin­
tilla divina che solo l'uomo porta in sé, come viene insegnato dai
tempi lontani degli antichi Greci fino ad oggi; né dell'immagine di Dio
presente nell'uomo, idea che potrebbe essere più vicina alla conce­
zione ebraica. Non ci si può che meravigliare per la sobrietà con cui
i maestri lavorano. Non si sentono minimamente chiamati a custodire
dei beni sacri, ma chiamano in causa la ragione dell'allievo come al­
leata per persuaderlo che fa bene a non distruggersi da sé, a mettere
la sua fiducia nella potenza del bene e a guardarsi dal disordine. Non
pare siano stati dominati da una grande idea direttrice. Per conservare
all'uomo l'« humanitas », che cosa possono fare di più che pronunciare
qui una parola a favore della moderazione, là un invito alla calma o
qualche espressione grave sugli svariati limiti la cui inosservanza mi­
*74 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

naccia l'umanità dell’uomo, con un’attenzione particolare ai limiti nei


confronti di Dio? Da una parte del tutto diversa — ed è qui certamente
un fatto unico nel suo genere — Giobbe ha visto una minaccia alla pro­
pria umanità, riconosciutagli dal Creatore, dalla parte cioè di Dio
stesso !
Il ruolo dei profeti era diverso: anche per loro, si trattava dell’uomo,
ma in un senso ben diverso, poiché per loro bocca Dio s’imponeva
all’uomo con un messaggio particolare. Dio praticava un’apertura verso
l’uomo. Mentre nella sapienza l’uomo era alla ricerca di se stesso e
prendeva la propria causa in mano senza potersi riferire ad un inca­
rico particolare di Dio. Nella catena ininterrotta di situazioni conflit­
tuali, eternamente pressato da difficoltà estreme che mettevano la sua
vita in pericolo, egli si è sforzato di conoscere quel che era giusto in
ogni caso; in definitiva, si è sforzato di giungere non solo a conoscenze,
ma ad ima totalità, ad un atteggiamento d’insieme, ad una cultura:
in breve, si è sforzato di raggiungere la sua umanità nel campo asse­
gnatogli da Dio. Questo sforzo si è sviluppato all’ombra della fede in
Jahve, sia che Dio gli lasciasse libero corso, sia che insegnasse all’uomo
i limiti delle sue capacità, sia che lo portasse a forgiare la propria vita
attraverso l’assimilazione critica di esperienze religiose.
Nella forma dell’insegnamento sapienziale, si è già manifestato da
tempo un certo liberalismo, parallelamente e a confronto col diritto
divino « apodittico ». È un liberalismo che si rivolge allo spirito di chi
riceve l’insegnamento e non può né vuole togliergli l’autonomia della
decisione. Anche nell’invito più pressante, vi è sempre uno spazio che
il maestro si guardava bene dall’occupare e che lasciava libero all’opi-
nione personale dell’allievo; si potrebbe anche dire: a una specie d'in­
tuizione che permetteva all’allievo d’interpretare correttamente l’inse­
gnamento generale adattandolo alla sua situazione particolare, poiché
in questo punto era l’uomo che interveniva, sia che si sforzasse di
raccogliere le proprie forze e di mettere a profitto le proprie possibilità,
sia che si prendesse cura di coltivare le relazioni coi suoi simili.
Ma quest’umanesimo non poteva essere garantito da un punto di
regole astute. Esso doveva incessantemente essere fondato in modo
nuovo a partire dal centro, dalla fede in Jahve. Abbiamo visto i saggi
sempre più alle prese con problemi fondamentali che minacciavano di
oscurare il loro rapporto con Dio e che imponevano una riflessione
teologica più precisa. Infine li abbiamo visti — al limite dell’« hy-
bris »! — essere messi in causa dal mistero del mondo e, sollecitati
da esso, aprirsi a questa sollecitazione in una specie di « eros » intel­
lettuale. Tale era l’estensione del quadro teologico nel quale i saggi
d’Israele credevano di potersi comprendere correttamente. Per vivere
in questo quadro, per entrare in possesso di un tale sapere, era vera­
mente necessario avere un rohab lèb, una certa « estensione », una certa
« larghezza » del cuore e dello spirito (1 Re 5, 9). In questa nozione si
esprime maestosamente quel che era insieme il compito e la condizione
CONCLUSIONI 275

della « humanitas » d'Israele. Come armi nella discussione dei problemi


teologici, appaiono nella sapienza tardiva le tradizioni dell'inno utiliz­
zate contro le prove.
Ogni tentativo, però, di comprendere e di descrivere quest'immagine
dell'uomo a partire da un punto unico e costitutivo sarebbe votato alla
sconfitta. Non solo perché i principi direttivi sono cambiati col tempo.
La concezione delluomo presente airinizio dell'epoca monarchica diffe­
risce notevolmente da quella del Siracide. Quel che è rimasto fermo,
è unicamente l'esigenza generale che l'uomo debba imparare dalla cono­
scenza di Jahve a diventare competente nelle realtà della vita. Ciò per­
mette senza dubbio di dire che l'atmosfera della scuola circonda indi­
scutibilmente l'insegnamento dei saggi. Il giovane che si apre alla dot­
trina è l'uomo come è visto a tutta prima dai saggi. Ma la cosa è vera
in un senso ancor più profondo: l'uomo che ascolta, che confessa e
che mette la sua fiducia nelle conoscenze — questa è la forma di
esistenza più qualificata che i saggi vedono per l'uomo. Ma bisognava
che quest'immagine dell'uomo rimanesse aperta da molti lati; il motivo
era fondato nei principi stessi da cui partivano queste dottrine, poiché
questa volontà di formazione era cosciente anche della presenza di
Dio e della imprevedibilità della sua azione. Così tutti gli oggetti della
conoscenza umana erano da una parte accessibili alla conoscenza, dal­
l'altra parte collocati sotto il segno del mistero divino nel quale Dio
poteva ad ogni istante farli rientrare sottraendoli all'uomo. In queste
condizioni, poteva anche una sola conoscenza essere conclusa e isolata,
poteva un solo problema trovare la sua soluzione definitiva? « Né sa­
pienza, né prudenza, né consiglio esistono di fronte a Jahve » (Prov
21, 30) è una delle sentenze più luminose del libro dei Proverbi. Ma essa
esprime con perentorietà una conoscenza che, più o meno, si trovava
sullo sfondo di tutte queste dottrine. Ciò non mirava a minimizzare
ciò che è conosciuto o conoscibile, ma a ribadire una maggiore discre­
zione nei confronti degli arroganti tentativi di spiegazione generale.
Il tentativo teorico di una spiegazione totale del mondo non avrebbe
potuto essere intrapreso, dato il fondamento particolare del pensiero
dei saggi. Le conoscenze acquisite non vengono elaborate in un sistema
più comprensivo. Anzi, esse sono lasciate nella forma in cui sono state
una volta fissate e, senza il minimo bisogno di armonizzazione, vi si po­
tevano giustapporre conoscenze di tutt'altra specie.
Nella giustapposizione di dottrine diverse fino all'ultima composi­
zione delle singole collezioni — mettiamo qui in risalto una caratteri­
stica in più — non si è conservato qualche elemento di discussione,
di dialogo, che appartenesse a queste dottrine? I fenomeni non sono
mai oggettivati, ma sono sempre percepiti nei loro rapporti con l'uomo
che di volta in volta è chiamato in causa26. Questi rapporti tuttavia
26 « Alla base del grande interesse della sapienza per l'uomo e per il mondo non vi è l'idea
che l'uomo è la m isura di ogni cosa; anzi: è l'uomo che è m isurato in funzione del mondo in cui
è posto» (H.-J. Hermisson, op. cit., 150 s.).
276 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

