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SIMBOLICA ECCLESIALE - 6

BRUNO FORTE

SIMBOLICA ECCLESIALE
Una teologia come storia
1.
La Parola della fede
Introduzione alla Simbolica Ecclesiale
(1996)

2.
La teologia come compagnia, memoria e profezia
Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia
(1987)

3.
Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia
Saggio di una cristologia come storia
(1981)

4.
Trinità come storia
Saggio sul Dio cristiano
(1985)

5.
La Chiesa della Trinità
Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione
(1995)

6.
L'eternità nel tempo
Saggio di antropologia ed etica sacramentale
(1993)

7.
Teologia della storia
Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento
(1991)

8.
Maria, la donna icona del Mistero
Saggio di mariologia simbolico-narrativa
(1989)
BRUNO FORTE

L'ETERNITÀ
NEL TEMPO
Saggio di antropologia
ed etica sacramentale
Seconda edizione 1999

Imprimatur
Frascati, 19 gennaio 1993
+ Giuseppe Matarrese, vescovo

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.I., 1993


Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.I.
Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino
Stampa: 1999
Società San Paolo, Alba (Cuneo)
Printed in Italy
INTRODUZIONE

«L'eternità nel tempo» non è solo il tema di questo libro, ma


anche l'annuncio gioioso e liberante, da cui esso nasce e di cui vor-
rebbe rendere ragione.
In un'epoca segnata dal tramonto delle visioni totalizzanti del-
l'uomo e della storia e dal profilarsi di un diffuso cedimento del
pensiero e della vita alla vittoria del nulla e del nonsenso, queste
pagine — quasi «canto del Signore in terra straniera» (Sai 137,4)
— vorrebbero testimoniare in maniera articolata e critica il valore
della concezione dell'uomo, che la tradizione ebraico-cristiana ha
offerto ed offre alla storia.
Fra un'antropologia del protagonismo assoluto del soggetto sto-
rico, tipica delle visioni ideologiche costruite sulla presunzione delle
possibilità illimitate della ragione, ed un 'antropologia della deva-
stante vittoria del nulla, dove l'uomo diventa «una passione inuti-
le», la fede nell'Eterno, entrato nella storia per amore degli uomi-
ni, apre ad una antropologia della Differenza, che visita ed abita
l'identità, e dell'identità del protagonista storico, che si realizza pie-
namente soltanto nell'esodo da sé senza ritorno dell'amore, che cam-
bia la vita. La verità di quest'antropologia — che è insieme dono
e conquista, liberazione e dramma — è il mistero dell'eternità nel
tempo, dell'alleanza cioè fra il tempo e l'Eterno, suscitata dall'ini-
ziativa gratuita del Dio vivente, che fonda anche la più radicale
solidarietà 'degli uomini tra loro.
Rendere ragione di questa verità, della verità di questo amore
è lo scopo di questo libro: perciò esso guarda all'uomo nella totali-
tà del suo essere davanti a Dio, in rapporto con Lui ed amato da
Lui; perciò parla di essere personale e di storia, di grazia e di liber-
tà, di sacramento e di ethos; e perciò si collega agli altri volumi
della mia Simbolica ecclesiale, che — dal Gesù di Nazaret, sto-
ria di Dio, Dio della storia a Trinità come storia, da Teologia
della storia a Maria, la donna icona del Mistero, da La teologia
come compagnia, memoria e profezia all'ecclesiologia — costi-

5
tuiscono come altrettante tappe sull'itinerario dell'incontro fra l'e-
sodo e l'avvento, fra l'umano andare e il divino venire, che è l'iti-
nerario dell'uomo sulla via della libertà, che non delude.
Il rimando alla totalità del Mistero motiva anche la struttura
di queste pagine: esse guardano all'uomo totale, anche se non in
modo totale, preferendo anzi una forma evocativa e simbolica. Par-
tendo dall'esistere concreto della persona umana nell'economia del-
l'alleanza col Dio vivente (l'«esistenziale soprannaturale», di cui
parla Karl Rahner), le riflessioni che seguono considerano il sog-
getto storico nelle sue strutture costitutive e nei suoi dinamismi di
chiusura ed apertura all'Eterno (Parte prima: Il tempo e l'Eter-
no). Quindi, in ascolto della rivelazione del Dio trinitario, esse scru-
tano il mistero della grazia, come storia di Dio nella storia dell'uo-
mo, e l'economìa sacramentale, in cui storicamente la grazia si media
(Parte seconda: L'eternità nel tempo); per evocare, infine, il para-
dosso del tempo accolto nell'eternità e i dinamismi anticipanti del-
la coscienza e della libertà della creatura chiamata, attraverso i te-
mi della predestinazione, dell'orientamento e dell'anticipazione, che
è la vita etema già ora pregustata nelle opere e nei giorni dell'esi-
stenza redenta (Parte terza: Il tempo nell'eternità).
Possano queste pagine accendere il desiderio dell'esperienza del-
l'eternità nel tempo, della vita nella morte, che vince la morte, e
dare così gloria a Colui che solo dà vita ai morti e suscita le cose
venienti e nuove, unica Origine, adorabile Grembo e sola Patria
dell'essere personale e del mondo.
A chi non ha fatto questa esperienza, a chi ne è in cerca, a chi
la vive come gioia e forza della sua intera esistenza, il libro è dedi-
cato. E, fra tutti costoro, in particolare a quanti — sotto il peso
della fatica di vivere e dell'inumano dolore del mondo — sono ten-
tati di non credere ormai ad altro, che alla potenza della morte:
con timore e tremore, ma anche con ferma convinzione e speran-
za, queste pagine vorrebbero ripetere ad essi la parola terribile, ma
vera e liberante, di uno dei più appassionati cantori della grazia,
Martin Lutero: «Noi diciamo: "Nel mezzo della vita moriamo".
Dio risponde: "Al contrario, in mezzo alla morte voi vivete"».

Napoli, Natale del Signore 1992


Festa della grazia e dell'umanità del nostro Dio BRUNO F O R T E

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1.

L'UOMO «FRA I TEMPI»

«Il destino della nostra generazione è di trovarsi fra i tem-


pi. Noi non siamo mai appartenuti al tempo che oggi volge alla
fine. Forse apparterremo una volta al tempo che verrà? e anche
ammesso che da parte nostra si sia in grado di appartenergli,
esso verrà tanto presto? Così ci troviamo nel mezzo. In uno spa-
zio vuoto... Noi ci troviamo fra i tempi». Queste parole di Frie-
drich Gogarten 1 esprimono il disagio di un cambiamento epo-
cale, che si può dire non ancora concluso. Se da una parte esse
denunciano la presa di distanza dalle visioni totalizzanti della
ragione illuministica, dall'altra annunciano quanto lungo e dram-
matico sarà l'addio che la coscienza europea dovrà dire al fasci-
no rassicurante dell'ideologia, rivoluzionaria o borghese. La cla-
morosa smentita dei sogni di trasformazione del reale a misura
dell'ideale si è fatta strada con altissimi costi ed è stata recepita
dalla cultura fortemente ideologizzata solo attraverso dure re-
sistenze e drammatici abbandoni. Solo lentamente si è imposta
l'amara costatazione, di cui si erano fatti voce Max Horkhei-
mer e Theodor W. Adorno: «L'illuminismo, nel senso più am-
pio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre
l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padro-
ni. Ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di
trionfale sventura»2. La «dialettica dell'illuminismo» — inte-
sa come processo di autodistruzione della ragione totalizzante
— ha prodotto a sua volta lo «spazio vuoto» di una stagione
d'inquietudine e di lunghi addii alle certezze della ragione adulta
ed emancipata. Questa stagione sta appunto «fra i tempi», ol-

1
Fra i tempi, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia
1976, 502, 508: l'articolo-appello, apparso originariamente in Christliche Welt 34 (1920)
n. 24, 374-378, suggerirà il nome alla rivista dei «teologi dialettici», iniziata nel 1922:
Zwischen den Zeiten.
2
M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino 1966 (edi-
zione originale: Amsterdam 1947), 11.

7
tre la modernità ed oltre l'ideologia, e tuttavia tale da potersi
solo indistintamente qualificare come «post-moderna», ancora
ammaliata com'è dalla seduzione di interpretazioni totali, pur
se nella forma negativa del nichilismo e della rinuncia.
In questo trapasso epocale riemerge con forza la domanda
sull'uomo: essa torna ad imporsi partendo dall'esperienza con-
creta dell'infinita sofferenza del mondo, nutrita dal desiderio
incancellabile dei singoli protagonisti e di intere masse umane
di dare senso e valore, qualità e dignità alla propria vita e alla
storia comune. Chi pensasse che con il tramonto delle ideolo-
gie si è esaurita anche la carica di speranza e di attesa rivoluzio-
naria, cui esse avevano dato corpo e voce, si ingannerebbe pe-
ricolosamente. Tramontano le risposte presuntuose e totali, ma
il problema «uomo» resta in tutta la sua drammatica urgenza
e serietà radicale. Esso si impone però con l'indiscutibile novi-
tà di profilarsi «fra i tempi», fra il declino di un'antropologia
che aveva celebrato il trionfo del soggetto storico e l'apparente
alternativa di una concezione dell'uomo maturata alla prova della
negazione e rinunciataria di fronte ad ogni fondamento. Se la
prima interpretazione — caratterizzabile come «antropologia del
dominio dell'identità», perché costruita intorno all'affermazio-
ne del protagonismo assoluto del soggetto — aveva trovato in
Hegel la sua formulazione insuperata, la seconda si è espressa
nei rivoli più diversi dell'inquietudine e del disagio. La conce-
zione, che Jean-Paul Sartre traccia dell'uomo come «passione
inutile», può essere intesa come un significativo esempio di que-
sta «antropologia alla prova della differenza», ispirata dal rifiu-
to programmatico di ogni dominio rassicurante della ragione,
che è vista anzi come fasciata da tutte le parti dall'incombenza
del nulla. E fra questi due modi di rispondere alla domanda an-
tropologica, che si presenta — nella distanza da entrambi —
la riscoperta della tradizione ebraico-cristiana, caratterizzata da
una visione dell'uomo, che si muove esattamente nell'incontro
fra l'identità del soggetto storico e il suo limite trascendente,
fra il protagonismo dell'uomo e la differenza, che lo misura e
lo supera. In questa concezione il mondo chiuso della ragione
totalizzante si apre alle sorprese dell'Alterità e questa viene a
mettere le sue tende fra gli uomini. Una simile antropologia —
che è poi quella della testimonianza biblica e della tradizione
di pensiero che ad essa sempre nuovamente si è ispirata nella
storia — sta allora doppiamente «fra i tempi»: non solo perché

8
si pone in alternativa tanto all'ideologia moderna, quanto al ni-
chilismo post-moderno, ma anche — e più profondamente —
perché pensa l'uomo fra identità e differenza, nella proclama-
zione — sempre scandalosa e irriducibile ai calcoli della ragio-
ne totalizzante o del pensiero debole — del suo stare «fra i tem-
pi», punto di incontro fra storia ed eternità, chiamato a parte-
cipare dell'eternità nel tempo.

1.1. L'ANTROPOLOGIA DEL DOMINIO DELL'IDENTITÀ

a) Un'antropologia totale

«Hegel negò il futuro, nessun futuro negherà Hegel»: con


queste parole Ernst Bloch chiudeva la prefazione al suo «com-
mento a Hegel»3, enunciandovi densamente una doppia tesi.
La prima riconosce l'inesauribile e sempre viva eredità di He-
gel; la seconda ne denuncia il limite costitutivo: la negazione
dell'ulteriorità.
L'impossibilità di rinunciare a misurarsi con la sfida hege-
liana è dovuta all'ardire forse insuperato che Hegel ha avuto
nel pensare la vita, portando al concetto il movimento, la con-
traddizione, il superamento che fanno il caldo sangue dell'esi-
stenza dell'uomo nella storia: egli «è un maestro del moto vi-
vente in contrapposizione al morto essere. Il suo tema era il Sé
che giunge alla conoscenza, il soggetto che si compenetra con
l'oggetto dialetticamente, l'oggetto con il soggetto, il vero che
è il reale. E il vero non è un factum fermo o già compiuto, come
non lo è lo stesso Hegel. Il vero come reale è piuttosto il risul-
tato di un processo; questo deve essere chiarito e conquista-
to»4. In Hegel la conoscenza della verità non è esercizio astrat-
to della ragione, contemplazione asettica di essenze eterne ed
immutabili, perché la verità è vita, perenne divenire, che nega,
afferma e compie se stesso, per nuovamente superarsi. La veri-
tà non è un Oggetto, ma è Soggetto: «Secondo il mio modo di
vedere che dovrà giustificarsi soltanto mercé l'esposizione del
sistema stesso, tutto dipende dall'intendere e dall'esprimere il
3
E. Bloch, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, ed. it. a cura di R. Bodei, Bolo-
gna 1975, 5 (la Prefazione è del 1951).
4
ft., 4.

9
vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come sog-
getto»5. In questo senso, in Hegel «la filosofia non è più l'a-
more della sapienza, ma la sapienza dell'amore»6, non è più la
ricerca del vero in sé, ma lo sforzo di pensare la distinzione e
il superamento del distinto in cui consiste il gioco dell'amore,
che fa esistere. E questo non in una dimensione soggettiva o
intimistica, ma in una tensione all'oggettività, che abbraccia il
reale nella sua complessità, nelle sue cadute, nell'insieme totale
dei rapporti di dipendenza, di conflitto, di emancipazione.
E precisamente questa concezione del vero che dà all'inte-
ra impresa hegeliana una straordinaria valenza antropologica:
per Hegel non è necessario astrarsi dal cambiamento e dalla lotta,
che fanno la quotidiana storia dell'uomo sulla terra, per attin-
gere la verità; al contrario è nel conflitto, nella densità dei rap-
porti storici e delle scelte umane che la verità si manifesta. Ogni
porto sicuro del pensiero è così violato: non è più possibile ri-
fugiarsi nella quiete dell'astratto per sfuggire alla passione, che
è la vita, ma la vita stessa entra nel pensiero e vi porta la sua
inesauribile dialettica di inizio e di fine, di scissione e di ricon-
ciliazione. «Quel che è contraddittorio nel regno della morte,
non lo è nel regno della vita»7. Pensare la vita diviene l'ope-
razione più responsabile, più seria, più realizzante, ed insieme
la più lacerante e faticosa che sia dato compiere all'uomo. Pen-
sare è attraversare l'abisso del negativo, per raggiungere il po-
sitivo, di cui il negativo non è l'opposto, ma momento necessa-
rio e vitale: «Non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte,
schiva della distruzione, anzi quella che sopporta la morte e in
essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua
verità solo a patto di ritrovare se stesso nell'assoluta devasta-
zione. .. Lo spirito è questa forza perché sa guardare in faccia
il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la
magica forza che volge il negativo nell'essere»8. Pensare è por-
tare al concetto la verità totale, che è la vita, senza nascondere
o rifiutare «la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del ne-
gativo» 9. La filosofia acquista così un'infinita dignità per l'uo-
5
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spìrito, tr. di E. De Negri, Firenze 1973,
13.
6
«La philosophie n'est plus l'amour de la sagesse, mais la sagesse de l'amour»:
R. Garaudy, Dieu est mort. Elude sur Hegel, Paris 19702, 97.
7
G. W. F. Hegel, Scritti teologici giovanili, tr. E. Mirri, Napoli 1977, 420.
8
Id., Fenomenologia dello spirito, o.c, 26.
*Ib., 14.

10
mo, perché si pone come coscienza e fattore del mutamento,
movimento dello spirito inesauribilmente superantesi nella sto-
ria reale. Contro ogni pensiero della stasi e della morta identi-
tà, Hegel intende pensare la contraddizione come momento pro-
prio e costitutivo del divenire, e perciò assume nel concetto il
tessuto concreto dei rapporti in cui soggetto e oggetto sono po-
sti, per giungere alla più alta unità, che è riconciliazione ricca
di tutto il movimento della vita, ed insieme movimento sempre
nuovamente iniziale.
In questa prospettiva non meraviglia che sia problematico
individuare un luogo particolare, che nel sistema hegeliano parli
dell'uomo: la stessa sezione dell'Enciclopédia dedicata all'antro-
pologia 10 intende quest'ultima come scienza dello spirito sog-
gettivo, considerato in sé — immediatamente — come anima
o spirito naturale. Essa si collega senza soluzione di continuità
alla riflessione sullo spirito soggettivo considerato per sé — in
maniera mediata —, che è propriamente l'oggetto della feno-
menologia dello spirito, per pervenire quindi alla psicologia, in-
tesa come scienza dello spirito che si determina in sé come sog-
getto per sé. Considerando poi il rapporto che lo spirito sogget-
tivo ha con lo spirito oggettivo e con lo spirito assoluto, in quanto
manifesta in sé il divenire del tutto, è facile comprendere come
l'intero sistema hegeliano sia centrato sull'uomo, e che precisa-
mente per tale ragione nulla di morto vi abita, ma tutto è rag-
giunto e contagiato dalla vita dello spirito, che si fa chiaro a
se stesso nell'essere umano: «Un mondo di lotta appare, un mon-
do in se stesso scisso, mai stagnante. Spira nella dialettica he-
geliana un corroborante vento marzolino, il soffio del rovescia-
mento di ciò che esiste, che deriva dalla Rivoluzione francese...
Il mondo ha la natura del fuoco, carico di contraddizioni pro-
pulsive in tutti i suoi livelli, dirompente come la primavera»11.
Questo tutto vivente non è che il tutto umano, l'uomo pensato
fino in fondo come manifestazione della realtà totale senza re-
sidui e senza riserve: «Uomo e libertà, da una parte, grande Pan
e suo ordine esteriore, dall'altra, si mescolano insieme. La Feno-
menologia, così come l'intero sistema, vogliono raggiungere l'au-
toconoscenza e nient'altro, ma la scambiano ugualmente in ogni
punto con la conoscenza del mondo, con questa forza esterna,
10
C£. Id., Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. di B. Croce, Ba-
ri 1973, 357ss.
11
E. Bloch, Soggetto-Oggetto, o.c, 125s.

11
senza la quale il soggetto rimane un mero in-sé vuoto, quando
non rimane una chimera» u. Si potrebbe dire che il pensiero di
Hegel è sotto tutti gli aspetti antropologia: un'antropologia to-
tale.
Mai il protagonismo della soggettività è stato spinto fino
ad un abbraccio così assoluto della realtà. Mai l'uomo — consi-
derato nella sua ragione quale espressione adeguata della totali-
tà del reale — è stato più altamente celebrato nella sua gran-
dezza. L'antropologia hegeliana è il trionfo bacchico dell'iden-
tità del soggetto, della vita dell'io colta come fenomenologia del
processo totale dello spirito, in tutte le sue dimensioni e i suoi
livelli: «L'Io o il divenire in generale, questo atto del mediare,
in virtù della sua semplicità è appunto l'immediatezza che è in
via di divenire, nonché l'immediato stesso... Per tal modo, il
vero è il trionfo bacchico dove non c'è membro che non sia eb-
bro; e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto im-
mediatamente si risolve, il trionfo è la quiete trasparente e sem-
plice»13.
L'atto della ragione — in cui si esercita l'attività dello spi-
rito, manifestando l'eterno divenire di Dio nella storia del mondo
— è l'autocostituirsi pienamente appagante della verità, il luo-
go in cui il vero come intero si va autocomprendendo, in una
identificazione totale di reale e ideale, di storia e di Assoluto:
«Il Dio di Hegel è il Dio humanus, l'humanum, come riesce a
divenir manifesto nella sua ampiezza e nella sua profondità»14.
La sinistra hegeliana coglierà in questa esaltazione dell'uomo
nel processo del divenire totale della realtà il fondamento spe-
culativo della dialettica con cui essa leggerà materialisticamen-
te la storia: «Ciò che vi è di grande nella Fenomenologia hege-
liana... è che Hegel intende l'autoproduzione dell'uomo come
un processo..., che intende quindi l'essenza del lavoro e conce-
pisce l'uomo oggettivo, l'uomo vero perché reale, come risulta-
to del suo proprio lavoro»15. Merito di Hegel sarebbe pertanto
quello di aver posto totalmente il divenire nella mente e nelle
mani dell'uomo, liberando il soggetto storico da ogni ipoteca
12
Ib., 475.
13
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, o.c, 16 e 38.
14
E. Bloch, Soggetto-Oggetto, o.c, 337.
15
G. Lukàcs, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Torino 1975,
22. In opposizione al neohegelismo, che tendeva a saldare Hegel a Kant, Lukàcs coglie
fra i due uno iato, che si concretizza nella decisa e consequenziale assunzione hegeliana
della dialettica, e vede confluire il razionalismo di Hegel in quello di Marx.

12
trascendente e responsabilizzandolo fino in fondo come unico
artefice del proprio destino.

b) La «coscienza infelice»

In questa antropologia totale non è assente il ruolo del ne-


gativo: esso si affaccia attraverso l'idea di «coscienza infelice»,
che si produce quando viene trasferita all'interno del soggetto
umano la scissione, che grava nelle relazioni storiche di dipen-
denza (di cui è emblematico il rapporto «signore-servo»), e si
esilia in tal modo la verità dell'intero dalle profondità della vi-
ta dello spirito. «La coscienza infelice è la coscienza di sé come
dell'essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella con-
traddizione» 16. Questa coscienza infelice scissa entro se stessa
è vista da Hegel come frutto storico della tradizione ebraico-
cristiana17: la concezione rigorosa della trascendenza divina, da
essa affermata, determinerebbe nella coscienza il conflitto fra
il sentirsi separata dall'Assoluto e il desiderio di negarsi in esso
senza riuscirvi. La vita diventa allora dolore, scissione irrisolta
e irrisolvibile: «La coscienza della vita, la coscienza dell'esiste-
re e dell'operare della vita stessa, è soltanto il dolore per que-
sto esistere e per questo operare»18. Né la devozione sentimen-
tale, né l'operare nel mondo, vissuto come obbedienza a Dio,
né la mortificazione di sé riusciranno ad eliminare la scissione,
fonte dell'infelicità della coscienza, perché questa non potrà mai
annullarsi e superare così la differenza dolorosa che la separa
dal divino.
L'unica via che si apre all'uomo per uscire dalla situazione
della coscienza infelice è quella di capovolgere il processo: più
che annullarsi nell'Assoluto, occorre che la coscienza sappia ri-
trovare l'Assoluto nel mondo e in se stessa. Ciò avviene quan-
do la coscienza diviene autocoscienza, si scopre cioè come ra-
gione, ovvero come presenzialità dello spirito a se stesso, che
unifica in sé i diversi aspetti della realtà e della scissione: «Sol-
tanto nell'autocoscienza come concetto dello spirito, la coscienza
raggiunge il suo punto di svolta (Wendungspunkt): qui essa, mo-
16
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, o.c, 174.
17
Riecheggiano qui temi già presenti negli Scritti teologici giovanili di Hegel, editi
dal H. Nohl, Tubingen 1907, tr. di N. Vaccaro e E. Mirri, Napoli 1972.
18
G. W. F. Hegel, fenomenologia dello spirito, o.c, 175.

13
vendo dalla variopinta parvenza dell'ai di qua sensibile e della
vuota notte dell'ai di là ultrasensibile, si inoltra nel giorno spi-
rituale della presenzialità»19. La figura filosofica della «coscien-
za infelice» diviene così lo strumento per distanziare l'antropo-
logia hegeliana dell'identità assoluta da quella ebraico-cristiana
della differenza, e per denunciare l'alienazione costitutiva del-
la fede in un Assoluto personale, trascendente e separato dal-
l'uomo.
Il trionfo bacchico del soggetto e dell'atto della ragione sem-
bra così assicurato su tutti i fronti: e tuttavia, è proprio qui che
si delinea il rischio e l'incompiutezza della concezione hegelia-
na dell'uomo. Troppo grande è l'audacia dell'impresa, troppo
ambizioso il progetto di un pensiero che risolva in sé senza re-
sidui la cangiante fluidità della vita: l'abbraccio totale si con-
verte in cattura; l'identità trionfante diventa prigione. Ne so-
no prova la stessa mitologia hegeliana del concetto e la vittoria
finale del sistema sulla mutabilità della vita reale: il pensatore
della contraddizione vivente sembra cedere lui stesso alla sedu-
zione di un appagamento compiuto! Ve lo spingeva la coscien-
za di essere la messe, il frutto più alto dell'epoca iniziata con
Cartesio, in cui le esigenze della ragione illuminata erano state
portate alla loro estrema tensione, oltre la quale sembrava non
esserci altro che deserto e noia. Ve lo spingeva la frenatura rea-
zionaria seguita agli entusiasmi della Rivoluzione, col diffuso
bisogno di riconciliazione e di ordine di fronte allo spezzamen-
to e alla crisi sperimentati nella storia reale. Ve lo spingeva in-
fine l'attitudine istintivamente difensiva dello sviluppo matu-
ro del pensiero nei confronti dell'oltre e del nuovo20.
Così, il pensatore dell'accadere sembra chiudere infine il mo-
vimento della vita nella quiete — certo traboccante, ma pur sem-
pre compiuta — del sistema: nella riconciliazione del «monismo
dello spirito» non c'è più spazio per la differenza e per la novi-
tà. Hegel negò il futuro: «E inaudito che Hegel considerasse
conclusa con la sua propria dottrina la storia della filosofia, della
vita spirituale in genere... Più di tutto sorprende la quiete nel
pensatore dell'accadere... La sua proposizione secondo cui il ra-
zionale è reale contiene piuttosto un dover essere, che spinge
in avanti, rivolto a tutto ciò che, nel reale, non è razionale. E

19
fi., 152.
20
E. Bloch, Soggetto-Oggetto, o.c, 464s.

14
nell'esclamazione: il tutto si fermi! risuona in Hegel continua-
mente, cioè dialetticamente, il comando di avanzare. Questa
esclamazione e questo comando sono due tonalità lontane, due
lontane melodie, ma si mescolano l'una con l'altra, anzi la me-
lodia che è aperta e procede innanzi è nella maturazione tardi-
va di Hegel la più forte... Ma rimane qualcosa di abnorme...:
alla fine del sistema, il risultato del processo del mondo è per
Hegel pubblicato... Tace, in virtù della sua filosofia, la com-
prensione del mondo futuro»21. La verità in quanto totalità si
converte in ripetizione dell'identico, la sostanza in quanto sog-
getto si risolve in «antiquariato»...

e) L'assenza dell'alterità

Il limite si affaccia però non solo in direzione dell'ulteriori-


tà, che il compimento del sistema esorcizza e rifiuta: è in gene-
rale la figura dell'alterità che in Hegel sembra dissolta. Non c'è
più differenza: e ciò che a lui appariva come la promessa vitto-
ria sulle lacerazioni della coscienza infelice, si rivela finalmente
abbraccio asfissiante, cattura negatrice della libertà. Se la sto-
ria dell'identità del soggetto è la storia del tutto, ogni tappa del
processo è per essa eternamente segnata: non la contingenza e
la libertà, ma la necessità assoluta è la legge del divenire. Nes-
suno spazio è più aperto per l'improvvisazione e per il rischio,
nessuna possibilità è più data per la fantasia, di cui la libertà
ha bisogno per produrre i propri sogni ed osare le proprie av-
venture. L'uomo pensato nella compiutezza del sistema è «to-
talmente» compreso: la sua dignità e la sua grandezza appaiono
altamente celebrate; ma a quale prezzo il trionfo si compie! Il
soggetto si scopre condannato a divenire eternamente ciò che
è, in una ripetizione dell'identico, che esorcizza certo il dolore,
ma annulla anche ogni possibile gioia. Se il negativo è vinto,
perché ridotto a momento necessario e «normale» del processo,
destinato ad essere infallibilmente superato, il positivo è svuo-
tato: dove tutto ritorna, non c'è più sorpresa e nulla resta vera-
mente da sperare. Una noia grigia offuscherà l'intero orizzon-
te. E quanto peraltro è avvenuto dovunque l'ideologia, frutto
della presunzione totalizzante della ragione moderna, ha volu-
21
Jb., 462s.

15
to imporsi alla storia: l'«uomo programmato» — che avrebbe
dovuto essere libero dalla scissione della coscienza infelice —
ha visto la lacerazione insediarsi nella sua coscienza proprio a
causa della subordinazione schiavizzante al dominio dell'idea-
le, imposto alla vita.
È qui che si coglie il drammatico risvolto etico di un'antro-
pologia dell'identità assoluta: pretendendo di spiegare tutto e
di cambiare il mondo in -maniera conseguente alla spiegazione
totale, l'ideologia si vede costretta a forzare la realtà, che le ap-
pare ottusa e resistente. Il totalitarismo e la violenza le appar-
tengono costitutivamente: dove è tolta la differenza, il potere
dell'identità è assoluto e brutale. La volontà di potenza del sog-
getto, ebbro della totale comprensione di sé e della storia, si
estende a raggiungere tutti i rapporti: dove l'essere trascenden-
te è debole o oscurato, la soggettività si sente in diritto di go-
vernare il mondo e la vita con dispotismo totale. Ed anche se
la coscienza soggettiva deve assimilarsi alla coscienza oggettiva
della classe o del gruppo rivoluzionario, non di meno la libertà
e la creatività del singolo sono violate e immolate. Il destino
dell'ideologia è di divorare se stessa, di celebrare la sua fine rag-
giungendo il suo trionfo, di alienare totalmente l'uomo, che pure
voleva liberato dall'alienazione: «Il prezzo dell'identità di tut-
to con tutto è che nulla può essere identico con se stesso. L'il-
luminismo dissolve il torto della vecchia inuguaglianza, il do-
minio immediato, ma lo eterna nell'universale mediazione, che
rapporta ogni ente ad ogni altro... Non solo le qualità vengono
dissolte nel pensiero, ma gli uomini sono costretti alla confor-
mità reale» n . In Hegel, come nei suoi epigoni ideologici, che
mutuano da lui la fiducia nelle possibilità della ragione di cam-
biare il mondo e la vita, dominandoli con la fatica del concetto
e con le sue «trascrizioni» storiche, «l'illuminismo è totalitario
più di qualunque sistema»23.
È qui che la memoria della Trascendenza, esorcizzata dal-
l'antropologia del trionfo assoluto dell'identità, può costituire
il richiamo permanentemente critico contro ogni alienazione rea-
le, mostrando come la «coscienza infelice» sia non quella che
mantiene l'alterità, riconciliandola senza eliminarla, ma quella
che toglie la scissione superandola. Alla «cattiva» identità, im-

22
M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, o.c, 20.
23
Ib., 32.

16
prigionante perché onnicomprensiva, può opporsi significativa-
mente soltanto una «salutare» Differenza...

1.2. L'ANTROPOLOGIA ALLA PROVA DELLA DIFFERENZA

a) II ritorno al concreto

L'insofferenza nei confronti del totalitarismo della ragione


moderna non tarderà a manifestarsi nella coscienza europea: dal
tardo Schelling, che rivendica contro la necessità logica del di-
venire assoluto i diritti della libertà, all'apologia del «singolo»
in Kierkegaard, dalla denuncia della morte di Dio in Nietzsche,
alla riscoperta del Totalmente Altro e dell'«infinita differenza
qualitativa» fra Dio e il mondo in Barth, dal pensiero ebraico
rigorosamente aperto alla Trascendenza di Martin Buber e Franz
Rosenzweig, all'esistenzialismo, col suo ritorno al vissuto, è un
coro di voci diverse, spesso fra loro alternative, che convergo-
no però nell'urgenza di reagire alla cattura soffocante del trion-
fo della ragione assoluta.
Cifra di questa reazione può considerarsi tra altre la conce-
zione antropologica di Jean-Paul Sartre24: contrapponendo al-
l'onnipresenza del reale, idealmente raggiunto nell'identità del
soggetto presente a se stesso, la conturbante insidia del nulla,
che fascia tutte le cose, essa si apre alla sfida della «differen-
za». Sul fronte del rifiuto dell'idealismo, il giovane Sartre si in-
serisce nel movimento di «ritorno al concreto», che caratteriz-
za larga parte della cultura francese fra le due guerre, e che muove
precisamente dalla critica del pensiero della riconciliazione to-
tale, in cui scopre «paradossi, ambiguità, conflitti non risolti
nell'universo»25. E un nuovo interesse all'uomo e alla sua esi-
stenza, in particolare a quegli aspetti che sembrano precedere
la razionalità o sfuggire alla sua presa. E un dar voce alla scis-
sione irriconciliata ed alla «coscienza infelice», rifiutando la malia

24
Cf. S. Moravia, Introduzione a Sartre, Bari 19792, con ampia bibliografia
(155-178).
25
Cf. J.-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, tr. it. di P. Caruso, Milano 1963,
I, 26, in riferimento al libro del pensatore ebreo Jean Wahl, Vers le concret, Paris 1932,
che si sforzava appunto di uscire dagli schemi dell'idealismo neokantiano e dello spiri-
tualismo, dominanti nella filosofia francese del primo Novecento.

17
della sistemazione solare dello spirito totalmente presente a se
stesso26.
Lo strumento concettuale per operare questo ritorno alla co-
scienza concreta, impigliata nelle contraddizioni della vita rea-
le, venne offerto a Sartre dall'incontro con la fenomenologia
di Husserl, da lui peraltro assimilata in maniera molto libera
e personale. Essa gli consentiva di allontanarsi dall'idealismo
senza per questo cadere in Una gnoseologia di tipo materialisti-
co, e di conferire così «alla coscienza una gloriosa indipenden-
za pur accordando tutto il suo peso alla realtà»27. La centrali-
tà riconosciuta alla coscienza non esclude né la sua natura irri-
flessa, né la consistenza delle cose: secondo la dottrina husser-
liana dell'intenzionalità, la coscienza si pone tutta intera negli
atti che concretamente compie, perché è sempre e solo coscien-
za di qualcosa, «intenzionata» verso l'oggetto, ma nello stesso
tempo il modo in cui si volge alle cose determina il carattere
degli stessi oggetti «intenzionati». Descrivere questa intenzio-
nalità della coscienza diventa allora la via di superamento pos-
sibile tanto dell'idealismo, quanto del realismo materialistico,
perché evita sia la riduzione del reale a un presunto ideale tota-
lizzante, sia l'identificazione del mondo della coscienza con la
realtà bruta delle cose.
È a questa impresa che Sartre dedicherà i suoi sforzi, con
l'intento di recuperare in filosofia l'uomo concretamente esi-
stente, per affermarne la sovrana libertà, attinta nell'attività della
coscienza in situazione, che è al tempo stesso «costituzione e
annichilazione del mondo»28. Lungo questa linea di ricerca,
l'attenzione all'immaginazione gli consentirà di evidenziare la
capacità che la coscienza ha di negare l'essere in prospettiva di
un nuovo essere, che non è, ma può essere, e di delineare così
la dialettica fra l'«essere-nel-mondo» della coscienza e il suo es-
sere trascendentalmente libera rispetto alle situazioni, in cui è
posta. L'insofferenza ai totalitarismi concettuali ed alle loro
espressioni storiche spinge il giovane pensatore all'indagine psi-
cologica, volta ad un'affermazione assoluta della libertà della

26
Un altro libro di J. Wahl aveva influenzato in tal senso il giovane Sartre: Le
malheur de la conscience iam la philosophie de Hegel, Paris 1929 (tr. it. di F. Ochetto,
con Prefazione di E. Paci, Milano 1972).
27
S. de Beauvoir, L'età forte, Torino 1961, 30.
28
J.-P. Sartre, Immagine e coscienza, Torino 19643 (originale: L'imaginaìre, Pa-
ris 1940), 286.

