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FRANCESCA GALLO – DALL’ORIENTALISMO AL POSTCOLONIALE

COS’E’ L’ORIENTALISMO?

Un insieme di studi di paesi che si trovano a est rispetto all’Europa; un secondo significato

riguarda di più le arti visive e la cultura (nel 1893 a Parigi viene fondata la società dei

pittori orientalisti francesi che raccoglie pittori specializzati in un genere diventato ormai

di moda e nell’anno dopo è stata creata la società degli artisti indipendenti; queste società

sono delle iniziative private di artisti che si riuniscono in opposizione ai circuiti “ufficiali”.

Nel loro statuto, quelli dell’83, esplicitano nel loro statuto il loro impegno nel colonialismo,

la presenza nei territori asiatici). La seconda dizione del termine orientalismo indica un

gusto ed un genere di pittura ufficiale di carattere orientale che si è diffuso soprattutto in

Francia; in questi casi la dizione di Oriente è ancora più estesa. La pittura è un luogo dove

trovano spazio chimere, esotismo, curiosità etnografica; non sono temi inediti, c’è una

tradizione iconografica del turco, del musulmano, del miscredente, di orientali o neri,

quello che caratterizza la pittura orientalista è una forte reificazione dei corpi, delle

persone e un’estrema attenzione a dettagli di arti applicate (vestiti, gioielli, ecc.). una terza

accezione di orientalismo che risale ad un secolo dopo, alla pubblicazione del libro di

Eduard Salid “Orientalism. Immagine europea dell’Oriente” in cui ritorna sul primo

significato sottolineando il fatto che l’oriente in sé è una creazione occidentale e non una

semplice espressione geografica, una creazione in termini di rappresentazione; egli si

occupa di questa creazione discorsiva soprattutto nel campo della letteratura e del teatro e

mette in luce una serie di interessi di natura economica e politica che hanno orientato e

nutrito questa rappresentazione; Said dice che questo ha prodotto cose come se fosse una

realtà oggettiva quando in realtà è il frutto del dominio dell’Europa. Said mette in luce che

questa creazione non è unidirezionale, gli orientali vi hanno aderito e partecipato e c’è in

un certo senso la complementarietà tra osservato e osservante; il testo è importante per

quello che viene definito post-colonialismo e Said ha aperto una revisione critica di tutta

una serie di produzione di vari campi della cultura. Fa un esempio: ricorda Flaubert che

viaggi a a lungo in Egitto e da questa esperienza nutre molti suoi scritti e proietta sui suoi

personaggi egiziani, in particolare donne e prostitute, una serie di fantasie che vengono da
Flaubert come se invece quelle caratteristiche fossero appartenenti ad una cortigiana

egiziana di metà ‘800: PROIETTARE UN CERTO TIPO DI IMMAGINARIO SU ALCUNE

POPOLAZIONI, questo è il vero concetto del colonialismo, una serie di cliché e di

stereotipi che si sono autoalimentate. Inoltre nella letteratura di Flaubert e non solo

l’oriente ha una dimensione corporea molto forte, evocata da odori, sapori, ecc. Un altro

tema di Flaubert è che predilige un oriente antichizzante, rimasto fissato in un tempo

antico ed immobile rispetto al progresso europeo, lontananza nello spazio e nel tempo.

Anche nella pittura troviamo allusioni sessuali più o meno esplicite e alcuni luoghi battuti

come l’harem (luogo in realtà di fantasia), il mercato degli schiavi e i luoghi naturali che

vengono presentati in un modo volutamente incontaminato, che non è stato toccato

dall’urbanizzazione. È l’Europa che produce questa nozione di orientalismo.

Cosa succede e cosa producono i pittori dalla seconda metà del ‘700? (perché è una fase in

cui impero ottomano si apre verso l’Europa, la fase in cui si guarda alla Francia, una serie

di ambascerie che si recano a Parigi e dintorni per osservare vita di corte e attività

produttive, quindi è un periodo interessante di contatto. Queste ambascerie sono oggetto

di curiosità un po' morbosa ma quando tornano a Costantinopoli portano con se una serie

di osservazioni non prive di cliché, però ad esempio il sultano vuole costruire imitazione

di Versailles, di Fointainbleu, nasce una stamperia in caratteri arabi; uno degli elementi

che più colpisce la fantasia occidentale è l’harem.). L’immagine che vediamo è

l’autoritratto di Liotard, che risiede a Costantinopoli dal 1738 al 1742 e si riproduce in abiti

orientali, barba compresa, e diventano una caratteristica che lo distingue verso la

committenza ma è anche lasciato come immagine per i posteri. Liotard era diventato

pittore presso la corte del sultano e possiamo considerarlo iniziatore delle TURCHERIE,

scene di soggetto turco che si caratterizzano per l’ambientazione e per la cura meticolosa

nel riprodurre tessuti, abiti, strumenti musicali, suppellettili, ecc. In Liotard manca una

vera erotizzazione del contesto turco ed in particolare delle figure femminili, che vedremo

esplicita nei decenni successivi. Liotard è uno dei pochi a viaggiare per il momento, tutti

coloro i quali si dedicavano alle turcherie in realtà si documentavano sulle fonti, la prima

delle quali è una raccolta di 100 stampe dell’inizio del ‘700 che continua a circolare come
fonte realistica perché aveva posto attenzione alla pluralità etnica raccolta all’interno

dell’impero ottomano. Liotard stesso spesso si riferisce a questa raccolta di stampe e vi

rimane abbastanza fedele. Che cosa vedremo crescere nella pittura orientalista vera e

propria? Immagine di Liotard di una donna non impegnata in una attività lavorativa e che

spende il tempo libero leggendo, suonando, ricamando è il prototipo di una figura

femminile ancora abbastanza coperta ed è passiva e anche inconsapevole dello sguardo

che le viene rivolto ed in questo senso reificata, resa disponibile ad essere guardata e

posseduta. In questo contesto fa eccezione una figura di viaggiatrice che è Lady Montagu

che viaggia a Costantinopoli ed esprime una consapevolezza interessante, perché elabora

un paragone tra la condizione delle donne in Turchia e le donne europee, in realtà la

differenza nei fatti non è così forte. Era solita andare in giro per la città vestita all’orientale

per accedere in alcuni posti che altrimenti le sarebbero stati preclusi. Tornando alla donna

che legge di Liotard: cos’è effettivamente l’harem? Viene descritto come luogo di

libertinismo con una grande disponibilità di donne per il sultano, in realtà è un luogo

molto gerarchizzato, a governarlo è il Grande Eunuco e questa era la terza carica dello

stato all’epoca e anche tra le donne c’è una rigida gerarchia dovuta ad una maggiore o

minore vicinanza la sultano e ai vertici non ci sono le concubine del re, come in occidente,

bensì le madri dei sultani, la cosa più importanti era garantire la sopravvivenza dei figli

del sultano perché alla sua morte solo uno dei tanti figli potrà succedergli. Questa

complessità viene lasciata sullo sfondo dai viaggiatori per concentrarsi sempre di più su

una fantasia orientalista che è quella della disponibilità sessuale.

Appunti di Chiara Badde

13/10/2021

Dispense da scaricare online e le altre in copisteria a via dei Volsci. Estratti relativi ad

argomenti trattati a lezione, sul tema dell’orientalismo il testo che dà notizie è il 5 che si

concentra sulle esposizioni universali. testo complesso è il 3, ma è un testo chiave perché

ripercorre buona parte di ciò di cui parliamo a lezione.


28 ottobre Giornata di Studi sul “Difficult Heritage” partendo da un nostro che è il Sironi

in aula magna del rettorato, seguire da remoto poi caricherà su classroom modalità e

programma.

Muoviamoci sull’altra sponda dell’Atlantico, fino ad ora eravamo in Europa, sia in Europa

però sia negli USA gli afro-discendenti sono una presenza significativa, soprattutto negli

USA. “The Art of the Esclusion” di Boim testo interessante e sostanzialmente una delle

prime indagini di questo tipo, molto documentato con una classica metodologia che è la

storia sociale dell’arte agganciando le opere al contesto storico del momento; altro testo è

una mostra svolta al d’Orsay nel 2019 “Le Modeille Noir: da Gericault a Matisse” e le due

fonti sono complementari perché Boim si occupa dell’800 americano e nella mostra si sono

occupati non della rappresentazione dei neri come gruppo sociale quanto dei singoli

individui che vengono intercettati dagli sguardi degli artisti ed è un’indagine soprattutto

parigina. Non sono le uniche fonti disponibili, si inizia a parlare della presenza afro

discendenti a partire dagli anni ’60 con un progetto editoriale che è ancora in corso,

“l’immagine del nero nell’arte occidentale” favorita e finanziata dai coniugi De Menille

(cercare), che parte dalle origini ovvero ad esempio dalla Adorazione dei Magi. Mentre

parte questo progetto nel ’64, in una delle università nere americane si inaugura il ritratto

del negro nella pittura americana ed è un’operazione politica (foto con Martin Luther King

all’inaugurazione della mostra). Da questo momento in poi ci sono diverse mostre (mostra

del ’73 a Washington, cerca nome) e a partire dagli anni ’80 l’interesse si sposta dalle

persone agli oggetti con particolare riferimento alla mostra del Moma a cura di Rabin,

“primitivismo nell’arte del ventesimo secolo” e nell’89 al Pompidou. Dagli anni ’90 la

situazione cambia ancora “Rapsody in Black” mostra e poi “Black Victorians” alla

Manchester Gallery. Dal XXI secolo c’è un’esplosione di questo tipo di manifestazioni:

2007 molti musei londinesi inaugurano percorsi espositivi di questo tipo, 2008 apertura Du

Quai Branly museo parigino in cui confluiscono le collezioni etnografiche parigine. Siamo

in una situazione contraddittoria perché da una parte abbiamo le grandi battaglie civili sui

valori universalistici dell’essere umano e dall’altra prima la tratta degli schiavi e poi il

colonialismo storico vero e proprio quindi oggi quando parliamo di queste cose lo
facciamo dalle urgenze del presente ma tenendo conto di questa sorta di discrasia della

storia europea; si creano anche degli stereotipi visivi a tutti gli effetti razzisti. Una scelta

importante realizzata nella mostra “Le modeille noir” è una scelta museologica

importante: la mostra prende le mosse da un progetto di ricerca, una delle curatrici aveva

fatto tesi di dottorato su questi argomenti e riesce a coronare il progetto con la mostra

basata sulle collezioni del d’Orsay nel quale il team curatoriale decide di ri-titolare le

opere per evitare il più possibile l’effetto razzializzante. Anche i titoli sono portati storici.

In questo caso il marmo di Carpeaux era “Negra. Perché nascere schiavo” ed è esposta in

mostra con il titolo “perché nascere in schiavitù” spostando il fatto dalla persona sul fatto

che la schiavitù è una condizione in cui si entra e non con cui si nasce. Decidono anche di

non esporre nei cartellini i titoli precedenti ma è un’operazione limitata nel tempo perché

poi nella collezione le opere mantengono il titolo storico. Qualche dato storico: codice noir

(codice nero) promulgato limitatamente alle Antille francesi e poi esteso ad altre colonie,

nella Francia metropolitana la schiavitù non è mai esistita formalmente e questo segna

l’esperienza dei neri da una parte all’altra dell’Atlantico. Nel codice noir i neri sono

assimilati a proprietà materiali, la condizione di schiavo si eredita dalla madre e sono

proibiti i matrimoni misti. Durante rivoluzione francese: Santo Domingo si ribella per

sottrarsi al dominio coloniale e nel fare questo fa appello alla popolazione nera e abroga la

schiavitù, siamo già nella Rivoluzione francese, viene mandato un esercito che viene

sconfitto e la Francia è costretta a riconoscere autonomia di S.D. e il primo di questa guerra

anticoloniale è il primo decreto abolizionista della schiavitù nel 1794: Napoleone restaura

la schiavitù nelle colonie ed eliminata definitivamente solo nel 1848. Non segna tuttavia la

fine di un rapporto asimmetrico tra bianchi e neri. Durante illuminismo gli artisti rispetto a

tali questioni non sono solo osservatori ma talvolta si schierano e già rappresentare un

nero è qualcosa di eccezionale perché sono figure e corpi fuori dal canone e quindi già

questo è un elemento di novità soprattutto per quanto riguarda gli artisti europei. In

questo contesto e in questo arco cronologico Manet e Matisse sono i più consapevoli ed

innovativi. CONCETTO DELLA LINEA DEL COLORE coniato fine ‘800 e diventa

popolare in questi dibattiti nel corso del ‘900 perché è un marcatore visivo, i bianchi
vedono i neri di un colore diverso e basano i giudizi sul colore dell’epidermide e anche

l’espressione “linea del colore” richiama un’espressione legata alle arti visive.

Partiamo con un’opera di Copley “Watson and the Shark” nel 1778 commissionata da

Watson e si riferisce ad un episodio accaduto trent’anni prima nel porto di L’Avana dove

lui viene aggredito dagli squali e perde l’uso della gamba. Perché gli interessa

commissionare un quadro del genere? Boime lo analizza alacremente e si scopre che

Watson e Copley si siano arricchiti con attività del cosiddetto commercio triangolare;

Watson negli anni ’70 cerca di rifarsi una verginità sulla scena politica in un momento di

dibattito tra abolizionisti e sostenitori schiavismo. Alla base del quadro giovane che nuota

con uno squalo che lo attacca e sulla barca personaggi scomposti e al centro un marinaio

nero che ci colpisce perché ha una posizione eminente nella composizione ma anche nella

scena perché è colui che tiene la corda lanciata a Watson: ad un primo sguardo potremmo

dire che i due mascalzoni danno addirittura un ruolo positivo e attivo all’unico

personaggio nero, in realtà se guardiamo bene colui che tiene la corda è a differenza degli

altri che sono compresi nella drammaticità del momento, è tranquillo, quasi astratto dalla

concitazione e quindi fa dire a Boime che si tratta di un’allegoria, una rappresentazione

astratta, una rappresentazione che riguarda i neri in generale e del rapporto che secondo

Watson hanno con i bianchi. Tiene la corda ma è talmente statico che sembra che sia stato

qualcun altro ad ordinargli questo gesto, non è colui che salva Watson ma qualcuno che

esegue gli ordini. Dietro c’è allegoria politica: il mare dei Caraibi è infestato da squali,

ovvero idee pericolose per il commercio britannico, quindi bisogna affidarsi a qualcuno

che conosce le realtà ed ha anche pagato un prezzo (Watson) e la popolazione nera non va

emancipata bensì guidata dai bianchi, dai colonizzatori. È una lettura interessante e

documentata che per noi è utile perché in molte opere che vedremo ritroveremo questa

attenzione alla composizione.

Altra tela più o meno stesso periodo: pittore americano John Trumbull, “Battel of Bunker’s

Hill” del 1786 fatto accaduto a Boston in cui viene sconfitto esercito britannico e come

possiamo osservare di neri non ce n’è quasi nessuno tranne un soldato che si nasconde

dietro il suo ufficiale; anche qui struttura triangolare nella quale i vertici di preminenza
sono rappresentati da militari bianchi, Boime ci guida nella lettura e dice che possiamo

identificare la situazione ed anche chi è l’unico nero presente che è il soldato che ha

determinato le sorti della battaglia e che ha un ruolo diverso da come viene rappresentato

(è rappresentato come uno che si fa scudo dell’ufficiale mentre nella realtà è colui che

guida la vittoria delle truppe americane).

Contemporaneamente ci sono anche artisti più sensibili all’altra campana, a coloro i quali

si battono per abolizione schiavitù; sia a Londra che a Parigi nascono delle società di

beneficienza, amiche dei neri, ed in entrambe è scelto lo stemma disegnato da Wedgwood

che è indicativo delle idee dei filantropi perché il motto “non sono io un uomo, non sono

io un fratello” sotto l’egida dell’universalismo dell’illuminismo ed una religiosità cristiana

si richiama ad una dimensione di uguaglianza degli esseri umani e tutti figli di Dio. Il nero

è presentato non come colui che è attivo nella conquista della libertà ma come colui che

chiede, libertà ed emancipazione sono concessi dall’alto, c’è quindi un forte paternalismo

anche nelle idee di coloro che hanno le posizioni più innovative. C’è un forte razzismo

anche in questo momento e dobbiamo aggiungere che in questo cono d’ombra ci siamo

ancora oggi per moltissime cose.

Di fronte a delle posizioni così paternalistiche che esprimono i più progressisti, cosa viene

con dannato dello schiavismo? Gli eccessi, la brutalità della tratta, ciò che indigna

l’opinione pubblica è prevalentemente la tratta, la schiavitù è intesa come necessaria

all’economia e all’ordine sociale e si guarda ai neri come se fossero in una posizione etica,

intellettiva, culturale minoritaria e quindi devono essere guidati; condannati gli eccessi di

violenza e la tratta. William Blake realizza delle illustrazioni per un diario di un

mercenario che partecipa alle attività della cattura e vendita degli schiavi ma si indigna

per la violenza. Sia Blake che Stedman hanno le idee molto chiare sui rapporti tra Europa e

neri.

Anch nel momento in cui i pittori “celebrano” l’indipendenza in realtà permane una

rappresentazione gravata da ciò che abbiamo parlato fino ad ora: Samuel Jennings

“Liberty displayng the arts and sciences” 1792 in cui una donna bianca che è la libertà
distribuisce il sapere. Come vengono rappresentate le arti? C’è molto disordine

nell’attività di avvicinamento, un moto che sovverte un ordine, c’è quasi una rivoluzione,

si lasciano in primo piano gli aspetti distruttivi più che un nuovo ordine già costituito. Gli

abitanti di Santo Domingo ricevono, accolgono qualcosa che viene dato loro, sono passivi,

ricevono.

Un po' diverso è uno degli schizzi realizzati durante l’Assemblea Nazionale parigina in cui

si sostiene si abolisce la schiavitù: 1794. Ritratto di Jean-Baptiste Belley, deputato di Santo

Domingo che partecipa ai lavori e vota per abolizione schiavitù e si fa fare un ritratto

encomiastico da un allievo di David, Girodet, e si fa ritrarre accanto al busto di Raynal che

è un illuminista che aveva scritto un trattato contro la schiavitù nel 1770 e si nota una

parità di lineamenti che accomuna i due personaggi celebrando il deputato che è un ex

schiavo e porta l’orecchino che lo configura come tale e la posa si rifà all’Ercole Farnese.