erano sempre molto variabili e, soprattutto, non li si poteva mai valu­


tare in modo chiaro. Alla base della dottrina dei saggi vi è dunque una
profonda convinzione dell'ambivalenza dei fenomeni e degli avveni­
menti. Più che essere formulata come proposizione essa è ardentemente
praticata27. Anche in questo caso — e non soltanto nel pensiero sto­
rico — Israele ha apertamente riconosciuto una preponderanza dell’av-
venimento contingente sul « Logos » nel quale sfocia la speculazione
astratta. È evidente che il fatto di completare un’esperienza, elaborata
in forma di dottrina, con un'altra — persino con un’esperienza contra­
ria — non ha rappresentato per i saggi una difficoltà logica. Senza
dubbio, la ricchezza è una buona cosa, ma può anche essere nociva;
è certo che la povertà è qualcosa di cattivo, ma può anche essere
buona “. Ogni sentenza rimaneva fondamentalmente aperta ad un com­
pletamento qualsiasi. Non possedeva verità che in un settore determi­
nato della vita e in un gruppo determinato di circostanze tra loro para­
gonabili. Il compito dell’allievo era, se così si può dire, di discernere
i tempi nei quali la sentenza era vera e quelli in cui essa si deformava
in una controverità29.
Nella sapienza più recente, le cose non sono fondamentalmente di­
verse, poiché anch’essa proviene dall’esperienza. Se i saggi insegnano
il rapporto condotta — retribuzione e la « sinergia » del mondo circo­
stante rivolto verso l'uomo, l’Ecclesiaste, invece, li contesta. Se i mae­
stri della sapienza antica si erano attivamente occupati della ricerca
della conoscenza e delle regole, i più recenti si sono adeguati alla
dottrina della testimonianza che la creazione rende a se stessa come
oggetto di una volontà ordinatrice che si impone all'uomo. Le due
immagini di Giobbe, quella di chi vive sicuro presso Dio malgrado le
più forti sofferenze e quella di chi cade negli abissi della disperazione,
non si sovrappongono. Profondamente radicata nella natura stessa di
questo pensiero è la ragione per cui il dialogo degli uomini nel libro
di Giobbe termina senza sfociare in una conclusione. Il problema di
Giobbe trattato dai suoi interlocutori rimane in sospeso. Solo Jahve
può mettere fine con una decisione al susseguirsi delle opinioni; e,
fatto estremamente interessante, questa decisione divina non ha un
rapporto tematico diretto con il dialogo e non lo guida ad un esito.
In tutto il nostro studio, abbiamo sempre ritrovato quest’elemento
” Vedi pp. 73, 222 s.
28 L'uso sobrio della parola può essere un segno di sapienza; può anche nascondere la stoltezza
(Prov 17, 27 s.). La ricchezza è sempre considerata un bene degno d'essere raggiunto anche con
sforzi, essa è però senza valore nel giorno della collera (Prov 11, 4). Ricchezza e redditi possono
essere buone cose, m a anche un peccato (Prov 10, 16). Chi è sazio pesta il miele coi piedi, l'affa­
mato trova dolce anche l'amaro (Prov 27, 7). Una benedizione pronunciata a voce troppo alta può
essere scambiata per maledizione (Prov 27, 14), ecc.
• La conversazione tra un padrone ed il suo schiavo, antico racconto babilonese, mostra
quanto poteva essere pericolosa questa conoscenza dell'ambivalenza: il padrone partecipa diversi
progetti allo schiavo, ma subito li smentisce per dire che farà ogni volta il contrario. Lo schiavo
giunge a trovare buone ragioni in un caso come nell'altro. Cfr. Gressmann, in AOT, 1926*f 284 ss.;
Pritchard, in ANET, 437 ss. Interpretare questo dialogo come una canzonatura umoristica dell'ob-
bedienza « perinde ac cadaver » è mio parere non comprendere nulla di questo poema profonda­
mente amaro.
CONCLUSIONI 277

di discussione dialettica. L'uomo percepisce di fronte a sé regole che


può conoscere; ma vede anche di fronte a sé la libertà di Dio in pre­
senza della quale svanisce ogni idea di essere saggi. Se la sapienza
antica dava istruzioni sul modo di acquistare e di conservare ricchezze
e onori, la più recente considerava questi beni come doni dell’ordine
primordiale. Ciò significa che lo stile della discussione dialettica sulla
quale poggiavano chiaramente le singole opere vale anche per questa
letteratura nel suo insieme. Si possono comprendere queste opere e le
loro dottrine così diverse in un altro modo che come le porzioni di
un vasto dialogo in cui delle verità possono essere dette contro altre
verità? Se si è preso una volta coscienza del fatto che queste dottrine
non possono essere capite che a partire dal loro modo specifico di con­
cepire Dio e la realtà, da questo momento — e da questo momento
soltanto — non si è più ostacolati neU’affermare che questo pensiero
era posto sotto il segno di aporie nelle quali doveva lasciarsi guidare
unicamente dai suoi presupposti. Dall’affermazione che l’uomo disposto
alla ricerca si trova sempre in conflitto con la realtà che lo circonda,
consegue che il senso della realtà dei saggi non possedeva un carattere
così evidente da poter soddisfare tutti in tutte le situazioni. La que­
stione era la seguente: a confronto con le regole riconosciute, ciò che
non era padroneggiato era ancora accettabile, poteva ancora entrare
nel calcolo — anche solo come mistero — o no? Nel caso di Giobbe,
questa era l'opinione dei suoi amici; quanto a Giobbe, egli vedeva
nella sua sofferenza un dissidio insostenibile, un fatto inaccettabile.
« La collera uccide l’insensato » (Giob 5,2). I saggi, compreso Giobbe,
non sono sempre rimasti fedeli a questa loro conoscenza. Alla fine si
dovrà pur pensare che Israele era onestamente disposto ad imparare
qualcosa dall’esperienza ma non poteva sfuggire agli inevitabili contrac­
colpi della vita, poiché le conoscenze acquisite portano a loro volta
pregiudizio all’esperienza. Ma in queste dottrine in cui lo zelo dei saggi
minacciava di traboccare, l’esegeta non può anch’egli riconoscere la
verità, per la quale essi combattevano e che cercavano?
Si potrebbe dare un giudizio sul pensiero di questi maestri dall’alto
della torre d’avorio della storia della filosofia. Non si potrebbe conte­
stare ch’esso aveva dei limiti evidenti. Paragonato col pensiero greco,
sorprende subito per la sua mancanza di metodo. Ma anche a questo
proposito è raccomandabile la prudenza, poiché in esso vi è forse più
metodo di quel che vi scorgiamo. In ogni caso, qui come altrove, le
lacune non devono essere isolate dai vantaggi. Forse Israele non poteva
assolvere diversamente l’arduo compito di cercare delle regole in un
mondo interamente aperto a Dio. Chi pensa che solo il metodo occi­
dentale di acquistare conoscenze — come tutti sanno, esso risale alla
problematica degli antichi Greci — ha il diritto di dirsi « scientifico »,
chi identifica quindi il pensiero pre-ellenico col pensiero prescientifico
dovrebbe immaginare un altro nome per descrivere ciò che è avvenuto
in Israele. Non vi è alcuna ragione di rifiutare quest’attributo allo sforzo
278 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

