Sei sulla pagina 1di 59

STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA

L’espressione storia dell’arte contemporanea sfiora l’ossimoro, ovvero l’accostamento di due termini di
significato opposto. I termini in esame sono: Storia che è la disciplina che si occupa dello studio del passato
tramite l'uso di documenti, testimonianze e racconti atti a trasmettere il dipanarsi di avvenimenti e fatti;
Contemporanea, cioè un aggettivo che descrive ciò che ha luogo, accade, si svolge, vive, opera in uno
stesso periodo di tempo, e nella fattispecie nel nostro. Come sarà possibile occuparsi di storia di un tempo
per definizione contemporaneo, cioè espressione in divenire del nostro tempo?

Un tempo, il nostro, che come non mai si è interrogato, dandosi molteplici risposte, su quale potesse essere
l’espressione artistica in grado di esprimere la complessità del presente. Dagli inizi del secolo scorso è stato
un sovrapporsi continuo di enunciati, manifesti, interpretazioni ed ideologie che con il loro fragore ci
sembrano aver sovrastato l’opera d’arte della quale a gran voce andavano dichiarando la piena autonomia.
Ancora oggi una domanda angoscia i numerosi visitatori di esposizioni e musei dedicati al tempo presente e
che di frequente viene rivolta a noi, che di questo tempo presente siamo i mediatori, cioè coloro che hanno
il compito di facilitare la decrittazione dei codici semantici che soggiacciono all’espressione artistica a noi
contemporanea: Quale arte per il tempo presente?

Sarà dunque necessario individuare le fonti dei linguaggi che soggiacciono alla infinita molteplicità
dell’espressione artistica contemporanea, e per fare questo dobbiamo cominciare il nostro viaggio a ritroso
dal tempo, vale a dire sostare un po’ in compagnia di quei movimenti che per definizione oggi diciamo delle
AVANGUARDIE ARTISTICHE DEL NOVECENTO. Il termine avanguardia dal francese avant garde deriva dal
linguaggio militare e sta ad indicare quelle truppe che lanciandosi all’assalto per prime preparavano il
campo al grosso dell’esercito. Fu in ambito francese che per la prima volta il termine venne impiegato per
indicare correnti culturali, in quel caso di ambito letterario, animate dall’intenzione di anticipare novità che
sarebbero venute dopo. Come è chiaro dal termine, usato in ambito culturale per la prima volta da
Baudelaire, quegli artisti e quei movimenti si posero l’obbiettivo della rottura con il loro tempo di cui
percepivano la greve immobilità. Furono quindi, come per l’ambito militare, grandi apripista per ciò che è
seguito.

Fu quella della seconda metà ottocento una profonda crisi morale che si trovò a dover spazzare via antichi
equilibri. Fu la crisi del naturalismo che aveva perso quella carica di umana comprensione, anzi,
compassione, che fu nella penna di Flaubert, e fu anche la crisi di movimenti ancora vitali come
l’impressionismo, debitore in larga misura del naturalismo. Pensiamo ad esempio Gustave Courbet , con il
Funerale a Ornans (1849-1850, Museo d’Orsay, Paris), emblema del naturalismo, che rappresenta con
realismo il funerale di un uomo comune, esprimendo un sentimento di compassione, ovvero “condividere il
dolore con”. Ma anche a Colazione sull’erba di Èdouard Manet (1863, Museo d’Orsay), in cui il punto di
vista realista è di condivisione della realtà secondo un’iconografia tradizionale.

La rottura con l’Ottocento non è si è trattata solo di una semplice rottura estetica, ma fu mossa da ragioni
storiche e ideologiche, rispetto all’unità spirituale e culturale dell’Ottocento. E’ infatti questa unità che si è
spezzata ed è dalla polemica, dalla protesta, dalla rivolta che esplose all’interno di tale unità che l’arte
moderna e nuova è sorta.

1
L’OTTOCENTO

Ripartendo dall’Ottocento, in esso si affermò l’idea che la realtà dovesse diventare anche nella produzione
artistica (dalla poesia alle arti figurative) il problema centrale. Ecco perché proprio allora tocca il suo
massimo splendore la grande stagione del Realismo. In ogni campo ciò che preme sono istanze reali,
concrete, definite da società, politica e cultura. Il rifiuto del romanticismo è ormai netto: la realtà storica
diventa contenuto dell’opera attraverso la forza creatrice dell’artista, il quale anziché tradirne i caratteri ne
metteva in evidenza i valori. La realtà era il contenuto e la fisionomia dell’opera era la forma. La realtà
determinava la forma. Scostandosi dalla visione hegeliana, De Sanctis mette in luce come in essa l’unità di
contenuto e forma sia compromessa proprio dall’esistenza dell’idea. Non c’è nessuna idea: l’artista ha
davanti non delle idee, ma delle cose. Queste cose dovevano inoltre venire inquadrate nello spazio e nel
tempo, che formano l’atmosfera, pigliando modo e colore da questo o dal quel secolo. Questo creava lo
stile.

I sostenitori del romanticismo e del classicismo ne uscivano battuti. L’uomo, fuori dal misticismo e dalle
esaltazioni accademiche, senza aureole intorno alla testa, diventava il centro della nuova estetica. Regola
fondamentale del realismo era il legame diretto con tutti gli aspetti della vita, anche con gli aspetti più
immediati e quotidiani: via la mitologia, via la bellezza classica. Nasceva il socialismo scientifico, lo spirito
della scienza si diffondeva in ogni disciplina, i progressi della tecnica davano un’impronta diversa alla vita
secondo una visione positivista. Gli artisti più rappresentativi della scuola realista furono Courbet, Daumier,
Millet, dipingendo i contadini e i borghesi a grandezza naturale, e dando ad essi il vigore e il carattere che
fino a quel momento era stato dato a dei e eroi.

Se la Francia e in particolare Parigi era il centro delle arti in quel momento, in Italia stava giungendo il
risveglio della cultura nazionale nell’epoca del Risorgimento. Anche qui gli ideali democratici e patriottici
fecero cadere le idee del neoclassicismo in favore del romanticismo storico, per andare poi a parare verso
un’arte fresca e vitale, quella dei macchiaioli. Le famose riunioni al Caffè Michelangelo di Firenze
accoglievano pittori che avevano fatto la campagna in Lombardia del ’48 o quella di Roma nel ’49. Da
queste discussioni nacque la teoria della macchia, che non era una teoria tecnica, ma una nuova ricerca di
verismo, ovvero dell’impressione del vero. Le parole verismo in Italia e realismo in Francia sono fulcro di
questi anni.

E’ proprio dalla crisi e dalla rottura di questa unità, come abbiamo detto, che nasce l’arte d’avanguardia. Le
ragioni sono e restano nella storia. L’inizio della crisi è il concludersi delle rivoluzioni europee nella metà
dell’Ottocento, e la goccia sarà il tragico avvenimento della Comune di Parigi. Dopo tale episodio si poteva
dire concluso il periodo in cui pensatori, letterati, artisti avevano agito all’interno della vita sociale e
politica, non pensando nella generalità dei casi di doversene distaccare. Il dissidio tra gli artisti e la classe si
fa acuto.

I SEGNI DELLA CRISI

Van Gogh (1853-1890) arrivò a Parigi nel 1886. Aveva trentatré anni e doveva viverne ancora quattro. Da
Amsterdam a Anversa, in tutti i luoghi dove egli si è trovato prima del suo viaggio a Parigi, la realtà che
aveva costantemente osservato era una sola ed era quella degli uomini che lavoravano nelle fabbriche,
nelle miniere e nei campi. “Io mi sono mescolato alla vita dei contadini così intimamente a forza di vederli
continuamente a tutte le ore del giorno, che ormai non mi sento attirato da nessun altra idea”, scrive un
anno prima di andare a Parigi. Questo è dunque il modo in cui sono maturati i sentimenti di Van Gogh e la
sua vocazione d’artista. E’ quindi logico che egli si orientasse in senso realistico e per un realismo preciso,
2
carico di contenuto sociale. La sua poetica era: la mano di un lavoratore è meglio dell’Apollo del Belvedere.
E tutta la sua fatica era di trovare il modo di rappresentare quella mano: ricercava l’intensità di espressione.
Quindi sempre espressione della realtà, ma “dell’uomo aggiunto alla natura”, definizione che lui dava alla
parola arte. E’ con questo spirito che dipinge i Mangiatori di patate. La verità, la realtà, era una vicenda di
dura fatica e penuria. Ed è questo che doveva far uscire fuori. Il quadro esalta il lavoro manuale e il cibo che
essi si sono guadagnati da soli, così onestamente.

Questo è Van Gogh prima di arrivare a Parigi nel 1886. E’ un uomo che di fatto sta dalla parte dei valori del
’48. Ma a Parigi la situazione è ben diversa. Vi è una pressione della critica, promossa dall’arroccamento
della borghesia sulla conservazione. Courbet e Millet erano stati fortemente attaccati. L’odio verso il
realismo si era allargato poi anche agli impressionisti, pittori che appunto provenivano dalle posizioni
estetiche del realismo. La prima mostra impressionista era stava fatta ormai anni fa, nel 1874. E non a caso
nel 1886, anno in cui Van Gogh giunge a Parigi, è l’anno della loro ultima mostra e il gruppo degli
impressionisti si scioglie. Van Gogh, che fino a quel momento aveva fatto una pittura oscura, quasi senza
colore, adesso è vivamente colpito dalle tele luminose degli impressionisti. Ne accoglie con entusiasmo la
nuova teoria e la nuova tecnica, ma in lui cresce un forte sgomento. Pensava di trovare a Parigi un sostegno
dei suoi sentimenti, credeva di trovare gli “uomini”, ma scriverà “ho trovato solo pittori che mi disgustano
come uomini”. Egli avverte la iniziale frattura che si va stabilendo tra arte e vita. Non la tecnica, la luce, le
teorie divisioniste possono decidere l’arte. Sente che ormai gli artisti non sono più inseriti nella società ma
sono opposti ad essa. Ma per questo non desiste e tutta la sua vita, da adesso, avrà questo scopo unico e
disperato: cercare ciò che ormai, storicamente, non potrà più trovare, ovvero l’esaltata fame d’amore per
gli uomini.

«Ah, mi sembra di più in più che gli uomini siano la radice di tutto e da ciò viene di continuo un sentimento
di malinconia per non essere nella vera vita, nel senso che vorrei lavorare più nella carne che nel colore».

Scrive questo in una lettera del 1888, ad Arles. gettando un ponte verso un futuro certo per lui
inimmaginabile. La pittura è ormai una pallida mimesi che non afferra più niente. Vogliamo la vita, vogliamo
la “carne”, vogliamo l’uomo. Van Gogh coglie il limite di un tempo. Lo vediamo dalla Pietà (1890, Musei
Vaticani), completamente antinaturalistica. Si cerca la vita, non tanto il paesaggio, i bei corpi o le vesti.
Riprendendo l’esperienza formale dei Mangiatori di Patate, desidera non l’arte di impressione ma di
espressione. Non la realtà apparente delle cose, ma la loro profonda sostanza.

Scrive: «Al posto di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo dei colori
arbitrariamente per esprimermi in maniera più forte» e più avanti, «Ho cercato di esprimere con il verde e
con il rosso le terribili passioni dell’uomo» e «se io osassi lasciarmi andare, a rischiare una evasione dalla
realtà e a fare con il colore come una musica di toni… ma essa mi è così cara, la verità, il cercare di fare il
vero, che infine io credo di preferire il mestiere di calzolaio a quello di musicista dei colori». E’ con il colori,
rosso e verde ad esempio, che si esprimono le terribili passioni dell’uomo: questo prende il nome di
Espressionismo. Lo vediamo nel Campo di grano con corvi (1890, Museo Van Gogh, Amsterdam), ultimo
quadro realizzato da Van Gogh. Non vediamo dipinto il campo, ma la sensazione che il pittore ha di questo.
Non è il campo ad essere al centro ma è lui che è il campo di grano. E’ Vincent che è dentro, non è un
semplice sguardo. Vorrebbe la verità, ma niente in pittura può essere vero, quanto la normale azione
umana nella realtà. Cercava l’uomo. Per la prima volta nella storia evolutiva qualcuno, negli anni 80
dell’Ottocento, pensa che la vita sia più importante di qualsiasi, seppur magistrale, illusione di essa. E allora
che farsene della pittura e dell’arte? Niente, a meno che in essa non si possano trovare codici semantici
adatti ad esprimere l’inesprimibile, cioè esprimere attraverso il colore oppure la linea pulsioni intime alla
3
sostanza umana. Se non è così, allora “è meglio fare il calzolaio”. Va Gogh apre quindi la strada a quella
larga corrente artistica di contenuto che è la corrente espressionista moderna. Non c’è in questa visione
vangoghiana un presentimento di una futura rivoluzione? Non c’è il desiderio di tempi migliori, di aria pura?

Anche artisti come Ensor e Munch ricercheranno questo. Di tutta la grandezza passata, infatti, alla
borghesia non restava che qualche brandello di frasi, un involucro da cui si era ritirata la sostanza. A
qualsiasi costo, dunque, bisognava strappare anche questi ultimi brandelli delle passate bandiere e svelare
tutta la verità, anche se tale verità poteva mettere orrore e sgomento. Ciò è quello che appunto farà anche
Munch: e la vista della verità sconvolgerà la sua anima.

Gauguin, intimo amico di Van Gogh, anticipando tensioni creative espresse venti anni più tardi, ha
addirittura già in mente l’astrazione. Nel 1888 aveva scritto: «un consiglio: non dipingete troppo a ridosso
della natura. L’arte è astrazione, ricavatela dalla natura come se sognaste e pensate di più alla creazione
che ne risulterà: è il solo mezzo per ascendere a Dio facendo come il nostro Divino Maestro, creare».
Nell’ultima parte della sua vita lascia la sua terra e va a Tahiti. In Giorno di Dio (1894, Art Institute, Chicago)
vediamo una scelta antinaturalistica, che non ha niente a che vedere con uno specchio d’acqua. Nella sua
pittura gli specchi d’acqua diventano espressioni di colori come il giallo e l’arancio.

Si affaccia così alla storia dell’arte, anche se timidamente, il concetto di astrazione, che deriva da
Abstràhere composto di ab e tràhere (che vuol dire trarre via da, prescindere da).

Arthur Rimbaud (1854-1891), poeta che con Charles Baudelaire e Gérard de Nerval ha più contribuito alla
trasformazione del linguaggio della poesia moderna, in quei medesimi anni scrive una poesia in cui dà un
colore alle vocali: «A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu». Qui, attraverso una sinestesia (associazione
espressiva tra due parole pertinenti a due diverse sfere sensoriali) si passa dalla scrittura al colore. Rimbaud
intuiva le infinite possibilità di un linguaggio eidetico alternativo a quello descrittivo e/o naturalista che
molta parte avrà poi nelle teorizzazioni dei primi pronunciamenti delle AVANGUARDIE STORICHE.

Questi erano chiari segni di una crisi europea. Si chiudeva così un’epoca e un’altra se ne apriva. Come si
sarebbero comportati gli intellettuali? Quale strada avrebbero preso gli artisti?

L’arte ufficiale borghese nel frattempo manteneva un’apparenza realistica, o meglio non poteva che essere
pseudo realista, nel senso che la sua funzione non era più l’espressione della verità ma l’occultamento di
essa. Aveva quindi una funzione solo celebrativa: copriva con un velo piacevole di ipocrisia le cose
sgradevoli e tendeva a protrarre l’illusione delle virtù passate, ormai sostituite da vizi profondi. Il distacco
degli intellettuali da questo porterà alla polemica contro il “borghese”. Il rifiuto del mondo borghese
diventa un fatto concreto, un rifiuto di una società, di una morale. La fuga dalla civiltà è, dunque, una fuga
individuale, perché ormai non vi sono più idee generali. Celebre il caso di Rimbaud, prima citato, con la sua
fuga in Africa, o la fuga di Gauguin a Tahiti e poi nelle isole Marchesi. Diventare selvaggi è uno dei modi per
evadere da una società divenuta insopportabile. Da questo prende l’avvio una produzione artistica e
letteraria dedicata all’esotismo. Tuttavia Gauguin finirà lo stesso per tentare il suicidio ingerendo
dell’arsenico: la verità è che non può esserci evasione. L’esperienza di Gauguin sarà l’esperienza di molti
altri artisti confusamente in cerca di un modo per vincere il progressivo impoverimento dei valori umani,
per salvaguardare la propria individuale integrità. Kandinsky andrà nel Nord Africa, Nolde nei mari del Sud e
in Giappone. Klee in Tunisia. Ma del resto, senza andare troppo lontano, non era un tentativo di evasione
nella purezza anche il ritiro maremmano di Fattori?

4
Dall’ultimo trentennio dell’800 all’inizio del 900 il positivismo con i congressi scientifici, il vasto impulso
industriale, le grandi esposizioni universali, i trafori erano tante bandiere agitate al vento impetuoso del
Progresso. La conquista della felicità per mezzo della tecnica sembrava essere uno slogan. Ma neppure la
predicazione positivista riuscì a coprire le contraddizioni che covavano e che sarebbero sfociate nella prima
guerra mondiale.

Da questa situazione ha dunque origine gran parte dell’avanguardia artistica europea. C’è da dire che questi
movimenti che verranno hanno durata breve e sono velocissimi. Solitamente fanno due o tre mostre e si
slegano. Sono quasi inafferrabili nella loro entità temporale, come del resto succede ad oggi, dato che
siamo nel tempo dell’istantaneità.

AVANGUARDIE STORICHE
L’espressionismo nasce su questa base di protesta ed è l’opposto del positivismo. Si tratta di un largo
movimento che difficilmente si può chiudere in una definizione o delimitare a seconda della forma. Ciò che
si può dire in generale è che l’espressionismo è un’arte di opposizione. Il suo antipositivismo è
conseguentemente anche antinaturalismo e anti-impressionismo, anche se sono abbastanza fitti gli
elementi derivatagli: sufficiente pensare che i padri diretti dell’espressionismo sono Van Gogh, Ensor,
Munch e Gauguin.

Se per l’artista naturalista e impressionista la realtà rimaneva sempre qualcosa da guardare dall’esterno,
per l’espressionista invece era qualcosa da guardare dall’interno. “Dipingo ciò che vedo”, amava dire
Courbet; “è l’occhio che fa tutto” diceva Renoir. Di fatto l’accusa verso di loro è che essi non vedono:
l’occhio dell’impressionista accoglie la domanda, ma non risponde, è il distacco dell’uomo dallo spirito. Ed
ecco invece l’espressionista fa riaprire all’uomo la bocca: fin troppo ha ascoltato tacendo, l’uomo. Ora vuole
che lo spirito risponda. “L’artista espressionista trasfigura così tutto lo spazio. Egli non guarda: vede; non
racconta: vive; non riproduce: ricrea; non trova: cerca. Al concatenarsi dei fatti – fabbriche, case, malattie,
prostitute, gridi e fame – subentra il loro trasfigurarsi. I fatti acquistano importanza solo nel momento in cui
la mano dell’artista, che si tende attraverso di essi, fa presa su ciò che a essi sta dietro. Tutto viene
rapportato all’eterno, in una destoricizzazione del sentimento. (E’ la strada verso la concezione esistenziale
dell’arte: il punto estremo di arrivo di un simile processo può essere indicato nell’informalismo, ed è questo
senza dubbio l’aspetto più ricco dell’espressionismo). Il malato non è più soltanto quell’individuo che soffre,
ma si converte nella malattia stessa. In quest’arte egli diventa solo una cosa, la più grande e la più misera,
diventa uomo. Certo l’artista in questo atto creativo si sente coinvolto nella cosa stessa. Quindi l’elemento
soggettivistico è fortemente presente. Questo è ciò che nuovo e inedito in rapporto alle altre epoche, e si
esce in tal modo dalla concezione borghese del mondo.

Il fenomeno dell’espressionismo si manifestò soprattutto in Germania. Qui il regime imperiale, feudale e


militarista di Guglielmo II accentuava tutte le moderne contraddizioni sociali e morali. La Germania,
accecata da un sogno di gloria e di dominio, marciava così a grandi passi verso la guerra. Gli artisti più
avvertiti e sensibili reagivano al falso splendore dell’impero guglielmino e scatenarono le potenze liberatrici
espressionistiche rifugiandosi nel regno inalienabile dello spirito, opponendosi attivamente e agendo
d’istinto.

Nel 1905 a Dresda si formò il gruppo del Die Brucke (Il Ponte), un gruppo di pittori di cui fu leader Ernest
Ludwig Kirchner. Il ponte significava un passaggio tra passato e futuro: gli avanguardisti sono persone che
5
hanno ben presenti il lavoro dei predecessori e il ponte pertanto poggia sia su un lato, il futuro, ma anche
sull’altro, il passato. La prima mostra del Die Brucke si tiene nel 1906. Nell’evoluzione del gruppo coloro
che andranno più avanti sono, oltre a Kirchner, Otto Muller ed Emil Nolde.

Ernest Ludwig Kirchner ha un linguaggio secco e vibrante, ed è certamente l’artista che più di tutti realizza
un’immagine veramente nuova e originale. E’ soprattutto il poeta della città, della vita artificiale, delle
strade. Il suo segno è una fitta sequenza di scatti, il risultato di impercettibili scariche nervose. I suoi uomini
a passeggio, in colori acidi, hanno una meccanicità burattinesca. Ad esempio in Cinque donne nella strada,
1913, esprime la semplificazione delle forme, l’uso espressivo del colore, le atmosfere cupe e poco allegre,
la volontà di una generalizzata denuncia contro una società borghese non amata né stimata, ma
soprattutto la volontaria rinuncia alla bellezza come valore tranquillante e consolatorio dell’arte. Valore,
quello della bellezza, apprezzato soprattutto dai borghesi, che nell’arte vedevano un idilliaco momento di
evasione fantastica, ma che non poteva essere condiviso dagli espressionisti che andavano proprio contro
questa visione borghese dell’arte. «Uno degli scopi della Brucke è di attirare a sé tutti gli elementi
rivoluzionari e in fermento» si legge nell’invito rivolto a Emil Nolde.

Parlando proprio di Emil Nolde, in lui terra, cielo e mare si congiungono in un vasto, torbido, fumoso
amplesso, dove esplodono sordi bagliori rossastri, si accendono vampe improvvise e la natura pare dilatarsi
per una oscura gestazione. In La Pentecoste di Emil Nolde (1909, Nationalgalerie, Berlin) la finestra che si
apre suggerisce un altro universo, quello dell’artista, che prescinde dall’universo oggettivo. Confrontandolo
con I mangiatori di patate (1885, Museo Van Gogh, Amesterdam), vediamo che l’artista non solo è volto
alla compassione, ma cerca di essere lì dentro, in quella tavola. D’altro canto Emil Nolde ha superato quella
crisi, e semplicemente le persone sono sedute nel suo universo.

Il gruppo, eterogeneo per scelte artistiche, si riconosceva nella decisa contestazione di qualsiasi regola
imposta e nell’intendere l’esperienza creativa come scaturigine dalla propria esperienza: « La pittura è
l’arte che rappresenta su un piano un fenomeno sensibile… il pittore trasforma in opera d’arte la
concezione della sua esperienza. Con un continuo esercizio impara a usare i suoi mezzi. Non ci sono regole
fisse per questo. Le regole per l’opera singola si formano durante il lavoro, attraverso la personalità del
creatore, e la maniera della sua tecnica… la sublimazione istintiva della forma nell’avvenimento sensibile
viene tradotta d’impulso sul piano» scrive Kirchner. L’avvenimento sensibile è costituita, ad esempio, dalle
cinque donne che camminano per strada, che viene ricondotta a un impulso su un piano, ovvero su un
quadro. In questo quadro, come in Potsdamer Platz, (1914, Neue Nationalgalerie, Berlin) non vi è nessuna
attrazione per l’impianto prospettico ma solamente verso l’avvenimento sensibile. In questa fase nella
ideologia di un “ponte” tra il passato e il futuro diventa irrilevante se la composizione debba essere
figurativa – come in Kirchner e Nolde – oppure avviarsi verso la perfetta astrazione come accadrà di lì a
poco con Kandisky. Del resto le fonti – in particolare di Kirchner e di molta parte dell’espressionismo
tedesco – sono Edvard Munch, nella dissoluzione antinaturalistica della figura umana (pensiamo a L’urlo
(1893, Museo Munch, Oslo), e nelle visioni di Vincent Van Gogh, quando ad esempio il Campo di grano con i
corvi non potrà essere quello che dichiara di essere, poiché la pittura non può più imitare, ma essa sarà
proiezione dell’essenza umana del pittore. Sempre con più forza si va delineando la figura dell’artista
demiurgo possessore di una autonomia creativa atta a rimodellare il reale secondo nuovissimi codici
semantici. Sempre Kirchner scrive: «la proporzione delle parti e l’articolazione non seguono una legge
tradizionale o generale di costruzione o espressione, bensì sono in funzione della vita di tutto il quadro, di
un movimento e di una articolazione dell’intera superficie, non una composizione aggiuntiva in uno spazio
finto». Temi questi drammaticamente intuiti da Van Gogh, vent’anni prima. Il quadro diviene autonomo in
quanto tale: soggiace a un codice semantico che io mi invento e che solo così ha dignità per il mio lavoro.
6
Il gruppo si sciolse nel 1913. Ma in piena contemporaneità con il Movimento della Brucke, a Parigi nel Salon
d’Automne del 1905 (anche se la loro attività ha radici fino a 10 anni prima) presentarono i propri lavori
alcuni pittori che furono detti fauves, protagonisti della situazione francese. I fauves (“le belve”), Henri
Matisse, André Derain, Maurice de Vlaminck e Albert Marquet si riconoscevano in alcune comuni
convinzioni: non bisogna dipingere secondo l’impressione ma in relazione al proprio sentire interiore; si
deve esprimere se stessi e rappresentare le cose solo dopo averle fatte proprie; la pittura dando corpo alle
sensazioni dell’artista di fronte all’oggetto da riprodurre, deve essere istintiva e immediata; il colore va
svincolato dalla realtà che rappresenta; la materia è, dunque, indifferente, ovvero posso rappresentare
qualsiasi cosa.

Matisse e Marquet nonostante l’accensione cromatica della loro tavolozza espressa con colori vivaci,
avevano una visione calma e naturale nell’insieme. In Matisse il senso della misura, dell’ordine,
dell’armonia era già vivo sin da allora. Diceva “noi vogliamo raggiungere un equilibrio interiore mediante la
semplificazione delle idee e delle forme figurative. Tutti i miei rapporti di toni trovati, devono formare un
accordo di colori, un’armonia analoga a quella di una composizione musicale.”

Vlaminck e Derain hanno uno stampo molto più fauves propriamente parlando. Per loro il quadro non
doveva essere anche decorazione, composizione, ordine, ma solo espressione. Vlaminck afferma di tradurre
con istinto. Senza metodo, una verità non artistica, ma umana.

- Henri Matisse, Joie de vivre (1905-1906, The Barnes Foundation, Philadelphia)


- André Derain, L’estaque (1905, Museum of Modern Art ,New York), in cui ritroviamo I principi di
Gauguin, “secondo cui bisogna sempre guardare ma a distanza, con una forte espressività del
colore”
- Maurice de Vlaminck, Bougival (1905, Museum of Art, Dallas) – confront con Paul Gauguin,
Arearea (1892, Museo d’Orsay, Paris).

Nel frattempo nel 1909 a Monaco di Baviera si costituì la Nuova Associazione degli artisti di Monaco della
quale fecero parte Kandinsky, che ne era presidente, Alexej von Jawlensky, Marianne von Werefkin, Alfred
Kubin, Gabriele Munter e Franz Marc e con i loro musicisti, storici dell’arte, intellettuali e letterati. Si tratta
di un movimento trans – europeo, nel senso che andrà a formare movimenti americani. Da notare che
allora esistevano ancora l’impero russo, l’impero turco e quello austro-ungarico. Questi collasseranno tutti
con la prima guerra mondiale. L’arte invece è già cambiata: gli artisti sono già avanti rispetto alla storia in
questo senso. La Nuova Associazione degli artisti di Monaco organizzò due mostre, in particolare la seconda
del 1910 fu importante perché vi avevano inviato opere Derain, Vlaminck, Piccasso e Braque, cioè i vecchi
fauves e i nuovi cubisti. Elemento decisivo fu il catalogo di questa mostra, che si scostava dalla Bruke e
introduceva idee spirituali kandiskiane. E’ evidente un fatto: che Kandinsky e i suoi amici più stretti non
accettano la poetica della Bruke. L’istinto non li persuade. Essi invece tendevano a una purificazione degli
istinti anziché al loro scatenamento sulla tela. Non cercavano il fisico primordiale ma l’essenza spirituale.
Inoltre non manifestavano atteggiamenti barbarici, ma raffinati, quasi aristocratici. Coi militanti della Bruke
avevano posizioni in comune, ma solo di negazione: contro l’impressionismo, contro il positivismo, contro
la società del tempo.