18
coscienza, cui non manca il sapore amaro della solitudine e del-
la tragicità della lotta contro un mondo, che resta indisponibile
alla libertà29. E forse però proprio questa difficoltà, che lo in-
durrà ad approfondire in direzione ontologica — sia pur se nel
senso di una «ontologia fenomenologica» — la sua ricerca sul-
l'uomo, interpretato come coscienza situata e come libertà: L'Etre
et le Néant (1943) nascerà dal bisogno di fondare in maniera
radicale, scavata nelle profondità dell'esistenza, i valori assolu-
ti della coscienza e della libertà, la cui negazione proprio in quegli
anni veniva imposta al mondo dalla barbarie dei vari totalitari-
smi storici, frutto consequenziale delle ideologie30. Non a ca-
so sono gli anni in cui Sartre conoscerà la prigionia e l'impegno
politico nella resistenza...

b) L'essere e il nulla

In L'essere e il nulla confluiscono i motivi ispiratori che ave-


vano guidato il giovane pensatore sin dagli inizi della sua ricer-
ca: anzitutto, in chiave decisamente antiidealistica, si descrive
l'essere del fenomeno come un «in-sé», opaco, massiccio, bru-
talmente contrapposto alla creatività e all'autonomia della co-
scienza. «L'essere non è rapporto a sé, è sé. È immanenza che
non può realizzarsi, affermazione che non può affermarsi, atti-
vità che non può agire... L'essere è in sé... Ma se l'essere è in
sé, vuol dire che non rimanda a sé, come la coscienza di sé; questo
sé è esso stesso... L'essere in sé non ha affatto un di dentro, che
si opponga ad un di fuori e che sarebbe analogo a un giudizio,
una legge, una coscienza di sé. L'essere in sé non ha segreti:
è massiccio. In un certo senso, lo si può chiamare una sintesi.
Ma è la sintesi più indissolubile che vi sia: la sintesi di sé con
sé. Ne deriva che l'essere è isolato nel suo essere e non ha alcun
rapporto con ciò che non è lui»31. Non si poteva delineare una
negazione più radicale dell'equazione idealistica di reale e idea-
le: dove Hegel vedeva continuità e comunicazione assoluta, Sar-
29
Le opere in cui l'analisi «psicologica» della coscienza e della libertà in situazio-
ne è portata avanti sono soprattutto L'imagination, Paris 1936, Esquisse d'une théorie
des émotions, Paris 1939 e L'Imaginaire. Psychologie phénoménologique de l'imagination,
Paris 1940.
30
J.-P. Sartre, L'Ètre et le Néant. Essai d'ontologie phénoménologique, Paris 1943
(tr. it. di G. Del Bo, L'essere e il nulla, Milano 1958, 19703).
31
L'essere e il nulla, o.c, 32s.

19
tre vede impenetrabilità e contrapposizione. Il reale inteso co-
me essere in sé sta davanti al mondo della coscienza come cep-
po, chiusura, dato, spessore opaco, alterità irriducibile e ottusa.
All'essere in sé del fenomeno si oppone in maniera assoluta
l'essere «per-sé» della coscienza: «La legge d'essere del perse,
come fondamento ontologico della coscienza, è d'essere se stesso
sotto forma di presenza a sé. Questa presenza a sé è stata spes-
so identificata con una pienezza d'esistenza, ed un pregiudizio,
molto diffuso tra i filosofi, attribuisce alla coscienza la più alta
dignità d'essere. Ma questo postulato non può essere mantenu-
to dopo una descrizione più approfondita della nozione di pre-
senza. Infatti ogni presenza a implica dualità, quindi separazio-
ne almeno virtuale. La presenza dell'essere a sé implica un di-
stacco dell'essere in rapporto a sé... La presenza a sé presuppo-
ne che una fessura impalpabile si sia infiltrata nell'essere. Se
è presente a sé, significa che non è del tutto sé. La presenza
è una degradazione immediata della coincidenza, perché pre-
suppone la separazione»32. La coscienza, dunque, in quanto
presenza a sé dell'essere «per-sé», è costitutivamente e origina-
riamente scissione, insanabile lacerazione: li dove questa venis-
se a mancare, la coscienza cesserebbe di essere tale e l'«in-sé»
compatto e indifferenziato ne prenderebbe il posto. Anche qui
la distanza dall'idealismo appare totale: lungi dall'essere ricon-
ciliazione, la coscienza in atto è separazione e rottura nell'essere.
E grazie però a questa lacerazione che la coscienza può op-
porsi a se stessa nel gioco della libertà: qui il rifiuto dell'assolu-
tezza hegeliana dello spirito si congiunge alla negazione del rea-
lismo materialistico. Nello spazio del «per-sé» l'audacia creati-
va della coscienza scissa in se stessa è senza confini: non il dato
bruto imposto dall'esterno, ma il rischio della libertà creatrice
decide nel conflitto, di cui la coscienza in quanto essere «per-
sé» vive costitutivamente ed originariamente. «La condizione
necessaria perché sia possibile dire "no" è che il non-essere sia
una presenza continua, in noi e al di fuori di noi, è che il nulla
penetri continuamente l'essere»33. Il mondo del «per-sé» si op-
pone al realismo bruto di ogni concezione materialistica come
il conflitto della libertà alla stasi mortale della cosa «in-sé»: af-
fermare insieme questi due mondi, dell'«in-sé» e del «per-sé»,

32
Ih., 121s.
33
/é.,47.

20
come appartenenti l'uno e l'altro all'essere in generale, è nega-
re al tempo stesso idealismo e realismo, proprio perché questi
«falliscono ambedue nello spiegare i rapporti che uniscono di
fatto queste due zone incomunicabili in linea di diritto»34.
Quale concezione del loro rapporto è allora possibile? che cosa
lega la pesantezza del fenomeno alla leggerezza della coscien-
za? quale comunicazione può esservi fra l'«in-sé», massiccio e
opaco, e il «per-sé» relazionale della presenza a se stessi?
È nella risposta a questi interrogativi che Sartre introduce
la figura decisiva del «nulla»: non si tratta della sola negazione
connessa ad ogni determinazione, secondo il principio omnis de-
terminatici est negatio. Se così fosse, il nulla si risolverebbe in
un semplice momento del processo dell'essere, alla fine vitto-
rioso nella sua traboccante pienezza, come è in Hegel. Né si
tratta — come in Heidegger — del nulla quale sfondo opaco
dell'essere, rispetto a cui l'esserci emerge quasi sospeso in un'in-
finita contingenza, la cui coscienza è l'angoscia dell'esistere. «Per-
ché vi siano delle negazioni nel mondo, e perché si possa di con-
seguenza interrogarci sull'essere, bisogna che il nulla sia dato
in qualche modo... Non si può concepire il nulla aldi fuori del-
l'essere, come nozione complementare ed astratta o come mez-
zo infinito dove l'essere sarebbe in sospeso. Bisogna che il nul-
la sia dato nell'intimo dell'essere»35. Ora, l'essere «in-sé» non
può produrre questo nulla, perché è compatto, indifferenziato:
solo nell'essere «per-sé», che è negazione di sé e coscienza di
questa negazione, il nulla può veramente abitare36. Questo es-
sere è l'uomo, coscienza della libertà che si gioca fra l'essere
e il nulla, presenza a sé che si differenzia da sé e che proprio
nella scissione è libera. Per questo il «per-sé», che è la coscien-
za, abbraccia il suo nulla: «Il nulla non si può annullare che sul-
la base dell'essere; se il nulla può essere dato, ciò non avviene
né prima né dopo l'essere, né, in senso generale, al di fuori del-
l'essere, ma nel seno stesso dell'essere, nel suo nocciolo, come
un verme»37. Il nulla è costitutivo del «per-sé», lo abita dal di
dentro e si affaccia alla coscienza come l'esperienza del non-
essere radicale, che essa fa continuamente nel suo stesso essere
e agire, concretamente vissuti come esercizio di libertà. Il nulla

™Ib., 34.
"Ib.,
36
58s.
Cf. ih., 59.
" f t . , 58.

21
non soltanto fascia l'uomo da tutte le parti, ma gli dimora den-
tro, è all'inizio e alla fine di ogni suo atto, è il percorso obbliga-
to delle sue scelte libere. Perciò il nulla è generato dall'uomo
e lo genera, e perciò la libertà — che richiede il nulla come sua
condizione — è condanna e angoscia: «La libertà s'angoscia di
fronte a se stessa in quanto non è mai sollecitata né impedita
da niente... L'angoscia, infatti, è il riconoscere una possibilità
come mia possibilità, cioè si costituisce quando la coscienza si
vede divisa dalla sua essenza mediante il nulla o separata dal
futuro mediante la sua stessa libertà»38. «La libertà è limite a
se stessa. Essere libero significa essere condannato ad essere li-
bero»39.
Abitato dal nulla, l'uomo non ha alcuna compattezza onto-
logica, è assolutamente «in-fondato», e vive perciò la sua liber-
tà con la radicale «malafede» di chi recita tutti i ruoli, che di
volta in volta si assegna, per darsi un'apparenza di solidità, men-
tendo a se stesso e sapendo di mentire: «La malafede non viene
dal di fuori alla realtà umana. Non si subisce la propria malafe-
de, non si è "affetti" da malafede, non è uno stato. La coscien-
za si contamina da se stessa di malafede... Ne segue che colui
a cui si mente e chi mente sono una sola e medesima persona,
il che significa che devo sapere, in quanto ingannatore, la veri-
tà che mi è occultata in quanto ingannato»40. L'uomo è «tea-
tralità», maschera consapevole, coscienza scissa che si illude di
governare la scissione esercitando in maniera assoluta la liber-
tà, ma in realtà è gettata nella libertà e condannata ad essa, e
non può far altro che cercare di sfuggire al nulla dandosi una
parvenza, che non annulla il nulla, ma lo nasconde soltanto, sa-
pendo di nasconderlo. Non ci sono ancore di salvezza, né mete
che tengano, anche se la coscienza esercita l'immaginazione per
crearsi degli oggetti del desiderio, dei «valori», puro non-essere,
che possiede però l'essere del non-essere della coscienza: belli
e impossibili, appetibili proprio perché irreali. Il senso del va-
lore è di essere ciò verso cui l'essere «per-sé» supera il suo esse-
re, in un autotrascendersi della coscienza, che essa stessa pro-
duce e che mai compiutamente raggiungerà: «Il valore è al di
là dell'essere. Tuttavia, se non ci fermiamo alle parole, bisogna
riconoscere che questo essere che è al di là dell'essere, possiede
38
Ib., 74.
39
Ib., 179.
4
°Jè., 88s.

22
almeno l'essere in qualche modo. Queste considerazioni basta-
no a farci ammettere che la realtà umana è ciò per cui il valore
giunge al mondo»41. L'uomo è il creatore dei valori, ma in ciò
stesso è il produttore della propria infelicità, perché pone di-
nanzi a sé mete agognate perché lontane, il cui essere è solo il
loro puro non essere nella coscienza. Anche il valore non è che
un volto del nulla!

e) L'uomo, «una passione inutile»

L'assoluta centralità della coscienza sembra così affermata


in modo pieno, contro ogni astrazione totalizzante: il risultato
è tuttavia raggiunto a caro prezzo. La temporalità e la storia
sono di fatto vanificate, ridotte a mera dissolvenza, in cui il pas-
sato è «perpetuamente negato», il presente è «fuga» e il futuro
è «mancanza»: semplici dilatazioni dell'essere «per-sé» in dire-
zione del nulla da cui proviene ed in cui incessantemente preci-
pita, pura néantisation42. Il rapporto con altri è parimenti ne-
gato: sotto la violenza dello sguardo l'altro appare al soggetto
come sua negazione, limite della propria libertà, minaccia del
proprio possesso. «Con lo sguardo d'altri, la "situazione" mi
sfugge, o, per usare un'espressione banale, ma che rende bene
il concetto: io non sono più padrone della situazione»^. Ecco
perché ogni relazione ad altri è conflitto ed incomunicabilità,
incapacità di attraversare il nulla che abita in entrambi, e che
si manifesta in una serie infinita di negazioni reciproche e di
antagonismi. Ne è esempio clamoroso il rapporto d'amore: «Cia-
scuno vuole che l'altro l'ami, senza rendersi conto che amare
è voler essere amato e che volendo che l'altro l'ami vuole sola-
mente che l'altro voglia che egli l'ami... Il problema del mio
essere-per-altri rimane quindi senza soluzione, gli amanti riman-
gono ciascuno per sé in una soggettività totale; niente intervie-
ne a liberarli dal loro dovere di farsi esistere ciascuno per
sé»44. «L'essenza dei rapporti tra le coscienze è... il conflit-
to»45. Il trionfo del nulla — che rode come un verme l'inte-

41
le., 139.
42
Cf. le riflessioni sulla temporalità in Essere e nulla, o.c, 154ss.
43
Ik, 336.
44
Ik, 460s.
4
'fò., 521.

23
tudine dell'uomo incapace di comunicare e di amare, e l'arbi-
trio assoluto dell'identità non è poi così diverso dalla concezio-
ne di una coscienza creatrice di valori, che sono tali soltanto
nella loro permanente inattingibilità. Dove la differenza assor-
be tutto, non c'è più spazio per l'alterità, come non ce n'era
dove l'identità veniva a dominare sull'intero reale. Se l'uomo
dell'ideologia è alla fine artefice della propria prigione, e perciò
della più tragica delle alienazioni, l'uomo consumato dal nulla
non è meno alienato da sé: veramente, è e resta «una passione
inutile»48.

1.3. L'ANTROPOLOGIA FRA IDENTITÀ E DIFFERENZA:


L'ETERNITÀ NEL TEMPO

a) «Fra i tempi»

Fra il trionfo dell'identità assoluta e l'apologia della diffe-


renza, risolta nel dominio onnicomprensivo del nulla, fra il tempo
dell'ideologia e quello del nichilismo, la causa dell'uomo esige
che si cerchi una via altra e diversa, «fra i tempi», capace di
sfuggire tanto alla seduzione alienante del pensiero solare, quanto
alla malia tragica della finale vittoria delle tenebre. E la tradi-
zione ebraico-cristiana ad offrire la possibilità di questa conce-
zione dell'uomo, frutto dell'incontro fra identità e differenza:
è l'antropologia dell'Assoluto che entra nella storia, rimanendo
altro e sovrano rispetto ad essa, del Trascendente che viene ad
abitare e a redimere l'esodo della condizione umana, della Glo-
ria che si partecipa ai giorni degli uomini aprendoli al dono del-
48
La stessa vicenda di J.-P. Sartre dà ragione di queste critiche: si potrebbe dire
che la sua attività di scrittore di letteratura e di teatro, il suo impegno di politico mili-
tante, e la progressiva elaborazione del suo pensiero filosofico siano stati la continua
smentita di un'antropologia della «passione inutile». Ad esempio, già un romanzo co-
me La nausea (1938), che descrive l'invadenza brulicante dell'«in-sé» e divulga l'espe-
rienza metafisica dell'assurdità dell'esistenza, risponde ad una scelta di esistenza «im-
pegnata». Lo stesso può dirsi della produzione teatrale e della restante opera narrativa
di Sartre. Ma l'insoddisfazione verso le conclusioni antropologiche di L'essere e il nulla
si manifesta in forma filosoficamente elaborata in saggi come L'existentialìsme est un
humanisme, Paris 1946 (L'esistenzialismo è un umanesimo, tr. di P. Caruso, Milano 1963)
e nell'altra grande opera di Sartre, Critique de la raison dialectique, Paris 1960 (Critica
della ragione dialettica, tr. di P. Caruso, Milano 1963, 2 voli.), che riformula i principi
del suo esistenzialismo per consentire l'analisi del sociale e la fondazione dell'impegno
storico, che apparivano impossibili stando alle conclusioni di L'essere e ti nulla.

25
la vita eterna, dell'alleanza di Dio con l'uomo e dell'uomo con
Dio. Anche così, una tale concezione sta «fra i tempi», fra il
tempo dell'eternità e il tempo della storia: è l'antropologia del-
Yeternità nel tempo''9.
Questa concezione si rapporta in maniera articolata e com-
plessa alle altre visioni dell'uomo, il cui esito nichilista è stato
mostrato. Rispetto al protagonismo totale del pensiero essa si
pone anzitutto in maniera negativa: il senso dell'assoluta tra-
scendenza di Dio e della sua signoria sulla storia si oppone ad
ogni enfatizzazione indebita delle possibilità del soggetto uma-
no. L'uomo sta davanti all'Eterno come creatura — del tutto

49
La bibliografia sull'antropologia teologica, costruita sulla testimonianza bibli-
ca, è vastissima: fra le opere più recenti cf. L'antropologia biblica, ed. da G. De Genna-
ro, Napoli 1981; L'antropologia dei Maestri spirituali, a cura di Ch.-A. Bernard, Milano
1991; Antropologia delle prime comunità cristiane, Venezia 1980; H. Urs von Balthasar,
TeoDrammatica. II: Le persone del dramma: L'uomo in Dio, Milano 1982; L. Boff, O
destino do homen e do mundo. Ensaio sobre a vocacào humana, Petrópolis 1973; O. Clé-
ment, Riflessioni sull'uomo, Milano 1973; G. Colzani, Antropologia teologica. L'uomo:
paradosso e mistero, Bologna 1988; J. Comblin, Antropologia cristiana, Assisi 1987; Di-
mensione antropologica della teologia, a cura di A. Marranzini, Milano 1971; M. Flick
- Z. Alszeghy, Fondamenti di una antropologia teologica, Firenze 1970; Id., L'uomo nel-
la teologia, Modena 1971; F. Gogarten, L'uomo tra Dio e il mondo, Bologna 1971; J.
I. Gonzàlez Faus, Proyecto de hermano. Vision creyente del hombre, Santander 199l 2 ;
G. Gozzelino, Vocazione e destino dell'uomo in Cristo. Saggio di antropologia teologica
fondamentale, Torino-Leumann 1985; V. Grossi, Lineamenti di antropologia patristica,
Roma 1983; A. J. Heschel, Chi è l'uomo?, Milano 19894; Id., L'uomo non è solo, Mi-
lano 19875; W. Kern, Strutture antropologiche alla luce della rivelazione, in Aa.Vv., Cor-
so dì Teologia Fondamentale. I. Trattato sulla religione, Brescia 1990, 229-257; L. F.
Ladarfa, Antropologia teologica, Casale Monferrato 1986; E. Malnati, L'uomo pensato
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J. Moltmann, Uomo. L'antropologia cristiana tra i conflitti del presente, Brescia 1972;
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Trattato di antropologia teologica, Bologna 1992; M. Neusch, I cristiani e la loro visione
dell'uomo, Brescia 1988; W. Pannenberg, Antropologia in prospettiva teologica, Brescia
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Dìo, Roma 1966; L'uomo nella Bibbia e nelle culture ad essa contemporanee, Brescia
1975; H. W. Wolff, Antropologia dell'Antico Testamento, Brescia 19852.

26
limitata e contingente — dinanzi al Creatore: «Che cosa è l'uo-
mo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?»
(Sai 8,5). E tuttavia la concezione ebraico-cristiana non nega
l'istanza positiva dell'antropologia dell'identità totale, la cele-
brazione cioè dell'infinita dignità del soggetto storico: «Eppu-
re l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai
coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto
hai posto sotto i suoi piedi» (Sai 8,6s). Tale è il valore della crea-
tura umana, che per amore suo Dio non esita a compiere il ge-
sto del dono totale, indeducibile e perfino scandaloso: Dio «ha
tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16),
«non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti
noi» (Rm 8,32). «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio
lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo di-
ventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21).
Per questa stessa affermazione dell'infinita dignità dell'uo-
mo e del suo protagonismo storico, l'antropologia biblica rifiu-
ta ogni concezione nichilista dell'essere umano: chiamato all'al-
leanza con l'Eterno, l'uomo è artefice del proprio destino in co-
munione con gli altri ed è capace di amare e di essere amato
in un autentico esodo da sé senza ritorno ed in una non meno
autentica accoglienza dell'altro. Solo così è concepibile il coman-
damento dell'amore, preparato nei comandamenti della Legge
antica e reso possibile in pienezza nella nuova alleanza: «Ame-
rai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima
e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei
comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossi-
mo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende
tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,37-40: cf. Dt 6,5 e Lv 19,18).
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri,
come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di que-
sto: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici... Non
vi chiamo più servi... ma vi ho chiamati amici» (Gv 15,12-15).
E tuttavia il pensiero ebraico-cristiano assume anche la verità
contenuta nell'antropologia nichilista, e cioè il senso della dram-
maticità dell'esistenza e della permanente insidia dell'angoscia
e del nulla. La vicenda di Giobbe rivela come il Dio biblico scom-
metta sull'uomo e sulla sua capacità di resistere e sopportare
anche sotto il peso dell'immane tragedia, che spesso è la vita.
E il Dio incarnato chiama l'uomo alla sua sequela sulla via, oscura
e conturbante, della croce: «Se qualcuno vuol venire dietro di

27
me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché
chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Me 8,34s).

b) Esodo e avvento

La lontananza e la prossimità della concezione ebraico-


cristiana dall'antropologia dell'identità totale e da quella della
differenza nichilista non devono oscurare, però, una più alta
e profonda diversità: il rapporto che la fede afferma fra il mon-
do del soggetto storico e quello dell'Alterità assoluta, entrata
nella storia, è insieme asimmetrico e dialettico. Il rapporto è
asimmetrico perché, se nella concezione biblica l'identità si ma-
nifesta come esodo umano, la differenza vi si affaccia come av-
vento divino. Fra i due poli non c'è misura comune, neppure
di proporzionalità: nulla proportio finiti ad infinitum! Il Dio che
viene è incommensurabilmente altro e sovrano rispetto all'uo-
mo, che è e resta sua creatura. Proprio per questo, però, l'idea
biblica del protagonista umano dell'alleanza è quella di un'an-
tropologia della libertà. Aprirsi all'avvento vuol dire per il sog-
getto storico andare incontro alPindeducibile e al nuovo, affac-
ciandosi sull'impossibile possibilità dell'Eterno: e questo signi-
fica conoscere l'unica, possibile libertà dalla necessità ferrea del
processo e dall'angosciosa insidia del nulla. «L'orizzonte degli
archetipi e della ripetizione è stato per la prima volta superato
dal giudeo-cristianesimo, che ha introdotto nell'esperienza re-
ligiosa una nuova categoria: la fede... La fede significa l'eman-
cipazione assoluta da ogni specie di "legge" naturale e pertan-
to la più alta libertà che l'uomo possa immaginare: quella di po-
ter intervenire sullo stesso stato ontologico dell'universo... Sol-
tanto una simile libertà è capace di proteggere l'uomo moderno
dal terrore della storia: cioè una libertà che ha la sua fonte e
trova la sua garanzia e il suo appoggio in Dio. Ogni altra libertà
moderna, per quante soddisfazioni possa dare a chi la possiede,
è impotente a giustificare la storia, e questo, per ogni uomo sin-
cero verso se stesso, equivale al terrore della storia»50. Lungi
dal far concorrenza alla creatura, la trascendenza del Dio vivo
costituisce la condizione di possibilità della sua libertà, e per-
50
M. Eliade, Il mito dell'eterno ritomo, Milano 1975, 162s.

28
ciò ne fonda l'autentica dignità. Davanti a Dio e con Lui l'uo-
mo decide di sé ponendosi nell'orizzonte del tempo e dell'eter-
nità.
Secondo le categorie della storia della salvezza, il rapporto
fra identità e differenza si traduce dunque in quello fra esodo
e avvento: l'esodo è il mondo della temporalità, l'umano anda-
re che si apre al futuro e nella fede dimostra di cercare una pa-
tria. «Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conse-
guito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lon-
tano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra.
Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una pa-
tria» (Eb ll,13s). In quanto esodale, la condizione umana è aper-
tura che spezza il cerchio dell'identità assoluta, è pellegrinag-
gio, che attraversa le insidie del nulla in direzione della patria,
intravista nella promessa, anche se non ancora posseduta nella
realtà. L'avvento è invece il mondo dell'eternità in quanto si
volge all'uomo e visita la sua casa, è il libero autodestinarsi di
Dio alla creatura e il gratuito dono dell'autocomunicazione di-
vina: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia
voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli
con me» (Ap 3,20). In quanto veniente nella storia, l'Eterno
della Bibbia si rivela come il Dio vivo, il Dio impegnato con
l'uomo e per lui. L'alleanza — categoria centrale della fede
ebraico-cristiana — si presenta allora come il mistero dell'eter-
nità nel tempo, dell'avvento che si compie nell'esodo e dell'e-
sodo che si apre alle insondabili possibilità offerte al protagoni-
sta umano della storia dal Signore di essa. Patto fra ineguali,
fondato sulla gratuità e sulla fedeltà assoluta dell'iniziativa di-
vina, l'alleanza è non di meno stipulata nel sangue (cf. Es 24),
per affermarne la serietà vitale e la mortale esigitività, che mo-
strano al tempo stesso quanto sia profonda la compromissione
di Dio verso la sua creatura, e quanto alta la dignità di «part-
ner», cui essa è chiamata.
Il rapporto fra identità e differenza, rivelato come quello
fra esodo umano e avvento divino nel mistero dell'alleanza, è
non solo asimmetrico a favore dell'incondizionato primato del-
l'Eterno, ma anche dialettico: ciò vuol dire che i due poli non
si elidono reciprocamente, come avviene nell'antropologia del
trionfo dell'identità o in quella del dominio del nulla, ma si ten-
gono reciprocamente, pur nell'infinita distanza e ineguaglian-
za, secondo un movimento di negazione, di affermazione e di

29
superamento del tempo nell'eternità. In realtà, il paradosso della
fede mostra anche una sorta di movimento inverso, per il quale
il Dio vivente si lascia negare, affermare e superare dall'uomo:
è la dialettica della rivelazione, intesa come ostendersi del divi-
no nel suo contrario, negazione, affermazione e superamento
del Silenzio eterno dell'origine nella Parola entrata nella storia,
e di questa nell'Incontro, celebrato nell'alleanza51. Nell'oriz-
zonte della domanda sull'uomo è però di specifico interesse co-
gliere la forma in cui la differenza, intesa come alterità trascen-
dente e divina, comunicandosi al mondo dell'identità del sog-
getto storico, al tempo stesso lo nega, lo afferma e lo porta a
superarsi oltre ogni misura deducibile o programmabile a parti-
re da lui.
L'avvento del Dio vivo nega il movimento esodale del tem-
po in quanto ne contraddice ogni possibile chiusura: la presun-
zione del fermarsi o del possedersi stabilmente converte l'istante
in atto idolatrico. L'impronunciabilità del nome di Dio non sol-
tanto afferma la trascendenza e l'inafferrabilità dell'essenza di-
vina, ma contraddice anche ogni presunta possibilità per l'uo-
mo di catturare l'eterno, fondando il conseguente dovere di rap-
portarsi al mistero in umiltà, timore e tremore. A sua volta, la
forma negativa del comandamento mostra come l'avvento divi-
no neghi ogni superba affermazione di sé del soggetto storico,
tanto se vissuta in direzione dell'Eterno, quanto se consumata
nel rapporto agli altri uomini: «Non avrai altri dèi di fronte a
me. Non ti farai idolo né immagine alcuna... Non pronuncerai
invano il nome del Signore, tuo Dio... Non uccidere...» (Es 20,3s.
7.13). La sazia affermazione di sé da parte dell'uomo si risolve
nella negazione suprema della sua consistenza: al ricco soddi-
sfatto, che dice a se stesso: «Anima mia, hai a disposizione molti
beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia»,
il Dio vivente fa sapere: «Stolto, questa notte stessa ti sarà ri-
chiesta la tua vita» (Le 12,19s). L'avvento nega insomma l'eso-
do, che rinunci ad essere tale, e, nell'illusione di affermarsi, si
chiuda nella prigionia alienante del possesso di sé. In questa lu-
ce, il mondo dell'avvento si offre come novità, sorpresa, giudi-
zio, alterità irriducibile al chiuso mondo dell'identità. Ogni pre-
sunta continuità fra tempo ed eterno è spezzata: il mondo è crea-
51
Su questi dinamismi della «re-velatio», intesa come Silenzio, Parola e Incon-
tro, cf. B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento,
Milano 1991, parte I (37-193).

30
to col tempo, e non nel tempo, e l'uomo, soggetto di storia, è
creatura separata dal Creatore dall'abisso, che è lo stesso atto
della creazione dal nulla. L'idea di creazione afferma così al tem-
po stesso la trascendenza di Dio e la contingenza del mondo,
l'assoluta presupposizione dell'Eterno e la fragilità immanente
ad ogni essere ed accadere mondano52.
L'avvento dell'Eterno, però, è anche affermazione dell'e-
sodo: il tempo è rivelato a se stesso dal venire di Dio nella sto-
ria come splendore di eternità, riflesso creato della vita increa-
ta. «E nella dimensione del tempo che l'uomo incontra Dio e
diventa cosciente che ogni istante è un atto di creazione, un
Inizio, che schiude nuove vie per le realizzazioni ultime. Il tempo
è la presenza di Dio nello spazio, ed è nel tempo che noi possia-
mo sentire l'unità di tutti gli esseri»53. Grazie al dono della ri-
velazione, che si compie in eventi e parole intimamente con-
nessi, l'avvento viene ad abitare nell'esodo e lo manifesta come
capace di alleanza, degno dell'infinita dignità di ospitare l'E-
terno: per l'uomo biblico «assistere all'eterna meraviglia della
creazione del mondo significa sentire in ciò che è dato la pre-
senza del Donatore, significa comprendere che la sorgente del
tempo è l'eternità, che il segreto dell'essere è l'eterno che è nel
tempo... Così la fede è il concretizzarsi di tanti momenti di me-
raviglia. Vivere in modo spirituale, creativo è convertire le co-
se dello spazio in momenti del tempo»54. Ciò che l'Eterno af-
ferma dell'esodo è dunque la sua temporalità, intesa come ac-
coglienza del sempre nuovo accadere del dono d'esistere, e per-
ciò anche come radicale apertura ed autotrascendenza dell'es-
sere umano in direzione del Mistero assoluto: se il Dio biblico
si rivolge all'uomo e lo chiama all'alleanza con sé, è perché evi-
dentemente lo ha reso originariamente capace di questo patto,
liberamente destinandolo dall'eterno alla comunione con sé. La
vera consistenza della creatura sta allora nella sua «esistenza»,
nella sua capacità cioè di «star fuori» {ex-sistere) ed «andar-verso»,
di aprirsi all'Altro e di ospitarlo in sé. Non l'incomunicabilità
dell'«in-sé» e del «per-sé», ma la loro comunicazione nell'aper-
tura continua alla Sorgente creatrice del loro essere, è il desti-
no dell'uomo secondo l'antropologia biblica: essere della trascen-
52
Cf. su questi punti la sezione dedicata alla teologia dell'inizio in B. Forte, Teo-
logia della storia, o.c, 195-285.
33
A. Heschel, Il Sabato, Milano 1987, 148.
54
Ib., 155 e 151.

31
denza, l'uomo è fatto per amare ed essere amato, per stabilire
rapporti di solidarietà e di comunione non solo con gli altri esse-
ri umani, ma anche con l'intero creato, che gli è affidato come
giardino da custodire, oltre che come campo della sua suprema-
zia, in quanto egli è immagine dell'amorosa sovranità divina (cf.
Gen 2,15 e 1,28). Tuttavia, l'ultima radice di questa vocazione
ad esistere-per-gli-altri («pro-esistenza») è per l'uomo il suo ve-
nire da Dio ed essere fatto per la comunione di vita con Lui nel-
la gratuità dell'alleanza: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è
buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia,
amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).
In questo gioco di negazione e di affermazione dell'avven-
to nei confronti dell'esodo si delinea anche il più alto supera-
mento della condizione esodale, che si attua nell'accoglienza del
dono divino: questa vita piena e traboccante, questa realizza-
zione della creatura al di là di ogni presupposto e di ogni attesa
per il dono gratuito dell'autocomunicazione di Dio, è il mistero
dell'eternità nel tempo. Esso dice non solo la vittoria sulla resi-
stenza della negatività e del peccato, ma anche la conseguente
libertà della creatura fatta partecipe della condizione filiale, la
sorgività e la creatività della vita nuova nello Spirito e l'antici-
pazione dell'«éschaton» che in tal modo è donata. La figura di
questa pienezza trascende ogni descrizione, ed è perciò evocata
dalla profezia biblica in termini «utopici» o con approssimazio-
ni che colgono aspetti della «nuova creatura» senza esaurirne
la ricchezza. «Ecco verranno giorni — dice il Signore — nei
quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò
una alleanza nuova. Non come l'alleanza che ho conclusa con
i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese
d'Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi
loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l'alleanza che io
concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Si-
gnore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro
cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non do-
vranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Si-
gnore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più gran-
de...» (Ger 31,31-34; cf. Ez 36,22-36). Nell'incontro fra esodo
e avvento, celebrato nell'alleanza, l'eternità entra nel tempo e
il tempo pregusta i frutti dell'eternità: «Il frutto dello Spirito
è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mi-
tezza, dominio di sé» (Gal 5,22).