Ci sono altri aspetti forse meno celebrativi: virilità ostentata che la critica ha letto

richiamando i ritratti dei condottieri rinascimentali.

Ipersessualizzazione che troviamo in un dipinto originale di una allieva di David, una

delle prime che espone al Salon, Marie Guillemine Benoist che dichiara il suo discepolato

presso David con lo sfondo monocromo del quadro “Portrait de Madleine” del 1800,

ritratto accurato di una ex schiava ma a Parigi è una donna libera anche se di umili origini.

Dove si sono incontrate? La modella è qualcuno al seguito della famiglia al seguito della

sorella della pittrice che aveva sposato un proprietario terriero che era stato nelle Antille.

Ritratto ambiguo, come se ci fosse uno sguardo paritetico tra modella che guarda la

pittrice e la pittrice. In questi anni, sempre legati alla vicenda di Santo Domingo, ci sono

altri ritratti intereasanti: Louis Gauffier, “Portrait de Thomas Alexandre Dumas (padre) en

chasseur, 1790-1800, uno dei primi ufficiali meticci, creoli che Napoleone porta con sé al

Cairo. Di lui ci parla il figlio ed è interessante perché testimonia di un milieu multietnico a

Parigi tra fine ‘700 e inizi ‘800 con persone nate da unioni che erano vietate per legge che

però nonostante questo acquistano delle posizioni di rilievo. Ritratto encomiastico, in


tenuta da caccia, riceverà una serie di ricompense terriere da parte di Napoleone ma poi

cade in disgrazia per i cambiamenti politici.

Ancora + esplicito: “il giuramento degli antenati” perché non c’è solo il ritratto di due

ufficiali francesi ma anche il pittore è creolo e diventa direttore dell’Accademia di Francia a

Roma e non a caso sarà colui che pronuncerà elogio funebre di Alexandre Dumas padre; la

critica mette in luce che esiste una società multietnica e all’interno delle relazioni di

supporto reciproco e di vicinanza all’interno dello stesso gruppo etnico ma questo non ci

deve portare a pensare che l’appartenenza etnica di un’artista corrisponda ad una ed una

sola posizione politica ed etica, all’interno della produzione degli artisti ci sono opere che

oscillano tra iconografie

Un convinto antischiavista era Gericault che muore giovanissimo e con il quadro “La

zattera della Medusa” conquista. Naufragio della Medusa, una fregata francese a largo

della costa del Senegal che portava il nuovo governatore francese della colonia appena

conquistata. Non ci sono scialuooe quindi alcuni devono accontentarsi di una zattera che

viene legata ad una scialuppa ma poi viene abbandonata e va alla deriva per settimane.

Tra i sopravvissuti c’è un marinaio nero ma Gericault ne dipinge ben 3 e la posizione di

Gericault è chiara perché li pone in una composizione trinagolare al vertice di eminenza,

tra l’altro attivo mentre richiama l’imbarcazione che si vede sullo sfondo. Il modello si

chiama Giuseppe ed è anche grazie a questa tela che diventa una celebrità e viene

impiegato da artisti che attraverso questa scelta vogliono richiamarsi a Gericault e alla sua

eredità artistica e politica. È uno dei primi modelli ad essere ufficialmente censito

dall’Accademia di Belle Arti, nel senso che prima rappresentare un nero è al di fuori del

canone ma a proposito di questo nell’800 iniziano ad esserci dei modelli neri che vengono

esaminati e alcuni vengono selezionati.

Gericalut si occupa spesso di queste tematiche, ci sono illustrazioni come “I pugili” che

può avere una dimensione allegorica, i due si fronteggiano ad armi pari. Inoltre c’è un

disegno per una tela mai realizzata e si riferisce al commercio degli schiavi e ad un

momento preciso: le carovane dall’africa centrale arrivano sulle coste del Senegal dove
devono imbarcarsi sulle navi negriere e questa è operazione violenta perché separa le

famiglie e questa prassi genera delle rivolte ed è di conseguenza uno dei momenti più

violenti e Gericault cerca di “dare un volto” a quese scene. La tratta degli schiavi è ciò che

più colpisce opinione pubblica, più dellp schiaismo insè come istituzione, nonostante fosse

fuori legge per tutto l’800 la tratta prolifera ed un altro pittore che si occupa di questi temi

è TURNER che espone nel 1840 la tela “salve ship (Slavers Throwing Overboard the Dead

and Dying, Typhoon coming on). Il titolo riconduce un lavoro del genere ad un fatto reale

accaduto alla fine del ‘700 ma era un episiodio storioco di una serie di vicende analoghe in

cui ci si liberava del carico umano perché il carico stava deperendo, nell’episidio di Turner

il comandante della nave rifiuta di salvare gli schiavi che si erano ammalati, il medico

suggerisce che prendano aria in modo da migliorare condizioni di salute, il comandante

nega e man mano che la malattia sia diffonde si rende conto che quando arriverà a

destinazione di questo carico sarà molto basso ed invece di perdere utili economici

preferisce incassare il premio assicuratrivo e decide di buttare in mare perosne ancora vive

oltre ai cadaveri. Turner rappresenta la scena in modo lugubre. Utilizzare schiavi per

attirare gli squali che poi venivano catturati dai marinai per sfamare l’equipaggio e il

carico umano. Turner torna su un episodio precedente perché è un’esemplificazione di

qualcosa che accadeva ai suoi tempi e lui condanna e la critica ha notato che sono gli stessi

anni in cui dipinge il “treno in corsa”.

Un pezzo me lo sono persa

Pierre Puvis de Chavannes, Jeune Noir a l’epee, 1848-49.

Francois-Auguste Biarde, l’Abolition de l’esclavage dans les colonies francaises,

14/10/2021

William Sidney Mount, Eel Spearing at Setauket, 1845, olio su tela. Questa pesca

dell’anguilla è un quadro su commissione da parte del proprietario del casale che si vede

sullo sfondo ed è un’eccezione sul suo catalogo perché la donna che sta pescando ha una

posizione visivamente egemone ed inoltre è lei che pesca e un po' per spiegare questa
unicità rispetto al suo cataloga la critica dice che ci sono reminiscenze infantili quando

effettivamente i domestici avevano una funzione di guida.

Ci spostiamo dall’altro lato dell’Atlantico, dove Sydney Mount ha una certa importanza,

cresciuto in una famiglia che aveva diversi schiavi che si prendevano cura di lui, ci sono

evidenti pregiudizi ed una visione dei rapporti bianchi-neri. per il resto Mount indulge in

rappresentazioni dove i neri sono impegnati in attività di carattere agricolo ma da una

parte testimoniano una contiguità molto quodiniana che in europa era frequente ma in

questa contiguità sono attivi una serie di clichè: Music Hath Charms (il potere della

musica),1847 di cui fa le spese la figura al di fuori dell’interno. Composizione che si svolge

dentro, dove ci sono i bianchi, e all’esterno con il contadino afro-americano che mentre i

bianchi ascoltano la musica e hanno il diritto di farlo lui invece è fuori e subendo il potere

della musica ha abbandonato le attività lavorative e questo modo di rappresentare in una

maniera moralistica i neri è molto frequente in Mount (ci sono scene di relax durante i

lavori contadini e il nero è di solito quello che sta dormendo mentre gli altri sono

impegnati in qualcosa e quindi per l’occhio dell’epoca riecheggiano questioni legate alla

pigrizia, all’indolenza, ecc.).

Qualcosa di simile: Woodville, War news from Messico, 1848, dispositivo architettonico di

inclusione-esclusione che riprende le forme di un frontone antico ed è sovrastata da

un’insegna che richiama l’America, quindi chi è sotto il porticato sono americani che sono

molto compenetrati in quello che stanno facendo, enfasi in quello che fanno; al di fuori

della struttura architettonica ci sono sia due afro-discendenti sia una donna sebbene in

secondo piano e l’uomo e la ragazzina in primo piano osservano la scena ma “non sono in

grado di capirla perché non sanno leggere e scrivere” e non possono prendere pienamente

parte alla cittadinanza, sono incuriositi ma non interessati davvero e rappresentazioni del

genere sono all’ordine del giorno.

Molto diversa è la situazione in concomitanza con la guerra di secessione che politicizza

molto di più l’essere a favore ocontro lo schiavismo e alcuni pittori si avvicinano a delle

posizioni più progressiste: Eastman Johnson è una figura interessante, passato per lo
studio di Couture dove soggiorna a lungo Manet, formazione quindi cosmopolita che

propone il tema dell’istruzione e della volontà di istruirsi e di apprendere. The Chimney

Corner interno di umili origini e molto umile è anche la figura rappresentata però alla fine

della giornata di lavoro si dedica alla lettura e si impegna nel leggere, nell’istruirsi: visione

che mette in discussione i cliché etnici razzisti della cultura dell’epoca, in particolare

questa rappresentazione è positiva se la confrontiamo con il ritratti che Johnson dedica a

Lincoln qualche anno dopo in cui riprende la stessa ambientazione (Lincoln legge al lume

della fiamma del caminetto). Sempre di lui A Ride for Liberty, si riferisce ad una situazione

tra il 1862-63 quando Lincoln afferma che dal 1 gennaio 1863 tutti i neri sarebbero stati

liberi e questo porta i neri a scappare e Eastman Johnson, un pittore bianco che vede

favorevolmente integrazione tra bianchi e neri, dedica questa tela ad una famiglia di ex

schiavi che sta fuggendo dai padroni, dagli schiavisti nel tentativo di rientrare tra coloro i

quali saranno liberi all’inizio del ’63. Iconografia positiva: richiamo alla fuga d’Egitto e poi

in questo caso il soggetto afro-discendente è rappresentato in una forma attiva e questo è

già di per sé effetto visivo di una considerazione dei neri come soggetti capaci di

autodeterminarsi.

Attorno a questi anni di guerra di secessione ci sono diverse figure interessanti e l’esercito

è uno dei luoghi in cui i neri vanno ad arruolarsi perché in questo modo stanno

combattendo per affermare anche la propria emancipazione e Wilson Homer è un realista

a tutti gli effetti e si avvicina molto alla questione dei soldati e fa dei sopralluoghi e rivolge

alla coppia di giovani soldati in “Army Boots” uno sguardo neutrale, contesto umile e

dimesso però entrambi guardano verso osservatore e sono dentro una situazione che li

qualifica come appartenenti all’esercito nordista.

All’emancipatory act di Lincoln i proprietari terrieri del sud anche all’indomani fine

guerra di secessione si ribellano, predispongono dei provvedimenti normativi che negano

questo atto e in particolare alcune disposizioni legislative permettono agli ex proprietari di

schiavi di riprendersi gli schiavi fuggitivi e di questo parla una tela di Thomas Setterwhite

Noble in “Margaret Garner” e anche lui passa per lo studio di Couture. Noble rappresenta

un fatto accaduto che ebbe molto clamore che ha come protagonista Margaret Garder, ex
schiava fuggita per tempo che ha trovato la libertà nei pressi di Cincinnati ma viene

inseguita dai sui ex schiavisti (lei ha tre figli) e piuttosto che consegnare i bambini decide

di ucciderli e questo ha avuto un grande clamore, viene difesa dalle associazioni che si

battevano per l’emancipazione degli afro-americani e alla fine le danno ragione. La

vicenda è inquadrata in un’ottica in cui è la schiavitù a provocare reazione aberrante,

motivo per cui una madre può decidere di togliere la vita ai figli pur di non fargli vivere lo

schiavismo. Noble rappresenta questa scena evidentemente riprendendo un modello

figurativo famoso che è il giuramento degli Orazi soprattutto per la posizione delle figure

maschili e il modello viene in parte accolto e in parte stravolto perché le donne in David

sono inconsapevoli e qui la figura femminile fronteggia gli uomini e al centro ci sono due

dei suoi 4 figli morti. La tela è conservata nel National Underground Railroad Freedom

Center (2004) a Cincinnati. Noble è una figura interessante, molto attivo e mentre Johnson

viene da un ambiente degli stati del nord (aveva poco a che vedere con lo schiavismo)

Noble vinee dalle province meridionali e osserva il perdurare delle conseguenze dello

schiavismo anche dopo la fine della guerra di secessione e la tela “il prezzo del sangue” è

dedicata alle unioni miste da padre bianco e donna schiava e quindi la condizione di

schiavo viene ereditata dai figli che ad un certo punto, finchè son bambini vivono in un

limbo, diventao consapevoli della loro estraneità rispetto alla comunità in cui erano fino a

quel momento. Qui è rappresentata la vendita da parte del padre del ragazzo mulatto ad

un signore che ha pronta lì la somma da dare al padre, non si vede nella tela ma la critica

nota che alle soalle del padre c’è una scena del sacrificio di Isacco, richiamando una

analoga situazione di figlio sacrificato dal padre. Il magistero presso Couture è riscontrato

nella citazione della mano piuttosto artigliosa che si fissa sulla ricchezza in entrata

diciamo.

Come viene rappresentata l’emancipazione? Edmonia Lewis è una delle pochissime artiste

afro-discendenti di cui abbiamo notizia per questo periodo che fa un soggiorno a Roma

dove realizza questo marmo:

Edmonia Lewis, Forever Free, 1867, marmo, ci saremmo aspettati una rappresentazione più

innovativa e invece è una composizione molto paternalistica, non sono molto attivi o
consapevoli. Quest’opera si trova in una storica università nera, la Howard University

Gallery of Art.

Illustrazione interessante di Thomas Nast, Patience on a Monument, 1867. Parodia del

monumento perché mette in luce l’ipocrisia di monumenti realizzati ai soldati neri o a

Lincoln quando in realtà alcune cose per cui Lincoln si era battuto continuavano a

succedere. Rappresenta un reduce di guerra in cima ad un monumento che diviene una

stele funebre perché alla base ci sono una donna ed una bambina uccise da ciò che

vediamo sullo sfondo, roghi, qualche segno della violenza, un permanere di violenza

contro i neri a discapito nonostante il gran parlare ch si faceva di emancipazione. Thomas

Ball, Emancipation, 1875, Washington (e 1877 una replica a Boston) dove Lincoln sta

liberando dalle catene uno schiavo come se la libertà fosse una concessione e non un

diritto. Questo modo di intendere i rapporti gruppi etnici-nazioni è declinato in tante

occasioni:

- Frank Lesile, copertina catalogo Illustrated historical register of the centenial

exposition, 1876, Philadelphia. Gli stati uniti mostrano i progressi all’Europa (donna

turrita) mentre in posizione subordinata abbiamo l’Asia, l’Africa, i nativi americani.

Occasione in cui i neri compaiono in un’area intitolata the south, una sorta di

piantagione i cui abitanti cantano e suonano; esposizione umana, ricostruzione di

una piantagione in cui i neri svolgono attività ritenute proprie di quel gruppo

etnico, una sorta di zoo umai. Gli Usa stanno facendo vedere all’Europa i progressi,

il commercio, il treno a vapore, ecc

All’inizio del secolo ancora una volta la posizione riservata agli afroamericani è l’ultimo

della gerarchia visiva (the navy di MacMonnies, monumento del 1900), non sono opere

d’avanguardia ma danno l’idea del sentire comune. Proprio sui monumenti americani si

esercita uno dei primi “storici dell’arte” afro-discendenti.

Torniamo in Francia: riprendiamo il discorso di ieri e abbiamo parlato di Dumas padre, di

Ira Algridge capace di impossessarsi del cliché e di piegarlo ai propri interessi personali e

qualcosa del genere lo troviamo in Dumas figlio, un mulatto come il padre e che vive nella
Parigi di metà secolo dove costruisce la propria fortuna come uomo di lettere però autore

di un certo tipo di narrativa non canonica, romanzi popolari anche come tipo di genere.

Dumas figlio sembra ribadire anche lui consapevole di essere qualcosa ai margini di un

contesto letterario e sociale convenzionale sia per la sua produzione letteraria sia per la sua

persona ed in particolare, grazie ad alcuni ritratti che gli fa Nadar con cui era in amicizia e

nei quali Dumas gioca si fa ritrarre anche in momenti privati, con la compagna discinta ad

esempio, Nadar gli dedica ritratti e una caricatura che mette in evidenza aspetti

fisiognomici che lo qualificano come afro-discendente. La critica ritiene che queste opere in

questo contesto sono il frutto del rapporto di amicizia tra i due e testimoniano anche in

Dumas figlio la capacità di una consapevolezza etnica ed una capacità di impossessarsi del

cliché e manipolarlo, ribadire la sua eccezionalità, il suo essere diverso.

Nella Parigi degli anni ’50 - ’60 è un tessuto sociale multietnico a vari livelli: Manet, Jeanne

Duval, 1862. Era un’attrice di teatro mulatta con cui Baudelaire intrattiene una relazione

burrascosa (nei fiori del male sentimento sincero del poeta verso di lei e dall’altro lato

attrazione verso l’esotico che il poeta identifica con questa donna proveniente dai Caraibi).

Ritratto sorprendente per la cromia, per il tipo di vestito e la dimensione di appartenenza

etnica è sommaria, tutt’al più potremmo pensare a qualcuno che proviene dalla Spagna

piuttosto. Attraverso Duval arriva nell’atelier di Manet anche la donna che posa per

l’Olympia di Manet, che ci interessa per diversi aspetti e nella dimensione innovativa del

quadro rientra anche la donna di colore perché sono figure fuori dal canone e il dipingerle

è una novità; anche per un secondo aspetto perché Manet spoglia Olympia e lascia vestita

Lor (la donna nera che lavorava come lavandaia e attraverso Duval è presentata a Manet

che la ritrae come governante di Olympia)? Capovolge i cliché dell’orientalismo e

distingue nettamente le due donne (esisteva la prostituzione con bianche e nere ma Lor

non appartiene a questa categoria, gli unici elementi che la qualificano etnicamente sono

l’orecchino e il foulard). Rispetto all’orientalismo ci sono dei dettagli che qualificano la

scena, la prospettiva però porta lo sguardo sulla nudità, lo spazio non è una casa di

tolleranza ma un appartamento di un albergo dove la mantenuta Olympia riceveva i suoi

amanti. Ci dice molto sul pensiero di Manet, che era un repubblicano convinto (diario del
viaggio in Brasile con una nota sul disgusto per avere visto il commercio degli schiavi;

Manet partecipa a delle mostre di sottoscrizione per sostenere gli operai danneggiati dalla

guerra di secessione). Questa signora, Lor, non compare solo in questo quadro. Il rapporto,

la mancata complicità e la totale estraneità dal gioco di seduzione di Olympia lo capiamo

immediatamente se notiamo alcune scene orientaliste sia se consideriamo come Cezanne

interpreta l’Olympia in un contesto che appare più legato all’orientalismo perché la donna

nera sta aiutando la bianca a togliersi dei veli ed è complice di questo piacere visivo.