Le ragioni delle dimissioni nel 1911 di Kandinsky, Marc e Kubin dalla Nuova Associazione degli artisti di
Monaco provengono da qui: un contrasto estetico e non solo. Nello stesso anno Franz Marc (1880-1916)
dipinge I grandi cavalli azzurri. Nel 1911 Kandinsky, Marc, Munter e Kubin costituirono la redazione del
gruppo Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro) cui nel 1912 si aggregò anche Paul Klee con altri esponenti del

7
gruppo della Brucke, la cui contiguità nell’ambito della vasta galassia di quello che è stato definito
Espressionismo tedesco l’aveva intuita Franz Marc. Il nome del raggruppamento venne dall’incontro
naturale dell’amore di Kandinksy per l’immagine fiabesca dei cavalieri, che spesso aveva dipinto, e
dell’inclinazione estetica che Marc aveva verso la bellezza dei cavalli; entrambi poi amavano l’azzurro. Il
Blaue Reiter durò poco, fino al 1914, ma era destinato ad avere un grande peso nella futura vita artistica
europea. La prima mostra del gruppo si tenne a Monaco nel dicembre del 1911, la seconda nel febbraio del
1912 con opere grafiche, disegni e acquarelli con in più 17 lavori di Paul Klee.

Franz Marc in questo anno dipinge Capriolo nel giardino di un monastero (1912, Stadtische Galerie,
Monaco). In esso cerca di cogliere il movimento che fraziona lo spazio. All’autoreferenziale assoluto
dell’espressionismo, in cui l’ego del singolo, dell’artista, inventa e crea universi, si contrappone ora
all’estrema assoluta variabilità dei punti di vista. Il capriolo è una delle infinite possibilità di visione. Non è il
capriolo che conta ma la moltitudine delle visioni delle persone. E pensare che proprio i nostri anni della
contemporaneità sono il tempo della molteplicità dei punti di vista. Franz Marc scrive: «Che cosa ha a che
fare il capriolo con l’immagine del mondo che noi vediamo? Ha un qualsivoglia senso razionale o
meramente artistico dipingere il capriolo così come appare alla nostra retina oppure in forme cubiste,
perché noi sentiamo il mondo in modo cubista? Chi mi dice che il capriolo senta il mondo in modo cubista?
Lo sente come capriolo, quindi il paesaggio deve essere capriolo. Questo è il predicato. »

Henri Rousseau il doganiere due anni prima, nel 1910, dipinge Il sogno ( Museum of Modern Art, New
York): il predicato in questo dipinto è la molteplicità dei punti di vista. Scrive sul dipinto: "Yadwigha in un
bel sogno dolcemente addormentata sentì il suon di cornamusa d'un incantator cortese. Mentre la luna
riflette sui fiumi [o fiori] i verdi alberi,serpenti l'orecchio prestan alle liete melodie."

Di fondamentale importanza fu la mostra allestita a Berlino nell’ottobre del 1913 con 360 opere. Nella
presentazione si chiarisce la poetica di forte impronta Kandinskiana (aveva già scritto lo Spirituale dell’arte)
e che definì il divorzio del Blaue Reiter dai temi dalla Brucke con quel tanto di istintività e passione per la
vita, quella vita che aveva portato Van Gogh a scrivere di preferire la carne alla pittura. La premessa di
quella mostra era la seguente: Kandinsky e i suoi più intimi, sottolineando la frattura oramai intercorsa tra
arte e società, vivono l’arte come totale separazione dal mondo nella ricerca «di quel sedimento di tutte le
forze che la vita non è stata capace di assorbire. In altre epoche l’arte è il fenomeno che fa lievitare la pasta
del mondo: tali epoche sono oggi lontane. Finché esse non siano ritornate, l’artista deve tenersi distante
dalla vita ufficiale». Scrive Marc: «Ogni cosa ha il suo involucro, e il suo nocciolo, apparenza ed essenza,
maschera e verità. Che noi si raggiunga solo l’involucro invece dell’essenza delle cose, che la maschera di
esse ci accechi in modo tale da impedirci di trovare la verità… cosa ci ripromettiamo dall’arte astratta? È il
tentativo di far parlare, invece della nostra anima eccitata dall’immagine del mondo , il mondo stesso… noi
abbiamo l’esperienza millenaria che le cose diventano tanto più mute quanto più chiaramente noi teniamo
dinanzi a esse lo specchio ottico della loro apparenza fenomenica. L’apparenza è sempre piatta, ma
allontanatela, allontanatela completamente dal vostro spirito – immaginate che né voi, né la vostra
immagine del mondo esistano più – e il mondo rimane nella sua vera forma, e noi artisti intuiamo questa
forma». Se io guardo un uomo sono deviato dal fatto che sia un corpo, ma sono sicuro che mi basti? Se mi
interessa tutto ciò che non è apparenza, tirando via dall’apparenza fenomenica un aspetto celato che è la
più profonda essenza del mondo? Allora in questo caso io mi separo dell’essere umano, e se mi scosto dal
fisico vado allo spirito.

Sulla linea del Blaue Reiter anche Wilhelm Worringer, storico dell’arte tedesco (1881 - 1965), con il suo
saggio Astrazione e empatia nel 1907 da un contributo alla psicologia dello stile. Aprì il dibattito sulla
8
possibilità dell’arte di allontanarsi dal dato reale, divenendo l’arte fondamentalmente un linguaggio
autonomo e frutto di relazioni fortemente empatiche tra i popoli in cui l’oggetto rappresentato non
necessariamente deve soggiacere al dato naturale. Per convenzione, siamo negli anni ‘10/‘12 del
Novecento, e nasce l’arte astratta sia che la si legga come radicale rottura con la mimesi oppure, al
contrario, come possibile evoluzione dalla mimesi.

Nel suo Primo acquerello astratto (Senza titolo, 1910, Centre Pompidou, Paris), in Wassily Kandinsky sorge
una domanda: questa astrazione non potrebbe essere collegata ad un pannello in qualche modo
decorativo? E se qualcuno non sa niente di Kandinsky, cosa capisce e cosa afferra dei miei quadri? E’ una
questione che è ancora aperta sull’arte contemporanea. Ma, afferma Kandinsky, per lui l’astrazione è
fondamentale: «Stavo tornando a casa con la cassetta dei colori dopo aver dipinto uno schizzo, trasognato
e immerso nel lavoro fatto, quando vidi d’improvviso un quadro di una bellezza indescrivibile, imbevuto di
ardore interno. Mi fermai colpito, poi mi avvicinai rapidamente a questo quadro misterioso su cui non
vedevo altro che forme e colori e il cui contenuto mi era incomprensibile. Trovai subito la chiave del
mistero: era un mio quadro che era appoggiato alla parete di lato. Il giorno successivo, alla luce del sole,
cercai di ricreare in me l’impressione che il quadro mi aveva fatto il giorno prima. La cosa mi riuscì solo a
metà; anche ponendo il quadro su un lato riconoscevo sempre gli oggetti e mancava la fine velatura del
crepuscolo. Seppi così in modo preciso che l’oggetto nuoce ai miei quadri.» Kandinsky rende visibile
l’invisibile: l’oggetto, il corpo, lo impaccia. E’ il senso della vita. Di fatto crea anche un paradosso: nega
l’oggetto ma crea un oggetto, cioè il quadro.

Kandinsky lavora su tre categorie di lavori: le Impressioni (derivate dall’osservazione del mondo reale,
hanno al loro interno una riconoscibilità), le Improvvisazioni (autonome ma nutrite dall’esperienza delle
impressioni e dunque da queste derivate, pur allontanandosi dall’impianto iconografico della
riconoscibilità) e le Composizioni (esenti da qualsiasi ed esplicita allusione allo spettacolo del naturale).
Questo flusso di una categoria nell’altra presuppone piuttosto la continuità che la rottura. Opere:
Impressione VI (Domenica), (1911, Stadstiche Galerie, Monaco)¸ Improvvisazione 7 (1910, Galleria
Tret’Jakov, Mosca); Improvvisazione 26 (1912, Lenbachhaus , Monaco); Composizione 8 (1923, Guggenheim
Museum, New York), Composizione 6 (1913, Ermitage, San Pietroburgo), Composizione IV (1911,
Kunstsammlung Nordrhein-Westfallen, Dusseldorf) - Per Kandinsky è il colore il principale strumento
dell’espressione artistica, il mezzo che esercita un influsso diretto sulll’anima : «Il colore è il tasto, l’occhio è
il martelletto. L’anima è il pianoforte dalle molte corde. L’artista è la mano che toccando questo o quel
tasto, mette l’anima umana in vibrazione.» Kandinsky divide i colori in caldi e freddi e nei loro vari gradi di
chiarezza e cupezza. Da qui nasce una simbologia psicologica dei colori che determina particolari
“risonanza” nell’anima in base al gruppo di appartenenza di un determinato colore. Il dinamismo dei colori
è connesso anche alla forma. Un colore illimitato, cioè senza forma, lo si può soltanto pensare, non
realizzare sulla tela. Tra forma e colore vi è dunque una inevitabile e reciproca interazione. L’opera d’arte,
inoltre, diventa un mondo a sé, un universo autonomo, con leggi proprie: non è più l’equivalente di un
contenuto preesistente, ma essa stessa un contenuto nuovo. L’opera d’arte diventa soggetto e perde ogni
dipendenza da altre categorie di pensiero.

La meditazione estetica di Kandinksy, a differenza di quella di Marc, riveste un carattere più sistematico.
Parecchie delle idee che egli ordina e elabora hanno già dato o stanno per dare origine a movimenti o
tendenze in Francia, Italia, Olanda e in Russia: già sono nati il cubismo e il futurismo, già è cominciata
l’evoluzione di Mondrian e Malevic e Larionov in Russia si preparano a proporre il suprematismo e il
raggismo. Per Kandinsky la storia dell’umanità è tutta racchiusa in una marcia ascetica dal materialismo allo
spiritualismo, cioè da male al bene, dal buio alla luce. L’arte non deve fare un cammino diverso.
9
Per Kandinsky il mondo fenomenico oggettivo è invalicabile, tra il mondo oggettivo e la sfera dell’arte non
c’è contatto: quindi l’arte non può essere che astratta in modo assoluto. A differenza di Kandinsky, Paul
Klee è convinto di poter penetrare la corteccia del mondo fenomenico, come è convinto che l’arte possa
afferrare il senso creativo della natura in modo diretto. In Klee, quindi, non c’è l’astrazione assoluta.
Kandinsky tende a suscitare nell’anima delle risonanze mediante puri ritmi formali, vibrazioni cromatiche;
Klee tende sempre invece a esprimersi per allegorie, analogie e simboli. Kandinsky rifiuta la continuità
dell’universo, perché oppone spirito e materia; Klee elimina questo dualismo e crede nella loro fusione. Ma
vediamo Klee nel dettaglio.

Paul Klee (1879-1940), artista svizzero, entrò in contatto con l’ambiente del Cavaliere Azzurro e partecipò
alla seconda mostra del gruppo del marzo 1912 e alla terza, quella di Berlino del 1913. LO persuadono il
senso orfico del cubismo di Delaunay, l’esercizio nitido e magico dell’intelligenza della creazione. Ma forse
su di lui ebbe una presa superiore a ogni altra il fascino per l’Oriente: la Tunisia, l’Egitto, i Paesi dell’Asia
Minore, la civiltà islamica in generale: molte sue opere devono a queste antiche vestigia orientali. Nel 1914
è in Tunisia, e dopo la sua quasi esclusiva attività grafica, ha un’illuminazione di sera, e si scopre pittore.
Dice: «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento.
Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno: sono un pittore». Lo vediamo in il Föhn nel
giardino di Marc (1915, Stadstiche Galerie , Monaco). Per spiegare il ruolo dell’artista e suo collegamento
con l’opera, Paul Klee afferma: «Permettetemi di usare un’immagine, l’immagine dell’albero. L’artista si
preoccupa di questo mondo complesso e in qualche modo vi si è orientato, possiamo crederlo, abbastanza
bene. Così gli è diventato possibile ordinare la serie dei fenomeni e delle esperienze. Quest’ordine diverso e
multiplo, questa sua conoscenza delle cose della natura, vorrei paragonarlo alle radici dell’albero. Dalle
radici affluisce nell’artista la linfa che attraversa lui e i suoi occhi. In tal modo egli adempie alla funzione del
tronco. Premuto e commosso dalla potenza del flusso della linfa, egli lo dirige nell’opera secondo la sua
visione. Come si vede il fogliame degli alberi allargarsi in tutte le direzioni , nel tempo e nello spazio , allo
stesso modo accade per l’opera. Nessuno si sognerà di pretendere che l’albero formi il suo fogliame sul
modello delle sue radici. È facile capire che non può esservi un’uguale corrispondenza tra la parte inferiore
e quella superiore: funzioni diverse, che si esercitano in capi distinti, devono provocare forme diverse.
Invece, ingiustamente, si vuol negare all’artista il diritto di allontanarsi dal modello e perciò anche di creare.
Si giunge anche, con zelo eccessivo, ad accusarlo d’impotenza e di voluta falsificazione. In realtà, nella sua
funzione di tronco egli non può far altro che raccogliere ciò che gli viene dalle profondità e trasmetterlo più
lontano. Egli dunque non serve né comanda, fa solo da mediatore. Quindi occupa una posizione
estremamente modesta. Egli non rivendica la bellezza del fogliame, perché essa è soltanto passata
attraverso di lui.» Dalla linfa si passa alle radici, al tronco e infine al fogliame, composto da foglie singole.
L’opera è la singola foglia, nella miriade di foglie che costituiscono la chioma e che rappresentano la
moltitudine di visioni.

Questa similitudine è il primo passo che Klee ci fa fare nella sua concezione dell’arte. Il secondo passo è
l’analisi dell’oggetto nei suoi rapporti con la creazione artistica: «Vorrei ora considerare la dimensione
dell’oggettivo in un senso nuovo, a sé stante, e tentare di mostrare come l’artista pervenga spesso a una
deformazione, a prima vista, arbitraria delle naturali apparenze fenomeniche. Egli non attribuisce a queste
forme naturali fenomeniche quel significato che si impone ai realisti. Egli non si sente legato a queste realtà
in quello stesso modo, perché non vede nella definitezza di tali forme l’essenza del processo naturale della
creazione. Forse egli è un filosofo senza volerlo. E se non proclama questo mondo il migliore dei mondi
possibili, non vuole neppure affermare che il mondo che ci circonda è troppo cattivo perché lo si possa
10
prendere come modello. Egli dice: Così come appare nel suo aspetto attuale, questo non è l’unico mondo
che esiste! Di conseguenza, con sguardo acuto, l’artista penetra le cose che la natura gli pone già formate
sotto gli occhi. Quanto più guarda in profondo, tanto più facilmente egli collega i punti di vista di oggi a
quelli di ieri, tanto più si imprime in lui, al posto dell’immagine definita della natura, la sola immagine
essenziale della creazione come genesi. Egli si permette anche di pensare che la creazione non può essere
oggi interamente terminata ed estende così questa azione creativa del mondo dal passato al futuro. In tal
modo conferisce alla genesi una durata. Tenuto conto di questo punto di vista, sarà dunque giusto
perdonarlo di rivelarci che lo stadio attuale del mondo delle apparenze che a lui si offre è chiuso nel tempo
e nello spazio e che perciò è troppo limitato in rapporto alle sue visioni profonde e alle sue commosse
sensazioni. Nel senso di una libertà che pretende soltanto il suo diritto, quello di essere mobile com’è
mobile la grande natura.» Più la visione è profonda più permea nel tempo.

- Architettura nel piano, 1923, Staatlichen Museen (Berlin)


- Monumenti a G., 1929, Metropolitan Museum of Art (New York) Il deserto viene lasciato intuire,
più che rappresentato, da lunghe bande orizzontali di colore che rendono l’idea della vastità degli
spazi. L’esiguo numero di tonalità utilizzate - rosso, viola, giallo, verde - richiama la luce calda del
Sahara. Sovrapposte a queste, riusciamo a individuare le piramidi di Giza, tracciate come linee
verticali e oblique che spezzano la monotonia della componente orizzontale senza interromperne la
continuità.
- Fuoco nella sera, 1929, Museum of Modern Art (New York)
- Testa d’uomo, 1922, Museo d’arte di Basilea

Robert Delaunay Nel 1910 sposò Sonia Terk, una pittrice di origine ucraina conosciuta nel 1908. Su invito
di Vasilij Kandinskij, nel 1911 Delaunay si avvicinò al gruppo Der Blaue Reiter, un gruppo di artisti astratti
di Monaco di Baviera: sotto l'influenza di Paul Klee, la sua arte si volse con sempre maggior decisione verso
l'arte astratta. Intorno al 1912, Delaunay si allontanò dall'ortodossia del cubismo e, insieme alla moglie
Sonia, creò all'interno del movimento cubista la corrente che Guillaume Apollinaire definì orfismo (termine
che deriva da Orfeo, mitico musico della mitologia greca) per l'intima natura musicale, in cui le
scomposizioni del colore con i loro effetti di compenetrazione, di simultaneità, di dinamismo, acquistano un
valore autonomo, indipendente dagli oggetti rappresentati. Realizzò quindi dipinti astratti in cui i piani si
sfaccettano moltiplicandosi nei colori dello spettro e ruotando in vortici luminosi. Nelle prime opere di
questo periodo sono presenti oggetti reali, anche se filtrati attraverso i colori iridescenti della luce, mentre i
dipinti successivi sfociano in una pittura del tutto astratta, basata sull'espressività dei colori puri che
infondono una vibrazione ritmica alla superficie pittorica. La geometria cubista è così resa sensibile e viva
dal colore e l'artista trova una sintesi armoniosa tra rigore strutturale ed evasione lirica.
- Disque Simultané, 1912, collezione privata – lavorano sulla Composizione. La tela tonda si
articola in cerchi concentrici, che a loro volta vengono suddivisi in quattro segmenti circolari
sull’asse orizzontale e verticale. L’organizzazione cromatica segue un modello della teoria dei
colori: il principio applicato da Delaunay dei contrasti cromatici simultanei si basa sulla tavola
delle diverse intensità di colore sviluppata già nel 1839 da Michel Eugène Chevreul, che
classificava i colori in contrasti complementari, quindi rosso con verde (risultante dalla
mescolanza di blu e giallo) o blu con arancio (risultante dall’unione di rosso e giallo). Inoltre
Chevreul distingueva i colori caldi da quelli freddi, così come le armonie di toni simili risultanti dai
contrasti di valori cromatici lontani. Delaunay si rese conto del fatto che, nel caso di una
percezione simultanea di due colori vicini, l’intensità cromatica poteva essere aumentata. Dopo
che Delaunay ebbe portato il processo di astrazione dei suoi quadri fino alla totale perdita di
riferimenti figurativi ed ebbe abbandonato qualsiasi riferimento al mondo naturale per
l’organizzazione dei colori, si trovò a dover affrontare la questione di come disporli sulla
superficie, dal momento che non ammetteva alcuna distribuzione arbitraria.

11
- Finestra, 1912, Museum of Modern Art (New York) – scompone la finestra e la ricompone
attraverso il colore. Intravediamo la torre Eiffel.

- Sonia Delaunay, Electric Prisms, 1914, Centre Pompidou (Paris)

- Robert Delaunay, Political Drama, 1914, National Gallery of Art (Washington D.C.) – la fonte è
un'illustrazione di giornale che raffigura un omicidio. La didascalia dell'illustrazione recita:
"Tragico epilogo .... La moglie del ministro delle finanze francese Joseph Cailloux spara a Gaston
Calmette, il direttore di Le Figaro." L'illustrazione, che è apparsa sulla copertina di Le Petit
Journal, mostra il momento in cui la signora Cailloux ha sparato a Calmette. Sebbene Delaunay
non abbia messo a nudo la maggior parte dei dettagli, gli elementi chiave sono ancora visibili:
Cailloux, che entra nella stanza; Calmette, che cade all'indietro; e il solforoso cerchio centrale
dell'esplosione. Un asse verticale che divide le due figure e un asse orizzontale che le collega
catturano la tensione della loro relazione. La concentricità diventa il segno della violenza, come
per un bersaglio . Allo stesso tempo, specialmente visti i motivi vorticosi dietro di loro, le figure
potrebbero sembrare impegnate in una danza. Delaunay frequentò la sala da ballo Bal Bullier a
Parigi con sua moglie dal 1912 al 1914.

Per finire, il punto geometrico è il più alto e assolutamente l’unico legame tra silenzio e parola. La nuova
scienza dell’arte può sorgere solo quando i segni diventano simboli e l’occhio aperto e l’orecchio attento
consentono il passaggio dal silenzio alla parola. Chi non riesce a passare dal silenzio alla parola, non si
occupi di arte, “teorica” e “pratica”: i suoi sforzi attorno all’arte non si trasformeranno mai in un ponte, ma
amplieranno sempre di più la frattura tra l’uomo e l’arte oggi esistente. Proprio uomini del genere si
affaticano oggi per mettere un punto dietro la parola “arte”.» (Vassily Kandisky, Punto linea superficie,
1926). Dal punto prendono origine tutte le forme geometriche. Dai due elementi primari (punto e linea),
laddove si intende la linea derivata per traslazione dal punto, deriva ogni composizione possibile.

- Wassily Kandinsky, Alcuni cerchi, 1926, Guggenheim Museum, New York

12
ARTE ASTRATTA

«La pittura astratta è quella che non rappresenta le apparenze visibili del mondo esterno, e che non è
determinata, né nei fini né nei mezzi né nello spirito, da tale rappresentazione. Ciò che caratterizza,
all’inizio, la pittura astratta è dunque l’assenza della caratteristica fondamentale della pittura figurativa,
l’assenza del rapporto di trasposizione, a qualunque livello, tra le apparenze visibili del mondo esterno e
l’espressione pittorica» scriveva Leon Degand nel 1956.

La pittura astratta potrebbe avere una data di nascita: potrebbe essere l’acquarello “Senza titolo” di
Kandinski del 1910. Più che il primato di un artista nell’invenzione dell’astrattismo, comunque, è
importante sottolineare che la nascita dell’astrattismo è stata la conseguenza inevitabile di una serie di
premesse storiche ed estetiche determinatesi all’inizio del nuovo secolo. Già nel capitolo
dell’espressionismo abbiamo avuto occasione di affrontare il tema dell’astrattismo. Si trattava del primo
astrattismo kandiskiano, un’astrattismo fatto di impulsi lirici. Nell'Astrattismo lirico prevale la funzione
espressiva e simbolica del colore, mettendo l’accento sull’emotività e si possono trovare le sue radici
dal Fauvismo e dall’Espressionismo (Paul Klee, Kandinksy, Marc). L’astrattismo di cui vogliamo occuparci ora
è invece l’astrattismo del rigore intellettuale, della regola, della geometria. Nell'Astrattismo geometrico
prevale l'aspetto geometrica delle forme applicato come un ritorno alla linea geometrica fondamentale,
all’uso dei colori primari: giallo, blu e rosso e deriva dal Cubismo (Mondrian, Malevic). Se nel primo
astrattismo Kandinsky si libera dai gravami della realtà materiale mediante un’estasi improvvisa, che lo
congiunge allo sprito, in Mondrian troviamo un’ascetismo di origine rigoristica che tende a superare il
fluttuare delle passioni mediante un processo di spersonalizzazione individuale.

PIET MONDRIAN

Mentre in Russia negli anni 1910-14 si svolgevano le ricerche suprematiste e costruttiviste, in Olanda
dirigeva i suoi interessi in analoga direzione Mondrian. È con Piet Mondrian (1872-1944) che la
composizione astratta acquista un rigore semantico che mai aveva raggiunto. Piet Mondrian fondò con
Theo Van Doesburg il Neoplasticismo (De Stijl). Il primo numero della rivista uscì nell’ottobre del 1917.

Olandese di nascita, dimostra da subito la propria inclinazione artistica: dopo gli studi diverrà un apprezzato
maestro di disegno, entrando nel 1892 a far parte dell’Accademia di Belle Arti di Amsterdam. Nelle sue
prime opere si sente l’influsso di Vincent Van Gogh, e la natura e il paesaggio sono protagonisti indiscussi
delle sue opere, dove ancora si avverte l’influenza del Divisionismo e dei Fauves. Anche quando i suoi
quadri iniziano a virare verso l’astrattismo, tra il 1905 e il 1908, è ancora forte il radicamento nella natura.
(Opere: Piet Mondrian, Fattoria presso Duivendrecht, 1916, Gemeentemuseum (L’Aia) con confronto con
André Derain, L’Estaque, 1905, Museum of Modern Art of New York, New York). Nel 1911 il pittore
raggiunge Parigi, dove subisce il fascino di Cézanne e si avvicina al cubismo. L’attenzione per la
decostruzione geometrica si rivela nelle opere di questo periodo, come in Natura morta con vaso di
zenzero. Nelle sue tele di ispirazione Cézaniana e cubista si avverte la necessità di costruire l’immagine sul
piano della superficie e creare un equilibrio tra le forme e il soggetto dell’opera. Insiste sulla segmentazione
rigorosa dei tratti lineari in forme che virano sempre più verso l’astrattismo. Il linguaggio di Mondrian si fa
meno materico, la stesura di colori puri sempre più omogenea e l’essenzialità delle forme si traduce in
rigorosi segmenti ortogonali, i soggetti privilegiati non sono più gli alberi ma le facciate e i tetti degli edifici
parigini, costruiti su poche varianti. Inizia quindi ad avvicinare la realtà fenomenica a forme pure. Il modo in
cui Mondrian è giunto all’astrattismo puro è quindi un modo graduale, che agevolmente si può seguire
attraverso una serie di tele che hanno un unico soggetto: un albero. (Piet Mondrian, Albero grigio, 1911,

13
Gemeentemuseum, L’Aia). Quest’albero nelle varie successioni cronologiche della sua ricerca passa da una
fase naturalistica a una liberty, da questa ad una fase fauve, dalla fase fauve alla fase cubista e infine alla
fase cubista-astratta. Egli toglie progressivamente all’oggetto tutte le sue note individuanti, le sue
particolarità, sino a ridurlo a scheletro, a stilizzazione, a linea, sino cioè a farlo scomparire. Rientrato in
patria a causa del conflitto mondiale, incontra Theo Van Doesburg, con il quale nel 1917 fonda la rivista De
Stijl alla ricerca di un’unità tra le arti.

Una tesi fondamentale del De Stijl è quella dell’identificazione dell’arte con la vita, una tesi che abbiamo già
incontrato, con sfumature diverse, in altri movimenti d’avanguardia. La vita però come la percepisce
Mondrian, al pari di Kandinsky o di Malevic, è pura attività interiore. Di qui, perciò, secondo mondrian, la
necessità di eliminare in arte la presenza del mondo oggettivo in quando la realtà oggettiva è qualcosa di
estraneo alla nostra coscienza. Distruggendo l’oggetto nell’arte si avvicina sempre più l’arte alla verità della
coscienza interiore, finchè, giunti all’astrazione totale, l’arte scomparirà, assorbita dalla vita dello spirito,
con esso, appunto, identificandosi. L’arte cioè sarà vita, cessando di esistere come arte. Dice: «Nell’avvenire
l’idea neo plastica si sposterà sempre più dall’opera d’arte verso la propria realizzazione nella realtà
palpabile, sostanziandola della propria vita. Ma perché questo avvenga occorre che la mentalità, almeno
quella di un gruppo privilegiato di persone, si orienti verso una concezione universale e si affranchi
dall’oppressione della natura. E quale felice avvenire, quando non avremo più bisogno dell’artificio ‘quadro’
o ‘statua ‘ quando vivremo nell’arte realizzata.» Mondrian, quindi, dice anche che per fare questo il mondo
deve mutare, perché lo sente vecchio in senso sostanziale. Il De stijl nasce nella rivoluzione d’ottobre in
maniera sicuramente non casuale. Era come la realizzazione di questa fortissima volontà di un mondo
migliore (“quale felice avvenire”), la visione di un’utopia di un mondo diverso alle sue radici.