dei saggi, purché si veda chiaramente che Israele aveva un modo di­
verso di affrontare gli oggetti per trarre le sue conoscenze.
Come abbiamo visto, gli insegnamenti interamente orientati verso la
pratica non miravano a migliorare luomo, ma ad umanizzarlo. Bisogna
quindi considerare queste regole come gli elementi della ricerca di una
civiltà nell'antico Israele. Neirinsegnamento dei saggi si esprime
un'umanità, un umanesimo che non fa il minimo tentativo per eman­
ciparsi nel senso di un essere nuovo e migliore, né sul piano sociolo­
gico e politico, né sul piano individuale. In nessun punto l'uomo viene
incitato a identificarsi a un modello ideale che trascende la sua natura.
Non è un essere diviso, non deve sforzarsi di raggiungere una specie
di liberazione, il passaggio ad una dimensione ancora situata davanti
a sé. Dal punto di vista educativo, manca a quest'insegnamento ogni
pathos di redenzione.
Ci si può domandare se quest ultima frase è ancora valida per alcune
dottrine della sapienza più recente. Nella dottrina della sapienza origi­
nale, si trattava infatti non di questo o quest'altro insegnamento che
potrebbe essere utile all'uomo nella propria vita, ma di una chiamata,
di un ultimatum rivolto all'uomo nella sua interezza. Si trattava di
vita o di morte. La voce che parlava così non era quella di questo o quel
maestro, ma la voce dell'ordine del mondo stesso che chiamava luomo
a sé e gli offriva tutto ciò che lo può completare. Infatti qui si tratta
veramente della salvezza dell'uomo e quello che i maestri espongono
in tale campo ha tutte le caratteristiche di una dottrina della salvezza.
Ma forse non quelle di una « dottrina della redenzione ». I maestri ela­
borano una sola conoscenza con la più estrema acutezza: ciò che costi­
tuisce l'umanità delluomo è ascoltare. Senza questo incessante ascolto
dell'ordine stabilito da Dio, egli è perduto. Ma in fondo, neppure
questa conoscenza era nuova; i maestri precedenti infatti erano essi
pure convinti che le regole erano salutarmente orientate verso l'uomo
che si rifugia in esse.
Se si volesse parlare qui di una soteriologia, essa sarebbe piuttosto
eretica, nella forma che ha preso, rispetto alle idee tradizionali del
culto e delle istituzioni storiche di salvezza. Poiché la salvezza non
deriverebbe da una discesa di Jahve nella storia, né da una mediazione
umana qualsiasi, sia quella di un Mosè, di un Davide o di qualche pa­
triarca, ma dai dati originali della stessa creazione. Sembra così nascere
una tensione teologica di fronte alla fede tradizionale in Jahve ed è
difficile immaginarne una più intensa. Abbiamo visto i maestri, nel
Siracide e in quella che vien chiamata l'apocalittica, occuparsi della
storia, anche della storia mondiale. La competenza che i saggi avevano
nell'interpretare l'avvenire, li ha posti una volta ancora, in un'epoca re­
cente, nella prospettiva di compiti nuovi. Ma, per quanto fossero gigan­
teschi gli abbozzi della storia elaborati dall'apocalittica, non si poteva
più conferire alla storia il significato specifico di un campo nel quale
hanno luogo avvenimenti unici fondanti la salvezza.
CONCLUSIONI 279

La riflessione dei saggi non ha iniziato la sua attività riflettendo


sull'intervento divino nella storia. Essi si vedevano sfidati dai problemi
ben più antichi posti alla natura umana. Nella sua filosofia dell'esi-
stenza, Israele si è posto uno dei problemi più elementari dell'esistenza
umana, esponendosi all'eterna provocazione del mondo. Vi ha risposto
nella maniera in cui si sapeva autorizzato dalla forma particolare della
sua comprensione di Dio e della realtà. Senza giungere ad una visione
d'insieme, il pensiero dei saggi non ha cessato di girare attorno al
problema di una fenomenologia dell'uomo. Non dell'uomo in sé, certa­
mente, ma di una fenomenologia dell'uomo legato al suo ambiente, al
mondo circostante nel quale si trovava come soggetto e come oggetto,
attivo e passivo. Senza questo ambiente rivolto verso di lui e verso il
quale egli si rivolgeva, ogni comprensione dell'uomo era impossibile in
Israele. Israele ha conosciuto solo un uomo in relazione, in relazione
con l'uomo, col mondo circostante e più ancora con Dio. La dottrina
della creazione che si rende testimonianza è essa pure un contributo
alla fenomenologia dell'uomo e del mondo che lo circonda. È forse l'ul­
tima parola d'Israele in tale campo.
Se gettiamo uno sguardo sugli « argomenti d'insegnamento » di cui
ci siamo occupati, potremmo dire che il numero delle conoscenze fon­
damentali a cui Israele ha applicato il suo pensiero non è molto grande.
Ma esse erano l'oggetto di una riflessione continua e, date le possibilità
di applicazione sempre mutevoli, il modo di formularle si rinnovava
con una grande facilità. Dobbiamo ricordare che — in tutto l'antico
Oriente — regnava una stabilità straordinaria in questo settore della
vita intellettuale, quello cioè delle conoscenze. Ciò che variava invece,
era il grado di riflessione rivelato dalla loro formulazione, la prospet­
tiva teologica in cui erano inserite, gli oggetti a cui si riferivano. È evi­
dente che queste conoscenze, rivedute da coloro che sono venuti più
tardi, han potuto presentare a volte aspetti nuovi e interessanti.
Come abbiamo detto all'inizio del nostro studio, i maestri si sono ri­
volti alla conoscenza di ciò che è vicino, ben noto, del quotidiano che
tutti conoscono e che nessuno approfondisce. Possiamo ora dire che
fino alla fine, in ogni caso fino a Gesù di Sirach, essi non hanno
deviato da questo compito. Sono stati così indotti a passare da pro­
blema a problema, in un campo assai esteso. Nei loro sforzi per fissare
le conoscenze acquisite dalla loro esperienza, sono entrati in problemi
sempre più tipicamente teologici. Alcuni di loro non hanno più potuto
limitarsi a trattare marginalmente il problema di Dio, considerandolo
come un limite, una frontiera. Anche la nozione di « sapienza » — con­
cepita nei maestri antichi in modo relativamente semplice e chiaro
come la capacità di dare una forma alla vita — ha dovuto dare prova
di sé in un prospettiva teologica diffìcile. Non vi era possibilità di arti­
ficio. Le opinioni dell'epoca posteriore sono diventate nettamente più
ricche di contrasti. L'evidenza di una dottrina incontrava nel dialogo
altre concezioni la cui evidenza non poteva essere contestata. È impos­
28o LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