32
e) L'eternità nel tempo

Pensare la radicalità di questo incontro, nella non meno ra-


dicale coscienza della distanza che separa il cielo dalla terra, è
il compito di un'antropologia che, nella fedeltà alla tradizione
ebraico-cristiana, voglia proporsi in dialogo con le visioni del-
l'uomo proprie della ragione totalizzante e del nichilismo senza
ritorni. Essa dovrà pensare il tempo e l'eternità nel loro rela-
zionarsi, nelle aperture e nelle chiusure dell'esodo all'avvento,
e dovrà non meno pensare l'ingresso inaudito e trasformante
dell'eternità nel tempo, rivelazione ultima della presenza del tem-
po nell'eternità. In quanto costruita a partire dal gratuito e sor-
prendente avvento dell'Eterno nel tempo, che è la rivelazione,
questa antropologia sarà detta «teologica», ad indicarne imme-
diatamente la specificità e lo «scandalo». La sua radicazione ul-
tima sarà la cristologia, perché è in essa che l'uomo appare rive-
lato a se stesso nel rapporto più autentico fra identità e diffe-
renza, così come esso si è realizzato nell'unico, in cui il cielo
e la terra si sono incontrati senza per questo confondersi: Gesù
Cristo, il Figlio eterno entrato nel tempo perché il tempo en-
trasse nell'eternità. In lui — il Verbo incarnato, che «ha lavo-
rato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito
con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo» — «trova
vera luce il mistero dell'uomo»35. E lui che unisce i segni del-
la regalità a quelli della sofferenza, coronato com'è di una coro-
na di spine, figura emblematica dell'uomo «fra i tempi», chia-
mato all'incontro, al tempo stesso mortale e trasformante, del-
l'eternità col tempo. Vedendolo così, il procuratore romano —
che gli aveva chiesto «Che cos'è la verità?», ricevendone in ri-
sposta nient'altro che la silenziosa presenza della Sua persona
— può dire: «Ecco l'uomo!» (Gv 19,5). Scrutare argomentati-
vamente la profondità di questa parola è il compito di una si-
mile antropologia teologica, che unisce la visione dell'uomo nel
suo essere creaturale davanti al Dio vivente all'interpretazione
dell'incontro, che le missioni del Figlio e dello Spirito hanno
reso possibile fra l'eternità e il tempo56.
55
Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contem-
poraneo Gaudium et Spes, 22.
56
È usuale la suddivisione dell'antropologia teologica in due parti: Vantropologìa
teologica fondamentale che studia la visione ebraico-cristiana dell'uomo al livello delle
sue strutture basilari, rispondendo al duplice interrogativo che cos'è l'uomo? e chi è
l'uomo?; e l'antropologia teologica speciale, che si occupa delle situazioni storiche con-

33
Questa antropologia teologica si presenta al tempo stesso
come un'«etica fondamentale»: mostrando la «dimora» ultima
dell'essere personale nel mistero della Trinità divina, essa fon-
da il comportamento responsabile del soggetto storico, il «co-
stume» del suo agire, in quanto inserito nel tessuto delle rela-
zioni del Dio vivo. La separazione fra la verità del dogma e la
riflessione morale, tipica di molta teologia nel tempo della mo-
dernità, ammaliata dal primato assoluto della ragione, è stata
causa di una duplice conseguenza negativa: da una parte, la ve-
rità è parsa priva di bellezza e di incisività pratica; dall'altra,
l'agire morale è stato letto nella frantumazione degli atti parti-
colari e nell'astratta esemplarità dei «casi», perdendo di vista
l'orizzonte unificante della dimora e della patria ultime. Pensa-
re l'antropologia in forma teologica, secondo la testimonianza
della tradizione ebraico-cristiana, significa invece fondare l'a-
gire sull'essere, l'etica sul dogma, e mostrare così al tempo stes-
so lo splendore della verità che salva e la profondità della chia-
mata e della motivazione morale57. «L'etica come dottrina del
comandamento di Dio illumina la legge come la forma dell'e-
vangelo, cioè come la norma della santificazione che giunge al-
l'uomo attraverso l'elezione che Dio fa di lui. Pertanto essa è
fondata nella conoscenza di Gesù Cristo, poiché questi è al tempo
stesso il Dio santo e l'uomo santificato. Perciò l'etica appartie-
ne alla dottrina su Dio, perché il Dio che pretende l'uomo per
sé, proprio in ciò si fa responsabile per lui in maniera origina-
ria. La funzione dell'etica consiste nell'attestazione fondamen-
tale della grazia di Dio, in quanto questa è legame e obbligo
salvifico per l'uomo»58. La dommatica è etica perché non può
non farsi carico della domanda riguardo al bene, che si può com-
piere nelTagire umano e al di sopra di esso: e questa domanda
non trova risposta che nella dottrina della grazia, dell'uomo cioè
raggiunto e trasformato dalla gratuita e libera autocomunica-
zione di Dio. «La grazia di Dio è la risposta al problema etico,

crete della relazione uomo-Dio (peccato, giustificazione, grazia, compimento). Anche


chi assume questa suddivisione ne ammette francamente la discutibilità: cf. J. L. Ruiz
de la Pena, Immagine di Dio, o.c, 6. L'opzione unitaria comporta il vantaggio di una
visione storico-salvifica più corretta ed integrale, anche se inevitabilmente esigerà la
rinuncia ad alcuni approfondimenti.
57
Sul rapporto fra dommatica ed etica teologica cf. lo studio di W. Thonissen,
Das Geschenk der Vreiheit. Untersucbungen zum Verhàltniss von Dogmatik una Etbik,
Mainz 1988, con ricca documentazione e bibliografia.
58
K. Barth, Die kirchliche Dogmatik, II/l, Zurich 1942, 564.

34
in quanto santifica l'uomo, in quanto lo requisisce per Dio, in
quanto lo pone sotto il comandamento di Dio, in quanto gli of-
fre la predeterminazione della sua autodeterminazione di dive-
nire obbediente al comandamento divino, in quanto gli presen-
ta il comandamento di Dio come giudizio sul suo agire passato
e come imperativo sul suo agire futuro. Rendere testimonianza
a questa risposta è il compito etico della dottrina cristiana su
Dio»59. Perciò «proprio nella conoscenza della grazia dell'ele-
zione divina in Gesù Cristo si decide anche il percorso dell'eti-
ca teologica, la forma peculiare della sua domanda e della sua
risposta, l'acquisizione dei suoi concetti fondamentali»60.
Questa antropologia teologica — fondamento di un ethos
pienamente responsabile e motivato ed insieme totalmente frutto
della libera grazia del Dio vivo — si presenta infine come «sa-
cramentale»: costruita sul mistero dell'avvento dell'eternità nel
tempo, essa è costitutivamente legata alle mediazioni storiche
scelte dall'iniziativa gratuita dell'amore divino per comunicar-
si all'uomo. Queste mediazioni — segni della storia, che veico-
lano ed insieme «custodiscono» la trascendenza della Gloria —
costituiscono nel loro complesso l'«economia sacramentale», che
abbraccia il Verbo incarnato, sacramento di Dio, la Chiesa, sa-
cramento di Cristo, e i segni efficaci della nuova alleanza, sa-
cramenti della Chiesa. L'agire, che risulta dalla trasformazione
dell'essere personale operata dalla grazia attraverso la Parola di
Dio e gli eventi sacramentali, manifesta la novità di vita, che
l'avvento produce nell'esodo della condizione umana: si deli-
nea così un «ethos sacramentale», che è il comportamento degli
uomini «nuovi», resi tali dalla partecipazione alla vita trinitaria
e perciò capaci di cantare con la vita il «cantico nuovo». Novi
novum canamus canticum!
Delineare questa antropologia ed etica sacramentale vorrebbe
essere il contributo delle pagine che seguono alla presa di co-
scienza ed alla crescita di questi uomini «nuovi», perché il loro
«cantico» di vita e di speranza non manchi alla storia.

59lb., 571s.
60
lb., 603.

35
PARTE PRIMA

IL TEMPO E L'ETERNO
2.

STRUTTURE DELL'ANTROPOLOGIA

Di tutti gli esseri che sono nel mondo l'uomo è l'unico che
pone domande. Egli è l'interrogante originario, che abbraccia col
suo domandare non solo l'essere di tutte le cose, ma anche il suo
stesso essere, fin nelle radici più profonde. In questo porre do-
mande, «l'uomo problematico» (G. Marcel) si rivela altro dal mon-
do, singolare rispetto a tutti gli altri esseri che sono nel mondo.
Il motivo ultimo dell'interrogarsi dell'uomo, specialmente
del farsi problema a se stesso, è l'incompiutezza della vita e del
tempo: senza l'esperienza continua del dolore e del limite, sen-
za la frustrazione dello scarto fra compimento ed attesa, vero-
similmente l'uomo non porrebbe né si porrebbe domande. In
questo sperimentare la sofferenza e la pazienza del divenire, in
questo essere circoscritto da tutti i lati, inappagato e finito nel
suo confrontarsi col mondo, l'essere umano è solidale con l'in-
sieme degli altri esseri finiti, come loro prigioniero del limite,
ostaggio dello spazio e del tempo. Non solo allora le «situazioni-
limite» (K. Jaspers), ma anche l'ordinaria esperienza dell'«esser
gettato» nell'esistenza {Geivorfenheit) e dell'«esser-per-la-morte»
(M. Heidegger) rivelano come il dolore della finitezza sia la ra-
dice del domandare originario aperto all'infinito.
Proprio però in quanto interrogante originario, l'uomo è più
del mondo su cui si interroga, e perfino più di se stesso in quanto
essere finito: egli trascende la propria finitezza, si auto-trascende.
In quanto invece è interrogato, permanentemente sfidato dal-
l'esperienza della soglia delle proprie possibilità e segnato dalla
finitudine, l'uomo è nel mondo, come uno qualunque degli es-
seri mondani. Nel mondo, egli non è del mondo, almeno non lo
è nel senso di appartenere semplicemente ai limiti dell'orizzon-
te spaziale e temporale: grazie al suo domandare originario egli
è nel mondo come colui che è più del mondo, e quindi come
colui che può investire ogni cosa — e perfino se stesso — con
la forza della domanda radicale.

39
In quanto è nel mondo, l'uomo è immediatezza, contiguità
con tutto ciò che esiste; in quanto è altro dal mondo egli è me-
diazione, accostamento problematico, interruzione della conti-
nuità, coscienza riflessa che supera la semplice determinatezza
di ciò che è dato. Caratteristica strutturale del comportamento
umano appare allora 1'«immediatezza mediata», intesa «come
distacco dall'immediato e come mediazione per iniziativa pro-
pria»1. A differenza dell'animale, semplicemente «vincolato al-
l'ambiente», l'essere umano si caratterizza per la sua «apertura
al mondo», per il suo trascendere «nello spirito» ogni vincolo
imprigionante2. Alla «centratezza» dell'animale fa da contrap-
punto l'«eccentricità» dell'uomo, il suo andar oltre il già rag-
giunto, superando continuamente se stesso come centro della
propria vita 3 . Si delinea cosi la dialettica caratteristica dell'es-
sere umano, la tensione permanente fra appartenenza al mon-
do e trascendenza del mondo, fra l'esteriorità dell'essere in rela-
zione, impigliato e impegnato nei vincoli dell'esistenza storica,
e l'interiorità, per la quale l'uomo tende a superare o almeno a
gestire dal di dentro questi stessi vincoli con la conoscenza
e con le scelte della sua libertà. Nella reciproca correlazione,
esteriorità e interiorità risultano separabili soltanto astratta-
mente: l'uomo non esiste che come unità dei due aspetti, in-
contro sempre in tensione dei due movimenti, soggetto unico

1
E. Coreth, Antropologia filosofica, Brescia 1978, 70.
2
II concetto di «apertura al mondo» (Weltoffenheit), collegato a quello di «spiri-
to» (Geist), svolge un ruolo decisivo nel pensiero del creatore della moderna antropolo-
gia filosofica, Max Scheler: cf. Die Stellung des Menschen ìm Kosmos (1928), in Id.,
Gesammelte Werke, Band 9, Spàte Schriften, Bern-Mùnchen 1976, 7-71, ad esempio 33.
Anche A. Gehlen, DerMensch. Scine Natur una seine Stellung in der Welt (1940), Frankfurt
a. M. 19668, che fa tesoro dei contributi delle scienze empiriche e coglie la molla del-
lo sviluppo dell'uomo nel suo «essere carente», considera caratteristica dell'essere umano
la sua apertura al mondo: cf. M. T. Pansera, L'uomo progetto della natura. L'antropolo-
gìa filosofica di Arnold Gehlen, Roma 1990.
3
E la tesi di H. Plessner, Die Stufe» des Organìschen und der Mensch. Einleitung
in die philosophische Anthropologie (1928), Berlin 19652. Cf. F. Hammer, Die exzen-
trische Position des Menschen. H. Plessners philosophische Anthropologie, Bonn 1967. Ri-
prende e valorizza più volte il concetto di «posizionalità eccentrica» dell'uomo W. Pan-
nenberg, Antropologia in prospettiva teologica, Brescia 1967, che in questa poderosa opera
rivisita il dibattito intorno all'antropologia filosofica nel nostro secolo, non senza ri-
mandi alle radici culturali e ai precedenti, cogliendo le aperture possibili in direzione
del discorso teologico (una di queste aperture è appunto l'«eccentricità» dell'essere uma-
no). In questa sorta di «antropologia teologica fondamentale» — peraltro documenta-
tissima — meravigliano alcune assenze (ad esempio sono del tutto ignorati pensatori
come E. Mounier e E. Lévinas). Una organica presentazione sistematica dell'antropo-
logia filosofica in prospettiva personalistica è offerta da J. Gevaert, Il problema dell'uo-
mo, Torino-Leumann 19897.

40
che al tempo stesso esce da sé e ritorna in sé, aprendosi all'altro
da sé.
La coscienza dell'unità vivente di esteriorità trascendente
ed interiorità trascendentale è quanto la tradizione del pensie-
ro ebraico-cristiano ha offerto come patrimonio incomparabil-
mente prezioso alle culture umane con l'idea di persona. L'esse-
re personale sta sulla frontiera: in esso si incontrano l'uscita e
il ritorno, la comunicazione e l'incomunicabile singolarità, la ma-
teria e lo spirito, il femminile e il maschile, il terreno e il cele-
ste 4 . Nella persona si intrecciano appartenenza al mondo ed
estraneità, vita presente e vita futura, morte ed eternità. L'uo-
mo come essere personale è la suprema domanda a se stesso,
l'interrogativo davanti al quale si schiudono ambiguamente i sen-
tieri, sempre di nuovo aperti dalla sofferenza del divenire:
Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tócche radure ci addurrà
dove mormori eterna l'acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino.
Ancora terre straniere
forse ci accoglieranno: smarriremo
la memoria del sole, dalla mente
ci cadrà il tintinnare delle rime.
Oh la favola onde s'esprime
la nostra vita, repente
si cangerà nella cupa storia che non si raccontai
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Lontani andremo e serberemo un'eco
della tua voce, come si ricorda
del sole l'erba grigia

4
È sul crinale di queste tensioni che E. Przywara, L'uomo. Antropologìa tipolo-
gica, a cura di V. Mathieu, Milano 1968, comprende l'essere umano secondo il registro
dell'analogia, nel gioco dell'immedesimazione e del superamento, dell'essere nell'aìtTO
e al di sopra dell'altro.

41
nelle corti scurite, tra le case.
E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo nutrite
di stanchezze e di silenzi,
parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco ^.

2.1. L'ESTERIORITÀ

Nell'accezione che se ne è data, l'esteriorità è tutt'altro che


superficialità, apparenza vuota, inganno di un mostrarsi privo
di sorgenti profonde: esteriorità, riferita all'uomo nella specifi-
cità del suo essere, vuol dire il suo situarsi nel mondo, il rap-
portarsi agli altri ed alle cose nella consistenza di relazioni, fat-
te di carne e di sangue, di terra, di parole e di gesti. Il mondo
dell'esteriorità è quello che spezza l'imperialismo dell'io, la sog-
gettività presuntuosa dell'identità, che tutto vorrebbe ridurre
a sé: grazie all'esteriorità l'uomo si definisce anzitutto in rap-
porto all'altro da sé ed agli altri, alle relazioni umane, come ai
rapporti con le cose e gli esseri tutti del mondo. E stata una
persistente vena platonizzante, culminata nel trionfo moderno
della soggettività idealistica, che ha prodotto la svalutazione del-
l'esteriorità a vantaggio di un'interiorità presuntuosamente esclu-
siva e totale. Ma da principio non fu così: come nello svilup-
po dell'esistenza individuale, così nelle culture arcaiche l'esse-
re umano si definisce in rapporto agli altri, a cominciare da co-
loro che lo generano, dalla famiglia in cui entra, dal popolo cui
appartiene.
E caratteristica peculiare del mondo vetero-testamentario
la valorizzazione dell'esteriorità: «Nell'Antico Israele il singo-
lo vive in stretta connessione inserito nel contesto della sua fa-
miglia e quindi del suo popolo. Nella misura in cui egli risulti
isolato o emarginato accade qualcosa di straordinario, se non
addirittura di minaccioso» 6 . Lo stesso linguaggio dell'Antico
Testamento indica una preferenza per un'antropologia concre-

5
E. Montale, Ossi di seppia, Mediterraneo, in Id., Tutte le poesie, Milano 1984,
58.
6
H . W. Wolff, Antropologia dell'Antico Testamento, Brescia 19852, 273. Otti-
ma presentazione della concezione vetero-testamentaria dell'uomo.

42
ta, che non astrae l'uomo dalla rete dei rapporti di bisogno e
di solidarietà in cui è inserito: cosi nefes, spesso tradotto con
«anima», dice piuttosto in generale l'uomo indigente; basar l'uo-
mo caduco; mah l'uomo dotato di potenza; leb, lebab, reso di
solito con «cuore», l'uomo nella sua razionalità, comprensiva
di sentimento, desiderio, volontà e decisione7. Si potrebbe af-
fermare che nella concezione dell'Antico Israele, dominata dal-
l'idea dell'alleanza, l'uomo è sempre visto in relazione, e perciò
nel segno dell'esteriorità, che supera la prigionia dell'individuo
chiuso in se stesso. È questo il motivo per cui i legami terreni,
l'intensità dei rapporti umani e la corposa densità delle relazio-
ni col mondo, sono fortemente valorizzati nell'Antico Testa-
mento: «L'albero ebraico è rimasto fedele alla terra» 8 . Ed an-
che in questo Israele è e resta irrinunciabile radice del cristia-
nesimo e delle culture da esso segnate: «Mi accorgo sempre di
più di quanto io pensi e senta in maniera veterotestamentaria
— scriveva D. Bonhoeffer in una lettera dal carcere di Tegel
il 5 dicembre 1943 — ... Solo quando si riconosce l'impronun-
ciabilità del nome di Dio si può anche pronunciare finalmente
il nome di Gesù Cristo; solo quando si ama a tal punto la vita
e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito,
si può credere alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuo-
vo; solo quando ci si riconosce sottomessi alla legge di Dio, si
può finalmente parlare anche della grazia, e solo se l'ira e la ven-
detta di Dio contro i suoi nemici restano realtà valide, qualcosa
del perdono e dell'amore verso i nemici può toccare il nostro
cuore... Non si può e non si deve dire l'ultima parola prima della
penultima»9. La valorizzazione dell'esteriorità è apprezzamen-
to di quell'orizzonte penultimo del vivere e del morire umani,
senza il quale anche l'ultimo perde la sua consistenza.
Non è perciò un caso che sia merito di pensatori ebrei aver
riproposto al nostro tempo il valore dell'esteriorità per l'esatta
comprensione dell'uomo: la linfa viva dell'albero d'Israele, ben
radicato nella terra, è così venuta a scorrere nella riflessione an-
tropologica contemporanea, aiutandola a superare le secche tanto

7
Cf. ib., Parte Prima: L'uomo nelle sue componenti strutturali (dati linguistici),
13-108.
8
A. Neher, L'esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Ca-
sale Monferrato 1983, 199s.
9
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di E. Beth-
ge, Milano 1988, 225.

43
della comprensione greca, che fa dell'essere umano un caso del-
l'universale, assorbito nell'ordinata armonia del cosmo, quanto
della concezione dell'idealismo e dell'ideologia moderna, che ri-
solve l'uomo nel trionfo assoluto della ragione, svuotato alla fi-
ne del duro, eppur necessario ceppo del mondo reale.

a) Il princìpio dialogico

Questi pensatori ebrei sono consapevoli della portata dirom-


pente del loro pensiero nei confronti delle concezioni antropo-
logiche dominanti. Cosi Martin Buber lo è a proposito del suo
principio dialogico10: «Il sistema di Hegel viene a costituirsi co-
me il terzo grande tentativo di dare una sicurezza all'uomo nel-
la linea del pensiero occidentale: dopo il tentativo cosmologico
di Aristotele e quello teologico di Tommaso d'Aquino, ecco il
tentativo logologico. Ogni insicurezza, ogni inquietudine alla
ricerca di senso, ogni errore di decisione, ogni problematica senza
fine, sono vinti. La Ragione universale procede nel suo inde-
fettibile corso attraverso la storia, e l'uomo, mediante la cono-
scenza, riconosce quel corso, o piuttosto, è la conoscenza il ve-
ro scopo, il fine reale del cammino in cui la verità, realizzando-
si, riconosce se stessa nella sua realizzazione» u. La critica alla
compiutezza del sistema hegeliano è svolta da Buber proprio
in nome dell'esteriorità, del rapporto ad altri: «Non è median-
te il rapporto con il proprio "sé", ma è mediante il rapporto
con un altro "sé" che l'uomo potrà raggiungere la completez-
za. Questo altro "sé" può essere limitato e relativo quanto a
se stesso, ma è in questo essere-insieme-con-1'altro che si rende
possibile l'esperienza dell'illimitato e dell'incondizionato»12.
10
Di M. Buber cf. sul nostro tema II principio dialogico, Milano 1958 (riuova edi-
zione a cura di A. Poma, Milano 1993), e II problema dell'uomo, Torino-Leumann 1983
(1942: in ebraico; in tedesco: Heidelberg 1954). Su M. Buber cf.: The Philosophy of
Martin Buber, a cura di P. A. Schilpp e M. Friedman, La Salle (Illinois) 1967 (la biblio-
grafia di tutti gli scritti di Buber è data alle pp. 747-786); Martin Buber. L'homme et
lephilosophe, Bruxelles 1968; A. Babolin, Essere e alterità in Martin Buber, Padova 1965;
M. A. Beek - J. Sperna Weiland, Martin Buber, Brescia 1972; H. Kohn, Martin Buber,
sein Werk und seine Zeit, Kòln 1961; R. Misrahi, Martin Buber philosophe de la relation,
Paris 1968.
11
M. Buber, Il problema dell'uomo, o.c, 49.
12
Ib., 83s. Su questo punto Buber riconosce in Feuerbach, grazie al suo rifiuto
dell'imperialismo della soggettività, un autentico precursore della svolta da compiere:
«Feuerbach... ha introdotto quella scoperta dell'"io" e del "tu" che è stata chiamata
la rivoluzione copernicana del pensiero moderno» {ib. 59).

44
Non si allontanano da Hegel quanti — pur criticando la malia
hegeliana del soggetto assoluto — non hanno saputo sorpassar-
la in direzione della relazione ad altri: così è per Kierkegaard,
così è per Heidegger. «Il "sé" di Heidegger è un sistema chiu-
so» n. «Nel semplice aver-cura (Fùrsorge) l'uomo, anche quan-
do è mosso da una forte compassione, può rimanere essenzial-
mente chiuso in se stesso... Mediante la relazione essenziale,
al contrario, le barriere dell'essere individuale sono veramente
aperte, e si produce allora un fenomeno nuovo che non può pro-
dursi che in questa maniera: uno stato di accogliente disponibi-
lità, da persona a persona, non statica, ma che, per così espri-
merci, raggiunge la sua completa attuazione soltanto da un punto
all'altro, sempre capace di prendere ulteriore forma nella conti-
nuità della vita. Uno stato che rende l'altro presente non nella
sola immaginazione e neppure nel solo sentimento individuale,
ma nel più profondo della propria natura, in misura tale che il
mistero del proprio essere si sperimenta nel mistero dell'altro.
I due partecipano reciprocamente delle loro vite in modo rea-
lissimo, non fisicamente, ma onticamente»14.
Diversamente che in Heidegger «il singolo di Kierkegaard
è un sistema aperto, anche se è aperto soltanto verso Dio»15:
ma anche questo non basta. «La relazione verso le cose manca
in Kierkegaard. Egli conosce le cose soltanto in maniera meta-
forica o allegorica. In Heidegger, la relazione si ritrova soltan-
to sotto il profilo della tecnica, senza finalità autentica... La re-
lazione riguardante gli uomini come singoli individui è cosa pro-
blematica per Kierkegaard, perché, secondo lui, una relazione
essenziale con compagni di vita riesce di ostacolo al rapporto
unico ed essenziale con Dio. In Heidegger, quella relazione con
gli altri non si presenta che sotto forma di aver cura o di solleci-
tudine... La connessione con la moltitudine senza volto, senza
forma e senza nome, con io. folla anonima, appare in Kierke-
gaard e, al seguito di questi, in Heidegger, come situazione ini-
ziale di cui si deve trionfare per giungere all'essere-se-stesso...
La terza relazione della vita umana è quella che è chiamata ri-
spettivamente relazione con Dio, relazione con l'Assoluto, re-
lazione con il mistero. ...in Kierkegaard è relazione essenziale

» ] £ . , 87.
14
Ih., 86.
Vlb., 88.

45
unica, mentre manca totalmente in Heidegger»16. La conclu-
sione di Buber è stringente: «L'uomo non può pervenire all'esi-
stenza se non a condizione che... tutte le categorie di relazione
che costituiscono la sua vita diventino essenziali»17. Non c'è
dunque vera antropologia né possibilità di autentica realizza-
zione umana, se non dove sia recuperata la pienezza del rap-
porto ad altri, se non dove, perciò, contro il dominio del sog-
getto, trionfi liberante l'orizzonte dell'esteriorità.
È questo il messaggio dello scritto-manifesto di Martin Bu-
ber L'Io e il Tu (Ich una Du) (1923) ls . Esso si apre definendo
le «parole-base» (Grundworte), espressive della realtà, ed inten-
dendole non come parole isolate, ma come coppie di termini:
«Una parola-base è la coppia Io-Tu. Un'altra parola-base è la
coppia Io-Esso... La parola-base Io-Tu può essere pronunciata
soltanto unitamente alla totalità dell'essere. La parola-base Io-
Esso non può mai essere pronunciata unitamente alla totalità
dell'essere»19. Soltanto nella relazione interpersonale la prigio-
nia dell'io è infranta e si coglie la realtà non come dominio, ma
come incontro: «Tre sono le sfere, nelle quali si innalza il mon-
do della relazione. La prima è la vita con la natura. Ivi la rela-
zione oscilla nel buio e al di sotto del livello linguistico. Le crea-
ture ci muovono incontro, ma non possono venire a noi; e il
Tu che noi diciamo ad esse si adagia sulla soglia del discorso.
La seconda è la vita con l'uomo. Ivi la relazione è manifesta
e pronunciata. Noi possiamo dire Tu e ricevere in risposta un
analogo Tu. La terza è la vita con le entità spirituali. Ivi la rela-
zione è annebbiata, ma si fa manifesta; non fa uso del discorso,
eppure gli dà forma...»20. «All'inizio è la relazione»: essa «è la
categoria dell'essere, è ciò che sta pronto, che coglie la forma,
che è modello all'anima; è Pa-priori della relazione, il Tu ìnna-
to»2ì. La relazione interpersonale esprime cioè la struttura ori-
ginaria dell'essere, la profondità ontologica per la quale l'uomo
non è solitudine, ma costitutiva apertura all'altro, e viene a rea-
lizzarsi nel riconoscimento e nell'accoglienza dell'alterità.
L'altro, però, può restare nella sfera dell'Esso o entrare in

16
Ib., 94s.
17
Ib., 97.
18
In M. Buber, Il principio dialogico, o.c, 7-104.
!9ft., 19.
20 Ib., l l s .
21
Ib., 21 e 29.

46
quella del Tu, può incombere come minaccia o risplendere co-
me interlocutore nella sua esteriorità: «In tempi malati accade
che il mondo dell'Esso, non più percorso e fecondato dal mon-
do del Tu che fluisce in esso come corrente vitale, ma isolato
e stagnante, incomba sull'uomo come gigantesco fantasma del-
la palude»22. «L'Io della parola-base lo-Tu è diverso dall'Io
della parola-base Io-Esso. L'Io della parola-base Io-Esso appa-
re come una individualità e acquista coscienza di sé come sog-
getto (dello sperimentare e dell'utilizzare). L'Io della parola-base
lo-Tu appare come persona e acquista coscienza di sé come sog-
gettività (senza un genitivo dipendente)»23. Perciò, la relazio-
ne più realizzante è quella che si stabilisce col Tu supremo, do-
ve tutta la realtà è riscattata nell'incontro. Si avverte qui come
per l'ebreo Buber l'esperienza dell'esteriorità si compia in for-
ma suprema nel dinamismo dell'alleanza: «Ogni singolo Tu è
un canale d'osservazione verso il Tu eterno. Attraverso ogni sin-
golo Tu la parola-base si indirizza all'eterno... Tre sono le sfere
in cui si costruisce il mondo della relazione... Tutte le sfere so-
no rinchiuse nell'eterno Tu, esso non lo è in nessuna»24.
Il limite della concezione dialogica dell'uomo, descritta da
M. Buber, è che essa finisce col privilegiare la relazione inter-
personale a scapito della concreta durezza e consistenza del rap-
porto con le cose e col mondo: l'esteriorità è risolta in incon-
tro. «Al di là del concetto di "incontro" e del coinvolgimento
dell'Io e del Tu che si incontra, Buber riesce a descrivere solo
in termini negativi, nel senso cioè di una differenziazione del rap-
porto del tipo Io-Esso, la peculiarità del rapporto lo-Tu. Ma
cosi non sfugge alla negazione e quindi rimane nello schema di
una filosofia trascendentale, tutta orientata verso il soggetto e
priva di una valida alternativa»25. «La relazione lo-Tu conser-
va in Buber un carattere formale: essa può unire l'uomo alle
cose e anche l'uomo all'uomo. Il formalismo lo-Tu non deter-
mina alcuna struttura concreta. Io-Tu è evento {Geschehen), scon-
tro, comprensione — ma non consente di rendere conto (se non
come di una aberrazione, di una caduta o di una malattia) di
una vita diversa dall'amicizia: l'economia, la ricerca della feli-

22
Ib., 50.
23
Ih., 57.
24
Ih., 67 e 89.
25
W. Pannenberg, Antropologia in prospettiva teologica, o.c, 207. Analoga criti-
ca ad esempio in J. Gevaert, Il problema dell'uomo, o.c, 31.

47
cita, la relazione rappresentativa con le cose. Esse restano in
una specie di spiritualismo sprezzante, inesplorate ed inspiega-
bili»26.

b) Il linguaggio

Perché la relazione interpersonale guadagni lo spessore pie-


no della storicità, del complesso dei rapporti in cui è vitalmen-
te inserita con gli uomini e con le cose, anche al di là dell'in-
contro dialogico Io-Tu, occorre situarla nel vasto mondo del lin-
guaggio: è quanto fa un altro grande testimone dell'ebraismo mo-
derno, Franz Rosenzweig, nella sua opera poderosa La stella del-
la redenzione21. Anche qui il referente polemico è l'idealismo,
accusato di diffidare del linguaggio a favore del trionfo dell'i-
dea e dello spirito pensante: caratteristica della rivelazione bi-
blica è invece precisamente la legittimazione del linguaggio, via
dell'incontro fra Dio e l'uomo, e fra l'uomo e il mondo degli
uomini e delle cose. «L'idealismo aveva rigettato in modo ca-
ratteristico il linguaggio come Organon... Gli mancava la schiet-
ta fiducia nel linguaggio. L'idealismo non era disposto a presta-
re orecchio ed a rispondere a questa voce che risuona nell'uo-
mo, apparentemente senza motivo, ma proprio per questo tan-
to più realmente. Esso richiedeva ragioni, giustificazioni, cai-
colabilità, cose queste che il linguaggio non poteva offrirgli, e
così si inventò la logica che gliele potesse dare. La logica gli of-
fri tutto questo, ma non ciò che il linguaggio invece possedeva:
la sua ovvia comprensibilità, per cui esso è sì radicato con le
parole originarie nei fondamenti sotterranei dell'essere, ma già
con le parole-matrici germoglia alla luce della vita di superficie;
ed in questa luce sboccia in molteplicità colorata, come una pianta
nata in mezzo a tutta la vita che cresce, di cui essa si nutre co-
me quella di lei, ma anche differente da tutta questa vita pro-
prio perché non si muove libera a suo arbitrio sulla superficie,

2
6 E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano 1980, 67.
27
Der Stern der Erlàsung, Frankfurt 1921: edizione italiana La stella della reden-
zione, a cura di G. Bonola, Casale Monferrato 1985. Cf. pure di F. Rosenzweig II nuo-
vo pensiero, a cura di G. Bonola, Commento di G. Scholem, Venezia 1983. Su F. Ro-
senzweig cf. ad esempio le riflessioni di M. Cacciari, Errante radice, in Id., Icone della
Legge, Milano 1985, 13-55. Sulla questione del linguaggio in Rosenzweig cf. A. Fabris,
Linguaggio della rivelazione. Filosofìa e teologia nel pensiero di Franz Rosenzweig, Geno-
va 1990, specie 95ss.