Oltre al seguire la coscienza interiore, era indispensabile abolire tutti i modi in cui più facilmente poteva
manifestarsi o ingerirsi il dato soggettivo passionale, sentimentale e individualistico: quindi era necessario
eliminare la linea curva, la voluta, residui di quella confusione dello spirito nel barocco. «Mi ci volle del
tempo per scoprire che particolari forme e colori evocano stati d’animo soggettivi che oscurano la realtà
pura. L’aspetto delle forme naturali si modifica mentre la realtà rimane costante. Per creare plasticamente
la realtà pura è necessario ricondurre le forme naturali agli elementi costanti della forma e i colori naturali
ai primari.» E’ come se estrapolasse una sorta di mondo delle idee con essenze pure basate su forme
costanti e colori primari. Un mondo in cui ci si può muovere con sicurezza, una vera e propria utopia: ma
del resto anche la rivoluzione d’ottobre lo sembrava. Il rettangolo diviene la forma prescelta per
l’espressione artistica, in quanto in esso è assente l’ambiguità della curva e predomina la decisione della
linea retta, nei suoi angoli si equilibrano le due forze contrastanti delle diverse direzioni della linea, quella
verticale e quella orizzontale. È una messa in crisi dell’equilibrio dove i colori pensati come entità a sé stanti
non si influenzano ma enfatizzano la bidimensionalità e l’artificiosità del linguaggio dell’artista. Bisognava
infatti evitare ogni ricordo della pennellata emozionale, il colore deve essere unito, campito, piatto, puro. Il
rosso, il blu e il giallo, nella purezza del loro colore, si alternano ai non colori del nero e del grigio in un
rigoroso gioco di piani ortogonali che ritrova poi l’equilibrio in una realtà pura, logica, astratta. Come nella
società contemporanea, anche nelle sue opere non vi è un centro focale: l’universalità diventa il punto di
equilibrio tra rapporti in continuo divenire, in cui non c’è spazio per le forme chiuse. Nei loro reciproci
rapporti i piani e le linee non chiudono mai le forme, non racchiudono lo spazio ma sono in esso contenute.
(Piet Mondrian, Composizione 10, 1915, Netherlands Kröller-Müller State Museum ,Otterlo).

La sua artificiosità è sicuramente una scelta che lo allontana dalle incertezze del mondo fenomenico.
Questo si manifesta in un periodo in cerca di certezze. I vecchi imperi sono caduti, e ciò ha causato una
situazione di paura e di incertezza. Un quadrato di fatto sarà sempre un quadrato. Un cerchio sarà sempre
14
un cerchio. I colori primari saranno sempre colori primari. E’ come se Mondrian si fosse tolto quel piacere
della pittura per arrivare ad un’arte assoluta in quel tempo. Distingue uno sguardo limitato di matrice
soggettiva da uno sguardo assoluto sulla realtà pura. (Piet Mondrian, Composizione con colori piatti, ca.
1917, Collection Mr. and Mrs. B. H. Friedman, New York)

Anche grazie alla sua cultura e formazione giovanile, non prescinde da Van Gogh. Mondrian, che ha bene in
mente Van Gogh, riflette molto sul colore che per il suo primo maestro è sostanzialmente espressionista,
ma ricordardiamo anche che Van Gogh tocca il limite della pittura quando affonda nell’impossibilità di
rappresentare la verità. Ebbene Mondrian questo limite lo supera nel mondo della pura astrazione
geometrica. Se io riesco ad uscire dalle infinite variabili della realtà fenomenica che ottenebrano la mia
percezione ecco che tramite i colori puri che evidentemente sono una astrazione potrò rifondare il mondo,
sembra dirci Mondrian – un mondo non più preda dell’incertezza bensì sicuro e sereno nella purezza delle
sue forme. Un mondo che potrò dominare. Sono gli anni della Prima guerra mondiale, della rivoluzione
russa e certamente gli artisti sentono di essere dinanzi ad una frattura che non potrà più essere colmata.
L’esperienza di Mondrian oscilla infatti tra la prima e la seconda guerra mondiale – morirà nel 1944 ed è a
cavallo delle incertezze tra l’una e l’altra.

- Il movimento De Stijl, come già detto, nacque per volontà di Mondrian e Theo van Doesburg nel
1917 con la pubblicazione dell'omonima rivista. Mondrian e Theo van Doesburg utilizzarono il
termine neoplasticismo per descrivere la loro forma d'arte: astratta, essenziale e geometrica. Nel
Manifesto del movimento sono espliciti gli otto punti fondamentali della poetica del gruppo: 1. Vi
è una vecchia coscienza del tempo e ve n’è una nuova. La prima tende verso l’individualismo. La
seconda verso l’universale. La battaglia dell’individualismo contro l’universale si rivela sia nella
guerra mondiale sia nell’arte della nostra epoca. 2. La guerra distrugge il vecchio mondo con il
suo contenuto: la dominazione individuale in ogni campo. 3. L’arte nuova ha messo in luce il
contenuto della nuova coscienza del tempo: proporzioni bilanciate tra l’universale e l’individuale
4. La nuova coscienza del tempo è pronta a realizzarsi in tutto, anche nella vita esterna. 5. Le
tradizioni, i dogmi e le prerogative dell’individuo (il naturale) si oppongono a questa
realizzazione. 6. Lo scopo dei fondatori della nuova arte plastica è di fare appello a tutti coloro
che credono nella riforma dell’arte e della cultura per annientare tali ostacoli, nello stesso modo
in cui loro stessi hanno annientato, nella loro arte, la forma naturale che ostacola un’autentica
espressione dell’arte, ultima conseguenza di ogni cognizione artistica. – occorre azzerare, fare
tabula rasa, per riniziare da capo. Ed annientare l’arte è sicuramente molto doloroso: io mi privo
della pittura come tutte le mie soggettività per fondare un mondo nuovo. 7. Gli artisti di oggi ,
spinti in tutto il mondo dalla medesima coscienza, hanno partecipato nel campo spirituale alla
guerra contro la dominazione dell’individualismo, il capriccio. Essi simpatizzano con tutti coloro
che combattono , spiritualmente e materialmente , per la formazione di una unità internazionale
nella Vita, nell’arte , nella cultura. 8. L’organo De Stijl, fondato con questo proposito, si sforza di
mettere in luce la nuova concezione della vita. La collaborazione di ognuno è possibile.

Tra gli aderenti al Manifesto del De Stijl vi furono architetti e designer, tra i quali Georges Vantongerloo
(Costruzione di rapporti volumetrici derivanti dal quadrato inscritto e dal quadrato circoscritto al cerchio,
1924, Collezione Guggenheim, Venezia) e Gerrit Thomas Rietveld (Casa Schroder, 1924, Utrecht / Sedia
rosso blu, 1917, Stedelijk Museum, Amsterdam).

Dal ’20 in avanti i quadri di Mondrian prendono quella fisionomia caratteristica di superfici coperte di
rettangoli e di quadrati che non abbandoneranno più. A un certo punto, nel 1925, però Mondrian si
15
distaccherà dalla rivista De Stijl poiché vedrà una rottura formale e non solo con Van Doesburg. Mondrian
vedeva nell’introduzione della linea diagonale del quadro, operata da Van Doesburg, e della linea curva
accolta da Vantongerloo nella scultura, un vero e proprio ritorno alle forze arbitrarie delle passioni. Per
questo Mondrian si avvicinò maggiormente al Bauhaus di Gropius, diventato ormai il centro dove le
esperienze astratte si erano raccolte per tentare su scala più ampia di portare a termine le loro esperienze
in rapporto con l’architettura e le arti applicate.

16
Se è vero che l’esponente più sicuro dell’astrattismo geometrico è Mondrian, è certo invece che il centro
della cultura astratta, della sua elaborazione teorica e dell’astrattismo come movimento è stata la Russia,
sia precedentemente alla rivoluzione d’ottobre sia successivamente. I principali movimenti furono il
Raggismo (Larionov, Gonciarova) e il Suprematismo (Malevic), ma anche il Costruttivismo (Tatlin,
Rodchenko).

Parlando della Russia, la rottura che nell’ovest Europeo si era determinata parecchi anni prima, in Russia si
manifestò con uguale drammaticità solo dopo la rivoluzione del 1905. Fu un vasto moto sociale che sollevò
contadini e operai, ma il potere zarista riuscì tuttavia a resistere all’attacco. In questo periodo si spezza la
tradizione culturale del realismo. I ricchissimi mercanti d’arte Sciukin e Morosov contavano nelle loro
raccolte tele di Cezanne, Picasso, Matisse, Delaunay. Gli artisti russi pertanto conoscevano bene il contesto
artistico europeo, e cercarono anche di svolgere ulteriori modifiche. E’ appunto da questo sforzo creativo
che il Russia approdò l’astrattismo.

RAGGISMO

Il Raggismo è sorto nel 1909. I principali animatori del movimento furono Natal'ja Sergeevna Gončarova e
Michail Fëdorovič Larionov. In genere vi si può notare una certa influenza di Dalaunay, almeno nel desiderio
di raggiungere come lui la trasparenza cristallina del colore. Furono certamente attenti all’evoluzione
cubista, ed ebbero interesse per l’incidenza della luce pur superando il cubismo, che si fonda sulla
scomposizione geometrica dell’oggetto. Si tratta di una pittura che cerca di intercettare la luce e con questa
ricreare strutture di nitida luminosità, la chiarezza dei raggi che creano nello spazio nitide strutture.
Protagonista del raggismo non è l’oggetto ma è la luce: ecco perché rientra nell’arte astratta. Ciò che è
nuovo in questa pittura è proprio questo: l’assenza degli oggetti nell’immagine del mondo reale. Il
Raggismo, che prescinde programmaticamente dall’oggetto, mantiene tuttavia legami con il volume, la
profondità e il chiaroscuro. Toccherà a Malevic far fare all’arte figurativa il passo definitivo verso
l’astrazione assoluta.

Opere: Michail Larionov, Raggismo rosso e blu (spiaggia), 1911, Museo Ludwig (Colonia) / Natalia
Goncharova, La foresta, 1913, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza (Madrid)

SUPREMATISMO

Kazimir Severinovič Malevič nasce il 23 febbraio 1879 presso Kiev, nell'allora Impero Russo. In seguito alla
morte del padre si trasferisce nel 1904 a Mosca, dove si forma. Come molti russi subisce il fascino dell’arte
europea e francese e in particolare Cézanne, Matisse e i Fauves. Fondamentale l’apporto anche teorico di
Cézanne (trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono il tutto posto in prospettiva).

- Kazimir Malevic, Raccolta della segale, 1912, Stedelijk Museum (Amsterdam) – vediamo corpi
assimilati a cilindri come anche la segale: cerca di sintetizzare il reale in forme geometriche.
- Fernand Léger, La Partie de Cartes, 1917, The Kröller-Müller Museum (Netherlands) – anche qui il
gioco sulla geometria non è assolutamente dissimile

«Quando, nel 1913, nel corso dei miei sforzi per liberare l’arte dalla zavorra dell’oggettività, mi sono
rifugiato nella forma del quadrato, ed esposi un quadro che non rappresentava altro che nero su fondo
bianco, i critici e il pubblico si lamentarono: - E’ andato perduro tutto ciò che noi abbiamo amato. Siamo in
un deserto. Solo un quadrato nero su fondo bianco ci sta davanti - . la critica e il pubblico consideravano
questo quadrato incomprensibile e pericoloso. » «L’ascesa alle altezze dell’arte non oggettiva è faticosa e

17
piena di tormenti , eppure rende felici. Anch’io mi sentii preso da una soggezione che assunse le
proporzioni dell’angoscia, quando dovetti abbandonare il mondo della volontà e della rappresentazione in
cui avevo visuto e creatoe nella cui realtà avevo creduto. Quello che avevo esposto non era un quadrato
vuoto ma la sensibilità dell’inoggettività. Ho riconosciuto che la ‘cosa’ e la ‘rappresentazione ‘erano state
prese per l’immagine stessa della sensibilità e ho concepito la falsità del mondo della volontà e della
rappresentazione».

- Kazimir Malevic, Quadrangolo (quadrato nero su fondo bianco), 1915, Galleria Tret’Jakov (Mosca)
– è l’estrema conseguenza dell’arte pittorica: siamo andati oltre il sensibile. Voleva dire: te essere
umano puoi fare tutto, azzerando quello che c’era prima e inventando quello che verrà. La
rivoluzione di ottobre ebbe successo: sradicò l’impero dello zar. Tuttavia portò poi al
totalitarismo, che di certo non poteva accettare un messaggio del genere. Ecco perché il
suprematismo ebbe breve crescita e Malevic non ebbe il successo che meritava.

All'Ultima Mostra Futurista che si tiene nel 1915 a Pietroburgo Malevič lancia il Suprematismo. Dal 1919
studia applicazioni tridimensionali del suprematismo con modellini architettonici. Negli anni successivi alla
rivoluzione bolscevica del 1917, Malevič e altri artisti dell'avanguardia sono sostenuti dal governo sovietico
e ottengono alti incarichi nel campo amministrativo e nell'insegnamento dell'arte. Nel 1919 Malevič inizia
l'attività di docente. Dal 1919 al 1920 una personale di Malevič è allestita alla Sedicesima Mostra di Stato a
Mosca, dedicata al suprematismo e agli altri stili astratti.

Il manifesto del Suprematismo uscì a Pietroburgo nel 1915. La supremazia assoluta della pura sensibilità
non oggettiva. Deve l’artista continuare a dipingere e scolpire scene o racconti al servizio della società o è
meglio scegliere la via della libertà, cioè un’arte finalmente sciolta dai fini pratici, dipingendo soltanto
secondo l’esigenza della pura sensibilità plastica? Scelta questa strada egli ha dovuto spazzar via ogni
precedente linguaggio ed ogni legame con il reale. Azzerando ogni immagine egli ha pensato di far
risuonare pura ed altissima la voce dell’arte.

- Kazimir Malevic, Composizione suprematista, 1915, Stedelijk Museum (Amsterdam)

"Per suprematismo intendo la supremazia della sensibilità pura nell'arte. Dal punto di vista dei suprematisti
le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale. L'oggetto in
sé non significa nulla. L'arte perviene col suprematismo all'espressione pura senza rappresentazione".
Malevic divide il suprematismo in tre fasi: nero, colorato e bianco.

- Kazimir Malevic, Composizione suprematista bianco su bianco, 1918, Museum of Modern Art
(New York) – vi è la componente spirituale che avrà importante influenza nelle arti americane.

Dice su questo quadro: «Sarò libero solo quando la mia volontà, tramite un argomentazione critica e
filosofica, sarà in grado di dedurre, a partire da quel che esiste, un’argomentazione dei nuovi fenomeni. Ho
lacerato l’abat-jour azzurro delle limitazioni del colore, sono uscito nel bianco, navigate al mio seguito,
compagni aviatori, navigate nell’abisso, io ho fissato i semafori del Suprematismo. Ho sconfitto la fodera del
cielo colorato e dopo averla afferrata ho messo i colori nel sacco che ne ho formato e ho fatto un nodo.
Navigate! Il bianco libero abisso, l’infinito, sono dinanzi a voi!» (K. Malevic, Il suprematismo, catalogo della
mostra «Creazione non oggettiva e Suprematismo», Mosca 1919)

18
La mostra di arte degenerata/Entartete Kunst (Monaco di Baviera, 19 luglio 1937)

La Mostra d'arte degenerata (in tedesco Die Ausstellung "Entartete Kunst") è stata una mostra d’arte
itinerante organizzata da Adolf Ziegler e dal partito nazista e inaugurata a Monaco di Baviera il 19 luglio
1937. L'ascesa al potere di Adolf Hitler il 30 gennaio 1933 venne presto seguita da azioni volte a ripulire la
cultura della cosiddetta "degenerazione": vennero bruciati i libri, artisti e musicisti vennero licenziati e i
curatori dei musei sostituiti dai membri del Partito. Nel settembre del 1933 venne istituita la Camera della
Cultura del Reich, amministrata da Joseph Goebbels, e il Ministro del Reich per l'Istruzione pubblica e la
Propaganda sotto il diretto controllo di Hitler. Nella prima metà del 1937 erano in corso i preparativi per la
Große Deutsche Kunstausstellung (Grande mostra di arte tedesca) che aveva lo scopo di celebrare l’arte
mostrare l'arte approvata dai nazisti. L’invito aperto agli artisti tedeschi condusse alla presentazione di
15.000 opere. Quando i lavori selezionati per l'esposizione vennero mostrati a Hitler per la sua
approvazione, egli si infuriò. Hitler licenziò la giuria (di cui faceva parte Goebbels) e incaricò il suo fotografo
personale Heinrich Hoffmann di fare una nuova selezione. Goebbels concepì allora l'idea di una mostra
separata di opere dell’epoca di Weimar, che definì "l'era del decadimento." Asserì che tale mostra avrebbe
permesso alle persone di "vedere e comprendere”. Vi era quindi una mostra che si focalizzava
sull’esaltazione dell’idea nazista tedesca (La Grande mostra), e una seconda mostra in parallelo che
esponeva tutto ciò che era male, che l’arte non doveva fare. In modo che il pubblico capisse meglio li veniva
mostrato sia quello che dovevano fare, nella Grande mostra, sia quello che non dovevano fare, nella mostra
di arte degenerata. Probabilmente Goebbels nel proporre la mostra voleva sia attenuare la debolezza delle
opere della Grande mostra d'arte tedesca sia riconquistare la fiducia di Hitler. Il 30 giugno, Hitler firmò un
ordine che autorizzava la Mostra d'arte degenerata. Goebbels affidò ad Adolf Ziegler, capo della Camera di
Arti visive del Reich, l’incarico di formare una commissione di cinque membri che dovette visitare collezioni
statali in numerose città, e di conseguenza selezionare 5.238 opere che furono ritenute degenerate. La
mostra venne preparata in fretta per essere presentata in concomitanza con la Grande mostra d'arte
tedesca che si aprì il 18 luglio 1937. Ziegler presentò la mostra d'arte degenerata il 19 luglio 1937. La
mostra presentò 650 opere d'arte, confiscate ai musei tedeschi. Il giorno prima dell'inizio della mostra,
Hitler pronunciò un discorso in cui dichiarava "guerra spietata" alla disintegrazione culturale, attaccando
"chiacchieroni, dilettanti e truffatori d'arte". Secondo i nazisti, l’arte degenerata era l'insieme delle opere
che "insultano il sentimento tedesco, o distruggono o confondono la forma naturale o semplicemente
rivelano un'assenza di adeguate capacità manuali e artistiche". Nelle prime sei settimane di esposizione
parteciparono alla mostra un milione di persone. La mostra fu ospitata nell’Istituto di archeologia: luogo
scelto per le sue qualità particolari (stanze scure e strette). Molte opere furono esposte senza cornice e
parzialmente coperte da slogan spregiativi. Vennero posizionate a testa in giù oppure venivano vendute a
due lire, opere che nella precedente Repubblica di Weimar erano state vendute ad alti prezzi. Vennero
scattate fotografie delle mostre e un catalogo, prodotto per lo spettacolo di Berlino, che accompagnava il
percorso della mostra. Fu anche prodotto un filmato di sezioni della Mostra. L'esposizione d'arte
degenerata comprendeva 650 dipinti, sculture e stampe di 112 artisti, principalmente tedeschi, fra cui
George Grosz, Ernst Ludwig Kirchner, Paul Klee, Franz Marc, Emil Nolde, Piet Mondrian, Pablo Picasso e
Wassily Kandisky. La mostra durò fino al 30 novembre 1937, e venne visitata da 2.009.899, con una media
di 20.000 persone al giorno.

Artisti di lingua e cultura francese e tedesca, rappresentativi sia delle correnti astratte sia di quelle di
ambito surrealista, lasciarono l’Europa per gli Stati Uniti d’America. Tra questi, Wassily Kandisky, Salvador
Dalì, Max Ernst, Piet Mondrian. Fu una fuga che germinò figli grandissimi. La mostra d’arte generata, per
questo, fu una proficua diaspora, e in America seminò, e seminò tanto.

19
ARTE INFORMALE – da qui in poi integrare con il libro

Nell’immediatezza del secondo conflitto mondiale a Parigi presso la galleria René Druin esposero Jean
Fautrier con gli Otages, Jean Dubuffet con Hautes Pâtes e Wols. La guerra era terminata da pochissimo
tempo. In un tempo che va dal 1945 al 1947 furono tre momenti assai ravvicinati che consentirono di lì a
poco al critico francese Michel Tapié di elaborare la sua teoria dell’Art informal e dell’Art autre (arte altra),
che tanta parte avranno nell’evoluzione dell’arte della metà XX secolo. Si tratta di posizioni teoriche di varia
declinazione che, a differenza di quanto era accaduto con le Avanguardie, non si espressero in manifesti o
enunciati ma piuttosto acquisirono significato nel progressivo aggregarsi di artisti di varia nazionalità
accomunati, in primo luogo dalla consapevolezza dell’assurdità e dell’efferatezza della guerra. Queste
ricerche, vitalissime per un decennio, persero poi con il mutare dei tempi la loro drammatica urgenza
espressiva isterilendosi in stile, moda o accademia.

L’arte informale è qualcosa che riguarda tutta l’Europa, ma che non ha trovato un enunciato preciso. Non
ha avuto manifesti o enunciati generali come abbiamo visto per altri movimenti precedenti. Si tratta
piuttosto di esperienze singolari che vanno a confluire nello stesso significato. l’arte informale in sé. E’ un
movimento assolutamente internazionale che riguarda dapprima la Francia, dopodiché l’Italia e gli USA in
piena coincidenza cronologica. Sono state ricerche estremamente vitali per un breve tempo, 10 anni.
Dopodiché con il mutare dei tempi la loro drammatica urgenza espressiva si è insterilita. Anche perché gli
artisti informali nascono nel momento subito successivo alla seconda guerra mondiale. Le coscienze
europee si sono rese conto che il mondo aveva scavato un baratro atroce, incolmabile. Ognuno l’aveva
vissuto sulla sua pelle, e in particolare questi artisti. Ma solo con il 45 si riuscì ad avere l’idea generale di
quello che era accaduto. Non poteva più esserci un clima come prima di questa tragedia. Allora come si fa?
Bisogna inventare qualcosa che sia nuovo, ma questo era già il presupposto fondamentale per
l’opposizione delle avanguardie. Qui non è tanto superare di un tempo che si sente passato, di provare a
ricominciare da capo, completamente, perché di là, alle nostre spalle, ci sta qualcosa che non si riesce
neanche a sopportare. Il ponte metaforico che prima appoggiava su un lato e sull’altro, adesso poggia su
un lato solo, non c’è passato, c’è solo futuro.

«Un nuovo protocollo, un nuovo rituale che non è un miglioramento dei vecchi principi, ma che è esso
stesso totalmente diverso, tanto nei suoi postulati come nelle sue scale di valori» scriveva Michel Tapié nel
teorizzare il movimento Informale.

Non si va a migliorare qualcosa, non si può neanche pensare di poter affondare in qualcosa che sia prima,
bisogna assolutamente ripostulare la realtà. E lo faranno gli artisti informali.

Alle origini delle riflessioni di Tapié e dunque ancor prima della codifica del movimento Informale,
indubbiamente è l’esperienza artistica di Wols e una importante mostra che il critico francese allestì a Parigi
nel 1947.

Wols

Wols, di famiglia alto borghese, lasciò la Germania giovanissimo alla volta di Parigi. Parigi è stata per tutta la
prima metà del novecento attrattiva nel mondo delle arti: chiunque volesse intraprendere le arti a Parigi
doveva andare. Conobbe Hans Arp, Alexander Calder e Alberto Giacometti e si avvicinò all’estetica
surrealista, movimento fondamentale con cui sicuramente fanno i conti gli informali. L’arte surrealista da

20
voce alla componente fondamentale della componente umana della surrealtà, prodotta e partorita dal
nostro inconscio. Alle fine degli anni Trenta divenne fotografo assai apprezzato e fece parte del gruppo dei
fotografi della Galerie de la Pléiade. Nel 1939 fu arrestato e internato in un campo di concentramento
francese dal quali uscì nel 1940. Ottenne poi la cittadinanza francese. Nel 1945 a Parigi venne organizzata
una mostra delle guaches di Wols e successivamente nel 1947 l’antologica per la cura di Tapié che suscitò
molta attenzione e sconcerto. Nonostante i molti problemi di salute espose a Milano, Parigi e New York.
Morì nel 1951.

Lui come tutti questi artisti ebbe esperienza sulla propria carne della guerra nella prigionia. E vediamo qual
è la sua proposta artistica.

A Cassis le pietre, i pesci

Le rocce visti alla lente di ingrandimento

Il sale del mare e il cielo

Mi hanno fatto dimenticare l’importanza dell’uomo

Mi hanno invitato a voltare le spalle

Al caos dei nostri affaccendamenti

Mi hanno fatto veder l’eternità

Nelle piccole onde del porto

Che si ripetono Senza ripetersi.

Così Wols introdusse le guaches in mostra nel 1945. Le piccole creature animate e non animate lo hanno
fatto dimenticare l’importanza dell’uomo: l’uomo esce di scena. L’uomo, protagonista millenario indiscusso
di ogni esperienza artistica di ogni popolo, anche dell’arte astratta, sia esso pubblico, come per gli
americani nell’espressionismo astratto, non è più al centro. Deve fare un passo indietro, poiché l’uomo nel
1945 con il caos che ha creato ha spezzato la mia possibilità di arrivare all’eternità. L’eternità la trovo nelle
piccole cose, animate e non animate. Un pensiero decisamente radicale e sconvolgente, tanto che fu
altrettanto sconvolgente la sua mostra, ma del resto decisamente inquadrabile nel suo tempo, e pensiero
con cui ancora oggi facciamo i conti.

- Wols, Gouache 16, 1940-1941, MoMA (New York)- vediamo creature ameboidi, non umane. E’
formalmente surrealista, ma se il surrealismo mette al centro l’inconscio dell’uomo, quindi l’uomo,
Wols mette le altri aspetti della natura animata e inanimata.
- Wols, senza titolo, 1944-1945, Tate Gallery (London) - E’ una forma indescrivibile, ma è
semplicemente un’altra cosa che non ha assolutamente bisogno dell’uomo.
- Wols, La Città, 1950-1951, Museo Thyssen-Bornemisza (Madrid) - la città è l’essenza dell’umana
presenza: noi ci raccontiamo attraverso la città. Affermiamo la nostra presenza nel mondo con la
costruzione di città: noi siamo creature che costruiscono. La città invece è qualcosa che per lui
diventa una spirale ameboide , di tipo organico, che ha perso tutta la sua assettività costruttiva.

Vi è dunque una drammatica contrapposizione tra l’insensatezza del confuso agire degli esseri umani e
l’eterno, vitale brulichio delle microesistenze, il vitale blulichio della vita non ha a che vedere con l’essere

21
umano, sia che noi si agisca o che non si agisca c’è comunque. e dunque per Wols «L’immagine, dipinta o
disegnata, dovrebbe avere con la natura lo stesso rapporto che le fughe di Bach hanno con Gesù Cristo.
Non imitazione ma analoga creazione». Formalmente vicino all’automatismo di matrice surrealista, se ne
discosta per spingersi verso la rappresentazione del perpetuo divenire della realtà fenomenica cui sono
estranei i misteri dell’inconscio. Compito dell’arte non è rappresentare o descrivere, ma è creare una nuova
entità eterna brulicante di vita. Pensiero davvero straordinario nella sua utopia. Stupito dinanzi alla
manifestazione della materia in totale assenza di giudizio estetico tenta di catturarne l’intrinseca sostanza
senza interferire in alcun modo con gli aggregati. «Passando in rue de Buci, davanti a uno specchio
scheggiato, segnato, seminfranto dalle pallottole e mostrante a tratti un muro magnificamente putrido -
secondo quanto riferito da Guilly - Wols avrebbe sussurrato: Mai la mia pittura arriverà a quel risultato».

Da una citazione di Leonardo da Vinci: «…perchè col solo gettare di una spugna piena di diversi colori in un
muro, essa lascia in esso muro una macchia, dove si vede un bel paese. Egli è ben vero che in tale macchia
si vedono varie invenzioni di ciò che l’uomo vuole cercare in quella, cioè teste d’uomini, diversi animali,
battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi ed altre simili cose; e fa come il suono delle campane, nelle quali si
può intendere quelle dire quel che a te pare. Ma ancora ch’esse macchie ti dieno invenzione, esse non
t’insegnano finire nessun particolare». da Leonardo da Vinci, Trattato della pittura.

È esattamente il pensiero che soggiace alla riflessione di Wols. Il muro non ha bisogno di nulla. Il muro di
Wols è un muro con le muffe, sbriciolato, ferito, e quel muro diventa più bello di qualsiasi cosa che io possa
fare.

Alla definizione del movimento Informale contribuì indubbiamente un'altra mostra che si tenne a Parigi nel
1946, in piena coincidenza cronologica. Si trattò delle Hautes Pâtes di Jean Dubuffet.

Jean Dubuffet (Le Havre 1901 – Paris 1985)

E’ attratto sin dalla formazione da forme di arte primitiva o spontanea. L’arte primitiva è un tema che
interessa moltissimo anche le avanguardie del novecento: per alte primitiva si intende l’arte dei popoli altri,
dall’Oceania all’Africa. Parecchia notorietà ebbe quest’arte nei primi del novecento a Parigi perché
cominciarono ad arrivare grazie all’intervento di mercanti d’arte. L’arte spontanea (o art brut, che lui fonda)
è un’arte che appartiene non tanto a chi ha competenze o scelta consapevole nel farsi artista ma a tutti gli
altri, come ad esempio i bambini o i “pazzi, che non hanno necessità di consapevolezza di sé e che si
affidano alla piena spontaneità. Non ha bisogno di consapevolezza di sè Jean Dubuffet espose per la prima
volta nel 1942 a Parigi opere ancora vicine ai lavori di Klee. Nel 1945 definì la propria poetica coniando il
termine Art Brut. Nel 1946 espose sempre a Parigi le Hautes Pâtes.