sibile trascurare la funzione dell’Ecclesiaste come segnale d'allarme. Ma


abbiamo rifiutato di vedere in lui la grande sentinella che avrebbe
riportato la sapienza alla conoscenza dei suoi limiti30. Questo dialogo
non poteva mai sfociare a una conclusione. Nella sapienza tardiva par­
ticolarmente, esso è condotto con un pathos poetico straordinario.
I suoi portavoce — Giobbe ed anche l’Ecclesiaste — sono trascinati
dalla grandezza e magnificenza del loro oggetto. Anche gli enigmi, anche
il terrore di Dio hanno la loro magnificenza. Tuttavia, nella sapienza
antica e nella sua problematica in parte molto meno ambiziosa, non
avveniva in fondo diversamente. Conoscere, organizzare ciò che è noto,
questo è sempre stato qualcosa di bello di cui ci si diletta senza pre­
venzione. I maestri conoscevano il gioco della sapienza primordiale
con l’uomo (Prov 8,31) e sono entrati nel gioco a loro modo. L'espres­
sione della verità necessitava di una forma artistica; anche per Israele
è stato un fenomeno estetico31. Ma nessuno ha avuto elogi più del
Siracide per lo splendore diffuso sulla creazione In lui, la distanza tra
l'insegnamento ed il cantico di lode è molto ridotta.
In definitiva, la sapienza in Israele non può essere descritta come
un insieme di vaste dimensioni, ancor meno come un edificio spiri­
tuale compiuto. Abbiamo ragione per ammettere che dello sforzo didat­
tico d'Israele non ci sono giunti che frammenti. Ma anche se potessimo
accostare tutti gli elementi di questo sforzo, non giungeremmo proba­
bilmente ad un giudizio molto diverso. Crediamo di aver mostrato che
uno sforzo di conoscenza il quale percorre la propria strada in condi­
zioni come quelle presenti in Israele, non poteva mai giungere ad una
visione globale e totale e doveva restare un’impresa mutila. L'ambito
intellettuale entro cui si muoveva questo sapere, aveva senza dubbio
un’ampiezza imponente, ma al suo interno, gli argomenti d'insegna­
mento si presentavano senza relazione gli uni con gli altri.
Si può tuttavia discernere con una certa precisione un movimento
nell’attività didattica d'Israele: allontanandosi brutalmente dalla con­
cezione sacrale del mondo, questo pensiero ha liberato l'uomo e il
mondo creato che lo circonda, ed ha aperto loro una prospettiva pro­
fana della realtà quale Israele non aveva mai incontrato. Con un’aper­
tura di spirito incomparabile, il pensiero dei maestri antichi affronta
una condizione umana nuovamente riscoperta, con i suoi dati psicolo­
gici ed i suoi imponderabili, le sue possibilità ed i suoi limiti. Nella
sapienza più recente, invece, appare una specie di controcorrente. Si so-

30 Opinione di W. Zimmerli, Ort und Grenze der Weisheit, in « Gottes Offenbanmg», 1963, 314 s.
31 « I discorsi piacevoli sono un favo di miele, dolci per l'anima e salutari al corpo » (Prov 16,
24). I « discorsi piacevoli » ('imri nd'am) sono graditi a Dio e agli uomini (Prov 15,26). Ci man­
cano ancora criteri validi per valutare sul piano della storia dello stile, le forme poetiche dei
saggi. Non c’è forse stata in loro una modifica dello stile, una specie di passaggio dal « classico *
al « barocco » o ad un « manierismo »? Ciò non avrebbe nulla di sorprendente per una produ­
zione che ha pure ricercato la raffinatezza dell'espressione ed ha coltivato quest'arte per secoli.
Non è forse In questa categoria che bisognerebbe classificare la retorica applicata di Elihu (Giob
32-37)?
33 H. U. von Balthasar, Herrtichkeit (eine theologische .Ksthetik), voi III, 2» parte, 1967, 319ss.
CONCLUSIONI

no posti problemi teologici più particolari, di modo che essa ha dovuto,


senza abbandonare nulla della conoscenza acquisita circa il carattere
profano della creazione, assumere il compito di riportare il mondo e
l’uomo al centro del campo d'attività di Dio; il che ha naturalmente
sollevato gravi problemi da risolvere. È difficile dire quale dei due
movimenti ha corso i maggiori pericoli, l’evasione della creazione nel
profano o il ritorno ad una prospettiva di azione divina immediata nei
confronti dell'uomo e del mondo. Ovviamente, si può parlare solo con
estrema prudenza di questo duplice movimento come di una sistole
e di una diastole. Un esame più approfondito rivela una molteplicità
di correnti di pensiero parallele o di senso contrario. E a volte si è
rimasti ad un primo germoglio, perché l'idea espressa non è stata
ripresa e maturata.
Ma quel che è molto più importante di ogni distinzione dei movi­
menti interni della sapienza, è ciò che si è imposto fin dagli inizi: la
certezza indefettibile che la creazione rivelerà personalmente la sua
verità a chi confida in essa, dato che essa lo fa già costantemente.
A questa testimonianza delle regole della creazione — e non alla con­
vinzione dei maestri o al loro zelo — è rimasta l’ultima parola, la
parola decisiva.
La sapienza d'Israele ha ricevuto influssi dalle civiltà vicine più che
ogni altro campo spirituale e religioso. Forse da questa familiarità
con la sapienza straniera, questo popolo ha veramente imparato a
vedere correttamente, nella loro vera importanza, un buon numero di
problemi che sono umani da sempre. Ma tutto quelo che ha ricevuto,
Israele l'ha inserito nella prospettiva di una fede in Dio e di un senso
della realtà che differivano da quelli dei suoi vicini. Ha dovuto perciò
compiere questo lavoro beneficiando di possibilità particolari, ma an­
che affrontando difficoltà particolari. Ciò che era specifico in Israele,
era la sicurezza di conoscere le vie di Dio nel mondo che lo circondava,
come pure i limiti nei quali urtava in questa attività. La sua fiducia
nel mondo, le sue tribolazioni e tentazioni erano pure specifiche. In-
somma: è un mondo molto particolare di esperienze quello che è messo
in evidenza dai saggi d'Israele. Sarebbe interessante partire da qui per
riprendere l’esame delle particolarità delle altre forme della sapienza
orientale antica, di quella egiziana e di quella babilonese soprattutto.
Ritorniamo concludendo ai contrassegni « negativi » della sapienza
d'Israele che precedentemente abbiamo avuto l'occasione di constatare,
e che sono alla fine più caratteristici delle sue « prestazioni » positive.
Nessuno sforzo per elaborare una teoria ben coerente del mondo, nes­
suna immagine ideale dell'uomo per la quale possa egli stesso supe­
rarsi, nessuna creazione di un sistema scientifico, ma piuttosto una
sensibile discrezione nei riguardi dei tentativi di spiegazione invadenti
e onnicomprensibili; a questo proposito, un dialogo incompiuto — im­
possibile a compiersi — sul mondo e sull'uomo, sulla base della rico­
nosciuta ambivalenza dei fenomeni percepiti, una preferenza data all'av-
282 LA SAPIENZA IN ISRAELE - PARTE IV