48
bensì affonda radici negli oscuri fondamenti che giacciono sot-
to la vita» 28 .
Grazie alla rivelazione noi sappiamo che la sorgente ultima
da cui sgorga il linguaggio è lo stesso mistero di Dio, e perciò
siamo assicurati che la comunicazione che il linguaggio stabili-
sce è rapporto autentico con l'esteriorità, con la nutriente tra-
scendenza di Dio, degli altri, del mondo: «Le vie di Dio e le
vie dell'uomo sono diverse, ma la parola di Dio e la parola del-
l'uomo sono la stessa cosa. Ciò che l'uomo percepisce nel suo
cuore come suo proprio linguaggio umano è la parola che pro-
viene dalla bocca di Dio. La parola della creazione, che in noi
riecheggia e parla dal nostro interno, a partire dalla parola-matrice
che sale direttamente dal mutismo della parola originaria, fino
alla forma narrativa perfettamente oggettivante tipica del pas-
sato, tutto questo è anche la parola che Dio ha pronunciato e
che noi troviamo scritta nel libro dell'inizio» 29 . Grazie al lin-
guaggio l'io è veramente raggiunto dall'altro, in tutta la com-
plessità delle sue forme, e può raggiungere l'altro nella sua alte-
rità, che si tratti di Dio, degli uomini o delle cose: la lingua è
la forma e la mediazione dell'incontro fra diversi. Essa «è vera-
mente il dono mattutino del creatore all'umanità, e tuttavia,
al tempo stesso, il bene comune dei figli d'uomo, di cui ciascu-
no partecipa nel proprio modo particolare, ed infine è il sigillo
dell'umanità dell'uomo. La lingua è completamente cosa dell'i-
nizio, perché l'uomo divenne uomo quando parlò, e tuttavia fi-
no ad oggi non c'è ancora una lingua dell'umanità, anzi ci sarà
solo alla fine... Così la lingua reale include tutto, inizio, centro
e fine» 30 . Nel linguaggio si costruiscono e si esprimono le re-
lazioni reali, che fanno la storia: in questa valorizzazione del
linguaggio, come realizzazione autentica dell'incontro con l'e-
steriorità, si avverte l'ispirazione dell'antica anima ebraica, che
riconosce alla «parola» (dabar) una forza propriamente creativa
e realmente comunicativa del mistero, che è nel più profondo
degli esseri.

28
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, o.c, 155.
29
Ih., 160.
30
f t . ; 117.

49
e) La corporeità

L'esplicita riscoperta del valore dell'esteriorità ed anche del


suo ineliminabile spessore corporeo, condensato nel volto d'al-
tri, è merito di un altro grande pensatore ebreo contempora-
neo, Emmanuel Lévinas n: egli si pone in continuità con F. Ro-
senzweig nel comune rifiuto dell'idealismo, anche se intende svi-
luppare la riflessione sul linguaggio con un metodo più consa-
pevolmente fenomenologico, che porti ad evidenziare non solo
il rapporto fra linguaggio e rivelazione, ma anche quello fra lin-
guaggio e volto32. «Il linguaggio instaura una relazione irridu-
cibile alla relazione soggetto-oggetto: la rivelazione dell'Altro.
Il linguaggio, come sistema di segni, può costituirsi soltanto in
questa rivelazione»33. E questa si compie propriamente nell'of-
frirsi del volto d'altri: «È necessario che io stia in relazione con
qualcosa di cui non vivo... Ma per questo è necessario che in-
contri il volto indiscreto d'Altri che mi mette in questione...
Definiamo linguaggio la messa in questione dell'io coestensiva
alla manifestazione d'Altri nel volto»34.
Anche in Lévinas il punto di partenza è la critica al sistema
idealistico, alla «totalità» compiuta in cui tutto è risolto nella
comprensione luminosa del pensiero. Il concetto di totalità, pe-
raltro, domina l'intera filosofia occidentale, da Parmenide ai no-
stri giorni: «La filosofia occidentale è stata per lo più un'onto-
logia: una riduzione dell'Altro al Medesimo, in forza dell'in-
terposizione di un termine medio e neutro che garantisce l'in-
telligenza dell'essere»35. Solo l'accoglienza dell'altro, nella sua
irriducibile differenza, libera dalle secche dell'identità, dell'e-
terna ripetizione dell'identico: il rifiuto della totalizzazione si
produce come relazione con il non-inglobabile, come accoglien-
31
Di E. Lévinas cf. tra l'altro Dall'esistenza all'esìstente (1947), Casale Monfer-
rato 1986; Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità (1961), Milano 1980; Umanesimo
dell'altro uomo (1972), Genova 1985; Altrimenti che essere o aldi là dell'essenza (1974),
Milano 1983; Di Dio che viene all'idea (1982), Milano 1986; L'aldilà del versetto. Lettu-
re e discorsi talmudici (1982), Napoli 1986. Su E. Lévinas cf. S. Petrosino, La verità
nomade. Introduzione a Emmanuel Lévinas, Milano 1980; G. Mura, Emmanuel Lévinas:
ermeneutica e «separazione», Roma 1982; E. Baccarini, Lévinas. Soggettività e Infinito,
Roma 1985; S. Malka, Leggere Lévinas, Brescia 1986.
32
Cf. quanto Lévinas scrive in Totalità e Infinito, o.c, 26, nonché nell'impor-
tante saggio Franz Rosenzweig: une pensée juive moderne (1965), in Franz Rosenzweìg,
Les cahiers de la nuit surveillée, Paris 1982.
33
E. Lévinas, Totalità e Infinito, o.c, 71.
34
Ih., 174.
^Ib., 41.

50
za dell'alterità, che, concretamente, si presenta nel volto d'al-
tri. «Il volto impedisce la totalizzazione»36. Dove la totalità è
infranta, si affaccia l'infinito, il mondo della reale alterità, non
riducibile al pensiero oggettivante dell'altro: «L'idea dell'infi-
nito non parte da Me, né da un bisogno dell'Io che misuri esat-
tamente i suoi vuoti.In essa il movimento parte dal pensato
e non dal pensatore. E l'unica conoscenza che presenti questo
rovesciamento - conoscenza senza a priori. L'idea dell'Infinito
si rivela, nel senso forte del termine»37. Dove l'infinito irrom-
pe nella totalità e la infrange, lì si pone l'esteriorità: «Si può
risalire a partire dall'esperienza della totalità ad una situazione
nella quale la totalità si spezza, mentre questa situazione con-
diziona la totalità stessa. Questa situazione è lo sfolgorio del-
l'esteriorità o della trascendenza sul volto d'altri»38.
In quanto luogo dell'irruzione sfolgorante dell'Infinito nel-
la totalità chiusa del pensiero, l'esteriorità libera il soggetto dalla
prigionia di se stesso e si offre come avvento dell'essere: «L'es-
sere è esteriorità: l'esercizio stesso del suo essere consiste nel-
l'esteriorità, e nessun pensiero potrebbe obbedire maggiormente
all'essere se non lasciandosi dominare da questa esteriorità»39.
L'esteriorità è il trionfo della relazione sull'affermazione soli-
taria di sé, l'avvento dell'alterità, irriducibile al medesimo, lo
spazio della possibilità e del nuovo, la traccia dell'Infinito: «L'e-
steriorità, come essenza dell'essere, significa la resistenza so-
ciale alla logica che totalizza il molteplice»40. Essa è anche la
condizione di possibilità di un autentico rapporto d'amore, per-
ché dove non c'è reale alterità, c'è solo dominio o possesso: «L'a-
more resta un rapporto con altri che si muta in bisogno; e que-
sto bisogno presuppone ancora l'esteriorità totale, trascenden-
te dell'altro, dell'amato»41. Il luogo in cui l'esteriorità si offre
con pura evidenza è il volto d'altri: «Noi chiamiamo volto il
modo in cui si presenta l'Altro, che supera Videa dell'Altro in
36
Ib., 219. Come per Buber, così per Lévinas non si esce dalla totalizzazione se
si rimane nella posizione heideggeriana: «L'ontologia heideggeriana che subordina il
rapporto con Altri alla relazione con l'essere in generale — anche se si oppone alla pas-
sione tecnica, venuta dall'oblio dell'essere nascosto dall'ente — resta all'interno del-
l'obbedienza dell'anonimo e porta, fatalmente, ad un'altra potenza, al dominio impe-
rialista, alla tirannia»: ib., 44.
37
Ib., 60. Cf. pure 24.
38
fò., 23.
39
Ib., 298.
40
Ib., 300.
41
Ib., 262.

51
me. Questo modo non consiste nelPassumere, di fronte al mio
sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme
di qualità che formano un'immagine. Il volto d'Altri distrugge
ad ogni istante, e oltrepassa l'immagine plastica che mi lascia,
l'idea a mia misura e a misura del suo ideatum — l'idea adegua-
ta. Non si manifesta in base a queste qualità, ma katb'auto. Si
esprime»*2. «Il volto è presente nel suo rifiuto di essere conte-
nuto... Altri resta infinitamente trascendente, infinitamente
estraneo — ma il suo volto, in cui si produce la sua epifania
e che si rivolge a me, rompe con il mondo che può esserci co-
mune e le cui virtualità si iscrivono nella nostra natura e che
noi sviluppiamo anche con la nostra esistenza... L'idea dell'in-
finito, l'infinitamente di più contenuto nel meno, si produce
concretamente sotto le specie di una relazione con il volto»43.
Perciò il volto, forma pura dell'esteriorità, «mi mette in rap-
porto con l'essere»44.
È su questa linea che l'esteriorità, sfolgorante nel volto d'al-
tri, rimanda al divino: questo rimando avviene nella forma di
una traccia: «La dimensione del divino si apre a partire dal vol-
to umano... Solo qui il Trascendente, infinitamente Altro, ci
sollecita e fa appello a noi... Altri non è l'incarnazione di Dio,
ma appunto attraverso il suo volto, nel quale è disincarnato, la
manifestazione della maestosità nella quale Dio si rivela»45. Ed
in questo rimando all'assolutamente trascendente viene a fon-
darsi nel rapporto ad altri l'assoluto primato dell'etica, del do-
ver essere, corrispondente all'alterità che si rivela, con le sue
esigenze di superamento dell'io e di consegna al bisogno d'al-
tri. Se la metafisica occidentale si è risolta nel dominio dell'i-
dentità, l'etica dovrà fondarsi sul valore della differenza, sulla
misura dell'esteriorità, irriducibile alla presa egoistica e soffo-
cante del soggetto: «L'epifania del volto è etica... La relazione
con l'ente che si esprime preesiste allo svelamento dell'essere
in generale, come base della conoscenza e come senso dell'esse-
re; il piano etico preesiste al piano ontologico»46. Nello spazio
dell'esteriorità trova così fondamento tanto il rimando al divi-

42
Ib., 48.
43
Ib., 199-201.
44
Ib., 217.
45
Ib., 76s. Ci. pure di Lévinas La traccia dell'Altro, Napoli 1979 (traduzione del-
l'ultima parte di En àécouvrant l'existence avec Husserl et Heidegger, Paris 19672).
46
E. Lévinas, Totalità e Infinito, o.c, 204-206.

52
no, quanto la fondazione dell'etica: l'esteriorità è tutt'altro che
dissipazione e caduta, alienazione e smarrimento di sé. Il cor-
poso affacciarsi dell'altro nell'esteriorità non riducibile alla presa
dell'io è l'alba di ogni valore autentico, proprio in quanto è la
fine di ogni seducente prigionia del «sé».
Si comprende in questa luce la grande importanza che una
simile antropologia riconosce alla sfera della corporeità: si po-
trebbe dire che il punto di incontro fra l'esigenza etica fondata
dall'esteriorità e la risposta dell'interiorità che si proietta nelle
relazioni storiche è precisamente la corporeità dell'essere uma-
no. Nulla è più lontano da un'esatta concezione dell'esteriorità
che il disprezzo del corpo: «Il corpo non è soltanto, per il sog-
getto, un modo di ridursi in schiavitù, di dipendere da ciò che
esso non è; ma un modo di possedere e di lavorare, di avere
del tempo, di superare l'alterità stessa di ciò di cui io debbo
vivere. Il corpo è proprio il possesso di sé grazie al quale l'io,
liberato dal mondo attraverso il bisogno, riesce a superare an-
che la miseria di questa liberazione... Essere corpo significa avere
del tempo in mezzo ai fatti, essere me stesso pur vivendo nel-
Yaltro»47. Il corpo è punto di incontro e di comunicazione con
l'altro e perciò misura della trascendenza dell'esteriorità rispetto
alle pretese della soggettività: «Il corpo è una continua conte-
stazione del privilegio, attribuito alla coscienza, di "dare sen-
so" ad ogni cosa. Esso vive in quanto è questa contestazione.
Il mondo in cui io vivo non è semplicemente il faccia a faccia
o ciò che è contemporaneo al pensiero e alla sua libertà costitu-
tiva, ma condizionamento ed anteriorità»48.
Il corpo è dunque al tempo stesso espressione, presenza, lin-
guaggio, strumento e limite: secondo queste varie dimensioni
esso è la frontiera in cui esteriorità e interiorità dell'essere umano
passano l'una nell'altra. In questo senso profondamente dina-
mico l'uomo è il suo corpo, unità e reciprocità di interiorità e
di trascendenza, di esteriorità e di apertura sul mondo, e il cor-
po può esprimere tutta la complessa ambiguità dell'uomo, in se
stesso ed in rapporto ad altri: «Il corpo, in cui può brillare l'e-
spressione e in cui l'egoismo della volontà diventa discorso e
opposizione per eccellenza, traduce, nello stesso tempo, l'en-

47
Ib., 117. Per un approfondimento storico-teologico della corporeità cf. C. Roc-
chetta, Per una teologia della corporeità, Torino 1990.
48
E. Lévinas, Totalità e Infinito, o.c, 130.

53
trata dell'io nei calcoli d'altri»49. È questa peraltro la più an-
tica concezione dell'Antico Israele, che ignora ogni forma di an-
tropologia dualista, che separi il corpo dalla totalità vivente del-
l'essere umano.
Forma altissima in cui esteriorità ed interiorità dell'uomo
si incontrano nella corporeità è la sessualità: in quanto condi-
zione della fecondità, essa rivela una struttura dirompente nei
confronti di ogni filosofia dell'identità. Tanto nel suo esercizio
fecondo, quanto nel frutto di esso, la sessualità manifesta un'u-
nità di Medesimo e di Altro che è inconcepibile per ogni pre-
sunzione totalizzante della soggettività: «La fecondità include
una dualità dell'Identico. Non indica tutto ciò di cui mi posso
impadronire — le mie possibilità. Indica il mio avvenire che non
è un avvenire del Medesimo... Il fatto che nella fecondità l'io
personale trovi un incremento, indica la fine del terrore in cui
la trascendenza del sacro inumano, anonimo e neutro, minac-
cia le persone con il nulla o con l'estasi. L'essere si produce co-
me multiplo e come scisso in Medesimo e in Altro. Questa è
la sua struttura ultima. E società e, quindi, tempo. Così uscia-
mo dalla filosofia dell'essere parmenideo»50.
Non è tuttavia soltanto la fecondità connessa all'esercizio
della sessualità a rivelarne il significato per l'essere umano: il
fatto stesso di essere sessuato caratterizza il soggetto come ne-
cessaria apertura alla reciprocità. «L'Eros non può essere inter-
pretato come una sovrastruttura che ha l'individuo per base e
per soggetto. Il soggetto nella voluttà scopre di essere il sé (ciò
che non significa l'oggetto o il tema) di un altro e non soltanto
il sé di se stesso. La relazione con il carnale e con la tenerezza
com-mossa fa appunto continuamente rinascere questo sé... Ap-
punto in quanto se stesso, l'Io, attraverso la relazione con Altri
nella femminilità, si libera dalla propria identità, può essere al-
tro a partire da sé come origine»51. Anche in questo apprez-
zamento della sessualità, intesa come forma della liberazione dal
dominio dell'io per aprirsi all'esteriorità trascendente e quindi
alla reciprocità del rapporto con altri, si avverte la profonda ra-
dice dell'ebraismo: l'Antico Testamento è del tutto lontano da
qualsiasi forma di disprezzo della sessualità52. Il valore dell'e-
49
Ib., 235.
50 Ib., 276s.
51
Ib., 279, 281s.
52
Cf. H. W. Wolff, Antropologa dell'Antico Testamento, o.c, 213ss. Una presen-

54
steriorità — che è valore della relazione interpersonale, dei rap-
porti storici segnati ed espressi dal linguaggio, e della corporei-
tà nelle sue diverse potenzialità — vi emerge luminoso:
Baciami con i baci della tua bocca!
Sì, le tue carezze sono migliori del vino.
I tuoi profumi sono inebrianti,
aroma che si spande è il tuo nome,
per questo le ragazze ti amano.
Attirami a te, corriamo!
Fammi entrare, o re, nelle tue stanze:
esulteremo e gioiremo per amor tuo,
celebreremo i tuoi amori più del vino.
A ragione ti amano! (Ct 1,2-4).

Come sei bella, amica mia, come sei bella!


I tuoi occhi sono colombe...
I tuoi capelli come un gregge di capre...
I tuoi denti come un gregge di pecore
che salgono dal bagno...
Come un nastro di porpora le tue labbra...
I tuoi seni come due cerbiatti...
Tutta bella sei tu, amica mia,
in te nessuna macchia.
Vieni con me dal Libano, o sposa,
con me dal Libano, vieni! (Ct 4,1-8)

2.2. L'INTERIORITÀ

È Agostino il primo grande filosofo dell'interiorità: il pen-


siero greco si era interessato della natura e dell'ordine del co-
smo, considerando l'uomo nell'orizzonte dell'idea o dell'univer-
sale, ed anche quando si era affacciato sull'interiorità, come nel
programma socratico della conoscenza di se stessi, lo aveva fat-
to all'interno dell'interesse per l'ordine oggettivo di tutto ciò
che esiste. Il problema parmenideo dell'uno e del molteplice,

tazione attuale, di genere sapienziale dell'antropologia propria della tradizione ebraica


è offerta da A. J. Heschel, L'uomo non è solo. Una filosofia della religione (1951), Mila-
no 19875, e Chi è l'uomo? (1965), Milano 19894.

55
la passione per l'abbraccio totale, che dia la misura e la consi-
stenza di tutte le cose, è la grandezza e il limite dello spirito
greco, e in generale della metafisica occidentale, che da esso de-
riva. Il pensiero moderno ha ereditato la scoperta cristiana del-
l'interiorità, ma l'ha privata dello spessore oggettivo e trascen-
dente, che essa conserva in Agostino e nei grandi Scolastici: da
Descartes in poi l'interiorità si risolve nella soggettività, fino
al trionfo ebbro di essa nel sistema hegeliano. Fra oggettività
classica e soggettività moderna la riflessione agostiniana si tie-
ne in un delicato, ma decisivo equilibrio, ereditato dalla tradi-
zione ebraico-cristiana. La conversione all'interiorità non è fu-
ga dall'esteriorità o perdita del senso della realtà, ma pellegri-
naggio verso le sorgenti profonde, dove si raccoglie la conoscenza
del reale, si produce la coscienza dell'agire assolutamente origi-
nale del singolo, e ci si apre sempre di nuovo all'altro da sé,
in una sorta di continuo auto-trascendimento. Memoria, come
identità continuata nel tempo, singolarità consapevole e libera
ed auto-trascendenza sono pertanto i grandi momenti della ri-
flessione sull'interiorità, sviluppatasi all'interno della tradizio-
ne nutrita dalla fede nella rivelazione biblica. È il programma
tracciato emblematicamente dallo stesso Agostino: «Non uscir
fuori, rientra in te stesso, nell'uomo interiore abita la veri-
tà: e se troverai la tua natura mutabile, trascendi anche te
stesso»53.

a) La memoria e l'identità

La riflessione sulla memoria nasce in Agostino dal bisogno


di chiarire l'origine della conoscenza di sé nella conoscenza di
Dio, testimoniata nelle Confessioni: superata l'esperienza sen-
sibile, immediatamente legata all'esteriorità e di breve durata,
si giunge alle distese e agli ampi ricettacoli della memoria, «do-
ve si trovano i tesori di immagini senza numero accumulati da
ogni genere di cose percepite. Ivi sta riposto anche il frutto del
nostro pensiero, quando aumentiamo o diminuiamo o comun-
que variamo le nostre sensazioni, o qualunque altra cosa vi sia
stata depositata in riserva e che la dimenticanza non abbia an-

5?
«Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore nomine habitat veritas: et si tuam
naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum»: S. Agostino, De vera religione, 39.

56
cora assorbita e sepolta»54. Dalla descrizione che ne fa si po-
trebbe dire che Agostino immagini il mondo della memoria co-
me l'intero mondo esteriore e interiore raggiunto dalla cono-
scenza o addirittura ad essa precedente o attraverso di essa in-
consciamente affacciatosi alla mente, in quanto raccolto in una
sorta di latenza, disponibile ad essere evocata e attualizzata dal
pensiero. Il filo unificante di queste ampie distese della memo-
ria è il rapporto di tutto quanto vi è compreso con l'io, il sog-
getto che ha conosciuto, sperimentato, ricordato, pensato:
«Grande è il potere della memoria: un non so che di terrifican-
te, o mio Dio; un complesso profondo e infinito: e tutto ciò è
lo spirito, e tutto ciò sono io»55. La memoria è vista allora co-
me il fondamento della permanenza dell'io nella propria identi-
tà, la durata interiore che supera l'effimero sfolgorio dell'este-
riorità e lo converte in patrimonio della mente, integrandolo
nel mondo dell'interiorità in continuo divenire. Perciò la me-
moria non è una semplice facoltà, rapportabile ad altre come
l'intelligenza o la volontà, ma è la condizione del loro esercizio,
il presupposto che fa della storia interiore dell'io non una som-
ma di istanti puntuali sconnessi fra loro, ma il tracciato di uno
sviluppo dell'identità, la continuità di un processo, che è la vi-
ta dell'uomo interiore, in cui solo si conosce la verità.
Questo aspetto è colto da Agostino con piena evidenza lì
dove egli cerca nell'interiorità umana le vestigia della Trinità,
e riconosce Vevidentior Trìnitas proprio nel trinomio memoria,
intelligentia, voluntas: ciascuna delle realtà indicate dai tre ter-
mini vive nell'altra e grazie all'altra. «Non soltanto ciascuna è
contenuta in ciascuna, ma anche tutte sono contenute in cia-
scuna. Infatti ho memoria di aver memoria, intelligenza e vo-
lontà. Ho intelligenza di intendere, volere e ricordare. Ho vo-
lontà di volere, di ricordare, di intendere. Con la mia memoria
abbraccio insieme tutta la mia memoria, intelligenza e volontà.
Infatti ciò che nella mia memoria non ricordo, non è nella mia
memoria. Ma niente è tanto nella memoria, come la memoria
stessa»56. Il ricordo non è che l'unione di un'immagine passa-
54
Confessione!, X, 8. Il libro X tratta della memoria nel contesto della riflessio-
ne sul cammino per arrivare a Dio e dell'analisi delle facoltà umane.
55
ft., X, 17.
56
De Trìnitate, X, 11, 18. Cf. quanto scrive M. F. Sciacca sulla «memoria» in
Agostino nella sua Introduzione di carattere filosofico a S. Agostino, La Trinità, Testo
latino; traduzione di G. Beschin, Introduzione di A. Trapé e M. F. Sciacca, Roma 1973,
CX-CXIV. Alla riflessione su memorìa-intelligentia-voluntas sui è dedicato il Libro X

57
ta con un atto presente di conoscenza, che la evoca sotto l'azio-
ne della volontà: ma quest'atto di conoscenza presuppone a sua
volta la coscienza di sé, che altro non è se non la memoria sui
in quanto io conoscente e volente. La memoria assicura così l'u-
nità profonda del soggetto che conosce e vuole e viene a costi-
tuire il fondamento dell'identità dell'uomo interiore. Perciò nel
gioco di memoria, intelligenza e amore si offre l'impronta più
densa della Trinità, in quanto unità profondissima dei Tre, dei
quali il Verbo e lo Spirito procedono dalla fonte di tutta la di-
vinità, il Padre, precisamente per via di conoscenza e di amore.
La memoria è dunque il fondamento dell'identità interiore,
la rifrazione speculare del mondo dell'esteriorità in quanto co-
nosciuto dal soggetto, ma anche il filo rosso dell'interiorità in-
dividuale che ha filtrato e organizzato le incursioni dell'alterità
trascendente e si è definita rapportandosi ad esse. Perciò priva-
re qualcuno della propria memoria equivale a privarlo della pro-
pria identità: restituire a un essere umano o a un popolo op-
presso la memoria di sé significa restituirgli la propria dignità
interiore. «Grazie alla memoria, posso fondarmi a cose fatte,
retroattivamente: assumo oggi ciò che, nel passato assoluto del-
l'origine, non aveva un soggetto che lo potesse ricevere e che,
perciò, pesava come una fatalità. Grazie alla memoria assumo
e rimetto in questione. La memoria realizza l'impossibilità: la
memoria, a cose fatte, assume la passività del passato e lo do-
mina. La memoria come inversione del tempo storico è l'essen-
za dell'interiorità»57. Questa assunzione attiva del passato ne-
gli spazi della memoria, su cui viene a fondarsi la permanenza
dell'identità, non ha un valore puramente soggettivo, quasi si
risolvesse nell'arbitrio di un'attività puramente immanente: essa
non solo riceve la sua materia prima dall'irruzione dell'esterio-
rità, ma tende a realizzarsi compiutamente nella trascendenza
con cui il soggetto supera se stesso.
Questo dinamismo è evidenziato da Agostino in rapporto
alla conoscenza di Dio: Dio non è nella memoria prima di co-
noscerLo; eppure precede e supera la memoria come fondamento
e meta ultima cui tendono la mente e il cuore dell'uomo. «Pri-
ma che Ti conoscessi, certo Tu non eri ancora nella mia memo-
dei De Trinitate; a quella su metnorìa-ìntettigentia-voluntas Dei i Libri XIV-XV. L'ac-
cenno alla evidentior Trinitas in riferimento al suddetto trinomio si trova nel Libro XV,
3, 5.
57
E. Lévinas, Totalità e Infinito, o.c, 54.

58
ria. Dove dunque Ti ho trovato quando Ti conobbi, se non in
Te sopra di me?»58. Quando la chiamata di Dio rifulge nello
splendore dell'esteriorità e si compie l'incontro della fede, si apro-
no gli occhi dell'anima e si riconosce Colui che ci precede e ci
fonda, in cui solo riposa, come nella suprema gioia e bellezza,
la sete del cuore: «Tardi Ti ho amato, o bellezza tanto antica
e tanto nuova, tardi Ti ho amato! Ecco, Tu eri dentro di me,
io stavo al di fuori: e qui Ti cercavo, e deforme qual ero, mi
buttavo su tutte queste cose belle che Tu hai creato. Tu eri con
me, ed io non ero con Te, tenuto lontano da quelle creature
che non esisterebbero se non fossero in Te. Mi chiamasti, gri-
dasti e vincesti la mia sordità; sfolgorasti col tuo splendore e
mettesti in fuga la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai
ed anelo a Te; Ti gustai, ed ora ho fame e sete; mi toccasti,
ed ora brucio dal desiderio della tua pace»59.
Realizzatosi l'incontro, la memoria scopre nelle sue profon-
dità, in se stessa e al di là di se stessa, la presenza trascendente
e fondante del suo Signore: «Sono andato spaziando nella mia
memoria, per cercar Ti, o Signore: e fuori di essa non Ti ho tro-
vato, che anzi non vi ho trovato nulla di Te che io non ricor-
dassi dal momento in cui imparai a conoscerTi... Ma in quale
angolo della mia memoria Te ne stai, o Signore?... Mi sono ad-
dentrato nella sede stessa dello spirito, che è pure nella memo-
ria, poiché l'animo ha il ricordo di sé, ma non eri là;... non sei
neppure l'animo, ma il Signore Iddio dell'animo: tutto si muta,
ma Tu permani immutabile al di sopra di tutto. E Ti sei degna-
to di prendere dimora nella mia memoria dal momento in cui
Ti ho conosciuto»60. Questo fondamento oggettivo, origine e
destinazione ultima e trascendente dell'uomo interiore che si
edifica nella continuità della memoria, mostra come la rifles-
sione agostiniana sull'interiorità sia lontana tanto dall'oggetti-
vismo del pensiero classico, quanto dal soggettivismo moder-
no: ricondurre Agostino alla vena platonica, o stravolgerlo nel
senso dello psicologismo o delle concezioni idealistiche moder-
ne, vuol dire semplicemente dimenticare la linfa profonda del
suo pensiero, che è l'anima biblica ebraico-cristiana, nutrita del
gioco di esteriorità ed immanenza, di trascendenza ed interiorità.

58
Confessiones, X, 26.
^Ib., X, 27.
60
Ib., X, 24, 25.

59
b) La singolarità
L'uomo interiore — edificato sul fondamento oggettivo che
trascende la memoria tanto in direzione dell'inizio, quanto in
quella del compimento — è tuttavia del tutto unico e originale
nella sua identità: l'oggettività e il saldo ancoramento alla tra-
scendenza dell'esteriorità non solo non escludono, ma anzi si
combinano con l'assoluta singolarità del soggetto conoscente e
agente. Si può affermare che è proprio grazie al valore ricono-
sciuto all'esteriorità, che l'interiorità può esprimersi in un io
irripetibile e singolare: dove domina la totalità del pensiero a
partire dal soggetto non c'è più posto per alcuna vera indivi-
dualità. Nell'idealismo la più alta celebrazione della ragione viene
a coincidere con il tramonto di ogni sua possibile concreta sin-
golarità. Solo definendosi sull'orizzonte dell'esteriorità, nella
relazione di reciprocità con una alterità veramente altra, l'io per-
cepisce se stesso come singolo, con tutto il carico della sua re-
sponsabilità verso quanto lo trascende, e con tutta la dignità
di soggetto a sua volta trascendente ed altro rispetto ad altri.
Dove non si può sottrarre alla propria responsabilità verso l'al-
tro, l'uomo interiore emerge come io, come soggetto consape-
vole e responsabile della propria storia. E questo io è assoluta-
mente insostituibile, del tutto incomunicabile: di fronte allo sfol-
gorio dell'esteriorità, ciascuno deve vivere la propria vita ed as-
sumere la propria morte. L'interiorità si esprime nel singolo.
E Sfiren Kierkegaard il filosofo della singolarità61: attingen-
do alla stessa linfa della tradizione ebraico-cristiana, di cui si
era alimentata la meditazione di Agostino, Kierkegaard arriva
alla centralità del singolo dalla considerazione dell'esistenza come
condizione di separazione e al tempo stesso di contemporanei-
tà nei confronti del Dio vivente. In polemica con l'idealismo,
egli ne individua il limite fondamentale nell'aver fatto dell'u-
manità una specie, una totalità che subordina a sé il destino delle

61
Di S. Kierkegaard sono pubblicati in edizione critica: Papirer (Carte), 16 voli,
in 25 tomi, a cura di N. Thulstrup, K^benhavn 1968-702; Samlede Vaerker (Opere
complete), 14 voli., a cura di A. B. Drachmann, J. L. Heiberg, H. O. Lange, ivi
1901-1906; Breve og Aktstykker vednfrende S. Kierkegaard (Lettere e documenti riguar-
danti S. Kierkegaard), 2 voli., a cura di N. Thulstrup, ivi 1953-54. In italiano sono
usciti tra l'altro: Diario, a cura di C. Fabro, 3 voli., Brescia 1948-51 (la terza edizione
è in 12 volumi: ivi 1980-83); Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972. Per un orienta-
mento su Kierkegaard e l'immensa bibliografia che lo riguarda cf. S. Spera, Introduzio-
ne a Kierkegaard, Bari 19862.

60
parti, secondo il movimento necessario del processo dialettico
cui nulla sfugge. Nella concezione hegeliana l'esistenza diviene
una manifestazione del concetto, e la vicenda del singolo si ri-
solve in fenomenologia dello Spirito assoluto: ma in tal modo
l'originalità irripetibile dell'uomo interiore è irrimediabilmen-
te svuotata, e ogni valore etico è perduto, perché il bene e il
male non sono fra loro opposti, ma si convertono in momenti
necessari del divenire dialettico della totalità. La sofferenza di-
viene una tappa «normale» del processo, un negativo che con-
tribuisce senza rischio reale all'edificazione del positivo della
sintesi finale.
Contro l'abbraccio asfissiante del concetto, che tutto com-
prende e tutto spiega, Kierkegaard protesta in nome della sin-
golarità del vero: la sua tesi è che «la soggettività, l'interiorità
è la verità»62. Ciò che esiste non è un semplice caso dell'uni-
versale, né un puro momento del processo dello Spirito assolu-
to, ma un'individualità assolutamente singolare, irripetibile e
irriducibile a ogni cattura totalizzante. La libertà non è la ne-
cessità che determina se stessa, ma la possibilità della pura no-
vità, l'indeducibile divenire del singolo: perciò, se è possibile
un «sistema» sul piano della logica astratta, non lo è sul piano
dell'esistenza concreta. «Per la riflessione oggettiva la verità di-
venta qualcosa di oggettivo, un oggetto, e si tratta di vederlo
separato dal soggetto; per la riflessione soggettiva invece la ve-
rità diventa appropriazione, interiorità, soggettività e si tratta
per l'appunto di approfondirsi esistendo nella soggettività»63.
Né questa impossibilità di racchiudere la verità in un sistema
a livello esistenziale equivale a far precipitare l'esistenza nelle
maglie di un soggettivismo senza sbocchi: per Kierkegaard è il
riferimento alla Trascendenza, il rapporto costitutivo del sin-
golo al Dio che lo ha creato e lo chiama, che impedisce ogni
trionfo della solitudine imprigionante, ogni naufragio solipsi-
stico. La singolarità è originariamente ex-sistenza, star fuori ri-
spetto al Trascendente, essere altri da Dio e chiamati a deci-
dersi davanti a Lui nell'esercizio concreto della libertà, priva
di ogni necessità oppressiva. Qui sta la dignità della vita del-

62
La tesi ritorna di continuo nella polemica antihegeliana del Capitolo II della
Sezione II della Parte seconda di Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filoso-
fia», in Opere, o.c, 360ss. Si può dire che la Postilla sia «l'opus maximum di Kierke-
gaard come critico del pensiero moderno» (C. Fabro).
63
Postilla, o.c, 362.

