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NUOVE FORME E NUOVE GEOGRAFIE

Ormai consideriamo strettamente contemporaneo ciò che accade a partire degli anni ’60 del novecento. In
questo periodo, il secondo dopoguerra, vi è una ripresa delle principali rotture linguistiche e concettuali
provocate dalle avanguardie storiche. Vi è una rivoluzione non solo estetica, ma anche epistemologica del
valore dell’arte, di ciò che le si chiede, del suo significato stesso.

Con l’inizio del ‘900 tanti movimenti (ciascuno a modo proprio) il rapporto diretto tra segno e realtà si è
andato a rovinare: cominciano ad utilizzarsi segni astratti, non più riconducibili ad un messaggio preciso
(mette in crisi la vocazione rappresentativa dell’arte). L’opera diventa territorio per un nuovo linguaggio, che
non ha più in comune il mondo reale con chi osserva ma una dimensione spirituale. Bisogna abituarsi ad un
linguaggio di forme che è in grado di parlarci, di suscitarci emozioni. L’astrattismo (ma anche altri movimenti
che possiedono linguaggi moderni) ha quest’idea utopica che, rinnovando il linguaggio e cambiando i propri
strumenti espressivi, si possa dare vita ad una nuova epoca, a contribuire al rinnovamento della società.
Queste correnti spiritualiste sorgono anche un po' a contrastare il movimento generato nella società
occidentale dall’avvento della civiltà urbana, dal senso di rottura della comunità che sperimentava le persone
che si spostavano verso la città per lavorare (e quindi abbandonando le piccole comunità rurali). Questo
sentimento fa sì che ci sia una condanna, un rifiuto della visione urbanistica della società e quindi un bisogno
necessario di ritorno alla natura.

Il primo quadro astratto lo troviamo nel 1910 circa a cura di Kandinskij, ma diversi saranno gli artisti ad
emularlo negli anni immediatamente successivi.

“Bisogna imparare a guardare la realtà oltre il velo delle apparenze.”

Come farlo? Allenando la nostra mente (e la nostra sensibilità) a delle emozioni e sentimenti al di fuori del
mondo delle forme. Un’arte evocativa con la quale entriamo in contatto è la musica, che riesce con i suoni a
produrre una gamma di sentimenti.

Il termine avanguardia ha una connotazione militare (posizione anteriore in battaglia, vede ciò che gli altri
dietro non riescono ancora a vedere, l’avere posizioni sfasate all’interno di un gruppo bellicoso). Questa sfera
bellicosa rimanda alla forza d’urto che queste ebbero sulla società contemporanea dell’epoca.

Il contemporaneo viene spesso datata ad inizio ‘900 ma attualmente la data considerata corretta corrisponde
agli anni ’50e 60 dello stesso secolo. In Europa gli anni ’20, invece, sono caratterizzati dal “ritorno all’ordine”,
una reazione culturale e generale alla prima guerra mondiale: ciò comportò un breve ritorno ai linguaggi
tradizionali e al recupero della posteriorità, della compostezza, dell’orgoglio nazionale (molti artisti ritornano
a guardare ai grandi artisti della storia italiana, ad esempio Giotto).

In questo periodo Duchamp, padre del ready-made, viene considerato un grande artista ma la sua influenza fu
minima in quel periodo: a quei tempi l’artista che influenza maggiormente gli altri è Picasso (grande
innovatore).

PICASSO

In Occidente, all’interno dei mercati e di molte botteghe, cominciano a circolare maschere tribali. Uno dei
centri più importanti è quello di Parigi, considerata all’epoca centro e capitale dell’arte (dopo la seconda
guerra mondiale ci si sposterà negli Stati Uniti). E’ proprio qui che si terranno le grandi mostre dell’epoca ed è
sempre qui la sede del Museo Etnografico (che studia la storia dell’uomo attraverso i suoi manufatti)
dell’Homme che apre nel 1906 con numerosi oggetti di origine tribale provenienti soprattutto dall’Africa e
dall’Oceania. Molti sono gli artisti la cui curiosità è stata stimolata da questa esposizione. Queste esposizioni
sono il frutto del post-colonialismo: si era infatti curiosi di sapere quali oggetti erano rimasti dell’eredità delle
colonie. In alcuni casi si arriverà a parlare di “appropriazione” derivata da un comportamento coloniale.
Viviamo in un ambiente ricco di significati, prendiamo molti riferimenti, ormai non si crea nulla di nuovo.
DALL’ESOTISMO AL PRIMITIVISMO ALLE PROSPETTIVE POSTCOLONIALI CONTEMPORANEE

PRIMITIVO: l’accezione negativa, legata alla sua lettura evoluzionista (ciò che è più lontano nel tempo ha un
minore sviluppo), ma che già nel ‘700 era controbilanciata da una visione “controculturale”, sintetizzabile nel
mito del buon selvaggio.

C’è un filone di pensieri risalente al 500/600, sviluppatosi attorno ad una visione positiva, una visione di
innocenza non corrotta ancora dalla società, di purezza e bontà, nata per rilanciare e dimenticare il dramma
collegandosi al mito del buon selvaggio. Un esempio di un sostenitore di questa tesi è Rousseau, un pensatore
illuminista che si è sempre schierato contro la società corrotta. A sostegno di questa visione troviamo gli
esploratori che, viaggiando in giro per il mondo, entrarono in contatto con numero civiltà la cui società era
molto più arretrata rispetto alla nostra, non intaccata dalla corruzione. Arrivato a Tahiti Bouganville, un nobile
intellettuale francese a cui si deve la scoperta di questa e di altre isole dell’Oceania, descrive le popolazioni e il
contesto definendolo “la nuova Citera”, l’isola creata da Venere, l’isola della bellezza descrivibile come
paradiso in terra. Ed è proprio leggendo questi racconti che un’artista, Paul Gauguin, partirà verso quest’isola
alla quale rimarrà legato fino alla morte. Se pensiamo alla sua arte notiamo che non vi è nulla, al suo interno,
che ricordi le maschere tribali o l’arte di Picasso. Questo a seguito di due motivi: il primo è che egli adoperava
un linguaggio molto più classico e formale, il secondo è che egli non dipingeva ciò che trovava, ma ciò che
sognava. Egli sceglie di abbandonare vita borghese spostandosi prima nella campagna rurale adoperando una
pittura molto piatta, con la voglia di cogliere semplicità delle persone di campagna. Non bastandogli, egli
decide di andare in altre terre che però trovò diverse da come erano descritte dagli esploratori cento anni
prima. Trova un mondo che si stava sviluppando e decide quindi di raffigurare figure stilizzate. Ma la sua storia
avrà riscontro nelle epoche successive.

“Il gusto dei primitivi” di Venturi fa riferimento ai primitivi italiani intesi come la stagione che si trova tra il
Gotico e Giotto.

PICASSO

“Capivo che la pittura aveva un valore intrinseco, indipendentemente dalla rappresentazione reale degli
oggetti. Mi domandavo se non bisognasse rappresentare i fatti così come si conoscono piuttosto che come si
vedono. dato che la pittura possiede la sua propria bellezza, si può creare una bellezza astratta purchè resti
pittorica".

P. Picasso, Lettere sull'arte, "Formes", 2 maggio 1930.

All’interno dell’opera “Les Demoiselles D’Avignon”, nel passaggio dalla bozza al quadro finito, si passa da un
registro più didascalico, la rappresentazione di una storia legata all’archetipo dell’Eros e del Thanatos
(all’amore e morte), alla rappresentazione cioè di queste donne che rimandano a immagini di prostitute
attraverso vari elementi come la colpa, il potere tenebroso e magico che queste maschere scaturivano.
Picasso non usa queste maschere solamente per distaccarsi dal canone occidentale, ma le trasforma in forme
significanti, che sprigionano una lettura, un significato. Non un modo per raccontare ma un modo per
significare direttamente.

Picasso ha già cominciato ad allontanarsi dal realismo, dal suo periodo blu e rosa in cui la pittura era ancora
legata al naturalismo, per avvicinarsi alla fase che porterà infine al
cubismo. Numerosi sono i riferimenti ai quali si ispirò: un esempio sono le
sculture iberiche arcaiche che vengono esposte nel 1906 in una grande
mostra (ha quindi occasione di vederle dal vero); sono delle teste molto
stilizzate dell’arte romana e da queste prende ispirazione (sintesi formale).

Questa sintesi formale si trova in due opere di Picasso, “Autoritratto” del


1906, e “Ritratto di Gertrude Stein”, dello stesso anno. Questo ritratto era
stato realizzato “a memoria” dopo mille pose e gli era stato
commissionato dalla stessa scrittrice e collezionista. E’ un ritratto che scaturisce la semplificazione della sintesi
formale di quelle sculture. Passa da un naturalismo molto mimetico a una dimensione più sintetica, più
astratta.

Nel 1906 si tiene anche una mostra retrospettiva di Gauguin: oltre a sue opere vengono esposti oggetti molto
particolari come un vaso di terracotta a forma di statuetta con il corpo sproporzionato chiamato Oviri. La
mostra di arte tribale successiva avviene nel 1907 al museo dell’Homme, oltre che una retrospettiva di
Cezanne (altro artista postimpressionista come Gauguin ma molto diverso da lui, famoso per la scomposizione
per masse e piani).

Picasso, “Studio per Les Demoiselles d’Avignon”. 1907 (esistono 16 bozzetti e numerosi studi). Qui sono
presenti figure molto diverse tra loro quali la figura di uomo che fa ingresso con un libro sotto il braccio (uno
studente di medicina), una natura morta, un marinaio al centro pronto a godersi del relax a fine giornata,
l’idea di mettere un teschio che, insieme alla figura dell’uomo, rimandando un po' alla caducità di tutto e ai
pericoli in cui si incorreva all’epoca nell’avere rapporti con prostitute. Avignon è la via a Barcellona brulicante
di prostitute. Questo quadro viene definito didascalico grazie a tutte queste figure che descrivevano pericoli,
amore, seduzione, morte.

Picasso, “Les Demoiselles d’Avignon”, 1907.

L’obiettivo dell’artista non è riportare una realizzazione realistica: egli voleva che il quadro avesse una matrice
espressiva che evidenziasse certi tratti, li deforma, con una finalità che gli artisti interpretano con sentimento
ed intuizioni. Il primo piano ha sempre una natura morta per ricordare la tradizione seicentesca e la natura
che è destinata a deperire. Abbiamo due donne centrali, che fanno riferimento all’autoritratto precedente,
all’arcaismo dello statuario iberico: queste due figure, con le braccia alzate in questo modo, sembrano offrirsi
alla clientela in maniera sfrontata, sensuale. A destra troviamo, invece, due figure femminili i cui volti
ricordano le maschere tribali. Questo quadro ebbe una vita pubblica molto ritardata: fino agli anni ’20 non ha
ottenuto la visibilità sperata. Il critico che si dedicò al lavoro di Picasso, negli anni ’70 fa riflessione sul quadro
ponendolo al di fuori della rivoluzione cubista. La scelta formale di attingere alle maschere un valore magico,
antropologico, ma anche di paura e mistero. Questi volti rimandano ad una cultura che gli artisti non
conoscono, perché non sapevano come queste maschere venissero usate.

“Maschere non erano come sculture, erano oggetti magici. In realtà erano solo primitivi, arte negra (tutti
oggetti del mercato antiquato parigino), non sono magici, erano intercessori, contro spiriti minacciosi e capii
allora che anche io sono contro tutto, compresi cosa era la scultura per i negri, tutto serviva a non far cadere
la gente e se diamo forma agli spiriti riusciamo ad aiutare le persone”.

Questi manufatti, che spesso erano costituiti dall’assemblaggio di materiali diversi, ha influito anche nella
libertà con cui gli artisti affronteranno il quadro arrivando persino a minare la sua coerenza di superficie.

{Sia il collage che l’assemblage propongono un modo di rappresentare (bidimensionale o tridimensionale)


molto diverso. Il quadro non è più solamente un insieme di segni pittorici, vi è una commissione ibrida tra essi
e frammenti di realtà materiale. Il collage trova la sua piena formulazione negli anni ’50 e ’60. L’assemblage è
un modo di fare scultura che non è più modellare e scolpire ma è mettere insieme materiali extra artistici
(cartone, tubi di metallo, corde) che vengono assemblati e giuntati. Un qualcosa che è ibrido e suggerisce una
forma. Ciò ha molto a che fare con la libertà delle sculture di origine africana: è possibile invertire il vuoto con
il pieno (“Chitarra”, Picasso).