Tornando ambienti vicini a Manet, Bazille testimonia una ambivalenza rispetto a questi

temi, un quadro rifiutato al Salon è una scena nella tradizione orientalista in cui il rapporto

bianca-nera è evidente: “La Toilette” e lo stesso pittore fa dei ritratti più in sintonia con la

Lor dell’Olympia: una fioraia molto vestita, che offre un mazzo di fiori, lo sta sistemando

con elementi etnici ridotti al minimo mentre questa grande attenzione ai fiori è variamente

interpretata: riferimento alle peonie=richiamo al Teana (composizione poetica di lamento,

di sofferenza) e poteri medicali delle piante quindi comunque una concezione positiva che

contrasta con il quadro precedente de la toilette.

Continuiamo in Francia e nell’ambiente parigini più o meno nell’Impressionismo: anche

Degas rimane incuriosito da una donna afro-discendente, Lala una trapezista che si esibiva

al circo molto celebre per la forza della sua mandibola: come mai questa figura riceve un

ritratto da Degas? Fa un viaggio dall’altra parte dell’Atlantico a New Orleans a trovare la

famiglia della madre, impegnata nell’industria del cotone, quindi aveva una famiglia

mista anche lui e il circo e il teatro (per Ira aldrige) sono i luoghi in cui gli afro-discendenti

si integrano, trovano il posto per “mettere in mostra” le loro capacità. Ce lo testimonia

anche l’esperienza del ballerino Chocolat effigiato da Lautrec, figura consapevole rispetto

alla marginalità e cosa questa marginalità gli consente di fare. Concludere questa parte

ricordando che Gauguin copia l’Olympia di Manet e questa copia viene acquistata da

Manet: questa triangolazione ha molti risvolti. Gauguin proviene dalla cerchia di Manet e

l’acquisto di Degas dà ragione a Gauguin: il dato più evidente è la simmetria del volto

dell’Olympia e anche come la relazione tra le due sia nella copia leggermente diversa
perché qui la domestica nera è un po' più in attesa della risposta della donna bianca

(sguardo esotizzante in Gauguin dal quale invece Manet sfugge consapevolmente).

Torniamo negli USA e riprendiamo il discorso sui quadri di Homer:

Sunday Morning in Virginia, ci fa tornare al tema dell’istruzione di cui parlavamo prima:

negli stati del sud è un’attività repressa dai bianchi proprietari terrieri e di schiavi ma sono

tante le rappresentazioni di classi numerose che in contesti umili si impegnano per

imparare a leggere (non necessariamente giovani ma anche meno giovani) e se

colleghiamo questo alle fondazioni delle università nere capiamo quanto questo discorso

sia importante. Homer è un grande viaggiatore, pittore autodidatta che rimane fedele ad

una visione dei dettami del realismo e “Gulf Stream” è un quadro messo a paragone da

Boime con Watson e lo squalo perché ha delle analogie e risuona una dimensione

allegorica vagamente analoga. Questa tempesta tropicale secondo la critica rappresenta un

nero molto lontano da quello di Copley che è immobile nel contesto esagitato, questo è un

marinaio che ha ben poco con cui affrontare la tempesta, eè stretto tra gli squali in primo

paino e il tifone sullo sfondo e tuttavia rimane vigile, non si è abbandonato al flusso degli

eventi, osserva la situazione e in qualche modo in attesa di qualche elemento che possa

modificare il suo destino, soprattutto il pittore non sposa i cliché razzisti di Copley.

Alla fine del secolo: Francisco Oller y Cestero, portoricano transitato dall’atelier di

Couture e diciamo che la situazione dei Caraibi rispetto agli stati uniti presenta una

maggiore integrazione tra bianchi e neri, non una legislazione di segregazione ma le

disparità sono comunque molto forti. “The school of Rafael Cordero” il cui magistero si

svolge sotto l’emblema e l’egida della chiesa cattolica: che tipo di insegnamento

impartisce? Forse lo sguardo che il pittore rivolge alla sua capacità di insegnante non è

molto lusinghiero perché i bambini sono distratti, figura non capace di mantenere l’ordine

e frustino alle sue spalle che si riferisce non ad uno strumento che usa ma di cui conosce

l’uso perché Cordero era uno schiavo arrivato come tale a Santo Domingo che poi riesce

ad emanciparsi grazie ad una diversa legislazione. Il pittore rivolge uno sguardo critico

alla società portoricana e anche al ruolo della chiesa e si può dedurre dal quadro “El
Velorio” in cui mette in luce gli elementi di immoralità che pervadono la società

portoricana, in cui c’è mescolanza di bianchi e neri e la chiesa cattolica sembra

responsabile della degradazione morale. Il quadro è una veglia funebre, un bambino è

morto ma tutti intorno sono impegnati in altro, distratti da appetiti sessuali, cibo, vino,

musica, c’è una grande confusione e l’unica persona che ha un atteggiamento coerente con

la situazione è un anziano nero, ex schiavo perché ha l’orecchino, che sembra essere

l’unico capace di una spiritualità ancora autentica, non corrotta, tant’è vero che è un po' un

manifesto, un dire che una vera dimensione spirituale c’è e sopravvive solo in alcune fasce

sociali lontane dalla chiesa cattolica e dalla sua ritualità; la presenza divina è stata colta nel

raggio di luce che filtra dalle assi della capanna che intercetta il bambino e il vecchietto

capace di spiritualità.

Rappresentazioni positive che hanno a che fare con la musica, gli afro-americani sono

associati ad essa come se fosse una loro naturale predisposizione. Eakins, un realista,

dedica a 3 generazioni che imparano a danzare e suonare un ritratto positivo: non hanno

pose esasperate o esagitate ma sono compenetrati nel loro ruolo, c’è un passaggio di

conoscenza tra le generazioni. Così come una rappresentazione positiva è la “Banjo

lesson” di Tanner, quadro molto esposto, il nonno insegna al nipote a suonare e i due sono

in un contesto umile ma visti in una luce positiva perché sono concentrati su ciò che

stanno facendo. Tanner è uno di quelli non univoci su queste tematiche perché

all’Esposizione universale di Parigi nel 1900 espone “Daniele nella fossa dei leoni”, in cui

non c’è una presa di posizione politica. Stilisticamente c’è una differenza tra i pittori che

esprimono idee differenti su questo tema? Secondo la prof no, un discorso è l’iconografia e

da quella si può capire molto, altro discorso è lo stile, lo stile è più dovuto al momento

storico in cui vengono realizzate delle opere, è l’iconografia che ci aiuta a distinguere. Gli

orientalisti sono conservatori dal punto di vista ideologico ma spesso sono innovatori dal

punto di vista stilistico o formale (anche per il fatto di affrontare condizioni luminose e

soggetti che sono diversi da quelli su cui si sono formati), ad esempio Basil lo

consideriamo nel gruppo impressionista (innovatore dal punto di vista stilistico) ma

incerto rispetto a questa tematica in particolare.


Parlando dei monumenti a Lincoln ha citato uno storico dell’arte che si è formato su questi

monumenti è il primo afro-discendente che si occupa di arti visive pubblicando lo studio

sull’emancipazione e i liberti nella scultura, siamo all’inizio del ‘900 ed ebbe una delle voci

importanti di intellettuale afro-discendente che si batte ed è attivo nel contesto culturale ed

è Freeman H.M. Murray.

20/10/2021

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21/10/2021

Il passaggio di attenzione dalle persone agli oggetti di per sé rappresenta un problema

perché gli oggetti vengono intesi come una maschera dell’uomo bianco e del suo sguardo,

un modo per alienare ancora di più le persone e i popoli, oggi da una critica postcoloniale.

In questa mostra creata da William Rubin lo studioso ci introduce a questo problema (vedi

foto su cellulare delle slide). 2 questioni: cosa significa primitivo e primitivista nella critica

d’arte? E la seconda l’interesse degli artisti per questi oggetti. Sul primo aspetto nella

critica il termine “primitivo” è associato a luoghi esotici (Gualtier in relazione ad Haiti con

questa immagine in cui Haiti rappresenta la possibilità di vedere ogni giorno Venere

uscire dal mare, non solo una proiezione dell’età classica al di fuori dell’occidente ma

anche un’associazione tra primitivo e molto antico; a partire dagli anni ’80 dell’800 questo

termine muta e si arricchisce e si inizia ad usare l’aggettivo primitivo per Serat; Serusier

parla dell’età dei primitivi in relazione alle scuole d’arte antica precedenti a Raffaello;

Eduard Giorden nell’articolo dedicato a ? parla di arte popolare e contemporanea; Uisman

usa aggettivo primitivo per Degas: non solo qualcosa lontano nel tempo ma l’aggettivo si

può impiegare anche per i contemporanei.) a partire dagli anni ’90 dell’800 il termine

primitivo viene utilizzato in relazione all’arte pre-rinascimentale, sulla base di

un’osservazione di un anti naturalismo e pian piano nel corso del ‘900 ancora il termine

primitivo si allarga semanticamente. Pizarro scrive al figlio “la grecità e il primitivo sono

reazioni alla commercializzazione e al mercato”, lui individua nel rivolgersi all’antico, sia

antico classico o un antico (arte primitiva =stadio originario delle forme, precedente ma in
età contemporanea), è il mercato. Nel 1915 Carl Einstein scrive “negroplastic” con

riferimento all’arte primitiva; Lionello Venturi scrive del gusto dei primitivi nel ’26 , un

tema ripreso negli anni ’60 da Giovanni ?. infine per ritornare al discorso di Rubin, Rober

Goldwater nel 1938 da una lettura complessiva del primitivismo nell’arte moderna,

l’esperienza delle avanguardie e del surrealismo sono ormai mature e metabolizzate.

L’altro aspetto che solleva la citazione di Rubin è l’attenzione, l’interesse degli artisti per

una dimensione che non sia solo estetica verso gli oggetti ma che tenga conto delle loro

origini e della loro presunta antichità (per cosa sono stati prodotti?). uno dei primi a

occuparsi di arti primitive, tribali è Andè Derain (la danza, 1906 si ispira ad un fregio a

basso rilievo del tempio di Siva a Banteay Srei. Per il modo in cui lui rielabora lo spunto

visivo ritroviamo il discorso del ritmo interiore) che le incontra durante un soggiorno

londinese visitando il British Museum e si imbatte nei rilievi indonesiani. Analizza dal

punto di vista formale la scultura tribale e a suo avviso dal punto di visto estetico ci sono 2

modi di leggerla: un primo è il fatto che osservando la scultura tribale si dia risalto

all’espressione, al ritmo interiore e alla potenziale dinamicità delle immagini, quindi una

lettura che si concentra partendo dai rilievi indonesiani; la seconda riguarda la

spazializzazione della luce, usa dei piani dei volumi. Andrè Derain, Bagnanti, 1907 che

corrisponde alla seconda linea di ricerca in cui il cromatismo Fauves si annulla abbastanza

e c’è il modo di lavorare le figure con i piani di luce con un effetto abbastanza raggelante,

di immobilità. In mezzo fra le due linee individuate anche Matisse sta ragionando sull’arte

tribale ma in una maniera in cui sentiamo ancora lo sguardo orientalista che riemerge nella

sua pittura anche più avanti. Il suo “Nudo blu, ricordo di Discrait” è un ricordo del

viaggio in Algeria, in un quartiere noto per una zona a luci rosse. C’è un fondo, ci sono le

palme che danno una collocazione esotica e giustificano la zona, per il resto il nudo dalla

critica del tempo viene interpretato come un esempio di estetica del brutto, nel senso che è

un corpo che non incontra sufficientemente il voyerismo, non sollecita abbastanza l’occhio,

tuttavia riguardo le due strade individuate di Derain collochiamo Matisse nella prima per

la scelta di questa figura quasi avvitata su se stessa. L’interesse di Derain per la scultura

tribale è formale e lo sculture rimane indifferente rispetto a un portato di carattere più


simbolico che questi manufatti hanno ovvero di portare con loro una sorta di energia

spirituale; nonostante le differenze degli artisti rispetto ai luoghi di origini e le funzioni

degli oggetti, qualcuno rimane affascinato da questa dimensione originaria dell’oggetto,

da questo essere non corrotto dal mercato e la separazione tra estetica ed etica e Derain

continua ad occuparsi delle suggestioni: Nudo in piedi (scultura, primitivismo domestico,

arte popolare) e il quadro di DErain “La toilette” in cui le spinte primitive sono state … il

gesto di pettinare i capelli diventa quasi benedicente. Se pensiamo che il tema è il

medesimo delle Demoiselle de Avignon ci troviamo su un altro ritmo, e figure non sono

scalate e c’è assenza di profondità e c’è la compresenza di frontalità e profilo che la critica

legge come gusto egizio). In questi stessi anni, nel 1907, Matisse torna da un viaggio in

Italia e ribadisce l’esemplarità dei primitivi e rispetto alla scomposizione cubista il

primitivismo consente a Gauguin di mantenere integri e saldi i suoi nudi che sembrano

ritagliati e il linguaggio delle artyi arcaiche e tribali diventa un modo per abbandonare il

naturalismo e arrivare invece ad una sorta di “astrazione” che ha alle spalle una matrice

spiritualista ed è un modo per reintegrare l’arte del passato all’interno di una ricerca

formale che invece rimane una ricerca del’avanguardia. In questi stessi anni, Matisse

consiglia ai giovani che lo frequentano di guardare esclusivamente all’aspetto formale

dell’arte tribale senza lasciarsi sedurre da una dimensione simbolica o rituale ma anzi

cercando di restare fedele al dato fenomenico. L

Picasso invece è in una posizione diversa e il suo interesse per la scultura primitiva

riguarda anche la carica spirituale che questi oggetti esercitano su Picasso spesso come se

continuassero ad essere portatori di una ritualità del mondo magico che li ha

probabilmente prodotti, lui non ha mai parlato veramente del primitivismo e quando ne

ha parlato ha negato il suo interesse per l’arte tribale ma negli anni ’30 lo fa secodno la

critica per prendere distanze dal surrealismo (?). una chiave di accesso che la crutuca usa è

un romanzo di Andrè Salomon che è rimasto a lungo inedito ma era già redatto negli anni

in cui Picasso lavora alle Demoiselles, tra l’altro Salomon parla di Picasso nei termini di un

apprendista stregone che cerca di rinstaurare un dialogo con i maghi dell’Oceania e

dell’Africa. Picasso rimane ossessionato nel romanzo, dalla visita di una collezione di
anticaglie allestite su; il personaggio letterario è ossessionato da questi oggetti che sono

delle maschere e cerca di riportare questi oggetti nella sua arte. La critica ha individuato in

questo rapporto più emotivo di Picasso con la maschera un dato originale rispetto a

quanto fanno Derain e Matisse. Il contesto in cui P. cala queste maschere rinforza il potere

che la maschera esercita sul pittore perché il quadro viene letto in una chiave di desiderio

sessuale represso a causa della paura delle malattie veneree, contesto di attrazione e

repulsione verso la sessualità rinforzato da una situazione di potere storica in cui si trova

la Francia in quegli anni a causa del colonialismo (le maschere provengono da territori

appena conquistati come alcune zone dell’Africa). Opera è un esorcismo imparentato con

l’arte tribale, maschere funzione archetipa di rivelare il rimosso e l’opera diventa un

esorcismo, tanto quanto le maschere hanno un potere spirituale allo stesso modo secondo

la critica P. trasferisce questo potere nelle demoiselles e l’oggetto del potere è il desiderio

sessuale e il desiderio erotico. Ci sono altri riferimenti, lo schiavo morente, Gauguin, ecc.

Picasso dice: “quando andai al vecchio Trocadero ne fui disgustato. Il mercatino delle

pulci, l’odore. Ero solo. Volevo andarmene, ma non lo feci. Rimasi. E rimasi. Compresi che

si trattava di qualcosa di molto importante: mi stava davvero succedendo qualcosa. Le

maschere non erano simili a nessun altro pezzo scultoreo. Per nulla. Erano oggetti

magici… tutti i feticci erano usati per la stessa cosa”: Picasso era anche un collezionista di

oggetti africani, in particolare di maschere.

Osserviamo Matisse:

come Gauguin è molto attivo a lungo sulle tematiche che ci interessano a partire da un

viaggio di qualche mese a Tangeri nel 1912 da cui riporta una serie di lavori tra cui “il

ritratto di Fatmah” che non rientra nel filone orientalista (eccetto l’abbigliamento) e nello

sguardo orientalista perché la donna è abbigliata e perché nella posa e nella frontalità c’è

una parità tra ritrattato e pittore. Anche tele di ambito urbano in cui lo sguardo si spinge

talvolta in profondità ma è concentrato sui luoghi e si tine a distanza dalle persone, anche

nel quadro “Cafè marocain” in cui convivono riferimenti e temi su cui il pittore lavora ma

che è risolto in una forma di un arazzo, di una composizione decorativa con l’elemento

della cornice e qualche elemento identificativo del contesto arabo. Ancora contesti arabi,
marocchini risolti anche come esplorazione di memoria cubista (Matisse Les marocains),

uno dei lavori più interessanti riguarda il rapporto con le modelle: sono 2 modelle, una

bianca e una afro-discendente e al quale lui dedica lameno un paio di quadr interessanti

che si collocano in dialogo con Manet. “Dejeneur oriental” tavolinetto in basso, da Manet

proviene sia la dialettica bianco-nero sia il rapporto che si crea tra le due donne, la nera sta

portando qualcosa alla bianca che ci guarda, mentre la Lor di Manet rivolge i suo sguardo

a Olympia, la nera di questo quadro, Ayshà, ci guarda e sebbene sta servendo Lorette in

realtà domina la composizione e c’è uno stuidio per decostruire alcuni apetti

dell’Olyympia. Il dialogo è ancora più serrato nel quadro “Aichà et Laurette” con la stessa

dinamica di sguardi di Manet, A. è abbigliata ll’orientale e guarda L., che guarda noi.

L’Olympia è un punto di riferimento anche per quanto riguarda la rappresentazione dei

rapporti tra le etnie, per l’integrazione della figura afro-discendente nelle composizioni.