- Jean Dubuffet, Gards du corps, 1943, Fondazione Dubuffet (Paris) – è molto vicina a certe
elaborazioni di Klee
- Jean Dubuffet, The violinist, 1945, MoMA (New York) - potrebbe essere questo l’arte di un
bambino? Sottrae, e qui si ritorna alla poetica degli informali, la consapevolezza. Non ci sono regole
della rappresentazione. La poetica di Wols è stata assai più radicale, perché ha sottratto l’uomo.
Qui invece Debuffet sottrae tutto ciò che è la cultura artistica, il buon uso della prospettiva, e
propone la sottrazione assoluta di un bambino immaginario o di un pazzo immaginario. Comunque
seppur lontani entrambi lavorano per via di sottrazione – sottrarre quella cultura fondante del 900,
comprese le avanguardie, per poggiare quel metaforico ponte su un’altra parte. Debuffet lo vuole
appoggiare sulla spontaneità. Tuttavia questa sua sottrazione non porta ad una composizione
astratta ma figurativa.
22
- Jean Dubuffet, Il cane che mangia i capelli Le chien mangeur de cheveux, 1943, Fondazione
Dubuffet (Paris)
- Paul Klee, Senecio (presto un uomo vecchio), 1922, Kunstmuseum (Basilea)
- Jean Dubuffet, Paysage vineux, 1944, Centre Pompidou (Paris) – in assenza assoluta e
programmatica della prospettiva, la grande acquisizione dell’arte matura dell’umanesimo italiano
(primi anni del 1400), in cui l’uomo è padrone dello spazio, e al centro del mondo. E’ stato il
momento di massima affermazione dell’umanità. Ovviamente Debuffet conosceva benissimo la
prospettiva e fa un’operazione culturale, e sottrae ciò che più aveva inquadrato l’uomo nel mondo.
Sottrarla vuol dire provare a ricominciare da capo, come Wols. Ma Wols è molto più drammatico di
Debuffet.
- Jean Dubuffet, Campagna felice, 1944, Centre Pompidou (Paris)– potrebbe essere la visione di un
bambino in età prescolare, prima di acquisire una cultura, quella cultura passata è bene tenerla da
parte, perché ha aperto un baratro: di cosa ne abbiamo poi fatto di quella cultura? Forse è meglio
gettare una spugna e ricominciare da capo.

Introduciamo ora le Hautes pates, opere nelle quali il predominio della materia è assoluto, ribadito
dall’utilizzo di materiali e mezzi inusuali quali spatole, raschietti, cucchiai e dita a manipolare biacca,
mastice, catrame, sassi, spago, vetro smalto. La materia dunque è la sola guida all’opera. Dubuffet è certo
che le immagini create dalla materia siano più affascinanti di quelle prodotte dall’intelletto umano e che
siano portatrici di segreti da scoprire, riguardanti non soltanto il mondo delle forme ma anche quello del
pensiero; ogni opera scaturisce dall’incontro delle qualità intrinseche della materia e la mano dell’artista-
alchimista che le asseconda.

- Jean Dubuffet, Miss Choléra, 1946, Guggenheim Museum (New York) – definizione dell’arte
informale nella sua accezione materica. È calce, concrezioni di materie. Sono le concrezioni che
conducono l’artista a delimitare una immagine, qualunque essa sia. Accade che questa materia si
stenda su una superficie e in base a questo mi guidi a costruire un’ immagine qualunque essa sia.
Sono io artista una sorta di strumento che segue la materia: si ritorna alla sottrazione estrema. Se
la materia sgocciola e si aggrega non sono io artista il protagonista, ma la materia.
- Jean Dubuffet, Volonté de puissance, 1946, Guggenheim Museum (New York)
- Jean Dubuffet, La colazione frugale, 1950, Fondazione Dubuffet (Paris) – tavola con una bottiglia,
un calice e una baguette. Ama non è la volontà di rappresentare una tavola imbandita, ma ha fatto
sì che la materia – in questo caso biacca intrisa di colore – ha fatto sì che l’artista potesse
estrapolare solo conseguentemente il soggetto. E’ lo stesso discorso della macchia sul muro di
Leonardo.
- Jean Dubuffet, La grain de beauté, 1950, Fondazione Dubuffet (Paris)
- Jean Dubuffet, L’insorgere della luna, 1951, Fondazione Dubuffet (Paris) -. Qui davvero ci sembra di
vedere Pollock, e infatti non è un caso. Sono schizzi di materia, di pillacchere di fango, con queste
aggregazioni dovute all’esistenza stessa della materia, che si appoggia sulla tela in un modo
totalmente imprevedibile perché l’artista non lo controlla. Ne prende atto solamente dopo, dando
un titolo. L’artista interpreta lo sgocciolare della materia che segue la legge della materia stessa –
una materia vischiosa agirà diversamente rispetto a una materia oleosa.

Jean Fautrier (Paris 1898 - Chatenay-Malabry 1964)

La formazione londinese, dove vive tra il 1908 e il 1914 e dove frequenta la Royal Academy, lo avvicina alle
infinite possibilità che si originano dalla dissoluzione della forma visibile, ama profondamente la pittura di
23
Turner. In Francia dal 1917 inizia la carriera d’artista sostenuto da mercanti di primo piano (Paul Guillaume)
e dall’ambiente letterario parigino. Per esempio il sodalizio con il giovane André Malraux lo porta a
comporre per l’editore Gallimard litografie a soggetto dantesco. Con la crisi del 1929 Fautrier lascia Parigi
per la Val d’Isere dove si dedica poco alla pittura. Nel 1940 torna a Parigi in fiera opposizione al nazismo, e
qui entriamo nel nostro tema. Viene arrestato, fugge e trova riparo in un nosocomio confinante con un
campo di concentramento nazista. Nascosto, assiste alle atrocità compiute dai nazisti e questa materia
incandescente troverà sublimazione nella pittura, una pittura nuovissima e sconcertante. Sente cioè quello
che accade ai prigionieri. Lui al di là del muro non vede ma sente, ed è investito da un dolore così
travolgente che muta il suo modo di fare arte – non può passare indenne rispetto a questo.

La serie degli Otage (Ostaggi) fu esposta a Parigi nel 1945, appena abbattuto il nazismo, e colpì
profondamente l’immaginazione di tutti e in particolare di Michel Tapiè che vide un nuovo modo di
dipingere, quella pittura che di lì a poco definirà Informale.

- Jean Fautrier, Tête d’otage, 1944, Museum of Contemporary Art (Los Angeles) - è l’impronta che
l’ostaggio ucciso, fucilato, lascia su quel muro fisico e reale, dietro il quale Fautrier è nascosto. Il
dolore va al di là della possibilità della rappresentazione fisica, quindi l’uomo non può far altro che
prendere atto dell’impronta del dolore. L’impronta della paura, dello smarrimento, del dolore che il
muro metaforico ma anche fisico in questo caso ha conservato. L’artista si sottrae completamente
a sottolineare la propria presenza, dell ‘uomo rimane solo l’impronta della vittima, che in questo
caso è l’ostaggio. «Nella sua materia pittorica, così drammatica, lacerata, carnea, Fautrier sembra
voler trattenere e far pulsare ancora la vita strappata con violenza dai corpi che aveva sentito
strisciare lungo l’opposta parete del muro divisorio o cadere a terra con tonfi sordi.» Scrive Althofer
nel 2007.
- Jean Fautrier, Tête d’otage, 1945, Centre Pompidou (Paris)

Il termine informale deriva dal francese informel che vuol dire informe, senza forma. Il termine fu
impiegato per la prima volta dal critico francese Michel Tapié nel 1951 nella introduzione alla mostra
Véhémences Confrontées cui parteciparono, tra gli altri, Giuseppe Capogrossi, Willem de Kooning, Hans
Hartung, Jackson Pollock. Nello stesso anno propose una collettiva cui parteciparono anche Jean Dubuffet e
Jean Fautrier. L’anno successivo pubblicò Un Art Autre, un volume excursus su quelle tendenze artistiche di
radicale rottura con ogni tradizione che già dagli anni ’40 percorrevano l’Europa. Informale dunque significa
assenza di forma. Cos’è la forma? Nella realtà sensibile si definisce forma tutto ciò che si può delimitare
tutto ciò che, tramite un contorno, può differenziarsi dalla realtà circostante. L’arte astratta, soprattutto
quella di sorgente geometrica, si organizza in forme. Forme che possono non derivare dalla natura sensibile
ma scaturire dall’immaginazione dell’artista rimanendo comunque forme.

Hans Hartung (Lipsia 1904 – Antibes 1989)

Hans Hartung, nel 1935, per evitare le persecuzioni naziste nei confronti della cosiddetta arte degenerata,
lasciò la Germania e si trasferì a Parigi, dove visse in grandi ristrettezze. Nel 1939 si arruolò nella Legione
Straniera. Di nuovo in Francia nel 1942 si rifugiò in Spagna dove fu arrestato e incarcerato. Dopo la
liberazione, raggiunse l'Africa del Nord e alla fine del 1942 si arruolò nuovamente nella Legione Straniera.
Combatté in Tunisia e sbarcò in Francia il 1º ottobre 1944 – i suoi cinque anni di guerra li fece tutti. A
novembre fu ferito gravemente nel tentativo di trascinare un camerata ferito entro le proprie linee.
Evacuato, fu amputato della gamba destra. Naturalizzato francese nel 1946, fu decorato della Croce di
guerra, della Medaglia militare e della Legione d’onore. Nel 1945 riprese l'attività pittorica interrotta a

24
causa del conflitto. Nel 1947 si tenne a Parigi la sua prima personale. Dopo le tragiche esperienze della
guerra, che lo condussero in un campo di concentramento e dopo all’amputazione di una gamba, riprese la
sua ricerca artistica già in precedenza volta all’astrazione caratterizzata da taches di colore e tracciati
segnici. Esordì dunque nel 1945 con una pittura violentemente gestuale che ha come unico protagonista un
segno intensamente espressivo e doloroso simile ad una sciabolata, prevalentemente nero oppure a graffio
su fondi scuri o azzurri. Se nelle prime opere evidenziò aderenza con l'arte non figurativa, caratterizzata da
elementi espressivi astratti, nel secondo dopoguerra sviluppò una ricerca informale sulla pittura basata sul
valore del 'segno', sulla miscela di spontaneità e di controllo, di spunti grafici e pittorici.

- Hans Hartung, Senza titolo, 1922, Fondazione Hartung Bergman (Antibes) – deve molto a Kandinsky
in queste sue prime opere.
- Hans Hartung, Senza titolo, 1922, Fondazione Hartung Bergman (Antibes)
- Hans Hartung, Senza titolo, 1949, Fondazione Hartung Bergman (Antibes) – qui siamo al di là del
baratro. La guerra ha inciso molto sul suo vissuto: l’ha combattuta tutta e ne è rimasto ferito anche
fisicamente. Che questa poi sia pittura informale non c’è dubbio: ogni tipo di forma è perduta. Ce lo
trasmette attraverso queste drammatiche sciabolate, che hanno impresso la sua carne. Che questa
poi sia pittura informale non c’è dubbio: ogni tipo di forma non c’è, è perduta. Così come la sua
scelta profondamente segnica lo va ad avvicinare alle declinazioni americane dell’arte informale, il
predominare più che della materia del segno. La pittura con lui va a descrivere l’umanità e
l’eternità. Si intravede nelle sue opere la carne ferita e mai risarcita. La sua straorinaria pittura va a
cercare la scrittura e la scrittura si va a esaurire nell’atto stesso dello scrivere. Ancora una volta
l’uomo si sottrae e si fa strumento delle nuove scritture.
- Hans Hartung, Senza titolo, 1950, Fondazione Hartung Bergman (Antibes)
- Hans Hartung, Senza titolo, 1952, Fondazione Hartung Bergman (Antibes)
- Hans Hartung, Senza titolo, 1955, Fondazione Hartung Bergman (Antibes)
- Hans Hartung, Senza titolo, 1955, Fondazione Hartung Bergman (Antibes)
- Hans Hartung, Senza titolo, 1955, Fondazione Hartung Bergman (Antibes)

Parigi fu indubbiamente il centro e la culla dell’informale il cui principale teorico fu, come abbiamo
detto, il critico Michel Tapié e dove si tennero nel breve volgere di due anni quattro mostre epocali
(Wols, Dubuffet, Fautrier e Hartung). Tapié pubblicò nel 1952 Un Art autre, principale excursus di
fermenti che al momento all’apice e già conclusi gettarono il seme di una vera e propria rinascita
artistica europea e non solo. Fu il movimento Informale, come abbiamo detto, non tanto un
movimento organizzato quanto una vasta galassia di artisti accumunati dall’urgenza del rifiuto della
tragedia della guerra, una guerra che con i suoi indicibili lutti aveva scavato un baratro insuperabile
nelle coscienze europee. Certamente affratellati dal comune sentire di stampo fenomenologico ed
esistenzialista, essi provarono ad aggrapparsi alla realtà, una realtà che potesse teoricamente
prescindere dalla esperienza umana. Come scriveva Sartre: «L’esistenza si era improvvisamente svelata.
Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose»; Tutto è
pieno, esistenza dappertutto, densa, pesante e dolce», e qui par di vedere la pulsante materia di
Fautrier. Questo è il senso dell’esordio dell’informale. L’informale non è solo tracciare un’opera senza
forma, ma è la materia stessa delle cose. La gestualità insita nel tracciare il segno, nello stendere il
colore, nell'incidere, graffiare, tagliare, ferire o bucare la materia, non risponde ad una volontà
dell'artista di rappresentare alcunché, ma è l'opera che, ribaltando il vecchio rapporto, vuole essere
"altro" dalla realtà che la circonda, vuole essere realtà indipendente essa stessa, testimone del fare e
dell'essere dell'artista. L’opera d’arte si fa esistenza. Essa vuole rientrare nel vasto incessante eterno

25
brulichio della vita - non vuole rappresentare null, l’uomo non è al di dietro di essa ma è uno
strumento. Essa agisce per la medesima esistenza che anima le forme tra vita e non vita che popolano
l’immaginario di Wols: vuole entrare nel grande flusso dell’esistere. La materia appare quale realtà
completamente autonoma, oggetto-soggetto di un'arte autosufficiente in sé, che si presenta in primo
piano, eliminando qualsiasi rappresentazione che non sia quella di se stessa in tutte le sue
caratteristiche di fisicità spazio-temporale.

Riprendiamo dunque Pollock, e Kline , non volendo trascurare il lavoro di De Kooning che, con Women,
manifesta una carica di violenza frammentata che ha l’effetto di deflagrare il normale rapporto tra forma e
contenuto. Artisti rappresentativi di quel movimento conosciuto come arte d’azione o action painting che
possiamo certamente riconnettere alla galassia dell’Informale, del quale vi ricordo l’assunto centrale: il
rifiuto di qualsivoglia forma. Gli artisti dell’action painting hanno aggiunto a questo assunto fondamentale
una vitalità assertiva ignota alle macerazioni esistenzialiste degli informali francesi e europei. Questa è la
grande differenza tra europei e americani. Gli americani hanno una volontà assertiva, e non di sottrazione.
La sottrazione non appartiene alla sensibilità statunitense, semmai gli può appartenere l’idea di fare
dell’arte un oggetto autonomo e vitale nei confronti del suo stesso artefice. Gli apparterrà l’ambizione a
essere nel ciclo vitale in quanto opera d’arte.

Willem de Kooning

- Willem de Kooning, Woman I, 1950-1952, MoMA (New York) – questo è il ciclo che portò l’artista
alla fama internazionale. E’ evidente la sua strategia di destrutturazione fino alla dissoluzione
dell’effige umana. Adotta una pittura come Hartung sciabolata, una sorta di riscrittura, che se per
Hartung è del mondo quella di de Kooning è della figura femminile.
- Willem de Kooning, Woman II, 1952, MoMA (New York)

Pollock si era affermato come astro nascente della nuova arte americana già nel 1943 nell’occasione della
prima mostra organizzata da Peggy Guggenheim. Tra il 1947 e l’anno della morte in un incidente per uso di
droghe e alcol (1956), in soli 10 anni, l’artista definì con consapevolezza la propria arte allontanandosi dalla
matrice surrealista. Concepiva i suoi lavori come dettati da impellente necessità creativa. Il caso, il Rischio,
le azioni e i gesti fisici sostituirono del tutto l’interesse surrealista per i sogni o per l’inconscio. Se l’inizio è
quasi per tutti questi artisti surrealista, almeno nello sviluppo estetico, lo sviluppo è decisamente diverso.

- Jackson Pollock, Blue Poles Number 11, 1952, National Gallery of Australia (Canberra)

«Quando sono "nel" mio dipinto, non sono cosciente di ciò che sto facendo. È solo dopo una sorta di fase
del "familiarizzare" che vedo ciò a cui mi dedicavo. Non ho alcuna paura di fare cambiamenti, di distruggere
l'immagine, ecc., perché il dipinto ha una vita propria. Io provo a farla trapelare». Si ritorna al dipinto
avente una vita propria: fa parte di un incessante brulichio di vita: l’artista non conta. «È solo quando perdo
il contatto con il dipinto che il risultato è un disastro. Altrimenti c'è pura armonia, un semplice dare e
prendere, ed il dipinto viene fuori bene.» Come lo sciamano entra in contatto con la vita dello spirito,
L’artista sciamano suscita l’opera, ma l’opera vive in modo indipendente. L’opera non gli appartiene per
nulla: deve solo far uscir fuori la vita dell’opera d’arte. L’arte informale da Debuffet ha interesse, come per
Pollock, per le arti primitive. E’ sempre il solito modo per sottrarre l’uomo con la sua centralità umanistica,
è sempre lo stesso pensiero che soggiace.

Franz Kline (Pennsylvania 1910 – New York 1962)

26
Kline negli anni ’40 entra in contatto con Pollock e con De Kooning di cui fu amico. Aderisce alla corrente
astratta. De Kooning, affascinato dai suoi meticolosi disegni, lo consigliò di proiettarli sulla parete e Kline fu
affascinato dal risultato di sradicamento totale: «… un disegno nero di quattro per cinque pollici di una
sedia a dondolo… delineato da grandi pennellate nere che sradicano ogni immagine e si espandono in
entità a sé stanti, non relazionate ad alcuna altra entità se non quella della loro stessa esistenza.» L’effetto
è totalmente straniante e il piccolo disegno perde qualsiasi identità originaria: l’opera sfugge a ogni volontà
programmata dell’artista, gli sfugge dalle dita ed è completamente autonoma. All’inizio degli anni
cinquanta Kline lascia ogni colore e si dedica a opere di grande formato in bianco e nero. Inventa una sorta
di titanica scrittura che sradica ogni possibile forma e che non si può mettere in relazione con la realtà
sensibile. Rapidi gesti calligrafici cui alla fine della sua vita aggiungerà il colore. Interrogato in merito al
colore rispose:«Voglio sentirmi libero di dipingere a colori o in bianco e nero. Inizialmente dipingevo a
colori e, infine, sono arrivato al bianco e nero a forza di coprire il colore. Poi ho iniziato con il solo colore il
bianco e niente nero poi colore e bianco e nero.»

- Franz Kline, Senza titolo, 1952, Metropolitan Museum (New York) - La dissoluzione di qualsiasi
pregressa idea di forma è totale. Non c’è nessuna forma, non c’è aggancio ad alcuna entità
sensibile, ma non è astrazione. Non è un processo di astrattivo che toglie da. Qui non astrae proprio
nulla, si tratta di un processo molto più radicata secondo cui l’opera è totalmente sradicata da ogni
possibile immagine sensibile, è completamente altro.
- Franz Kline, Riflessi neri, 1959, Metropolitan Museum (New York)

ESPERIENZE ITALIANE

L’esigenza di eliminare sia i retaggi figurativi sia le sovrastrutture formali e di attingere senza mediazioni
intellettualistiche a una forza creatrice ingenua, libera e primordiale originò la costituzione del gruppo
Origine (Burri, Capogrossi, Colla e Ballocco). Il gruppo ebbe vita brevissima ed una sola mostra, ma fu molto
importante per definire temi importanti per l’informale in Italia: la volontà di liberare la ricerca artistica non
figurativa dalle pastoie del formalismo per conferirle una nuova dimensione spirituale e condurla verso
nuove soluzione comunicative. Fu anche un occasione straordinaria per l’arte italiana di essere
perfettamente in confronto e in contemporaneità con l’arte internazionale. L’informale italiano ha
comunque una sua declinazione differente sia dall’action painting sia dall’esistenzialismo francese.
Conserva comunque memoria del nostro grande passato - non è possibile per un artista italiano sradicarsi
fino in fondo dalla sua cultura, se ne sentirà sempre la sua filiazione, e questo appartiene a tutti i
movimenti culturali del nostro paese.

Particolarmente significativo nel gruppo Origine è il caso di Alberto Burri.

Alberto Burri (Città di Castello 1915 – Nizza 1995)

Alberto Burri è andato soldato in guerra, è un medico ed esercita la medicina nell’esercito italiano fascista e
viene fatto prigioniero dagli americani. Viene condotto in un campo di prigionia in Texas. Siccome non
abiura all’ideologia fascista e ci starà per un po’ di tempo. Dopo rientra in italia e sarà il momento della sua
arte. Ritorna a Roma negli anni 46-47, siamo negli anni di Fautrier e Debuffeau. Viene con un viaggio a
Parigi a contatto con contaminazioni e idee che percorrono la cultura europea. inizia a sperimentare la
materia: sabbia, pietra, pomice e altri materiali – se il movimento informale è pittura, mille volte pittura,
l’opera di Burri è pittura all’ennesima potenza. Con i Catrami e le Muffe e poi con i bianchi e neri la materia
assorbe completamente la giustapposizione tra piani e sfondo, generando rapporti spaziali tra forme che
nascono unicamente dalla relazione tra le specifiche qualità delle sostanze impiegate (opacità, brillantezza,
27
trasparenza, levigatezza). Già nelle prime opere materiche lascia a vista zone di tela, quasi un antefatto dei
Sacchi dove pezzi di tela logora assurgono a immagini autonome e caricano l’opera di valenze espressive e
metaforiche per il bagaglio di vissuto e di storia che portano con sé.

I sacchi sono pezzi di sacchi di juta, utilizzati anche nei tempi della seconda guerra mondiale, che Burri
utilizza per la loro consistenza materica e per la loro capacità di farsi pittura. Ma un sacco prima di essere
fatto pittura ha una vita propria, che non perde nel momento di fare arte, conserva quindi la sua memoria.
Conserva anche la memoria della guerra da medico militare: quante bende avrà visto, macchiate di sangue?
Non sarà per caso che la sua memoria vada a comporre le sue opere materiche? In più Burri è di Città di
Castello, nella terra di Piero della Francesca – tra loro vi è un contatto imprescindibile. Inoltre, per
sottolineare il suo attaccamento a questo luogo, non solo a città di castello vi è nato, ma qui ha voluto la
sede della maggior istituzione a lui dedicata. Ciò è caratteristica fondamentale della particolare
declinazione informale italiana – difficilmente gli artisti italiani possono azzerare l’atavico rapporto con
storia e memoria. Alla metà degli anni ’50 Burri introduce nella prassi operativa il fuoco e se ne serve per
imprimere nei suoi nuovi materiali - il ferro e il legno - segni indelebili, simili a cicatrici. Estende poi le sue
combustioni al cellophan e alla plastica. Alla metà degli anni ’50 Burri introduce nella prassi operativa il
fuoco e se ne serve per imprimere nei suoi nuovi materiali - il ferro e il legno - segni indelebili, simili a
cicatrici. Estende poi le sue combustioni al cellophan e alla plastica.

La seconda mostra personale (Bianchi e catrami) di Alberto Burri si tenne a Roma nel 1948. Egli presentò
per la prima volta la sua produzione astratta. Nel medesimo anno si recò a Parigi e conobbe Alberto
Magnelli, artista italiano ma parigino d’adozione, entrando a contatto con la Galleria René Drouin, il centro
più avanzato al momento per la nuova stagione artistica dell’informale.

- Alberto Magnelli, Collage, 1948


- Alberto Burri, Nero 1 (catrame), 1948, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello) – molto
dipendente da Magnelli. Catrame significa che utilizza il catrame, introduce in maniera assertiva
materie non afferenti alla prassi pittorica, usa materie altre. Nemmeno gli americani o i francesi,
che usano impasti materici, arrivano all’uso radicale di materie insolite che fa Burri. Ma Burri
rimane un gran pittore, non dipinge di pennello ma ha un forte senso del colore. E’ completamente
cosciente dell’arte che lo ha preceduto, che è nella particolarità Piero della Francesca.
- Alberto Burri, bianco, 1952, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello)– introduce qui le
concrezioni materiche che lo porteranno ai cretti.
- Alberto Burri, Primo sacco SZ1, 1949, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello) - ancora
dipendente da una composizione astratta piuttosto che informale. Informale è qualcosa che non ha
forma e quindi non delimitata, mentre la composizione astratta ha forme ben delimitate. La cosa
che ci interessa in questa opera è che lui utilizza il sacco. Questi sono davvero sacchi probabilmente
utilizzati per il trasporto di merci.

Nel 1950 appaiono le Muffe e i Gobbi. Le Muffe sfruttano le efflorescenze prodotte dalla pietra pomice
combinate alla tradizionale pittura ad olio. I Gobbi invece sono delle estroflessioni della tela ottenute con
rami di legno posti sul retro. Si comincia ad andare verso un qualcosa che non è più bidimensionale, ma
cerca di essere bidimensionale e tridimensionale allo stesso tempo

- Alberto Burri, muffa, 1951, Tornabuoni Arte (Firenze)


- Alberto Burri, Rosso Gobbo, 1955, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello)

28
- Alberto Burri, Sacco 5P, 1953, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello)– la memoria di quella
che è stata la sua prigionia ma anche della sua azione di medico nell’esercito italiano è evidente.
Passare poi da questa memoria dolorosa a farne attività di pittura non è un passaggio così semplice
e immediato. Burri, dal primo sacco quattro anni prima, un sacco delimitato, non informale, arriva
qui ad uno completamente informale.
- Alberto Burri, Sacco B, 1953, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello) – qui è polimaterico, ha
anche una superficie retrostante. Burri si sta allontanando dalla sola immagine bidimensionale,
perché sta sperimentando il rapporto con il fondo, che non è più soltanto un rapporto occasionale,
un luogo in cui la materia si andava aggregando, ma una parte chiave e attiva della composizione.

Nel 1952 partecipa alla fondazione del gruppo Origine con Mario Ballocco, Giuseppe Capogrossi ed Ettore
Colla. Partecipa alla prima mostra del gruppo, che si sciolse nel 1953. Il gruppo Origine entrerà a far parte
della vasta galassia degli Informali europei dopo che Michel Tapiè manifestò interesse per le ricerche degli
artisti italiani.

- Giuseppe Capogrossi, Superficie 141, 1955, GAM (Torino)


- Ettore Colla, Ostaggi (omaggio a Fautrier), 1956, GAM (Torino) – sostiene la ricerca tridimensionale
che anche Burri andava cercando: sono legni vissuti sottratti alla loro lenta mutazione giustapposti
con un ovale a levare che evoca l’ostaggio, la cui impronta ricorda ricorda l’impronta nel muro di
Fautrier. Interessante vedere come in un brevissimo arco di 10 anni anni si creano tutte queste
connessioni.
- Alberto Burri, Sacco Nero, 1954, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello)

Gli anni ‘60 sono quelli dei ferri e delle plastiche, quando introduce il fuoco per la deformazione del
metallo. Il fuoco viene scoperto da Burri come uno strumento di sottrazione dall’essere umano, non utilizza
più alcun mezzo che sia umano ma utilizza, appunto, il fuoco.

- Alberto Burri, Grande Ferro, 1961, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello)
- Alberto Burri, Rosso Plastica, 1964, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello) - La plastica bruciata
si accartoccia e altera la sua sostanzialità materica a contatto con il fuoco.

Anni ’70 sono gli anni dei Cretti e dei cellotex. Il cretto è una materia di dimensione imponente, che
abbandona assolutamente il supporto tradizionale, la tela. Già burri era attratto dalla possibilità di passare
alla tridimensionalità, e con i cretti vi si avvicinerà sempre di più. I cretti sono una sorta di sudari che lui
stende su realtà solitamente profanate. Si originano da una miscela di collanti vinilici e altri materiali e
vennero esposti per la prima volta nel 1973. Nel 1975 espose nel convento di San Francesco d’Assisi per la
prima volta i cellotex, materiale dell’edilizia trattato con colla e segatura di legno. Negli anni ‘70 Burri si
avvicinò ad opere di grande dimensione. Nel 1976 crea un Cretto di imponenti dimensioni, il Grande Cretto
Nero, esposto presso l’università di Los Angeles, mentre uno analogo verrà esposto a Napoli nel Museo di
Capodimonte. L’intervento più significativo fu quello del Cretto di Gibellina, un grande sudario di cemento
steso sui resti di Gibellina, distrutta da un sisma. I lavori iniziarono nel 1985 ma furono interrotti nel 1889 e
l’opera non fu terminata. Risalgono al 1979 i Cicli, monumentali composizioni pittoriche dal 1990 esposte
permanentemente negli ex seccatoi del tabacco di Città di Castello.