venimento (a nostro parere contingente) su ogni « logos », ecc. Ma tutto


ciò è proprio « negativo »? Dietro tutto ciò, non vi era forse un sapere
fondamentale che Israele metteva in pratica nel campo delle possibilità
che gli erano offerte e dei limiti che gli erano imposti? Sapete che la
verità sul mondo e sulluomo non si lascia mai piegare al ruolo d'og­
getto della nostra conoscenza teorica; che una cultura degna di credito
può essere acquistata solo attraverso uno scambio pieno di fiducia
con le cose; che è una grande saggezza tenersi lontano dalla tentazione
di farsi padroni della realtà mediante i concetti e che è molto più
saggio lasciare alle cose la loro essenza in definitiva sempre enigmatica,
il che significa che si lascia loro la possibilità di diventare esse pure
attive e di rimettere l'uomo a suo posto per mezzo del loro linguaggio.
Con questo sapere, Israele non si è seriamente inserito nel dialogo
filosofico, sia perché nel contesto delle tendenze della filosofia popolare
della tarda antichità non ha trovato un interlocutore, sia perché ha
sempre più nettamente avvertito che nessuna intesa era possibile in un
senso o nell'altro, cosciente com'era della particolarità della propria
eredità intelletuale e religiosa. Senza vedervi del tutto chiaro, Israele
credeva di sapere qualcosa circa una verità di genere assolutamente
unico.
Di essa nulla si è saputo in Canaan,
non la si è scorta a Teman.
I figli di Agar in cerca d’intelligenza quaggiù,
i mercanti di Madian e di Teman,
i narratori di parabole e i cercatori d'intelligenza
non hanno conosciuto la via della sapienza
né hanno trovato i suoi sentieri. (Baruc 3, 22 s .) 33

33 II contrasto è ancora più forte nei profeti, poiché essi vedono la sapienza delle nazioni già
respinta all'ombra del giudizio divino: Is 19, 11 ss.; 44, 25; Ez 28, 12 ss.; Abd 8.
INDICI
INDICE BIBLICO

ANTICO TESTAMENTO

Genesi D euteronomio
1 117, 229, 241 4,19 166
1,31 227, 264 9,1-6 98
2 261 23,2 77
2 ,6 148 27,15 ss. 93, 162, 167
5,24 186 32 260
10 117, 118, 180, 256 32,1 26
13,17 148 32,6.29 262
14,19.22 140 32,18 140
20,11 68 32,37 ss. 262
22,12 68 32,39 127
26,26 242
31,10 130 Giosufe
37,5 ss. 48 2 -1 0 258
37,11 50 1,6 ss. 179
41,1 ss. 48
41,14 ss. 24 G iudici
41,33 28 2 ,6 - 3 ,6 258
42,21 181 6 -8 258
42,51 68 1,2 98
45,5 182 9,8-15 46
50,20 182
1 S amuele
E sodo 3,18 178
1,10 27 13 s. 62
1,17.21 68 14,38 ss. 179
12 241 16,18 25
15,16 140
15,23-25 2 S amuele
127
15,26 127 6 62
19 s. 92 11,1 133
20,4 167 12,1-4 47
20,18-21 93 13,3 27
20,20 184 14,14 178
28,3 58 15,31 99
3 1 ,3.6 27, 58 16,10 181
32 168 16,23 24
35,31.35 58 17 24
35,35 27 17,14 99
36, l s . 58 21 179
36,8 27 24,17 105

IR e
L b v it ic o 2 62
21,16 ss. 77 3 264

19. von rad. la capienza in isracle


286 INDICE BIBLICO

1 Re G iobbe
3,4 s s .28 58 4,12-17 60
3,9 263 4,17-21 193
3,16-28 264 5-14 191
5,9 ss. 58, 274 5,2 191, 277
7,14 27 5,3 43
8,33.34. 35.38. 5,3-7 123
45.46.47 193 5,8 s. 192
10,1 41 5,9 103
17,18 179 5,13 27
22,19 ss. 240 5,17-19 182
5,17 ss. 192, 205
2 Re 5,18 127
1,6 127 5,20 ss. 268
2,3 ss. 186 5,21.23 s. 26 183
5,7 127 5,26 130, 270
14 47 5,27 175
14,9 47 6,5 115
6,8-10 199
2 Cronache 7,1 ss. 230
36,22 248 7,1-4 196
7,14 45
T obia 8,3 192
8,8 43
1 -3 50 8, 8-10 175
4 50 8,11 ss. 26, 115
4 ,5 232 8,11-13 123
4,19 97 8,11-21 175
6,17 128 43
8,13
8,2 128 175
8,14 s.
11,12 128 8,20 ss. 112, 192
12,7 39 9, 5.13 200
13,1 52 9 , 11 s. 195
14,5 248 9,12 181
14,10 23 195
9,16.3
9,21 194
G iu d it ta
9,22 s. 30 s. 195
8,25-27 183 9 ,33 195
9,5 s. 241,247 9, 94 s. 194
16 231 10,2 194
16,6-11 231 10, 3.8-11.8 194
10,17 200
G iobbe 11,6 79
1,1 68 11,7 s. 103
1,5.22 189 11,8 s. 73
1,21 188 , 204 11,13-15 192
1,22 50 12,7-9 149
2,4 189 12,7 ss. 150
2,10 188, 189, 12,17.20 100
2,10 b 50 13,3 194
4,3 s. 190 13,14 s. 194
4,5 201 13,18 194
4,6 68 13,19 199
4,8 43 13,24 194
4,9 200 14,1 ss. 196, 230
4,10 s. 36 14,13 200
INDICE BIBLICO 287

Giobbe Giobbb
14,15 194 32,1 s. 198
14,19 184 32,6-11.18-20 59
15,16 192 32,18 ss. 197
15,17 43 33,1-3 26
15,17-19 175 33,12-20 192
15,21 191 33,13 ss. 205
15,34 124 33,14.19 ss. 179, 183
16,7 288 33,17 183
16,9 200 34,1 s. 26
16,9-17 196 34,2 28
16,12 194 34,10.12.17 b 203
16,19 195 34,10.12.31 ss. 192
17,7-9 203 34, 29.31-30 203
17,10 28 35,11 58
18,5-21 125 35,15 200
18,7-10 36 36, 8-11 192
18,16.19 124 36,10.22 192
19,6 203 36,22-30 203
19,10 184 36,23 192
19,11 200 36,26 103
20,4 s. 175 36,26-29 260
20,22 ss. 112 37, 2-16 203
20,23. 28 200 37, 5.14-17.
20,27 268 19.23 260
20,29 43 38 ss. 191, 255, 268
21,17. 20 200 38,1 -39,30 202
22-27 191 38,2 202
22,21-30 192 38,7 204
23,3-5 194 39,13-18 113
23,10-12 194 39,17 204
24 194 39,19-22 113
24,4 90 40, 3-5 197, 202
24,5-12 77 40,6-41,26 202
25,2-3 103, 260 40,8 203
25,4-6 193 40,15-24 113
26,6.7.14 104 40,25 113
26,14 260 41,26 113
27,2.4-6 194 42,1-6 202
27,5 198 42,2-6 197
27,13 43 42,7 ss. 189, 204
27,13-23 44
27,14 124
28 134, 136, 137, 142, 143, S alm i
144, 145, 147, 154, 156, 1 52
157 14,1 67
28,12.20 143 19 204
28,25.26 136 19,2 149
28,28 68 31,12 190
29,2.7-10 82 32,1 s. 10 172
29,12-16.17 82, 90 34 52
30,3-8 77 34,13 s. 26, 81
31,16.19 s. 90 37 52, 185, 186, 187
31,35-40 191 37,1 191
32 26 37,1.7b 185
32-37 191, 280 37, 2.10.20 185
288 INDICE BIBLICO