61
l'uomo interiore, e qui risiede anche il dramma della sua inalie-
nabile responsabilità: è nella scelta che lo rapporta direttamen-
te a Dio, che l'uomo diventa «singolo», si afferma cioè nella sua
pari dignità con ogni altro essere umano davanti al mistero di-
vino, nella sua insostituibile responsabilità e nella sua irripeti-
bile individualità esistenziale. L'idea di «singolarità» è perciò
la categoria dello spirito per eccellenza, quella che definisce al
tempo stesso la trascendenza di Dio e l'interiorità dell'uomo,
il valore fondante dell'esteriorità per la responsabilità etica e
lo spazio dell'immanenza assolutamente originale in cui ciascu-
no decide di se stesso davanti all'Assoluto.
E per questo che la salvezza degli uomini non può essere
legata ad un'astratta legge del divenire universale, che segne-
rebbe ogni cosa della sua necessità e dell'inevitabile sbocco po-
sitivo finale: in quanto legata alla decisione del singolo, la sal-
vezza non può essere prodotta che dall'incontro con un singo-
lo, «questo singolo uomo, Gesù Cristo, che è il vero Dio». Qui
sta la verità eterna del cristianesimo: contro le astrazioni tota-
lizzanti della logica, esso afferma l'assoluta singolarità del ve-
ro, e perciò il gioco puro della libertà con la quale l'io si decide
davanti al Dio vivente, entrato egli stesso nella rete delle irri-
petibili singolarità della storia. Contro la presunzione di Les-
sing, per il quale le «verità storiche contingenti» (zufàllige Ge-
schichtswakrheiten) non possono mai ambire a essere prova di
«verità di ragione» universali e necessarie (Vemunftswahrheiten),
il cristianesimo proclama il «paradosso essenziale» dell'incarna-
zione di Dio, e perciò il decisivo messaggio della «singolarità
del vero», che riscatta da ogni comoda astrazione totalizzante
e impegna il cuore e la vita del Singolo, di ogni singolo uomo
esistente, nella responsabilità della decisione M. «Il cristianesi-
mo insegna che questo singolo uomo, e quindi ogni singolo uo-
mo, qualunque sia la sua condizione... esiste davanti a Diol Que-
sto singolo uomo... può parlare con Dio in qualunque momen-
to, sicuro di essere ascoltato... Inoltre, per amore di quest'uo-
mo, anche di quest'uomo, Dio viene nel mondo, nasce, soffre,
muore; e questo Dio sofferente prega e quasi supplica l'uomo
di accettare l'aiuto che gli viene offerto! In verità, se c'è qual-
M
Per la critica a Hegel e al sistema idealistico in generale e per il confronto cri-
tico con Lessing cf. le Briciole di filosofia e la Postilla conclusiva non scientifica alle «Bri-
ciole di filosofia», in Opere, o.c, rispettivamente 199ss e 259ss. Sul «paradosso essen-
ziale» del cristianesimo cf. Esercizio del cristianesimo, II B, ib., 737ss.

62
cosa da far perdere il cervello è certamente questo! Chiunque
non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi, si
scandalizzerà»65.
Ed è qui che la critica al «sistema» della logica hegeliana si
congiunge a quella rivolta alla «cristianità stabilita», dove la sin-
golarità del vero è stata risolta in un sistema di abitudini e di
istituzioni, in vuota ripetizione del medesimo, in cui la libertà
della decisione non ha più spazio e l'irripetibile originalità del
singolo è massificata e perduta. «Ogni uomo deve vivere in ti-
more e tremore e cosi nessun ordine stabilito dev'essere dispen-
sato dal timore e tremore. Timore e tremore denotano che si
è in divenire e ogni uomo singolo, come anche l'intera umani-
tà, ha e deve avere coscienza d'essere in divenire. Timore e tre-
more significano che esiste un Dio, ciò che nessun uomo e nes-
sun ordine stabilito devono dimenticare per un solo istante»66.
La singolarità in Kierkegaard è dunque l'affermazione del valo-
re assoluto del soggetto, nella interiorità della sua coscienza e
della sua libertà, contro ogni cattura oggettivante, e perciò contro
ogni sistema, logico o storico che sia. Ma questa affermazione
è fondata oggettivamente nel significato che il singolo riceve
dall'essere posto davanti a Dio, chiamato alla decisione ed amato
da Lui come ogni altro singolo essere umano. Lungi dal risol-
versi in fuga intimista, l'interiorità kierkegaardiana è carica di
responsabilità, e, se diviene istanza critica nei confronti di ogni
caduta esteriorizzante, si associa al riconoscimento decisivo del-
l'esteriorità, lì dove essa risplende come pura chiamata e puro
dono: nel paradosso del singolo, che è l'Uomo-Dio!

e) L'autotrascendenza

L'interiorità — esplorata fin qui come memoria, in dialogo


con Agostino, e come singolarità, in riferimento a S. Kierkegaard
— vive infine di un movimento di apertura e di trascendimen-
to di sé: se grazie alla memoria essa si costruisce come identità
del medesimo nel dinamismo di un processo continuo, che uni-
sce fra loro ed integra in unità gli istanti della conoscenza e del-
la libertà in atto, se grazie alla irriducibile originalità essa si of-

65
ha malattia mortale, in Opere, o.c., 666.
^Esercizio del cristianesimo li, in Opere, o.c, 734.

63
fre come singolarità dell'io nel porsi e proporsi davanti all'As-
soluto e davanti alla storia, è grazie all'auto-trascendenza che l'in-
teriorità si apre all'accoglienza ed al superamento dell'esterio-
rità che la raggiunge col suo sfolgorio, il dialogo si sviluppa qui
ancora nell'ambito della tradizione ebraico-cristiana, con il pen-
satore, che ha tematizzato compiutamente il carattere trascen-
dentale dell'interiorità: Karl Rahnerbl. L'impresa teoretica di
Rahner è consistita fondamentalmente nel pensare la fede nel-
l'orizzonte critico della modernità, senza per questo sacrificare
lo specifico irriducibile del cristianesimo.
E da questa sintesi creativa che nasce l'intuizione fonda-
mentale del pensiero rahneriano: Y antropologia trascendentale.
I diritti della soggettività, rivendicati dalla ragione moderna,
sono coniugati con quelli dell'oggettività, postulati dal pensie-
ro antico e medioevale: la categoria di «trascendentale» inten-
de esprimere precisamente la fusione dei due orizzonti, perché,
pur ponendosi nello spazio dell'interiorità del soggetto, ne af-
ferma la consistenza universale ed oggettiva. Nell'alternativa
fra il primato della soggettività, condotto fino all'assolutizza-
zione dell'atto della ragione, e l'affermazione dell'oggetto pu-
ro, spinta fino al sacrificio della rilevanza soggettiva ed esisten-
ziale, Rahner si pone in una via di superamento dialettico, che
trova nell'antropologia il suo campo di verifica e di dimostra-
zione. L'uomo non è né un soggetto prigioniero del proprio mon-
do interiore incomunicabile all'altro, né un semplice caso del-
l'universale, normato e misurato in tutto dall'oggettività: egli
è l'essere dell'assoluta apertura verso il Trascendente, e perciò
è soggetto strutturato oggettivamente nel suo essere per la tra-
scendenza. «L'uomo è l'essere della trascendenza... Egli può por-
re tutto in questione; può perlomeno porre in discussione ogni
singola affermazione, in quanto afferra già anticipatamente qual-
siasi cosa... L'uomo è l'essere della trascendenza in quanto tut-
ta la sua conoscenza e tutta la sua attività conoscitiva è fondata
suIT'anticipazione dell'"essere" in generale, in una conoscenza

67
Cf. il profilo di K. Rahner tracciato dal suo discepolo J. B. Metz nel Lessico
dei teologi del secolo XX, Mysterium Salutis 12, a cura di P. Vanzan e H. J. Schultz,
Brescia 1978, 530-537, con bibliografia. Di Rahner sul tema di cui ci occupiamo cf.
specialmente, nella rielaborazione di J. B. Metz, approvata dallo stesso Rahner: Hórer
des Wortes, Mùnchen 1963 (tr. it. Uditori della parola, Torino 1967), nonché Corso fon-
damentale sulla fede, Roma 1977, specie 45ss e 71ss. La concezione dell'uomo come
l'essere dell'assoluta apertura trascendente verso Dio è già presente nella prima opera
di K. Rahner, Geist in Welt, del 1939 (seconda edizione Miinchen 1957).

64
atematica eppur inevitabile dell'infinità della realtà... Ora il mo-
vimento della trascendenza non è la potente costituzione dello
spazio infinito del soggetto attuata dal soggetto, come se egli
disponesse in maniera assoluta dell'essere, bensì consiste nel sor-
gere spontaneo dell'orizzonte infinito dell'essere»68.
La riflessione rahneriana sulla soggettività trascendentale si
articola in tre passaggi fondamentali. Il primo si rapporta alla
tesi della conoscibilità fondamentale dell'essere di ogni ente:
«omne ens est verum»! Ciò equivale ad affermare «la trascen-
denza dell'essere in genere, che è necessariamente tematizzata
e costituisce essenzialmente l'uomo in quanto spirito»69. Ri-
pensando creativamente la dottrina scolastica della «potentia
oboedientialis», non senza l'influenza delle ricerche heidegge-
riane sul rapporto fra essere e tempo, Rahner afferma che que-
sta auto-trasparenza dell'essere accade nell'atto della coscienza
di sé, in cui si esprime l'uomo in quanto spirito. «La natura del-
l'essere dell'ente è conoscere ed essere conosciuto in una unità
originaria, che abbiamo chiamato coscienza di sé, autotraspa-
renza dell'essere per se stesso o "soggettività"»70. Nella misura
in cui «possiede l'essere», l'uomo è spirito, conoscenza, auto-
trasparenza dell'essere stesso, e perciò apertura ad una possibi-
le, piena autocomunicazione dell'essere. «L'uomo è spirituale,
cioè vive la sua vita in una continua tensione verso l'Assoluto,
in una apertura a Dio»71. L'interiorità, intesa come spirituali-
tà, è per Rahner esattamente la trasparenza dell'essere a se stesso,
che si compie nell'esserci dell'uomo.
Il secondo passaggio dell'antropologia trascendentale di Karl
Rahner si concentra intorno al rapporto fra essere, libertà e be-
ne: «ens et bonum convertuntur»! «L'uomo è in ascolto della
parola o del silenzio di Dio nella misura in cui si apre, amando
liberamente, a questo messaggio della parola o del silenzio del
Dio della rivelazione»72. Si vuole così negare che l'autotrascen-
denza dell'essere si compia nell'uomo nella forma di una pura
e semplice necessità, di un processo dialettico che escluda la pos-
sibilità del rifiuto e perciò la dignità dell'assenso: è il no alla
totalità hegeliana dell'idea, all'affermazione di una soggettivi-

68
Corso fondamentale sulla fede, o.c, 54s, 56s.
69
Uditori della parola, o.c, 98.
70
f i . , 73.
71
Ib., 97.
72
Ib., 145.

65
tà assoluta, sradicata da ogni rapporto oggettivo con l'esterio-
rità della trascendenza. La misteriosità dell'essere, il suo nascon-
dimento nonostante la sua luminosità, la sua reale, irriducibile
alterità ed ulteriorità rispetto al dominio del soggetto, è la con-
dizione oggettiva che rende possibile l'esercizio soggettivo del-
la libertà da parte dello spirito finito: il libero nascondersi e ri-
velarsi di Dio è dunque il fondamento ontologico della stessa
condizione di libertà della creatura. L'autotrasparenza dell'es-
sere si compie nella libertà: senza l'assenso gratuito dell'amore
né Dio si aprirebbe all'uomo, né l'uomo potrebbe aprirsi all'in-
finita profondità dell'essere divino. L'autotrascendenza non si
realizza al di fuori di un'autodeterminazione: questa è anzi con-
dizione di possibilità dell'incontro, che esige, per attuarsi ef-
fettivamente, la decisione libera di apertura e di accoglienza della
Trascendenza.
E qui che si pone il terzo passaggio dell'antropologia tra-
scendentale di Rahner: se l'autotrascendenza ha bisogno per rea-
lizzarsi della decisione della libertà, e questa non si compie in
astratto, ma — come è di ogni «decidere» — si attua in rappor-
to a un «luogo» determinato e concreto, è necessario precisare
il «luogo» dell'incontro fra interiorità trascendentale ed este-
riorità trascendente. La tesi rahneriana è così formulata: «L'uomo
è l'ente che nella sua storia deve tendere l'orecchio a un'even-
tuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana»73.
Il luogo di una possibile autocomunicazione di Dio, cioè, non
può che essere storicamente determinato, perché l'uomo è spi-
rito come essere storico — è singolarità irripetibile — e comu-
nica l'oggetto della sua conoscenza rappresentandolo, senza al-
cuna pretesa di esaurirlo in sé, nella parola, «segno rappresen-
tativo di ciò che non è dato in se stesso»: «Finché quindi l'uo-
mo non partecipa della visione immediata di Dio, è sempre ed
essenzialmente — in forza della costituzione fondamentale della
sua esistenza — un uditore della parola di Dio, colui che deve
prevedere una possibile rivelazione di Dio, che non consiste nella
manifestazione diretta del contenuto dell'oggetto rivelato nella
sua propria essenza, ma nella sua comunicazione mediante se-
gni rappresentativi, che indichino ciò che deve essere rivelato,
pur essendo da essi diverso»74. Nell'ascolto della parola, cari-

" 1 6 . , 208.
74
Ib., 153.

66
ca di silenzio perché evocativa della realtà che in essa si comu-
nica, ma che pur sempre la trascende, l'uomo si apre liberamente
alla libera autocomunicazione di Dio: lo spirito come autotra-
scendenza viene ad incontrarsi con la trascendenza dell'essere
divino, in un processo libero, storicamente determinato e tale
da realizzare e al tempo stesso stimolare la trasparenza dell'es-
sere a se stesso che si compie nella coscienza dell'uomo75.
L'incontro tra l'uomo e l'esteriorità sfolgorante del Verbo
non avviene dunque in Rahner secondo lo schema riduttivo di
domanda e risposta: il cerchio non si chiude, perché la Parola
è presentata come rimando all'ai di là del detto. Entra qui in
gioco la terza «conversio» dell'essere: «ens et pulchrum conver-
tuntur», l'essere e il bello si rovesciano l'uno nell'altro, non in
una identificazione statica, ma nel senso che la bellezza è per-
cezione ed offerta del Tutto nel frammento, che in nessun mo-
do cattura la totalità nel finito. Anzi, l'idea stessa della parola
come «segno rappresentativo di ciò che non è dato in se stesso»
si rivela pregna di evocazioni estetiche, che non risolvono la Tra-
scendenza nell'immanenza né consentono la loro semplice cor-
rispondenza ed adeguazione. La bellezza rivela l'essere nella sua
inesauribilità, e perciò si affianca come necessario compimento
alle altre due coniugazioni: quella di essere e vero, indicativa
dell'autotrasparenza dell'essere e della spiritualità del soggetto
umano; e quella di essere e bene, che fa risaltare il valore della
libertà e la dignità della libera risposta dell'uomo alla libera do-
nazione del Mistero.
È qui che l'antropologia rahneriana mostra la sua resisten-
za allo «spirito moderno» in nome della fede cristiana nella ri-
velazione: l'autotrascendenza non è risolta in immanenza, né
Dio assorbito nel mondo, grazie al riferimento alla Parola del-
l'avvento, intesa come il luogo della libera e gratuita autoco-
municazione divina e della parimenti libera e gratuita accoglienza
della fede dell'uomo. L'antropologia non è ridotta a fenomeno-
logia del processo universale e necessario dello spirito assoluto:
l'esteriorità dell'avvento divino è presa sul serio non meno che
l'interiorità della condizione esodale dell'uomo. L'«uditore della
Parola» è proiettato fuori di sé, aperto verso l'esteriorità, in un
esodo liberamente orientato all'avvento. E il Cristo — conce-
pito da Rahner nella sua cristologìa trascendentale, corrispondente

75
Cf. Cono fondamentale sulla fede, o.c, 59.

67
all'antropologia trascendentale, come l'assoluto Portatore di sal-
vezza — non è una sorta di risposta universale ed assoluta, di
legge determinante l'autotrascendenza umana e perciò anche al
tempo stesso determinata da essa, ma è la Parola carica di Si-
lenzio, che rivela velando e ritraendosi si offre al gioco della
libertà dell'amore, il Singolo, in cui risplende la verità che sal-
va e che chiama alla libera decisione dell'assenso.

2.3. LA P E R S O N A

Il luogo in cui l'esteriorità trascendente e l'interiorità tra-


scendentale si incontrano e reciprocamente si compenetrano,
tanto negli atti della conoscenza di sé e del mondo quanto nelle
scelte della libertà, è la persona. L'idea dell'essere personale può
considerarsi fra gli apporti più alti che il cristianesimo abbia of-
ferto alle culture umane76. «La problematica dell'Io è certo
universale... Non di meno resta vero che impersona quale "sog-
getto" autocosciente e libero, quest'idea di uomo di cui l'occi-
dente va fiero e che oggi sembra contagiare come fenomeno pla-
netario tutti i popoli della terra, rappresenta essenzialmente una
"invenzione" segnata dal cristianesimo»77. L'originalità del-
l'apporto della fede cristiana si coglie proprio in relazione al-
le concezioni dell'uomo e del mondo, che caratterizzano da
una parte l'oggettivismo classico, dall'altra la soggettività mo-
derna.

76
Per una storia del concetto di «persona» in filosofia e teologia cf. A. Milano,
Persona in teologia, Napoli 1984, e Id., La Trinità dei teologi e dei filosofi. L'intelligenza
della persona in Dio, Napoli 1987, dove riassume l'indagine precedente e la sviluppa
fino a raggiungere il dibattito contemporaneo. Quest'ultimo testo è anche pubblicato
in Persona e personalismi, a cura di A. Pavan e A. Milano, Napoli 1987, volume che
offre tra l'altro due saggi bibliografici sul personalismo in Italia (431-444) e in Francia
(445-460). Fondamentale è il riferimento alla ricerca di A. Grillmeier, Gesù il Cristo
nella fede della Chiesa, 1/1-2, Brescia 1982. Cf. pure V. Grossi, La categoria teologica
dì persona nei primi secoli del cristianesimo. L'ambito latino, in La teologia per l'unità
d'Europa, a cura di I. Sanna, Bologna 1991, 11-45.
77
A. Milano, Persona in teologia, o.c, 14. Non diversamente si afferma nella con-
clusione del volume su La Trinità dei filosofi e dei teologi, o.c, 271: «E grazie al cristia-
nesimo che il termine persona si è talmente radicato nella cultura dell'occidente da far
corpo con la sua stessa concezione dell'uomo».

68
a) Gli orizzonti storico-culturali
Il mondo dei Greci si autocomprende come «cosmo», totali-
tà oggettiva ed ordinata: anche se non manca al pensiero greco
una forte percezione della consistenza del «soggetto»78, l'oriz-
zonte in cui quest'idea viene collocata resta quello dello schiu-
dersi dell'essere che abbraccia ogni cosa, anche il divino. La «na-
tura» non è per i Greci una somma di fenomeni, ma sono que-
sti che manifestano la fondamentale unità della (pvoLS19. Si
comprende perciò come il problema speculativo fondamentale
dello spirito greco divenga quello attestato dal Parmenide di Pla-
tone, la conciliazione dell'Uno e del molteplice: se ogni frammen-
to del «tutto» manifesta Io schiudersi-imporsi dell'unità origina-
ria di esso, qual è la dignità e la consistenza del molteplice? quale
il suo ruolo nel «cosmo»? Fra esaltazione dell'Uno e valorizza-
zione dei molti l'anima greca non riuscirà a trovare una convin-
cente concilia2Ìone: essa resterà ammaliata dall'Uno, che tutto
assorbe (si pensi alle forme del platonismo, dal mondo platoni-
co delle idee all'Uno di Plotino), o catturata dal molteplice, quasi
dispersa in essa (si pensi alla fredda lontananza del Movente
immobile di Aristotele e alla sua risoluzione dell'antropologia
nella filosofia della natura o ai diversi «materialismi» antichi ed
alle loro corrispondenze etiche). Nelle varie modulazioni del-
l'uno o dell'altro versante non si dà compiutamente ragione del-
l'irripetibile valore di quel frammento, che è il soggetto uma-
no. L'uomo resta un caso dell'universale, una manifestazione
dell'Identico, che ripete ciclicamente se stesso, una copia o una
partecipazione dell'Idea immutabile ed eterna, oppure, in dire-
zione opposta, una scheggia peribile, come tutte le altre scheg-
ge del vasto cosmo, un oggetto fra gli oggetti della natura. Il
dialogo e la polemica, che la diffusione del cristianesimo inne-
scherà fra Gerusalemme ed Atene, saranno perciò anche una
sfida sulla comprensione della dignità e del destino dell'uomo.
78
Cf. ad esempio la tesi di R. Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nel-
l'antichità classica, Fireme 1958, e la proposta di C. J. De Vogel, The Concept o/Perso-
nality in Greek and Christian Thought, in Aa.Vv, Studies in Philosophy and the History
o/Philosophy, II, Washington 1963, 20-60, per il quale il «concetto» di persona è già
presente nel pensiero greco.
79
«Lo schiudentesi imporsi e il perdurare dominato da esso... (in cui) si trovano
inclusi sia il "divenire" che l'"essere"... il pro-dursi, il portarsi fuori della latenza...
L'essente come tale nella sua totalità è tpvoii, cioè ha come essenza caratteristica lo
schiudentesi-permanente imporsi»: M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica (1953),
Milano 1968, 26. 28.

69
È anche in reazione a questo oggettivismo del pensiero clas-
sico che si definisce l'emergere della soggettività nell'età moder-
na: la svolta di Descartes consiste nel trasferire il luogo della
manifestazione del tutto dalla natura — risolta in res extema
— al soggetto che si autopercepisce — compreso come res cogi-
tans. Nel cogito è l'universo intero che viene ricondotto a un
nuovo orizzonte di comprensione: il protagonismo interiore pren-
de il posto del cosmocentrismo dei Greci, l'io pensante diviene
la certezza indubitabile, il fondamento di ogni sapere: «cogito,
ergo sum»! La lacerazione dello spirito greco ritorna tuttavia in
Descartes e nei moderni sotto diversa forma: non è più la scis-
sione irriconciliata fra l'Uno e il molteplice, ma quella — non
meno profonda — fra soggetto pensante e oggetto pensato, fra
res cogitans e realtà ad essa esterna. Se Descartes ricorrerà a Dio
per sanare la frattura insanabile, spostando così fuori dell'io il
fondamento ultimo della verità in contraddizione con la prete-
sa assolutezza del cogito, Kant ricorrerà al noumeno per ricono-
scere l'ulteriorità del reale rispetto al soggetto: sarà però Hegel
a compiere il grande passo, il più audace forse che la ragione
umana abbia compiuto, traendo le estreme conseguenze della
«svolta moderna». La perfetta equazione fra ideale e reale ri-
solve il soggetto nell'oggetto, e questo in quello: la storia del
mondo diventa la storia di Dio, l'eterno divenire dello Spirito
assoluto, l'identico di cui lo spirito soggettivo non è che feno-
menologia, puro spumeggiare nel tempo.
In tal modo la singolarità dell'essere personale è di nuovo
irrimediabilmente perduta: se nel mondo dei Greci l'uomo ve-
niva ricondotto all'ordine oggettivo del cosmo, nell'universo idea-
listico hegeliano egli viene sì esaltato fino al punto da divenire
momento della storia di Dio, ma proprio in questo la sua indi-
vidualità è compromessa, perché l'essere una tappa del proces-
so dialettico universale e necessario non è meno spersonalizzante
che l'essere un caso del vó/tos cosmico. Nel gioco dialettico di
soggetto e oggetto, è in realtà lo Spirito assoluto, uno ed iden-
tico, che, consistendo originariamente «in sé», viene a porsi «per
sé» onde conoscersi come suo proprio oggetto, e conoscendosi
si ripossiede nell'«in sé e per sé» della conoscenza e dell'amore
compiuti. L'altro da sé non è allora che un semplice momento
del sé, privo di consistenza e dignità autentiche: e se questo porta
al risultato positivo di riconoscere la relazione come momento
costitutivo ed intrinseco all'essere personale, sfocia però nel

70
trionfo finale dell'identità su ogni possibile differenza. L'io si
realizza sì relazionandosi, ma in realtà non si relaziona che a
se stesso, o tutt'al più a quella profondità del Sé dove si attinge
l'universalità dello Spirito assoluto, che tutto assorbe. La per-
sona è dissolta nella legge del sistema, nella dialettica totaliz-
zante del processo, caratteristica del monismo hegeliano dello
Spirito. Ed è in questa finale spersonalizzazione che si rivela
il carattere anti-cristiano, oltre che anti-umano, del sistema e
delle sue svariate derivazioni nelle espressioni dell'ideologia mo-
derna.

b) Verso il concetto ài persona

Né l'orizzonte classico dell'oggettività, né l'ermeneutica mo-


derna della soggettività rendono dunque ragione del concetto
di persona: esso viene raggiunto e precisato soltanto nel conte-
sto della teologia cristiana del Verbo divenuto carne e della fe-
de nella Trinità divina. Il puro e forte scandalo del cristianesi-
mo rispetto allo spirito greco sta proprio nell'inserzione del mol-
teplice nell'Uno: l'Uno è Trino80. Questa affermazione concet-
tuale equivale all'altra, di carattere narrativo, contenuta nel Nuo-
vo Testamento: «Dio è Amore» (lGv 4,8.16). In quanto è Amore
il Padre genera dall'eterno e dona nel tempo suo Figlio, l'Ama-
to; e in quanto i due sono uniti nel faccia a faccia dialogico del
loro eterno amarsi, da essi procede lo Spirito, amore ricevuto
e donato, dono divino alla storia degli uomini. L'Uno non è so-
litudine, separatezza intangibile, alterità irraggiungibile, ma eso-
do originario immanente, uscita da sé per darsi all'altro e rice-
vere l'altro in sé, comunione dell'Amante, dell'Amato e dell'A-
more. E dei Tre, che costituiscono inseparabilmente sul piano
profondo dell'essere l'unico Dio, sarà il Generato a incarnarsi
per pura gratuità di amore, perché in Lui, l'Amato, il Padre ami
il mondo da Lui assunto, e lo Spirito, unendo l'uno all'altro,
unisca anche gli uomini a Dio.
È nella esplicitazione concettuale di questa rete di relazio-
ni, che il linguaggio della fede perverrà all'uso del termine per-
sona: nelle controversie dommatiche per la definizione del dog-
80
Cf. per queste riflessioni B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della sto-
ria, Roma 1981, 133-156 (Dal kerygma al dogma) e 168-194 (La storia umana di Dio),
nonché Id., Trinità come storia, Milano 1985, 60-88 (ha confessione trinitaria nel tempo).

71
ma cristologico, culminate a Calcedonia (451), il problema sarà
di trovare un'espressione che dica l'unità del soggetto delle re-
lazioni appartenenti tanto al piano della «natura» o «essenza»
o «sostanza» divina, quanto a quello della «natura» umana. Fis-
sato a Nicea (325) l'uso del termine ovaia per indicare il livello
dell'essenza, e quindi coniata l'espressione òiioovoios per dire
l'assoluta parità nell'essere divino del Figlio incarnato col Pa-
dre 81 , si opterà a Calcedonia per i termini irgóauirov e ÌXKÓ-
oraois per indicare l'unico soggetto delle operazioni divine e
umane del Cristo. Il Concilio non si preoccuperà di dare una
definizione delle espressioni adoperate, ma le consacrerà come
risposta funzionale all'interrogativo concreto «chi è?», così co-
me «essenza» o «natura» rispondono alla domanda «che co-
s'è?»82. La formula dommatica finisce così con l'evocare la
realtà che intende esprimere, senza catturarla: essa ha perciò
un valore quasi apof atico e costituisce un inizio più che una con-
clusione83.
Sarà lo sviluppo della riflessione credente ad approssimarsi
ad una più precisa comprensione del concetto di persona, par-
tendo dal dato dommaticamente definito: non è perciò sempli-
cemente l'eventuale etimologia del termine che chiarisce l'idea,
ma è l'idea veicolata dalla formula di fede a illuminare la termi-
nologia. Osservare come irgóauirov o persona fossero termini
di origine teatrale, atti ad indicare «ciò che guarda verso», «ciò
che risuona», e perciò la «maschera» e il «personaggio» dell'at-
tore, resta un'illustrazione generica, che non rende la ricchezza
del concetto di persona. Il primo a raggiungere una definizio-
ne, che richiamasse la dinamicità dei rapporti ed insieme la con-
sistenza ontologica^ evocate dal termine nella formula fidei, fu
Severino Boezio: «È detta propriamente persona la sostanza in-
dividuale di natura razionale»84. La densità di questa formu-
lazione nutrirà l'intera speculazione successiva: in primo luogo
essa è attenta a precisare il valore metafisico della persona, il

81
Cf. il Symbolum Nicaenum: DS 125s.
82
Cf. il Symbolum Chalcedonense: DS 30 ls.
83
Cf. lo studio di K. Rahner, Chalkedon. Ende oder Anfang?, in Das Konzìl von
Chalkedon, hrsg. v. A. GriUmeier u. H. Bacht (1951), 3 voli., Wiirzburg 19795, III,
3-49. Sul carattere apofatico del dogma cf. R. Cantalamessa, Dal Cristo del Nuovo Te-
stamento al Cristo della Chiesa: tentativo di interpretazione della cristologia patristica, in
Il problema cristologico oggi, Assisi 1973, 143-197, specie 190s.
84
«Persona proprie dicitur naturae rationalis individua substantia»: De duabus
naturis et una persona (Contra Eutycben et Nestorium), e. 3: PL 64,1343 C.

72
suo essere «sostanza individuale», del tutto singolare e incomu-
nicabile (qui la trasposizione del greco viróaraais ha giocato un
ruolo decisivo). In tal modo Boezio rifiuta ogni riduzione del-
l'essere personale a caso dell'universale, fondando sul livello on-
tologico della sostanza l'originalità assoluta della persona. Fine
erede del mondo classico, egli non si lascia ammaliare dal fasci-
no greco dell'Uno, ma preserva la novità veicolata dallo scan-
dalo cristiano nel registro linguistico concettuale caro al mon-
do antico. Al tempo stesso, però, caratterizzando l'individuali-
tà sostanziale della persona come propria di una «natura razio-
nale», Boezio sfugge all'altro rischio dei Greci: quello di per-
dersi nei frammenti del molteplice, senza riconoscere più la re-
te di comunicazione autentica, ontologicamente fondata, in cui
il reale è stabilito. Grazie al concetto di «natura», più ampio
di quello di «persona», la definizione proposta salda l'essere per-
sonale al vasto mondo del molteplice, composto appunto di dif-
ferenti nature; grazie alla specificazione della «razionalità» es-
sa si applica all'universo delle «sostanze razionali», che abbrac-
cia nella visione boeziana l'immutabile e impassibile sostanza
divina e quella passibile e mutabile propria della creatura ange-
lica e dell'essere umano. La definizione di Boezio si muove così
sulla logica dell'equilibrio fra le spinte diverse che vorrebbero
risolvere da una parte il molteplice nell'Uno, dall'altra l'Uno
nel molteplice. La «persona» vi appare come l'essere di frontie-
ra, che tiene insieme i due mondi, e perciò come la categoria
che può essere applicata agli uomini, agli angeli e a Dio, senza
escludere una solidarietà col piano degli esseri di altra natura,
pur mantenendo la sua irriducibile singolarità.
L'impresa tentata da Boezio era tuttavia troppo vasta, per
poter in tutto riuscire: la sua definizione, se si applica all'essere
personale umano, non può essere trasposta in ambito trinita-
rio, dove l'unicità della sostanza unita alla somma razionalità
della natura divina dovrebbe comportare una unicità persona-
le, contrastante con la fede nella Trinità delle Persone in Dio.
Se resta merito di Boezio aver colto precisamente la dialettica
dell'essere personale, sul fronte del duplice no all'assorbimento
indiscreto nel tutto ed all'esasperazione del molteplice frammen-
tario e disperso, rimane anche vero che la sua interpretazione
non è trasponibile proprio al paradosso centrale della fede cri-
stiana, fonte e modello dell'esistenza personale: il mistero tri-
nitario di Dio.

73
E qui che Boezio è stato integrato e superato genialmente
da Tommaso d'Aquino: «questi fin dall'inizio si decide ad ac-
cogliere la definizione del "primo degli scolastici", ma l'affina
interpretando, da una parte, la "sostanza individua" nella pro-
spettiva della subsistentia e dunque dell'essere in-sé e per-sé, e
dall'altra, la "natura razionale" nella prospettiva più ampia e
determinante dell'intellettualità»85. Grazie all'idea di «sussi-
stenza» Tommaso non solo rafforza lo spessore ontologico del
concetto di «persona», ma lo rende trasponibile anche al miste-
ro trinitario: così, la persona umana sarà la sussistenza indivi-
duale specificata rispetto a ogni altro ente dalla razionalità («Per-
sona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scili-
cet subsistens in rationali natura»)86, mentre nel Dio vivente
l'unica sussistenza verrà a distinguersi nelle relazioni, che ca-
ratterizzano reciprocamente i Tre, sicché la persona potrà defi-
nirsi come «relazione sussistente» («Persona igitur divina signi-
ficat relationem ut subsistentem»)87. In tal modo Tommaso co-
glie nella «sussistenza» la densità ontologica della persona, quella
che fonda il suo essere originariamente in sé e per sé, ma ri-
spetta l'alterità del mondo creaturale rispetto a quello divino,
perché in Dio è la «relazione» a essere sussistente nell'unica sus-
sistenza divina, mentre nell'essere personale creato è la «sussi-
stenza individuale» che viene connotata dall'intellettualità, e
dunque dalla capacità della persona umana di trascendersi, rap-
portandosi all'altro da sé ed aprendosi — almeno potenzialmente
— alla totalità dell'essere. Così Tommaso ha congiunto Boezio
con Agostino, che aveva sì colto nella relazione lo specifico del-
la persona «in divinis», ma non ne aveva sufficientemente ga-
rantito la consistenza ontologica, come fa appunto Tommaso
rapportando l'idea di «subsistentia» a quella di «relatio».
La persona, allora, non si definisce solo sul registro dell'es-
sere in sé e per sé, ma anche necessariamente su quello dell'es-
sere correlata ad altri: Yesse-in e Yesse-ad vengono ad incontrar-
si in essa, fino a coincidere ontologicamente, come avviene nel-
la Trinità, dove le relazioni si fondano su un'unica sussistenza.
La lacerazione dello spirito greco è qui superata nella riconci-
liazione più alta: se Yesse-in, la sussistenza, salda l'Uno e il mol-
teplice nella persona, Yesse-ad specifica in maniera sostanzial-
85
A. Milano, La Trinità dei teologi e dei filosofi, o.c, 56.
86
Summa Theologiae I q. 29 a. 3.
87
Ik, a. 4.