- Alberto Burri, Nero Cretto G4, 1975, Fondazione Alberto Burri (Città di Castello)
- Alberto Burri, Bianco Cretto, 1977, collezione privata
- Alberto Burri, Grande Cretto Nero, 1976, Museo di Capodimonte (Napoli) – ancora in bilico tra
bidimensione e tridimensione
29
- Alberto Burri, Grande Cretto di Gibellina, 1985-1989, Gibellina – Gibellina, un borgo nell’entroterra
siciliano, fu devastata da un sisma gravissimo che la ridusse in briciole. E Burri in una delle prime
esperienze di land art ha steso sui resti di Gibellina un sudario in cemento che è una sorta di grande
cretto.

La pittura di Alberto Burri copre un arco di cinquant’anni esatti, dal 1945, data delle sue prime prove, al
1995, anno di morte. La produzione astratta si può suddividere in due grandi blocchi: nel primo la superficie
dei dipinti, accidentata e irregolare, a volte scoscesa, mette in evidenza la vita delle diverse materie (i
sacchi, i legni, i ferri, le plastiche) con le loro crude superfici; nel secondo diventa più livellata e regolare,
intrecciando al colore, che può assumere un ruolo esclusivo, le trame della materia: assunte ora soltanto
nel loro valore di vibranti tonalità e non già nella drammaticità dei loro movimenti, queste si presentano
più uniformi, pur nel loro aspetto ruvido o poroso. Dagli anni Settanta, con i Cretti, i Cellotex e i Cicli Burri
esperimenta le grandi superfici. Ma non muta il senso dello spazio che è presente sino dalle Muffe dei primi
anni Cinquanta, tormentate e macerate come il grande sudario di Gibellina.

Burri, Capogrossi e Lucio Fontana con gli Spazialisti introducono l’Italia all’interno di una rete di rapporti
internazionali fatta di artisti, critici d’arte e galleristi, partecipi di un rinnovamento che investe la
concezione stessa dell’arte e del suo ruolo all’interno della società. Come già detto, Michel Tapié organizza
nel 1951 Véhémences confrontées (il primo confronto in Francia della pittura non figurativa americana,
italiana e di Parigi) e a rappresentare l’Italia c’è Capogrossi, e per intero il manifesto del gruppo Origine. Nel
1952 Tapié pubblica Un art autre in cui Capogrossi, Fontana e Dova sono considerati tra i protagonisti
internazionali della straordinaria avventura dell’art vivant (totalmente e appassionatamente vissuta nella
realtà, non nelle biblioteche). Il 1952 è anche l’anno della prima personale di Pollock a Parigi. Tapié, molto
interessato al lavoro di Fontana, entra in contatto con l’ambiente milanese della galleria il Naviglio di Carlo
Cardazzo che, oltre a sostenere lo Spazialismo, è il primo gallerista in Europa a dedicare una personale a
Pollock. Nel 1950 Cardazzo espone opere di Pollock di proprietà di Peggy Guggenheim già al Museo Correr
di Venezia, per la prima mostra dell’artista americano in Europa. Nel 1948 la mecenate americana aveva
presentato la sua collezione a Venezia aprendola poi al pubblico già del 1951. Dunque l’Italia si apre a
contatti con la scuola di New York prima di ogni altro paese europeo. La sede veneziana di Cardazzo apre a
Tapié che introduce Dubuffet, Mathieu, Matta, Riopelle, Serpan. Alla fine del decennio Tapié, che risiede a
Torino, apre al gruppo giapponese GUTAI. Tra le molte correnti internazionali attive in Italia non bisogna
dimenticare il gruppo CO.BR.A. , formato da artisti volti ad espressioni astratte, tra i quali coloro che si
riconoscevano nel manifesto della pittura nucleare e tra questi ultimi Enrico Baj. I Nucleari espongono nel
1951 a Milano. Nel frattempo Milano, quindi, si è trasformata nella capitale dell’arte italiana, e questo
accade con l’arrivo di Lucio Fontana.

Lucio Fontana (Rosario 1899 – Varese 1968)

E’ un personaggio fondamentale per l’evoluzione arte del secondo ‘900. Definirlo informale o non informale
è una questione ancora aperta, ma la maggior parte della critica lo vede appartenere all’arte informale,
soprattutto per l’importanza insita nelle sue opere e dei suoi elementi materici, gestuali o segnici. Se
volessimo riassumere, l’informale si divide quindi in: MATERIA (Debouffet, Fautrier, Burri) e SEGNO
(Arthung, Klein, Pollock (materia e segno)).

Ma molto diversi sono i presupposti, poiché gli artisti del manifesto Blanco, il primo nome che Fontana da
al manifesto dello Spazialismo, sia nella prima redazione del 1946 sia nelle successive dal 1947 al 1952, si
muovono verso un’arte propositiva assai lontana dall’esistenzialismo nichilista dei francesi (Dubuffet e

30
Fautrier) e dal pensiero di Wols. Gli Spazialisti intendono un’arte che, superato il positivismo, acceleri verso
la creazione di un nuovo linguaggio attraverso il quale possa incidere in un mondo in rapida evoluzione. E’
assertivo: la possibilità di creare un nuovo mondo esiste, e anzi, è questo lo scopo del sodalizio. Lo
Spazialismo, codificato per la prima volta a Buenos Aires nel 1946, avanza intenti di: «rottura con l’arte
occidentale, abbandono di forme di arte conosciuta per giungere a un’arte basata sull’unità del tempo e
dello spazio, una sintesi tra elementi fisici: colore, suono, movimento, tempo, spazio». Quindi la creazione,
reale, sensibile, di un altro mondo. Lucio Fontana a Milano nel 1947 presenta il manifesto. Si aprono
dibattiti incessanti e lo Spazialismo diventa una piattaforma di confronto tra idee e proposte, tra chi, nella
sostanza, rimane legato al quadro o alla scultura anche se con forte accelerazione gestuale o segnica, e tra
chi invece – lo stesso Fontana – si volge ad attività radicalmente innovative che si traducono nel rifiuto
dell’idea stessa di rappresentazione dello spazio, sia in pittura che in scultura e nell’affermazione del gesto
come atto di creazione dello spazio medesimo. Nel 1949 Fontana realizza Ambiente spaziale a luce nera
presso la galleria il Naviglio. Al centro della sala, completamente rivestita di teli neri, appende un elemento
scultoreo astratto dipinto con vernici che reagendo con la lampada di Wood si accendono trasformando
l’ambiente in una scultura di luce. Non siamo di fronte a un oggetto, ma ad un concetto. E qui le cose vanno
cambiando profondamente.

- Ambiente spaziale a luce nera, 1949, Galleria il Naviglio (Milano) – evento che poi è stato
riproposto nell’Hangar Bicocca nel 1949. Non è più bidimensionale, ma neanche tridimensionale: si
va a proporre uno spazio, un luogo altro dove proporre la nostra esperienza. Si presuppone che
l’arte possa creare universi paralleli e alternativi totalmente assertivi.
- Lucio Fontana, Concetto Spaziale al neon, 1951, IX triennale di Milano– la stessa cosa fa qui.
Fontana scrive a proposito di Concetto Spaziale al neon: «abbiamo semplicemente sostituito al
soffitto decorato un nuovo elemento entrato nell’estetica dell’uomo della strada, il neon. Abbiamo
creato con questo spazio una fantastica decorazione nuova». Si tratta della concretizzazione di un
gesto che si traduce in segno per definire uno spazio. I Concetti spaziali sono: «la scoperta che il
cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito: allora io buco questa tela, che era alla base di tutte le
arti e ho creato una dimensione infinita».
- Lucio Fontana, Soffitto Spaziale, buchi e segmenti di neon (realizzato per il cinema del padiglione
Sidercomit, Finsider, nella XXXI Fiera di Milano nel 1953 dell'architetto Luciano Baldessari)

Con i Tagli nel 1958 Fontana compie il passaggio fondamentale, il taglio: non si tratta di un gesto istintivo o
casuale, ma di una operazione calibrata, con la quale l’artista segna uno spazio assoluto che è la superficie
della tela monocroma. Sempre meno quadro e più campo mentale, i Tagli creano uno spazio filosofico e
concettuale in cui l’uomo, libero dalla materia, appartiene alla vastità del futuro.

- Lucio Fontana, Via Crucis – stazione VII: Gesù cade per la seconda volta, 1955-1957, Fondazione
Fontana (Milano) . ma Fontana non è solo stato l’artista dei concetti spaziali, ma anche
straordinario ceramista. Ha perfettamente presente la cultura barocca, la tradizione artistica
italiana, e in particolare Bernini e Borromini e questo concorre anche ai tagli.
- Lucio Fontana, Concetto Spaziale – Attese, 1959, Fondazione Fontana (Milano) – la tela tagliata può
andare oltre, in uno spazio nuovo che non esiste e io posso creare
- Lucio Fontana, Concetto Spaziale – Attese, 1960, Fondazione Fontana (Milano)

Arriviamo all’ultima esperienza di Fontana, che consiste in telai ovali della stessa dimensione che si
distinguono per le costellazioni di "buchi"e/o squarci e/o graffiti che in alcuni casi interessano solo
parte della tela monocroma, in altri ne caratterizzano tutta la superficie ricoperta di colore ad olio (a
31
volte anche da lustrini). La cosa che commuove è che lui è arrivato proprio all’ennesima, ultima,
spiaggia alla fine del suo percorso vitale e questo si percepisce. Questa serie di lavori è chiamata "La
fine di Dio" dallo stesso Fontana che così le spiega a Carlo Cisventi, in un'intervista del 1963: «Per me
significano l'infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla».

- Lucio Fontana, Concetto Spaziale – la Fine di Dio, 1963, Fondazione Fontana (Milano)

MOVIMENTO MINIMALE (e concettuale)

Il termine Minimal Art fu coniato dal filosofo inglese Richard Wollheim nel 1965 in un articolo pubblicato
sulla rivista Arts Magazine in riferimento ad opere in cui egli ravvisava un «contenuto artistico minimo»,
una radicale riduzione del lavoro fisico manuale, componente da sempre ritenuta fondamentale nella
creazione artistica. Wollheim non prese in esame soltanto i contemporanei Andy Warhol, Roy Lichtenstein
o Robert Rauschenberg, che normalmente ascriviamo alla Pop Art, altro centralissimo movimento artistico
statunitense, o Ad Reinhard – che del minimalismo fu precursore assieme a Barnett Newman - bensì risalì
indietro sino ai Readymade di Duchamp dei quali parleremo approfonditamente nel corso della prossima
lezione, e alla pagina bianca di Mallarmé.

Le avanguardie sono precursori di ogni movimento successivo e questa sorgente va avanti. Un’ avanguardia
in particolare è stata fondamentale per l’arte minimale: il movimento Dada. Il teorico del movimento Dada
è Marcel Duchamp, che inventa il ready made, la “cosa che già c’è”. E così fece un passaggio concettuale
straordinario.

Marcel Duchamp (1887 – 1968)

- Marcel Duchamp (R. Mutt), Fontana (Urinoir), 1917, Centre Pompidou (Paris) - In questo momento
preciso si firma con uno pseudonimo, Mutt. L’urinatoio ha più versioni: l’originale che lui scelse
ironicamente non c’è più. In realtà quasi tutti gli oggetti originali che lui presentò sono andati
perduti, ma ciò non conta, anzi è nell’ordine di pensiero di Duchamp. L’orinatoio è l’idea Dada per
eccellenza, che consiste nel prendere l’oggetto più comune, perlopiù neanche tanto nobile, data la
sua funzione, e metterlo in una galleria d’arte: in questo modo questo oggetto può diventare
un’opera d’arte. Un’operazione sicuramente concettuale e minimal. Gioca sottilmente con le
definizioni di arte: con questo oggetto, infatti, si chiede cosa sia realmente un’opera d’arte – da
ricordare che è il 1917, l’anno in cui il mondo è andato profondamente in crisi, e inizia a chiedersi il
perché di tutto affondando le mani nei grandi concetti che avevano sostenuto l’umanità fino a quei
giorni. Questa provocazione incredibile nel 1917 farà cambiare la visione di fare arte nel presente e
nel futuro: è la prima azione concettuale della storia dell’arte.

Individuare Duchamp come padre nobile del minimalismo americano è sicuramente condivisibile,
soprattutto nella radicale scelta di rinunciare del tutto, nei readymade non rettificati (quelli che non
contano assolutamente la mano dell’artista), all’intervento manuale dell’artista, riducendo così tutta
l’operazione creativa al valore intellettuale dell’azione.

Barbara Rose (1937), critico d’arte statunitense, nel 1965 scrisse un fondamentale contributo sul Minimal
dal titolo ABC art che fu pubblicato sulla rivista Art in America. Il minimal è un movimento statunitense
inscindibile dalla cultura americana poiché esce fuori dalla vasta galassia dell’action painting. Barbara Rose
non solo teorizzò il Minimal, ma lo visse in prima persona: era la moglie di Frank Stella. Concentrandosi
32
sulla situazione nord americana – dato che era in stretto contatto con esponenti di primo piano della nuova
corrente– individuò tra le fonti prime della nuova tendenza Duchamp, come abbiamo già detto, e Malevic
con Quadrato nero su fondo bianco.

- Kazimir Malevic, Quadrato nero su fondo bianco, 1915, Galleria Tret'jakov (Mosca) – due opere
fondanti del 20esimo secolo sono l’orinatoio 1917 e il quadrato nero del 1915. C’è un legame
fortemente imprescindibile tra loro e nessun artista è un fiore del deserto – è una questione di
fonti, di chi ci ha preceduto e di cosa stiamo vivendo. I minimalisti stessi hanno affondato le mani
nell’arte del primo Novecento.

Riprendendo in mano le affermazioni della critica Rose, oltre alle fonti propriamente artistiche, la
studiosa riflette su quelle letterarie e in particolare su un movimento letterario francese, il noveau roman,
di cui fu il massimo teorico Alain Robbe-Grillet. Già dall’esordio nel 1953, poco prima della definizione
oggettiva della Minimal art, il romanzo di Robbe-Grillet propone un profondo ribaltamento: l’attenzione
non è più volta al personaggio, bensì alle cose, e lo svolgimento non conta più sulle reazioni o azioni di
ciascun personaggio, bensì soltanto sulle percezioni, frantumate in una miriade di minuziosi particolari.
L’attenzione alle cose è un passaggio fondamentale: del resto anche Duchamp nel suo ribaltamento
terribile fa particolare attenzione alle cose, così come cose saranno quelle ricostruzioni che faranno i
minimal. E se non mi soddisfa più una cosa fisica ma mi basta pensarla si arriverà all’arte concettuale, che
pur essendo concettuale parte da una cosa. «Ora il mondo non è né significativo né assurdo.
semplicemente è… In luogo di questo universo di significati (psicologici, sociali, funzionali) si dovrebbe
provare a costruire un mondo più solido e immediato. Allora, sarà in primo luogo attraverso la loro
presenza che oggetti e gesti si imporranno e questa presenza continuerà a prevalere su qualsiasi
spiegazione che potrebbe circoscriverli in un sistema di riferimento, sentimentale, sociologico, freudiano,
metafisico.» Proviamo quindi a fare a meno di tutto ciò e vediamo se siamo in grado di muoverci solamente
attraverso gli oggetti.

Ovviamente Malevic, con l’operazione di azzeramento linguistico operata con Quadrato nero su fondo
bianco del 1915, è il primo sul quale dobbiamo riflettere, ma anche Vladimir Tatlin, padre del costruttivismo
russo, con i Controrilievi angolari del 1915 e Costantin Brancusi con la Colonna infinita del 1937 e la sua
reiterazione modulare senza limiti.

- Vladimir Tatlin, controrilievo d’angolo (bozza), 1918 – utilizza lamine e oggetti già fatti, derivanti
dall’industria. Una grammatica che diviene molto interessante per la minimal. La Minimal art non è
un manifesto come per le avanguardie ma un cappello letterario e critico sotto al quale vanno a
ripararsi collega artisti davvero diversi tra loro, ovviamente non è da prendere alla lettera ma come
una definizione che aiuta a inquadrarli.
- Constantin Brancusi (1876 – 1957), Colonna infinita, 1918, MoMA (New York) - Ha per Brancusi un
forte valore spirituale, che alla Minimal interessa assai poco, poiché è il suo tentativo di avvicinarsi
all’assoluto e a Dio. E’ composta da elementi modulari ripetuti fino a che non si arriva all’infinita
reiterazione di sé. Questo è un elemento cardine per la Minimal: reiterare un modulo compositivo
(possibilmente di origine industriale).
- Constantin Brancusi, Colonna infinita, 1937, Tirgu Jiu (Romania)

Pensare alle cose, inerti, non hanno bisogno di psicologia, esistono e basta, e questo dà ordine e
certezza nella seconda metà del ventesimo secolo. Una cultura del genere era già fondamente
radicata dell’America del Novecento.
33
Un ruolo di primo piano per la galassia del minimalismo ebbero anche artisti non specificatamente dell’arte
visiva, e tra questi vorrei citare la coreografa e danzatrice americana Yvonne Rainer per l’ossessiva
ripetizione di movimenti banali e nella musica La Monte Young. Si parla sempre di contaminazioni
importanti con altre esperienze artistiche, si sta scivolando anche verso espressioni come la body art, la
land art e la performance.

- Yvonne Rainer (1934), Trio A, 1978 – la coreografa e danzatrice gioca sulla ripetitività di movimenti
banali. La classicità non agisce nel gesto comune, mentre lei è proprio su quello che agisce, ripete
gesti quotidiani come moduli attraverso una semplicità estrema. In questa maniera io do ordine al
mondo, una sorta di ordine asettico, non emotivo, a cui voglio aspirare.
- La Monte Young, Composizione 7, 1960

Il minimalismo si caratterizza per l’antiespressività soggettiva, l’antiumanesimo, l’impersonalità, il distacco


emozionale, la freddezza, l’oggettualità e la fisicità dell’opera, la tautologia, la ripetizione, la serialità
meccanica e industriale. Questo è il minimalismo: il soggetto non c’è, esistono solo e soltanto le cose.
L’uomo, una componente variabile, non esiste nel minimalismo. Già nell’arte informale, del resto, avevamo
visto che doveva scomparire. Ma se nell’informale, come in Wols, c’è una sparizione sofferta, per la
tragedia che aveva vissuto, nel minimal non c’è questa sofferenza. L’attaccamento alle cose, inoltre, si
verifica anche nella vita reale: da qui una critica al consumismo, soprattutto in vigore in America. E no può
altro che nascere negli USA, in cui all’epoca ci fu davvero un prevalere delle cose. L’umanesimo in Duchamp
c’è ma è fortemente ironico, e questa ironia non la ritroviamo nei minimal.

Prima di addentrarci sui rappresentanti della corrente minimale, riprendiamo Barnett Newman (1905 -
1970). Fu tra gli artisti del Color Field colui che maggiormente influenzò le generazioni successive in quanto
rappresentò un ponte tra l’espressionismo astratto e la minimal art.

- Barnett Newman, Onemont 1, 1948, MoMA (New York) – Newman voleva dipingere l’assoluto
attraverso la semplificazione massima della superficie pittorica. In questo si affianca ai Minimal.
Ma, di cultura ebraica, conserva in sé il senso della trascendenza e della indefinibilità di Dio. Gli
ebrei dicono infatti che non si può rappresentare dio, secondo un pensiero aniconico. Per lui la
pittura è un evento sublime che trascende il caos e non necessita di rappresentazioni fossero anche
geometriche. In lui risiede quindi una forte componente spirituale che non è nota agli artisti della
Minimal. Il titolo di alcuni suoi lavori come Death of Euclid del 1947, Onement del 1948 e Abraham
del 1949 è fortemente indicativo. Già con la sua prima personale Newman andò chiarendo il centro
della propria estetica: voleva creare degli ideogrammi che potessero rappresentare direttamente le
idee poiché «la base di un atto estetico è l’idea pura». Qui siamo davvero in anticipazione piuttosto
che alla minimal all’arte concettuale. Fortemente incline al contenuto spirituale, Newman afferma
l’illimitatezza e il mistero dell’essere come appare nel lavoro Who’s afraid of Red, yellow and blue
IV.
- Barnett Newman, Who’s afraid of Red, yellow and blue IV, 1969-1970, Nationalgallerie Staatliche
Museum (Berlino) – vi troviamo un’estrema semplificazione e l’apparire dell’idea come pura e
assoluta, come se non ci fosse bisogno di fare altro.
- Barnett Newman, Abraham, 1949, MoMA (New York)
- Barnett Newman, Adam, 1951-1952, Tate Gallery (London)

Tra quelli che si ritengono tra i precursori del minimal e del concettuale vi è Ad Reinhart, insieme a
Newmann.
34
Ad Reinhardt (Buffalo 1923 - New York 1967)

A New York, dalla nativa Buffalo, studiò letteratura e storia dell’arte sotto la guida di Meyer Schapiro,
celebre storico dell’arte di formazione marxista. Dopo gli studi, lavorò per il Federal Art Project, sezione Arti
visive della Work Progress Administration (WPA), straordinaria emanazione del New Deal successiva alla
grande crisi del ’29. Il New Deal portò un grande risultato non solo economico ma artistico, perché gli artisti
furono richiamati alla ricostruzione del paese in seguito al crollo finanziario. Lo stato si impegnò nella
ricostruzione non solo morale ma fisica e da questa impresa pubblica è nata la successiva arte americana.
Alla WPA conobbe Willem de Kooning e Arshile Gorky. Terminato il lavoro al Federal Art Project, divenne
artista grafico, vignettista e reporter. Nel 1942 diventò membro del gruppo artistico American Abstract
Artists, con il quale esporrà per un decennio nelle maggiori gallerie d'arte di New York, tra cui la Peggy
Guggenheim Gallery. Dal 1947 all’anno della morte fu insegnante e proseguì la propria attività d’artista e
critico d’arte.

«L’unica regola dell’arte è la sua unità e la sua elevazione, la sua giustezza e purezza, la sua astrazione ed
evanescenza. L’unica cosa da dire riguardo all’arte è la sua mancanza di fiato, di vita, di gioia, di forma, di
spazio, di tempo.» Reinhardt voleva purgare l’arte da ogni scoria emotiva rendendola la più impersonale
possibile; auspicava una pittura che esprimesse se stessa e niente altro. Art as Art fu il suo credo, arte come
arte, perfetta tautologia.

Il suo lavoro influenzò profondamente i più giovani, coloro che si riconosceranno nella Minimal art. Attorno
alla metà degli anni ’50 cominciò a dipingere i suoi monocromi rosso/ blu e poi alla fine del decennio giunse
ai noti Black Painting, testure alla prima apparenza soltanto nere, e dalle quali dopo, adattando la vista,
emergono croci, quadrati e figure geometriche evanescenti ai limiti dell’invisibilità. Reinhardt riteneva che
l’unica strada percorribile fosse l’estrema riduzione del quadro (ricordiamo Malevic); l’arte come pura
tautologia di se stessa non può rappresentare assolutamente nulla al di fuori di sé; niente figure, niente
forma, niente colore. E così si apriva la strada verso l’arte concettuale. A forza di togliere rimane alla fine
l’arte come arte – è un grande movimento di definizione dell’arte: ci si interroga proprio su cosa sia l’arte,
domanda che ancora oggi persiste.

- Ad Reinhardt, Red painting, 1952, Met (New York)


- Ad Reinhardt, Black painting, 1962, Tate Gallery (London)

Possiamo dire che Malevic, Brancusi e Duchamp siano i pionieri dell’arte minimal e concettuale nei
tempi addietro. Nei tempi più vicini troviamo Reinhardt e Newmann. Iniziamo adesso a parlare
della minimal in senso proprio.

Frank Stella (1936)

Nato negli Stati Uniti da genitori italiani conobbe immediato successo e nel 1969 una mostra monografica
al MOMA lo consacrò. Si allontanò dall’espressionismo astratto, nell’ambito del quale si era formato.
Radicale fu la sua scelta di negare assolutamente sia il gesto che la figura, sia la materia. Con i Blacks
paintings (1959 – 1960), giganteschi quadri neri solcati da linee bianche aliene da soggettività alcuna
«basati sul fatto che in essi esiste solo ciò che si può vedere». Questi lavori con superfici trattate a smalto
acquisirono consistenza oggettuale, diventano cose, con spessori importanti della medesima dimensione
delle strisce.

- Frank Stella, Die Fahne hoch!, 1959, Whitney Museum (New York)

35
- Frank Stella, The Marriage of Reason and Squalor, 1959, Whitney Museum (New York

Carl Andre, altro artista minimal, nell’occasione della prima mostra di Stella al MoMa nel 1959, scrisse:
«L’arte esclude il non necessario. Frank Stella ha considerato ciò necessario per dipingere strisce. Non c’è
niente altro nei suoi dipinti. Frank Stella non è interessato all’espressione o alla sensibilità . È interessato
alla necessità della pittura. Il dipinto di Frank Stella non è simbolico. Le sue strisce sono le tracce del
pennello sulla tela. Queste tracce rimandano solo alla pittura». È una sorta di meccanica reiterazione del
concetto di pittura: l’artista non ha ruolo, non è uno strumento ma prende atto dell’esistrenza dell’oggetto
e la presa in atto è l’atto artistico . Tutto ciò senza però l’ironia, che invece troviamo in Duchamp.

Stella appoggiò la compagine minimalista e si pose come il vero ponte tra le superfici piatte
dell’espressionismo astratto e le nuove sculture. In opposizione al modernismo di Greenberg, che pur
movendo dal rifiuto di qualsivoglia esperienza personale sostiene il potere comunicativo delle arti, Stella
scrisse: «Solo riducendosi ai mezzi con cui attingono alla virtualità dell’arte, all’essenza specifica del proprio
medium, e solo evitando il più possibile il riferimento esplicito a ogni forma di esperienza data dai propri
media, le arti possono comunicare quel senso di esperienza irriducibile, concretamente percepita, nella
quale la nostra sensibilità trova la sua certezza fondamentale». Nel 1965 curò la rassegna Shape and
Structure esponendo con Flavin, Judd, Morris e Andre .

Carl Andre (1935)

«Ho incominciato creando forme, poi creando strutture, poi creando luoghi». Assistente di studio e amico
di Stella, nel 1959 progettò la Cedar Piece,quasi una trasposizione in tridimensionale dei Black paintings di
Stella, formalmente parlando.

- Carl Andre, Cedar piece, 1959-1964, Kunstmuseum (Basel) – è assolutamente un oggetto.

Andre non ha intenzione di trasfigurare la materia, bensì di mostrarla quale essa è, portando nella
tridimensionalità ciò che Stella fa nella bidimensionalità della pittura. Ammira Brancusi e ne condivide il
pensiero anche per la critica al piedistallo in scultura, poiché «il luogo è un piedistallo per il resto del
mondo». Ovviamente la scultura ha una storia tutta sua, fino ai primi del 900 ha una funzione celebrativa –
la vittoria in una guerra, l’affermazione di un’idea di nazione, e tutte hanno bisogno di un piedistallo . Con
le avanguardie ciò entra in crisi: non c’è più bisogno di celebrare alcunché. Nel 1960 progetta Element
Series, dove grosse travi di legno vengono usate come moduli costruttivi elementari. Henge on threshold
(Meditation on the year 1960) fa riferimento ai megaliti di Stonehenge.

- Carl Andre, Trabum (Element series), 1960, Peggy Guggneheim Museum (New York) – travi di tipo
industrial poste l’una sopra all’altra, oggetti in quanto tali. Appoggia ogni possibile certezza o
ancora all’oggetto. Le cose sono il nostro appiglio al reale che siamo costretti a vivere.
- Carl Andre, Henge on threshold (Meditation on the year 1960), 1971, Kroller-Muller Museum
(Otterlo) – omaggio a Stonhenge, luogo magico antico dei riti annuali astronomici.

Andre si è allontanato dalla verticalità della scultura realizzando lavori orizzontali, e per la prima volta
dichiaratamente site specific (con Lever): «tutto ciò che ho fatto è mettere sul pavimento la colonna infinita
di Brancusi». Dal site specific si anticipa la Land Art, che ha come coprotagonista il paesaggio, attore del
fare artistico. Dal 1968 inizia a realizzare sculture-pavimento: si tratta di un luogo-spazio dove ovviamente
si può camminare nell’esperienza quotidiana e producendo di conseguenza l’annullamento di ogni sacralità
36
e monumentalità alla scultura. La scultura era per definizione monumentale, era l’affermazione
dell’umanità: metto qualcosa nello spazio naturale e affermo così la mia essenza umana. Andre non dice
questo: appoggia il verticalismo a terra e sulla scultura posso camminare, sottolineando il fatto che la
scultura è una cosa.