Questo discorso, sappiamo che i riferimenti orientalisti ritornano nella pittura di Matisse: è

il segno di un interesse formale e ideologico per questi temi ma c’è anche il rimanere,

quando il sogetto è orientalista permane quella tradizione e invece nella presenza della

cultura degli afro-discendenti è diverso. Nel 1930 va a New York, amava il jazz e si reca ad

Harlem per ascoltarla dal vivo e va a La Martinica dove passa alcune settimane, ripercorre

itinerario in cui c’è la memoria di Gauguin e produce un’edizione illustrata de “I fiori del

male” di Boudelaire facendo visionare quella dimensione di riferimento alla compagna id

Boudelaire e alla donna creola e secondo la critica non adatta a caso il disegno a tratto che

produce un immagine in baicno e nero che sono anche i colori della pelle. Nel 1946 ci sono

modelle asiatiche che frequentano il suo studio ed una asiatica viene raffigurata come la

personificazione dell’Asia e c’è quindi una consapevolezza di Matisse di questi rapporti

tra bianchi e neri. fino a il 1950 con “Danseuse creole” libro illustato con i decoupage il cui

titolo editoriale è “Jazz” perché l’editore vuole intercettare una passione per il jazz però le

illustrazioni sono dedicate all’ambiente del circo, ancora una volta un luogo di

integrazione dei neri non euroepri come dimostra questa composizione mostrata. C’è in

Matisse una saldatura tra la passione per il jazz, l’interrogazione sulla presenza

afroamericana e caraibica in Franicia e a Parigi in anni del secondo dopoguerra.


Abbiamo alcuni pittori viaggiatori, lavori di Kandinskij dedicati ai neri che incontra nel

viaggio in nord Africa.

Parliamo di una insolita figura di pittore, un pittore nero, pittore soldato che durante la

prima guerra mondiale dall’Africa e dai Caraibi vengono arrualati afro-discendenti sia

nell’esercito francese sia in quello americano e quando arrivano in Francia trovano un

ambinete assai meno ostile di quello cui sono abituati negli USA. Reclutamento non

semplice, inizialmente pochi volontari e lo stato maggiore riesce a costutuire il primo

battaglione nero della storia grazie alla partecipazione di un musicista jazz James Easy

Europe che era già una leggenda del jazz che per tendere il rpoprio nome a favore del

reclutamento dei neri chiede di essere retribuito lui e gli altri musicisti neri che

accetteranno di far parte di questo battaglione che ha il compito di intrattenere con la

musica, è effettivamente un’orchestra: il jazz rappresenta una delle occasioni di

integrazione di elementi di afrodiscendenti nella cultura occidentale, europea e agisce

anche in mod ospecuilare come integrazione dei neri dentro l’elitè culturali europee. E

durante l’ultimo anno della prima guerra mondiale Wilson condanna pubblicamente i

linciaggi e questo reggimento di soldati neri vengono acclamati al loro rientro a New

York. HORACE PIPPIN ha partecipato alla prima guerra mondiale, è un pittore soldato e

la sua collezione viene precocemente presa dai musei americani e negli anni ’20 redige dei

taccuini in cui racconta e illustra le atrocità della guerra, l’isolamento in particolare dei

soldati neri, è concentrato sulla loro situazione. Nel 1930-33 ritorna su queste tematiche

con uno sguardo diverso, mettendo in pratica quella doppia coscienza di cui aveva parlato

nei taccuini (qui si rende conto di una dimensione di violenza ed esclusione) mentre nel

linguaggio solo figurativo emerge una dimensione eroica dei soldati neri (“The end of the

war, starting home” o “Barracks” del 1945 – scelta interessante di mostrare i soldati nei

dormitori e il pittore torna volutamente su questi soggetti). Fa un’opera “Il vaso della

vittoria” in cui i moschetti spuntano da un vaso insieme ai fiori: produzione in cui i segni

della guerra si depositano su un registro più simbolico. Serie delle “Holy Mountain” in cui

il paesaggio edenico e il rapporto uomo – natura così pacificato ma sullo sfondo ciu sono

soldati, croci e anceh linciaggi quidni è una figura interessante ch enei decenni ha saputo
rielborare anche in una chive positiva l’integrazione dei neri nella vita americana anche

nei confronti della guerra anche se questi sono anni in cui le comunità nere negli USA

subuscono cose gravissime come la segregazione e la violenza razziale.

Felix Vallotton, Les Tirailleurs senegalais au camp de Mailly 1917. Era troppo anziano per

alluorarsi ma mette le capacità artistiche al servizio della propaganda bellica ma nel

gurppo di questi artisti lui è una voce a sé: preferisce concentrarci non sui momenti

violenti ma sulle scene quotidiane di relax delle retrovie e mantiene nei confronti dei

soggettti osservati una certa distanza, non entra troppo nell’initimità e possiamo ancora

più appprezzarla questo distanza se la conforntiamo con una iconografia ancora più

dilagnate ad esempio quella della pubblicità della bevanda al cacao del 1917 che ritrae il

doldato contento di gustare un alimento al sapore di cacao fissando quella identificazione

tra luoghi di origini di alcuni pdrodotti ed etnia che risiedono in quei luoghi e la bevanda

viene chiamata BANANIA con riferimento ad un prodotto africano, oltre ad una

rappresentazione spensierata perché sta mangiando qualcosa di buono anche se in mezzo

alla guerra. Lo stesso Valloton si era messo in dialogo con Manet nel quadro “La Blanche e

la Noire” (bianca nuda e distesa e la nera seduta e vestita che stanno conversando, ma

sottrae il corpo della nera allo sguardo orientalista, l’oggetto del voyerismo è il corpo della

bianca), c’è questa filiazione dall’Olympia). Anche Man Ray ha una filiazione da Manet.

Ancora Vallotton che dipinge un ritratto di Aicha, la modella che aveva posato per

Matisse, questo ritratto ci dà esattamente la misura di che cosa stia succedendo negli anni

’20, ovvero la nascita e la crescita di una élite, una classe media borghese nera che non

vuole più essere identificata con una cultura tribale, non moderna e non urbana e si

appropria del modellismo e degli elementi estetici, culturali ed espressivi che sono quelli

della libertà e dell’occidentalismo e questo è la prima volta che succede in una maniera

così massiccia tanto di aver ottenuto il nome di HARLEM RENAISSANCE, un

rinascimento che ha il suo fulcro nel quartiere nero di New York. Vallotton esprime un

posizionamento e questo sembra evidente dai quadri, Matisse oscilla ma ci sono momenti

in cui esprime anche lui un preciso posizionamento: la sua passione per il jazz lo aiuta ad

elaborare uno sguardo abbastanza lontano dall’orientalismo e invece elabora delle


composizioni in cui bianco e nero sono sullo stesso piano. Non sono pittori che

documentano. Se avesse voluto Vallotton negare una dimensione orientalista avrebbe

abbigliato anche la bianca, c’è piuttosto un dialogo con Manet, il discorso con

l’orientalismo c’è più nel fatto di come rappresenta la nera cioè con l’orecchino, la collana e

il turbante.

ANDIAMO AL JAZZ E HARLEM RENAISSANCE ricordando che gli anni ’20 sono

segnati da una maggiore presenza dei neri anche negli ambiti più alti della cultura, ad

esempio il premio Goncourt del 1921 viene vinto da un poeta delle Antille. Nel corso degli

anni ’30 i neri diventano capaci di costruire il proprio sguardo, sono narratori, poeti e

letterati che danno la parola a propri personaggi etnicamente definiti e è interessante una

raccolta di poesie dal titolo “pigmenti” che scritta da un poeta caraibico Leon D’amas, che

mette l’accento sulle sostanze coloranti e attraverso questo sulla dimensione non naturale

del pigmento ma come qualcosa di artificiale e nella serie di poemi c’è un continuo

slittamento tra il colore e il colore della pelle al fine di sganciare l’appartenenza etnica e la

classificazione razziale da una dimensione naturale. Il nostro incarnato dipende dai geni

ma all’epoca le teorie razziste enfatizzavano il fatto del colore e una teoria del genere la

metteva in discussione e questo rientra in un clima dell’Harlem Renaissance. Secondo una

interpretazione questa H. R. è un fenomeno culturale e newyorkese e secondo altri è una

dimensione culturale più complessa, che tocca altre città ed è in dialogo con il

primitivismo e con il modernismo e ha anche una componente visuale non solo letteraria.

Tra gli autori antologizzati c’è anche Barnes, collezionista bianco, fondatore della Philippe

Collection. L’H.R. è inscindibile dalla musica jazz e una delle interpretazioni di questo

temine risale alla seconda decade e dobbiamo a Daniel Sutiff una ricognizione ricca della

fascinazione che il jazz ha esercitato anche sulle arti visive e ci sono alcuni esempi,

soprattutto la ritmicità estranea alla tradizione musicale occidentale diventa un banco di

priva per dei pittori che si confrontano con l’astrazione. Dentro l’entusiasmo per il jazz

svolge un ruolo importante Josepine Baquerre ed è un esempio di identificazione nello

stereotipo e manipolazione dello stereotipo nel senso che lei si esibisce in danze tribali

mostrando la sua nudità con fattezze volutamente sempliciotte, animalesche ed erotiche e


lo fa non perché è semplicemente vittima dello stereotipo ma per guadagnare successo e

prendere in giro il pubblico e quindi dimostra consapevolezza del suo ruolo e delle

immagini che produce con la consapevolezza di poterle dominare.

04/11/2021

L’esperienza del colonialismo italiano ha inizio negli ultimi anni dell’800 e l’Italia

giolittiana ha costruito una propria identità di stato coloniale e abbiamo parlato della

complessa vicenda della vicenda che riguarda la battaglia di Dogali; come Cammarano

riesca a risolvere attraverso un lungo iter di gestazione ed è uno dei primi a recarsi in

colonia e realizzare una serie di studi per rendere conto in maniera realistica la vicenda. Il

quadro “LA battaglia di Dogali” transita dalla casa del mutilato al museo coloniale per

arrivare negli anni ’70 alla GNAM, dov’è esposto in maniera poco originale.

Roma 1911, mostra di Etnografia Italiana (Lamberto Loria: Africa in casa) e disposizione

dei Padiglioni regionali a Villa Borghese. Mostra del 50nario dell’unità d’Italia, Villa

Borghese, piazza Mazzini e Prati sono invase da padiglioni di manifestazioni in cui si

rende conto della giovane nazione e a Lamberto Loria viene affidata la mostra di

etnografia italiana nwella quale lui rende conto delle diversità antropologiche di costumi,

di tipi umani che il paese presenta con una particolare attenzione a situazioni di

arretratezza, di metodi di lavoro o abitazioni scabrosi ed è il primo a parlare di Africa in

casa e la data di 1911 non sfugge al nostro occhio: siamo quasi dentro alle campagne di

Libia e si capisce come questo argomento venga fuori dalla politica estera e sia assunto in

termini politici. Ieri abbiamo parlato del museo coloniale e qui vediamo la battaglia di

Dogali nelle sale del Museo Coloniale che ha questa storia così complicata, trasferito poi

dentro Villa Borghese. Il museo coloniale si presenta con un forte accento sulla dimensione

militare della conquista, gli studi più recenti sono di Francesca Gandolfo e con

l’allestimento in cui le vetrine si vanno ad aggiungere ad esibizioni di tecnologia militare e

negli anni ha una vita piuttosto complessa e le sue collezioni hanno un rapporto osmotico

con una serie di esposizioni temporanee. Qualche anno dopo, alla fine anni ’20, vengono

aperte delle sale coloniali all’interno del Museo della Guerra di Rovereto (1929 – 1968).
Sottolineare la scelta di inserire l’esperienza coloniale all’interno di un museo dedicato alle

guerre di indipendenza e poi alla prima guerra mondiale, inoltre l’accento viene messo

ancora una volta sull’aspetto militare utilizzando la guerra e la violenza come altra chiave

di lettura l’esplorazione e la scoperta. Oggi queste sale sono visitabili però dopo un

interessante operazione di studio dei materiali promossa dallo stesso museo della guerra

di Rovereto nel 1992, coinvolgendo un gruppo di studiosi guidati da Nicola La Banca, uno

dei primi storici che si è occupato della revisione critica del colonialismo italiano. Da

questo intervento viene fuori un libro chiamato “l’Africa in vetrina”. Il primo aspetto cnhe

il gruppo mette in evidenza: visitatori anni ’30 possedevano rudimenti di una

toponomastica coloniale e la lontananza geografica era ammortizzata da una inofrmazione

quotidiana che permetteva di attivare un immaginario esotico, cosa che i visitatori del

museo all’indomani della seconda guerra mondiale e di oggi è qualcosa di nebuloso

l’esperienza coloniale italiana. Che tipo di allestimento viene scelto?

plastici e armi che pendono tipo

trofei dal soffitto e un grande uso di fotografia e di suppellettili militari (mostrine, gradi,

ecc.) e la fotografia è uno strumento importante per la mediazione dell’esperienza

coloniale all’epoca e la scelta è quella di fotografare o l’integrazione della popolazione

locale nelle truppe italiane, comunque andando a sottolineare implicitamente una

diversità gerarchica. Oppure la fotografia dall’alto che corrisponde ad un punto di

osservazione di controllo del territorio. Anche in questo caso si legge come storia militare.
L’autore di questa operazione museografica è il generale Mallarda che aveva partecipato al

colonialismo italiano fino agli anni ’20 e ottiene una serie di reperti che espone. Quello che

si incomincia a verificare già in questa occasione è la necessità di formare una coscienza

coloniale negli italiani sottolineando la distanza tra i due popoli (colonizzati e

colonizzatori), la tendenza ad esibire prede ed eroi lavorando molto su questo tema della

colonizzazione come atto di civilizzazione. Rispetto alle sale degli anni ’20, il progetto del

’92 opera un diradamento dei materiali e fornisce al visitatore odierno degli strumenti di

comprensione maggiore. Ieri abbiamo osservato alcune di queste esposizioni, dobbiamo

sintetizzare che nel corso degli anni ’20 ce ne sono tantissime, di esposizioni coloniali

l’Italia ne fa moltissime (una 40ina tra il 1890 e il 1940 tenendo fuori quelle di carattere

locale e quelle legate alle missioni), per tutti gli anni ’20 a prevalere è un modello

museografico definibile bazar, ovvero una ricostruzione d’ambiente che mescola reperti di

varia natura, soprattutto arti applicate ma anche altri materiali; grossa impronta di

carattere commerciale anche con l’idea di sollecitare gli imprenditori ad investire nelle

colonie, richiesta velleitaria perché il colonialismo italiano non proviene da esigenza

economiche ma è un’operazione politica, legata al posizionamento dell’Italia nella

scacchiera internazionale e con il Fascismo c’è l’idea di dare uno sfogo alla crescita

demografica e favorire il trasferimento di alcune popolazioni italiane nelle colonie. Ci sono

studi interessanti su come questa architettura si sia mantenuta in colonia e poi restaurata

nel secondo dopoguerra e più o meno tutelata.

Una delle altre caratteristiche di queste esposizioni coloniali che trovano collocazioni in

manifestazioni molto più ampie hanno una componente di museo vivente o parco a tema

o ricostruzioni di villaggi (es. Esposizione nazionale di Torino, 1929, ricostruzione di un

villaggio somalo). Negli anni ’20 prevale una disposizione di carattere geografico

ordinando i materiali per aree della colonizzazione e sin dal 1914 (prima mostra coloniale

in Italia, mostra in sé si intende a Genova) si crea negli anni una forte osmosi tra materiali

esposti in maniera effimera e la costituzione di collezioni permanenti. Dato rilievo alle

attività militari, ai prodotti coloniali di industrie italiani presenti nelle colonie, sia reperti

di carattere naturalistico (fioritura di erbari coloniali) e un grande uso di fotografia, anche


dei reperti archeologici. Negli anni ’30 le mostre acquisiscono un carattere più politico,

ideologico vero e proprio. Nel 1931: data importante per l’esposizione coloniale

internazionale di Parigi, con una consistente presenza anche italiana, e non solo. L’Italia ha

3 padiglioni: Armando Brasini (ricostruzione della Basilica di Settimio Severo a Leptis

Magna), padiglione futurista e un altro.

ordinamento non più

geografico ma per temi

il padiglione del futurismo

è il luogo dove sono

collocate le attività

ricreative.
a Parigi viene costruito il

museo delle colonie, Palais de la Porte Dorèe, 1931, con un fregio che corre lungo i 4 lati,

estremamente esplicito nel rapporto di gerarchia e delle colonie verso la Francia, le

personificazioni delle colonie portano doni, ricchezza, prodotti tipici alla madrepatria. Il

palazzo esiste ancora ma nel 2007 è divenuto: museo nazionale della storia

dell’immigrazione (progetto parallelo al Qui de Brainly) ed è un progetto museografico di

quanto il paese stesse riflettendo su come attivare un processo di inclusione della

cittadinanza. L’importanza del cambio nome e destinazione è un’operazione nella quale

leggiamo la capacità dello stato francese di trasformare il rapporto con popolazioni e

luoghi che tutt’ora mantengono con la Francia rapporti di contiguità “coloniale” ma non

proprio, riconoscendo il ruolo delle popolazioni nella costruzione di uno stato multietnico.
altro dato importante è la critica

dei surrealisti all’esposizione coloniale del ’31 in cui Breton e altre figure prendono

posizione dicendo che ciò che viene esposto è il frutto di campagne di invasione, di guerre

violente mosse da interessi economici e capitalistici. Gruppi di “comunisti” o intellettuali

che si collocano a sinistra e realizzano una piccola esposizione contro-coloniale, un segno

importante anche se di nicchia.

chiave di lettura per cui si

vanno a cercare le rappresentazioni dell’esotico e le si ripropone come premesse del

rapporto con popolazioni che oggi sono colonizzate. Ottobre 1931 – gennaio 1932, mostra

internazionale di arte coloniale, Roma, Palazzo delle Esposizioni, su iniziativa dell’Ente

Autonomo della Fiera di Tripoli. Con questa operazione da una parte si coglie lo sguardo

egemonico che quei pittori hanno avuto nei confronti dell’alterità, ma dall’altra li si usa
come predecessori illustri di una produzione attuale di arte coloniale come se ci fosse una

continuità: questa continuità in qualche modo c’è, però in particolare per l’Italia gli

orientalisti non c’è un parallelismo storico tra orientalismo e colonialismo (come in

Francia). In questa mostra c’è una sezione dedicata alla Francia.

nel primo caso stiamo

alimentando “un mercato del cattivo gusto” e nel secondo caso facciamo ancora peggio,

nel momento in cui indichiamo all’artigiano locale un modello prelevato da un museo,

fuori dalla loro attualità, e glielo facciamo copiare incoraggiamo una produzione di falsi.