74
mente diversa l'essere personale creato e l'essere personale eter-
no. In Dio è la relazione che sussiste nell'unico essere, sicché il
rapporto dei Tre è una comunione ontologica, che vive della mutua
e totale inabitazione («pericoresi»): essi sono Uno. Nella perso-
na umana è invece la sussistenza individuale che si apre al rap-
porto con altri e con l'Altro, senza mai perdere la propria singo-
larità, ma anche superando realmente la prigionia della propria
solitudine ontologica in reali relazioni di conoscenza e d'amore.
È da questo patrimonio ricchissimo della tradizione di fede
che attinge il moderno personalismo di ispirazione cristiana: esso
assume ed organizza in una visione d'insieme, attenta al dialo-
go col pensiero moderno, il duplice dato relativo all'idea di per-
sona, maturato sotto i termini di sussistenza e di relazione88.
Nella dialettica di interiorità ed esteriorità, la persona viene a
situarsi come soggetto assolutamente singolare, sorgente del di-
namismo personale (esse in se), che finalizza a se stesso il rap-
porto con l'esteriorità {esse per se) ed insieme si auto-destina al-
l'altro (esse ad), stabilendo con l'esteriorità d'altri un rapporto
di reciprocità solidale (esse cum). È nell'unità di queste relazio-
ni, nella loro reciproca interazione, che la persona appare come
il soggetto libero e consapevole della propria storia.

e) L'essere relazionale

L'essere in sé della persona corrisponde anzitutto alla sua in-


comunicabile soggettività, all'autopossesso, per il quale essa si
88
II termine «personalismo» fu usato per la prima volta da Ch. Renouvier, Le
personnalisme, Paris 1903. Nel 1932 E. Mounier fondò insieme ad altri la rivista Esprit,
palestra di idee del personalismo di ispirazione cristiana. Di E. Mounier cf. Revolution
personnaliste et communautaire, Paris 1935 (tr. it. Milano 1949); Manifeste au service
du personnalisme, Paris 1936; Traité àu caractère, Paris 1946 (tr. it. Milano 1990');
Qu'est-ce que le personnalisme?, Paris 1947 (tr. it. Torino 1948); Le personnalisme, Pa-
ris 1949 (tr. it. Roma 1964). Tra gli altri basti ricordare: L. Laberthonnière, Esquisse
d'une philosophie personnaliste, Paris 1942; J. Maritain, La personne et le bien commun,
Bruges 1946 (tr. it. Brescia 19633); M. Nédoncelle, La reciproche des consciences, Pa-
ris 1942; Id., Vers une philosophie de l'amour et de la personne, Paris 1957 (tr. it. Roma
1959). In Italia cf. L. Stefanini, Metafisica della persona, Padova 1950; Id., Personali-
smo sociale, Roma 1951; Id., Personalismo filosofico, Roma 1954; nonché L. Pareyson,
Esistenza e persona, Torino 19854. Sul personalismo cf. tra l'altro J. Endres, Persona-
lismo, esistenzialismo, dialogismo, Roma 1972; J. Lacroix, Le personnalisme comme anti-
idéologie, Paris 1972; A. Rigobello (cur.), Il personalismo, Roma 1975 (introduzione,
antologia di testi e bibliografia); Id., Lessico della persona umana, Roma 1986; I. San-
na, La categoria di persona e le antropologie contemporanee, in La teologia per l'unità d'Eu-
ropa, o.c, 75-142.

75
appartiene e si gestisce come sorgente delle proprie scelte e dei
propri atti. Nella consistenza ontologica di questa singolarità
si fonda il valore assolutamente unico e irripetibile di ogni per-
sona: la «sussistenza» dell'essere personale è la ragione profon-
da della resistenza ad ogni massificazione, è il motivo irrinun-
ciabile del rifiuto di ogni oggettivazione, che risolva la persona
in pura esteriorità, di cui disporre dall'esterno. «La persona non
è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può
essere trattato come un oggetto... Essa è l'unica realtà che ci
sia dato di conoscere e, in pari tempo, di costruire dall'inter-
no... La persona è un'attività vissuta come autocreazione, co-
municazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto,
come movimento di personalizzazione»*9. L'idea tomistica di
sussistenza dell'essere personale — cui si associano quelle di in-
comunicabilità, di assoluta originalità e non partecipabilità, do-
vute all'unicità ontologica — è il baluardo teoretico contro ogni
possibile manipolazione della persona, la sorgente profonda e
nascosta di ogni sua irradiazione e di ogni riconoscimento della
sua dignità. Ecco perché l'esse in se personale è tutt'altro che
chiusura gelosa o separatezza altera: esso equivale a singolarità
originale e sorgiva, a sovrabbondanza di un essere che, posse-
dendosi nell'autocoscienza e nella libertà, può aprirsi e donarsi
ad altri, ed accogliere altri in sé. «Quest'intima ricchezza del
suo essere dà alla persona una continuità che non nasce da ripe-
tizione, ma da sovrabbondanza. La persona è il "non-inven-
tariabile" (G. Marcel); io la esperimento continuamente come
un traboccare... L'essere personale è generosità; per questo es-
so fonda un ordine che è opposto a quello dell'adattamento e
della sicurezza... La persona rischia e si prodiga senza badare
al prezzo»90.
L'essere per sé della persona esprime il movimento di fina-
lizzazione e di automediazione che la caratterizza, e perciò il
ruolo determinante che hanno la consapevolezza e la libertà nei
suoi atti. Attraverso la finalizzazione il soggetto personale rap-
porta a sé e misura su di sé l'esteriorità con cui si imbatte, eser-
citando le scelte della sua libertà; attraverso l'auto-mediazione
la persona distingue l'oggetto in quanto tale rispetto alla pro-
pria soggettività, e perciò lo determina nella sua esteriorità in

89
E. Mounier, Il personalismo, o.c, l l s .
90
Ih., 97s.

76
rapporto a se stessa, lo «oggettiva» e, oggettivandolo, lo cono-
sce. Ciò mostra come l'essere in sé e l'essere per sé del soggetto
personale non siano in alcun modo concorrenziali: nell'atto della
conoscenza e della decisione né l'oggetto è prodotto dal sogget-
to, per cui il «per sé» sarebbe semplice estensione dell'«in sé»
(come è, per esempio, nell'attualismo gentiliano: «Questo Io,
che è lo stesso assoluto, è in quanto si pone, è causa sui»)91; né
il soggetto è vanificato dall'oggetto, per cui P«in sé» sarebbe
annullato dall'esteriorità che lo raggiunge e lo schiaccia (come,
ad esempio, nella visione di Sartre: «Le pour-soi surgit comme
néantisation de l'en-soi»)92. L'atto oggettivante del conoscere
e quello finalizzante della libertà, lungi dall'eliminare la dialet-
tica di esteriorità ed interiorità, la manifestano nel suo livello
più puro, in cui il soggetto si afferma e si esprime proprio nel
rapportarsi all'oggetto nello sfolgorio della sua esteriorità: «Sce-
gliendo questo o quello, io scelgo ogni volta indirettamente me
stesso, e mi costruisco in quella scelta: per aver osato, per es-
sermi esposto e avventurato nell'oscurità e nell'incertezza, io
mi sono incontrato un po' di più con me stesso, senza essermi
propriamente cercato»93.
La persona non crea il suo oggetto, né è semplicemente pla-
smata dall'esterno, ma stabilisce nel gioco dell'in sé e del per
sé una circolarità che è al tempo stesso ermeneutica (sul piano
della conoscenza) ed etica (sul piano della libertà). Questa inse-
parabile correlazione di soggettività ed oggettività mostra an-
che la profondissima unità dell'io e del suo corpo: la corporeità
— linea di frontiera fra interiorità ed esteriorità — è la perso-
na nel suo accogliere ed affrontare l'esteriorità dell'altro, è l'e-
sistenza personale incorporata94. Perciò il personalismo di ispi-
razione cristiana è lontano da ogni concezione basata sul duali-
smo anima-corpo: esso guarda all'uomo come totalità persona-
le, aperta o chiusa alla trascendenza (tale peraltro è il significa-
to del binomio spirito-carne nel Nuovo Testamento: lo stesso uo-
mo in quanto aperto al nuovo di Dio è «spirito», in quanto chiuso
e ripiegato su se stesso è «carne»). L'uomo totale, interiorità
trascendentale che si incontra con l'esteriorità trascendente

91
G. Gentile, Teoria generale dello Spirito come atto puro, Firenze 19385, 249.
92
J.-P. Sartre, L'étre et le néant, Paris 1943, 652.
93 E. Mounier, Il personalismo, o.c, 93.
94
Cf. V. Melchiorre, Corpo e persona, Genova 1987. Cf. pure C. Rocchetta, Per
una teologìa della corporeità, o.c.

77
nell'auto-mediazione e nella finalizzazione del conoscere e del
volere, è la persona, il soggetto in sé che si pone per sé ricono-
scendo a se stesso la dignità di criterio conoscitivo ed etico, senza
per questo vanificare la dignità e la consistenza dell'alterità, che
risplende nell'esteriorità oggettiva. Si comprende allora come
Kant abbia potuto descrivere l'imperativo pratico in questi ter-
mini: «Agisci in modo da trattare l'umanità, così nella tua co-
me nella persona di ogni altro, sempre contemporaneamente co-
me fine e mai soltanto come mezzo»95. L'essere per sé della
persona, lungi dal chiuderla nel ripiegamento su di sé, fonda
nel modo più rigoroso l'eticità, e quindi la responsabilità verso
se stessi e verso gli altri, perché, riconoscendo il valore assoluto
della dignità personale nel soggetto, conduce a riconoscerlo an-
che nella persona di ogni altro, che raggiunga l'interiorità per-
sonale con lo sfolgorio della sua esteriorità.
L'essere verso l'altro della persona esprime la sua costitutiva
apertura a ciò che è altro da sé e il dinamismo decisivo di esodo
e di autotrascendenza in cui si costruisce la vita personale. Il
raccogliersi nell'in sé e per sé ha già portato il soggetto a incon-
trarsi nella conoscenza e nell'amore con l'esteriorità dell'altro:
l'andare verso l'altro lo conduce ora a stabilire le relazioni in
cui l'essere personale compiutamente si realizza e si esprime.
«L'ordinamento della persona ci appare ormai nella sua tensio-
ne fondamentale: esso è costituito da un duplice movimento,
in apparenza contraddittorio, in realtà dialettico, volto all'af-
fermazione di assoluti personali che resistono ad ogni riduzio-
ne, e ad edificare un'unità universale del mondo delle perso-
ne» %. «La vita della persona è affermazione e negazione di sé:
questo ritmo fondamentale si ritrova al fondo di tutti i suoi at-
ti... raccogliersi esprimendosi... L'espansione della persona im-
plica, come condizione interiore, una espropriazione di sé e dei
propri beni, che priva l'egocentrismo di uno dei suoi poli: la
persona non si ritrova che perdendosi»97. Esperienza fonda-
mentale della persona diventa così la comunicazione: essa non
è il puro uscire da sé, lo svuotarsi senza residui nell'altro, che
si risolverebbe in dipendenza ed alienazione; né è il puro acco-
gliere l'altro in sé, facendone oggetto del proprio conoscere e
95
E. Kant, fondazione della metafisica dei costumi, tr. di P. Carabellese, Firenze
1968, 67s.
56
E. Mounier, Il personalismo, o.c, 54s.
97
Ib., 65s. 67.

78
del proprio volere; ma è il rapporto circolare per cui uscendo
da sé la persona si ritrova nell'altro e accogliendo l'altro in sé
ne è arricchita, proprio in quanto lo rispetta nella sua alterità.
Cosi intesa, la comunicazione è la vita dell'essere personale: «La
prima esperienza della persona è l'esperienza della seconda per-
sona: il tu, e quindi il noi, viene prima dell'io, o per lo meno
l'accompagna... Quando la comunicazione si allenta o si corrom-
pe, io perdo profondamente me stesso: ogni follia è uno scacco
al rapporto con gli altri: V'alter diventa alienus, ed io a mia volta
divento estraneo a me stesso, alienato. Si potrebbe quasi dire
che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e,
al limite, che essere significa amare»9S. Il dinamismo della vi-
ta personale viene allora a consistere in un permanente uscire
da sé per andare verso l'altro, per com-prenderlo ed assumerne
i pesi, per dare e darsi all'altro, nella perseveranza di una rela-
zione fedele. Solo così la persona si espone, ex-siste, si fa pros-
simo ed è volto: l'esse ad non è una possibilità aggiunta, un aspet-
to accidentale, ma risulta costitutivo dell'essere personale in
quanto questo è fatto non per la solitudine di un'interiorità sa-
zia di sé, ma per la comunione di una relazione in cui reciproca-
mente si dà e si riceve. L'intimismo è lontano dal personalismo
d'ispirazione cristiana tanto quanto lo è la spersonalizzazione
massificante: perdersi nell'interiorità non è meno tragico che
esaurirsi nell'esteriorità. L'esser verso l'altro è la garanzia di un
autentico essere in sé e per sé: la relazione con gli altri fa gua-
dagnare la verità dell'esistenza personale, così come la realizza-
zione di sé rende libera ed autentica la comunicazione con l'altro.
\J essere con esprime, infine, la piena reciprocità delle coscien-
ze in cui si compie il destino della persona: l'interiorità aperta
all'esteriorità e comunicante con essa, viene a sua volta raggiunta
dal centro di irradiazione che è la persona dell'altro, e stabili-
sce con le altre persone una relazione di reciprocità e di ogget-
tiva solidarietà. Nasce così la comunione interpersonale e la sua
concretizzazione storica, che è la comunità degli uomini: dal sem-
plice stare accanto di esistenze perdute nella esteriorità, dalla
somma di solitudini di esistenze prigioniere della propria inte-
riorità, si perviene all'essere uno nella distinzione, alla «perico-
resi» fra le persone, in cui ciascuno è se stesso proprio nella mi-
sura in cui si dona agli altri e si fa carico degli altri. Nella co-

98
fó., 44s.

79
munione solidale dell'essere personale ciascuno si scopre respon-
sabile di tutti ed insieme si avverte sostenuto dalla correspon-
sabilità altrui. «L'atto primo della persona, quindi, è quello di
suscitare, assieme ad altri, una società di persone in cui le strut-
ture, i costumi, i sentimenti ed infine le istituzioni siano con-
traddistinti dalla loro natura di persone» ". La concretizzazio-
ne storica di questo costitutivo essere relazionale della persona
è la solidarietà, intesa come etica della responsabilità e dell'im-
pegno per gli altri, nella quale il bene del soggetto trova la sua
unica, autentica realizzazione. L'essere umano — nella prospet-
tiva del personalismo di ispirazione cristiana — è singolarità ir-
ripetibile, dignità infinita, che si esprime e si compie pienamente
soltanto nella comunione e^iella storicizzazione etica, sociale
e politica di essa, che è^esisterìpa solidale con gli altri.
Sussistenza e relazione costituiscono dunque l'uomo come
persona nel duplice movimento di affermazione dell'interiorità
(esse in se — esse per se) e di riconoscimento ed accoglienza del-
l'esteriorità {esse ad — esse curri): questi dinamismi si interseca-
no continuamente fra loro, nel processo di esteriorizzazione del-
l'interiorità e di interiorizzazione del trascendente. La persona
è pertanto l'unità vivente di questi rapporti dinamici, il sogget-
to consapevole e libero di un situarsi dell'interiorità nell'este-
riorità e dell'esteriorità nello spazio della soggettività. Questo
libero e consapevole situarsi nel divenire costituisce la storia,
in quanto processo in atto che, recependo il passato nell'atto
presente, apre questo al nuovo dell'avvenire: si potrebbe defi-
nire allora la persona come il soggetto cosciente e responsabile del
divenire storico, il protagonista del cambiamento e della gesta-
zione del nuovo. L'essere personale inteso come soggetto di sto-
ria mostra al tempo stesso la sua irripetibile singolarità e la sua
costitutiva relazione con gli altri, il suo essere immerso in una
rete di rapporti rispetto a cui porsi e proporsi nella consapevo-
lezza e nella decisione della libertà.
Nell'unità dell'azione personale il soggetto al tempo stesso
modifica la realtà esteriore, si forma, si avvicina agli altri uomi-
ni ed arricchisce il proprio universo di valori100. Agendo così,
la persona si manifesta pienamente come l'essere della trascen-
denza, interiorità aperta, continuamente sfidata ed arricchita

99
Ib., 45.
100
Cf. ib., 120ss.

80
dall'incontro con lo sfolgorio dell'esteriorità, soggetto di vera
conoscenza dell'altro, responsabile verso di sé e verso l'infinita
dignità altrui. Tenere insieme questi vari aspetti è l'esigente di-
namismo e il difficile equilibrio, cui tende l'esistenza personale
nella visione della tradizione ebraico-cristiana: perciò in essa la
vita della persona è pensata nel quadro di un'alleanza che la tra-
scende, come risposta ad una vocazione che incessantemente
l'afferma e la supera. «Nel raccogliersi per ritrovarsi, nel dispie-
garsi per arricchirsi e ancora ritrovarsi, nel raccogliersi di nuo-
vo attraverso la liberazione dal possesso, la vita della persona
— sistole e diastole — è la ricerca fino alla morte di una unità
presentita, agognata e che mai si realizza... È necessario sco-
prire in sé, fra il cumulo delle distrazioni, anche il desiderio di
cercare quest'unità vivente; ascoltare a lungo le suggestioni ch'es-
sa ci sussurra, avvertirla nella fatica e nell'oscurità senza mai
essere certi di possederla. Tutto ciò assomiglia piuttosto a un
richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la no-
stra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione
gli conviene meglio di qualunque altro»101.

101
ft., 68.
3.

ANTROPOLOGIA NEGATIVA

3.1. L'UOMO «FALLIBILE»

a) Fra il tutto e il nulla

«Perché, insomma, che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla


rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mez-
zo tra il tutto e il nulla»: in queste parole di Pascal1 viene
espressa l'originaria «sproporzione» dell'essere umano, la sua
strutturale non coincidenza con se stesso2. L'uomo sta fra il
tutto e il nulla: ineliminabile finitezza, egli è sproporzionato alla
parimenti ineliminabile infinità verso cui è aperto. La sua inte-
riorità si offre comerùna domanda infinita, limitata però e con-
dizionata dall'esteriorità, che la trascende e quasi incombe su
di essa; al tempo (stesso la Trascendenza, che rifulge nell'este-
riorità, sembra sovrastare ogni capacità di accoglienza del cuo-
re umano. L'essere personale sta sulla frontiera, incessantemente
provocato all'inquietudine, segnato in maniera radicale dalla fal-
libilità: «È in questa struttura di mediazione tra il polo della
finitezza e quello dell'infinità dell'uomo che va scoperta la sua
debolezza specifica e la sua essenziale fallibilità»3.
La meditazione su questo aspetto «patetico» della condizione
umana si è fatta strada ai margini della filosofia, partendo dalle
concrete lacerazioni dell'esistenza e spingendo la ricerca verso
la soglia di una riflessione rigorosa: «Dal mito platonico dell'a-
nima come composto alla bella retorica pascaliana dei due In-
finiti, procedendo verso il "concetto di angoscia" di Kierke-
gaard, si può scoprire un certo sviluppo, che è sviluppo nel pa-
1
B. Pascal, Pensieri, tr. P. Serini, Torino 19743, 99.
2
È ciò che P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Bologna 1970 (orìg.: Tìnìtuàe et culpa-
bilité: I, L'homme faìllible; II: ha symbolique àu mal, Aubier-Montaigne, Paris 1960),
69ss chiama il «patetico della miseria».
3
16., 58.

82
tetico ma, al tempo stesso, nella precomprensione della "mise-
ria » .
Nella visione di Platone l'anima è miserabile in quanto non
è l'Idea, ma neppure è cosa peritura: è essere di mezzo, regime
di transizione da ciò che passa a ciò che rimane. «In quanto Eros
(l'anima filosofante) è figlio di Penia (Povertà) e Poros (Espe-
diente)... prima di tutto è povero sempre..., ispido, scalzo e senza
casa..., sempre accompagnato con povertà... Per ciò che riceve
dal padre, invece, è insidiatore, coraggioso, audace, impetuo-
so, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi,
appassionato di saggezza, pieno di risorse, ricercatore di sapienza
per tutta la vita, straordinario incantatore, preparatore di fil-
tri, sofista»5. L'essere umano è l'incrocio sempre nuovo di ca-
renza e di sorgività, di limite e di superamento, di sofferenza
e di passione per la vita: «Eros, l'anima filosofante, è quindi
l'ibrido per eccellenza, l'ibrido di Ricchezza e Povertà» é .
Per Pascal è nell'uomo che si incontrano l'abisso del nulla
da cui è tratto e l'abisso dell'infinito che lo sovrasta: «Noi vo-
ghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all'altro, sem-
pre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di or-
meggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci
si sottrae, scorre via e fugge in un'eterna fuga. Nulla si ferma
per noi... Nulla può fissare il finito fra i due infiniti che lo rac-
chiudono e lo fuggono»7. La fallibilità dell'essere umano sta in
questo suo permanente stare fra gli abissi, in questa sospensio-
ne, che è tensione mai risolta della malia che l'uno e l'altro di-
versamente esercitano sul cuore dell'uomo.
La percezione della «singolarità del vero» esprime in Kier-
kegaard la dolorosa coscienza della scissione originaria e irri-
mediabile dell'esistenza: esistendo, il singolo «sta fuori», si se-
para dall'Uno, e cosi al tempo stesso si afferma e si condanna
all'infinita nostalgia. La sua verità è la sua passione. La sua gioia
è il suo tormento 8 . L'essere umano, il «singolo», porta le stig-

4
Ib., 75. La ricostruzione di questo sviluppo è proposta da Ricoeur nel contesto
di quell' «abbozzo di antropologia filosofica», costituito dal Libro primo di Finitudine
e colpa.
5
Platone, Simposio, 203 CD.
6
P . Ricoeur, Finitudine e colpa, o.c, 79.
7
B. Pascal, Pensieri, o.c, 102s.
8
Cf. ad esempio il tema della singolarità e del suo rapporto alla verità nella Po-
stilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia», in Opere, a cura di C. Fabro,
Firenze 1972, 360ss.

83
mate della Croce di Colui che — proprio in quanto Singolo —
ha assunto la sua miseria: il Salvatore dell'umanità è tale per-
ché è entrato fino in fondo nell'abisso della scissione dolorosa
che costituisce la creatura umana.
L'originaria «sproporzione» dell'uomo, intuita nella «reto-
rica della miseria» e portata a concetto nello sviluppo che va
da Platone a Pascal e a Kierkegaard, è stata precisata da Paul
Ricoeur sul triplice piano della conoscenza, dell'azione e del sen-
timento: a ciascuno di questi livelli egli ha individuato un'af-
fermazione originaria, una differenza esistenziale ed il proces-
so della mediazione umana, che nel loro insieme costituiscono
una vera e propria «dialettica della fallibilità».

b) ha fallibilità del conoscere e dell'agire

La conoscenza che l'uomo ha degli oggetti nasce dall'incon-


tro fra la finitezza originaria della prospettiva, con cui li osser-
va, e lo sforzo di superare questa stessa finitezza per comunica-
re agli altri quanto ha conosciuto. La recettività o apertura al
mondo, da cui ha inizio ogni conoscere, segnata inevitabilmen-
te da un particolare punto di vista, si unisce così allo sforzo te-
so al superamento della propria visuale parziale per attingere
una possibilità di comunicazione universale: in questo processo
consiste propriamente la «sintesi trascendentale». Essa si pre-
senta come una «violazior/e dei limiti del punto di vista» e vie-
ne ad esprimersi nella paiola, «in quanto possibilità di dire, e
di dire il punto di vista»\L'originaria, costitutiva «spropor-
zione» dell'essere umano si manifesta pertanto nella tensione
propria di ogni conoscenza fra la finitezza della prospettiva e
il bisogno di superarla dandole un «nome», per accedere alla co-
municazione con altri punti di vista: «La dialettica del "nome"
e della "prospettiva" è quindi la dialettica medesima dell'infi-
nità e della finitezza»10. Questa dialettica si presenta ancora
più intensa nell'uso del «verbo», che affermando o negando,
«sovra-significa»: esso, cioè, non solo implica il superamento della
prospettiva individuale della percezione nella formulazione del
«nome», teso a produrre la comunicazione con gli altri, ma sta-

9
P. Ricoeur, Finitudine e colpa, o.c, 98.
10
Ib., 102.

84
bilisce fra i contenuti e i significati, veicolati nei singoli nomi,
un rapporto di affermazione o negazione n.
La sintesi fra la prospettiva individuale e il significato uni-
versale, fra l'apparire particolare e il senso generale, si rappor-
ta a quella fra lo sguardo e la parola, in cui si incontrano intel-
letto e sensibilità: quel che ne risulta è l'«immaginazione tra-
scendentale». Anche qui la «sproporzione» del soggetto non viene
eliminata, ma si ritrova nello scarto permanente che resta fra
la coscienza raggiunta e l'oggettività della cosa. A tutti i livelli
del conoscere l'infinitezza del significare resta sproporzionata
alla determinatezza del percepire, l'universalità del dire alla pro-
spettiva limitata con cui la cosa è recepita: anche il linguaggio,
in cui si articola e si trasmette la conoscenza, è figlio di Penia
e Poros!
Non diversamente la «sproporzione» si manifesta sul piano
dell'agire: qui la tensione corre fra la finitezza «pratica» del ca-
rattere di ciascun uomo e l'infinità della felicità, verso cui ognuno
tende. Il carattere è l'orientamento originario delle motivazio-
ni dell'agire, la concreta apertura di ciascuno sull'umanità: per-
ciò il destino del carattere «è la restrizione data, fattuale, della
mia libera apertura sull'insieme di possibilità dell'essere uo-
mo»12. Sul piano dell'agire il carattere equivale a ciò che è la
prospettiva o punto di vista nel campo del conoscere. La felici-
tà, invece, in quanto «totalità di adempimento», è per l'insie-
me delle scelte ciò che è il mondo nei riguardi delle vedute di
percezione: «come il mondo è l'orizzonte della cosa, la felicità
è l'orizzonte sotto tutti gli aspetti»13. «L'idea di totalità non
è dunque soltanto una regola per il pensiero teorico; essa dimo-
ra nel volere umano, diviene così l'origine della "sproporzio-
ne" più estrema: quella che opera sull'egire umano tendendolo
tra la finitezza del carattere e l'infinità della felicità»14.
La sintesi della felicità e del carattere è un atteggiamento
morale specifico, che Kant ha chiamato il «rispetto»15: «sinte-
si della persona», intermediario che appartiene ad un tempo al-
la facoltà di desiderare e al potere di obbligazione che procede
dalla ragione pratica, il rispetto è il riconoscimento della realiz-
11
12
cf. ib., in.
Ih., 143.
13
fi., 144s.
14
Ib., 148.
13
Ib., 153s.

85
zazione possibile, senza che questo significhi rinuncia al supe-
ramento di ciò che si è raggiunto. Esso sta al carattere e alla
felicità come la loro mediazione pratica, è accettazione della fi-
nitezza dell'uno in quanto protesa all'infinitezza dell'altro, ed
insieme è la felicità possibile nei limiti caratteriali della perso-
na. La sproporzione che si sperimenta nel rispetto non è più
lo scarto fra il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto, che
si aveva nella «sintesi trascendentale» e nell'immaginazione, ma
la differenza esistenziale fra il desiderio e la realizzazione ope-
rata dalla persona, fra la felicità sempre ambita e le azioni ine-
vitabilmente segnate dalla determinatezza del carattere. Ecco
perché in ogni suo compimento l'agire umano si avverte incom-
piuto, ed ogni meta raggiunta appare come insufficiente rispet-
to all'orizzonte ultimo dell'azione. La persona umana si rico-
nosce «sproporzionata» nel dinamismo più profondo del suo
proiettarsi fuori di sé nell'agire.

e) La fragilità affettiva

È infine sul piano del sentimento che emerge la «sproporzio-


ne» costitutiva dell'essere umano: qui non si dà più solo la co-
scienza dell'oggetto, come nel conoscere, né solo la sintesi della
persona che riconosce nel rispetto la sua incompiutezza, ma si
compie l'incontro più radicale e perciò la sproporzione più du-
ra fra infinità e finitezza. «Mentre con la rappresentazione ci
opponiamo degli oggetti, il sentimento prova la nostra coapta-
zione, le nostre armonie e disarmonie elettive, riguardo a real-
tà di cui portiamo in noi l'effigie affettiva come "buono" o co-
me "cattivo"» 16 . La felicità affettiva si identifica col piacere
più grande, e perciò non è più solo l'esigenza di totalità oppo-
sta alla singolarità di una prospettiva esistenziale. Di conseguenza
l'incompiutezza èhe si^perimenta nel sentimento è la più in-
tensa: essa si presenta^ con i tratti dell'angoscia, «il sentimento
per eccellenza della differenza ontologica». La ragione profon-
da per cui la «sproporzione» affettiva è avvertita come ango-
scia risiede nel fatto che il mondo dell'affettività è teso costitu-
tivamente alla gioia: «E la Gioia a indicarci che noi abbiamo
a che fare con questa assenza dell'essere agli esseri; ... l'ango-

16
Ih., 172s.

86
scia non è che il suo rovescio di assenza e di distanza»17. Que-
sta condizione di permanente incompiutezza affettiva, questa
sproporzione ontologica che si riflette sul sentimento, manife-
standosi come angoscia e conflittualità, rivela la profonda/ragz-
lità affettiva dell'essere umano. «La fragilità è il nome che pren-
de nell'ordine affettivo la "sproporzione"»18. «Il conflitto ap-
partiene alla costituzione più originaria dell'uomo; l'oggetto è
sintesi, l'io è conflitto; la dualità umana si supera intenzional-
mente nella sintesi dell'oggetto e s'interiorizza affettivamente
nel conflitto della soggettività»19.
L'analisi della «sproporzione» costitutiva dell'uomo al tri-
plice livello della conoscenza, dell'azione e del sentimento, con-
sente così una più precisa descrizione della «fallibilità» caratte-
ristica della condizione umana: «Non qualsiasi limitazione è pos-
sibilità di fallire, ma quella limitazione specifica che consiste
per la realtà umana nel non coincidere con se stessa»20. L'uo-
mo è fallibile perché è tensione irrisolta fra la finitudine del punto
di vista, della struttura caratteriale e della fragilità affettiva e
l'infinitezza dell'orizzonte del conoscere, dell'agire e del senti-
mento: la fallibilità sta appunto nel rischio permanente di sfug-
gire alla tensione, abolendo uno dei due poli. Dove la finitudi-
ne presume di catturare l'infinitezza, l'incomunicabilità si af-
faccia sul piano della conoscenza, come l'infelicità e l'angoscia
su quelli della ragione pratica e dell'affettività. Qui è il limite
costitutivo della condizione umana, il rischio ineliminabile del-
la sua sproporzione originaria: «Questa limitazione è l'uomo stes-
so... il "misto" dell'affermazione originaria e della negazione
esistenziale. L'uomo è la Gioia del Sì nella tristezza del fi-
nito»21.
Il concetto di fallibilità non include però solo la possibilità
e il rischio di fallire, esso abbraccia anche il potere di fallire:
«La "sproporzione" dell'uomo è potere di fallire, nel senso che
rende l'uomo capace di fallire... la fragilità non è soltanto il "luo-
go", il punto di inserzione del male, e neppure soltanto 1"'ori-
gine" a partire dalla quale l'uomo decade: è la "capacità" del
male. Dire che l'uomo è fallibile è dire che la limitazione pro-

17
Ib., 193.
1&
Ib., 217.
19
tó.,224.
20
Ih., 227.
21
ft.,235.

87
pria ad un essere che non coincide con se stesso è la debolezza
originaria da cui il male procede. E, tuttavia, il male non proce-
de da questa debolezza se non per il fatto che si pone»22. La
fragilità sta alla colpa non come la causa all'effetto, ma come
la condizione di possibilità alla possibilità effettuata. E qui che
la fenomenologia della fallibilità cede il passo a una analisi del-
la colpa, nella profondità della sua radice e dei suoi effetti. E
l'osservazione fenomenologica rinvia a uno sguardo più pene-
trante, che si lasci raggiungere dall'atto col quale il mistero del-
l'uomo è manifestato ed insieme celato a se stesso: la rivelazione.