- Carl Andre, Lever, 1966


- Carl Andre, sculpture '43 Roaring forty’, 1968, Kroller-Muller Museum (Otterlo)

Donald Judd (1928 -1994)

Iniziò la sua carriera artistica alla fine degli anni ’40 come pittore tradizionalista, poi dal 1961 realizzò
numerosi rilievi che combinavano elementi della pittura e della scultura. Dal 1963 cessò definitivamente di
dipingere, concentrando il proprio lavoro nello spazio e con lo spazio.

Lo sviluppo della sua produzione dal 1957 al 1963 ebbe luogo interamente a porte chiuse. Per oltre cinque
anni, infatti, Judd rifiutò di esporre in pubblico. In questo periodo era più conosciuto come critico d'arte che
come artista (v. saggio Specific Objects). Nel 1963, la prima personale di Judd fu ospitata dalla Green
Gallery di New York, nella quale espose cinque oggetti posti direttamente sul pavimento. La Green Gallery
fu davvero importante per le mostre della Minimal Art. Nel 1964 Judd iniziò a sfruttare il potenziale delle
tecniche di produzione industriale, creando così un'arte astratta e geometrica, dalla fredda eleganza, da cui
sembra essere stata bandita ogni soggettività, ogni firma personale. Il 1965 vide la comparsa dei suoi primi
Stacks, scatole di metallo fissate alla parete a intervalli identici che formavano una colonna verticale.

- Donald Judd, Untitled, 1967, MoMA (New York)

Le sculture possono essere combinate serialmente o meno, a seconda della volontà dell'artista. Alcune sue
creazioni sono state esposte con un numero diverso di elementi, a causa delle limitazioni dello spazio a loro
destinato. Apparentemente autonomi, i suoi oggetti non possono essere percepiti senza considerare il
rapporto con lo spazio che occupano e influenzano. Judd fu rigorosissimo nella sua estetica minimale,
privilegiando materiali industriali e forme elementari rettangolari per lo più organizzate nello spazio come
moduli seriali. Le sue strutture sono autoreferenziali , autonome in sé e coerenti all’insieme senza alcuna
gerarchia tra gli elementi (spazio espositivo e opera hanno tutte e due lo stesso valore). Ogni manualità
viene eliminata e i lavori vengono realizzati con tecnologie industriali per la massima impersonalità e
perfezione formale. Per Judd comunque l’oggetto è fondamentale e non viene secondo all’idea e il
carattere fisico dell’opera nella sua concretezza oggettiva e nelle relazioni spaziali è l’unico vero contenuto
artistico.

- Donald Judd, Untitled, 1977, Munster (Germania) – cronologicamente siamo in connessione con la
Land Art. lo spazio è assolutamente rilevante quanto l’opera.
- Donald Judd, Untitled sculptures, 1980-1984, Chinati Foundation (Texas)

Dan Flavin (1933 – 1996)

Utilizza per la sua opera tridimensionale il neon. Il comune tubo al neon è dal 1963 il modulo base di tutti i
lavori luminosi fluorescenti di Dan Flavin. Dopo aver realizzato, dal 1961 al 1963, Icons, quadri con agli
angoli o sui contorni delle lampadine, nel 1963 utilizza un neon in posizione diagonale, un lavoro che dedica

37
a Brancusi. Il neon è assolutamente un prodotto industriale, reiterabile quando si vuole, è una cosa ed ha
una qualità luminosa fortemente di interesse.

- Dan Flavin, Icons, 1963, Dan Flavin Art Institute (New York) – le sue prime esperienze di crezioni
luminose.

Da lì in poi il neon diviene strumento compositivo fondamentale con schemi compositivi molto semplificati.
L’artista non pensa ai suoi lavori come ambienti e neanche come sculture, ma come installazioni di spazio-
luce caratterizzate dalla presenza letterale sia dell’artefatto fisico (il tubo come oggetto) sia della luce
fluorescente, che in un primo momento sembra annullare la fisicità del tubo per poi farla risaltare in una
dimensione estremamente suggestiva. L’oggetto, che è la mia grammatica di artista minimale, è un tubo a
neon, indubbiamente neutro nel suo rapporto con l’essere umano. Nel momento in cui si accende la sua
consistenza di oggetto potrebbe svanire: vedo semplicemente della luce. Questo gioco tra oggetto e
oggetto dissolto dalla luce crea forte suggestione.

- Dan Flavin, Untitled, 1996, The Menil Collection (Houston)


- Dan Flavin, Untitled
- Dan Flavin, It is what it is, and it ain't nothing else (è quello che è e nient’altro)

Dapprima attribuisce significati spirituali alla luminosità irradiante dei suoi lavori, poi avvicinandosi ai lavori
di Tatlin e di Stella acquisisce la nozione del valore degli oggetti come fenomeni fisici. Dedica il suo più
importante lavoro (1964-1982) al Monumento alla terza internazionale di Tatlin. Si tratta di una
installazione a neon di varie misure, a luce bianca oppure gialla o rossa. Talvolta si tratta di installazioni site
specific.

- Vladimir Tatlin, modello per Monumento alla terza internazionale, 1920 – monumento mai
realizzato perché rimasto all’idea di bozzetto.
- Dan Flavin, Monumento a V. Tatlin, 1964, Palazzo Grassi (Venezia) – riconoscere le fonti è
profondamente connaturata negli artisti dei quali stiamo parlando.

Enrico Castellani (1930 – 2017)

Artista italiano che nel 1957 si stabilisce a Milano, fulcro dell’arte, e diviene esponente attivo della nuova
scena artistica. Stringe rapporti di amicizia e collaborazione in particolare con Piero Manzoni. Dopo prime
esperienze di carattere informale, ispirate all’action painting americana, intravede il limite di questa
espressione ed elabora nell’ambito della rivista Azimuth, da lui fondata insieme a Manzoni, un’espressione
artistica alternativa a quella della pittura d’azione, proponendo l’azzeramento totale dell’esperienza
artistica precedente. Tale azzeramento viene realizzato da Castellani insieme a Piero Manzoni e Agostino
Bonalumi con l’utilizzo di tele monocrome (spesso totalmente bianche) estroflesse con varie tecniche in
modo da creare effetti di luci ed ombre cangianti con l’inclinazione della sorgente luminosa.

- Enrico Castellani, Senza titolo, 1958 (da Open Care) – l’esordio, che si rivela quasi una memoria
precisa di Pollock.

La sua è un’esperienza del tutto originale e considerata di fondamentale importanza nella storia dell’arte
astratta del Novecento, non solo per quanto riguarda la scena italiana, ma soprattutto per quella
internazionale, il cui eco influenzò ed ispirò Donald Judd, che in un articolo del 1966 definì Enrico Castellani

38
padre del minimalismo. Da allora Enrico Castellani avvia un percorso rigorosissimo di studio ed analisi delle
possibilità fornite dall’estroflessione della tela mediante l’utilizzo di chiodi, centine e di sagome di legno e
metallo inserite dietro la tela. Anche queste opere sono oggetti, cose: l’operatività umana è fortemente
sottaciuta. La tela, supporto fondamentale per comune accettazione, diventa qualcos’altro, un po’ come
succede in Fontana. Nel 1959 realizza la sua prima superficie a rilievo, dando vita ad una poetica che sarà la
sua cifra stilistica costante e rigorosa e definendo ciò che la critica ha chiamato “ripetizione differente”,
considerata da molti critici di estrema purezza, dove la ripetizione accuratamente scelta dei pieni e dei
vuoti data dalle ritmiche estroflessioni della tela costituisce un percorso sempre nuovo, anche se coerente
ed intenso. Da allora il suo procedere continua a svilupparsi nell’ambito dell’estroflessione, ma nella sua
compatta e coerente produzione ha realizzato opere che si discostano nettamente dalle superfici a rilievo,
rivelando molto su temi a lui cari quali il tempo, il ritmo e lo spazio.

- Enrico Castellani, Superficie, 1959, Archivio Enrico Castellani (Celleno) – la sua prima tela
estroflessa. Nel 1959 si verifica anche la prima mostra di Stella, quindi in piena contemporaneità.
- Enrico Castellani, Superficie bianca, 1963, GAM (Torino)
- –Enrico Castellani, Dittico rosso, 1963, collezione Roberto Casamonti (Firenze)

Sol LeWitt (1928 – 2007)

La prima parte della sua produzione artistica è caratterizzata da installazioni tridimensionali di taglio
minimalista: LeWitt si concentra in particolare sulla forma geometrica del cubo, considerato un modulo
perfetto per ottenere infinite possibilità e combinazioni. Più che minimalista, LeWitt si definisce un artista
concettuale. Nel manifesto Paragraphs on Conceptual Art del 1967 l’artista afferma che la realizzazione di
un’opera può essere delegata ad altri, dato che il processo creativo è spesso più interessante del prodotto
finale. Si arriva alle estreme conseguenze per le quali si approda all’arte concettuale: chiunque può
realizzare l’oggetto o la cosa. L’unico mio spazio è l’idea - questo per me è limite o infinita libertà?

- Sol LeWitt, Cubic-Modular Wall Structure, Black, 1966, MoMA (New York) – l’utilizzo del cubo è
quello che più facilita la reiterazione modulare.
- Sol LeWitt, Cubic Construction: Diagonal 4, Opposite Corners 1 and 4 Units, 1971, MoMA (New
York)

In questi anni inizia a creare sulle pareti di musei e gallerie i celebri Wall drawings, disegni progettuali che si
adattano all’architettura che li accoglie (arte per lo spazio, che insieme all’idea della cosa è cardine della
minimal), ridefinendo i rapporti spaziali e percettivi. Alcuni disegni sono realizzati da LeWitt in persona,
altre volte da suoi assistenti e dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 2007, vengono sempre eseguiti sotto la
supervisione del suo studio e della sua figlia Sofia LeWitt.

- Sol LeWitt, Squares with a Different Line Direction in Each Half Square (Quadrati con linee
diversamente orientate in ciascuna metà del quadrato), 1971, MoMA (New York)
- Sol LeWitt, Lines in Four Directions, Superimposed in Each Quarter of the Square Progressively
(Linee in quattro direzioni, sovrimpresse in progressione in ogni quarto del quadrato), 1971, MoMA
(New York) – da questi disegni è poi possibile tirar fuori elementi reiterabili.

39
La costruzione delle opere di Sol LeWitt seguono una rigorosa procedura di esecuzione che esclude ogni
tipo di coinvolgimento emotivo, in contrasto con l’espressionismo astratto e l’arte informale degli anni ‘60.
Il lavoro di LeWitt è certamente di ambito minimale ma anche concettuale, poiché si sviluppa sia tramite
strutture mentali sia visuali e concrete. Si tratta di partiture o di schemi progettuali la cui realizzazione è
importante, ma secondaria nei confronti della concezione, tanto che spesso l’affida ai suoi assistenti. Dal
1965 riduce la sua grammatica al solo quadrato e al cubo e si limita al colore bianco per le sue costruzioni in
legno e metallo. Il primo dei progetti seriali è ABCD del 1966, una articolata struttura aperta di piani
quadrati e cubi. Nel 1968 pubblica la Drawing Series I; II; III; IV. Questa serie viene poi realizzata sulle pareti
degli spazi espositivi dando vita ai Wall Drawings, secondo le seguenti indicazioni: «Volevo fare un lavoro
artistico il più bidimensionale possibile. Le caratteristiche fisiche del muro, altezza, lunghezza, colore,
materiale, caratteri architettonici e aggiunte, sono una parte necessaria dei disegni. Il disegno è realizzato
con leggerezza, utilizzando grafite dura, in modo tale che le linee diventino, il più possibile una parte della
superficie del muro, dal punto di vista visivo. I quattro tipi di linee diritte usate sono quella verticale, quella
orizzontale, quella diagonale a 45 gradi da sinistra a destra e quella diagonale a 45 gradi da destra a sinistra.
Quando i disegni sono colorati, è preferibile un muro piatto e bianco. I colori usati sono il giallo, rosso, blu,
nero, i colori della stampa tipografica.» Sol Lewitt mette a disposizione un modulo perfettamente
reiterabile e riproducibile, di assoluta perfezione cui partecipa attivamente lo spazio che andrà a accogliere
i suoi disegni da muro. I suoi disegni sono oggettivi, non adescano una relazione emozionale, semmai
hanno una relazione oggettiva col muro.

- Sol LeWitt, Serial project I (ABCD), 1966, MoMA (New York)


- Sol LeWitt, Wall Drawing no. 1 – Drawing Series II, 1968, Saatchi Gallery (London)
- Sol LeWitt, Wall Drawing #260, 1975, Museum of Art (San Francisco)

Robert Morris (1931 – 2018)

E’ sicuramente ritenuto tra i protagonisti della scultura minimale nel corso della sua lunga carriera ha
sviluppato ricerche molto diversificate senza mai abbandonare la propria lucida coscienza critica. Ha
mantenuto un’autonomia creativa straordinaria ed è forse l’artista più rilevante del tempo di cui stiamo
parlando. Nel biennio 1961/ 1963 partecipa ad happenings promossi da La Monte Young e sono del 1962
due lavori connessi a queste performances collegati a presupposti minimalisti: Passegeway, un lungo tunnel
curvo e stretto e Column, un lungo parallelepipedo in compensato tinto di grigio. Nasce quindi come
performer che però realizza performance attraverso oggetti creati da sé medesimo.

- Robert Morris, Passageway, 1961 – è un oggetto, una cosa, attraverso la quale si vive l’esperienza
profondamente umana.
- Robert Morris, Column, 1961 – progettata per accogliere una figura umana , che di fatto si fa
scultura vivente in una sorta di bara. E’ pertanto privo di disumanizzazione.

Nel 1963 espone alla Green Gallery oggetti e rilievi influenzati dal concettualismo di Duchamp, quali Box
with the sound of its own making, una scatola cubica di legno con all’interno un registratore che trasmette i
rumori registrati durante la fabbricazione della scatola medesima, un lavoro questo davvero alla Duchamp
per ironica tautologia. Con gli Unitary Objects introduce elementi volumetrici semplici che non
assomigliano a niente al più sembrano scarti di produzione industriale la cui apparente regola geometrica è
messa in dubbio da singolari anomalie quali un angolo arrotondato, una inclinazione non ortogonale etc.

40
- Robert Morris, Box with the sounds of its own making (scatola con i suoni della propria
realizzazione), 1961, MET (New York) – la scatola contiene un registratore che rivela i suoni della
sua realizzazione. In questa opera possiamo intravedere un omaggio a Duchamp.

Nel 1964 sempre alla Green Gallery Morris propose una serie di poliedri in compensato grigio, in forte
relazione con lo spazio, installati in modo da evidenziare le pareti, gli angoli, il pavimento si tratta dunque di
un’unica opera che acquista senso nell’ambiente ove si trova, un environment silenzioso che coinvolge lo
spettatore in un enigmatico gioco di rapporti spaziali. Sempre di compensato grigio sono le L-Beams, grandi
strutture a forma di L, tutte uguali ma diverse poiché collocate diversamente l’una dall’altra. Lo spazio è il
soggetto dell’opera ed ormai è un concetto veicolato fino ad oggi.

- Green Gallery di New York nel 1964 - ciascuna di queste strutture non la si legge in quanto oggetto
in sè ma in relazione con lo spazio.
- Green Gallery di New York nel 1965

Nel 1965 installò sempre alla Green Gallery cubi specchianti che percettivamente vengono assorbiti
dall’ambiente, senza perdere comunque la presenza fisica. E’ un po’ quello che aveva fatto Favlin con le
luci a neon. Cosi i cubi, coperti da specchi, sono oggetti ma la loro percezione si può perdere nel
momento in cui essi riflettono lo spazio circostante. Dopo aver toccato il limite teorico del
minimalismo, Morris negli anni più recenti è tornato alla figura. Dai primi anni ’80 affiorano i riferimenti
al corpo umano (una mostra a Roma intitolata Monumentum) sembra riaffiorare il recupero delle
istanze originarie della sua arte, che affondava nell’attività di performer, di ballerino d’avanguardia,
assieme alla prima moglie Simone Forti negli anni ’50.

- Robert Morris, Senza titolo, 1965, Tate Gallery (London)


- Robert Morris, Out of the Past (lontano dal passato), 2016, qui alla Galleria Nazionale di Roma
(2019) – si vedono corpi umani suggeriti da panni adagiati su di loro, opera di grande emozione.

Riassumendo, l’Arte Minimale nasce da artisti americani e nonostante le espressioni siano molteplici,
evidentemente vi sono elementi comuni che radicano il movimento nell’estetica statunitense. In primo
luogo la grande dimensione concepibile in spazi esterni o interni di vasta superficie, anche in vista della
grande disponibilità di spazio degli Stati Uniti, poi la fattura industriale e la figura dell’artista piuttosto come
regista di azioni o imprenditore che artigiano. L’estrema semplicità formale, la scomparsa della
rappresentazione, i materiali industriali scelti per la loro intrinseca qualità e non per valenze simboliche. Si
lavora in un’ottica empirica piuttosto che contemplativa, ad esempio le assi di Carl Andre impiegate in
funzione delle loro venature pronte per la composizione, piuttosto che materiali da manipolare fino a farne
scomparire le specificità. Morris, quando utilizza il feltro, lo utilizza in forza della gravità che, interagendo
con l’elasticità del materiale, lo deforma. Bisogna anche ricordare che negli Usa stava fiorendo l’attenzione
all’arte contemporanea e una rete di musei ed istituzioni dedicate che legittimarono le opere degli artisti
minimali. Senza l’attenzione del mondo del collezionismo e delle grandi gallerie, aggiungendoci anche il
capitale, questi artisti poterono realizzarsi. Gli artisti minimali raggiunsero il successo anche in vita perché
fortemente accolti dalla società statunitense, pensiamo a Peggy Guggenheim, ma anche a galleristi che
diedero tanto ossigeno a queste esperienze. Alla cultura dell’introspezione gli artisti oppongono emozioni
semplici determinate dallo stato del proprio corpo (equilibrio, precarietà, pericolo). Il corpo al centro della
esperienza percettiva. Se gli europei (Mondrian, Malevic) muovevano dall’utopia di rifondare il mondo, e
per loro la geometria e i numeri erano le basi della creazione, i minimalisti americani tendono alla
41
semplificazione del reale senza alcuna attesa, piuttosto vivono la creazione hic et nunc (ora e ora), senza
l’attesa di un futuro migliore. Oltre al presente non c’è assolutamente niente.

- Robert Morris, Senza titolo (feltro marrone), 1973, Guggenheim Museum (New York) – gli interessa
perché, contrariamente a quanto altri hanno fatto con scatole di metallo indeformabili, ha
interesse per l’azione della forza di gravità, che è oggettiva e che di fatto può modificare l’oggetto.
La realtà oggettiva, la forza esterna, diventa parte attiva dell’opera d’arte.

ARTE CONCETTUALE

Il tempo del concettuale è lungo: una volta che è stato sdoganato ha vissuto e vive tutt’oggi. La tendenza
alla riduzione dell’opera ai suoi termini essenziali è presente nella ricerca dei minimalisti e il primo artista a
servirsi del termine concettuale fu Sol LeWitt. «L’idea in sé stessa, anche se non realizzata visualmente, è
un lavoro d’arte tanto quanto un prodotto finito. Le idee possono anche essere espresse con numeri,
fotografie o parole o in qualsiasi modo scelto dall’artista, dato che la forma non è importante».
Frequentemente in questi artisti riscontriamo una oscillazione tra i due poli: da un lato l’enfatizzazione
fisica, comunque totalmente spersonalizzata, le cose in quanto tali, e dall’altro l’affermazione del puro
concetto, qualcosa che prescinde totalmente dalla materializzazione. Il primo artista a toccare il tema
concettuale fu Ad Reinhardt che andò oltre la presenza fisica dell’opera nella ricerca della pura essenza
dell’arte, che può fondarsi sulla dimensione immateriale dell’opera, che diviene opera. È ovvio il
riferimento a Duchamp. Nella mostra organizzata nel 1966 a New York (Working Drawing and Other Visible
Things on paper not Necessarily Meant to be Viewed as Art) vennero presentati progetti, disegni,
documenti relativi al processo di produzione creativa. «Di conseguenza il libro e il catalogo possono
diventare la mostra. Quando l’arte concerne delle cose che non hanno niente a che veder con una presenza
fisica […] il catalogo può servire da informazione di prima mano e in certi casi la mostra può essere il
catalogo» scrisse Siegelaub nel 1969. Seith Siegelaub fu il primo gallerista di New York a sostenere l’arte
concettuale e fu editore dello XeroX Book con lavori per la stampa in fotocopia di, tra gli altri, LeWitt, Andre
e Morris. Si arriva alla piena tautologia, in cui la mostra può essere il catalogo della mostra, un assurdo
logico: non importa che io faccia la mostra se ho il catalogo, ma alla fine il catalogo di cosa se non ho la
mostra? E’ sottile il discrimine.

- Marcel Duchamp, Aria di Parigi, 1919 – E’ un’ampolla prodotta a Parigi in cui lui chiude l’aria di
Parigi: la vuole regalare ad alcuni suoi amici Americani.

Colui che è il capofila per eccellenza dell’esperienza concettuale è Joseph Kosuth.

Joseph Kosuth (1945)

Kosuth muove come tutti da Duchamp e arriva alla conclusione che «essere artista oggi significa mettere in
questione la natura dell’arte». Ci si chiede cosa sia l’arte, quale sia il suo linguaggio e perché esiste. Il lavoro
artistico diventa dopo Duchamp una riflessione analitica, un’investigazione sulla natura del linguaggio
dell’arte, con carattere tautologico: «le opere d’arte sono delle proposizioni analitiche. Vale a dire che se le
si considera nel loro contesto, in quanto arte, esse non apportano alcuna informazione su delle questioni di
42
fatto. Un opera d’arte è una tautologia nel senso che è una presentazione dell’artista, in altri termini è
l’artista che dichiara che questa opera d’arte è dell’arte, vale a dire una definizione dell’arte».

Nel caso della celebre Una e tre sedie non bisogna dimenticare il Magritte delle Parole e Immagini Nel
lavoro Clear, Square, Glass, Leaning Kosuth presenta una sequenza di quattro lastre di vetro uguali e
ciascuna porta scritta una parola del titolo (chiaro, quadrato, vetro, inclinato), ovviamente a carattere
tautologico come in Five Words in Orange Neon che sono le cinque parole scritte con il neon a luce
arancione. Dal 1966 definisce Art as Idea as Idea (Arte come idea come idea), vale a dire la totale
smaterializzazione dell’opera sostituita dalle definizioni concettuali di aria, acqua, quadrato, bianco, teoria,
niente, arte. La forma di presentazione è una gigantografia in negativo delle definizioni prese dal
vocabolario. Siamo in ambito linguistico.

- Joseph Kosuth, Una e tre sedie, 1965, MoMA (New York) - La sedia vera è una, poi c’è una
fotografia della sedia, e dal vocabolario la definizione di sedia.
- Joseph Kosuth, Five words in orange neon, 1965 – cinque parole tautologiche non il neon.

Piero Manzoni (1933 – 1963)

Piero Manzoni, la cui famiglia frequenta Lucio Fontana, debutta a Milano nel 1956. Nel 1957 realizza i primi
Achrome, grandi superfici bianche imbevute di colla e caolino. Nel 1958 espone con Fontana e Baj e inizia a
collaborare con Enrico Castellani e con Agostino Bonalumi. Nel 1959 fonda la galleria Azimuth e la omonima
rivista con Castellani e Agnetti. Le opere diventano sempre più radicali (le linee tracciate su strisce di carta
arrotolate e chiuse in tubo di cartone, la più lunga misura 7200 metri). I Corpi d’aria e Il fiato d’artista sono
palloncini gonfiati appunto a fiato (ricordiamo L’aria di Parigi di Duchamp), le Uova scultura autenticate con
le impronte digitali dell’artista, le Basi magiche piedistalli sui quali chiunque può diventare opera d’arte, e
ancora Achrome nei più vari materiali. Nel 1960 nella galleria Azimuth presenta Consumazione dell’arte
dinamica del pubblico divorare l’arte, performance durante la quale Manzoni imprime il pollice su uova
sode che poi il pubblico mangia. Nel 1961 alla Tartaruga di Roma Manzoni firma degli esseri umani
trasformandoli in Sculture viventi, pone in vendita le scatolette con Merda d’artista, nel 1962 progetta
Piero Manzoni.The life and the Work, un libro con le pagine bianche. Muore improvvisamente nel 1963 a
trent’anni.

- Piero Manzoni, Achrome, 1958-1959, Guggenheim Museum (New York) – ci rivediamo in


contemporaneità Castellani, ma ricorda anche le basi di Burri e Fontana.
- Piero Manzoni, Linee, 1959 – presenta una striscia lunghissima, la più lunga è di 7200 m, raccolta in
un tubo.
- Piero Manzoni, Il fiato d’artista, 1960 – un palloncino gonfiato omaggio a Duchamp, del resto anche
Manzoni possedeva una folgorante ironia come lui.
- Piero Manzoni, sculture viventi, 1961 – non scrisse soltanto su modelle ma anche su personaggi
culturali italiani in voga a quel tempo.
- Piero Manzoni, Consumazione dell'arte dinamica del pubblico divorare l'arte, n. 16, 1960,
collezione privata – uova che vanno mangiate che sono marchiate dall’impronta digitale dell’artista.
- Piero Manzoni, Merda d’artista, 1961, Museo del Novecento (Milano) – beffarda e folgorante allo
stesso tempo.

43
DADA, NEW DADA E NOVEAU REALISME

Nel vasto dibattito delle arti dei primi venti anni del XX secolo si fece strada una straordinaria possibilità
metodologica che accomunò sia la corrente astratta sia correnti in opposizione a questa, come il
movimento concretista. Divenne possibile intrattenere rapporti fondamentali con il reale senza ricorrere
all’imitazione. Se i nuovi procedimenti di costruzione dell'immagine (cubista, futurista, surrealista) non
fecero altro che denotare l'avvenuto spostamento dall'oggetto conosciuto e convenzionalmente
rappresentato, al soggetto conoscente e producente una nuova realtà, i mezzi e le tecniche espressive
sconfinarono al di fuori dei limiti del quadro e della scultura con l'assunzione di materie e oggetti comuni
della realtà esterna, quasi a reintegrare il reale nell'opera d'arte e a rafforzare l'identità tra quel modo di
conoscere la realtà che è l'arte e la realtà stessa. Van Gogh esprime il suo lavoro negli anni 80 dell’800 e fu
colui che a tutti gli effetti propose i temi fondanti del 900, cogliendo il limite della rappresentazione della
realtà. Il quadro sarà sempre inferiore alla vita. Su questo nodo fondamentale dobbiamo immaginarsi che si
articola l’arte del 20esimo secolo. Del resto «Da un certo punto di vista, arte astratta è una denominazione
assurda, perché non c’è niente di più concreto di un quadro. Mondrian ha anche fatto osservare, con
ragione, che un quadro cosiddetto astratto è più concreto di un quadro naturalista: il primo è una cosa, il
secondo è soltanto un’immagine.» si legge in Peinture et réalité del filosofo francese Etienne Gilson.

Nel 1908 Picasso aveva incollato al centro di un disegno un pezzo di carta ricavato da una réclame. La
reclame riguardava il Louvre, un grande magazzino commerciale che aveva preso questo nome. Poi, nel
1912, con Natura morta con sedia impagliata inserì sul perimetro dell’ovale che delimita il quadro a mo’ di
cornice un cordoncino e, al posto della pittura che avrebbe dovuto rappresentare l’impagliatura della sedia,
un pezzo di tela cerata, che è appunto l’impagliatura.

- Pablo Picasso, Natura morta con sedia impagliata, 1912, Museo Picasso (Paris) – il primo, anticipato
di poco dal suo amico Braque, anticipa una modalità compositiva che appartiene a tanta arte nel
20esimo secolo, dei frammenti che vengono dal reale. L’impagliatura che vediamo è davvero
l’impagliatura vera della sedia, non la pittura di una impagliatura. Nel 1912 è stata un’idea
assolutamente geniale: la realtà, in questo caso una porzione di realtà, è nel quadro. E’ una sorta di
trompe d’oeil.

George Braque, con poco anticipo su Picasso, andava sperimentando il collage (Fruttiera e Bicchiere) e
ancora Picasso in Chitarra, spartito e bicchiere introdusse un ritaglio di giornale relativo alla guerra dei
Balcani.