Picasso, “Nudo con braccia elevate”, 1907.

ACCOSTAMENTO FORMALE TRA ARTE TRIBALE E MODERNA, da Primitivism in XX Century, MoMA NY 1984, a
cura di William Rubin.

Questa fu la prima mostra che fece il punto dell’arte tribale nelle opere degli artisti moderni. William Rubin
(direttore del museo a quei tempi) creò un progetto ciclopico, 150 opere dall’epoca moderna a quella
contemporanea (dall’inizio del ‘900 agli anni ’70): oltre alle opere di artisti occidentali sono 200 circa gli
oggetti di varia natura (maschere, sculture) che provengono Oceania, Africa, Nord America. Per la prima volta
si mette a confronto i capolavori dell’arte moderna con manufatti tribali e si trovano le fonti di riferimento
precise, si correggono delle idee che circolavano e che fondamentalmente erano errate. Tutto ciò che si
riusciva a rintracciare e mettere in collegamento con la scena artistica locale (uso anche di fotografie). Questa
mostra ebbe il pregio di mettere all’interno di un museo non etnografico come il MoMa oggetti che fino a quel
momento (e ancora lo erano) considerati non artistici e dei quali non si interpretava ancora il significato in
maniera corretta. Valutarli rispetto all’impatto che ha avuto la circolazione di questi oggetti in Occidente. Ciò
che interessava lui era vedere come quei manufatti avessero impattato sulla cultura visiva della società
occidentale. Lo sguardo adottato dal curatore era puramente formale, si limitava a riflettere sulle attività e
forme a partire da una ricerca storia che verificava ciò che in quel momento (primi decenni del ‘900) gli artisti
in questione potevano aver visto (o perché facevano parte di collezioni o perché presentate a mostre o
musei). All’interno di questa mostra vennero inserite anche:

I. “Natura morta con la sedia di paglia”, collage (distruzione dell’unità pittorica nel quadro). Si
converge pittura con materiali extra-pittorici (ad esempio la corda). Questa ispirazione deriva da
quei manufatti, dove si vedevano elementi assemblati.
II. “Chitarra”, 1912, assemblage. Assemblaggio di superfici e materiali usati da lui in modo evocativo.
Elude chitarra e ribalta significato di concavo e convesso. Noi, però, riconosciamo che si tratta di
una chitarra. Ad esso si ispirerà Vladimir Tatlin per i suoi “Rilievi d’angolo”.

III. “Bicchiere e bottiglia di Suze”, 1912, collage. Nel 1961 quest’opera viene scelta per la copertina
della mostra “The art of assemblage” al MoMa di NY a cura di William Seitz. Vengono utilizzate
tappezzerie, fogli di giornali, mentre l’etichetta della bottiglia, anziché essere dipinta, viene
incollata sulla tela.

La mostra proseguirà fino agli anni ’70.

Pablo Picasso, “Testa di donna”, 1908.

P. Picasso, “testa per Parade”, 1917: corpo di ballo dei balletti russi con regia di Jean Cocteau. Questo
spettacolo metteva insieme la danza, la composizione musicale e l’utilizzo di costumi. Picasso si occupa di
questi ultimi: ad esempio costruisce la maschera di una giraffa ispirandosi sempre a queste maschere di
culture extra-oceaniche (Maschera elmo, baule, Costa d’Avorio).
P. Picasso, Testa con scarificature, 1907 .

P.Klee, “Album illustrato”, 1937. Disegno dell’artista dove troviamo evidenti rimandi a tipi di sculture e disegni
tribali più dell’area asiatica. Gli artisti surrealisti saranno più interessati all’arte più grafica e meno scultorea
dell’arte oceanica.

P.Klee, “Intenzioni”, 1938.

P. Picasso, “Testa”, 1958. Si ispira a questa Maschera, Dogon, Mali.

C. Brancusi, “Ragazzina francese”, 1914-1918.

H.Hoch, “La dolce” dalla serie “Da un museo etnografico” del 1926: quest’artista donna faceva fotomontaggi e
collage. Lavoro sulla rappresentazione del femminile. Lei lavorava molto sulla raffigurazione stereotipata delle
donne: ritagliava dalle pubblicità dell’epoca visi ammiccanti e sorridenti per promuovere prodotti attraverso la
bellezza e la seduzione. E’ un esempio chiaro di sessismo e rappresentazione del corpo di una donna come
feticcio, come cosa, non come soggetto.
Giacometti: artista conosciuto per le sue sculture di corpi esili, allungati, ridotte all’essenzialità di una forma.
Durante gli anni venti, quando lui era ancora un’artista surrealista, realizza questa coppia (immagine del
maschile e del femminile) con una stilizzazione degli attributi sessuali (e dei volti) e la presenza di
scarnificazioni sul volto/corpo.

M. Ersnt, “Il re che gioca con la Regina”, 1944. Artista molto noto che sposò Peggy Guggenheim, famosa
collezionista americana d’arte d’avanguardia. Egli voleva dar luogo ad una sfera onirica che sta alla base
dell’arte surrealista.

Per quanto riguarda gli oggetti che provenivano più dall’Asia, esse influenzato per le loro connotazioni più
grafiche, pittoriche.

S. Matta, Interrogatorio di ferite (part.), 1948. Figura Malanngan, Nuova Irlanda. Questo è un particolare di un
grande quadro: all’interno è rappresentato un totem dipinto che risulta essere un ibrido tra un coccodrillo ed
una figura umana.

Se fino a quel momento l’obiettivo era stato quello di ricostruire le fonti ma senza interesse per il valore e il
significato che questi oggetti avevano, pochi anni dopo si terrà un’altra mostra. Il suo obiettivo era quello di
trovare un approccio completamente diverso. Una mostra che si propone come la prima a voler contenere
un’arte mondiale, che guarda ad una geografia ormai lontana dall’Eurocentrismo, e che per questo sarà
soggetta a numerose critiche. Sarà una mostra che ci avvicinerà agli argomenti che ci interessano per
ragionare sulla relazione tra culture ed identità differenti.

MAGIENS DE LA TERRE

“A differenza di una semplice collezione di oggetti, la mostra raccoglie opere durevoli o effimere - oggetti -,
prodotte da autori non solo chiaramente identificati, ma che abbiamo persino visitato a casa loro. Tutti questi
oggetti, da qui e da altrove, hanno in comune il fatto di avere un'aura (la dimensione immateriale e
metafisica). Non sono semplici oggetti o strumenti di uso pratico e materiale. Sono destinati ad agire sulla
mente e sulle idee di cui sono prodotti. Sono contenitori di valori metafisici. Comunicano un senso.”

Questa mostra si tenne al Centre Georges Pompidou (importante centro di arte contemporanea), a Parigi nel
1989 a cura di Jean-Hubert Martin. Questa mostra si tenne nell’anniversario dei 200 anni dalla rivoluzione
francese: aveva quindi un po' l’obiettivo di riprendere l’idea di dialogo e soprattutto il principio di uguaglianza
alla base della rivoluzione. Un dialogo che doveva superare alcuni ostacoli nei quali ci si era imbattuti anche
nella mostra di cinque anni prima. Qui la questione si complica: l’intenzione è quella di parlare di arte e di arti
al plurale dando dignità e valore a tutte le espressioni culturali ed artistiche esistenti. Nello stesso anno era
anche avvenuto il crollo del muro di Berlino, concludendosi così un’era in cui il mondo era stato diviso in due,
est ed ovest. Erano anche gli anni in cui si impone un processo di un nuovo capitalismo neoliberale che porta
alla globalizzazione e all’abbattimento delle divisioni tra stati per la libera circolazione delle merci. Dopo
quattro anni di ricerche storici dell’arte in occidente e etnologi (conoscitori delle culture extra-occidentali)
venivano inviati o contattati con la funzione di collaboratori: il loro scopo era individuare in varie parti del
mondo artisti o artigiani che rispondessero a quest’idea dei “maghi della terra”.

I. Artisti dei centri artistici: Una selezione rappresentativa dell'arte di oggi, che mostra gli artisti
maturi degli ultimi venti anni più impegnati nell'avanguardia; artisti con legami con le culture non
europee.
II. Artisti africani e asiatici che vivono in Occidente e la cui opera rivela elementi delle proprie radici
culturali. Artisti occidentali la cui opera mostra un interesse per culture diverse dalla propria.
III. Artisti che non appartengono a questi centri, ma alle "periferie". Opere di natura arcaica destinate
a cerimonie e rituali, legate all'esperienza religiosa trascendentale o alla magia. Opere tradizionali
che mostrano un'assimilazione di influenze esterne. Opere dell'immaginazione degli artisti,
talvolta marginali, che reinventano o riscoprono una cosmogonia o un'interpretazione del mondo.
IV. Opere di artisti che , in vari luoghi del mondo, si sono formati in scuole d'arte occidentali o
occidentalizzate.

Quindi la differenza sostanziale tra le due mostre è che nella prima si voleva analizzare solamente come le
opere di artisti extra-europei abbiano influenzato la cultura occidentale. Contrariamente, la seconda mostra
desidera evocare il significato e i contenuti che queste opere rappresentavano nelle loro stesse culture. La
mostra aveva dei volumi (e quindi delle dimensioni) importanti.

Allestito tra il piano terra del Centre Georges Pompidou e una grande sala della Villette, è il confronto tra
un’opera dell’artista Richard Long, un artista inglese che è legato abitualmente alla Land Art, l’arte che si
misura direttamente con il paesaggio naturale. A differenza degli artisti americani, però, l’artista non agisce
direttamente sulla natura ma ha un approccio più in scala umana: documentano le loro passeggiate con
fotografie e spostando dei materiali (piccoli) creando dei cerchi che sono un po' dei simboli archetipi di come
ci si colloca in uno spazio. Fare un cerchio intorno a sé, che sia un focolare o un cerchio rituale, rimanda alle
civiltà più ancestrali. Long ripropone, in questo caso, usando la terra mista ad acqua e creando così un colore,
questa forma circolare, o a terra o sulle pareti, con queste colature di questo materiale (evoca il paesaggio e
l’idea ancestrale del nostro essere fatti di terra). Un’opera rituale, invece, della comunità di aborigeni
australiani degli Yuendumu, una pittura tradizionale realizzata a terra attraverso l’uso di terra e sabbie di
colorazioni diversi. In questa mostra sono proposti quindi abbinamenti di questo genere.
Alighiero Boetti fu un’artista dell’arte povera che lavorò molto in chiave concettuale sul linguaggio
riconfigurando dei nuovi linguaggi, le parole, trasformandoli in segni grafici. Egli espose “51+1”, cinquantuno
grandi ricami quadrati (una sala intera) in cui i suoi testi italiani si mescolano con quelli persiani di Sufi Barang,
che giunse dal Pakistan appositamente per l’inaugurazione. Negli anni 70 molti erano gli artisti che andavano
a confrontarsi con i saperi dell’arte tessile Afghani. Egli aprì un Hotel a Kabul in cui soggiornava e coinvolgeva
altri artisti.

Barbara Kruger, “Qui sont les magiciens de la terre?”, 1989. E’ un’artista americana, nota negli anni ottanta,
perché utilizzava il linguaggio verbale abbinato ad0immagini tramite dai media e dalla stampa per mettere in
crisi gli stereotipi legati alla rappresentazione della donna, del femminile, e che qui problematizza la scelta del
titolo da parte di Jean-Hubert Martin, “Magiciens de la terre”. Implicano il fatti che per parlare di una cultura
non occidentale non si possa che ricadere nell’immagine del magico, del rito, dello sciamano (stereotipi).

S’intreccia un po' questa doppia accusa. “Chi sono i maghi della terra? I medici? I politici? Gli idraulici? Gli
scrittori? I mercanti d’armi? Gli artisti? I cuochi? I contadini? I contabili? Le star del cinema?”. Andando a
disperdere le nozioni di magico ed andando a rovesciarne gli assunti.