3.2. IL PECCATO ORIGINALE

La costatazione che la fallibilità umana si è drammaticamente


manifestata nella universale esperienza della colpa e del pecca-
to a causa di un atto libero, consapevole e volontario dell'uo-
mo, fa parte integrante della buona novella del cristianesimo:
ne è come il risvolto negativo, l'ombra cupa che fa risaltare lo
splendore della luce, venuta a brillare nelle tenebre. E anzi la
forza del rapporto dialettico fra peccato e redenzione che aiuta
a comprendere la profondità dell'uno e la novità dell'altra: al
di fuori di questo quadro — che è poi quello dell'alleanza fra
Dio e l'uomo, compiutasi in pienezza nella morte e resurrezione
del Figlio e nell'effusione dello Spirito — resterebbe del tutto im-
poverita e perfino incomprensibile la categoria teologica, tanto de-
cisiva, quanto ambigua e complessa, del «peccato originale»23.
22
Ih., 242.
23
Sul tema del peccato originale la bibliografia è vastissima. Basti perciò segna-
lare alcuni dei testi più espressivi della ricerca recente: Ch. Baumgartner, Lepéché ori-
ginel, Tournai 1969; P. Dacquino, Peccato originale e redenzione secondo la Bibbia, Torino-
Leumann 1970; A.-M. Dubarle, Il peccato originale: prospettive teologiche, Bologna 1984;
M. Flick - Z. AIszeghy, Il peccato originale, Brescia 1972; P. Grelot, Réflexions sur le
problème du péchéorigìnel, Tournai 1967; P. Guilluy (ed.), La culpabilité fondamentale.
Péchéoriginelet anthropologie moderne, Gembloux 1975; H. Haag, Dottrina biblica della
creazione e dottrina ecclesiastica del peccato originale, Brescia 1970; Ist Adam an allem
schuld?, Innsbruck 1971; P. Lengsfeld, Adam und Christus, Essen 1965; G. Martelet,
Libera risposta ad uno scandalo. La colpa originale, la sofferenza e la morte, Brescia 1987;
Elpecado originai. XXIX Semana Espanola de Teologia, Madrid 1969; Péché originel et
péché d'Adam, Paris 1969; K. Rahner, Il peccato di Adamo, in Id., Nuovi Saggi IV, Ro-
ma 1972, 335-357; P. Schoonenberg, L'uomo nel peccato, in Mysterium Salutis II/2,
Brescia 1970, 589-719; Id., La potènza del peccato, Brescia 1970; Id., Dalpeccato alla
redenzione, Brescia 1970; G. Vanderveide, Originai Sin. Two Major Trends in Contem-
porany Roman Catholic Reinterpretatiorì^Amstetdam 1975; A. Vanneste, Le dogme du

88
a) Adamo e Cristo

Se è stato Agostino a consacrare l'uso dell'espressione origi-


nale peccatum24, il fondamento biblico costantemente richia-
mato nello sviluppo dell'idea è il parallelismo stabilito da Paolo
fra Adamo e Cristo. L'intera storia della salvezza viene riassunta
dall'Apostolo nella concezione della solidarietà nella colpa, vinta
e superata dalla solidarietà nella redenzione e nella grazia: il ma-
nifesto di questa rilettura storico-teologica è la Lettera ai Ro-
mani, il testo di cui si è potuto dire che «le grandi ore della sto-
ria della religione cristiana sono anche le ore della Lettera ai
Romani» (S. Lyonnet). Nella lunga sezione speculativo-dottrinale
dell'epistola (1,16 - 11,36), i cui frutti operativi saranno deli-
neati nella successiva sezione, propriamente parenetica (12,1 -
16,27), Paolo sviluppa il tema della salvezza mediante la fede,
partendo dalla situazione che accomuna pagani e Giudei sotto
l'ira divina, per arrivare ad annunciare la giustizia di Dio cui
si accede appunto attraverso la fede, di cui è esempio Abramo
(1,16 - 4,25). A partire dal capitolo quinto l'Apostolo descrive
la condizione dei salvati, «giustificati per la fede... in pace con
Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (5,1), median-
te un triplice movimento: in negativo attraverso l'idea della li-
berazione dal peccato, dalla morte e dalla Legge (5,12 - 7,25),
in positivo attraverso la presentazione della vita secondo lo Spi-
rito (cap. 8), e in forma dialettica attraverso l'esame della si-
tuazione in cui viene a trovarsi Israele, «santa radice» dell'al-
bero cristiano (capitoli 9-11).
Il parallelismo fra Adamo e Cristo si inserisce pertanto nel

péché origine!, Louvain 1972; K. H. Weger, Theologie der Erbsùnde, Freiburg 1970.
Per la ricostruzione storica ci.: J. Gross, Geschichte des Erbsiindendogmas. Ein Beitrag
zur Geschichte des Problems voti Vrsprung des IJbels, 4 voli., Mùnchen 1960-1972; H.
Kòster, Urstand, Fall undErbsiinde. In der Scholastik, Freiburg-Basel-Wien 1979; Id.,
Urstand, Fall und Erbsiinde. Von der Reformation bis zur Gegenwart, Freiburg-Basel-Wien
1982; H. Rondet, Le péché origine! dans la Iradition patristique et théologique, Paris 1967;
L. Schef fczyk, Urstand, Fall und Erbsùnde. Von der Schrift bis Augustinus, Freiburg-Basel-
Wien 1981.
24
Originale peccatum in riferimento al peccato di Adamo compare per la prima
volta dopo il 397 nel De diversis quaestionibus ad Sìmplicianum, I, 1, 10 (PL 40,106s).
In riferimento al peccato esistente nei discendenti di Adamo a causa della sua colpa
l'espressione si trova nel Depeccatorum meritìs et remissione I, 9s (PL 44,114s). Il tema
attraversa comunque per intero l'itinerario e l'opera di Agostino: «Nam ego per unum
hominem in mundum entrasse peccatum, et per peccatum mortem, et ita in omnes ho-
mines pertransisse, in quo peccaverunt omnes, ab initio conversionis meae sic tenui
semper et teneo»: Cantra ]ulianum VI, 1239: PL 44,843.

89
grande orizzonte della storia della salvezza, che è storia dell'i-
niziativa gratuita e misericordiosa di Dio, dell'infedeltà e della
colpa dell'uomo, e della novità — tanto più sorprendente, quanto
più gratuita da parte dell'Eterno — della riconciliazione e della
vita nuova offerte nel Signore Gesù. Ciò che è primo nell'in-
tenzione di Paolo è la celebrazione della gloria di Dio, manife-
statasi nell'inaudita opera di misericordia, che è la redenzione.
Rispetto a questo intento — che è poi il progetto puro del cri-
stianesimo, il «soli Deo gloria» — il richiamo della solidarietà
degli uomini nella colpa è atto secondo, che serve ad evidenzia-
re al tempo stesso l'universale bisogno di salvezza e la sovrab-
bondante ricchezza della grazia, apparsa in Gesù Cristo ed of-
ferta a tutti per la solidarietà in Lui stabilita: «Ma il dono di
grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo
morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso
in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in ab-
bondanza su tutti gli uomini... Infatti se per la caduta di uno
solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di
più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della
giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli
uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno
solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita»
(5,15.17s).
La colpa e l'opera di giustizia, di cui l'Apostolo parla, sono
da lui determinate rispettivamente con le categorie di disobbe-
dienza e di obbedienza: «Come per la disobbedienza di uno so-
lo tutti sono stati costituiti pedcatori, così anche per l'obbedienza
di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (v. 19). Mentre l'A-
damo delle origini si è chiuso aft^scolto dell'Altro (tale è il sen-
so letterale della iraQaxori, «ascolto superficiale, disobbedien-
za»), il Cristo si è aperto fino in fondo all'ascolto del Dio vivo,
realizzando fedelmente la comunione e l'alleanza con Lui (vira-
XOTJ = ascolto di ciò che sta sotto, oltre, in profondità).
Gli effetti di ciò che si è compiuto in Adamo e in Cristo
si riscontrano nell'oggi della storia della salvezza: «Come a cau-
sa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il pec-
cato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini,
perché tutti hanno peccato» (v. 12). Tuttavia, «laddove è ab-
bondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come
il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia

90
con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo no-
stro Signore» (vv. 20s). La finitudine umana — di cui è denso
segnale la morte — rimanda dunque per Paolo alla più profon-
da condizione di chiusura e di finitudine, in cui Adamo è en-
trato col peccato. Analogamente, la sovrabbondanza della gra-
zia — di cui è cifra la vita nuova del Risorto — rinvia alla giu-
stificazione, che ha vinto la chiusura del peccato e ha aperto
all'uomo il regno della vita eterna. Veramente — nel segno del
contrario — «Adamo è figura di colui che doveva venire» (v. 14).
All'interno dell'intenzione dottrinale dell'Apostolo, che è
primariamente la celebrazione della gloria divina risplendente
nella giustificazione, nuova e perfetta alleanza celebrata in Ge-
sù Cristo, trova dunque posto l'affermazione dell'universale bi-
sogno di redenzione, fondata sulla costatazione dell'universale
condizione di peccato. Tuttavia, la solidarietà che Paolo stabi-
lisce fra Adamo e i peccatori da una parte, e Cristo e i giustifi-
cati dall'altra, impedisce di cogliere nella osservazione del v. 12
il semplice rilievo del fatto che tutti peccano: se la corretta tra-
duzione dell'e<p'cò è «perché, per il fatto che tutti hanno pec-
cato», la tradizionale traduzione latina in quo, riferita ad Ada-
mo, rende ragione del legame, che l'Apostolo lascia intravede-
re fra la colpa di Adamo e l'attuale condizione universale di pec-
cato grazie al parallelismo fra le due solidarietà, nella colpa e
nella grazia. Certamente l'idea di una ereditarietà del peccato
non è insinuata da Paolo25: ma bisogna anche dire che l'Apo-
stolo non aveva alcun interesse a farlo, perché la forza del pa-
rallelismo che egli stabilisce fra il primo e il nuovo Adamo non
sta nella ereditarietà biologica, ma nella solidarietà storico-
morale. Nella mentalità biblica questo tipo di solidarietà si spinge
fino al realismo della cosiddetta «personalità corporativa», che
stabilisce una sorta di identità dinamica fra l'individuo rappre-
sentativo e la collettività e vive del continuo slittamento dal-
l'individuale al collettivo e dal collettivo all'individuale 2b. Se
si interpreta il testo paolino alla luce di questa nozione, il ca-
rattere storico del primo Adamo (come del secondo) e il reali-

25
Su questo punto insiste tra gli altri H. Haag, Dottrina bìblica della creazione
e dottrina ecclesiastica del peccato originale, o.c, 90.
26
Cf. H. Wheeler Robinson, The Hebrew Conception of Corporate Persotiality, in
Zeitschrift fiir die alttestamentliche Wissenschaft, Beiheft 66 (1936) 49-61; e specialmen-
te J. de Fraine, Adamo e la sua discendenza. La concezione della personalità corporativa
nella dialettica biblica dell'individuale e del collettivo, Roma 1968 (or. fr. Paris 1959).

91
smo del legame che lo congiunge alla sua discendenza, facendo
quest'ultima realmente partecipe della sua colpa, appaiono tut-
t'altro che dubbi 27 . «Adamo è lui e la sua discendenza» (S.
Kierkegaard).
In questa luce storico-salvifica il racconto del primo pecca-
to nel capitolo terzo della Genesi — cui Paolo evidentemente
si riferisce — può essere accostato nella forma più corretta: l'u-
so del genere didattico-sapienziale rivela in esso l'intento di ri-
flettere sulla condizione di miseria dell'umanità e sulle sue ra-
dici, assumendo l'originaria e onnipresente domanda del dolo-
re del mondo. Questo intento si unisce all'impiego di elementi
mitici, in parte simili a quelli presenti in narrazioni analoghe
dell'antico Oriente, ed insieme assai differenti da esse, soprat-
tutto lì dove si tratta di sottolineare l'alterità e la trascendenza
del Creatore rispetto alla creatura. In tal modo viene rivestito
di forma narrativa l'asserto dottrinale fondamentale, che vede
nella libera scelta dell'uomo, e non in Dio e nella sua opera crea-
trice, la ragione profonda del disordine e del male che devasta-
no la terra. Si può parlare perciò di «racconto eziologico»: par-
tendo dal male attuale e dalla dolorosa percezione che se ne ha
quotidianamente nella vicenda umana, l'autore ispirato ne ha
riletto l'origine ultima, servendosi di elementi assunti dalle mi-
tologie dei popoli vicini, ma riportando tutto al quadro dell'al-
leanza fra Israele e il suo Dio ed alla conseguente visione teolo-
gica della storia.
L'insistenza sul carattere «eziologico» del racconto della pri-
ma caduta non deve però risolversi in un'interpretazione che
lo svuoti di ogni contenuto storico: è anzi proprio l'intento
didattico-sapienziale a richiedere un simile contenuto. Solo se
alle origini della tragica condizione dell'umanità c'è un atto de-
terminato, frutto di una decisione avvenuta nel tempo, la libertà
e la consapevolezza del protagonistajumano hanno potuto es-
servi realmente implicate: altrimenti/le radici del disordine mo-
rale e della sofferenza pescherebbero nel torbido di una situa-
zione ibrida, indefinita, che non potrebbe non coinvolgere, con
quella della creatura, la responsabilità dell'Eterno, «^"avve-
nimento" del peccato pone fine all'innocenza nell'Istante; esso
è, nell'Istante, la discontinuità, la frattura fra il mio essere-creato

27
In tal senso ragiona J. de Fraine riflettendo su «Adamo» nel Nuovo Testamen-
to, o.c, 168ss, particolarmente 172.

92
e il mio divenire-malvagio... Con ciò il mito denuncia il carat-
tere puramente "storico" di questo male radicale, gli impedi-
sce di porsi come male originario: il peccato ha un bell'essere
più "antico" dei peccati, l'innocenza è "più antica" di lui»28.
In altri termini, svuotare totalmente di contenuto storico la colpa
di Adamo ed Eva equivarrebbe a trasferire l'origine del male
in una sorta di metastoria, di cui in ultima analisi non potrebbe
essere responsabile altri che il Creatore dell'uomo. Conferma
di questo carattere storico del primo peccato è peraltro l'uso
che Paolo sembra fare della «personalità corporativa» nel paral-
lelismo fra Adamo e Cristo, che non reggerebbe se il primo ter-
mine non avesse una consistenza storica analoga a quella del se-
condo. E perciò che si parla a proposito di Gen 3 di una «ezio-
logia storica» (K. Rahner): la formula — se agli esegeti può ap-
parire motivata più teologicamente, che in maniera storico-
critica29 — veicola però bene il duplice dato emergente dall'a-
nalisi del racconto della prima caduta, il suo valore simbolico-
eziologico cioè e la presenza di un ineliminabile contenuto sto-
rico.
I testi di Rm 5 e Gen 3 forniscono dunque le coordinate
fondamentali della teologia del «peccato d'origine»: nell'oriz-
zonte del primato di Dio e dell'alleanza che gratuitamente egli
offre all'uomo, essi consentono di affermare uno stato di uni-
versale bisogno di redenzione, radicato nella realtà del peccato
di tutti gli uomini, che si rapporta al primo peccato non solo
come alla sua «eziologia simbolica», ma anche, grazie all'idea
di «personalità corporativa», come all'atto storico con il quale
il peccato è entrato nel mondo per libera e consapevole scelta
della creatura. In questa luce si può tentare già una prima pre-
cisazione della natura di questo originale peccatum: nella pro-
spettiva storico-salvifica esso consisterebbe nella decisione per
la quale Adamo — inteso come singolo e come collettività umana
a lui solidale nello stato di «partner» dell'alleanza con Dio —
si è chiuso al suo Signore e Creatore, rifiutando di celebrarne
la gloria, ed ha voluto affermare se stesso, rivolgendosi come
unico signore e dominatore alle creature. Uaversio a Deo — il
rifiuto dell'originario rapporto d'alleanza, orientato alla pienezza
che realizzerà l'evento pasquale del Crocefisso Risorto — si è
28
P. Ricoeur, finitudine e colpa, o.c, 518.
29
Cf. N. Lohfink, Genesis 2f. ah «geschìchtliche Atiologie» (Gedanken zu einem
neuen hermeneutischen Begriffi, in Scholastik 38 (1963) 321-334.

93
congiunta ad una conversio disordinata alle creature: ne è risul-
tata compromessa la capacità al dialogo non solo con Dio, ma
anche con gli altri uomini e col mondo.
Questa chiusura radicale — che ha estraniato la persona uma-
na dal dinamismo fecondo delle relazioni divine in cui era ori-
ginariamente inserita per puro dono del Creatore — ha privato
l'uomo dell'armonia delle origini, fondata sul rapporto aperto,
dialogale col suo Signore. Negandosi a ciò cui era chiamata per
libera e gratuita elezione del Dio vivo, la creatura ha corrotto
la sua stessa capacità di esistere in maniera aperta, accogliente
e generosa nei rapporti con l'altro da sé. In relazione al mondo
naturale questa corruzione si è manifestata nell'esperienza do-
lorosa della propria finitudine, tanto fisica, quanto psicologica
e spirituale (cf. Gen 3,16-19): in questo senso col peccato la mor-
te è entrata nel mondo, non perché prima di esso non si desse
una conclusione della vita terrena ed un passaggio alla vita eterna
in Dio (cf. Gen 3,19: tratto dalla terra, l'uomo era comunque
destinato a tornare alla terra), ma perché ora questo passaggio
è sperimentato come rottura, con tutti i caratteri della tragicità
e dell'inesorabilità di una condanna. Ciò che prima era armo-
nia di un rapporto integrato nell'orizzonte dell'alleanza e della
familiarità con Dio, ora è conflitto, tensione dolorosa e lace-
rante: così è nella relazione fra l'uomo e la donna (cf. Gen 3,12s
e 16b), così nel rapporto con la natura (cf. vv. 17-19), così nella
generazione della vita (cf. v. 16), così — alla base di tutto —
nei confronti dell'Eterno (cf. la cacciata dal paradiso: vv. 23s).

b) Gli opposti estremismi

Le coordinate offerte dal messaggio biblico sono state ulte-


riormente definite dallo sviluppo della riflessione dogmatica sul
«peccato originale»: in particolare, la fede fondata nella rivela-
zione ha dovuto precisarsi in reazione a due opposti estremi-
smi, consistenti rispettivamente ir\ un esagerato ottimismo ed
in un esagerato pessimismo sull'uorWo. L'ottimismo antropolo-
gico caratterizza nella storia il «pelagianesimo», in tutte le sue
forme: al di là dell'insegnamèntcrdel monaco inglese Pelagio —
attivo a Roma agli inizi del V secolo — e dello spiccato volon-
tarismo morale propagato dai suoi discepoli Celestio e Giulia-
no di Eclano, l'idea forza, cui reagisce la Chiesa col Concilio

94
di Cartagine del 418 30 e poi col Concilio II di Orange del
529 31 , è la negazione del peccato originale, per cui l'uomo
avrebbe in se stesso forza sufficiente a operare la propria sal-
vezza o per lo meno a produrre V ìnitìum fidei. Ciò che di conse-
guenza è negato è il bisogno dell'interiore aiuto divino, la ne-
cessità della grazia in ordine a vivere l'obbedienza che salva.
L'apparente esaltazione dell'uomo si risolve così in un'antro-
pologia della solitudine, che vanifica del tutto il progetto d'al-
leanza di Dio e la sua realizzazione storica e non rende ragione
in alcun modo delle missioni del Figlio e dello Spirito, lascian-
do la creatura umana sola con se stessa a combattere con le in-
negabili resistenze e le inevitabili cadute. La gloria dell'uomo
a prezzo della morte di Dio si risolve alla fine nell'alienazione
della creatura: qui si vede come la dottrina del peccato d'origi-
ne, lungi dal produrre una visione negativa della persona uma-
na, la colga nel realismo della lotta, che mostra al tempo stesso
la sua dignità e il bisogno che essa ha dell'alleato divino.
L'altro riduzionismo cui la fede ecclesiale reagisce è quello
attribuito dal Concilio di Trento all'antropologia del protestan-
tesimo32: identificando il peccato originale con la «concupi-
scenza», che è l'inclinazione al male, presente e operante nella
condizione dell'uomo decaduto, e riducendo la giustificazione
operata dal battesimo a pura imputazione estrinseca della giu-
stizia divina, che non elimina la presenza del «fomite» del pec-
cato in noi, la Riforma — nella lettura certamente estremizza-
ta che ne danno i Padri — vanifica l'opera redentiva di Cristo
ed esagera la potenza del peccato fino a considerarla irredimi-
bile. Ne consegue un pessimismo tragico sull'uomo e sulle sue
possibilità: condannato per la sua natura corrotta a essere figlio
dell'ira divina, l'essere umano finisce col restare prigioniero della
propria miseria e viene a disperare dell'aiuto divino. La gloria
di Dio è celebrata sulle rovine dell'uomo: ma in tal modo essa
stessa è offuscata, perché l'opera del Creatore si rivelerebbe com-
promessa in maniera irreparabile e perciò apparirebbe origina-
riamente deficitaria.
Dopo aver riaffermato la consistenza della colpa di Adamo
e la sua reale trasmissione ad ogni persona umana «per propa-
30
Ci. DS 222-224.
31
Cf. D5 371s.
32
Specialmente nel Decretum de peccato originali della Sessio V del 17 giugno
1546: DS 1510-1516.

95
gazione» e non per semplice «imitazione» — valendosi di un
ricorso alle fonti bibliche privo di ogni consapevolezza critico-
ermeneutica, com'era ovvio in base alle conoscenze del tempo
tanto fra i cattolici quanto fra i riformatori —, il Concilio riba-
disce la necessità del battesimo, amministrato perciò anche ai
bambini appena nati, «affinché in essi sia purificato con la rige-
nerazione quello che con la generazione hanno contratto»33, ed
afferma l'efficacia salutare, reale e profonda, della grazia bat-
tesimale: «Chiunque nega che per la grazia di nostro Signore
Gesù Cristo, conferita nel battesimo, venga tolto il reato del
peccato originale {reatum originalis peccati remitti), o anche af-
ferma che non si toglie tutto ciò che ha vera e propria ragione
di peccato, ma solo si cancella o non viene imputato {tantum
radi aut non imputati), sia scomunicato. In quelli che sono rina-
ti Dio non trova alcun motivo di odio, poiché non vi è alcuna
condanna per coloro che "per mezzo del battesimo furono se-
polti insieme a Cristo nella morte" (Rm 6,4), e non cammina-
no secondo la carne (cf. Rm 8,1), ma avendo svestito l'uomo
vecchio e rivestito il nuovo, creato secondo Dio (cf. Ef 4,22ss;
Col 3,9s), sono divenuti i suoi figli diletti, innocenti, immaco-
lati, puri e senza macchia, "eredi di Dio e coeredi di Cristo"
(Rm 8,17), in modo che per loro non vi è più ragione alcuna
che ritardi il loro ingresso in cielo»34. Il Concilio ha inteso così
determinare «la fede cattolica di fronte alla dottrina della Ri-
forma, riconoscendo da una parte una piattaforma comune (la
fede cioè circa il peccato originale, originante e originato), e dal-
l'altra il contrasto (mentre la Riforma insegnava la permanenza
del peccato originale nei battezzati, la fede cattolica insegna che
il battesimo cancella tutto ciò che è vero e proprio peccato). L'as-
se principale del discorso conciliare va verso l'affermazione cri-
stologica ed ecclesiale, secondo cui l'uomo, il quale ha assoluta-
mente bisogno della grazia di Cristo largitagli nel sacramento
della Chiesa, per questa grazia eristica e sacramentale è vera-
mente liberato dal peccato»35.
La giustificazione realmente operata dall'evento battesima-
le fonda una visione antropologica fiduciosa, che riconosce la
possibilità piena per l'uomo aiutatodalla grazia di realizzarsi
secondo il progetto di Dio. Questa fiducia non ha niente a che
33
«Ut in eis regeneratione mundetur, quod generatioìie contraxerunt»: DS 1514.
34
DS1515a.
35
M. Flick - Z. Alszeghy, Il peccato originale, o.c. ,/165.

96
vedere con l'ottimismo pelagiano, esplicitamente rifiutato da
Trento 36 , e si esprime ulteriormente nel negare alla concupi-
scenza il carattere di peccato, considerandola piuttosto uno sti-
molo alla lotta e alla crescita spirituale: «Questo santo Sinodo
confessa e sente che rimane tuttavia nei battezzati la concupi-
scenza o fomite, che ci è lasciata per la lotta (ad agonem) e non
può nuocere né danneggiare chi non acconsente ad essa, ma vi-
rilmente la combatte mediante la grazia di Gesù Cristo. E chi
avrà combattuto legittimamente riceverà la corona (cf. 2Tm 2,5).
Questa concupiscenza che talvolta l'Apostolo chiama peccato
(cf. Rm 6,12ss; 7,7.14-20), il santo Concilio nega che la Chiesa
cattolica abbia mai inteso che nei rigenerati fosse peccato in senso
vero e proprio, ma è chiamata peccato solo in quanto proviene
dal peccato e al peccato inclina»37. Il Concilio dimostra qui
una notevole penetrazione della psiche umana: non demonizza
il fondo torbido e oscuro dell'inclinazione al peccato presente
in ogni uomo, liberando in tal modo la coscienza personale da
ogni esagerato colpevolismo; né attribuisce a Dio il fallimento
della creatura, considerando insanabile il male prodotto dal pec-
cato di origine e perciò strutturalmente carente l'opera della crea-
zione e della redenzione; ma delinea i tratti di un'antropologia
«agonica» (ad agonem), in cui l'esistenza umana è vista come lotta,
in tutta la serietà e la tragicità che questo comporta, ma insie-
me è aperta alla speranza della gloria, il cui raggiungimento è
possibile mediante l'aiuto della grazia di Cristo.

e) I livelli del peccato

Il delicato equilibrio, che la fede ecclesiale ha raggiunto ri-


guardo alla dottrina del peccato originale, rifiutando tanto l'e-
sagerato ottimismo, quanto il disperante pessimismo antropo-
logico, consente di fare alcune precisazioni ulteriori sulla natu-
ra del peccato di origine nel suo aspetto di «peccato originato»,
presente cioè nella discendenza dell'Adamo originante. Se esso
è vero peccato, che tocca la persona umana tanto profondamente
da esigere la necessità del battesimo sin dai primissimi tempi
di vita, non può ridursi ad un'influenza esterna che subentri

36
Cf. DS 1512-1514, che riprendono i canoni del II Concilio di Orange del 529.
" D 5 1515b.

97
nello sviluppo della persona — come è in certe interpretazioni
«condizionalistiche» spesso proposte, che identificano con l'in-
flusso dell'ambiente segnato dal male l'azione del peccato ori-
ginale —, né all'incidenza di un atto personale compiuto dal
soggetto non appena divenuto consapevole e responsabile di sé
— come è nelle varie forme di interpretazione «attualistica»,
per le quali il peccato originale si fa presente nel primo atto di
peccato posto dalla piena volontà dell'essere personale38. Per
evitare questi riduzionismi occorre riconoscere la complessità
degli elementi, che interagiscono nello stato di peccato origina-
le «originato». Si può affermare che esso abbraccia contempo-
raneamente almeno un triplice livello: ontico, personale e storico-
comunitario39.
In primo luogo, il peccato trasmesso dall'Adamo delle ori-
gini si pone sul piano dell'essere della persona e viene perciò
propagato attraverso l'atto stesso con cui esso è chiamato ad
esistere. E il livello ontico del peccato d'origine: «Quanto av-
viene nell'originario rifiuto dell'amore creatore introduce nel
mondo l'esperienza del potere della morte, con tutta la dram-
maticità della sua irreversibilità: l'originario atto di autoaffer-
mazione inospitale inaugura un disordine nel creato, una perdi-
ta nell'essere che segnerà di sé l'intero genere umano e la crea-
zione tutta. Uno "stato originale" di accoglienza pura dell'e-
vento della donazione creatrice è perduto per sempre: la chiu-
sura della libertà fa assaporare l'esperienza dolorosa della cadu-
ta nell'essere, del nulla e della morte che fasciano e condiziona-
no la creatura umana e l'intero universo creato, cui essa è soli-
dale nell'esteriorità dello spazio e nell'interiorità del tempo. Un
bisogno universale di redenzione consegue allora alla colpa ori-
ginaria: una carenza oggettiva, che tocca la vita personale e la
storia della libertà di ciascuno, si trasmette con lo stesso atto
di essere della creatura finita. Il peccato originale, nella solida-
rietà di tutti gli esseri, tutti relativi all'attuarsi del continuo even-
to della donazione, produce una situazione di peccato origi-
nato, di debolezza nell'essere, inseparabile dalla storia perso-
nale della creatura consapevole e libera. E a questo livello —
rischiarato dall'ontologia trinitaria — che si coglie tanto la
drammaticità della colpa originale, quanto la potenza e la va-
38
Cf. la presentazione di queste diverse interpretazioni in M. Flick - Z. Alsze-
ghy, Il peccato originale, o.c, 179ss.
39
Cf. ib., 268ss.

98
stità delle sue conseguenze e della sua trasmissione "ontolo-
>> 40

gica » .
A questo primo livello si congiungono la dimensione perso-
nale e quella storico-comunitaria del peccato originale «origina-
to»: il carattere personale della colpa di origine è evidente nel-
l'atto del primo Adamo, in quanto esso è il frutto della decisio-
ne libera e consapevole di rifiutare il dialogo dell'alleanza con
Dio, atto cui si riconduce l'irriducibile nucleo storico del rac-
conto mitico-simbolico delle origini. Più difficile risulta chiari-
re la dimensione personale del peccato originale «originato»: pro-
prio in nome dell'istanza personalista ci si chiede come la colpa
di un altro possa essere imputata alla responsabilità di un sog-
getto consapevole e libero, o come possa anche solo la pena da
lui meritata estendersi a chi non abbia commesso personalmen-
te il peccato. L'obiezione risente in particolare della concezio-
ne moderna della soggettività e del suo protagonismo storico.
È per questo che non può essere superata senza un ritorno alla
concezione biblica della solidarietà nell'alleanza: in base all'i-
dea di «personalità corporativa», la colpa dell'individuo rappre-
sentativo è realmente la colpa di tutti e di ciascuno nella collet-
tività da lui rappresentata. Certamente, il termine «peccato» si
applicherà a queste colpe diverse in maniera analoga, articolan-
do l'evidente distanza con elementi fondamentali di vicinanza
e di corrispondenza. Così, la volontarietà del peccato di Ada-
mo fonda al tempo stesso la gravità della sua colpa e il carattere
personale di essa in ciascuno dei suoi discendenti41: in quanto
ogni uomo è chiamato all'alleanza con Dio per il gratuito e mi-
sericordioso disegno della sua grazia, l'atto col quale alle origi-
ni l'uomo si è chiuso al dialogo dell'alleanza investe ciascuno
dei membri della famiglia umana, rendendolo a sua volta chiu-
so alla relazione salvifica con Dio e perciò incapace sul piano
della conoscenza e della volontà a stabilire il dialogo della sal-
vezza personale e comunitaria senza l'aiuto della grazia reden-
trice.
Questa incapacità dialogica — che è poi in profondità una
incapacità di amare, di vivere cioè l'esodo da sé senza ritorno
verso il mistero dell'Altro e di accogliere l'Altro nel più pro-
40
B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento,
Milano 1991, 276s.
41
Questo aspetto è stato ribadito nelle proposizioni di condanna delle tesi di Baio
nella Bolla Ex omnibus afflictionibus di Pio V del 1° ottobre 1567: DS 1946-1949.

99
fondo di sé — ha una dimensione propriamente personale per-
ché tocca la volontà della persona nel suo orientamento radica-
le, al livello dell'opzione fondamentale su cui si gioca e si co-
struisce il senso e il destino della vita. Il disordine introdotto
nella volontà dalla chiusura originaria all'alleanza con Dio si af-
faccia nel mistero di ogni discendente di Adamo come resisten-
za ed incapacità a volere il patto della salvezza, a meno che non
lo soccorra la grazia, che muova il cuore e lo rivolga a Dio, dan-
do dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Questa ra-
dicale non-volontà nei confronti del patto di salvezza, questo
oggettivo disordine del volere trasmesso in ogni discendente del-
l'Adamo delle origini col fatto stesso di esistere come persona
umana, chiamata all'alleanza dall'originario disegno del Crea-
tore, chiude l'essere personale anche alla piena ed autentica re-
lazione con gli altri. La dimensione storico-comunitaria si rive-
la così inseparabile da quella propriamente personale: come in
forza della solidarietà nella destinazione all'alleanza il peccato
di Adamo diventa realmente il peccato di tutti e di ciascuno,
così l'incapacità di amare introdotta dalla colpa di origine pese-
rà su ogni rapporto umano, e potrà essere sanata soltanto dal-
l'intervento libero e gratuito della grazia in una azione sulla per-
sona mai disgiunta da una mediazione storico-comunitaria. La
colpa d'origine rimanda così al mistero della Chiesa, quale ef-
fettiva e concreta mediazione dell'opera salvifica dell'unico Me-
diatore e del nuovo patto da Lui reso possibile e stabilito42.
L'insieme dell'aspetto ontico e di quello personale e storico-
comunitario del peccato originale «originato» aiuta a compren-
dere anche quali siano le conseguenze della colpa delle origini
sull'uomo attuale. La tradizione teologica le ha rese con l'idea
della privazione della iustitia orìgìnalis e del conseguente biso-
gno assoluto che tutti hanno della redenzione operata da Cri-

42
L'insistenza sulla prospettiva storico-salvifica dell'alleanza mostra come possa
essere poco rilevante ai fini della fede il monogenismo o il poligenismo delle origini:
sia che ci sia un'unica coppia originaria da cui tutti discendiamo, sia che più coppie
all'origine in un processo evolutivo complesso e diversificato abbiano dato inizio alla
famiglia umana, la solidarietà espressa dalla categoria di «personalità corporativa» toc-
ca tutti e ciascuno senza eccezione alcuna. La condanna espressa dalla Humani generis
nel 1950 riguarda la concezione poligenista in quanto appaia inconciliabile con i dati
della rivelazione e delle definizioni dommatiche: cf. DS 3897; non dunque in quanto
un'attenta ermeneutica dei testi biblici e magisteriali spieghi diversamente dal rappor-
to con un rigoroso monogenismo biologico la realtà del peccato di Adamo e della sua
trasmissione: cf. K. Rahner, Riflessioni teologiche sul monogenismo, in Id., Saggi di an-
tropologia soprannaturale, Roma 19692, 169-279.

100
sto. L'idea di una giustizia originale perduta è preziosa per fon-
dare un sano ottimismo antropologico: «Porre il mondo come
ciò nel quale il peccato è entrato, o l'innocenza come ciò a parti-
re da cui il peccato ha deviato, o ancora in linguaggio immagi-
nativo il Paradiso come il luogo dal quale l'uomo è stato scac-
ciato, significa attestare che il peccato non è la nostra realtà ori-
ginaria, non costituisce il nostro statuto ontologico primario;
il peccato non definisce l'essere-uomo; al di là del suo divenire-
peccatore sta il suo essere-creato»43. Il problema è di intende-
re come si configuri il cambiamento intervenuto col peccato in
colui, che era stato creato innocente. Rispetto all'Adamo origi-
nario — nell'unità dell'uomo e della donna delle origini — l'uo-
mo dopo la colpa differisce per la perdita di ciò che lo rivestiva
come dono gratuito e aggiunto — «tamquam spoliatus a nudo»
— o come per una ferita inferta nel profondo del suo essere —
quasi «vulneratus in naturalibus»?
La risposta che si dà a questa domanda dipende dall'antro-
pologia che si assume quale punto di partenza: «Ciò che agli
occhi di Agostino è il frutto di una natura degradata e corrotta,
agli occhi di Aristotele e del suo discepolo, Tommaso d'Aqui-
no, era pienamente naturale. Ciò che era naturale agli occhi di
Agostino, cioè la perfetta armonia, frutto di una piena sotto-
missione della parte inferiore o sensibile dell'anima alla parte
superiore o razionale, agli occhi di Tommaso è al di sopra della
natura, soprannaturale, per quanto desiderabile possa essere
idealmente»44. È in questo contesto che Tommaso ha elabora-
to la sua teologia del «soprannaturale»: considerando la triplice
sottomissione della ragione a Dio, delle forze inferiori alla ra-
gione e dell'anima al corpo, caratteristica dello stato originale
secondo la descrizione di Agostino45, come non naturale («ma-
nifestum est quod illa subiectio... non erat naturalis»), Tom-
maso deduce la conseguenza che essa sia stata un dono sopran-
naturale di grazia («supernaturale donum gratiae»)46. In tal
modo egli poteva conciliare la dottrina agostiniana dello stato
primitivo con i principi aristotelici sul composto umano47: ma

3
P. Ricoeur, Finitudine e colpa, o.c, 517.
44
A.-M. Dubarle, Il peccato originale, o.c, 128.
3
Cf. De civitate Dei 1. 13, e. 13: PL 41,386; Depeccatomm mentii et remissione
1- 1, e. 16: PL 44,120.
46
Summa Theologiae I, q. 95, z. 1; cf. q. 100 a. 1 ad 2m.
Cf. H. de Lubac, Sumaturel. Etudes historiques, Paris 1946, 144.