44
- George Braque, Fruttiera e bicchiere, 1911, collezione privata – si trovava a Sorgues in Francia
quando sperimenta questa soluzione. E’ un collage di materiale altro, una delle sperimentazioni
fondamentali del cubismo, che prevedeva l’ inserimento di elementi di natura alternativa nella
composizione.
- Pablo Picasso, chitarra, spartito e bicchiere di vino (La bataille s’est engagée), 1912 – introduce un
pezzo di giornale del quotidiano di quel giorno in cui si accenna ad un conflitto nei Balcani. Un gioco
sottile e assolutamente innovativo di immettere in una rappresentazione un oggetto che
appartiene completamente al presente. Si potrebbe parlare di appropriazione della realtà vera
nella rappresentazione anche in questo senso.

Tutti i papier collé (carta incollata) cubisti rompono con l’idea della rappresentazione, nello spazio
dell’opera essi si presentano per quello che sono. La tela cerata usata per l’impagliatura della sedia è
l’impagliatura della sedia e così via. La strategia dell’appropriazione non è un artificio tecnico, è il segno di
un mutamento di rotta radicale: invece di rappresentare le forme del mondo, l’opera plastica viene
elaborata a partire da frammenti direttamente tolti dalla trama del reale. Esiste quindi la possibilità di
mettere le mani nella realtà. Nel 1914 Picasso con Le verre d’absinthe inserisce un vero cucchiaino per lo
zucchero, si tratta comunque di un elemento inserito in una composizione di mano dell’artista.

- Pablo Picasso, Le verre d’absinthe (Bicchiere di assenzio), 1914, Centre Pompidou (Paris)

Al cubismo, con il collage e il papier collé, esperiti intorno al 1912 da Picasso e da Braque, si aggiunge il
Futurismo, movimento italiano, quando intorno alla stessa data Umberto Boccioni realizza la scultura
Fusione di una testa e di una finestra (ora distrutta), inserendovi elementi in legno, porcellana e capelli, e
teorizza nel Manifesto della scultura futurista l'idea del polimaterismo e in generale della dinamizzazione
dell'oggetto plastico per mezzo di cerniere e forze meccaniche, in analogia al continuo divenire psichico e
mentale equivalente al dinamismo della vita nella società industriale.

- Umberto Boccioni, Fusione di una testa e di una finestra, 1911-1912 (distrutta)

Questo inizio non è che l'avvio di un processo di radicalizzazione dell'innovazione e della sperimentazione
tecnica, che negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale si svolge lungo due direttrici: una è propria
del Dadaismo, dalla forte connotazione ideologica, di negazione di tutta l'arte anche d'avanguardia e dei
seppur nuovi sistemi di segni, e con ciò di negazione di tutto il sistema sociale e politico occidentale, della
cui razionalità si sottolineano il fallimento e i mostruosi esiti bellici. E poiché si vede che un sistema del
genere ha partorito la guerra, esso è assolutamente finito e non può andare avanti; negano tutto, secondo
un forte nichilismo, e non hanno l’idea di rifondare un nuovo universo; l'altra direttrice, sempre nella sfera
della sperimentazione, è quella del Costruttivismo e del Bauhaus di Gropius, dalla connotazione
progettante e positivamente orientata sulle possibilità di collaborare alla correzione e guida dei sistemi
economico-politici. Vede quindi la possibilità di rifondare un mondo migliore.

Marcel Duchamp (1887 – 1968)

Non ha lavorato nel silenzio del suo studio ma è stato un grande comunicatore e ha partecipato a molte
situazioni, sia europee che statunitensi, e così lo ritroviamo sia in Europa che oltreoceano. E’ anche per
questo che ha seminato molto e che con lui hanno fatto i conti tutti.

45
«Nel 1913 ho avuto la felice idea di fissare una ruota di bicicletta su uno sgabello da cucina e di guardarla
girare […] A New York, nel 1915, acquistai in un negozio di ferramenta una pala da neve sulla quale scrissi:
in anticipo per il braccio rotto. È in quel periodo che il termine ready made mi venne in mente per indicare
quella forma di manifestazione […] la scelta di questi ready made non mi fu mai dettata da qualche diletto
estetico. Questa scelta era fondata su una reazione di indifferenza visiva, unita al tempo stesso ad una
assenza totale di buono o cattivo gusto… di fatto una anestesia totale». Nega totalmente, e in maniera
ironica annichilisce l’idea stessa di opera d’arte. L’opera d’arte è sicuramente una presenza visiva e se io la
nego metto in crisi ogni possibile sistema dell’arte, sia che si tratti di rappresentazione sia che non si tratti
di rappresentazione.

- Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913 (replica del 1953), MoMA (New York) – è una replica, ma
sacralmente custodita al Moma, essendo così una beffa nella beffa: ancora oggi visitatori adorano
quest’opera, ma di fatto non è quella realizzata da lui in prima persona. Del resto questo ha ancor
di più amplificato il suo pensiero ironico e nichilista sul gusto e sulla visività.
- Marcel Duchamp, in advance of the broken arm (in anticipo sul braccio rotto), 1914 (replica del
1964), MoMA (New York) – la pala che serve a spalare la neve diventa nella totale assenza di
significato un oggetto che lui si diverte a dire d’arte.

Con Ruota di bicicletta per la prima volta venne messo in discussione il confine fra l’oggetto d’arte e
l’oggetto di uso comune. È un lavoro provocatorio, senza senso e senza funzione: entrambi gli oggetti,
assemblati in una sorta di papier collé tridimensionale, sono assolutamente inutili - sul panchetto non ci
si può sedere e la ruota gira a vuoto. Si tratta comunque di una composizione assai raffinata e assai
studiata che colpì al cuore l’idea stessa di monumento che soggiace all’idea di scultura. La scultura era
un memento ed ora è un azzeramento della celebrazione, del ricordo e di ogni retorica. Ma del resto
anche i futuristi affermarono che era meglio un auto da corsa rispetto alla Nike di Samotracia. Certo è
che Duchamp ha messo all’estremo questa affermazione. Duchamp ha affermato che «l’atto di
scegliere un ready made mi ha dato la possibilità di ricondurre l’idea della considerazione estetica a una
scelta mentale (da qui l’arte concettuale), e non alla capacità o all’intelligenza della mano contro cui mi
battevo».

Duchamp ha realizzato in tutto una trentina di ready made, tra i quali alcuni senza alcun intervento
dell’autore – oggetti usuali promossi alla dignità di oggetto d’arte grazie alla semplice scelta dell’artista
– e altri rettificati (aidé) dove è presente la mano dell’artista. Duchamp ha sempre dichiarato ad
esempio di aver realizzato la Ruota di bicicletta del 1913 per il suo personale divertimento e di averne
compreso la portata soltanto dopo, con il passare del tempo. In realtà si trattò di una raffinatissima ed
ironica invenzione che ha lasciato una traccia profondissima nelle arti del XX e XXI secolo. Tra i ready
made non rettificati il più provocatorio è Fountain, un orinatoio in porcellana collocato su un piedistallo
in posizione orizzontale. Fu presentato con la firma Richard Mutt alla prima mostra della Society of
indipendent artists di New York e venne rifiutato dalla giuria. Per datare l’opera e documentarla
Duchamp la fece fotografare da Alfred Stieglitz, fotografo di fama e gallerista schierato con i movimenti
di avanguardia. L’immagine fu pubblicata su The Blind Man e Luise Norton offrì una lettura dell’opera:
«che il signor Mutt abbia fatto con le sue mani Fountain o no non ha nessuna importanza. È lui che l’ha
SCELTA (focalizzandosi sul concetto di idea). Ha preso un articolo comune della vita di tutti i giorni e lo
ha sistemato in modo che il suo significato utile scomparisse con il titolo nuovo e il nuovo punto di vista
ha creato un nuovo pensiero per questo oggetto» (in A. Schwarz, La sposa messa a nudo in Marcel
Duchamp, Einaudi 1974).

46
- Alfred Stieglitz, Fountain di Marcel Duchamp in The Blind Man, 1919
- Marcel Duchamp, Fountain, 1919 (replica del 1964), Tate Gallery (London) – il titolo “urinatorio”
sarebbe stato tautologico pertanto lo chiama “Fontana”.

I ready made sono stati determinanti per alcuni concetti chiave dell’arte contemporanea: l’idea che il
testo (ad esempio l’urinatoio), ciò di cui sto parlando, possa essere fortemente influenzato dal contesto
(la galleria d’arte), l’idea che la manualità non sia rilevante per l’artista come non lo è per un architetto
o per un compositore e infine l’idea che ridurre l’opera d’arte alla firma del suo autore significhi
esasperare la proprietà intellettuale dell’idea, riconosciuta ad appartenere all’artista, e la
predominanza dell’idea sui lati decorativi o compositivi o rappresentativi dell’opera.

Duchamp tuttavia non si ferma ai ready made. L’evoluzione del lavoro di Duchamp, che nonostante la
vicinanza al movimento DADA non vi si identificò mai, conta due opere fondamentali: La mariée mise
nu par ses celibataires, même (la sposa messa a nudo dai suoi scapoli) del 1915 -1923 e Etant Donnés:1
la chute d’eau/ 2 le gaz d’eclairage (1946 -1966). Entrambi frutto di un processo artistico protratto nel
tempo, esse sono: il primo una pittura su lastra di vetro (Grande Vetro) con polvere, pigmento e
piombo, e la seconda un assemblaggio polimaterico incentrato sul voyerismo erotico. Per vedere
l’opera, lo spettatore deve spiare attraverso due piccoli fori praticati su una porta di legno. Sono
molteplici le interpretazioni fornite per opere assai complesse, ad esempio Angela Vettese vi vede
allegorie del desiderio, dell’eros inteso come forza di attrazione.

- Marcel Duchamp, La mariée mise nu par ses celibataires, même (la sposa messa a nudo dai suoi
scapoli), 1915-1923, Museum of Art (Philadelphia) – è una doppia lastra di vetro, che sta su un
piedistallo. Tutto ciò che noi vogliamo immaginare sta nella lettura, ma possiamo dire che in basso
vi sta un mulino e delle divise appese. Vi sono tre forme vuote quadrangolari. Si crede che qui da un
punto di vista evolutivo non vada ignorato il tema surrealista, se si intende una realtà altra che
proviene dalla psiche. E’ da una lunga meditazione che inserisce questo elemento sognante. Dai
ready made, privi di gusto estetico, torna a una rappresentazione che con il gusto estetico ha a che
vedere molto.
- Marcel Duchamp, Etant Donnés: 1. la chute d’eau; 2. le gaz d’eclairage (dati due punti di vista: 1. La
cascata; 2. Lume a gas), 1946 -1966, Museum of Art (Philadelphia) – attraverso un atto voyeuristico
da un buco su una porta si vede una donna, che può esser stata vittima di uno stupro, che tiene in
mano una luce su un paesaggio onirico di matrice rinascimentale fiamminga. Si collega anche
questa al surrealismo.

DADA

L'origine della parola Dada non è chiara; esistono varie interpretazioni e vari fatti collegati con la scelta del
nome. Tristan Tzara definì il termine come un nonsense. Hans Richter ne sostiene la derivazione dall'uso
frequente della parola da (sì in russo ed in rumeno). Il movimento DaDa è nato a Zurigo nel 1916. Nel
febbraio di quell’anno alcuni intellettuali rifugiati per avversione e negazione alla guerra in Svizzera, paese
neutrale. Aprirono il Caffè Voltaire, che nel nome, omaggio al filosofo francese Voltaire, voleva alludere al
rifiuto della irrazionalità della guerra. Il Caffé per singolare destino ebbe sede al n.1 della Spielgasse,
dunque a pochissima distanza dall’abitazione di Lenin che di lì a poco sarebbe rientrato in Russia per porsi a
capo della rivoluzione. Ne furono promotori: il poeta e letterato tedesco Hugo Ball (1886-1927), Tristan
Tzara (1896-1963) saggista e letterato rumeno, lo scenografo Marcel Janco (1895-1984), il pittore e scultore
francese Hans Arp (1887-1966).

47
- Manifesto DADA

Tzara, scrittore del manifesto, ebbe poi a dichiarare: «DADA nacque da un’esigenza morale che, da una
volontà implacabile d’attingere un assoluto morale, dal sentimento profondo che l’uomo, al centro di tutte
le creazioni dello spirito, dovesse affermare la sua preminenza sulle nozioni impoverite della sostanza
umana, sulle cose morte e sui beni male acquisiti. Non nega l’umanità ma nega le manifestazioni di essa,
toccando il limite massimo del rifiuto nichilista. DADA nacque da una rivolta che era allora comune a tutti i
giovani, una rivolta che esigeva un adesione completa dell’individuo alle necessità della sua natura, senza
riguardi per la storia, la logica, la morale comune, l’Onore, la Patria, la Famiglia, l’Arte, la religione, la
Libertà, la fratellanza e tante altre nozioni corrispondenti a delle necessità umane di cui però non
sussistevano che delle scheletriche convenzioni, perché erano svuotate del loro contenuto iniziale. Questo
poiché è proprio da tutto questo che è nata la guerra. La frase di Cartesio non voglio neppure sapere se
prima di me vi sono stati altri uomini l’avevamo messa in esergo in una delle nostra pubblicazioni. Essa
significava che noi volevamo guardare il mondo con occhi nuovi, che noi volevamo riconsiderare e provare
la stessa base delle nozioni imposteci dai nostri padri e provarne la giustezza».

In merito alla parola DADA Hans Arp scrisse, con evidenti intenti ironici e di spiazzamento culturale:
«Dichiaro che Tristan Tzara ha trovato la parola DADA l’8 febbraio 1916 alle sei di sera. Ero presente con i
miei dodici figli quando Tzara pronunciò per la prima volta questa parola che ha destato in tutti noi un
entusiasmo legittimo.» DADA è contro la bellezza eterna, contro l’eternità dei principi, contro le leggi della
logica, contro l’immobilità del pensiero, contro la purezza dei concetti astratti, contro l’universale in
genere. È invece per la sfrenata libertà dell’individuo, per l’uomo nudo e nuovo, per la spontaneità, per ciò
che è immediato, attuale, aleatorio, per la contraddizione, per l’anarchia. Lo scandalo è lo strumento
preferito dai DADA. La polemica contro l’arte e la letteratura è perché esse hanno bandito la VITA. DADA
vuole trasformare la POESIA in AZIONE. Fu il tentativo estremo di saldare la frattura tra arte e vita di cui
Van Gogh aveva intuito la drammaticità. Gli artisti DADA operano nel solco delle avanguardie (cubismo,
futurismo, astrattismo costruttivista ) ma si dichiarano anti-cubisti, anti-futuristi, anti-astrattisti poiché
questi movimenti nascono da assunti positivistici di ricerca di un nuovo ordine, di nuova coerenza stilistica
di nuovi moduli formali. DADA non crea opere ma fabbrica oggetti, afferma la potenza virtuale delle COSE.
Per questo la Minimal art deriva dal Dada, e prima ancora del Dada da Duchamp.

Scrive Tristan Tzara - Indicazioni per fare una poesia dadaista: • Prendete un giornale • Prendete un paio di
forbici • Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che voi desiderate dare alla vostra poesia
• Ritagliate l’articolo • Tagliate con cura ogni parola che forma tale articolo e mettete tutte le parole in un
sacchetto • Agitate dolcemente • Tirate fuori le parole una dopo l’altra disponendole nell’ordine con cui le
estrarrete • Copiate coscienziosamente • l’opera vi rassomiglierà. Le parole perdono le loro caratteristiche
semantiche e diventano cose. E’ la riduzione della parola al di là del significato ad oggetto e come tale io lo
giustappongo e lo compongo.

In DADA, la casualità e l'intenzione giocano in continua dialettica, e sottostanno a tutte le numerosissime


esperienze, unificandone l'apparente incontrollabilità: la secessione radicale da ogni idea acquisita di arte,
bello, estetica, prepara la radicale mutazione del punto di vista dell'artista nei confronti della realtà, di se
stesso e della tradizione dell'arte anche più recente. Il ready made (l'acquisizione di un oggetto già fatto),
atto col quale, a partire da Duchamp, si delibera l'attribuzione di status di opera d'arte all'oggetto d'uso più
comune, il Merzbau di K. Schwitters (architettura-accumulo di oggetti più svariati, dai rifiuti a opere d'arte,
raccolti nel corso della vita), il fotomontaggio usato dai dadaisti berlinesi (combinazione di ritagli fotografici,
complessa organizzazione dei dati del comunicare di massa nel flusso assurdo e incontrollabile che lo
48
caratterizza), i Rayogrammi e le Rayografie di Man Ray (produzione dell'immagine di una cosa direttamente
dal negativo, senza l'intermediazione dell'apparecchio fotografico), sono tutti procedimenti di libertà
dell'intelligenza a contatto con il banale, l'infimo, il comune.

- Kurt Schwitters, Merzbau, foto di Wilhelm Redemann, 1933 – sono delle aggregazioni illimitate di
cose. Frammenti del reale costituiscono nuovi ambienti rigorosamente Dada.
- Hannah Hoch, Taglio con coltello da cucina, 1919, Staatliche Museen, National Galerie (Berlin) – in
una curiosa commistione tra parole e immagini, ritaglio, metto in un sacchetto, e compongo.
- Man Ray, Rayograph, 1922, Met (New York)

Kurt Schwitters (1887 -1948)

Accomunato al movimento DADA, del quale tuttavia non fece mai parte effettiva, fu amico di Tzara e di Arp.
Abbandonando i materiali pittorici tradizionali, portò sulla tela, con la tecnica del collage, gli oggetti più
disparati, da biglietti del tram a frammenti di giornali, stoffe, spugne, tappi, bottoni. Uno dei suoi collages
porta il titolo di Merzbild (1919), dal frammento della parola (Com)merz che vi compare. Nato casualmente,
il termine Merz accompagnò e in un certo senso siglò tutta l'attività successiva di Schwitters così egli
chiamò Merzplastiken i suoi rilievi, Merzdichtungen le composizioni in prosa o in poesia. Nel 1922-23 fu in
Olanda con Theo Van Doesburg. Nel gennaio 1923 uscì il primo numero della rivista Merz e nello stesso
anno iniziò il primo Merzbau (distrutto da un bombardamento nel 1943), una costruzione che attraversava i
vari piani della sua casa di Hannover, fatta di oggetti eterogenei, aggiunti di giorno in giorno. Li pone uno
insieme all’altro in una sorta di crescente accumulazione. Nel 1937 lasciò la Germania per stabilirsi in
Norvegia , dove a Lyvaker iniziò un secondo Merzbau, anche questo distrutto. Nel 1940, invasa la Norvegia
dai nazisti, si rifugiò in Inghilterra e fino al 1945 rimase internato in un campo di prigionia. Dopo il 1945 si
stabilì ad Ambleside e, grazie a un finanziamento del MoMA di New York, poté dedicarsi alla realizzazione
del terzo Merzbau, rimasto incompiuto.

- Kurt Schwitters, Merz Picture 32 A. The Cherry Picture (Merzbild 32 A. Das Kirschbild), 1921, MoMA
(New York) – i componenti sembrano presi da una discarica, è un aggregazione del rifiuto – I rifiuti
che diventano ad essere predominant, hanno un loro valore e queste tracce vengono considerate
indipendentemente dal loro valore estetico.
- Kurt Schwitters, Maraak, Variazione I (Merzbild), 1930, Peggy Guggneheim Collection (Venezia)
- Kurt Schwitters, Merzbau, foto di Wilhelm Redemann, 1933
- Kurt Schwitters, Merzbau, ricostruzione di Peter Bissegger, 1981–3, Sprengel Museum (Hannover)

«In sostanza la parola Merz designa l’assemblaggio a fini artistici di tutti i materiali immaginabili, e per
principio, l’equiparazione sul piano tecnico di ciascuno di questi materiali. La pittura Merz si serve dunque
non soltanto del colore e della tela, del pennello e della tavolozza, ma di tutti i materiali visibili per l’occhio
e d i tutti gli strumenti utilizzabili. Da questo punto di vista importa poco che in origine i materiali siano stati
concepiti per altri scopi o meno. La ruota di un auto per bambini, una rete metallica, dello spago o
dell’ovatta sono elementi che hanno il medesimo valore del colore. L’artista crea mediante la scelta, la
disposizione e la deformazione dei materiali». (K. Schwitters, 1919)

Man Ray (1890 - 1976)

49
A cavallo tra Dada e surrealismo, è colui che porta Dada in America. Tra i protagonisti del dadaismo a New
York, si trasferì a Parigi nel 1921, dove si unì agli artisti dada e surrealisti, mantenendo costante, nei diversi
ambiti, la ricerca e la sperimentazione di tecniche innovative che esaltassero le potenzialità espressive dei
materiali e dei mezzi prescelti. Nel 1940 ritornò negli USA, dedicandosi prevalentemente alla pittura e dal
1951 fu di nuovo a Parigi. L'influenza di Alfred Stieglitz, che lo iniziò alla fotografia, e la presenza a New York
di Duchamp e di Picabia catalizzarono i suoi interessi indirizzandolo verso un rapporto rivoluzionario e
anticonformista con il prodotto artistico: uso dell'aerografo in pittura, della fotografia (all'inizio come
mezzo di riproduzione delle proprie opere), creazione di oggetti caratterizzati sempre da precisi interventi,
manipolazioni o assemblages. Al primo periodo newyorkese risalgono il dipinto The rope dancer
accompanies herself with her shadows (1916), la serie di collage montata su perni Revolving doors (1916-
17). Negli anni successivi, accanto all'intensa attività di fotografo (gli innumerevoli ritratti, i Rayographs,
fotografie ottenute con la semplice interposizione dell'oggetto tra la carta sensibile e la fonte luminosa, le
solarizzazioni, e crea oggetti come Cadeau (1921), Object à détruire (1923), Venus restaurée (1936), e
grandi dipinti come À l'heure de l'observatoire-Les amoureux (1932-34). Nei decenni seguenti continuò a
proporre oggetti (oltre a nuovi esemplari di quelli creati precedentemente che testimoniano la sua
inesauribile e gioiosa inventiva nell'uso del paradosso, dell'irrazionale, della semplice illusione, e
l'utilizzazione spregiudicata delle tecniche in modo molto sperimentativo.

- Man Ray, The rope dancer accompanies herself with her shadows, 1916, MoMA (New York) – si
vede in alto la ballerina, il cui senso di movimento viene amplificato da delle corde attaccate a
proiezioni colorate. Ray è quindi interessato al movimento, pur essendo in pittura.
- Man Ray, Revolving doors, 1919, National Gallery Scotland (Edinburgh) – sono porte scorrevoli,
oggetti che hanno la caratteristica del movimento.
- Alfred Stieglitz, Georgia O'Keeffe – Hands, 1919, Met (New York) – per capire da dove nasce
l’interesse per la fotografia di Man Ray.
- Man Ray, Rayograph, 1923-28, Met (New York)
- Man Ray, Rayograph, 1922, MoMA (New York)
- Man Ray, Cadeau, 1921 (foto d’epoca), Centre Pompidou (Paris) – un oggetto molto Dada.
- Man Ray, Oggetto indistruttibile, 1923 (replica del 1965), Tate Gallery (London)
- Man Ray, Venere restaurata, 1936, Getty Museum (Los Angeles) – calco della Venere di Milo sul
quale viene posizionata una corda come frattura e azzeramento
- l'heure de l'observatoire - Les amoureux, 1932-34.
- Man Ray nello studio con alle spalle À l'heure de l'observatoire - Les amoureux, 1932-34

«In qualsiasi forma si presenti: quadro, fotografia, assemblage di diversi oggetti, oggetto unico leggermente
trasformato ogni mio oggetto è concepito per divertire, irritare, disorientare, intrigare,stimolare una
riflessione, ma non per suscitare l’ammirazione a causa della perfezione tecnica che si ricerca o si appezza
abitualmente negli oggetti classificati come opere d’arte.»

Di Dada curiosamente si continua a parlare dopo la seconda guerra mondiale. Con gli anni cinquanta si
affermò la tendenza ad attribuire lo statuto di opera d’arte a oggetti di ambito extra-artististico. Una
tendenza della quale conosciamo la derivazione DADA ma che conobbe un impulso notevole originato dalla
pervasiva presenza di oggetti di ogni tipo nella vita di tutti i giorni. Una miriade di oggetti inondarono le
case e per tutti improvvisamente divennero indispensabili. In più cominciò a divenire evidente la
proliferazione dei rifiuti che si aggregavano alle periferie della città. E il MoMA di New York nel 1961
50
organizzò una importante mostra che ebbe per titolo: The art of assemblage, ove esposero tra gli altri Burri,
Baj, Dubuffet, Johns, Rauschenberg, Tinguely. Il termine assemblage lo aveva inventato Dubuffet nel 1953,
indicando l’arte di mettere insieme materiali diversi in modo da superare nel contempo la pittura e la
scultura arrivando ad un manufatto altro. Altra del resto poteva essere la vita nei confronti dell’etica
borghese, tutta carriera, denaro e oggetti che di tali raggiungimenti sono il segno. Una vita di rottura,
pensiamo a Kerouac, Ginsberg e Borroughs, che immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale
cominciarono a proporre un modello di vita on the road, sulla strada, privo di programmazione del futuro e
fondamentalmente costituito da aggregazioni casuali di eventi, in una sorta di assemblage di aspetti della
vita. La vita viene fatta da oggetti contrapposti e noi non abbiamo nessuna capacità di prescindere da essi.
Ma se la minimal art vuole la forma pura dell’oggetto, il New Dada accumula, come se la vita fosse fatta di
esperienze di scarto di situazioni non prevedibili, non controllabili e che non portano a nulla. Mentre i
Minimal mettono in ordine le cose, l’oggetto qui è casuale, frammentario e il più delle volte inutile, con una
percezione tragica che non era quella relativa a Duchamp o ai Dada.

Nel 1958 per la prima volta la rivista Art News prese atto di una nuova tendenza che stava sorgendo anche
dalla percezione che l’espressionismo astratto fosse moribondo. Si era perso quel vitalismo. Giovani artisti
cominciarono a ripensare a Duchamp e ad eleggere a nume tutelare John Cage: nascono i New Dada.

John Cage (1912 – 1992)

John Cage è sostanziale dal punto di vista teorico per capire i New Dada. In una stanza dell’università di
Howard riesce a sentire il proprio corpo perché è immerso in un silenzio totale e gli unici rumori sono i
rumori del proprio corpo. Riflette allora sul fatto che il silenzio non esiste. John Cage nel 1952, anche in
seguito all'esperienza nella camera anecoica, compone 4’33’’, per qualsiasi strumento: l'opera consiste,
semplicemente, nel non suonare lo strumento. La sostanza esecutiva dell'opera è un'operazione teatrale
più che musicale. Il significato del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione. La rinuncia alla centralità
dell'uomo. Il silenzio non esiste, c'è sempre il suono. Il suono del proprio corpo, i suoni dell'ambiente
circostante, i rumori interni ed esterni alla sala da concerto, il mormorio del pubblico se ci si trova in un
teatro, il fruscio degli alberi se si è in aperta campagna, il rumore delle auto in mezzo al traffico. Cage vuole
condurre all'ascolto dell'ambiente in cui si vive, all'ascolto del mondo. È un'apertura totale nei confronti del
sonoro. Una rivoluzione estetica: è la dimostrazione che ogni suono può essere musica. Io decido che ciò
che ascolto è musica. È l'intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Sono io
che decido cos’è arte, dice Duchamp, sono io che decido cos’è musica, dice John Cage. Cage ha
rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha cambiato l'atteggiamento nei confronti del sonoro, ha
messo in discussione i fondamenti della percezione.

- John Cage, 4’33’’, 1952

Uno dei modelli di 4'33" è Robert Rauschenberg, il pittore amico e amante di Cage che nel 1951 produsse
una serie di quadri bianchi, che cambiano a seconda delle condizioni di luce dell'ambiente di esposizione. La
musica aleatoria crea un problema a livello critico. Come si può criticare un'opera che non è il frutto del
lavoro intenzionale di un autore? Si conclude che il lavoro di Cage è un lavoro puramente filosofico, che la
sua importanza sta nelle idee, non nel risultato musicale di queste idee. Si pensa che i risultati di queste
idee siano uguali l'uno all'altro dal punto di vista stilistico, come delle serie di numeri presi a caso.

Negli anni cinquanta Cage diventa pioniere degli happenings. Sono degli incontri basati sull'unione delle
arti-musica, danza, poesia, teatro, arti visive, secondo un'idea antidogmatica e libertaria di arte. Gli
spettatori assumono un ruolo attivo nelle performance. L'intento è di unire arte e vita, rivendicando
51
l'intrinseca artisticità dei gesti più comuni ed elementari e promuovere lo sconfinamento dell'atto creativo
nel flusso della vita quotidiana. Al posto del concerto c'è uno spazio esecutivo concepito teatralmente e
composto di mezzi misti, uno solo dei quali è la musica. Tutti gli elementi vanno a contribuire alla creazione
dell’happening. Nel 1952 ha luogo Theater Piece No. 1, il primo spettacolo di questo genere. Da questi
esperimenti nascerà nel 1961 il gruppo Fluxus, una rete internazionale di artisti, che svilupperà l'esperienza
degli happenings.