Un’artista di origine pakistana che ha avuto un ruolo importante già negli anni settanta e ottanta nel rileggere
il proprio ruolo di artista educato con la cultura occidentale sarà anche un grande autore di testi, ideatore di
una rivista importante “Terzo Testo” che ragionava sul terzo mondo in relazione all’arte e alla cultura
contemporanea. Il suo nome è Rasheed Araeen. Egli commenterà questa mostra dicendo:

“Magiciens de la Terre è davvero un grande spettacolo con molto fascino per l'esotico. Non c'è niente di male
in un grande spettacolo, ma se ignora o mina questioni di natura storica ed epistemologica, allora non
dobbiamo farci impantanare dall'eccitazione e dal fascino che ha prodotto. Tuttavia, l'esotismo non è
necessariamente inerente alle opere stesse. È nella loro decontestualizzazione, non solo nel passaggio da una
cultura all'altra (che è inevitabile), ma soprattutto nello spostamento da un paradigma all'altro. Questo le ha
svuotate dei loro significati, lasciando solo quello che Frederic Jameson chiama un 'gioco di superfici' per
abbagliare l'occhio (dominante). Tuttavia, Magiciens de la Terre è una mostra estremamente importante. Non
solo per la sua scala fisica - cento 'artisti' da tutto il mondo in una mostra che occupa sia l'ultimo piano del
Centro Georges Pompidou che la Grande Sala della Villette - ma anche per la sua ambizione globale; non solo
per la sua pretesa di rappresentare molte culture diverse ma anche per la sua presunta intenzione di mettere
in discussione quelle distinzioni culturali che hanno diviso il mondo.”

Rasheed Araeen, “Look Mamma... Macho!”, 1983-1986.

Presenza di moduli minimalisti geometrici a reticolo punteggiano le tre fotografie. Il pannello centrale è
occupato da una sua fotografia di una sua performance di "Paki Bastard", presentata nella stanza adiacente.
Le immagini sui lati raffigurano una capra in erezione: ciò rimanda allo stereotipo del vigore sessuale che viene
di solito riferito alle popolazioni nere, allo stesso tempo indicato l’uomo extra-europeo come non civilizzato.
Le citazioni sono estratti dal famigerato "Swamped Speech" di Margaret Thatcher (prima ministra inglese nota
come “lady di ferro”, dell’estremo partito conservatore) del 1978, riferendosi alla paura britannica di essere
"sommersi" dall'immigrazione. Secondo Araeen, questi elementi insieme affrontano i pregiudizi su coloro che
vivono ai margini dell'Occidente. Combinando elementi del vocabolario visivo di Araeen con preoccupazioni
critiche, "Look Mamma... Macho!" esamina le forme e i sistemi di rappresentazione.

Rasheed Araeen, “Paki Bastard”, 1977, Artists for Democracy, London.

In questa scenografia egli adopera un testo proiettato sullo schermo, i suoi e la sua azione sul palcoscenico.
Metteva in scena soprusi e violenze esercitate sui neri che lui reinterpreta attraverso questi mezzi.

Cildo Meireles, Missão, Missioni - Come costruire cattedrali, 1987.

E’ un artista sudamericano che presenta in questa mostra quest’opera: evoca, a livello di materiali, una certa
cultura mista tra un retaggio simbolico che è quello delle ossa (che in quest’installazione compaiono nella
parte alta) come un ammasso, un cimitero galleggiante, e che hanno come immagine speculare una vasca
della stessa misura colma di monete. Al centro, a collegare le due aree, è presente una colonna di ostie
(ricorda una colonna vertebrale), collegamento tra il corpo e lo spirito, l’umano e il divino. Il titolo già veicola il
significato: polemico di questo lavoro che pone in crisi il collegamento tra la religione e il potere.

“Le ossa sospese al soffitto formano una sorta di cimitero galleggiante di coloro la cui vita e cultura sono state
cambiate per sempre. Le monete ammassate a terra, un contrappeso al baldacchino, indicano il costo umano
dell'evangelizzazione. A collegare la massa di ossa e monete c'è una colonna sottile, simile a una spina dorsale
di ostie per la comunione. Nella religione cattolica romana l'ostia collega simbolicamente l'individuo con il
corpo di Cristo; qui le ostie da comunione separano e collegano le vestigia delle culture disperse (le ossa) e il
valore materiale (le monete). In questo modo Meireles conduce lo spettatore, in modo molto seducente e
teatrale, a svelare e affrontare le relazioni contraddittorie tra fede, ricchezza, e genocidio".
La mostra fu accusata di avere offerto una visione delle culture extra-occidentali esotica, cioè legata all’idea di
un’autenticità identitaria legata a un’aura magica e rituale, con lo scopo di dare rappresentazione a esempi
culturali non subordinati all’Occidente. Questa visione è contestata dai teorici postcoloniali, come Homi
Bhabha, studioso indiano e direttore di Studi umanistici all’Università di Harvard, che parlano di IBRIDO
culturale in opposizione all’idea di recupero di una purezza culturale originaria e dunque «incontaminata»,
indicando una TERZA VIA nell’opzione tra arcaismo e assimilazione ai modelli dei paesi egemoni. L’ibridazione
culturale è frutto di condizioni di subalternità rispetto al dominio coloniale, che comportano nei popoli
colonizzati il tentativo di adattarsi e imitare l’autorità, che ha però esito in modifiche e adattamenti destinati a
diventare alternativi, e addirittura antagonisti rispetto ai modelli dell’autorità coloniale. Dal punto di vista
dell’arte, la terza via consiste in forme di ibridazione che consentono agli artisti extra-occidentali di non
ricadere nell’imitazione di un passato folkloristico, né di imitare lo stile internazionale.

Un esempio di «ibrido», secondo le teorie post-coloniali sull’identità formulate da Homi Bhabha, è questo:

Meshac Gaba, Perruques, 2007 (Galleria Continua, San Gimignano). Quest’artista, di origini africane, propone
delle parrucche (destinate ad essere anche indossate) realizzate con le treccioline tipiche delle capigliature
africane realizzare da per lo più donne e su forme che ricordano edifici simbolici di nazioni di tutto il mondo
(torre Eiffel, Empire State Building, teatro dell’opera di Sydney, etc). Architetture identitarie, i “landmark
urbani”, gli edifici che diventato sintesi e simboli di una nazione. Da una parte abbiamo quindi l’architettura
contemporanea e una pratica legata al corpo, ad una specifica tradizione africana (ormai diventata globale).
Sono segni di un nomadismo di ciò che si consideri contraddistingua una cultura piuttosto che un’altra
creando un paesaggio di skyline in cui i luoghi si mescolano e le identità di interi paesi vengono calzati come
un abito.

Tania Bruguera, Poetic Justice, 2001-2003. Un’altra opera che identifica in modo straordinario ed in modo
critico questo movimento è quest’installazione. Lei è un artista di origine cubana la cui opera ha una forte
componente politica. Il titolo è molto eloquente. L’opera consiste in un lungo corridoio , uno spazio
transitabile, formato da migliaia di bustine di the consumate e cucite una alle altre per formare queste
superficie di rivestimenti ogni tanto intervallate da piccolissimi monitor (come fossero piccole finestrelle) tratti
da filmati degli anni ’20. Questi filmati raccontano il personale addetto a diverse mansioni lavorative passare
attraverso una serie di controlli medici dove prevale quest’immagine di corpi soggetti alla cura e
all’adeguamento necessari. Il percorso attiva una percezione polisensoriale grazie anche all’odore che queste
bustine emanavano (the alimento di origine orientale).
Ecco che quindi, fin dagli anni settanta e ottanta, cominciano a vedersi nella scena dell’arte occidentale artisti
che spesso vivono anche in occidente. E’ il caso di David Hammons, un artista afroamericano figlio dello
schiavismo e che, nonostante egli sia un cittadino americano a tutti gli effetti, è ancora vittima di
discriminazioni. La sua scultura che ammicca alla scultura tribale ma che crea un simbolo molto potente dello
schiavismo (vanga era anche un nomignolo con il quale venivano chiamati gli schiavi neri nelle piantagioni).
Egli usa il linguaggio esplorandone i significati culturali e politici.

David Hammons, Vanga con catene (1973).

Le sue azioni spesso si manifestano in queste performance, come questa vendita di palle di neve giocando tra
bizzarre e bazar (idea di mercatini poveri e paesi con economia di sussistenza). Egli espone non solo le sculture
di origine minimalista (palline di neve), ma anche la giacca bella appesa per l’inaugurazione giocando così il
doppio ruolo di clochard e di artista.

David Hammons, Afro American Flag (1990), MoMA Museum of Modern Art New York. Questa bandiera nasce
in occasione di una mostra in Olanda sugli artisti americani di origine africana, andando proprio a rilevare la
poca presenza e soprattutto creando questo oggetto ibrido che notoriamente mette insieme i simboli della
bandiera americana con i colori della bandiera pan africana (adottata negli anni venti come simbolo del pan
africanesimo). In questo ibrido viene rivendicata il ruolo e la presenza degli afroamericani all’interno della
cultura statunitense.
Jimmie Durham, Self Portrait (1988). Egli è un altro artista americano ma di origine pellerossa (indiani nativi).
Quest’opera è un autoritratto composto da una serie di frasi ed elementi che fanno riferimento a quello che
gli studiosi postcoloniali definiscono il “grottesco stereotipico”, cioè come qualche volta, all’interno delle
raffigurazioni delle culture, si cada nello stereotipo con un ingrandimento degli attributi (qui quelli sessuali) e
con materiali che provengono dal mondo animali e altri oggetti.

Meshac Gaba, Museum of Contemporary African Art, Documenta 11, 2001, Kassel (a cura di Okwui Enwezor,
scrittore, poeta e storico dell’arte artisti nigeriano). Il curatore ha dato ampio spazio non solo agli artisti
africani ma proprio alla riflessione sulle questioni postcoloniali decidendo di realizzare negli anni precedenti
alla mostra delle piattaforme di incontro, di discussione e di elaborazione teorica in diverse capitali del mondo
(Africa, Asia, Europa, Stati Uniti) invitando pensatori e artisti di tutti i fronti. E’ uno dei tanti esempi dei musei
di finzione: della ricorrente presenza nelle ricerche di molti artisti tra gli anni settanta e oggi, della
formulazione di musei temporanei, frammentati e portatili. Manifestazione di una critica a ciò che sta alla
base di nazione di museo, e cioè che sia l’espressione di una cultura che sceglie cosa è giusto, necessario, di
valore affinché venga conservato e le generazioni successive possano formarsi attraverso quei valori e quei
temi. Il museo è l’espressione di un’autorità culturale e intellettuale che coincide con chi decide per (il mondo
della politica, della Cultura). Spesso, quest’operazione di separazione tra ciò che ha valore e ciò che non lo ha,
viene dimenticato, le espressioni culturali di classi subalterne, emarginate, di soggetti più fragili, dei vinti
(coloro che hanno perso). Questa necessità di cambiare punto di vista e di creare una prospettiva più ampia e
più coerente nell’obiettivo di raggiungere la maggior equità possibile si sviluppa anche grazie alla nascita di
nuovi musei. In questo caso un museo di arte contemporanea africana è un museo che promuove “ciò che
non trovavo nei musei africani in cui mi recavo in Europa”. In quest’occasione Meshac Gaba aveva presentato
la sua idea di museo con varie sale, alcune dedicate ai libri, alcune ai matrimoni.
Meshac Gaba, Brazilian Bank, 2005. Queste sono immagini di altri suoi lavori sui fenomeni di svalutazione del
denaro che sono frequenti in alcuni paesi come il Brasile e l’Argentina. Sono installazioni che comprendono
pacchi di denaro che diventano dei materiali senza più alcun valore se non decorativo (installazione un po'
artigianale e precaria).

Fred Wilson, Truth Trophy, Mining The Museum, 1992-93, Maryland Historical Society, Baltimora.
Quest’artista, con un’operazione importante di messa in discussione di quella verità (truth) messa in bacheca
come presupposto per raccontare e testimoniare una cultura in un’operazione che si chiamava proprio
“minare il museo” (minare nel senso di mettere in crisi). E’ un’operazione che egli ha realizzato tra il ’92 e il
’93 una volta che è stato invitato ad intervenire in un museo storico sulla società del Maryland (non un museo
d’arte) a Baltimora.