Papini ha sviluppato una certa consapevolezza tra oggetti autentici (provengono da

oggetti d’uso attivi) e delle copie odierne di qualcosa che non è più un manufatto che

appartiene a quella cultura che lo ha prodotto, maggiore consapevolezza critica.

Passiamo a due episodi napoletani che proseguono sul discorso dell’arte coloniale:

- Seconda mostra di arte coloniale a Napoli nel 1934 all’interno del Maschio

Angioino, Napoli scelta come una delle città principali del colonialismo perché

essendo affacciata sul Mediterraneo ha una vocazione espansionistica ed è anche

sede di un’associazione africana (?). raccoglie vari elementi, c’è una giuria e in

questo caso vengono coinvolti 8 artisti che sono stati inviati a spese dello stato in

colonia per realizzare delle opere ad hoc. Accanto a queste opere ci sono mostre che

raccolgono opere dal Rinascimento all’età contemporanea di temi vagamente

orientalisti. C’è una componente futurista, Marinetti redige “Poesia, Plastica e


Architetture applicate”. L’architetto Florestano di Fausto dispone nel fossato del

castello una serie di strutture effimere tra cui un accampamento di pirati che

minacciano la città (finta che ci sia un attacco di pirati in corso). Un tema che ritorna

è un prestito di materiali sia dal museo coloniale sia la mostra dell’augustea

romana, enorme dispiego di materiale a stampa, documentari dell’istituto Luce.

Nel 1935 inizia l’iniziativa di Mussolini di costruire un impero, inizio guerra di Etiopia e in

questo momento si hanno moltissime testimonianze figurative.

il leone è la società delle nazioni ed è alle

spalle di un personaggio nero, coronato, che tiene in mano un fucile ma che lo tiene in una

maniera che non è una maniera militare. La vignetta vuole mettere in luce che la società

delle nazioni è di interesse britannico e questi britannici sono coloro che armano gli afro-

discendenti, il re in particolare, che non è davvero nero. Sironi demonizza questa figura

proponendola come nero africano, il modo in cui tiene il fucile la critica ha individuato un

riferimento a come i jazzisti tenevano gli strumenti musicali, introducendo nella vignetta

satirica e razzista l’elemento della musica jazz. Altra figura importante è la figura in basso

tenuta da una catena e il riferimento è alla schiavitù: Sironi sta dicendo l’imperatore di

Etiopia è sostenuto dalla Gran Bretagna, che si rende colpevole di sostenere un regime

schiavista. In realtà sembra che non corrisponda al vero ma è uno degli elementi retorici

per sostenere la guerra in Etiopia. Il regime coloniale che l’Italia instaura in Etiopia è di

totale segregazione.
Negli stessi anni un dadaista realizza invece:

testone di Mussolini che fronteggia una piramide di teschi, riprendendo una vignetta

pubblicata su L’Assiette au beurre:

L’ultimo episodio che conclude questa storia:

La Triennale di Napoli, gli indigeni colonizzati che avevano contribuito a costruire questo

villaggio, vengono chiusi qui dentro quando inizia la guerra e diviene un vero e proprio

campo di concentramento. Operazione in cui trovano posto le teorie razziste. Mostra

organizzata in 3 sezioni: la storia della cultura italiana, colonie con una disposizione

geografica, benefici economici ed industriali del colonialismo italiano. Poi zone dedicate

all’intrattenimento. Progetto architettonico incompiuto, ospitata nel quartiere di

Fuorigrotta e i finanziamenti sono paralleli ad un’attività di riqualificazione del quartiere.

Vari filtri con cui l’esperienza coloniale viene narrata: filtro della romanità (materiali dalla

mostra augustea della romanità) e l’altro è quello del rapporto civiltà-barbarie e

tecnologia-arretratezza, altro reframe molto diffuso. Operazione grandiosa da tutti i punti

di vista, parte dedicata alle repubbliche marinare che dopo l’impero romano continuano

ad essere conquistatori (lettura del tutto fantasiosa). Il risultato complessivo è soprattutto

una sorta di citazione da mostre precedenti, un luogo irreale e sincretico abitato da gente
proveniente da diverse parti della colonia. Formare le coscienze, l’uomo coloniale e

sedurre, c’è una grande attenzione agli aspetti ludici e ricreativi e nei teatri si mettono in

scena testi che si richiamano alla romanità. Dal punto di vista dei manufatti esposti la

situazione è deludente e corrisponde all apovertà delle raccolte etnografiche italiane con

un basso livello di scientificità.

Come deve essere l’uomo coloniale? Con un chiaro inquadramento della divisione del

lavoro, efficiente, produttivo, moderno. Importanti le ricostruzioni d’ambiente e quello che

si nota è il monumentaliso anche dal punto di vista comunicativo e visivo, pannelli

esplicativi, reperti di carattere merceologico.

Melkiorre Melis di grande importanza, stile che cerca di ibridare un lessico anticheggiante

ripreso dalle decorazioni antiche con un apparato decorativo che viene dalla produzione

locale contemporanea sempre con questo filtro esotizzante che permane anche in lui.

Importanza degli studi di Simona Troilo. I soldati stessi hanno da una parte contribuito

alla tutela e alla salvaguardia di reperti importanti, dall’altra si sono resi protagonisti di

atti di vandalismo come esternazione di una condizione di superiorità ed egemonia su un

territorio: doppia posizione nei confronti dell’antico. Il mondo degli archeologi è in prima

linea nelle operazioni di scavo al seguito delle campagne militari e si fanno interpreti

dell’ideologia coloniale ma in Italia anche questa loro partecipazione viene delusa nella

gestione di questi luoghi (Leptis Magna, Cerene, ecc.) non è la direzione antichità e belle

arti ad avere l’ultima parola ma sono i funzionari del ministero delle colonie. Nel doppio

binario che caratterizza paesi e popoli colonizzati nella questione della tutela e alcuni

reperti si trovano a lungo nelle collezioni nazionali creando le premesse per quel

movimento di restituzione dei monumenti.

Ricostruzione del tempio di Angkor a Parigi nel 1931: saggio di Isabelle Core sull’uso dei

calchi dalla metà ‘800 alla metà ‘900: perché si usa? Il metodo garantisce “l’effetto realtà”. Il

punto è che a fronte di questa tecnica i risultati sono manipolati, sia i singoli calchi sia il

loro assemblaggio e il monumento è spesso piuttosto lontano dall’originale. Nel caso

dell’Indocina sono un esempio di come nel caso dell’Italia e della Libia sceglie di
valorizzare i resti romani per giustificare il ritorno degli italiani, nel caso dei francesi

sull’Indocina c’è interesse per il patrimonio Kmer che viene messa in contrasto con la

decadenza odierna di quei territori e nella distanza di questi due momenti si trova un

elemento di giustificazione dell’occupazione francese.

La storiografia sottolinea il ruolo delle elite locali di collaborazione con i colonialisti.

10/11/2021

Alcune questioni cambiano, altre ce le portiamo dietro da quanto abbiamo già un po'

analizzato e discusso e una di queste è sicuramente la novità del primitivismo. Si va

allargando e diversificando il gruppo delle etnie che rientrano in questa categoria e in

particolare ci sono le popolazioni al confine tra il Canada nord e il circolo polare artico e

gli aborigeni australiani. Diciamo che è un fenomeno che riguarda l’etnografia e le arti

visive, come se una valorizzazione delle arti tradizionali di queste popolazioni viene

riconosciuta dai musei etnografici europei ma non solo e contemporaneamente anche gli

artisti si incuriosiscono e si interessano a questi manufatti. Una di loro è Margaret Preston,

figura di donna bianca nata e cresciuta in Australia ma che viaggia in Europa già negli

anni ’20 e frequenta le cerchie dell’avanguardia in particolare in Germania e poi si

avvicina al lavoro che in Australia sta svolgendo un etnografo e pian piano dall’aver

adottato delle forme di modernismo più tradizionale nel suo repertorio visivo ci sono dei

riferimenti all’arte aborigena, che non sono una semplice appropriazione ma c’è un

tentativo di riconoscerla genesi di quei motivi ai soggetti produttori e questo tentativo

viene identificato soprattutto con i titoli. “Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden” con i

progenitori neri. chi è Leonard Adam? Qualcuno che ha dovuto lasciare la Germania nel

’34 perché ebreo, dove si occupava di collezioni etnografiche, va in Gran Bretagna dove

scrive “Primitive Art” pubblicato nel 1940 e quando va in Australia poco dopo è incaricato

delle collezioni etnografiche universitarie a Melbourne rispetto alle quali svolge un’opera

di accrescimento. Sia lui che Preston svolgono un ruolo importante anche per due mostre

che sanciscono il passaggio degli oggetti etnografici dal campo specifico dell’etnografia ad
uno di carattere più estetico: “Art of Australia 1788-1941” del 1941 (mostra itinerante):

l’arte degli aborigeni e dei coloni, nell’ordinamento quella degli aborigeni è posta come

fonte della produzione visiva dei colonizzatori come fonte in qualche modo; “The

Primitive Art Esibition” del 1943 alla National Gallery di Melbourne con arte primitiva un

po' da tutto il mondo secondo una concezione diffusa all’epoca in cui arte primitiva è

intesa come arte preistorica, i primitivi rappresentano l’umanità ad uno stato precedente

quello della civilizzazione e offrono di osservare cos’era l’uomo migliaia di anni fa. Per

Adam arte primitiva è autentica e con questo tipo di operazioni è una mostra che dato che

avviene nella National Gallery non è etnografica ma una mostra d’arte, gli oggetti sono

sussunti alla dimensione estetica e se pensiamo a Roma fino a qualche anno fa esisteva un

museo di arte orientale a Via Merulana che oggi non esiste più e fino a che è esistito le

collezioni erano artistiche e non etnografiche. Qualcosa di simile avviene anche per le

popolazioni del nord del Canada, la figura chiave è George Swington che si trasferisce in

Canada e nel ’57 incomincia a rendersi conto delle qualità estetiche dei manufatti e delle

potenzialità economiche e la cosa un po' problematica dal punto di vista etico e politico è

che il modo come le collezioni canadese sono create assomiglia molto ad un furto perché le

cerimonie di scambio rituale sono messe fuori legge e gli oggetti sono acquisiti tramite

inganno.

Possiamo capire cosa succede nell’ambito invece della presenza degli afro-americani nella

cultura occidentale, guardando assieme stati uniti e Europa. Come era successo per la

prima guerra mondiale anche nella seconda ci sono contributi dei soldati afro alla guerra e

la situazione è abbastanza diversa tra stati uniti e Francia. Dentro esercito situazione

comunque di segregazione, in tutti gli eserciti; quando rientrano in patria i soldati neri

americani quello che trovano è un paese in cui nonostante la segregazione non fosse

sancita per legge nei fatti c’è una totale separazione tra bianchi e neri e di questo rende

conto questa figura di soldato pittore William Johnson che affronta il problema con

prospettive molteplici.
distinzione tra il Cristo bianco e i due ladroni

neri. rari riferimenti alla pratica dei linciaggi che è un dato molto presente nella società

americana per tutti gli anni ’50 e anche oltre ma di cui in generale gli artisti afro parlano

assai raramente.

Altra figura interessante attiva negli anni ’40 è Jacob Lawrence la cui produzione si

concentra sulla grande migrazione che inizia nell’800 ma che ha una accelerata dopo la

crisi del ’29 dagli stati del sud verso il nord dove incontrano una segregazione di fatto.

Non ha vissuto personalmente ma si informa e decide di raccontarla usando una struttura

narrativa che viene fatta risalire alle predelle delle pale d’altare, soluzione narrativa

rinforzata dal tipo di pittura semplificata, quasi da fumetto e a rinforzare questa volontà di

illustrare condizione di segregazione concorrono anche i titoli.

ce ne sono una 60ina di queste tavolette e

alcune si riferiscono ai vantaggi che incontrano negli stati del nord rispetto a quelli del

sud, il tema dell’educazione ad esempio e il tema della violenza e dei conflitti che è

qualcosa di diffuso nella pittura di questi anni. Il MoMa li acquisice tramite Alfred Bar e
probabilmetne anche perché è un tipo di pittura che può essere intesa come moderna

anche nell’aspetto, quasi da collage. Anche Pipen il pittore soldato si riferiva a temi simili e

anche lui in questi anni viene acquisito dal MoMa; stiamo parlando di artisti afro che

abbiamo incominciato a vedere negli anni dell’Harlem Reinassance.

Un’altra di loro è Elizabeth Catlett che organizza una serie di grafiche in cui illustra la vita

quotidiana dei neri e lo fa tramite un punto di vista soggettivo e personale dell’artista,

parla in prima persona e ci sono delle

notazioni spesso in basso e riferimenti alla pratica dei linciaggi e della segregazione.

Oltre a pittori ci sono anche fotoreporter che si interessano alla condizione dei neri nella

società americana e Gordon Parks è uno dei più celebri, pubblica su Life ed è un fotografo

consapevole perché questa foto fa riferimento alla composizione degli anni 30.

illustra un’anima problematica della

società americana. Appunto si dedica a lungo a questi soggetti e la fotografia diventa uno

strumento importante per avvicinare il grande pubblico ad uno sguardo non


convenzionale e non banale. Talvolta le foto illustrano delle storie reali come la necessità

di vivere ai margini della società.

Altro fotografo afroamericano è Roy deCarava è uno dei primi, anche regista e lavora a

Holliwood, il suo obbiettivo ha un duplice sguardo: testimoniare secondo una prospettiva

fià incontrata l’integrazione dei neri nella società borghese americana e dall’altro lato

rendere conto parallelamente di una condizione più problematica utilizzando anche

l’empatia dell’immagine e della didascalia.

Spostiamoci invece sull’altra sponda dell’Atlantico e vediamo cosa succede più o meno

negli stessi anni. Ritroviamo alcuni temi, la questione del Jazz e il suo ruolo per

rappresentare il contributo dei neri alla cultura moderna occidentale. Dubuffet è un

complesso jazz completamente nero e in questi stessi anni lui soggiorna a lungo in Algeria

e la critica ha colto che sono gli stessi anni in cui mette a punto il concetto di Art brut. Per

la Francia il rapporto con il nero e l’arabo diventa problematico perché è un paese che

mantiene le colonie dopo la seconda guerra mondiale e a partire dal 1954 l’Algeria si inizia

a muovere per l’indipendenza. Cosa succede a Parigi in questi anni? C’è come Dubuffet

una cerchia nutrita di intellettuali che si avvicinano in modo militante alla causa dei neri

che prendono parola in modo sempre più crescente e nascono una serie di luoghi, di

cenacoli intellettuali come la rivista “Presence Africaine” ma non è l’unica: tra i fondatori

ci sono nomi come Camus, Sartre e intellettuali neri come Cesaire, Wright e Leopold Sedar

Senghor e l’idea è quella della negritude, l’idea che tutte le persone che hanno le loro

origini etniche in Africa condividono qualcosa, abbiamo qualcosa in comune e che questo

qualcosa in comune corrisponda all’esperienza della schiavitù, abbandono paese di origine

e che questo possa consentire loro di unirsi per far valere il oro diritti e una serie di

questioni anche culturale. Ha un elemento che guardiamo con sospetto, quella

dell’essenzialismo.

Nell’immediato dopoguerra si fa strada una realtà cosmopolita, d’avanguardia molto

trans-nazionale e multietnica di cui ad esempio l’edizione delle poesia di Aimè Cesaire

viene illustrata da Wilfredo Lama, pittore cubano formatosi a Parigi. Idea di una unità di
una cerchia di intellettuali che tutto sommato sono in grado di mescolare appartenenza al

nord e al sud del mondo; Sartre svolge un ruolo importante nella prefazione ai “Dannati

della Terra” in cui si spende per integrare e dare dignità alla produzione culturale

prodotta dagli afro-discendenti e poterla integrare nel Pantheon culturale europeo.

Torniamo sul discorso di unità e interesse per la cultura afro con il fotografo Carl van

Vechten, sostenitore degli afro e negli anni ’40 realizza ritratti fotografici di musicisti e

cantanti del jazz nei quali la critica ha visto un riferimento a Man Ray, riferimento non

esattamente in linea con il modello ma forse introduce un elemento di messa in

discussione del cliché culturale (la cantante qui appare bianca in confronto alla maschera

africana). ci muoviamo in un terreno in

cui c’è una maggiore consapevolezza della potenza comunicativa dell’immagine.

Ancora jazz: per Mimmo Rotella, “Pazzi per il jazz” con locandine cinematografiche.

Anche Renato Guttuso, importante per il discorso del corso; in questo caso “Boogie –

Woogie” l’aver usato Mondrian come sfondo dà all’opera una chiave in più di internità ad
una tradizione artistica che ha visto nelle musiche e nei ritmi del jazz un punto di

ispirazione importante.

È un terreno interessante per i rapporti tra arti visive e sperimentazioni musicali di

copertine disegnate per dischi dedicati al jazz e ai compositori. Può sembrare un

argomento secondario ma non lo è per niente, è uno dei modi in cui le arti visive si sono

occupati dei neri senza passare l’iconografia sociale o politica.

Bob Thompson è un pittore nero che ha uno studio a Roma tra il ’64 e il ’66 e realizza una

serie di opere più legate ad una esperienza che sentiva più vicina.

è un pittore colto, molti riferimenti tra cui il

Baccanale di Poussin con la suonatrice di liuto.

Altro lavoro di Thompson è The Execution in cui si parla esplicitamente dei linciaggi

sempre con soluzioni stilistiche sommarie e semplificate, che non hanno bisogno di

dettagli particolari, basta poco per capire in che contesti ci troviamo.

Una delle prime volte in cui si parla di linciaggi lo troviamo in una canzone forse di Billie

Holiday del ’39 in cui il titolo fa illusione ai frutti che pendono dagli alberi che sarebbero i

neri impiccati – “Strange Fruits”.