- Schema di Theater Piece No.1, 1952 – ognuno ha il suo posto e il suo ruolo. La prima volta in
assoluto che il pubblico è protagonista equiparato della performance.

Nel 1959 Cage partecipò al telequiz Lascia o raddoppia, in qualità di esperto di funghi, vincendo 5 milioni di
lire. Durante lo spettacolo si esibì in un concerto chiamato "Water Walk", sotto gli occhi sbigottiti di Mike
Bongiorno e del pubblico italiano, in cui gli "strumenti" erano, tra gli altri, una vasca da bagno, un
innaffiatoio, cinque radio, un pianoforte, dei cubetti di ghiaccio, una pentola a vapore e un vaso di fiori. Un
esempio di assemblage strepitoso. Memorabile il dialogo che ci fu tra il presentatore e Cage quando questi
si congedò, vittorioso: M.B.: "Bravissimo, bravo bravo bravo bravo. Bravo bravissimo, bravo Cage. Beh, il
signor Cage ci ha dimostrato indubbiamente che se ne intendeva di funghi... quindi non è stato solo un
personaggio che è venuto su questo palcoscenico per fare delle esibizioni strambe di musica strambissima,
quindi è veramente un personaggio preparato. Lo sapevo perché mi ricordo che ci aveva detto che abitava
nei boschetti nelle vicinanze di New York e che tutti i giorni andava a fare passeggiate e raccogliere funghi".
J.C.: "Un ringraziamento a... funghi, e alla Rai e a tutti genti d'Italia". M.B.: "A tutta la gente d'Italia. Bravo
signor Cage arrivederci e buon viaggio, torna in America o resta qui?". J.C.: "Mia musica resta". M.B.: "Ah,
lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse
qui".

- John Cage e Mike Bongiorno a “Lascia o raddoppia” nel 1952

Robert Rauschenberg (1925-2008)

Robert Rauschenberg è a cavallo tra New Dada e Pop art. La sua prima personale è del 1951 a New York.
L'anno successivo espose in Europa: a Roma e a Firenze, suscitando vivaci polemiche; espose quindi con
sempre maggior frequenza negli Stati Uniti. Si legò dal 1958 alla galleria Leo Castelli di New York, dove
presentò quelli che egli stesso definì combined paintings, che esposti nello stesso anno al Festival di Spoleto
dettero luogo a violente reazioni. A partire dal 1958 fu costantemente presente nelle più note
manifestazioni artistiche a livello mondiale. Particolarmente significativa la sua presenza alla prima mostra
di Le Nouveau Réalisme à Paris et à New York (Parigi, galleria Rive Droite, 1960) e alla grande rassegna The
art of assemblage (Museum of Modern Art di New York, 1961), entrambe importanti punti di riferimento
per il nascente Nouveau Réalisme francese e per il New Dada americano. Nel 1964 ricevette il Gran Premio
della Pittura alla Biennale di Venezia. Nei primi anni Cinquanta, elaborò la serie White painting (1951),
ampie superfici monocrome incise con cifre e linee irregolari. A New York cominciò a collaborare, in qualità
di scenografo e decoratore, con la Merce Cunningham dance company e presentò la serie Black e Red
Paintings (1952-53); del 1954 sono i suoi primi combine paintings (Charlene del 1954 e Odalisca del 1955-
58); opere d'ispirazione neodadaista basate sulla pratica sistematica del collage di materiali eterogenei
(animali impagliati, stracci, fotografie e ritagli, oggetti d'uso quotidiano, ecc.) fusi a brani pittorici di matrice
astratta che presentano soluzioni espressive totalmente nuove. Sperimentatore instancabile, dopo una
serie di ricerche condotte anche nell'ambito dei rapporti tra arte e tecnologia (Oracolo, installazione sonora
52
di elementi meccanici di recupero, 1962-65), ha introdotto nei suoi dipinti immagini ottenute per mezzo
della serigrafia o del frottage. Tra le personali dei primi anni della sua carriera, quella alla galleria Leo
Castelli dove nel 1960 presentò i suoi disegni per illustrare l'Inferno di Dante, la grande retrospettiva al
Jewish Museum di New York nel 1965 e nello stesso anno alla galleria Sonnabend a Parigi, che rappresentò
il suo lancio in Europa. Dal 1984 ha avviato il progetto ROCI (Rauschenberg overseas culture interchange),
mostra itinerante costantemente arricchita da opere eseguite danei paesi visitati.

- Robert Rauschenberg, White Painting (four panel), 1951, Met (New York) –son oil contraltare
dell’opera sul silenzio di Cage.
- Robert Rauschenberg, Merce Cunningham dance company, 1958
- Robert Rauschenberg, Senza titolo (glossy black painting), 1951, SfMoMA (San Francisco)
- Robert Rauschenberg, Charlene, 1954, Rauschenberg Foundation (New York) – composto da
oggetti di varia origine e assemblaggi di rifiuto.
- Robert Rauschenberg, Odalisk, 1955-1958, Rauschenberg Foundation (New York) – un Dada privo
della pulita ironia, prevale la vita costituita da oggetti scorie e non da oggetti qualunque. Le scorie
non si possono riorganizzare, saranno sempre scorie. Il guaio è che la vita è fatta di scorie, non sono
l’espressione artistica di questa.
- Robert Rauschenber, Oracle, 1962-65, Rauschenberg Foundation (New York)
- Robert Rauschenberg, Dante’s Inferno, 1958-1960, MoMA (New York)

L’opera giovanile di Rauschenberg è sicuramente di ambito DADA, fortemente critica dell’ambiente


espressionista. Nel 1953 chiese un disegno a De Kooning avvertendolo che ha intenzione di cancellarlo. De
Kooning accettò e Rauschenberg lo cancellò utilizzando la gomma che si trova dall’altro capo della matita a
dimostrazione che l’estremità gommata è importante come quella a grafite. Simbolicamente Erased De
Kooning Drawing fa tabula rasa del recente passato. Con Factum I e Factum II, due quadri identici,
smantella l’essenza dell’espressionismo astratto, legato alla predominanza vitale del gesto, che invece
secondo Rauschenberg potrebbe essere fabbricato a tavolino e dunque azzerare la consustanzialità tra
gesto e autenticità. Rauschenberg opta per la proliferazione dei materiali, quali muffe come nel celebre Dirt
Painting del 1953 dedicato a Cage o palline di carta ammucchiate dentro un parallelepipedo di vetro come
in Untitled – Paper Painting del 1953. Introducendo i Combine painting vuole restituire all’arte la perduta
vitalità, perché: «quando una tecnica diventa un luogo comune, l’arte è morta». E ancora: «L’Arte ha tutto
a che vedere con la vita, ma non ha niente a che vedere con l’Arte». Contrariamente alle avanguardie
storiche che, appropriatesi della inquietudine di Van Gogh, avevano tessuto legami tra arte e vita
auspicando il dissolvimento dell’arte nella vita (Mondrian) nell’intento di cambiare il mondo, Rauschenberg
si muove al contrario, vuole introdurre la vita nell’arte, per modificarne la fisionomia. Il mondo intero si
riversa nella pittura. I combine painting con il loro vocabolario fatto di giornali, animali impagliati, sedie,
sgabelli, valigie, scarpe, lampadine elettriche etc. spesso vengono esposti sul pavimento – laddove gli
oggetti cadono- con Bed del 1955 Rauschenberg espose un letto con la coperta e il cuscino macchiato con
schizzi di colore ponendolo su una impalcatura di legno e poi lo appese al muro. «L’orizzontalità del letto si
rapporta al ‘fare’, mentre la verticalità del piano del quadro del Rinascimento si rapportava al fatto di
‘guardare’ » scriveva Steinberg nel 1972.

- Robert Rauschenberg, Factum I e Factum II, 1957 – che valore ha il gesto se io posso renderlo
perfettamente reiterabile?
- Robert Rauschenberg, Dirt Painting, 1953, Rauschenberg Foundation (New York)

53
- Robert Rauschenberg, Bed, 1955, MoMA (New York) – è il suo letto che espone come opera. E’ un
action painting ma non realizzato nella auto definizione di opera d’arte, quindi su una tela o un
pannello, ma sul letto.

Jasper Johns (1930)

Johns nasce nel 1930 ad Augusta. Nel 1948 si trasferisce a New York. Arruolato, rientra a New York nel 1953
dove stringe con Robert Rauschenberg, con John Cage e il coreografo Merce Cunningham dando così vita a
un originale sodalizio artistico. Nel 1955 il pittore realizza Flag, Bandiera, la prima delle quattro versioni di
bandiera a collage ed encausto su tela, un soggetto molto familiare a Jasper Johns, familiare come i soggetti
che lo ispireranno in seguito: i bersagli, i numeri stenciled, le lattine di birra, gli oggetti d'uso comune e,
poco più tardi, le mappe degli Stati Uniti. Nel 1957 quando prende parte alla collettiva “Artists of the New
York School: Second Generation”, il suo quadro Target with plaster casts attira l’attenzione del gallerista Leo
Castelli che l'anno dopo realizza per Jasper la prima personale che riscuote grandi consensi: Il MoMA
acquista varie opere, e la Biennale di Venezia lo invita ad esporre in Italia. Dal 1959 espone in importanti
Gallerie a Parigi e Milano, ed è presente anche alla collettiva “Sixteen Americans”, realizzata dal MoMA.
Negli anni '60 prende parte alla mostra "Le Nouveau Réalisme à Paris et à New York", organizzata dalla
Galerie Rive Droite di Parigi, espone con Leslie, Rauschenberg, Stankiewicz o in collettive al Modern Museet
di Stoccolma, alla Kunsthalle di Berna, al Guggenheim Museum di New York, al Jewish Museum di New York
e alla Whitechapel Art Gallery di Londra, alla Biennale di Venezia e alla Dokumenta di Kassel. Negli anni '70
adotta uno schema a "tratteggio incrociato" mentre negli anni ‘80 inserisce nei suoi lavori oggetti
tridimensionali, calchi del corpo umano e immagini di interesse percettivo, accentuando il carattere
autobiografico delle sue opere cominciando a ispirarsi alle opere di altri artisti, come Grünewald e Picasso,
intersecando così la sua storia personale con la storia dell’arte.

- Jasper Johns, Flag, 1955, MoMA (New York) – La bandiera viene assunta come non una bandiera
degli Stati Uniti, ma come un pezzo di colore già fatto, un ready made, da utilizzare.
- Jasper Johns, target with plaster casts (bersaglio con calchi in gesso), 1957, MoMA (New York)- così
come la bandiera ecco il bersaglio, sul quale vennero posti calchi del corpo dell’artista che vennero
visti come scandalosi.

Johns fabbrica da sé gli elementi extra pittorici , tridimensionali che aggiunge ai suoi quadri estranei a
qualsiasi intento mimetico. Se il modernismo condanna ogni intento mimetico, Johns adotta come motivo
delle sue composizioni oggetti comuni, caratterizzati da evidente banalità, non c’è niente di più banale di
un bersaglio per le freccette o una bandiera americana, e qui entriamo nell’accezione Pop. Gli espressionisti
astratti utilizzavano preferibilmente scatole da caffè per ripulire i pennelli nell’acquaragia e Johns fa
ricavare da tutto ciò un calco in bronzo e poi lo dipinge completamente. Si tratta di un Trompe l’oeil al
contrario che fa il verso ai grumi di pittura dell’estetica espressionista oramai ritenuta superata (Painted
Bronze, 1960). Nel 1955, quando dipinge le prime flag, dichiara: «dipingere una bandiera significa occuparsi
di una bandiera, ma non meno di quanto ci si occupi della pennellata o di un colore o della fisicità della
pittura».

- Jasper Johns, Painted bronze, 1960, Museum Ludwig (Colonia)

54
NOVEAU REALISME

Il riferimento al DADA esplicito, come abbiamo visto negli Stati Uniti, si affermò anche in Europa. Nel 1961
Pierre Restany organizzò a Parigi una mostra dal titolo A 40° au dessus de Dada (40 gradi al di sopra del
Dada) dove esposero tra gli altri: Yves Klein, Daniel Spoerri, Jean Tinguely . Firmarono le seguente
dichiarazione: «Giovedì 27 ottobre 1960, i Nouveaux realiste hanno preso coscienza della loro singolarità
collettiva. Nouveau réalisme - nuovi approcci percettivi al reale». «Nouveaux realistes considerano il mondo
come un Quadro, la grande opera fondamentale dei cui frammenti essi si appropriano, ritenendoli dotati di
un significato universale. Essi mettono in mostra il reale nei diversi aspetti della sua totalità espressiva. E
con la mediazione di queste immagini specifiche, sono l’intera realtà sociologica, il bene comune
dell’attività degli uomini, la grande repubblica dei nostri scambi sociali, del nostro commercio collettivo ad
essere chiamati sulla scena» scriveva Pierre Restany introducendo il catalogo della mostra 40° au dessus de
Dada che si tenne nel Museo di Arte moderna della città di Parigi nel 1961. DADA e Merz sono
evidentemente i riferimenti più specifici e fornirono gli strumenti ai giovani artisti per allontanarsi dagli
eccessi, ritenuti di maniera, dell’espressionismo gestuale. Volevano trovare nell’anonimato e nella
concretezza gli strumenti per una nuova prima linea di indagine.

Daniel Spoerri (1930)

Nato in Romania, si trasferisce a Zurigo in Svizzera, attualmente vive da diversi anni in Italia. Finita la guerra
inizia a studiare danza e stringe legami di amicizia con Jean Tinguely. Tra il 1952 e il 1954 frequenta corsi di
danza classica a Parigi e tra il 1954 e il 1957 è stato l’ étoile del Berner Stadttheater. Nel frattempo inizia
l'attività di coreografo (Ballet en couleurs del 1955), di poeta e di regista firmando la mise en scene di Il
desiderio acchiappato per la coda di Picasso e nel 1956 e le prime assolute in lingua tedesca di La cantatrice
Calva di Ionesco e di La sonata e i tre signori di Tardieu. Nel 1959 si trasferisce a Parigi ed entra in rapporto
con numerosi artisti che operano nella città, tra i quali Duchamp e Man Ray. Sempre a Parigi, fonda la casa
editrice MAT (Multiplication d'art transformable) cui collabora Duchamp e inizia la sua opera di artista
figurativo: inventa i tableaux-pièges (Quadritrappola), incollando su tavole gli oggetti quotidiani ammassati
nella sua stanza d'albergo (la camera 13 dell'Hôtel Carcassonne, a Rue Mouffetard), che acquistano una
presenza insolita nel passaggio dal piano orizzontale a quello verticale. Nel 1960 elabora, con altri, il
Manifesto del Noveau Realisme. Nel 1961 Arturo Schwarz presenta a Milano la prima personale dell’artista.

Nell’ottica del noveau realisme prende un pezzo di mondo, una tavola apparecchiata, e questa parte di
mondo diventa un elemento artistico visibile.

Nel 1962, pubblica Topographie anecdotée (topografia anectodica) du hasard. Si tratta della descrizione
minuziosa di oggetti presenti sulla tavola della sua camera ed evocazione di ciò che suggeriscono. Prosegue
in questa ricerca di trasformazione del reale con i suoi Détrompe-l'œil, del 1963 nei quali gli oggetti della
quotidianità stravolgono e mettono in discussione l'immagine alla quale sono connessi: per esempio in La
Douche fissa una rubinetteria da stanza da bagno su un quadro che rappresenta un torrente di montagna,
un’azione assolutamente Dada. Intraprende ora un'altra linea di ricerca, che lo condurrà alla Eat Art. La sua
ricerca sarà nelle scorie, dell’avanzo, come avevano fatto altri come Rauschenberg, ma stavolta affonda il
suo interesse nel cibo. I frammenti di questo mondo sono gli avanzi del cibo per Spoerri, così come sono,
senza alcuna alterazione. Nel 1964 vive a New York e prende contatto con gli artisti del gruppo di Fluxus.
Nel 1968 apre a Dusseldorf il ristorante Spoerri nel quale serve cibo preparato da lui stesso. Il Noveau
realisme in più del New Dada ha questa visione di essere immersi in un quadro che è il mondo, così come
sono le cose – ogni cosa appartiene a questo quadro. Nel 1970 apre, nei locali sovrastanti il ristorante, la

55
Eat Art Galerie, che è anche l'editrice di numerose pubblicazioni sue e di altri artisti. Comincia anche a
praticare la scultura: la prima opera (un bronzo) si intitola Santo Grappa. Altre forme d'arte derivate dal
ristorante sono i quadri realizzati incollando sulla tavola i resti e i piatti sporchi, così come li hanno lasciati i
clienti, le collezioni di ricette di cucina e stravaganti riti gastronomici che diventano performance. La
scultura lo impegna negli anni ottanta che iniziano con la mostra interamente dedicata alla Eat Art: Inizia ad
assemblare strumenti da cappellaio, attrezzature ortopediche e da macellaio in forma di idoli da parodia,
alcuni dei quali sono poi fusi in bronzo. È la fase che egli definisce degli «oggetti etnosincretistici», che
riuniscono maschere primitive, oggetti da mercato delle pulci e simboli religiosi occidentali, per deridere
ogni fede e ogni convenzione artistica. Dal 1989 vive in Italia a Seggiano, un borgo della maremma toscana,
dove acquista un grande terreno e comincia a costruire un parco-museo, dove raccoglie opere proprie e di
suoi amici artisti. Lascia però il terreno così com’è, al contrario dell’arte topiaria, prendendo un pezzetto di
questo mondo, che è il quadro, costituito da ettari di boscaglia, e utilizzandolo per le sue varie concrezioni.
In pratica questo parco funge da grande Quadrotrappola, ed è in perfetta analogia con i Quadritrappola
precedentemente realizzati. Il parco è visitabile e L'artista lascia Parigi per vivere stabilmente in Toscana.
Nel 1990 il Centre Pompidou organizza a Parigi la prima mostra retrospettiva, dopo quella del 1972, in
onore dei 30 anni di carriera dell'artista: Daniel Spoerri - Retrospective.

- Daniel Spoerri, Prose Poems, 1959-1960, Tate Gallery (London) – costituito da oggetti congelati in
questo pezzo di mondo, che è il grande quadro universale.
- Daniel Spoerri, La douche, 1961, Centre Pompidou (Paris)
- Daniel Spoerri, Tableau Piege, 1972, Kunsthalle (Amburgo)
- Daniel Spoerri, Santo Grappa, 1970, Fondazione il Giardino di Daniel Spoerri (Seggiano) – è la sua
prima scultura in cui si vede una sorta di angelo volante, un suo personalissimo ragionamento sulla
dipendenza da alcol che lo ha condizionato per gran parte della sua vita.
- Daniel Spoerri tra due oggetti che lui chiama etnosincretistici – una sorta di feticci apotropaici, che
sono ricordo di culture di vario mondo, poiché non si può fare a meno sempre di frammenti del
mondo come quadro universale.

Dal 1960 Spoerri opera radicalmente in ambito Nouveau Realisme: incolla oggetti sul supporto si cui si
trovano in quel momento, senza alcuna scelta di ordine né compositivo né estetico. Il manufatto viene poi
appeso al muro dove diventa un Tableaupiége (quadro trappola) come Le petit déjeuner de Kichka del 1960
e Le Croutisme sempre del 1960 con gli avanzi di un pasto. «Non guardate questi tableau-piége come
fossero arte. Sono piuttosto una sorta di informazione, di provocazione, dirigono lo sguardo verso regioni
alle quali di solito non presta attenzione, ecco tutto. E l’arte cos’è? Sarebbe forse una forma di vita? Vi
sembra possibile, in questo caso?» scrive Spoerri nel 1961. Ammiccando a Duchamp organizzò una mostra
a Copenaghen nel 1961 dove non espose i quadri trappola bensì dei prodotti di consumo corrente
acquistati nella vicina drogheria esponendoli poi con la dicitura «attenzione opera d’arte» e con
l’indicazione del prezzo di vendita che dovrà essere uguale a quello proposto dal negozio da cui prvengono.
Sempre guardando a Duchamp progetta i détrompe l’oeil che sono l’esatto contrario del trompe l’oeil: si
tratta di composizioni ironicamente ribaltate in cui ad esempio una veduta di un paesaggio alpino viene
rettificata con l’aggiunta di rubinetti di doccia. Fu così che il riso e sicuramente già con il DADA ha acquisito
cittadinanza nel paludato mondo dell’arte.

- Daniel Spoerri, Kichka’s Breakfast I, 1960, MoMA (New York) – in questa opera le gambe della sedia
sono a parete.

56
Jean Tinguely (1925 - 1991)

Compagno di Niki de Saint Phalle. Conclusi gli studi all'accademia di Basilea, si stabilì nel 1952 a Parigi dove,
incentrando la propria ricerca sul movimento, elaborò serie di rilievi mobili e le prime sculture
astrattocinetiche in metallo ancora di vaga ispirazione surrealista (Meta-meccanica automobile, 1954;
Méta-matic n° 1, 1959); in quegli stessi anni, conobbe Niki de Saint Phalle, sua futura compagna, con la
quale collaborò spesso. Niki è infatti autrice del Giardino dei Tarocchi, nella maremma toscana, un
micromondo magico al quale anche Jean prese parte. Dopo i contatti con Yves Klein e con il gruppo dei
Nouveaux réalistes (al quale aderì nel 1960), avviò una intensa fase di sperimentazione elaborando, in
termini neodadaisti, serie di opere d'intonazione ironica e provocatoria, progressivamente tendenti al
formato monumentale. Crea delle macchine semoventi, ricordiamo Man Ray che era molto attratto dal
movimento, ma anche Calder, le cui opere si muovono, ma non meccanicamente. Le opere di Tinguely non
si muovono affatto, si vorrebbero muovere ma sempre e comunque con l’aiuto di un meccanismo.
Costruisce Omaggio a New York (1960, macchina-happening alta 8 m, progettata per autodistruggersi in
mezz'ora nel parco del Museum of modern art di New York), Baluba bye bye (1961, che assembla materiali
eterogenei d'uso quotidiano), Grande macchina ad acqua (1966, struttura ad ingranaggi metallici dotata di
motore). Dal 1969, nella foresta di Fontainebleau , Tinguely cominciò a lavorare a una gigantesca struttura,
Il ciclope, monumentale assemblage di tecniche diverse realizzato con la collaborazione di Daniel Spoerri e
Niki de Saint Phalle. L'opera, incompiuta alla morte dell'artista, fu acquistata dal governo francese nel 1992.

- Jean Tinguely, Metamatic, 1959, Museo Tinguely (Basilea) – si tratta di una macchina per la stampa
non controllata
- Jean Tinguely, Omaggio a New York, 1960 – aggregazione di rifiuti e oggetti di recupero.

Influenzato da Calder (1898 -1976) costruisce macchine fantastiche con oggetti di recupero , ruote dentate ,
ingranaggi , pulegge, trasmissioni. Sono le cosidette macchine celibi, poiché non servono assolutamente a
nulla. Le macchine di Tinguely parlano il linguaggio disarmonico e tragico della contemporaneità. Macchine
mal funzionanti in opposizione alle macchine utili della contemporaneità. Le macchine utili non aggiungono
niente all’umanita, così pensava Tinguely, e così realizza delle macchine che effettivamente non funzionino
e che siano rumorose e sporche.

- Jean Tinguely, Grande macchina ad acqua, 1966, Basilea


- Jean Tinguely, il ciclope, Milly-la-Forêt (Paris) – qui si vede l’influenza di Niki de Saint Phalle.

Yves Klein (1928-1962)

Va di pari passo con Piero Manzoni. Ha sì aderito al Noveau realisme, ma di fatto rimane un grande isolato.
Lavora sull’idea del pigmento puro: è famoso nel mondo per il blu di Klein, che ha anche tentato di
produrre ma non ha mai prodotto. Per lui il blu è il significato di totale immersione nella spiritualità, tema
che non coinvolge particolarmente i noveau realistes. Nella sua passione smodata per il blu ha anche a che
fare il soffitto della cappella degli Scrovegni di Padova di Giotto, nonché i cieli della Francia meridionale.

Nacque a Nizza. Klein compose la sua prima Symphonie monoton nel 1947. Nel 1955 si stabilì
permanentemente a Parigi dove tenne la sua prima personale. Molte delle sue prime opere furono dipinti
monocromi, in diversi colori. Realizzò più di mille tavole in sette anni. Il suo intento era quello di utilizzare i
singoli pigmenti puri, in modo che il colore non perdesse la luminosità una volta unito a un legante. Non era
solo una questione estetica, ma anche un fatto concettuale, la ricerca di una corrispondenza intima con la
misura umana. Nel 1955 iniziò ad utilizzare come fissativo, un prodotto chimico chiamato Rhodopas e solo
57
così, secondo l'artista, il colore poteva acquisire una vita propria e autonoma divenendo un individuo
evoluto. Ben presto sentì l'esigenza di abbandonare lo studio delle diverse nuances per concentrarsi su
un'unica tinta, il blu, che doveva unificare il cielo e la terra e dissolvere il piano dell'orizzonte. Fu nel 1956
che creò «la più perfetta espressione del blu», un oltremare saturo e luminoso, privo di alcuna alterazione,
poi da lui brevettato col nome di International Klein Blue (IKB, =PB29, =CI 77007), che però non venne mai
prodotto.

Klein produsse anche altre opere dette Antropometrie in cui alcune modelle, secondo le direttive di Yves
Klein, si "intingevano" nel colore per poi stendersi su tela lasciando così un'impronta che l'artista definiva
«traccia di vita». Un'altra tecnica simile era quella delle Registrazioni di pioggia che Klein realizzava
guidando nella pioggia a 70 miglia all'ora, con una tela legata sul tetto dell'auto, oppure accostando la tela
al tubo di scappamento del veicolo per dipingerle con i fumi. Vuole catturare il totalmente immateriale,
l’irraprresentabile, non la scoria materiale ma la traccia dello spirito, come anche il pensiero di Newmann.
Klein e Arman si ispirarono reciprocamente, sia in quanto Nouveaux Réalistes, sia per amicizia. Entrambi di
Nizza, lavorarono insieme per diversi anni e Arman diede al proprio figlio il nome di Yves. A volte la
creazione dei dipinti diventava una specie di performance art: nel 1960 a un evento davanti a una folla
elegante e formale realizzò un dipinto con modelle nude mentre un'orchestra suonava la sua Monotone
Symphony del 1949, composta da una sola nota continuata.

- Yves Klein, foto della performance Antropometria, 1960 - Utilizza le modelle nude e una volta tinte
di blu esse lasciano la loro traccia di vita, di essenza vitale immateriale.
- Yves Klein, Antropometria, 1965

In un'altra sua opera performativa vendette spazi vuoti in città in cambio di oro puro. Voleva che gli
acquirenti sperimentassero Il Vuoto: l'unico modo di pagare questa esperienza era, secondo lui, solo il
materiale più puro, l’oro. Per poi «riequilibrare l'ordine naturale» da lui sbilanciato con la vendita del
"vuoto", Klein gettò l'oro così ottenuto nella Senna. Klein è anche noto per la sua fotografia, Saut dans le
vide (Salto nel Vuoto), che lo mostra mentre apparentemente salta giù da un muro, con le braccia tese al
pavimento. Klein usò la fotografia per dimostrare il suo «volo lunare», che spesso menzionava. Saut dans le
vide venne pubblicata come parte di un attacco portato da Klein alla NASA, che avrebbe dovuto dimostrare
che le spedizioni lunari erano hybris e follia.

- Yves Klein, Saut dans le vide, 7 novembre 1960 – un salto nel vuoto. E’ una critica alla Nasa ma è un
angelo meraviglioso.

«Il pittore deve creare costantemente un solo unico capolavoro, se stesso.» Invece di rappresentare oggetti
in modo soggettivo o artistico, Klein voleva che fossero rappresentati dall'immagine della loro assenza. I
lavori di Klein si riferiscono a un contesto teoretico/ artistico e ad uno filosofico/metafisico: l'opera d'arte
consisteva nel combinarli entrambi. Klein mirava a far provare al pubblico la sensazione di far percepire e
capire un'idea astratta. Fu Klein la personalità di maggior rilievo nell’ambito del noveau realism. Con Arman
e il poeta Claude Pascal si incontravano in una stanza dipinta di blu nella casa di Arman e Arman prese la
terra, Pascal le parole e Klein il cielo. E il cielo è stato l’ambiente di Klein! Tensione verso l’assoluto da
raggiungere attraverso la smaterializzazione dell’opera d’arte. Klein fu in relazione con Piero Manzoni e
Lucio Fontana che nel 1957 relazioni acquistarono due Blu esposti a Milano. Sculture in gesso, spugne,
sinfonie monotone, silenzio, una sola nota vibrante su un fondo silenzioso.

- Piero Manzoni (1933 – 1963), sculture viventi, 1961 – Manzoni e Klein erano due fratelli, nell’arte e
nella vita, ed entrambi morirono giovani.
58
59

Potrebbero piacerti anche