“Ho scelto il museo storico sociale perché è il classico archetipo di museo che non è mai cambiato. Nuovi
pensieri nella logica dell’allestimento museale non hanno avuto effetto in quell’istituzione per un motivo o per
un altro. E questo pensavo mi desse buon materiale per fare un lavoro, un progetto. L’ordine che viene
concepito dai curatori museali e ciò che mettono in vista dice molto sul museo. Ma ciò che non mettono in
vista dice molto di più.”

I depositi come luoghi paradigmatici, significati, del rimosso: luoghi in cui sostano oggetti che sono stati pur
raccolti e collezionati ma che poi si sceglie di non usare e non raccontare quella storia.

Immagine di come Fred Wilson è intervenuto in questo museo andando ad inserire in alcune bacheche oggetti
che ha trovato all’interno del deposito. Si tratta di argenteria dell’epoca, delle manette (più delle cavigliere
usate per gli schiavi) e che rimandava a dove quell’argento veniva estratto, a quale lavoro la preziosità e il
valore di questi oggetti faceva capo. Allo stesso modo ha inserito riorganizzando questa serie di sedute, con lo
scopo di illustrare i cambiamenti dello stile e dell’arredamento di quel periodo posizionandolo in forma di
platea rispetto ad un oggetto che veniva utilizzato per punire gli schiavi, suggerendo uno spettacolo della
punizione come prassi. Agendo dall’interno dell’istituzione questa è quella che viene definita in termini
artistici “critica costituzionale”. Si volevano aprire nuovi orizzonti di discussioni e riflessioni all’interno della
narrazione ufficiale che fino a quel momento le istituzioni avevano portato avanti.

La mostra dell’89 definì una lettura dell’arte extra occidentale che partiva dal presupposto che bisognasse
adottare il registro del magico con cui il mondo occidentale si metteva in relazione con un mondo diverso dal
proprio.

Documenta 11, Kassel, 2002, Okwui Enwezor. Rassegna espositiva, simile alla Biennale di Venezia. Il sistema
Biennale inizierà a svilupparsi in quegli anni anche sulla scorta del fenomeno della Globalizzazione,
esplicitando una geografia culturale che inizia ad aprirsi e trovare fondamenti in nuovi contesti. Documenta è
una grande rassegna espositiva a Kassel (cittadina tedesca), scelta nel 1955 perché era stata quella più
radicalmente distrutta dai bombardamenti (gran parte dell’industria bellica era stata insediata in quella città e
gli alleanti l’avevano rasa al suolo). Nel 1955, il direttore volle con il titolo di Documenta (documentum ossia
monito, testimonianza) per riapre il territorio tedesco a quella condizione di ricerca e apertura ai linguaggi
della contemporaneità che aveva avuto nel momento delle avanguardie storiche e che era stato bloccato dalla
mostra dell’arte degenerata, con cui nel 1939 vennero raggruppate le opere più importanti di artisti
d’avanguardia, con l’obiettivo di mostrare al pubblico le stravaganze depravate e generate degli artisti.
Ogni cinque anni Documenta aveva l’obiettivo, in 100 giorni, di testimoniare la scena artistica più significativa
del momento e capire come l’arte rispondeva a questioni e temi urgenti. Alcuni artisti ebbero la loro
occasione come trampolino di lancio. Ad esempio, Meshac Gaba, realizza Museum of Contemporary African
Art. Una finzione di museo, in cui ci sono vari dipartimenti e sale (sala della musica, del matrimonio ecc), che
non corrispondono a veri e propri dipartimenti museologici, ma mettono in scena l’unione tra spazi di vita
quotidiana e la dimensione del museo. Gli oggetti che inserisce sono misti, da libri che fanno riferimento
all’arte africana a oggetti quotidiani.

Museum of Contemporary African Art, Documenta 11, 2001, Kassel

Yinka Shonibare, opera con manichini acefali con abiti Settecenteschi in posizione di copula sessuale come
dettaglio di un allestimento in cui c’è una carrozza sospesa e bauli: quello che vuol evocare è il Grand Tour, un
rito degli aristocratici inglesi che tra il Settecento e Ottocento, per completare la loro formazione arrivavano in
Francia e in Italia (momento importante per la loro formazione culturale ma anche di svago e di abbandono
alla lussuria in territori lontani dalla propria casa: rimando all’ipotesi che gli Occidentali hanno sulle persone
dei Paesi Africani). Caratteristica dei manichini: tessuti variopinti come rimando alla cultura africana
(elemento costante nella sua produzione: stoffe colorate che usa per creare un ibrido africano e Occidentale).
I tessuti non venivano realizzati in Africa, ma stampati con una tecnica olandese in Indonesia. Sulla spinta del
Governo olandese, nel momento in cui questi tessuti non avevano avuto una buona recensione, vennero
mandati nei paesi colonizzati africani. Da qui divennero dei tessuti identitari. Gli oggetti e le installazioni di
Yinka Shonibare sono ricchi di riferimenti storico-artistici, culturali ed economici, che mettono in discussione
le pretese di autenticità culturale. Uno dei suoi materiali preferiti è il tessuto africano, i cui motivi colorati e
ornamentali sono associati con l'autenticità e l'esotismo. Questo tessuto è in realtà stato prodotto con la
stampa a cera in Indonesia, che fu esportato in Africa attraverso i Paesi Bassi e i cotonifici di Manchester nel
XIX secolo. Dagli anni '50, questo tessuto è diventato un simbolo di identità postcoloniale. In Gallantry and
Criminal Conversation, il suo lavoro per Documenta 11, Shonibare inventa una scena del "Grand tour, il rito
del viaggio in Italia del 18 secolo, rito di iniziazione culturale (anche sessuale) per giovani ed eleganti
aristocratici britannici. Attorno a una carrozza galleggiante, varie figure che indossano abiti d'epoca di stoffa
africana sono coinvolte in attività sessuali. Shonibare non solo costruisce un quadro di riferimento in cui il
tessuto esotico è associato al desiderio e al "comportamento trasgressivo".

Mona Hatoum. Lavorò sul tema delle ingiustizie legate al suo paese d’origine, la Palestina. L’artista si formò a
Londra e a causa delle guerre nel suo Paese non poté tornare a casa. Aspetto tagliente che attraversa i suoi
lavori: in occasione del Documenta 11 (presso i Friedericianum, uno dei pochi luoghi sopravvissuti ai
bombardamenti), creò un ambiente con una barriera metallica che impediva al pubblico di accedere allo
spazio (cucina con sala da pranzo, uno spazio che comportava un’area anche notturna con una rete del letto
ma non c’è nessun oggetto accogliente). L’abitare è attraversato da correnti elettriche, che simboleggiano una
tensione e un mal di vivere, tema ricorrente delle sue installazioni. Griglia degli arredi che rimanda allo spazio
del carcere e alla condizione di carcerato (griglie metalliche date dalla sovrapposizione degli elementi sul
muro che danno voce a uno spazio di conflitti, di dominio).

Homebound, 2000 (Kitchen utensils, furniture, electrical wire, light bulbs, dimmer unit, amplifier, two speakers), Documenta 11,
Fridericianum, 2002.

Tappeto da preghiera (1995). Tappeto con bussola per pregare verso La Mecca: si tratta di una trama di piccoli
chiodi che da lontano sembra creare una superficie morbida e vellutata. Prende spunto dal lavoro di Man Ray,
Cadeaux per via dell’uso di un ready made rettificato con elementi contradditori.
Tempo presente (1996). Frequento è il ricorso alla mappa come segno che oggettivizza la politica degli spazi,
rivelando al tempo stesso il potere e violenza che spesso è all’origine dei confini. Realizzata con saponi fatti
con foglie di ulivo o saponi medio orientali, riporta i confini palestinesi (stabiliti dagli accordi di Oslo, ma mai
rispettati) come un arcipelago di isole sconnesse, un insieme di frammenti. La frammentazione è
rappresentata attraverso i saponi, decorati con perle di vetro rosse, che richiamano la dimensione del sangue.
La fragilità e precarietà dei confini è simboleggiata anche dal materiale utilizzato, in grado di sciogliersi
rapidamente se messo sotto l’acqua.

Un altro immaginario che riprende il tema dei confini, esteso però al mondo intero, è Map (1999),
un’installazione di biglie in vetro, in cui queste non sono fisse ma semplicemente collocate. In questo modo,
anche le semplici vibrazioni dei passi sul pavimento, possono spostarle rendendo i confini imprecisi e precari.

Negli anni ’90, la mostra di Fred Wilson, Mining The Museum (Minare e mettere in crisi il museo), come Gaba
che crea un museo fittizio mettendo in crisi il sistema, anche lui agisce nello stesso modo e opera nella
riformulazione di alcuni spazi espositivi inserendo oggetti che sostavano nei magazzini. In questo caso,
trattandosi di un museo di storia, mette in evidenzia la drammaticità della schiavitù, inserendo oggetti e
strumenti che venivano utilizzati per punire gli schiavi di colore (manette, catene ecc). Riallestisce quindi una
visione che problematizza la storia a partire dalle fonti presenti nel museo, che però venivano lasciate in
ombra.

Questo progetto ha permesso anche al museo di riformulare la sua narrazione. Ad esempio, nel quadro
Ritratto di Henry Darnall III (1710), viene aggiunta una didascalia “To the left, is an African American boy in an
orange coat, holding a dead bird”, che permette di aggiungere al dipinto una visibilità che prima gli era stata
negata.

Questa introduzione segna un passaggio importante, perché il ragazzo di colore passa da essere oggetto a
soggetto della rappresentazione.

Kara Walker. Mostra importante del 2014, realizzata in uno spazio pubblico a New York in una ex fabbrica di
zucchero. Questo perché a partire dagli anni ’90, nelle grandi città, le fabbriche iniziano a svuotarsi e ad essere
riempite con altre funzioni (mostre contemporanee). Ad esempio, la Tate Gallery di Londra (uno dei più grandi
centri di arte contemporanea) era un ex fabbrica elettrica riformulata con lo scopo di diventare un museo. La
committenza affidata all’artista arrivò da Creative Time, un’agenzia di produzione. L’artista afroamericana
lavorò sul tema dello sfruttamento e del lavoro minorile, realizzando una grande donna sotto forma di sfinge,
modellata in zucchero, in cui evidenzia alcuni stereotipi legati alle lavoratrici africane (la bandana della Mami,
aumento dei connotati sessuali). Inserisce poi piccole sculture, anch’esse realizzate in zucchero e melassa
(emanavano profumo), che simboleggiano i piccoli lavoratori, disseminati nello spazio all’ombra della figura
totemica.

La tendenza degli artisti di esporsi rispetto a tematiche delicate legate a minoranze sociali e culturali e soprusi
è andata in contro ad una complessificazione e irrigidirsi del dibattito. Gli artisti sono stati accusati di essersi
riappropriati di una cultura non propria come strumenti per assumere una legittimità etica. Un esempio
famoso di accusa riguarda l’opera realizzata da Sam Durant, Scaffold (opera allestita a Documenta 13 e poi
riallestita nel giardino del Walker Art Center di Minneapolis nel 2013), conosciuto come il Caso di Scaffold. Si
tratta di un’installazione che evoca 7 casi di condanna a morte avvenuti tra il 1859 e il 2006, ma quello che
suscitò problemi fu il patibolo Mankato, usato nel 1862 per la più grande esecuzione collettiva della storia
statunitense (furono uccisi 38 uomini). Vedere quest’opera costituì per la comunità un vero e proprio trauma
e generò una reazione immediata tra gli attivisti, che hanno visto l’opera come un’usurpazione di una storia
tragica. Soprattutto per il fatto che loro non ne erano a conoscenza. Il museo ha aperto le porte a una
riflessione continua, cogliendo le critiche e decidendo con l’artista di introdurle nell’opera. Proprio perché
l’opera voleva denunciare queste atrocità.
Un altro caso fu quello legato al quadro Open Casket , di Dana Schutz. Opera presentata alla Biennale di
Whitney nel 2017. L’artista ha recuperato la storia di una violenza razziale degli anni ’50 riferita a un giovane
ragazzo massacrato dai bianchi, a causa di una lite. Il suo corpo era stato poi gettato in un fiume e per scelta
della madre era stato esposto allo sguardo dei partecipanti affinché la violenza di cui era stato vittima potesse
diventare un elemento di riflessione collettiva. Questo riferimento è stato colto come una forma di
appropriazione culturale da parte di una artista bianca, donna e borghese a fini personali di affermazione
nell’arte, dove i temi politici sono particolarmente apprezzati. Lei è stata accusata di aver usato temi che non
le appartenevano e a testare questa accusa è stato l’artista afroamericano Parker Bright che si è posto davanti
all’opera, indossando una maglietta con la scritta Black Death Spectacle, facendo da barriera con il proprio
corpo alla fruizione dell’opera. Questa radicalità è tutt’ora presente soprattutto nella cultura statunitense e
sottrae al discorso tutto ciò che è lontano dall’esperienza vissuta in prima persona, rendendo legittima solo
l’azione di chi è vittima di una storia.