Aprire un altro capitolo sull’ANTICOLONIALISMO E ANTIMPERIALISMO

Cosa succede negli anni di esplicita lotta anticoloniale e nel momento in cui alcune nazioni

e popoli che vivevano come colonie iniziano a ribellarsi, processo lungo che attraversa gli

anni ’50, ’60 e ’70. Il primo caso è la guerra di Algeria. Va detto che per gli artisti visivi

anticolonialismo e antimperialismo possono rientrare in un fatto unitario ma di fatto sono


due cose a sé; il primo riguarda l’Europa, imperialismo ci si riferisce agli Stati Uniti e ad

una forza economica politica e culturale percepita come aggressione e prevaricazione però

da un pinto di vista legale non è paragonabile al fenomeno del colonialismo.

Questo discorso della negritude prosegue negli anni ’50, Parigi è un centro importante, e in

questi stessi anni ’50 si segnala un film premiato a Venezia nel ’56, che si concentra sugli

effetti del colonialismo su alcune popolazioni africane e in particolare esamina delle

popolazioni che si trovano tra Mali e Ghana, i popoli Songai e si riferisce a dei rituali Waka

(che rituali sono? Perché sono interessanti? Le popolazioni hanno inglobato esperienza

coloniale, rituali di possessione in cui compaiono i colonizzatori civili e militari che

attraverso questi rituali vengono esorcizzati, il loro potere è esorcizzato.

in questo documentario si testimonia una condizione

moderna di queste popolazioni, popolazioni di cui si vede la vita in città e la

sopravvivenza di rituali più antichi nella modernità e poi perché contemporaneamente dà

conto di come alcune credenze siano state trasformate dall’esperienza coloniale e di come

il rituale serve in qualche modo a digerire questa esperienza. È una violenza che devono

subire, ma nell’esperienza immaginifica si ha ragione di questi spiriti violenti e quindi si

può continuare poi la vita quotidiana.

GUERRA DI ALGERIA e come gli artisti si confrontano con essa.

Picasso, Guttuso, Hernst, Leonardo Cremonini, un pittore non molto noto Robert Lapujad

(francese). La guerra copra gli anni dal ’54 al ’62 ed è problematica per la Francia

repubblicana, per un paese che ha riconquistato lo statuto democratico contro il nazismo e

si trova a parti invertite in colonia e dal punto di vista politico il governo non è in grado di

gestire in modo adeguato il conflitto ma continua a perpetrare un’estrema violenza e


repressione e un atteggiamento di rigida censura in madrepatria. Alcuni di questi artisti

infatti,soprattutto i francesi e quelli che vivono in Algeria, scelgono di trattare la guerra

tramite la pittura astratta perché è una strategia per evadere la censura. Altre figure meno

coinvolte come gli italiani o Picasso, si confrontano con l’iconografia. La guerra è una

guerra partigiana, di resistenza, con delle truppe di algerini che si oppongono e

nell’opinione pubblica europea riesce ad avere una certa attenzione e lo studio di Goudal

va a rintracciare come in corrispondenza di alcune fasi della guerra (i francesi praticano la

tortura, casi efferati di violenza) c’è una risposta da parte anche dei pittori e degli artisti

visivi in generale.

non è l’unica opera che Guttuso dedica al tema,

c’è anche uno studio per l’Algeria francese in cui campeggia un corpo di donna seminudo

con una mano a coprire il sesso con riferimento alle pratiche diffuse di stupro. Nel quadro

in figura l’omaggio a Delacroix si può intendere in vari modi: riferimento ad un lungo

periodo in cui l’Algeria è stata francese, modo in cui è stata rappresentata da un pittore

come Delacroix, prendere le distanze da quel tipo di lettura dell’Algeria; che tipo di

iconografia adotta Guttuso per raccontarci delle donne di Algeri? Sembra essere una

deposizione, abbiamo un ragazzo in primo piano un ragazzo morto, ferito, sul quale si

riversa la figura centrale come un compianto sul Cristo morto, assumendo un’iconografia

cristologica (cosa non rara in Guttuso) prendendo l’attulità, le donne sono velate e

inequivocabilmente delle algerine ma spostando sulla storia di Cristo e quindi

denunciando la violenza verso una vittima. Omaggio a Delacroix.


Guttuso non è l’unico ad occuparsi di queste vicende, un altro episodio è un quadro

antifascista collettivo che viene esposto in una mostra “Antiprocesso 3” in una galleria

privata di Milano, gruppo di artisti italiani e francesi che si battono a favore di una serie di

azioni di tutela degli algerini.

all’inaugurazione della mostra ci sono molti

pittori del momento. Di quelli che partecipano al quadro è difficile riconoscere le mani,

riconosciamo il contributo di Enrico Baj nelle due figure centrali. Vediamo la svastica e poi

in alto il contributo di Errò che si riconoscono le gambe aperte con riferimento a delle

pratiche di tortura di un corpo squartato, per il resto prevalgono figure mostruose,

momenti di violenza. Altro dato interessante è che probabilmente le autorità francesi

ottengono un intervento della polizia che lo tiene sequestrato per quasi 25 anni. Alcune

opere evitano il sequestro per opere meno esplicite nei titoli ad esempio. Essendo un

lavoro collettivo non esclude che non ci sia stata un’azione aggressiva da parte degli

autori, il luogo di conservazione attuale non lo sa.

Nell’arte italiana ci sono anche altri casi meno espliciti iconograficamente ma espliciti per

il titolo (Carmi, Franco Angeli due lavori astratti; quello di Carmi abbastanza parlante,

composizione realizzata con materiali di scarto, ammasso di detriti è un riferimento ad

una situazione di violenza). Nel caso di Franco Angeli è più difficile decodificare ma

conosciamo l’artista come schierato a sinistra e attento ai temi dell’eredità della

contrapposizione politica nello spazio urbano romano, certamente non era dalla parte dei

francesi.
Marco Rinaldi si occupa anche di questo interessante esperimento teatrale:

4 quadri scenici, è una sperimentazione

non un testo tradizionale, la voce narrante è un immigrato algerino che dalla Francia vuole

rientrare in patria e nel farlo subisce anche lui una serie di violenze.

LE RICERCHE VISUALI ITALIANE

Nell’ambito dell’interesse degli artisti per le lotte anticoloniali un ruolo di primo piano

giocano coloro che sono vicini all’area verbo-visiva, ambito estremamente politicizzato

della sfera artistica italiana, gli esiti sono più dei manifesti politici secondo alcuni.

Nel caso degli artisti italiani è un dato evidente che all’entusiasmo per le lotte anticoloniali

e le guerre di indipendenza corrisponda una totale amnesia dell’esperienza coloniale

italiana; alcuni di loro nati negli anni ’30 hanno vissuto poco il fascismo ma negli anni ’50

avevano consapevolezza per mantenere una memoria dell’Italia colonialistica, altri sono

nati negli anni ’20 e il fascismo e la guerra li hanno vissuti pertanto diventa ancora più

significativa questa assenza di parola sull’Italia coloniale: rimozione collettiva che alcuni

settori della cultura italiana fanno di quella esperienza, anche i settori di sinistra pur in

anni in cui l’Italia perde le colonie già nel 1943 e poi con i trattati del 1947 ma non si

rassegna e viene richiesta più volte il mantenimento di una situazione privilegiata

dell’Italia nei confronti della Libia e della Somalia in particolare e ottiene il protettorato in

Somalia. Il dibattito politico non è depurato dal colonialismo, anche in Italia qualcuno

vorrebbe mantenere condizioni pseudo-coloniali. C’è una sostanziale rimozione.


Marcucci è una delle esponenti del gruppo 70 e

questo è un lavoro tra i primi. Lavori che esegue sulle pagini dell’illustrazione italiana che

chiude nel 1962 di cui lei trova degli scarti e opera degli interventi sulle pagine del

giornale, in cui convivono elementi verbali ed elementi figurativi. Tra questi interventi

spicca questo in figura: locandina della Triennale d’Oltremare pubblicata nel 1940

sull’Illustrazione Italiana; fa degli interventi minimi, delle cancellature, si chiede se si tratti

di poesia e in chiave ironica “Bravi” con riferimento alla conquista della quarta sponda

con la retorica tipica del fascismo e il legionario romano che scavalca il Mediterraneo. Ci

sono delle frecce che possono essere intese come una evidenziazione visiva e come l’idea

di una popolazione che si contrappone al legionario ma con armi primitive ovvero arco e

freccia. Non c’è una vera e propria presa di posizione in questa composizione ma il tirare

fuori una memoria che in quel momento era abbastanza negletta, oscurata dal dibattito

culturale e politico italiano. Audacia e implicita presa di posizione in un momento in cui il

dibattito sul colonialismo è attuale.

debito con le parole in libertà del futurismo

ma le parole sono inequivocabili.


11/11/2021

Parallelo tra l’opera di Isgrò al Quirinale e quella di Lucia Marcucci “Bravi”: se guardiamo

con più attenzione il lavoro di Isgrò, mentre i lavori di Marcucci sono lavorati con

cancellature mirate, Isgrò il tipo di cancellatura che opera azzera quasi completamente la

visione semantica e visiva della scrittura, le righe sono quasi tutte coperte di nero, il

linguaggio verbale è completamente cancellato.

Lucia Marcucci, l’imprevedibile gioco del destino, 1965, collage su carta: dicotomia tra

potere maschile e condizione femminile più passiva o vittima.

Altro lavoro singolare di qualche anno dopo è singolare perché è un piccolo collage in cui

sono accostati un appello per la libertà del Vietnam “La nuova società” 1967-68. Il testo

dell’appello è contrapposto ad una pagina di un fumetto Jodel. Viene proposta in un

linguaggio esplicito, attiva nel rapporto sessuale: l’idea che viene fuori è che nella nuova

società il Vietnam sarà libero ma la donna avrà una diversa collocazione sociale e una

diversa autonomia di rapporti. Tra le pagine del fumetto Jodel questa è l’unica in cui ci

sono riferimenti al contesto sociale ed è forse per questo che Marcucci l’ha scelta. Ci dice

qualcosa di come anche la guerra in Vietnam viene intesa per modificare i rapporti di

forza tra sud e nord.

Ketty la Rocca è l’altra artista di questo gruppo di questo gruppo 70 e opera in modo

simile a Marcucci, utilizzando il collage. “Possiamo bruciarlo” 1964-65, conflitto tra India e

Pakistan che non ha mai ottenuto il clamore della guerra in Vietnam ma che nasce

all’indomani dell’indipendenza dell’India. Anche in questo caso c’è una iconografia

femminile. Oppure “La guerriglia” collage.

Continua appunti di Chiara.

17/11/2021

Continuare il discorso considerando che ci saranno alcuni interventi esterni nelle prossime

settimane. Ci siamo mossi intorno agli anni ’60 e ’70, fase storica che se in Europa è vissuta
come momento di vivacità dei movimenti di protesta e trasformazioni del costume, uno

dei temi ricorrenti è la lotta anticoloniale, me negli Stati uniti c’è tutto questo ma si

confrontano con la segregazione razziale e gli studiosi hanno notato che c’è un’adesione

da parte di molti artisti afro alle battaglie per i diritti civili e questa adesione si manifesta

oltre che nella partecipazione alle manifestazioni anche nella adozione di una prospettiva

di progresso che si riflette nella produzione artistica attraverso soggetti e temi che si

rifanno all’idea del cammino: dato nuovo perché fino anche all’Harlem reinassaince si

caratterizzava per l’adesione al modernismo che non per l’idea di partecipare ad una

trasformazione della società. Artisti afro-americani, appartengono ad un gruppo sociale di

afro-discendenti che possono esprimersi attraverso le arti visive e lo fanno all’interno di un

contesto.

NORMAN LEWIS, figura un po' di passaggio perché non ha iconografia chiarissima, non

sembra schierato al 100%. “Night Walk #2”, 1956, soluzioni messe a paragone con l’ambito

dell’espressionismo astratto. Le sagome bianche possono essere interpretate come

esponenti del KuKluz Klan: camminata notturna pericolosa per i neri. in questi anni negli

Stati Uniti inizia a montare un movimento di protesta che coincide con l’arresto di Rosa

Parks, boicottaggio mezzi pubblici e viene abolita la segregazione sui mezzi pubblici. In

questo contesto una tematica del genere ha un significato più chiaro. Qualche anno dopo

troviamo “What kind are you?”, 1968, olio su tela e collage: frase che invita ad unire le forze

che è ripresa da uno slogan di una campagna elettorale di uno dei primi sindaci neri di

una cittadina degli Stati Uniti. Siamo già nel ’68 quindi la situazione è già accesa, i neri

ottengono posizione di guida della comunità. Lewis è il presidente, il fondatore di questo

gruppo di artisti visivi afro che si chiama SPIRAL, tema dello sviluppo, della crescita, nel

1965 mostra dell’omonimo gruppo di pittori tra cui Romare Bearden, Lewis, Emma Amos,

Reginald A., ecc. Opere in bianco e nero, rimando al contrasto bianchi e neri, linea di

colore per esplicitarlo. Di Reginald Gammon vediamo un paio di lavori che sono

esplicitamente ripresi dalle marce: “Freedom Now” marcia di Washington del 1963, acrilico

su legno (da una foto di Moneta Sleet scattata durante la marcia del 26.VIII.1963.

nonostante la visione sia dall’alto il pittore ci immerge nella folla. Opera in bianco e nero
Anche Alma Thomas si concentra sullo stesso argomento della marcia, manifestazione per

abolizione più ampia della segregazione e nell’opera “March on Washington”, ma ha una

tavolozza più ampia e restituisce la popolarità di queste battaglie anche presso i bianchi.

Una delle mostre da cui siamo partiti, “La rappresentazione del negro nella pittura

americana”,è una delle prime che si occupa e si focalizza su questo, scelta militante. Il

curatore è Sadik, visita di Martin Luther King riprova di una operazione politica che

potrebbe aprire tante riflessioni: che ruolo hanno avuto le istituzioni nel promuovere

cultura dell’integrazione? Il catalogo di questa mostra è rappresentato da un quadro di

Eakins, “Whistling for Plover”, 1874, dare conto che anche nella rappresentazione di una

dimensione conflittuale e di una dimensione attiva dei neri, tema che abbiamo osservato

del rappresentare gli schiavi, gli schiavi liberati come soggetto passivo MA in questo caso

è il nero che imbraccia il fucile.

Un altro lavoro interessante è un quadro di Jack Levine, “Birmingham ‘63” in cui il pittore

documenta l’uso dei cani da parte della polizia durante le manifestazioni e nei momenti di

tensione con i neri.

Tema caldo, popolare nella vita americana e non solo.

NORMAN ROCKWELL, è un illustratore, lavora per quotidiani, non è un artista puro

come lo possiamo immaginare noi ma dedica molta attenzione a questo tema e lo fa

ironizzando su questo guardarsi un po' con sospetto, quadro in cui riprende una bambina

nera scortata dall’FBI per poter andare a scuola, altra opera in cui ha costruito la scena in

cui ragazzini scrutano i nuovi arrivati nel quartiere con reciproca curiosità e con il gattino

bianco da una parte e il gattino nero dall’altra: sguardo bonario su questa conflittualità.

Diverso è il punto di vista di chi la segregazione la viveva: RINGGOLD pittrice americana

interessante perché ha vissuto l’onda dell’Harlem reinaissance, lavora con le stoffe e uno

dei temi prevalenti è la compresenza di bianchi e neri all’interno della nazione,

cittadinanza negata per gli afro-americani. Nell’opera “the flag is bleeding” c’è uno strano

terzetto di persone, due bianche e uno nero che impugna l’arma ma sanguina anche. Anni

della Black Power, risposta anche armata e violenta in cui i neri reagiscono alla violenza
della polizia e della segregazione e dismettono i panni della vittima o di coloro che

subiscono semplicemente; uno dei simboli è il pugno sinistro alzato, reso celebre a Città

del Messico, che diventa anche il logo del Black Power. È Malcom X ad incarnare l’anima

del BP, consapevolezza di una forza che viene anche da un numero, non solo non violenza

come King.

ELIZABETH CATLETT, “Malcom X speaks for Us”, celebra Malcom, ucciso da un nero nel

1965, il suo volto diviene uno dei volti di questa molteplice identità afro, lui dà la voce a

queste diverse identità che nelle opere di Catlett sono per lo più donne. Lei è anche una

scultrice e realizza un progetto per un monumento a Malcom X.

1966 Black Panther Party for Self-Defense

1967 viene fondato il giornale Black Panther, settimanale con una tiratura di 400mila copie

1971 Black Art: the Black Experience, mostra all’Occidental College di LA. Raccoglie arte

prodotta dai neri e l’accento è posto su cosa significa essere neri in America, occhio più

interno al problema della mostra del 1964.

Sempre in questi anni Gordon Parks continua i suoi servizi di sostegno alla causa nera.

Questa stagione ha un momento significativo in un’altra mostra importante ed

estremamente discussa: manifestazione di neri davanti alle porte del MET che ospitava

“Harlem on my mind”; la mostra nasce da una motivazione nobile, lo stato dirigente si

accorce che i guardiani non permettevano l’accesso ai neri e nello staff del museo non

c’erano afro-americani e neanche tra le opere esposte quindi il curatore Schoener vuole

aprire le porte di questo tempio della cultura e sceglie di celebrare la mecca di una fase

felice della cultura nera: Harlem che abbiamo già visto quanta importanza aveva avuto

negli anni ’20. Questa è la cornice in cui nasce il progetto, ma il progetto non coinvolge la

comunità nera tant’è vero che poi il curatore è tenuto a chiamare rappresentanti della

comunità nera e anni dopo dicono che c’erano ma gli venivano proposte delle decisioni già

prese, non partecipavano davvero, primo problema mancanza di collegialità. Secondo

aspetto è il taglio della mostra (mostra documentaria su Harlem come quartiere, senza

opere d’arte prodotte da afro-americani. Grande uso di foto, proposta come documento e
non prodotto professionale o artistico; la musica e i film, sistema di circuito chiuso urbano

che documentava quanto accadeva in uno degli incroci del quartiere): prevalenza del

bianco e nero, tranne una piccola parte di foto commissionate dal curatore, in più Harlem

è il soggetto dello sguardo, totale disconoscimento delle autorità e delle personalità che

hanno contribuito a fare Harlem ciò che era in quel momento. C’è molto uno sguardo

etnografico. Boomerang che si rivolge contro il MET, momento di presa di coscienza di un

grosso museo americano che doveva aprirsi ad una maggiore varietà etnica.