Salm i P roverbi
37,3.7.19. 1-9 23, 68, 71,153, 157, 266
22.34 185 1,9 20, 110
37,3.9.11.18. 1,10-19 44
22.27.29.34 185 1,20 s. 146, 147, 148, 153
37,25.35 s. 42 1,22 146
37,49 44 1,24-34 148, 150, 182
38,4 s. 179 1,28 158
40,5 s. 172 1,29 68
41,2 172 1,33 146, 158
41,5 179 2,1-5 176
49 52, 185, 186, 187 2,1-22 44
49,2-5 26 2,2.3 -6 57
49,5 41 2,5 158
49,6 s. 185 2,6 57, 58
49,8-10 185 2,7 79
49,13.21 185 2,9-20 146, 158
49,16 185 2 , 10 s. 57
51,8 58 3,2 57
73 52, 185, 186 3,5 57, 98, 174
73,2 b 186, 191 3,7 98
73,2 ss. 43 3,13-26 57, 111, 140, 158
73,2-17 186 3,18 150
73,16 186 3,19 s. 143
73,139 44 3,21 79
74,2 140 3,31 191
78,2 41 3,32 111
88,9.19 190 4,2 212
97,6 149 4,6 154, 158
104,24 143 4,8 154
104,31 204 4,13 57, 182
105 242 4,24 34
106 242 5,15-19 48
111 52 6 , 6 ss. 113
111,10 68 6,16-19 40, 111
112 52 6,20.23 86
118,8 172 6,22 158
119 52 6,27 s. 26
119,98 58 7,1 ss. 153
127 52 7,4 154, 158
128 52 7,6 ss. 43, 50
135,15-18 163, 164 8 134, 137, 140, 142, 144,
135,18 163 157
139 52 8,1 57, 146, 153
139,13-18a 103, 140 8,2 146
139,16 251 8,3 s. 148
148 149 8,4 140
8,5 s. 10.32 146
P r o v er bi 8,7 HI
1,1 23 8,8.9 148
1,1-5 21, 36 8,12 21, 57
1,1-7 218 8,13 68, 77, 140, 150
1,4 57 8,14 79, 147
1,6 41 8,15 s. 147, 160
1,7 60, 68, 265 8,17 154, 158
1,8 57, 90 8,18-21 146, 158
INDICE BIBLICO 289

Proverbi P roverbi
8,19-20 140, 158 13,3 84
8,21-26 140, 141 13,4.18.25 77, 120
8,22 ss. 137, 140, 143, 147, 148, 13,7 222
156, 159, 230, 231 13,10 85
8,27-29 140, 142 13,11 84, 119
8,30 s. 141, 142, 156, 280 13,12 120
8,32.34 111, 140, 154 13,14 28, 40, 270
8,35 146, 150, 157, 158 13,16 57
9,1-5 153 13,18.24 57
9,3 146 13,20 61, 120
9,6 57, 150 14, 3.24 28
9,10 57, 58, 68 14, 5.25 84
9,13-18 153 14,6 61
10-15 23, 35, 79 14,8 67
10,4 119 14,10 112
10,5 119 14,11 88
10,12.19 86, 92 14,12 80
10,13 61 14,13 112, 222
10,14 91 14,16 67
10,15 111 14,17 85
10,16 276 14,20 111
10,21 67 14,21 90, 111
10,22-26 23 14,22 122
10,23 57 14,25 120
10,26 114, 120, 127 14, 26 124, 174
10,27 68 14, 27 68
10,28 184 14,29 s. 57, 85
10,29 20, 37, 60, HO, 266 14,31 90, 143
11,1.20 111 15,1 s. 4 84, 125
11,2 84, 85 15,2.7 28
11,4 119, 276 15,3 90
11,7 185 15,6 122, n i
11,8 212 15,7 67
11,9 57 15, 8 s. 26 111, 170
11,10 s. 78 15,11 90, 116
11,12-17 34, 84 15,12 s. 28
11,16 77 15,13 120
11,17 88, 171 15,16. 33 68, 120
11,21 122 15,17 111
11,23 184 15,18 85
11,24 121 15,21 57
11,28 119 15,23 130
12,1 57, 91 15,26 124, 174
12,4 120 15,27 158
12,5 91 15,32. 33 57, 60, 61, 67, 68,69,83
12,7 122 16,1 96
12,11.24 71, 119 16,2 90
12,13 86 16,3 174
12,14.18 s. 84 16,4.11 143
12,15 67 16,5.18 85, 111
12,17 120 16,6 68, 126, 171
12,18 124 16,7-12 65, 66
12,20.25 125 16,8 35
12,23 84 16,9 96
13,2 84 16,10-15 25
290 INDICE BIBLICO