THE ART OF ASSEMBLAGE. DALL’OGGETTO ALL’AMBIENTE.

L’Assemblage consiste nell’unione di materiali diversi. L’idea di unire e mettere insieme nasce con un
potenziale formale, che dall’oggetto si estende all’intero spazio dando vita a un nuovo modo di fare arte e di
fruizione: arte come il corpo dell’osservatore che vive, potendola percorrere (condizione già sperimentata
dalle avanguardie con il Merzbau da un lato (in cui si sperimenta la dilatazione dell’Assemblage all’ambiente)
e i surrealisti, soprattutto grazie a Duchamp, che in occasione delle due mostre a Parigi nel ’38 e a New York
nel ’42, esplorano le potenzialità dell’apparato espositivo e della mostra e si introduce la possibilità di fare
l’opera tramite la totalità dello spazio). THE ART OF ASSEMBLAGE: mostra allestita nel 1961 a New York,
mostra che, nel guardare quello che stava accadendo in quel periodo, mettendo in evidenza soprattutto
l’irruzione del reale all’interno dell’opera. La mostra curata da William Seitz mette in evidenza già con la
locandina, l’unione dei diversi elementi e la sperimentazione che viene fatta. Copertina della mostra che
evoca attraverso il collage dei frammenti anche la sperimentazione che a partire dalle disarticolazioni in
ambito grafico delle avanguardie storiche.
Contesto. Rapporto tra arte e reale inteso nella sua materialità e soprattutto nella sua manifestazione più
prosaica degli oggetti e talvolta dei rifiuti che fanno parte della vita quotidiana; un'attenzione a qualcosa di
"anti-erotico", "anti-estetico" a cui già le avanguardie ci avevano abituati.
Proprio a partire dalla metà degli anni '50 alcuni artisti cominciano a sentire ormai esaurito il percorso per lo
più pittorico che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra (action painting, informale...), in cui gli artisti
celebravano una spiritualità, un'interiorità, una soggettività più o meno sofferta ma che, tramite la tela,
attraverso questo specifico dialogo, talvolta duello in alcuni casi più performativi (Matieu --> talvolta
spettacolarizzava il rapporto tra l'io e la sua niteriorità e la pittura come atto liberatorio --> pittura come
traccia del gesto dell'artista, la pittura ha una componente eroica poiché è un gesto liberativo).
Tutto questo, animato dalla volontà anche di volere esprimere un profondo disagio interiore che l'umanità
portava addosso, si esaurisce e trasforma. Artisti, anche americani, si rifanno ad artisti precedenti, tornando
alle avanguardie più marcate, ai discorsi che si erano precedentemente interrotti proprio a causa della Guerra.

In particolare il movimento che viene maggiormente ripreso è il Dada e in particolare la figura di Duchamp.
L’Assemblage consiste nell’unione di materiali diversi. L’idea di unire e mettere insieme nasce con un
potenziale formale, che dall’oggetto si estende all’intero spazio dando vita a un nuovo modo di fare arte e di
fruizione: arte come il corpo dell’osservatore che vive, potendola percorrere (condizione già sperimentata
dalle avanguardie con il Merzbau da un lato -in cui si sperimenta la dilatazione dell’Assemblage all’ambiente-
e i surrealisti, soprattutto grazie a Duchamp, che in occasione delle due mostre a Parigi nel ’38 e a New York
nel ’42, esplorano le potenzialità dell’apparato espositivo e della mostra e si introduce la possibilità di fare
l’opera tramite la totalità dello spazio).

The art of assemblage, mostra a cura di William C. Seitz, MoMA, 1961:

Mostra che ha sancito quanto era in corso già non solo negli USA ma anche in Europa.
Si passa in rassegna a ricerche di artisti che recuperano questa attenzione irreale, attraverso la sua
componente oggettuale (uscendo dal paradigma pittorico in maniera non radicale e preferendo rivolgersi a
oggetti provenienti dalla vita quotidiana). La componente del gesto si dimostra in questo periodo, infatti,
ormai esaurita se non persino grottesca. Di conseguenza, giovani artisti elaborano delle strategie anche di
linguaggio che alludono a una dimensione ibrida che contraddice la critica d'arte di quegli anni. Il maggior
critico americano del periodo è Clement Greenberg (definisce il carattere di novità degli artisti americani: fino
agli anni '50 il ruolo dell'America in campo artistico è circoscritto, solo dopo si affermerà in maniera
internazionale): a lui si lega la teoria modernista della pittura. Secondo lui l'arte moderna doveva essere
caratterizzata da una rigorosa autonomia rispetto alla realtà esterna, agli altri linguaggi (la pittura è pittura ed
è caratterizzata dal fatto che valorizza la superficie su cui essa si colloca). La pittura moderna è rigorosamente
legata al principio di non-rappresentazione (dunque astratta, per cui si rivolgeva ad artisti come Pollock e in
generale al gruppo degli espressionisti astratti). L'arte americana per lui è un'arte che ha portato a estreme
conseguenze, aprendo una nuova stagione: si arriva infatti a figure come Pollock, che aveva mutato l'idea di
pittura, poiché incentrata sull'invenzione di espedienti prettamente pittorici. Grazie al dripping si ha un effetto
"reticolato" esteso su tutto il quadro. Greenberg legge questo aspetto come la sperimentazione di un nuovo
capitolo dei linguaggi pittorici che superava dunque l'idea che esisteva dell'arte. Pollock annulla infatti i criteri
del quadro (non c'è più distinzione tra primo piano e sfondo). Tessitura di segni chiamati "all over" (trama di
tutto, un'estensione che non ha più un primo piano, uno sfondo, una forma ma è una tessitura continua che
non offre all'occhio nessun punto di appoggio privilegiato --> questo per Greenberg è l'aspetto più
interessante e rivoluzionario del tempo). Indistionzione di tracce che fanno riferimento a una pura dimensione
visiva. L'arte di Pollock è definibile auto-riflessiva nel senso che non guarda al di fuori ma guarda ai propri
strumenti trovando delle nuove forme di superamento. Altri critici americani commentano le medesime opere
di Pollock e il suo modo di agire interpretandolo in maniera differente: posizionando la tela per terra e
girandole attorno facendo sgocciolare la pittura liquida per creare la tessitura, c'è un immersione vera e
propria nel corpo all'interno delle dimensioni del quadro. E' l'azione della gravità a predominare sull'opera, e
non il controllo che l'artista ha sull'opera stessa.
Esistono molteplici modi di analizzare le opere di Pollock e di fare emergere le innovazioni da lui portate in
campo artistico (è vista anche come una vera e propria performance). L'America in questo periodo si afferma
come potenza e contemporaneamente sente la necessità di affermarsi anche in campo artistico (l'arte
valorizza la società!). La mostra curata da William Seitz mette in evidenza già con la locandina, l’unione dei
diversi elementi e la sperimentazione che viene fatta. Copertina della mostra che evoca attraverso il collage
dei frammenti anche la sperimentazione che a partire dalle disarticolazioni in ambito grafico delle avanguardie
storiche. Allan Kaprow riconosce gli insegnamenti di Pollock e ne riprende la casualità in un contesto spaziale
di oggetti, frammenti di materiali, atti a sollecitare il pubblico. Per lui i suoi happening sono dei "dripping di
oggetti". Il dripping oggettuale dimostra, nella generazione di artisti che iniziano a lavorare nella metà degli
anni '50, un modo diverso di leggere opere di artisti che fino a quel momento erano considerati i Padri
dell'arte.

Con il Nouveau Realisme nascono nuovi approcci e interessi percettivi alla realtà, con le sue tecniche di
prelievo e appropriazione del reale. Nascono raggruppamenti, più o meno strutturati, di artisti sia in Europa
che in America.

Arman, Poubelle I, 1960: letterale prelievo di ciò che è più reietto: l'immondizia. Cestino svuotato interamente
e messo in visione.

Arman, Le Plein, Galleria Iris Clert, 1960. Discarica svuotata e rifiuti prelevati posizionati all'interno della
Galleria.

Arman, Soyeux Temps Modernes: Accoumulation d''Engranages, 1965. Visione ordinata e più estetica di
materiali. Riferimenti ironici sottolineati dal titolo ("Tempi moderni di seta: ingranaggi di orologio"), raffinati.
Si fa riferimento alla produttività ironizzata da Chaplin della macchina fordista, un vero e proprio ingranaggio
produttivo. Gioco tra oggetti e parole.
Spoerri, Aktion Rest. Spoerri, 1972. Emerge il rapporto tra vita e arte, tra realtà e vita vissuta. L'artista li
chiama "quadri trappola" o "natura morte del caso": sono istanti di vita, i resti, le impronte che la vita lascia
che vengono catturate nel mondo artistico. Posizionate in verticale anziché in orizzontale. Quasi sempre
oggetti che fanno riferimento alla dimensione conviviale della quotidianità, dello stare insieme, del
relazionarsi.

Spoerri, angolo del Restaurant Spoerri, Tableau-piège, 1968:

Frammento di un esercizio commerciale (installazione però a carattere museale) in cui Spoerri espone le sue
stesse opere e il cui rivestimento delle pareti è caratterizzato da ritagli di giornale e altre pubblicazioni.

Ben Vautier, Le Magasin de Ben, 1958-1970. Artista francese appartenente al Nouveau Realisme.
(Amico di Spoerri). Nel 1958 inizia a fare una riflessione attorno al concetto di negozio, in particolare al suo
negozio, definendolo non più solo un negozio che vende dischi e oggetti usati, ma che assume un valore più
particolare: si attribuisce il valore dell'opera d'arte (o lo nega) rapportandola con la realtà, portando a estreme
conseguenze la logica del ready-made.

"Niente è arte. Tutto è arte". Attribuire e negare e dare valore a oggetti qualsiasi senza la necessità di de-
contestualizzarli, in una condizione di passaggio tra l'arte e la vita quasi impercettibile. Abbinamento tra
oggetto-spazio e scrittura stessa che vi si appone e produce un effetto di risignificazione. Il negozio è una
piccola libreria che la madre aveva acquistato e che successivamente viene venduta per acquisire un altro
fondo in un altro indirizzo: una cartoleria. Ma non funzionava. Di conseguenza l'artista inizia a vendere dischi
e a decorare la facciata con qualsiasi cosa. Un giorno arriva Klein e Vautier gli mostra i propri disegni: Klein gli
dice di esporre piuttosto le proprie poesie e i propri scritti in quanto più autenticamente personale.
E' quindi partito dalla scrittura che poi si è evoluta una matrice più concettuale. Si crea quindi un dialogo con
gli oggetti con frasi che ne stravolgono anche il senso, è un abbinamento tra spazio-oggetto-tela-carta che
producono una lettura e dei valori nuovi (movimento di senso che avveniva tramite l'uso della parola). Così
come era capitato a Spoerri, il negozio su richiesta del direttore del Centre Georges Pompidou viene e
riproposto come opera installativa e acquistato. Passaggio da luogo fisico a installazione museale.

Tinguely, Baluba No. 3, 1959. Assemblaggio a partire da pezzi di motore, parafanghi, campanelle che l'artista
riformula facendole diventare macchine caratterizzate da un funzionamento assurdo. Macchine inutili che si
muovono, producono dei movimenti ma senza alcuna funzione specifica se non quella di muoversi. Parodia
alla macchina. Ironica esaltazione e fiducia in una macchina che introduce l'idea di efficienza, di efficacia e
produttività come dei valori in sé. (anni '50 nuove tecniche a servizio della produzione; l'automatismo si sta
diffondendo nelle fabbriche e fa riflettere sui rischi di sostituire il lavoro umano da quello delle macchine.
Grande preoccupazione per l'irruzione di nuovi macchinari nel mondo della produzione.)