Continuiamo sul tema degli autori neri: BEAUFORD DELANEY, cosmopolita, figura

tormentata perché vive abbastanza bene a Parigi ma gli anni che trascorre in patria sono

penosi perché anche omosessuale, quindi vittima dell’omofobia. “Portrait of Ella

Fitzgerald”, figure del jazz.

ELAINE BROWN, “Seize the Time”, 1970, copertina di un LP in cui la cantante è

rappresentata con in braccio un mitra perché la musica è una delle armi del BP, nelle

musiche c’è riferimento delle lotte dei neri e contemporaneamente queste musiche sono le

colonne sonore delle battaglie che compivano.

Negli anni ’70 la scena artistica statunitense si lascia contagiare da questi temi politici,

DAVID HAMMONS è un afroamericano e realizza dei collage sui temi degli interrogatori

brutali che la polizia infliggeva agli afro-americani arrestati durante le manifestazioni:

“Injustice Case”, 1970, della serie Body Print (collage sulla bandiera americana, impronta

con margarina e pigmenti in polvere); studia con Charles White, altro artista nero

impegnato e aderente al realismo.

ROMARE BEARDEN, una donna che ha vissuto il periodo dell’harlem reinaissance:

“Block II” collage che testimonia una convivenza non facile in alcune aree della città,

finestre con figure umane sia nere che bianche e spesso i neri sono evocati anche attraverso

il tema della maschera o del feticcio (eco del modernismo dell’Harlem reinaissance).

Questa pittrice la ritroveremo.

DRISKELL, un insegnante della Fisk University, università nera che aveva sostenuto le

prime compagnie di cantanti neri con tournee in Europa e si occupa di promuovere gli
artisti afro-americani. Fa un autoritratto e decide di raffigurarsi con il viso a metà tra una

sua immagine più naturalistica e dall’altra parte stilemi di un’arte tradizionale, dognando

di poter tornare in un paese di origine della sua stirpe (il tema del primitivismo non è

completamente uscito da questi artisti).

In questo contesto un ruolo importante lo gioca ADRIAN PIPER, afro-americana che vive

a Berlino e rappresenta una generazione interna a soluzioni estetiche imparentate con il

concettualismo. Famiglia di piccola borghesia e racconta lei stessa di essersi dedicata al

disegno con modalità realistiche fino agli anni ’60 ed entra in una scuola d’arte tra il ’66 e il

’69 (school of visual art di NY) e in questo contesto si avvicina all’arte concettuale e inizia a

lavorare con gli strumenti dell’arte concettuale: disegni, foto, descrizioni testuali di ciò che

avrebbe realizzato. Partecipa a molte mostre collettive ed in questo contesto nascono i

primi lavori noti dell’artista che studia anche filosofia. È nata nel 1948 e si cimenta in una

lettura e per tenersi aggrappata alla realtà adotta una specie di diario in cui scatta

quotidianamente una foto e annota anche le cose più quotidiane che fa (cura del corpo,

cosa ha mangiato, chi ha incontrato) e la dimensione più visiva di questo tipo di

ragionamento diventa una serie fotografica, “Cibo per lo spirito”, secondo una modalità di

registrazione quotidiana del sé, in quegli anni molto frequente. Negli anni ’70 racconta che

l’arte subisce una trasformazione a causa di una serie di eventi concomitanti che non

c’entrano molto con l’arte: invasione della Cambogia, movimenti per la liberazione delle

donne, movimenti politici insomma. Viene chiuso il NY cultural center e Piper dice che

questi eventi hanno un grosso impatto sul mondo dell’arte, tutto questo sistema si mobilita

e anche lei è investita ad uscire dall’auto-referenzialismo dell’arte. Di questa fase di

passaggio sono testimonianza la serie di azioni “Catalysis” in cui si espone in contesti non

artistici proponendosi come qualcosa di perturbante, fastidioso: l’artista diventa un

catalizzatore, un elemento che fa succedere qualcosa, genera una trasformazione. Questo

racconto avviene in un testo che lei pubblica nel 1973 ed è intercettato da una gallerista

italiana, Marilena Bonomo, che pubblica una traduzione in italiano nel 1975: Pensando a me

stessa. Autobiografia progressiva di un oggetto d’arte. Tema che ricorre è l’uscita dal

formalismo, qualcosa divenuto ormai asfissiante. I punti di riferimento di Piper sono


Wilson e Acconci e un altro tema ricorrente nel testo è quello della fuoriuscita dai contesti

tipici dell’arte per coinvolgere lo spettatore. Altra questione importante è che scrive che

non le interessa più conoscere lo sviluppo delle arti visive ma vuole produrre cambiamenti

politici e per farlo si deve impegnare. Quando Piper scrive che l’opera consiste nella

reazione dell’osservatore ad essa, sappiamo che non è una posizione isolata. Nella ricerca

di Piper entrano in modo esplicito i temi della appartenenza etnica, “Mythic Being” opera

in cui si traveste da uomo afro e va in giro per il suo quartiere parlottando e rievocando i

luoghi comuni sul giovane maschio nero e la telecamera registra le reazioni dei passanti.

Anche una serie di lavori grafici in cui i luoghi comuni, i modi superficiali del razzismo

verso i neri sono immortalati. Piper si traveste, non è l’unica a lavorare su questi temi con

un’idea di appropriarsi del cliché e dello stereotipo.

ELEANOR FINEMAN ANTIN, Eleanora Antinova, impersonare lo stereotipo.

Nel caso di Piper ha senso parlare di travestirsi da uomo perché al di là del cambiamento

di genere c’è un aspetto soggettivo che lei ha dall’adolescenza: non essere identificata

come afro-americana; fisionomia che consente ai bianchi di non classificarla come nera.

Esperienza che coincide con la parallela consapevolezza di appartenere ad una parte della

nazione e questo ce lo spiegano i lavori “Autoritratti politici”, in bianco e nero, sullo

sfondo di racconti nei quali Piper ha capito di essere nera e si è spostata in una zona dove

c’era maggiore varietà etnica; il tutto rigorosamente con la scritta in basso “viso pallido”,

come nei western, con riferimento al fatto che non sembrava afro-americana. Questo ci fa

pensare al fenomeno secondo il quale alcuni neri cercavano di mascherare la loro

appartenenza per avere dei privilegi che altrimenti non avrebbero avuto.

Opera “Funk Lesson” in cui si improvvisa maestra di danza e invita a casa amici,

prevalentemente bianchi, per insegnargli a muoversi a ritmo. Se si può imparare a ballare

ritmi neri, l’idea che i neri abbiano una predisposizione per la musica e per la danza è

qualcosa di non corretto: mettere in discussione il cliché. Doppia alienazione dell’artista

verso entrambe le culture. Negli anni ’80 mediazione tecnologica, videoinstallazione in cui

parla attraverso uno schermo posto in una situazione di difficoltà fisica (“Cornered, 1988)
ed il discorso che fa è autoriflessivo: cosa sono realmente? Cosa stai vedendo? Cosa ti

sembro? : riferimento al fatto di non essere visibilmente afroamericana.

Leone d’oro alla biennale di Venezia del 2015, in cui presenta due lavori: un’opera in cui i

visitatori sottoscrivevano un contratto con sé stessi, si può firmare un contratto scegliendo

tra 3 frasi: farò sempre quello che dico di voler fare; sarò troppo caro per essere comprato

(e un’altra che non ho scritto). L’altra installazione è costituita da 4 lavagne con la frase

“qualsiasi cosa può essere sottratta” ripetuta 25 volte e con delle foto con delle parti abrase

come se qualcuno potesse essere eliminato dalla scena: dimensione spettrale.

Negli anni ’70 c’è una maggiore presenza di questi temi anche nella cultura di massa e

nella rappresentazione visiva più quotidiana e non solo artistica, Roots è una serie tv

basata sul racconto di Alex Heley, radici: storia di una famiglia americana (1977), trasmessa

anche da rai2 nel 1978. Per la pubblicità è stata chiamata Bearden. “Sepia” febbraio 1977: le

campagne presidenziali sono un po' legate ad un elettorato nero e alla richiesta di questo

elettorato.

Il discorso della tv, la presenza della parte nera dell’America nella cultura di massa,

diventa soggetto e tema di un pittore interessante, COLESCOTT, apparentemente leggero

anche nel tipo di stile un po' pop e un po' illustrativo ma entra molto nel discorso chi

guarda chi? Chi è il soggetto attivo di questa rappresentazione. Capovolgimento dello

sguardo che non applica sono alla vita quotidiana (“Colored TV”) ma anche per quanto

riguarda la cultura alta: si colloca dentro la storia della modernità e del modernismo

omaggiando la danza di Matisse e introducendo la narrazione dei corpi neri, non solo

perché dipinge i corpi di Matisse come corpi neri ma perché si effigia nel girotondo

(“Beauty is in the eye of the beholder” 1979). Rivisitazione del primitivismo in chiave post-

moderna introducendo la soggettività e la bellezza afro-americana o anche americana e

basta. Colescott è anche un pittore che va ad incrinare alcuni cliché e si colloca in qualche

modo all’interno di questa rappresentazione – San Sebastiano, 1986 con la morte che

domina la scena con i teschi colpiti dalle frecce e due figure legate dalla corda; tema di

amore e morte molto forte che attraversa le due etnie, compresenza di bianchi e neri sulla
scena, non essere nell’uno e nell’altro. questo tema è evidente anche in un’altra

illustrazione, “Lock and Key”, i due amanti quasi sadomaso sono anche schiavi, magari

schiavi dell’amore.

Anche Basquiat è un afroamericano e la critica ha isolato alcuni lavori come testimonianza

del suo interesse per le cause dei neri, tra cui “Holliwood Africans” e alcuni quadri

dedicati al tema del jazz (musica jazz come nera) oppure il “King Zulu” che nella figura

del suonatore o dello sportivo come una sorta di pantheon di figure che si riferiscono

all’etnia e all’essere afro-discendenti.

Appunti Chiara

02/12/2021

Ci eravamo fermati ieri su Bridget Baker, The Remains of the Father – Fragments of a trilogy

(Transhumance) 2012, video, 26’ 38’’. Difficult heritage, opera significativa anche se non

viene da un’artista italiana, lavoro che è il frutto di una residenza d’artista a Bologna e

viene poi esposto al Mambo e in qualche modo è una delle prime volte che un lavoro di

questo genere trova posto in un luogo istituzionale: significativo che non sia una persona

italiana a fare questo tipo di riflessione. Lei è un’artista vissuta negli anni dell’Apartheid,

la cui sensibilità verso le vicende della discriminazione è molto radicata e si era già fatta

notare per cercare di parlare di queste cose richiamando le responsabilità storiche degli

Stati Europei. Quando vince questa residenza d’artista lei racconta che ha passato molto

tempo ad interrogarsi: scelta di un nucleo documentario appartenuto a Giovanni Hellero,

funzionario coloniale in Eritrea e questo fondo è diviso tra uni di Bologna e la biblioteca

dell’arti ginnasio e l’artista vuole riportare in vita l’atmosfera e la situazione. L’opera è un

video, inizia con una giovane dipendente del comunie di Asmara che entra in una villetta

del Villaggio Bandiera, zona edificata durante il Fascismo a Bologna con dei moduli

abitativi tipici, villette molto semplici. All’interno viene ricostruito con dei mobili d’epoca

lo studio di questo funzionario dentro il quale si muove la ricercatrice contemporanea che

fa delle normali attività di ricerca. Lo schermo è spesso diviso tra una veduta interna e o

dei dettagli esterni o dei dettagli della biblioteca. Interessante è il sonoro: interviste che
l’artista ha fatto a giovani italiani di origine etiope, volte a capire cosa conoscono del

passato storico e del motivo per cui sono nati in Italia ma non sono completamente

all’interno della presunta identità nazionale, cosa sanno del paese di origine, se conoscono

la lingua, interviste che ti danno anche il polso di una totale integrazione, aspetto positivo

dentro la gioventù del momento e senza porsi particolari problemi del passato. Il video si

conclude con l’arrivo della postina che consegna alla ricercatrice una lettera indirizzata ad

Hellero, come se ci fosse una sorta di comprensione temporale che riporta il presente agli

anni ’30. Che ritratto viene fuori dalle carte? Personaggio che si interroga, emerge una

sorta di riflessione al modo in cui portare in quelle terre e in quelle situazioni il

razionalismo italiano ed Hellero sembra far baluginare la necessità di adattare i criteri del

modernismo e ibridarla con forme tipiche delle costruzioni in loco; non viene sviluppata

dal regime questa strada e anche per noi apre una necessità di guardare poi ai concreti

contesti storici per capire bene quanto poi ci fosse un pensiero anche non superficiale nei

confronti di contesti alteri. Un lavoro piuttosto stratificato e complesso che ha il merito di

non prendere una posizione ideologica semplicemente, perché lascia anche degli

interrogativi al di là della condanna, non è semplicemente una presa di posizione. Altro

elemento importante è l’uso della documentazione storica che abbiamo già visto in Di

Massimo (i primi lavori di Folci, ecc. vengono riprese da foto d’epoca) e quindi una

caratteristica degli artisti che si muovono nel post colonialismo è l’uso dell’archivio e della

documentazione storica nelle sue varie forme. Baker sceglie una strada che va più

sull’individuo e l’intimità e sembra rivolgere la sua attenzione soprattutto al presente su

cui pesa un’eredità del padre, ma se c’è un limite nel lavoro in cui sembra non prendere

posizione e che le nuove generazioni devono elaborare queste eredità.

Martina Melilli, TRIPOLITALIANS, 2010 – in progress, film (still) dalle memorie del

nonno, uno degli italiani di Libia espulsi da Gheddafi nel 1969. Lei ha una formazione

mista e anche per lei possiamo usare aggettivo intimo, si interroga dal punto di vista

personale. La famiglia del padre è vissuta a lungo a Tripoli, italiani che nel 1969 sono

cacciati e che arrivano in Italia come fossero dei profughi, usurpatori e tornano a Padova.

La Melilli inizia ad occuparsi della presenza degli italiani in Libia a partire dalle memorie
personali per capire questa parte della storia personale che nessuno le raccontava. Il primo

lavoro, TRIPOLITALIANS, fa parte di un progetto in cui cerca di ricostruire le relazioni

personali che c’erano all’epoca a Tripoli e cercare di rintracciare le persone con cui il

nonno aveva avuto contatti. Il progetto è esposto in una sorta di mostra documentaria,

tentativo di rintracciare legami e nessi di persone che si sono perse di vista cercando di

capire chi fossero, dove si trovassero adesso, ecc.

Uno dei lavori più importanti che ha dedicato al tema è un mediometraggio, My home in

Libya, 2018, video, 66’, prod. Stefilm: vorrebbe andare a Tripoli e seguendo le memorie

raccolte dai nonni capire e conoscere i luoghi, ma la Libia è in guerra e non ha ottenuto il

visto. Il film deve fare i conti da una parte con una grossa parte documentaria girata nella

casa dei nonni a Padova in cui ci sono indizi di questo passato (passione per le piante

grasse, serie di oggettini, il nonno disegna una mappa dei luoghi dove si muoveva a

Tripoli). Martina utilizza, interpola delle immagini di repertorio degli arrivi al porto di

Napoli delle navi della marina italiana che portano questi espatriati in Italia e poi c’è una

sorta di controcampo: entra in contatto con un giovane il quale si presta per lei a seguire le

indicazioni del nonno e rintracciare i luoghi dove gli italiani vivevano. Molto attento, gira

in macchina col telefonino e fa le riprese e quello che lui racconta da giovane tripolitino sul

passato è alieno dal nostro modo di percepire la presenza degli italiani in Libia. Il nonno

ricorda come esperienza felice, gli arabi ci hanno protetto finchè non sono arrivate le navi,

solidarietà e il ragazzo che invece parla con Martina parla di quella stagione che non ha

vissuto ma la immagina come un momento sereno in cui stavano tutti insieme, oggi la

Libia è sotto i bombardamenti NATO e man mano che il tempo avanza la situazione

peggiora. C’è una pressione del presente, più drammatica del passato, che lascia sullo

sfondo e come non esplorato realmente il discorso della storia coloniale italiana. Un altro

aspetto problematico, nel senso che lascia riflettere in questo lavoro, è il fatto che in

parallelo a queste scene del ritorno degli italiani in Italia, Melilli monta delle scene

contemporanee dei naufraghi dal nord-Africa perché il ragazzo dice che alcuni corpi sono

stati trovati sulla spiaggia e si crea un parallelismo pesante perché gli italiani vengono

cacciati dalla Libia ma per motivazioni storiche (retaggio di una dominazione militare) e i
migranti che annegano nel Mediterraneo lasciano le coste libiche per cause di forza

maggiore. Questa analogia visiva non è particolarmente pertinente e però sta a dimostrare

il punto di vista particolare che viene incarnato da Melilli, ovvero di essere “coinvolta” in

queste situazioni, non arriva al colonialismo perché le interessa in sé, ma sta analizzando

una storia personale. Altri lavori dedicati al tema dell’immigrazione e sul tema del

riconoscimento delle vittime di questi naufragi, la maggior parte scappano senza

documenti ma hanno oggetti/foto/ecc. e si cerca di identificarli.

Adesso invece parliamo di un altro artista, Alessandra Ferrini che si muove sugli stessi

temi ma da una prospettiva più militante ed ideologicamente affermata. Prima di farlo

però ci ricordiamo che una delle prime volte in cui si parla delle eredità del colonialismo

italiano è una delle sezioni della 16° Quadriennale, 2016, tra le varie mostre Orestiade

italiana a cura di Simone Frangi punta proprio sulla memoria del colonialismo italiano a

partire da Pier Paolo Pasolini, Appunti per un’Orestiade africana, 1970, film

documentario, bn, son., 65’. Una buona parte del documentario è una conversazione con

dei giovani africani a cui pone delle domande in cui traspare il suo essere maschio bianco

e italiano, dando per scontato una serie di cose; Frangi si riferisce al docu-film come uno

dei tanti esempi in cui negli anni ’70 in Italia non si erano fatti i conti con l’esperienza

coloniale.