P roverbi P roverbi
16,11 34 20,18 24
16,14 83, 171 20,19 84
16,16 61, 158 20,20 90
16,18 118 20,21 119
16,20 111, 174 20,22 92, 184
16,24 84, 280 20,24 96
16,26 120 20,25 170
16,31 35 20,30 120
16,32 83 21,2 90
17,1 35, 119, 170 21,3 172
17,2 35 21,5.17 77, 84, 119
17,3 90, 182 21,20 28
17,5 77, 90, 143 21,22 34, 83, 121
17,8 120 21,23 84
17,9 86, 92, 126 21,24 85
17,14 84 21,27 170
17,15 111 21,28 84
17, 22 120 21,30 s. 97, 98, 212, 275
17,23 84 22,2 90, 111, 143
17,24 67 22,4 68
17,27 57, 58, 84, 85, 276 22,7 77
18,1 79 22,9 90
18,5 34, 87 22,15 57
18,7 67 22,17 18, 28, 75, 87
18,9 77 22,17-24,22 23, 37, 176
18,10 174 22,19 212
18,14 112 22,21 24
18,15 58 22,23 88, 92
18,21 35, 83, 158 22,24 85, 87
18,22 120 22,27 87
18,23 HI 23,9 84
19,1 120 23,11 18, 75, 88, 92
19,2 84 23,12 57
19,3 67 23,13 s. 121, 182
19, 5. 28 84 23,17 68, 191
19,11 28, 83, 86, 92, 126 23,20 87
19,12 83 23,21 88
19,14 96 23,27 120
19,15 77 23,29-30 26, 42
19,17 90, 122 24,3 57
19,18 182 24,4.5 57, 58, 83
19,21 96, 202 24,6 b 24
19,23 68 24,14.20 184
19,26 90 24,15 s. 87
20,1 67 24,16 123
20,2 83 24,17 88
20,3 83 24,19 s. 184, 191
20,4.13 77 24,22 88
20,5 57, 61 24,23-34 23, 28, 120
20,7 111, 124 24,26 84
20,10.23 111 24,28 84
20,12 143 24,29 92
20,14 111 24,30 s.34 42, 43, 77, 87, 119
20,15 84 25-27 23, 35
20,17 121 25 87, 112, 114
INDICE BIBLICO 291
P roverbi P rovbrbi
25,1 23, 211 29,18 111
25,1-7 25 29,20 84
25,2 39 29,22 85, 112
25,3 114 29,23 83, 85, 121
25,6 120 29,25 174
25,6-10.16 s. 30 s. 140, 251
21 s. 37, 85 30,1-14 23
25,8 87 30,3 57
25,11.15 84, 130 30,15-33 23, 117
25,15 121 30,17 90
25,17 87 30,18 41, 117
25,18 84 30,21-23 41
25,21 88, 126 30,29-31 41
25,22 92 30,32 84
25,23 114 30,33 115
25,24 35 31,1 ss. 23
25,28 35 31,1-9 23
25,29 23 31,9 90
26,1-8 67, 82 31,10-31 23
26,6 266 31,26 86
26,11 114 33,16 217
26,12 37, 98
26,17 85
26,20 114 E c clesia ste
26, 23 36 1,3 206
26, 27 122 1. 4-7 116
27 87, 114 1,13 205, 310, 255
27,1 s. 10 s. 1,16-18 207
13.23 37, 87, 98 2,3 205
27,5 35 2,10.21 126, 209
27,7 121, 276 2,14 s. 206
27,14 276 2,22 s. 206
27,17 114 2,24 209
27,20 112 2,26 58
27,22 67 3,1-8.17 129, 207
27,23 s. 87, 131 3,1-11 129
27,24 88 3,2-8 236
28 s. 81 3,9-11 208
28,2.13-24 86 3,10 210
28,3.27a 90 3,11 132, 212
28,4.7.9 85 3,14 201
28,5 70 3,16 206
28,9 170 3,18 184
28,11 98 3,19 206, 235
28,14 111 3,22 126, 209
28,15 83 4,1 206
28,18 86 5,7 206. 209
28,20.22 84 5,18 209
28,25 174 6,10 210, 236
28,26 67, 98 6,12 212
29,6.16.22 86 7,14 207, 208, 212
29,7 90 7,15 206
29,11 67 7,24 210
29,13 112, 143 7,25 205
29,15 61, 80, 182 8,6 207
292 INDICE BIBLICO

E c c lesia ste S a pie n z a


8,7 206 14,12.23-31 167
8,9 206 14,15-17 167
8,10.14 206, 207 14,18 167
8,14 s. 208 15,7-10 166
8,17 211 15,12 167
9,1 206, 210 16,17 269
9,2 s. 206 16,24 269
9,6.9 209 17 252
9,7-9 209 17,16-20 125
9,11 s. 207 19,18 269
9,12 208
9,13-16 206 E cc le sia stic o
10,4 126 1,1-3 217
10,14 204, 212 1,1-10 217
11,2.14 209 1,1-30 218
12,1-6 49 1,4-9 148, 217
12,2-6 206 1,9 144
12,13 28 1,10 217
24,6 147 1,11 s. 219
1,13 234
C a n t ic o dei C a n t ic i 1,14 218
4,9 s. 12 154 1,16.27 219, 220
5,1 154 1,23 85, 132
1,25 219, 220
1,27 219, 232
S a p ie n z a 2 182
1,6 156 2,1-5 182
1,13 271 2,1-18 232
2,1-20 215 2,2-11 225
2,9 43 2,3 234
2,24 271 2,6 184, 219
5,8 ss. 85 2,10 177
6-9 144 2,15 s. 219
6,12-16 155 3,1-16 216
6,13-16 159 3,17 s. 20 232
7,12 156 3,21-24 260
1 ,15 ss. 114 3,31 225
7,18 ss. 24 4,1-10 90, 216
7,18-20 256 4,1-16.22-25 231
7,21 141 4,8 232
7,25 156 4,11-18 218, 232
7,26 156 4,12 150
8,2.16 154 4,15 154, 158
8,6 141 4,17-18 182, 183, 260, 268
8, Ib . 8 256 4,20-26 112, 132, 223, 225
8,8 41 4,23 130, 225
9,4 156 5,7 225
10-19 150 6,6-17 216
11,20 251 6,7 85
12,12 181 6,8 225
13-15 166 6,9 223
13,1-9 166, 169 6,18-33 218
13,10-19 166, 167 6,26-28 158
14,1 166 6,28 158
14,2 167 6,37 219, 220
INDICE BIBLICO 293

E c clesia stico E cclesia stic o


7,15 233 22,23 225
7,17 232 22,24 115
7,32 90 23,2 182
7,36 234 23,20 237, 247
8,9 175, 216 23,27 219, 220, 227
9,1-9 216 24 134, 147, 153, 156, 221,
9,11 185, 234 231, 232
9,17-10,18 216 24,1-6 147
10-19 26, 219 24,1-22 221
10,4 226 24,2 159
10,4.8 248 24,3-6 147
10,14 232 24,7-11 152
10,26 225 24,10 241
10,30 s. 116 24,12-13.16-20 221
10,31 83 24,22 221
11,3 112 24,23 153, 217, 219, 221
11,11-13 223 24,25-34 221
11,24 224 25,7-11 41
12,16 225 25,24 234, 245
13,1 115 26-28 234
13,3 111 26,1-6 233
13,20 232 28,7 219
13,23 111 29,1-13 222
13,25 120 29,2-5 225
14,20-26 30 29,9 90
14,20-27 155 29,11 219
15,1-15 219 29,28 260
15,2 151, 154, 159 30,24 120
15,11-20 237 31,1 110
15,16 224 31,34 111
16,1-3 223 31 (34), 8 219
16,3!? 223 31,12 s. 43, 231
16,6 s. 229 31 (34),21-
16,8 s. 241 32 (35),20 233
16,12 234 31 (34), 21.24 233
16,24-30 229 31,28 225
16,25 84, 217 32 (35), 1.2.7 219
17,1-12 229 32 (35), 2 233
17,12 241 32 ( 35), 10-12 233
17,14 222 32,14 s . 219, 233
17,23 234 32 (35), 14 233
18,13 182 33 182
18,16 225 33 (36), l-13a 233
18,21 232 33,2 182
18,24 225, 234 33,7-15 238
18,29 217 33 (36), 10 234
19,9 225 33,12 238
19,17.20.24 219 33,13-15 224
19,20 220 33,16-18 42, 234
20,5-7 223 33,16&-22 233
20,6.19 s. 225 34,10 182
20,21 119 34,11 s. 24
21,11 219, 220 34,13 272
22,6 130, 225 34,22 84
22,14 42 34,23 s. 170
294 INDICE BIBLICO