Tinguely, Méta-Matic n°1, 1959:. Esposta a Parigi. Gesto d'accusa nei confronti dell'arte informale e gestuale.
Macchine per disegnare e dipingere che imitano la pittura gestuale degli artisti informali, dimostrandone però
l'automatismo, l'assoluta ripetitibilità. La mostra aveva introdotto un concorso a premi per la miglior pittura
automatica.

Tinguely, Etude pour une fin du monde n°1, 1961. Ricordiamo anche Hommage a New York e non aggiungiamo
niente che è tutta roba dell'altr'anno. Se volete guardate il mio elaborato dello scorso anno, è sul drive, ultima
pagina, tutto spiegato nel dettaglio. La macchina diventa espressione di rovesciamento, dalla produzione alla
distruzione.
Cesar, Compressione, 1960. Visita i depositi di macchine che devono essere rottamate. La sua produzione
artistica è caratterizzata dalle compressioni: ruote di bici e pneumatici vengono ridotti a una forma vagamente
geometrica attraverso delle presse. Successivamente la produzione artistica di Cesar assumerà una
dimensione più estetica.

Cesar, "Fragonard" bleu blanc rouge, 1984. Ripresa della bandiera francese e omaggio a Fragonard, pittore
francese dell'800.

Niki de Saint Phalle, Assemblage, 1960. Compagna di Tinguely. Una delle poche figure femminili a emergere in
questo periodo. Realizza assemblage di oggetti diversi: gabbie di oggetti, vecchi orologi, oggetti prelevati da
discariche che producono un effetto che fa della pittura una sorta di sporcizia. Si rimette in gioco la pittura ma
in maniera spesso ironica e dissacrante. Colloca sacchetti di pittura che poi fa esplodere con un fucile
(dinamica da tiro a segno che allude anche a quella violenza messa in scena dall'azione gestuale maschile).
Evidenzia la mascolinità dell'azione pittorica e della sua violenza, trasformando però il tutto in un baraccone, i
cui esiti sono di fatto quasi l'effetto di un incidente domestico. In Assemblage si ha un assemblage verticale
con un contenitore di gomma, brocca, contenitori e altri oggetti resi meno riconoscibili da questi sprazzi di
pittura.
Gerard Deschamps, True to Life Experiences, 1960. Assemblaggi di vestiti e stracci che creano una superficie
variopinta in cui l'evocazione dell'arte astratta, informale, attraverso texture e disegni dei diversi vestiti,
appaiono dentro al quadro e sono portatori del loro riferimento (i corpi che li hanno abitati, l'origine della
decorazione --> ideogrammi cinesi...). E' una vera e propria stratificazione di tracce: un'arte che attraverso
l'idea di traccia, quindi qualcosa che resta, rimanda sempre alla condizione di vita e del vissuto.

Christo, Wrapped Bottle, 1958. L'artista fa generalmente interventi in ampi spazi urbani. Seguendo la logica
del mascheramento dell'oggetto comune che rimane comprensibile ma al tempo stesso celato, basandosi sul
concetto di "vedo-non vedo", introduce l'elemento del mistero già sollecitato notoriamente da Man Ray.

Man Ray, L'enigma di Isidore Ducasse (conte di Lautremont), 1920-1972. L'opera viene creata nel 1920 e
riproposta successivamente nel 1972. Isidore Ducasse è un poeta che scrive poemi in versi, molto apprezzato
dai surrealisti, poiché animato da una profonda irrazionalità. Appartiene alla cultura francese del simbolismo,
che dagli anni '20 esplora i concetti di irrazionalità e meraviglia, concetti su cui i surrealisti baseranno la
propria produzione artistica. Una nota frase di Ducasse che verrà poi ripresa dai surrealisti per la sua
definizione di bellezza è la seguente:
"Bello come l'incontro fortuito di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo da dissezione
anatomica."
Frase onirica, nosense. Oggetto estremamente inquietante che diventa una sorta di letto per l'incontro di
questi due oggetti. E' un oggetto che penetra, solito rimando all'atto erotico e sessuale che per i surrealisti è
spesso alla base delle metafore con cui giocano. Liberazione del desiderio rispetto al controllo che la società
impone. Questi concetti influiranno anche su Christo, che si è formato in Francia ed è entrato in stretto
contatto con il movimento surrealista. L'opera sembra infatti una macchina da cucire con un manico
d'ombrello: poco importa, però, sapere cosa è contenuto all'interno. Ciò che importa è la bellezza che
dovrebbe essere celata sotto al panno e allo spago.

Christo, Porta Principia delle Mura Aureliane, 1974. Il primo impacchettamento architettonico dell'artista
avviene nel 1968 in un museo di Berna. Il museo viene completamente avvolto, rendendo così spettacolare e
meraviglioso un qualcosa che è sempre stato sotto i nostri occhi. I lavori di Christo sono generalmente
concepiti per durare un massimo di 20 giorni. Christo si relaziona costantemente con spazi fisici, che vengono
celati e rivelati attraverso l'atto dell'impacchettamento. Qui impacchetta la struttura di Porta Principia.

Wrapped Reichstag, Project for Berlin, 1986-1994. Ciò che spesso circola all'interno dei musei per quanto
riguarda la produzione artistica di Christo e della moglie Jeanne-Claude sono progetti, mock-up, schizzi
preparatori, disegni.

Klein, Anthropométrie sans titre, 1961. L'impronta come traccia della realtà. Artista indubbiamente più
complesso è Klein. Fa ampie riflessioni sul rapporto tra l'arte e la vita a favore di linguaggi che si distanziano
dai concetti di assemblaggio e di oggetto: ha una matrice più concettuale. Crea Antropometrie, frutto di un
lavoro ampio.
Momenti teatrali in cui una serie di modelle si bagnano di Blu Klein per poi appoggiarsi alla tela.
Il Blu Klein è un colore simbolo che lui sceglie in quanto conferisce valore di assoluto (cielo, Madonna, valori
cosmici): vuole infatti creare un ponte tra l'esperienza quotidiana e prosaica e l'idea di assoluto, di intangibile,
spirituale, immateriale. C'è una correlazione con il modus di agire di Fontana, con la differenza che Klein è
però interessato alla dimensione mistica, esoterica e spiritualista. Fontana è maggiormente interessato a un
sapere scientifico: i buchi sui tagli, l'ambiente nero che allestisce nel '48 alla Galleria del Naviglio di MI con luci
di WOOD... Trovandosi all'interno dell'ambiente si prova un senso di immersione, di infinito, in cui il segno
pittorico è qualcosa di galleggiante. L'immaginario è legato ai viaggi spaziali che si cominciavano a fare, all'idea
di una scienza che può portare al mondo delle particelle.
Entrambi, però, evocano uno spazio che non si vede e che dunque non è rappresentato. A livello
fenomenologico c'è un concetto di assoluto che altrimenti non sarebbe esperibile.

Mimmo Rotella, L'assalto, 1963. Doppio decollage. I decollagisti agiscono sulla sfera urbana, nello specifico sui
manifesti che nella città si sovrappongono l'uno all'altro. Li rimuovono e se ne appropriano (immagine che fa
riferimento a sua volta a un immaginario cinematografico) a suggerire una stratificazione di più parti.
Rappresenta l'immaginario che irrompe nella società con figure iconiche, il sogno hollywoodiano che si
stratifica e si consuma l'uno dietro l'altro.

Per decretare ciò che sta accadendo si inizia a parlare di New Dada. Nel 1951 Robert Motherwell (artista)
pubblica un'antologia di pittori e artisti dadaisti.

Jasper Johns, Target with Plaster Casts, 1955. Nel 1958 su una rivista d'arte viene pubblicata un'opera di
Jasper Johns, definita "New Dada". Non c'è solo una logica di ready-made ma qui è sovrapposto il rapporto tra
la pittura e il riferimento agli oggetti comuni della realtà. Il bersaglio dà il titolo all'opera ed è, almeno in questi
anni, un segno ricorrente nella sua produzione artistica. Egli riformula il bersaglio con una tecnica pittorica
antica e pregiata: quella dell'encausto (prevede uso di cera e pigmenti su di un collage di giornali).
E' infatti evidente lo riaffiorare di quella dimensione oggettuale tipica dei giornali stessi.
Mobilitando il collage, egli rende il bersaglio un oggetto dal nuovo significato -privandolo del proprio
significato fisico e reale (esattamente come la Pipa di Magritte, in cui si dimostra che una volta che un oggetto
viene dipinto può diventare astratto).
Jasper Johns, High School Days, 1964. Scarpa riformulata (quindi non è un ready-made). Calchi di parti del suo
corpo dipinti. Artista spesso letto come precursore degli artisti pop (vedere The White Flag). Abbassamento di
registro proprio perché opere si scontrano con il reale.

Johns, Rauschenberg, Tinguely, Niki de Saint Phalle, Homage to David Tudor, 20 giugno 1961. Bersaglio di fiori
di Johns, shoot painting di Niki de Saint Phalle (--> si dà peso anche alla parte processuale del lavoro, ciò che di
solito non si vede), Rauschenberg che va a schernire la figura dell'artista dipingendo sul palco (--> condizione
più spettacolare) ma sceglie di mettere il cavalletto in modo tale che il pubblico non possa vedere. Orologio
che fissa un tempo --> idea della pittura-tempo, il pubblico avrebbe visto l'esito allo scadere del tempo. Si crea
così una condizione di performance, di spettacolo.

Rauschenberg, Erased de Kooning Drawing, 1953. L'atteggiamento dissacratorio evidenziato nell'happening


trova la sua espressione più eclatante già nel 1953 con l'azione di cancellazione di de Kooning (l'altr'anno
avevamo visto Excavation, lezione 7 anno I, pagina 3, espressionismo astratto) sia astratta che figurativa.

Rauschenberg procede nello stesso modo Rauschenberg: cancella un disegno e lo espone (operazione di
tabula rasa).
Rauschenberg e John Cafe, Automobile Tire Print, 1953. Cage è stato un compositore e docente (forma molti
artisti influenzandone il lavoro, tra cui lo stesso Rauschenberg), molto vicino alla figura di Duchamp e al suo
atteggiamento legato alla logica del caso e alla possibilità di accoglierlo come strumento positivo.
Legato alla cultura buddhista. Impronta di auto su un rotolo di tela. Viene così trasformato un evento -lo
spostamento di un veicolo- nella logica della traccia (come in Klein): qualcosa che è accaduto. Questo recepire
gli accadimenti si concretizza in segno.

Cage aveva fatto 4 minuti e 33 secondi, un brano che ha fatto parte della performance musicale che egli ha
organizzato col pubblico assieme a David Tudor, pianista. Dopodiché sono seguiti 4 minuti e 33 secondi di
silenzio, in modo da incorniciare l'opera d'arte, il brano. L'intenzione è quella di creare un vuoto, a
rappresentare un brano d'attenzione nei confronti della vita. L'opera d'arte in sé per sé è infatti rappresentata
dal brusio sempre più imbarazzato e innervosito del pubblico che si muove e bisbiglia, dal brusio, dal fruscio
degli alberi fuori dall'edificio, dal movimento del coperchio della tastiera che il pianista apriva e chiudeva: il
rumore di fondo diventa l'oggetto stesso. Attitudine buddhista a rovesciare il punto di interesse, a cogliere.
Interesse verso ciò che è apparentemente poco rilevante, come la vita.

Rauschenberg, Untitled, 1955. A lui si attribuisce un linguaggio ibrido che egli stesso definisce "combined
painting": è la logica del collage che mette insieme più elementi e immagini. Riviste anni '50, coccarda,
architettura monumentale, disegno di un bambino, tessuto, immagine di un gallo, pittura che appare come un
elemento che sporca. Le combined painting seguono la logica dell'assemblage che si misura addirittura in
kitsch (in Odalisk c'è addirittura un gallo impagliato).

Rauschenberg, Odalisk, 1955-1958. Le combined painting seguono la logica dell'assemblage che si misura
addirittura in kitsch. Gallo impagliato. Oggetto che sembra un paralume. Significato ironico dovuto al titolo, un
rimando a un corpo vezzoso dominato dal gallo.
Rauschenberg, Interview, 1955. Dalla metà degli anni '50 inizia a esprimersi tramite un linguaggio
tridimensionale. Struttura a mobile in cui la pittura si mescola continuamente con oggetti e immagini trovate,
contraddicendo quella lettura della pittura moderna che Greenberg aveva stabilito come appunto linguaggi
separati (scultura separata da pittura e dall'architettura), andando piuttosto a dimensionarsi con il carattere
più ibrido dell'arte dadaista.