In questa mostra viene esposto un lavoro della Ferrini, Negotiating Amnesia, 2015, video,

30’, in cui parla dell’esperienza coloniale senza nessun tipo di legame personale. La cosa

interessante è come lei affronta l’argomento: usa materiale d’archivio sia di archivi

istituzionali sia privati e in qualche modo attraverso l’esplorazione degli archivi privati

documenta una memoria diffusa del colonialismo. Capire se nelle proprie famiglie ci sono

state persone coinvolte vagamente nelle avventure italiane in Africa, perché è una storia

molto più capillari di ciò che possiamo immaginare. Usa foto di famiglia e viene fuori

questa “Non sapevo che l’Italia avesse avuto delle colonie”, brandelli di scambi con dei

giovani, persone che lei ha incontrato nel corso della ricerca che rendono conto di questa

amnesia/rimozione di tutta questa vicenda. Ci sono i figli, i nipoti i pronipoti che tirano

fuori queste scatole di foto e documenti dalla cantina e non si sapeva che farne, voler
prendere le distanze da quelle che allora erao le giovani generazioni che mettendo in

secondo piano quel passato lo ha di fatto messo in un angolo. Lei ha fatto diversi lavori sul

tema.

Confronto ideale con un’artista algerina che lavora sul tema della guerra perché entrambe

usano moltissimo le foto d’epoca come luoghi di sedimentazione della memoria, la foto

diventa il soggetto del film; differenza nell’uso della fotocamera, la Ferrini mette in

tensione l’immagine statica e quella in movimento e in quella in movimento mette in luce

uno sguardo attivo.

Un altro lavoro della Ferrini è Gheddafi in Rome (la prima visita si è svolta nel 2008), 2016-in

progress (documentazione della Performance-lecture, Firenze, Villa Romana, 29/IX/2018;

immagini di repertorio, archivio della Repubblica e immagini d’epoca e il lavoro mette in

luce i parallelismi studiati e le mosse di reciproca imitazione tra i due leader politici, che è

un po' paradossale dal nostro punto di vista considerando che Gheddafi era un dittatore e

Berlusconi il governatore di uno stato repubblicano: interesse a riprendere rapporti politici

molto forti. Il lavoro si sofferma sulla figura del capo della resistenza libica alla resistenza

itlaiana (film il leone del deserto) perché Gheddafi ha appuntato sulla divisa una foto

storica in cui questo leader viene messo in catene dagli italiani: farsi continuatore di un

processo di resistenza alla colonizzazione italiana. Ricorda agli italiani che nei rapporti

antecedenti c’è questo passato molto forte, modo di impostare i rapporti mettendo al

centro l’esperienza coloniale e le responsabilità dei colonialisti e in effetti è una strategia

che ha portato almeno alla restituzione della Venere di Cirene. Lei nel lavoro ripercorre il

modo in cui Gheddafi ha costruito la carriera politica mettendosi sulla linea di Almugdar

(?), lavorando sulle scelte di Gheddafi nel proporsi al pubblico e altre cose e mettendole in

frizione con immagini d’epoca del colonialismo, creando una continuità con il passato che

viene riattualizzato alla luce di alcuni gesti politici e personali di Gheddafi. C’è anche un

passaggio della Sapienza nel lavoro della Ferrini perché in questa occasione ci sono dei

cortei in Sapienza per la sua presenza a Roma. Non mancano le foto d’epoca riprese dagli

scavi di Leptis Magna, ma non da periodici degli anni ’30 ma da numeri di storia illustrata

degli anni ’60. Ancora una volta da rotocalchi che si vendevano in edicola, in cui si parla
delle guerre italiane in Africa come dimensione di storia militare e si magnifica la presenza

e il ruolo civilizzatore che l’Italia continua ad avere, a testimonianza di una continuità

carsica, sotterranea, del neo-colonialismo. Evidenza come Berlusconi assuma delle

responsabilità delle responsabilità coloniali ma legame tra i due nel culto della personalità.

Il terzo lavoro della Ferrini di cui parliamo, A Bomb to be Reloaded, 2019, shots from the

installation at Villa Romana. Esito di una lunga ricerca attorno all’eredità di Franz Fanon

in Italia, uno dei suoi libri più famosi è “i dannati della terra” a cui viene dedicato un film

girato da Vittorio Orsini. Alessandra rintraccia l’interesse di Giovanni Pirelli per Fanon, i

due erano amici e Pirelli cura “le lettere dei condannati a morte della resistenza” e

continua a lavorare su questo tema vedendo un legame con le lotte coloniali. Fonda un

centro di documentazione su Fanon, poi smembrato presso varie associazioni e centri

sociali. La Ferrini ha condotto il lavoro insieme agli studenti dell’Accademia di Brera e la

mostra c’è una parte dedicata alla raccolta di documenti e materiale a stampa pubblicato

all’epoca come segno di una disseminazione dell’idea di Fanon in Italia e dall’altro lato

altri 2 esiti della conoscenza: film di Orsini e progetto di opera lirica voluta da Luigi Nono

che mette in scena questa sorta di inno alle lotte di liberazione e antimperialiste nel

mondo. Ferrini si concentra su un’attrice italo-somala coinvolta nel progetto di Nono la

quale testimonia che a fronte di questo tipo di militanza accanto a chi lottava per la

propria indipendenza, in realtà l’esperienza di lavorare con Nono sul solco di Fanon era

stata sgradevole perché aveva sentito i cliché della donna non italiana, nera e quindi la

tendenza di farle girare scene di nudo, viene fuori una quotidianità e una assenza di

coerenza etica. Ferrini lavora sul fatto che posture razziste si possono annidare nei

comportamenti di ognuno, anche quando siamo animati dalle migliori intenzioni. L’attrice

è Kadigia Bove.

[Mauro Folci, Tutto il resto rosolio, 2001, Acquario Romano. Usa lo specchio, oggetto di

arredamento fannè legato alla femminilità e anche all’identità, si costruisce la nostra auto-

percezione; l’insieme degli specchi per terra sono accenni di percorso che non vanno da

nessuna parte, spazi lasciati ai visitatori per leggere, ci sono tante lingue e tanti alfabeti.

Specchio come utilizzo di autoriflessione.]


Rossella Biscotti, Note su Zeret, 2015. Artista che è stata presente anche a Roma con un

lavoro dedicato alle teste monumentali del duce e di Vittorio Emanuele conservate nei

depositi del Palazzo dei Congressi a Roma. Legato al monumento di età fascista e che lei

ha reistallato ponendoli a terra su dei pallet, consentendo al visitatore di non subire

l’incombenza della monumentalità e di osservarle da vicino. Questo che abbiamo nella

slide, Note su Zeret, è un progetto fotografico dedicato all’Etiopia; è stata a Zerèt, caverna

naturale in cui gli eritrei si rifugiavano per ripararsi dall’uso del gas tossico, l’itrite, ma in

realtà vengono raggiunti e queste grotte sono diventate un accumulo di resti umani, oggi

sono una sorta di monumenti nazionali. Lei si reca in Etiopia e svolge un reportage

fotografico, lavoro più visivo rispetto a quanto abbiamo visto fino ad ora; esposto in una

forma che non necessariamente esplicita l’idea dell’artista.

Un altro lavoro è quello di Nina Fischer e Maroan el Sani, Freedom of Movement, 2017,

installazione video a 3 canali, hanno vinto una residenza d’artista a Roma e hanno

lavorato a partire dall’architettura dell’Eur ma hanno saldato l’eredità monumentale con il

tema della migrazione. Il video inizia con un giovane afro-discendente che si dirige

correndo a piedi scalzi verso l’Eur; perché corre a piedi scalzi? Colui che vince alla

maratona olimpica di Roma ’60 è un etiope che corre a piedi scalzi e che si era allenato

conoscendo perfettamente il percorso e capendo che sarebbe stato un percorso attorno ai

monumenti dell’impero italiano, della fase imperiale del fascismo, si passava accanto alla

FAO dove c’era la stele poi restituita all’Etiopia. Quindi il giovane del video riprende il

mito di un campione olimpico, gesto di orgoglio etioper, ma è contemporaneamente una

figura di migrante che si muove a partire da una spiaggia, da una costa. Ci sono anche

scene in cui sono presenti i teli termini che vengono messi a chi arriva. Poi c’è un gruppo

di ragazzi afro-discendenti che cantano, salendo la scalinata del palazzo della civiltà, che

cantano il motto che c’è scritto a coronamento dell’edificio, frase di Mussolini, una sorta di

capovolgimento della mitologia espansionistica dell’Italia, di cui si appropria una

gioventù che è frutto di un movimento migratorio. Lavoro molto interessante.

Ancora per capire come le arti visive nostrane si comportano il tema della guerriglia

odonomastica; Wu Ming, collettivo dall’identità fluida e composita, esempi di guerriglia


odonomastica, dal 2018, lavorano sui nomi delle vie, delle strade, delle piazza e il loro

lavoro ha avuto un picco di visibilità a partire da Manifesta di Palermo del 2018 e la

guerriglia è un modo per fare delle azioni di sabotaggio visivo e di significato ai nomi

delle strade, aggiungendo delle informazioni sulle persone a cui sono titolate quelle

strade, facendolo attraverso interventi di questo tipo:

Petizioni per ri-titolazioni delle strade; dibattito suscitato dall’idea di intitolare la fermata

della metro Ambaradam con quel nome e poi la scelta sembra essere caduta sull’intitolarla

ad un partigiano etiope coinvolto nella resistenza italiana: far emergere una memoria

positiva di cui ci siamo dimenticati.

Altro ancora è il contributo sui temi legati al colonialismo dal duo INVERNOMUTO

(Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi) che lavorano importando il concetto del mare come

luogo di incontro e mescolanza sul Mediterraneo, il lavoro è Black Med, 2019. Immaginario

non legato alla tradizione ma invece lavorando su una idea di una umanità ibridata con la

tecnologia, una sorta di “superuomo” che è il risultato della mescolanza di razze e culture.

Black med serie di cartoline con figure di robot e una installazione con figure

dell’artigianato tipico siciliano, le teste di moro, i cui occhi sono modificati ed hanno delle

luci laser che creano una ragnatela luminosa all’interno della sala. Le teste dei mori sono

uno dei tantissimi esempi della cultura meridionale di permanenza dell’eredità araba.

09/12/2021
“AFRICA SINTETICA, DINAMICA, SIMULTANEA”: ICONOGRAFIE E CONTESTI

COLONIALI NEL FUTURISMO ITALIANO.

L’Africa è una suggestione onnipresente nel futurismo italiano ed è presente nel prologo

del Manifesto del Futurismo di Marinetti, pubblicato su “Le Figaro”, 20 febbraio 1909 (in

italiano pubblicato su “Poesia”, V, n. 1-2, febbraio-marzo 1909. Fa riferimento alla sua

biografia, nato ad Alessandria d’Egitto: “Oh Materno fossato, quasi pieno di acqua

fangosa…”. Africa strega; scrive un romanzo di un viaggio in Egitto, alla ricerca delle sue

radici africane, .

Studi sul tentativo futurista di stabilire una letteratura coloniale, sul campo artistico una

ricerca totale non ci è ancora stata. No sovrapposizione tra futurismo e marinismo.

- 1909-1944: continente o colonia? (come dobbiamo vedere l’Africa)

- Qual è l’Africa dei futuristi?

- Nesso tra avanguardia e politica.

Quando nasce il movimento futurista e in uno stato come l’Italia, unito da poco con

cultura nazionale labile, l’idea di un altrove da conquistare è forte e presente e in questi

anni non basta parlare di Africa come attenzione esotica e orientalista. Troppo spesso il

contesto sociale dell’arte è stato messo da parte

Rapporto tra futurismo e Africa è problematico, Marinetti è molto legato sembra avere

rispetto addirittura nei suoi confronti, forte fascinazione però nel 1911 scrive il manifesto

“Tripoli italiana” e si reca al fronte e dalla Libia lavora per il giornale francese “Le
Transigent”(?). Marinetti e i futuristi sostengono il colonialismo e nel 1935, quando viene

invasa l’Etiopia, Marinetti e altri partono per combattere. Visione estetica della guerra,

rendono moderna l’Italia.

L’Africa di Marinetti e dei futuristi è una mescolanza di temi diversi, energia tribale e e

primordiale si avvicinava all’energia che l’avanguardia doveva avere. Sogni di fantasie

tecno-primitiviste (fusione tra ipermodernità ed energia primordiale).

Il sostegno futurista alla guerra e alle violenze perpetrate è totale fin da subito. Questo

porta a parlare del rapporto tra avanguardia e politica.

nel caso dell’avanguardia è difficile perché gli

obbiettivi degli artisti sono formali e stilistici: bisogna condannare un’avanguardia in toto

o ignorare qualsiasi aspetto che non sia formale e stilistico? Levano complessità ad un
tema così ricco, anche oggi l’interpretazione prevalente è la seconda e si avvale degli studi

di Crispolti, che insiste sul carattere di avanguardia della pittura e sostiene che il contatto

con il fascismo in questo caso ha poca importanza a confronto dell’avanguardia della

pittura. Catalogo celebrativo del centenario del movimento, di Lista (visione per cui una

lettura può minare il valore artistico).

MA:

L’arte dei futuristi non può e non deve essere ridotta ai suoi aspetti coloniali però.

domande a cui la dottoressa vorrebbe

rispondere.
per quanto riguarda la STORIA

DEGLI STUDI, uno dei primi fu Ezio Bassani, uno dei più grandi africanisti e nel catalogo

della mostra al Museum of Modern Art di NY. Ferma la sua analisi nel 1916 e si ferma ad

un livello iconografico, non ritiene che i prestiti formali abbiano in comune con il

colonialismo ma con i viaggi dei futuristi a Parigi.

Più che di primitivismo dovremmo parlare di arte coloniale, anche il collezionare

rispecchia la volontà di possedere e dell’egemonia.

Sulla scia di Bassani si può citare il libro di Messina, che si occupa della fascinazione

futurista e dell’arte nera come fonte artistica e fa una analisi a partire dai testi della

letteratura artistica di Boccioni e Carrà.

Questione del colonialismo italiano in genere, non solo dal punto di vista artistico. Nicola

La Banca definisce il colonialismo come un “fenomeno carsico” perché è sotterraneo ma

talvolta emerge e influenza ancora. Ruolo delle arti visive e delle immagini. Momenti

espostivi che gli studi italiani si sono concentrati, invece per le ricerche sul rapporto tra

grafica, colonialismo e futurismo non c’è uno studio completo ancora.

Com’è diviso il dottorato? Divisione segue momenti cruciali della storia politica italiani e

del futurismo:
futurismo azione importante per la guerra

di Libia, prima parte articolata secondo dei casi studio emblematici: rilettura degli

affreschi di Ardegno Soffici che cerca di non considerarli solo nella luce della cultura

francese.

Questione delle opere di Carrà; la risposta degli artisti ai reportage di Marinetti, ad

esempio di Severini.

si porta dietro una serie di stereotipi

razziali e coloniali; pittori come Osvaldo Barbieri che va in Libia e torna inventando una

finta identità di un pittore sudanese e lo farà esporre in Italia rivelando la sua identità solo

anni dopo (Naham ben Abiladi).


Nella terza parte:

I rapporti tra futurismo e fascismo hanno sempre avuto tipologie diseguali.

AEROPITTURA: immagini delle violenze perpetrate durante le guerre coloniali.

ARDENGO SOFFICI, Sala dei manichini, 1914: decorazioni dalla villa di Giovanni Papini a

Bulciano (AZ), tempere murali staccate e riportate su pannelli, collezione privata, Firenze.

indiscutibile presenza di figure

afro-americane; cosa sono questi manichini? Perché ci sono?


Papini scrittore e giornalista e Soffici hanno vissuto le questioni coloniali; la carriera di

quest’ultimo prende forma solo dopo il primo viaggio a Parigi del 1900. Lui è uno dei

mediatori tra cultura francese d’avanguardia e cultura italiana, ha elaborato una risposta

nazionalistica alla cultura di avanguardia francese e ha il suo apice negli anni di

pubblicazione della rivista “Lacerba” pubblicata nel 1913 (futurismo fiorentino ed

italiano). Nel 1911 entrambi avevano lasciato la rivista “La Voce” perché alcuni si erano

schierati contro l’intervento italiano in Libia, invece per loro la dichiarazione di guerra

all’impero ottomano era una occasione di rivincita e la guerra aveva fornito una nuova

strategia e una nuova retorica all’avanguardia fiorentina. Lacerba doveva nascere nel

dicembre 1911 ma per motivazioni personali di Papini veniva fondata poi nel 1913. Loro in

quanto redattori daranno una grande importanza alla cultura coloniale (pubblicate le

poesie di Marinetti in Libia). Soffici passa l’estate a Bulciano dove mandano articoli contro

la neutralità dell’Italia e dà carta bianca a Soffici per la decorazione del salone.

Poi:
Affreschi sebbene poco visti sono stati a lungo dibattuti, parlato di loro come il risultato di

una mediazione culturale sia dell’avanguardia sia della tradizione toscana rappresentando

una eclettica mescolanza di stili e di riferimento.

Questi affreschi rappresentano delle donne africane e questo di solito è stato tralasciato

dicendo che questo era una concessione alla tradizione del primitivismo francese. Invece

rileggere la presenza di questa cultura in funzione della presenza coloniale, concepiti da

un artista e un committente per cui importava che l’Italia fosse moderna e avere colonie

era sinonimo di modernità. Soffici non condivise mai l’ideologia della pittura come

elemento di propaganda.

il tono di Papini è diverso

rispetto all’autobiografia di Soffici, fa riferimento a “negre, figure che ballano…”.

Linguaggio evocativo. In questa slide lui sta descrivendo l’affresco; “giocolanti

oltremarini” è il modo in cui gli italiani chiamavano i neri. nel testo le donne vengono

private della loro identità, vengono definite come bambole, inanimate, le donne vengono

viste come oggetti o come animali e viene dato un carattere animale, private della loro

umanità. 2 tendenze: mito della donna africana (fatte per essere dominate dagli uomini

bianchi) e esseri animaleschi.


Corpi africani come corpi semi-meccanici.

Il termine “manichini” era utilizzato spesso anche in Italia nell’ambito del colonialismo. I

manichini erano esposti cercando di fondere sia un criterio scientifico ma anche un criterio

più spettacolare:

Impiego della parola manichini in Picasso che fa riferimento ai manichini che si trovavano

nei musei coloniali (anche De Chirico).


Soffici è andato in Africa e scrisse per la rubrica “Itinerario libico” e le sue descrizioni

assomigliano alle ekphrasis che i Papini fanno della sua opera. Descrizioni che fa delle

donne:

CONCLUSIONI:

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