E c c le sia stic o
E c c l e sia s t ic o
34,30 170 49,19 247
35,3 84 50,2-7 218
35 (32), 15.17. 50,5 231
23 s. 219 50,27 216, 217
36,8.10 248 51,1-12 233
36,12 241 51,10-12 225
37,3 s. 223, 234, 272 51,13-16 42
37,4 225 51,13.19.26s. 154
37,7-15 222 51,23 25
37,12 219 51,27 158
37,16 84
38,1-15 127, 216f 223
38,13 130, 225 I sa ia
38,18 120 2,8 163
38,24-34 233 3,3 24
39,1-11 29, 234 5,19 202
39,3 41 6,3 144
39,4 24 10,13 28
39,6 217 10,15 99
39,7 260 17,14 43
39,8 219 19,11 28, 282
39,9-11 83 28,23-29 26, 79, 114, 131
39,1 « 5 226 29,14 100
39,17&-23 227 30,1 202
39,21.34 227 30,4 4
39,25 236 34,1 26
39,26 s. 224 40,12 27
39,30 227, 236 40,19 s. 163
39,33 s. 227, 237 40,20 21
40,1-9 230 40,28 103
40,2 230 41,7 163
40, 8 s. 123 44 164
40,24 225 44, 9-20 164
41, l s . 270 44,17 166
41,1-2 223 44,25 100, 282
42,2 219, 223 45,1 ss. 248
42,8 112 46,1 164
42,18 237 46,10 202
42,19 260
42,21-25 271
43 220 G e r e m ia
43,31 s. 104 4,22 27
43, 32 261 6,19 122
43,33 233 8,7 130
44,1-15 230 8,8 25
44,2 231 8,9 70
44,10 s. 124 8,15 130
44,16 249 9,16 27
44,50 230, 241 9,23 s. 99
45,4 232 10,1-9 163
45,5 222 10,9 27
45t 12 231 10,23 39, 97
48,4 231 12 187
48,25 260 13,25 43
49,9 214 14 193
INDICE BIBLICO 295

G erem ia D an iele
14,2-6 193 1,3-6 51
14,7 193 1,17 24, 58
14,16 122 1,19 26
17,7 265 2 248, 250
17,11 184 2,7 247
18,7-10 241 2,21.23 58, 239
18,18 28 2,28 24
27,5 ss. 248 4,32 181
31,35 s. 102 7 248
33,25 102 7,13 243
50,35 s. 28 14,5 168
52,15 141
O sea
6,1 127
B aruc 13,2 163
3,9 156 13,13 27, 132
3,2s. 282
4,4 156 A m os
3,3-8 26
L ettera di G e r e m ia 5,13 130
10-25 165 A bdia
33-37 166
8 282

E z e c h ie l e G iona
2,9 251 1,4 ss. 179
7,26 28
M ic h e a
15,1-3 26
16,8 130 2,2 185
17 48
A bacuc
18 187
19 48 2,3 251
20 258 2,18 s. 163
27,8 27
M a la c h ia
28,3 28
28,12 ss. 282 3 187

TESTAMENTO

R omani E f e s in i
5,16 132
1,20 151
8,28 268 G ia c o m o
9,11 242 5,11 215
296 INDICE BIBLICO

SCRITTI t a r d o g iu d à ic i

A p o c a lis s e d'À bram o 5,23 ss. 246


26,5 242 5,43 ss. 26
6,1-6 246
A s s u n z io n e d i Mosfe 6,54 246
2-10 242 6,55 ss. 26
12,4 s. 239, 242 7,1 ss. 26
7,45 ss. 26
B aruc s ir ia c o 7,50 246
4,3 243 7,74 240
7,14 247 7,119 245
53 250 8,1 ss. 26
53,6 250 8,35 ss. 26
53-71 48 8,52 243
53-74 242 8,55 s. 238
56-74 250 10,54 243
59,4-11 243 11 s. 247
75 247 13,36 243
85,2 238 13,58 246
14,9 243
E noc
2,5 26 L ettera di A r istea
4,1 26 142-171 171
5,1 26
39,11 239 L ibro dei G iu b il e i
41,8 239 1,4 241
42 144 1,26 241
42,1-3 147, 156 1,29 241
85-90 48, 242, 8-9 117
90,29 ss. 243 11,4 166
90,40 247 11,16 168
90,41 242 12 166
91,10 144, 156 16,3 242
91,12-17 242 22,18 166
91,15 243 24,33 242
92,2 239 30,19 ss. 238
93,1 s. 242 32,21 239, 242
93, 3-10 242
98,4 238 S alm i di S alomone
III E sd ra 15 51
3 41
S c r i t t i d i Q u m rà n
IV E s d r a 1 QS XI, 10 39
3,4-27 242, 244
1 QS XV, 12 s. 39
3,13 s. 246
1 QS III, 15 s. 239
3,15 s. 246
T e s ta m e n to di A s se r
3,20 245
3,23 246 7 241
3,28.31 245
4,27 245 T e s ta m e n to di L ev i
4, 37 240 5 241
INDICE GENERALE

Prefazione all'edizione italiana


Prefazione .
Abbreviazioni .

Parte I
INTRODUZIONE

I. Il pr o b lem a .

II. L uoghi e r a p p r e s e n t a n t i d e l l a t r a d iz io n e d id a t t ic a .

III. F orm e d i e s p r e s s io n e della c o n o s c e n z a ....................................


I. La sentenza artistica, 32 - II. Altre forme di poesia didattica, 40.

Parte II
L’EMANCIPAZIONE DELLA RAGIONE
E I SUOI PROBLEMI

IV . C o n o scen za e t im o r d i D io .

V. S ig n if ic a t o d e l l e r e g o l e p e r u n c o m p o r t a m e n t o s o c ia l e
g iu s t o ....................................................................................................................

V I. L im it i della s a p ie n z a .

Parte III
MATERIE PARTICOLARI DELL’INSEGNAMENTO

VII. E lem enti d i u n a p a d r o n a n z a d e l l a r e a l t à ....................................


I. La fissazione dei fatti e la ricerca di analogie, 110 - II. Cause ed
effetti del rapporto condotta-retribuzione, 118.
V ili. V i è u n t e m p o p e r o g n i c o s a ... .
298 INDICE GENERALE

IX. L ' a u t o r iv e l a r s i DELLA C R E A Z IO N E .......................................134


I. La sapienza immanente al mondo, 135 - II. La chiamata, 145 -
III. L’amore spirituale (eros), 153.
X. La po lem ica contro gli idoli . 162

X I. S a p ie n z a e culto 170

X II. F id u c ia e a v v e r s i t à .......................................................................... 173


I. Il fondamento della fiducia, 173 - II. Risposte alle esperienze di
dolore, 177 - III. Il libro di Giobbe, 187 - IV. L’Ecclesiaste, 205 -
V. Epilogo su Giobbe e l’Ecclesiaste, 214.
XIII. La s a p ie n z a d i G esù d i S ir a c h . . 216
XIV. La d e t e r m in a z io n e d iv in a d e i t e m p i . . 235

Parte IV
CONCLUSIONI

P arte c o n c l u s iv a ................................................................................................... 255


I. La « Regola logica », 257 - II. Come usare la ragione, 262 - III. La
« sapienza d’Israele », 272.
Indice biblico . 285
STAMPATO CON I TIPI DELLA CASA EDITRICE MARIETTI - TORINO