Rauschenberg, The Bed, 1955. Presentata alla Biennale di Venezia nel 1964. Data estremamente significativa
per gli italiani: è la Biennale in cui gli statunitensi sono sbarcati dopo la liberazione. La Pop Art è arrivata alla
Biennale col suo carattere estremamente innovativo e mettendo in secondo piano tutte le altre tendenze del
periodo. La pittura in The Bed continua ad apparire come qualcosa di sporco, come una citazione di quel
disagio che viene parzialmente assorbito dall'oggetto. Il letto mette insieme l'intimo e il quotidiano,
trascinando con sé l'idea di interiorità che l'arte espressionista si incarica di veicolare. Il letto ne diventa il
simbolo in quanto oggetto estremamente personale, soggettivo e intimo. Qui vince il Gran Premio alla
Biennale.

Il critico d'arte Leo Steinberg utilizza un'espressione per indicare l'atteggiamento che gli artisti della fine degli
anni '50 avevano: "flat bed". E' il supporto che viene utilizzato in ambito tipografico per fare le stampe. Allude
dunque all'orizzontalità, a uno spostamento dal verticale all'orizzontale: è una tensione verso ciò che fa parte,
appunto, dell'orizzonte della vita: i nostri passi, il tavolo su cui mangiamo. Elementi destinati a raccogliere ciò
che cade (la polvere, i nostri resti, i nostri passi) e ciò che accade. La stessa opera di Pollock allude a questo
concetto (posizione orizzontale, impronte mani, sigarette, sporcizia: tutti segni che attestano la presenza e che
introducono l'idea della traccia, dell'impronta). Dilatazione in chiave ambientale: installazioni, ambienti.

Claes Oldenburg, The Store, Manatthan, 1961. Noto come artista pop --> portano dentro al linguaggio artistico
la banalità dell'oggetto qualunque. Parte dall'apertura di uno spazio che definisce negozio: The Store. Il
negozio si trovo in un quartiere in cui gli artisti stavano iniziando a insediarsi. Si mistifica la visione e la
segretezza dell'atelier. Oggetti che appaiono nelle vetrine e che rispecchiano il mito americano nei confronti
del cibo, rendendolo un qualcosa di più perturbante grazie all'applicazione della platina quasi finta e
luccicante presente nei dolci e nelle vetrine pubblicitarie. All'interno del negozio egli crea situazioni di
performance, prima ancora di questa data. Recupera materiali anche recuperati da discariche, oggetti rovinati
e vecchi stracci. Allan Kaprow produce contesti in cui stabilire dei copioni minimi, delle azioni che il pubblico
poteva fare, sollecitato dalla sveglia che suona, dalla sedia zoppa su cui l'individuo viene invitato a sedersi, il
passaggio in mezzo a tende fatte di reti. E' un dripping di oggetti disposti nello spazio con l'obbiettivo di
produrre delle condizioni di esperienza, è un gioco di spostamenti. Nel caso di Oldenburg vengono disposti
degli oggetti in maniera spesso maldestra, con l'obbiettivo di generare degli ambienti caotici, il cui effetto è
quello di scatenare reazioni emotive differenti.

NELLA LEZIONE PRECEDENTE

Assemblage -> permette agli artisti di usare la realtà intesa come l’eterogeneo mondo oggettuale, degli oggetti
che ci circondano, come fonte da cui attingere e da cui prelevare per la creazione delle proprie opere.

I. Nouveau Realisme: gruppo formato come una sorta di movimento europeo francese, nato nel 60
con figure come Daniel Spoerri, Jean Tinguely…
II. Decollagisti: gli oggetti si misuravano con i manifesti sulle strade, sovrapposti uno agli altri, su cui
intervenivano sottraendo dei frammenti a suggerire la stratificazione di linguaggi, immaginari,
segni che popolano la nostra sfera urbana.
III. New Dada: fa riferimento al riemergere della logica dadaista, della resa sulla realtà e di una
sperimentazione di linguaggi ibridi che andavano a attere in crisi la lettura, la concezione
modernistica dell’arte e della pittura come di un territorio linguisticamente puro favorendo una
commistione tra pittura, oggetto, in maniera forzata e voluta kitsch (Rauschenberg con i suoi
assemblage o i combine paintings, che riducono la pittura a qualcosa che sembra sporcizia più che
al gesto liberatorio della pittura astratta o espressionista).

Abbiamo visto come l’assemblage andasse ad articolarsi nello spazio ritenendo l’environment un ambiente, e
dando vita a una tradizione installativa che poi diventerà molto significativa.

NUOVA LEZIONE

Allan Kaprow: elabora, come tributo a Pollock e all’idea di action painting, l’action collage: collage attivato in
chiave performativa, mettendo insieme materiali diversi, diverse azioni -> collage di azioni e materiali
all’interno di spazi dati che mi porta a evidenziare l’importanza della declinazione ambientale, della
preparazione di un dato spazio al fine di intervenirvi con performance, e nello specifico happening.

18 Happenings in 6 parts: nel ’59, viene creato da Allen Kaprow all’interno di uno spazio che egli organizza
attraverso la suddivisione tramite intelaiature rivestite di cellophane a creare dei panelli semitrasparenti che
rendono parzialmente permeabili i gesti, le azioni che vi si svolgono. Furono allestiti all’interno della Rauben
Gallery di New York, l’idea di improvvisazione è del tutto errata, il pubblico partecipante veniva istruito con
fogli/informazioni su come disporsi nello spazio, su come reagire su determinate sollecitazioni sonore che
venivano collocate volontariamente nello spazio per attivare il pubblico, per promuoverne le reazioni.
L’oggetto diventa, così, funzionale a un set ambientale per l’azione di un pubblico/performer che era invitato
ad agirvi; lo spazio dell’opera diventa uno spazio esperienziale dove l’oggetto ha la funzione di attivatore di
reazioni. Sono oggetti perlopiù assemblati. Ci sono anche interventi di pittura che creano effetti percettivi
particolari.

Modalità dell’opera di porsi come ambiente -> conseguenza di alcune opere realizzate nel corso delle
avanguardie, in particolar modo Kurt Schwitters: dadaista che realizzò il Merzbau nella propria casa a partire
dall’accumulo intorno a un oggetto a colonna di frammenti di altri oggetti, nella logica idealistica con cui
assemblava prima delle scatole con collage di oggetti come il biglietto del treno, il frammento di appunto su
cui aveva scritto una cosa relativa alla sua vita lavorativa ecc. dimensione quasi feticistica di trattenere
frammenti di realtà a scopo di auto narrazione fino a farla crescere e farla diventare spazio che si estende, che
viene poi riformulato e ricoperto, logica stratificata. Da questo tipo di logica si arriva ad artisti che esplicitano,
non soltanto nella logica personale, ma anche in quella di mostre questa attitudine installativa che fa
diventare l’allestimento stesso un’opera d’arte, dando vita all’affermazione di linguaggi installativi.
Storicamente all’origine dell’arte installativa e della mostra come progetto artistico troviamo queste due
mostre del movimento surrealista:

I. Esposizione internazionale surrealista alla Galerie des Beaux-Arts, Parigi, 1938 -> ebbe un
successo enorme (3 mila visitatori all’inaugurazione).

Le fotografie mostrano una parte del percorso della visita che prevedeva:

I. sacchi di carbone appesi al soffitto, foglie secche al pavimento, strutture che permettono di
mostrare quadri e materiali all’interno dello spazio.

Questi interventi, ideati da Duchamp, avevano l’obiettivo di creare un clima, un’atmosfera; contribuiscono alla
logica installativa che nasce come funzionale alla mostra ma che ha una sua natura autonoma di linguaggio
artistico. Il passaggio dall’allestimento (inteso come funzionale alla visione delle opere) all’installazione nasce
dal fatto che l’autore è un artista, faceva parte del movimento e ovviamente vi apporta i propri contenuti.

I. manichini: uno per ogni artista che li ha rielaborati dando vita a delle figure diverse.

Quello di Duchamp è vestito in abiti maschili ma si tratta di un manichino femminile -> rimanda ai giochi
sull’androginia che Duchamp amava avviare (scatti fotografici di Man Ray che lo vedono travestito da donna,
l’uso del nome d’arte Rrose Selavy che è un’espressione nella logica del grande piacere per il gioco di parole
che caratterizza l’uso dei titoli nella pratica artistica di Duchamp. Rrose, scritto con due r, è un nome e
cognome ma se lo si legge in francese suona come eros et la vie -> eros e la vita. C’è un rimando alla questione
freudiana che è alla base della poetica surrealistica dell’eros come motore del desiderio e soggetto ai freni che
la società esercita, inconscio che va liberato attraverso la dimensione onirica; c’è sempre un riferimento
surrealista alla liberazione dell’individuo che passa attraverso questo aspetto.

I. dischi ottici -> l’allestimento prevede anche l’uso di affichage di foglietti non elaborati in termini di
opera, rifacimento delle targhe, delle vie con lo stesso carattere tipografico ma con una
rinominazione della toponomastica in chiave allusiva, sensuale, ironica, paradossale.

L’intera mostra era concepita come una città a rovescio, una città in cui i sacchi di carbone, che vengono dalle
viscere della terra, sono posizionati in alto, dove il desiderio diventava un principio di orientamento.

Papers of Surrealism, New York -> c’è un carattere di straniamento; si deve al solo Duchamp che ne era di
nuovo l’allestitore.
Caratterizzata da questa trama di fili (un miglio circa) che si sviluppava in tutto lo spazio a creare quasi un
effetto ragnatela che intralcia il passo, che allude a questa difficoltà.

Sappiamo che Duchamp, nella logica dei ready-made, metteva in discussione i retini in quanto diminuivano la
visualità. Questo allestimento si può definire installazione -> un termine che di fatto si riferisce a un
particolare tipo di arte nel quale il visitatore entra fisicamente; può essere uno spazio, un’esperienza
immersiva, teatrale. A seconda delle intenzioni dell’autore, l’installazione si offre a un’esperienza che
coinvolge più di un senso, l’intero corpo, l’orientamento. Nel momento in cui la presenza del visitatore
costituisce l’elemento dell’installation art, ci viene da dire “che tipo di partecipazione è proposta allo
spettatore? Per quale motivo enfatizza l’esperienza dello spettatore? Che tipo di esperienza è?”. Possiamo
individuare varie tipologie di arte installativa a partire dall’esperienza: questa, ad esempio, è un’esperienza di
tipo psicologico perché ha a che fare con l’allusione ad aspetti dell’immaginario, del desiderio; li sollecita in
modo diretto.

Lucio Fontana. Prima metà del 900, artista italiano che crea installazioni di tipo immersivo -> il corpo dello
spettatore è posto in una condizione di esperienza totalizzante che investe il proprio corpo facendogli
percepire una perdita totale dell’orientamento.

Spazio immerso nell’oscurità salvo questi oggetti verniciati con pitture fosforescenti che, una volta colpiti dalla
luce di Wood, appaiono visibili. La sua è una pittura nel vuoto. La sua idea è quella di superare l’idea della
bidimensionalità, lo fece sia attraverso il buco che la trasgredisce dando vita a un concetto di spazio più che a
una rappresentazione dello spazio. Arriva fino alla smaterializzazione dello spazio stesso nella quale il
visitatore poteva percepire dei segni fluttuanti.

Lo fece anche sulla stampa generalista -> pagina di Oggi: vista non certo specialistica, agisce sull’immaginario
spaziale della luna, dei viaggi sulla luna, ci mostra delle figure che sembrano quasi infantili.
Ambienti di Martial Raysse e Niki de Saint Phalle allo Stedelijk Museum di Amsterdam, mostra Dylaby
(labirinto dinamico), 1962 -> in una dimensione più di attivazione, in senso fisico di reazione, agisce la mostra
che, in modo seminale, propone la mostra stessa come esperienza. Furono invitati artisti del Nouveau Realism
e New Dada (ad esempio Rauschenberg) a gestire liberamente le sale del museo. Riprendeva il topos del
labirinto come luogo dell’errare. Il direttore del museo propose agli artisti di creare una condizione di
esperienza, per il pubblico, spiazzante, a partire dai linguaggi dall’uso dell’oggetto, alla condizione di spazi, di
ambienti, la cui eterogeneità e sollecitazioni date dagli oggetti, dagli assemblaggi, poteva essere funzionale ad
attivare il pubblico a una reazione che, in questo caso, diventa costruita a priori nelle varie proposte
ambientali. Alla fine degli anni ’60 prende piede l’attitudine delle mostre di prevedere che le opere, anziché
arrivare dagli artisti ed essere collocate, venivano realizzate appositamente in sito in una prospettiva di una
specificità che l’opera assume in relazione a quel luogo. È un retaggio dell’arte minimalista: volumi geometrici
collocati nello spazio apparentemente soltanto in base a un ordine di tipo seriale; come i cubi di Donald Judd
che si ripetono in un ordine che non ha niente di soggettivo, ma che è un ordine come quello del tempo, uno
scorrimento, una cosa dopo l’altra, che prendono in considerazione come elemento di riferimento lo spazio in
cui questi oggetti venivano realizzati. È come la minimal art in cui l’opera si struttura nello spazio e la
percezione che lo spettatore ha entrandovi, vendendola da una certa angolatura e percependo lo spazio in
base a quella presenza. Quest’uscita dall’autosufficienza dell’opera e l’implicazione dell’ambiente in cui viene
collocato è un po’ l’incipit a questa implicazione assai più esplicita e articolata del rapporto tra l’intervento e il
luogo in cui ha sede.

In questo caso vediamo che Martial Raysse, crea facendone uno spazio assolutamente ludico, di tipo marino,
da luna-park: gonfiabili, piscina con le paperelle, salvagenti, palline… è un luogo un po’ balneare rispetto al
museo.

Invece per Niki de Saint Phalle in questa mostra l’accumulo di materiali veniva strutturato in modo da creare
uno strano assamble di reperti fossili di animali preistorici, strani totem con bambole e parti anatomiche
assemblate; uno scenario molto misterioso, come fosse un deposito di un museo di una civiltà ignota sul quale
dominavano queste colature di pittura.

Ambiente di Jean Tinguely con palloncini.


Parte al piano terra nella quale Robert Rauschenberg crea, usando materiali
recuperati dalle discariche urbane: reti di letti che assembla con orologi, macchinari che emettono dei suoni;
allestisce un percorso tra strane sculture.

Ambiente di Daniel Spoerri -> Immagine ancora più eclatante nel disorientamento che
provoca. Colloca quadri e sculture in diverse collocazioni crea un effetto di dislocamento nel visitatore che si
muove in uno spazio spiazzante.

Le mostre surrealiste sono considerate preludio all’arte installativa e anche alla componente plurisensoriale
(c’erano anche registrazioni sonore che diffondevano nello spazio, urla isteriche; odore di caffè: sollecitazione
olfattiva; ambienti oscurati…); Freud faceva un parallelo tra la psicoanalisi e l’archeologia, i surrealisti
facevano riferimento a questi studi. L’idea della mostra e la posizione del visitatore era quasi di uno scavatore,
di uno speleologo; loro ne parlavano come di una stazione per l’immaginario, una sorta di luogo di sogni, una
piattaforma di partenza libera associazione dell’inconscio. È per quello che questa è un tipo di installazione
psicologico. Nel caso di Kaprow è importante l’uso di oggetti e la loro riformulazione nello spazio, all’interno di
luoghi che non erano soltanto gallerie ma piuttosto spazi alternativi come loft; i primi happening hanno luogo
in contesti che diventano gallerie solo secondariamente, luoghi che hanno un carattere più formale in cui il
pubblico viene invitato in una condizione sperimentale. È un tipo di pratica artistica che possiamo riportare
alle riflessioni che, anche in ambito filosofico, erano state formulate intorno all’idea dell’arte come
esperienza, come un modo di fare un’esperienza della realtà più intensa, recepire in modo più preciso anche
ciò che caratterizza la nostra quotidianità: paura, spavento, noia. Pensiamo ai “ 4’33’’ ” (4 minuti e 33 secondi)
di John Cage in cui più che porre silenzio ha invitato il pubblico a mettersi in ascolto di ciò che non è il suono
aggiunto alla realtà ma è il suono della realtà, di cui fanno parte i bisbigli, i colpi di tosse infastiditi, il fruscio
delle foglie. Quest’attenzione e questa esperienza pone il pubblico in una posizione nuova: essere coautore
poiché la sua attenzione, partecipazione, coinvolgimento, diventano fondamentali nella realizzazione, della
manifestazione stessa dell’arte installativa, in particolar modo di alcuni tipi di arte installativa in cui la
dimensione interattiva è veramente rilevante.
Con l’installazione emergono alcuni aspetti teorici significativi: messa in discussione dell’idea di autore,
dell’artista come autore unico a favore di una maggior consapevolezza del ruolo che la ricezione, la
spettatorialità ha. L’artista avrà sempre il ruolo di attivare il pubblico. Altro aspetto messo in discussione è
quello della neutralità dello spettatore: con le sue decisioni di partecipazione/non partecipazione, con la sua
presenza muta (evidente soprattutto nelle performance dove è presente uno scambio in cui muta la natura
stessa dell’opera).

Goshka Macuga: artista della stagione recente. Cave è uno dei suoi primissimi lavori, realizzato alla fine degli
anni 90 (1999). L’artista ha creato, tramite un’installazione vera e propria di carattere ambientale, questo
spostamento dallo spazio di una galleria a un’idea di caverna usando della carta che stropiccia e modifica, con
la quale riveste interamente lo spazio espositivo e all’interno della quale espone vari tipi di elementi, da
quadri a piccoli oggetti, che vengono collocati in modo anche pericolante; sono opere che ha chiesto ad artisti
ai quali ha proposto di collaborare.

Comunicati stampa dell’iniziativa in cui c’è l’elenco degli artisti e


anche il titolo delle opere esposte.

Fa riferimento alla caverna di Aladino, alla caverna dove è stato sepolto e risorto Gesù, alla famosa caverna di
Platone da cui nasce l’idea delle immagini come ombre, delle idee come finzione. Crea una narrazione ricca di
suggestioni in cui si incarica, come curatrice della mostra, di allestire uno spazio misterioso, magico, che
ponga lo sguardo alle opere come se fossero oggetti di meraviglia, tesori. Goshka Macuga ha spesso realizzato
delle opere che erano forma di relazione con il lavoro di altri artisti o grandi maestri di cui lei si proponeva di
continuare il lavoro immaginandosi delle opere che avrebbero voluto realizzare, o creando dispositivi per
esporre le opere di altri, tessendo un discorso sull’arte attraverso il lavoro di altri artisti. Senza dubbio questa
è una forma di installazione che ha l’obiettivo di creare un nuovo contesto per mostrare le opere d’arte, per
spostare lo sguardo da l’ambiente freddo e aziendale di una galleria a uno spazio magico, all’idea stessa
dell’origine dell’arte, a un luogo in cui le immagini suggeriscono l’idea di mondo sul quale proiettare l’ombra
del dubbio, un mondo fittizio.

Turbine Hall: museo nato all’interno di una centrale elettrica ristrutturata da due architetti Herzog & de
Meuron, diventa la sede per l’arte moderna e contemporanea della Tate Modern, Londra. Questo spazio
straordinariamente ampio ospita un programma di installazioni di cui il pubblico può fruire senza la necessità
di pagare il biglietto d’ingresso. È una sorta di proseguimento della piazza che facilita la relazione con il
pubblico che diventa, a partire dagli anni ‘90, uno degli aspetti ricorrenti sulla museologia e sulla politica
museale delle istituzioni più legate al contemporaneo, in cui la presenza di pubblico, e la relazione stessa,
diventa un elemento sempre più urgente per esplicitare, da una parte, la vocazione culturale ed educativa
che i musei hanno di estendere ad un pubblico che l’arte contemporanea la conosce poco, la possibilità di
accedere a questo tipo di linguaggio culturale; dall’altra però anche la possibilità di giustificare l’esistenza di
questi grandi musei attraverso il pubblico. È una necessità che vede nell’installazione uno strumento ai
limiti perfetto per accendere la curiosità e l’interesse del pubblico.

Weather Project (2004): installazione creata da Olafur Eliasson, architetto islandese. Nel suo lavoro ha
molto riflettuto sul paesaggio, sulla natura, sull’ambiente. Qui realizza, attraverso l’uso di luci, questo
grande sole artificiale la cui potenza energetica, il calore, per essere mantenuto a dei livelli di sicurezza, per
non rischiare di generare degli incendi, veniva abbassato di temperatura con una vaporizzazione d’acqua
che generava anche una sorta di nebbiolina, un’atmosfera particolare. La fruizione del pubblico è
incredibile, le persone si sdraiavano come se stessero prendendo il sole in una contemplazione, immersione
totale. Abbiamo qui un tipo di esperienza percettiva, fenomenologica.

Ai Weiwei: architetto cinese, ragiona sul rapporto tra unico e seriale, tra natura e artificio. In Sunflower
seeds (2010) ha ricoperto il pavimento con semi di girasole, in realtà di porcellana realizzati a mano uno ad
uno, che chiamano in causa l’idea di manodopera, di lavoro specializzato. La pittura su porcellana,
elemento identitario della cultura asiatica e cinese, qua si perde nell’unicità di ciascuno di questi oggetti,
nella loro molteplicità di questi semi che rimandano anche al valore del lavoro dei paesi extra occidentali. È
un’installazione che sollecita, non soltanto aspetti di natura percettiva ma attivano lo spettatore non solo in
termini di esperienza fisica e psicologica ma come soggetto politico. Ciascuna installazione fa riferimento al
campo d’esperienza.

Carsten Holler, Test Site, 2006-2007: proponeva al pubblico modo di attraversare, di espedire, un museo in
forte matrice ludica in cui questi tubi metallici, come degli enormi scivoli, permettevano di passare da una
galleria all’altra attraverso l’abbandono misto a ebrezza e paura a cui il pubblico era invitato a lasciarsi
trascinare.
Superflex, one two three swing!, 2017, 2018-> installazione più recente curata da un trio di architetti
danesi. Hanno organizzato tutta l’area con questi tubi che creano una specie di disegno nello spazio con
altalene concepite per 2/3 persone: prevedono che il visitatore sia affiancato da un’altra figura e
propongono questo atto liberatorio dell’altalena introducendo, come già aveva fatto Holler, all’interno di
uno spazio museale dei comportamenti di spiccata matrice ludica, sollecitando a una riflessione su che tipo
di esperienza il visitatore sia portato ad avere. Esperienza che ha un carattere legato all’industria del
divertimento, fa riferimento al piacere ma c’è comunque il rischio di indurre il museo in un
divertimentificio, nella logica di quello che viene definito “entertainment”. È soggetto a una riflessione, va
osservato in modo critico, consapevole.

Philippe Perreno: artista francese della generazione che si è posta, negli anni ’90, in quella che è stata
definita “Arte relazionale” -> arte che utilizzava spesso il museo e la mostra stessa come occasione per
creare condizioni di incontro, di convivialità con il pubblico. L’etichetta “relazionale” fu coniata da uno
storico francese Nicolas Bourriaud che scrisse un testo dal titolo “estetica relazionale” che diede inizio a un
fenomeno inizialmente solo francese ma che si espanse in tutti i paesi e contesti; prevedeva di porre il
rapporto con il pubblico al centro dell’opera stessa.

Anywhen, 2016 -> Questa mostra prevede un rapporto tra l’installazione come un’enorme macchina che
attiva lo spazio attraverso suoni, luci, movimento di pannelli che scendono, si alzano, filmati. L’osservatore
assume spesso posture informali, ci sono anche dei pannelli e proiezioni che si muovono nel soffitto, pesci
gonfiabili che fluttuavano nello spazio. La stanza, come una sorta di regia percepibile dietro i vetri dal
pubblico, conteneva un complesso sistema in cui dei microorganismi, con la loro sensibilità, erano in grado
di percepire le modifiche di luce, di umidità, sonoreità dello spazio e generavano degli spostamenti
meccanici. Questo mondo naturale micro era in grado di mobilitare forme e luci che agivano nello spazio
ampio della Turbine Hall in un ciclo che rende evidente l’interindipendenza tra micro e macro, tra mondo
organico e modno digitale. Installazione che tocca varie espressioni anche a livello mentale.

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