101
la conciliazione era solo apparente. In realtà, i presupposti filo-
sofici di ispirazione platonica di Agostino non potevano coesi-
stere con l'antropologia aristotelica assunta da Tommaso, che
vede naturale non l'armonia, ma la tensione fra le varie facoltà
umane. Si delineano così due diverse interpretazioni dello sta-
to di giustizia originale e del cambiamento introdotto dal pec-
cato, al di là dell'apparente concordia: l'una, nella linea agosti-
niana, riconosce una vera e propria corruzione della natura in
conseguenza della prima colpa, e si orienterà verso un pessimi-
smo antropologico, che sarà di fatto ripreso dai Riformatori per
esaltare l'opera della grazia; l'altra, nella linea tomista, afferma
una continuità nella condizione naturale dell'uomo prima e do-
po il peccato, con la sola perdita di ciò che era stato aggiunto
alla natura per pura grazia. Questa tendenza propenderà verso
un ottimismo antropologico, che sarà ancor più marcato quan-
do gli originari doni «soprannaturali» verranno designati come
«preternaturali», ad evidenziare il loro carattere di gratuità del
tutto al di là della natura.
«Questa zoppicante origine del concetto di soprannaturale
e la segreta contraddizione che racchiude in sé rendono fragili
le teorie che definiscono il peccato originale come la perdita della
giustizia originale soprannaturale (o preternaturale) o come la
perdita della grazia soprannaturale»48. La linea in cui muoversi
sarà allora quella di recuperare la verità veicolata dalla tesi ago-
stiniana e da quella tomista al di là del legame con l'impianto
filosofico che le caratterizza, in un fecondo ritorno alla prospet-
tiva biblica dell'alleanza. In questo orizzonte lo stato di giusti-
zia originale si caratterizza come quello di un dialogo d'allean-
za in atto, che il racconto di Gen 3 rende con l'idea della fami-
liarità dei progenitori con l'Eterno, mentre lo stato dell'umani-
tà decaduta si presenta come quello di una rottura del rapporto
dialogico con Dio e perciò della relazione amorosa e solidale con
gli altri uomini e col creato. Ciò che il peccato sconvolge è in-
somma il mondo delle relazioni, in cui di fatto si costruisce e
si esprime l'essere personale: ad una rete di rapporti dialogici,
fondata nell'armonico rapporto di obbedienza al Creatore, l'e-
vento del peccato d'origine viene a sostituire un insieme scon-
volgente di interruzioni e di rotture.
La persona umana ne sarà toccata nel suo essere più pro-
48
A.-M. Dubarle, Il peccato originale, o.c, 130.

102
fondo: fatta per amare, aperta originariamente alla relazione d'al-
leanza col Dio vivo, che gratuitamente l'ha creata e gratuita-
mente la chiama all'amicizia con Lui, la persona si trova in con-
seguenza del peccato incapace di amare, chiusa al dialogo salvi-
fico con l'Eterno, e perciò ormai squilibrata nei suoi rapporti
col tempo, lo spazio e le altre creature. La fine le si affaccia
come rottura dolorosa e temibile: la morte si profila come un
evento tragico, e non come il naturale sviluppo nell'eternità del
dialogo d'alleanza iniziato nella storia col Dio vivo. La genera-
zione diviene lacerazione sofferta; il rapporto con l'universo si
fa conflittuale; la relazione interumana si appesantisce degli egoi-
smi e degli scarichi di responsabilità, che lasciano ogni uomo
nella solitudine drammatica del proprio essere personale. L'in-
tera storia personale e collettiva si apre, si sviluppa e si chiude
nel segno della lacerazione, fra il grido della nascita e il grido
dell'ora nona49. È da questa condizione tragica, in cui facil-
mente peccato si aggiunge a peccato, rottura a rottura, che l'es-
sere personale e l'intera realtà creata anelano ad essere liberati:
il «peccato del mondo» attende l'Agnello, che vorrà farsene ca-
rico per liberare l'umanità schiava della morte (cf. Gv 1,29).
L'azione redentiva dell'Agnello si offre perciò anzitutto come
realizzazione della nuova alleanza (cf. Le 22,20): ciò che era la-
cerazione e rottura è riconciliato (cf. Ef 1,3-14 e 2,11-22); l'in-
capacità di amare è sanata (cf. Gv 15,12); la persona umana è
resa capace di accogliere in sé l'amore di Dio e di vivificare e
rinnovare in esso tutti i rapporti in cui è posta (cf. Rm 5,5).
La vita nuova entra nella storia personale col battesimo (cf. Me
16,16) ed esige di svilupparsi nella libertà in una crescita, che
investa sempre più profondamente le relazioni, di cui è intessu-
ta l'esistenza umana. Alla storia di lacerazioni e di solitudine
può ora seguire la storia della riconciliazione e della comunio-
ne: lo sviluppo del dono ricevuto continuerà ad incontrare resi-
stenze interne (la concupiscenza, permanente inclinazione al-
l'affermazione inospitale, che chiude il cuore a Dio e agli altri
per affermare se stessi) ed esterne (la «potenza del peccato» che
agisce nel mondo, come effetto della colpa di origine e dell'im-
menso cumulo dei rifiuti personali all'alleanza con Dio). L'esi-
stenza battesimale è in tal senso esistenza pasquale, che conti-

9
«On sort, ori crie, c'est la vie! On crie, on sort, c'est la mort!»: Ausone de Chan-
cel.

103
nuamente è chiamata a passare dalla morte alla vita per la via
dell'amore — via ed espressione dell'alleanza —, liberando sem-
pre più la conoscenza, la volontà, gli affetti, gli stessi ritmi na-
turali dal disordine in essi introdotto dalla rottura del peccato.
L'antropologia negativa — tragicamente segnata dalla colpa —
può convertirsi così progressivamente in antropologia ospitale,
secondo l'originario disegno di Dio e la chiamata alla nuova al-
leanza, posta nel Signore Gesù.
Il peccato originale nell'orizzonte dell'alleanza appare allo-
ra veramente come «l'alienazione dialogale da Dio, cioè l'inca-
pacità di amare Dio sopra tutte le cose, dipendente da un pec-
cato commesso all'inizio della storia, e solidale con tutti gli al-
tri peccati del mondo»50. Le sue conseguenze sono tutte da in-
tendere nella prospettiva della lacerazione e della permanente
rottura delle relazioni dialogali con l'Eterno e con le sue crea-
ture. Il suo superamento vittorioso — operato nella Pasqua di
Cristo, attualizzata nell'evento battesimale — si compendia nella
realizzazione e nella piena esplicitazione dell'alleanza nuova ed
eterna, che il Salvatore ha reso possibile con la sua vita, morte
e resurrezione, che è anzi lui stesso in persona, vivente nel suo
Spirito operante nel tempo.
Inserita così nel quadro totale della storia della salvezza —
secondo la prospettiva suggerita dal parallelismo paolino fra Ada-
mo e Cristo — la teologia del peccato originale è liberata da
ogni astratto essenzialismo e da ogni visione statica: nel dina-
mismo dell'alleanza offerta originariamente, rifiutata con la colpa
d'origine e compiuta in maniera nuova e meravigliosa con l'in-
carnazione del Figlio, la solidarietà nello spazio e nel tempo de-
gli uomini fra loro si esprime in tutto il suo spessore storico.
E per questo che nessun contrasto sembra sussistere fra una si-
mile interpretazione ed una concezione evolutiva del mondo:
che l'evento della rottura originaria dell'alleanza si sia posto nel
primo mattino del mondo o nel momento in cui attraverso l'e-
voluzione l'umanità avrebbe raggiunto un grado di coscienza e
di libertà, sufficiente a fondarne la responsabilità morale davanti
a Dio, è indifferente ai fini della teologia della storia della sal-
vezza, in cui solo si lascia intendere il senso e la portata del pec-
cato d'origine51. La caduta costituisce certamente la smentita
30
M. Flick - Z. Alszeghy, Il peccato originale, o.c, 226.
51
Cf, in tal senso ad esempio M. Flick - Z. Alszeghy, Il peccato originale in pro-
spettiva evoluzionistica, in Gregorianum 47 (1966) 201-225.

104
di un'evoluzione lineare e necessaria, perché manifesta l'irru-
zione della contingenza della libertà: non per questo però essa
suppone un'assenza di storia evolutiva prima e dopo l'evento
della colpa originaria. La storia della salvezza si costruisce co-
me un cammino verso il compimento promesso, che passa at-
traverso tutti i rischi, le cadute e le riprese della libera respon-
sabilità del protagonista umano del patto. Ecco perché — an-
che dopo l'ora della «pienezza del tempo» — l'esistenza degli
uomini resta segnata da un carattere di tragicità. Anzi, se è ve-
ro che dove maggiore è il pericolo, maggiore è la salvezza, dove
più grande è stata l'offerta della grazia, più grande appare la
drammaticità del rifiuto...

3.3. L'ESISTENZA TRAGICA

a) L'abisso dei «doppi pensieri»

E a questa condizione «tragica» dell'esistere umano — con-


seguente al dramma della colpa, ma permanente, e per certi aspet-
ti amplificata nella sua gravità anche dopo il compiersi dei tem-
pi della nuova alleanza —, che è ora necessario volgere l'atten-
zione, per completare in qualche modo il quadro di una «antro-
pologia negativa», resistente o chiusa all'avvento e alle sorpre-
se del Dio vivo. È un «artista del pensiero» che, come pochissi-
mi altri e certamente in modo del tutto singolare, ha saputo scan-
dagliare le profonde ambiguità, che fanno la permanente tragi-
cità dell'esistenza umana, Fèdor Dostoevskij52, l'«avvocato
dell'uomo»: «E in questo che va ricercato il suo pathos, è a questo
che è legata l'unicità della sua creazione. In Dostoevskij non
vi è nulla al di fuori dell'uomo, tutto si rivela solo nell'uomo,
tutto dipende solo dall'uomo»53. Scavando nelle profondità del
cuore umano, da vero «psicologo del sottosuolo», egli ne scopre
gli elementi eterni, le ambiguità strutturali, l'abisso dei «doppi
pensieri»: perciò, «chiunque sia passato per Dostoevskij e ab-

52
Cf. la raccolta di alcuni saggi ormai classici su Dostoevskij intitolata Un artista
del pensiero. Saggi su Dostoevskij, a cura di G. Gigante, Napoli 1992: contiene scritti
di L. Sestov, N. Berdjaev, F. Stepun e S. Askol'dov.
55
N. A. Berdjaev, La rivelazione dell'uomo nell'opera di Dostoevskij, in Un artista
del pensiero, o.c, 40. L'espressione «avvocato dell'uomo» è a p. 50.

105
bia sofferto con lui, ha conosciuto il mistero dello sdoppia-
mento, ha ottenuto la conoscenza degli opposti, si è armato
nella lotta contro il male di una nuova potentissima arma, la
conoscenza del male»54. E proprio in questo Dostoevskij è cri-
stiano, in quanto unisce in maniera inseparabile e al tempo
stesso carica di eccezionale tensione il problema di Dio e il
problema dell'uomo, che solo nel cristianesimo si sono incon-
trati fino all'abisso sconvolgente del Dio crocifisso nelle te-
nebre del Venerdì Santo: «Dostoevskij è lo scrittore più cri-
stiano in quanto al centro della sua opera c'è sempre l'uomo,
l'amore umano e la rivelazione dell'anima umana. Egli stes-
so è la rivelazione del cuore dell'essere umano, del cuore di
Gesù»55.
Pellegrino del pensiero e della vita nei meandri dello spirito
umano, Dostoevskij ne esprime la radicale e costitutiva ambi-
guità: attraverso paradossi spinti fino all'estremo, in cui eserci-
ta tutta la sua «potenza di negazione», egli scopre «la contrad-
dizione tragica e il movimento tragico che esistono nello strato
più profondo dell'essere umano, dove tale movimento e tali con-
traddizioni sono immersi nello sconfinato essere divino senza
tuttavia dissolversi in esso»56. La tragicità dell'esistenza si la-
scia riconoscere nel permanente assedio del nichilismo, «un fe-
nomeno che attraversa la sua opera come una notturna forza
portante, una tentazione sempre sul punto di scattare, un pre-
sagio il cui contenuto appare svolto nei suoi esiti solo apparen-
temente opposti, e cioè sia sul piano violento, estatico, terrori-
stico d'una ipotesi rivoluzionaria, sia sul piano orizzontale, di-
sarmante, mobile di quell'atteggiamento filosofico che s'era
espresso, inauguralmente, nella formula di Belinskij: "La nega-
zione: ecco il mio dio"» 57 .
Nell'opera di Dostoevskij il nichilismo tragico viene ad af-
facciarsi precisamente lungo le frontiere, che sono emèrse nel-
l'esame della fallibilità umana: il nulla fascia Io spirito nell'atti-

54ft.,57.
«/è., 73.
56
Ib., 54s.
57
S. Givone, Dostoevskij e la filosofìa, Bari 1984, 8. Per quanto segue cf. la con-
vincente analisi di questo lavoro, che nella prima parte rivisita in maniera ampiamente
documentata le letture che il pensiero contemporaneo ha proposto di Dostoevskij, mentre
nella seconda propone «tre spunti» per una lettura filosofica del grande narratore, ri-
spettivamente sui piani estetico, etico e teoretico. Il giovane Dostoevskij aveva subito
il fascino dei circoli socialisti, cui era vicino il critico V. G. Belinskij.

106
vita della sua conoscenza del vero, della sua volontà del bene,
del suo sentimento del bello.

b) Il dramma del male

La tragicità del nulla si affaccia anzitutto sul piano teoreti-


co, nelle vie della conoscenza del vero: è qui che la questione
radicale del male si presenta come sfida permanente all'esisten-
za di un Dio, che sia la verità eterna ed assoluta del mondo.
Il ragionamento è stringente, terribile: se Dio esiste, l'orrore
del male che devasta la terra è senza fine. Ma questo orrore è
infinito: dunque, Dio esiste. Al tempo stesso però l'argomento
si rovescia nel suo contrario: se Dio esiste, non può essere am-
messo l'orrore di un male infinito. Ma questo orrore c'è: dun-
que, Dio non esiste. Dal paradosso non si esce, che per una ra-
dicale conversione del concetto di Dio: solo se Dio fa sua la sof-
ferenza infinita del mondo abbandonato al male, solo se egli entra
nelle tenebre più fitte della miseria umana, il dolore è redento
ed è vinta la morte58. Ma questo è avvenuto sulla Croce del Fi-
glio: perciò Cristo è la prova schiacciante della verità che salva,
è anzi la verità alternativa alle presunte verità che la ragione
è capace di costruirsi con le sue dimostrazioni. La «singolarità
del vero», la verità incarnata in un Singolo, identificata con la
sua persona, è quanto di più lontano possa esserci rispetto a un
pensiero «euclideo»: ma è quanto Dostoevskij sceglie, precisa-
mente in alternativa all'esito nichilista della metafisica occiden-
tale: «Se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed ef-
fettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io prefe-
rirei restare con Cristo, anziché con la verità»59.
La verità che dà ragione di tutto e tutto organizza in un'ar-
monia universale, l'«apoteosi della conoscenza» di cui parla Ivan
Karamazov, non vale il suo prezzo: al Dio di questa verità lo
58
Cf. la suggestiva lettura di L. Pareyson, La sofferenza inutile in Dostoevskij, in
Giornale di metafisica n. s. 4 (1982) 123-170. Scrive Pareyson: «La sofferenza divina
giunge ad essere completa espiazione e liberazione, cioè vittoria ultima sul male e sulla
sofferenza, proprio perché è il momento del massimo trionfo della negatività, cioè del
male e del dolore, che arrivano sino a impossessarsi di Dio; proprio perché è il posto più
avanzato dello spedito cammino della negatività, oltre il quale essa non ha potuto né può
andare; e se questo argine di minima resistenza non s'è infranto al massimo urto, allora
la negatività è stata vinta per sempre, e l'umanità è stata affrancata dal dolore»: 168.
59
II passo fa parte della lettera scritta da Dostoevskij alla signora von Vizin nel
febbraio 1854: F. Dostoevskij, Epistolario, a cura di E. Lo Gatto, Napoli 1951,1, 169.

107
stesso Ivan non esita a restituire «rispettosamente» il biglietto
d'ingresso nel suo regno. Solo la verità, che è passata attraver-
so il fuoco della negazione e si è lasciata lambire dal nulla, solo
quella verità salverà il mondo. È la risposta di Alésa ad Ivan:
«Fratello... tu mi hai chiesto dianzi se esiste in tutto il mondo
un essere che possa perdonare e abbia il diritto di farlo. Ma que-
sto essere c'è, e lui può perdonare tutto, tutti, e per tutti, per-
ché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per
tutto» 60 . Solo dal suo interno, insomma, il nichilismo si lascia
confutare: solo dalle tenebre del Venerdì Santo, dove Dio sof-
fre e muore per amore del mondo, è possibile proclamare la vit-
toria della vita, perché quella morte è la morte della morte. Il
Dio definitivamente morto non è che la verità concepita meta-
fisicamente come ragione e fondamento del mondo, garante di
questa soffocante totalità, che è tutta pervasa dall'orrore del-
l'infinita sofferenza umana. Sta qui appunto la tragicità ineli-
minabile dalla conoscenza del vero: non si arriva alla luce che
attraverso la croce; non si entra nella vita che conoscendo la
morte. Perciò la fede deve passare nel travaglio del dubbio, l'af-
fermazione nella notte della negazione, e la verità farsi strada
nello scandalo e nelle tenebre più fitte. Anche così «è terribile
cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,31)!
La tragicità dell'esistenza umana si affaccia non di meno sul
piano etico: la dignità del patire — che pure appare fra le forme
più alte di purificazione e di accesso al bene — si rivela anch'essa
ambigua all'uomo del sottosuolo! Egli non esita a smascherare
le torbide delizie e l'equivocità della volontà, che si accompa-
gnano tanto spesso alla sofferenza e si affermano in essa: «Il
godimento proveniva dalla troppo chiara coscienza che avevo
della mia bassezza... non c'era scampo, non potevo diventare
un altro uomo: che se anche fossero rimasti ancora tempo e fe-
de per trasformarmi in qualche cosa di diverso, io non avrei po-
tuto mutarmi»61. Ma è appunto in questa affermazione tragi-
ca di sé, nutrita dei godimenti più ardenti della disperazione,
che il nulla s'affaccia: «Noi siamo nati morti, e già da molto
nasciamo da padri che non sono vivi; e ciò ci piace sempre di

60
Le citazioni da Dostoevskij rimandano alla raccolta completa delle opere in nove
volumi, Firenze 1958-1963, cosi suddivisa: Racconti e romanzi brevi, a cura di M. B.
Luporini (1,1-3); Romanzi e taccuini, a cura di E. Lo Gatto (II, 1-5); Diario di uno scrit-
tore, a cura di E. Lo Gatto (III). Qui: I fratelli Karamazov: II, 5, 357.
61
Memorie del sottosuolo, I, 3, 93ss.

108
più. Ci prendiamo gusto»62. Ed è qui che la volontà di vivere
impone un rovesciamento morale, un atto coraggioso, che si espri-
me in un'etica della decisione: «Era chiaro che ora bisognava
smettere di angosciarsi e di soffrire passivamente, limitandosi
a ragionare sull'insolubilità dei problemi, e bisognava fare as-
solutamente qualcosa, ma subito, alla svelta. Bisognava a qua-
lunque costo prendere una decisione, una qualsiasi, oppure...
oppure... accettare docilmente il destino così com'è, una volta
per sempre, e soffocare dentro di sé tutto, rinunziando a ogni
diritto di agire e di amare»63. L'alternativa a cui giunge Ra-
skol'nikov è la suprema scelta morale: abbandonarsi al nulla o
reagire. Ma essa può porsi soltanto a chi ha toccato il fondo di-
sperante del nichilismo: è lì che l'espiazione diventa possibile,
precisamente per chi si pone davanti al Dio entrato nell'abisso,
come supremo compagno del dolore umano ed insieme supre-
mo e misericordioso giudice del peccato del mondo. «Espiare
è lottare con Dio... Colui che espia, lottando con Dio, ne rice-
ve una ferita inguaribile, perché appunto in questo consiste l'e-
spiazione... Colui che espia, imputa a sé quello strazio, lo rac-
coglie nel profondo, se lo infligge, esattamente come se lo in-
fligge Dio... Espiare è stare dentro la contraddizione — che è
la stessa per cui Dio si tormenta e si consegna alla morte... La
tenerezza è per Dio, per Dio che soffre; ma la sofferenza è di
Dio in senso ultimo, non oltrepassabile, tragico»64.

e) La bellezza salverà il mondo

E infine sulla via del sentimento, che anela alla gioia e alla
bellezza, che si sperimenta la tragicità dell'esistenza umana: po-
chi, come Dostoevskij, hanno percepito la rilevanza del piano
estetico in ordine alla redenzione del mondo. E al principe My-
skin — il protagonista de L'idiota, enigmatica figura dell'Inno-
cente che soffre per amore del mondo — che il giovane nichili-
sta Ippolit pone la domanda: «E vero, principe, che una volta
diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza?». E il giovane
— condannato a morte dalla tisi — si sente in diritto di aggiun-

62
Ih., I, 3, 210.
63
Delitto e castigo, II, 1, 300.
S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, o.c, 123s.

109
gere: «Quale bellezza salverà il mondo?»65. Lo spettacolo del-
la sofferenza è tale che nessuna redenzione può essere cercata
nella direzione di un'armonica conciliazione, che salti sullo scan-
dalo del dolore del mondo. Ecco perchè la bellezza, da cui il
mondo sarà salvato, deve essere altra rispetto a tutti i sogni e
i desideri possibili di armonia: senza passare attraverso la sua
negazione — che è lo scandaloso spettacolo del male che copre
la terra — nessuna bellezza potrà salvarsi e salvare. Ed ecco che
è proprio l'avvicinarsi della fine che rivela la bellezza nascosta:
il tempo redime l'eternità proprio perché passa con tanta, ine-
sorabile fugacità. Solo la morte conferisce all'attimo la profon-
dità di una totalità e di un'eternità raggiunte: solo se si appros-
sima il nulla del morire si percepisce la meraviglia del tempo,
la gioia della vita.
Anche la bellezza si offre allora nel segno dell'ambiguità,
sulla frontiera fra l'essere e il nulla, carica di un'aura tragica:
«La bellezza — dice Dimitrij Karamazov — è una cosa terribi-
le e paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può, per-
ché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono,
qui tutte le contraddizioni coesistono... La cosa paurosa è che
la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui
che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore
degli uomini»66. Solo alla fine la bellezza si manifesterà vitto-
riosa: «Quando sarà passato il presente e sarà venuto il futuro,
allora il futuro artista troverà forme bellissime anche per la rap-
presentazione del trascorso disordine e caos»67. Nel presente
resta aperto verso la bellezza l'approccio della conversione del
cuore, del «dono delle lacrime», di cui parla lo starec Zosima:
«La natura è bella e innocente, solo noi siamo empi e sciocchi,
e non vediamo che la vita è un paradiso! Perché basterebbe che
noi volessimo capire, e subito avremmo il paradiso in tutta la
sua bellezza, e allora ci abbracceremmo piangendo»68.
Queste ultime considerazioni mostrano il profondo legame
che esiste in Dostoevskij fra le varie espressioni della tragicità
dell'esistenza: il piano teoretico si congiunge a quello etico, e
questo alla ricerca della bellezza. Se è la decisione di fede che
apre alla «singolarità del vero» rivelata nel Dio crocifisso, la via
65
L'idiota, II, 2, 470.
66
1 fratelli Karamazov, II, 5, 174.
67
L'adolescente, II, 4, 661.
68
7 fratelli Karamazov, II, 5, 429.

110
della verità si incontra con quella della decisione morale; e se
è la conversione del cuore che apre al riconoscimento della bel-
lezza che salva, la via estetica si congiunge a quella etica. La
rilevanza della dimensione morale emerge così in primo piano:
in realtà è proprio in essa che si gioca più intensamente il con-
flitto fra nichilismo e redenzione. Ed è qui che si rivela il livel-
lo più profondo della tragicità dell'esistenza umana, quello che
maggiormente è in gioco precisamente nell'eticità dell'atto: il
livello della libertà. In questo senso, la Leggenda del Grande In-
quisitore è il grande apologo dell'eterno conflitto che rende co-
stitutivamente tragica la vita umana: il conflitto fra l'audacia
della libertà e la tentazione rassicurante della rinuncia ad
essa69.
Il Cardinale Inquisitore di cui narra la Leggenda è la figura
di chi ha sacrificato la libertà alla felicità; il Cristo che gli sta
davanti come un imputato è invece il paladino della libertà a
prezzo anche della felicità. Il conflitto fra i due è insanabile:
essi rappresentano l'alternativa radicale, che si annida nel cuo-
re di ogni uomo e rende tragica la sua esistenza. Fra le due op-
zioni non c'è via di mezzo, soluzione conciliatoria: Vaut-aut è
senza remissione, totale. «L'uomo è un essere tragico in quanto
appartiene non solo a questo, ma anche all'altro mondo. Per un
essere tragico che, come l'uomo, ha in sé l'eternità, l'organiz-
zazione finale, la stabilità, la felicità sulla terra sono possibili
solo mediante la rinuncia alla libertà, all'immagine di Dio che
è in lui. I pensieri dell'uomo del sottosuolo, passando attraver-
so il fuoco di tutte le tragedie di Dostoevskij, si sono tradotti
in nuove rivelazioni del cristianesimo. La Leggenda del Grande
Inquisitore è la rivelazione dell'uomo, intimamente legata alla
rivelazione di Cristo»70. Ecco perché è in ultima analisi nel mi-
stero del Dio crocifisso che la profonda tragicità dell'esistenza
umana è rivelata a se stessa: se Dio ha fatto sua la morte, pa-
gando fino in fondo il prezzo della libertà, la via della croce re-
sterà per sempre su questa terra la via della libertà. E tuttavia,
proprio perché l'amaro calice è stato bevuto fino all'ultima goccia
dal Figlio eterno, sarà questa stessa la via che porterà alla vita.

69
Un'interpretazione complessa della Leggenda, «attualizzante» in rapporto alla
storia della cristianità russa e occidentale, è offerta da V. Rozanov, La leggenda del Grande
inquisitore, Genova 1989 (l'originale apparve a Pietroburgo nel 1894).
70
N. Berdjaev, La rivelazione dell'uomo nell'opera di Dostoevskij, o.c, 69.

Ili
4.

ANTROPOLOGIA APERTA

4 . 1 . NATURA E G R A Z I A

a) La questione del «soprannaturale»

La questione del rapporto fra natura e grazia tocca in pro-


fondità la concezione cristiana dell'uomo *: come tale essa ap-
partiene alla più originaria fede rivelata, anche se è stata posta
relativamente tardi nei termini, divenuti poi usuali, della rela-
zione fra il «naturale» e il «soprannaturale». È lo stesso oriz-
zonte storico-salvifico dell'alleanza fra Dio e l'uomo che fonda
l'esigenza di precisare il ruolo della condizione umana nei con-
fronti dell'avvento, gratuito e sorprendente, dell'iniziativa di-
vina: la novità improgrammabile ed indeducibile della salvezza
operata dalla grazia si costruisce sulle rovine dell'uomo o incontra
nell'essere creaturale una preparazione e un'attesa? L'antropo-
logia davanti al mistero dell'Assoluto che visita la storia è sol-
tanto «negativa», chiusa in se stessa e inospitale a causa del tra-
gico rifiuto del peccato, o, nonostante la sua fallibilità e la dram-
maticità dell'esperienza del male, l'uomo conserva un certo de-
siderio di Dio, una inespressa o esplicita nostalgia del Totalmente
Altro?
La risposta che si dà a queste domande non è senza conse-
1
Nell'ambito della vastissima bibliografia sul tema del rapporto fra natura e gra-
zia cf. specialmente: J. Alfaro, Cristologia e antropologia, Assisi 1973 (in particolare
i capitoli II, VII e Vili); Id., Natura e grazia, in Sacramentum Mundi V, Brescia 1976,
577-588; F. Ardusso, Natura e grazia, Brescia 1970; L. Boff, A graca libertadora no munào,
Petrópplis 1976; E. Brunner, Natur und Gnade, Tiibingen 1935; H. de Lubac, Surna-
turel. Études bistoriques, Paris 1946; Id., Il mistero del soprannaturale, Bologna 1967;
Id., Agostinismo e teologia moderna, Bologna 1968; G. Muschalek, Creazione e alleanza
come problema dì natura o grazia, in Mysterium Salutis, IV, Brescia 1970, 194-209; K.
Rahner, Rapporto tra natura e grazia, in Id., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma
19692, 43-77; Id., Natura e grazia, ivi, 79-122; A. Rizzi, Creazione e grazia, in Enci-
clopedia di Teologia Fondamentale, I, Genova 1987, 653-703; M. J. Scheeben, Natur
und Gnade, Mainz 1861, Freiburg 19415.

112
guenze per la comprensione dell'esistenza umana e della respon-
sabilità etica della creatura davanti al Creatore e davanti alla
storia: se si dovesse affermare una sorta di totale estraneità fra
l'ordine della natura e quello della grazia, la salvezza sperimen-
tata in Gesù Cristo rischierebbe di ridursi ad un di più facolta-
tivo ed irrilevante; se al contrario si ammettesse un più o meno
esplicito immanentismo della grazia, per cui essa non farebbe
altro che esplicitare e completare ciò che è già potenzialmente
presente nella natura, la novità dell'Avvento apparirebbe com-
promessa ed in fondo superflua. Fra estrinsecismo e naturali-
smo, fra opposizione e confusione della natura e della grazia,
il confine finisce con l'essere più sottile di quanto possa appari-
re: entrambi svuotano il significato ultimo dell'avvento divino
per l'esodo umano; entrambi riducono la condizione dell'essere
creato entro i propri confini, o allontanando troppo la trascen-
denza dell'Alterità divina, o consumando la confusione del mi-
stero dell'Altro con le potenzialità nascoste nel protagonista uma-
no della storia.
Non meraviglia perciò che la questione del «soprannatura-
le» sia nata dall'intenzione di salvaguardare l'originalità e la no-
vità del cristianesimo di fronte alle tentazioni dei vari riduzio-
nismi storici: è la volontà di affermare la trascendenza e al tem-
po stesso l'immanenza della grazia nell'uomo, che spinge a for-
mulare i concetti di «natura» e di «sovrannatura» nei loro reci-
proci rapporti. Si potrebbe perfino affermare che quella che è
stata la questione cristologica dei primi secoli cristiani, e cioè
l'esatta definizione del rapporto fra l'umano e il divino nell'u-
nità del Verbo incarnato, diviene nell'orizzonte dell'emergente
interesse antropologico del secondo millennio, soprattutto in Oc-
cidente, la questione del rapporto fra natura e grazia. L'appas-
sionata ricerca del «soli Deo gloria», costitutiva della fede nella
sua irriducibile originalità, viene così ad offrire il suo contribu-
to per rivelare l'uomo a se stesso: il desiderio di celebrare la
gratuità della grazia porta a precisare le sufficienze, le resisten-
ze e le aperture della «natura» umana. I «diritti del soprannatu-
rale» rispetto all'umana «impazienza dei limiti» divengono la
sfida a pensare fino in fondo il mistero dell'uomo: «Non è il
soprannaturale che si spiegherebbe attraverso la natura, alme-
no come postulato da essa: al contrario, è la natura che si spie-
ga, agli occhi della fede, attraverso il soprannaturale, come vo-
luta per esso. "E il fine che è primo e che richiama e recluta

113
i mezzi" (P. Claudel)»2. Peraltro, è convinzione originaria del-
la fede che non è la conoscenza a illuminare il Mistero, ma il
Mistero a illuminare la conoscenza, e questo anche ed in pro-
fondità quando è in questione la verità sull'uomo: «In realtà so-
lamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mi-
stero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di
quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo
Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore,
svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua al-
tissima vocazione»3.
La questione del rapporto fra natura e grazia viene allora
a porsi nei termini dell'interrogativo radicale se l'uomo sia o
meno «destinato» alla grazia. L'essere naturale è necessariamente
chiamato a realizzarsi nell'accoglienza del dono di Dio? o è con-
cepibile — sia pur ipoteticamente — un ordine naturale auto-
sufficiente sul piano dei fini e dei mezzi, in grado di conservare
la sua dignità e consistenza anche prescindendo dall'apertura
e dall'incontro col mondo della grazia? e — dal punto di vista
dell'attenzione al mistero di Dio — come verrebbe salvaguar-
data la trascendenza e la gratuità del dono divino, se esso fosse
necessariamente destinato all'uomo? che Dio sarebbe quel Dio,
condizionato e determinato ad agire dal bisogno della sua crea-
tura, e perciò privo di libertà? e un Dio che agisse senza libertà
potrebbe ancora dirsi il Dio Amore, caratterizzato dalla puris-
sima gratuità del suo agire?
Non c'è dubbio che ogni risposta a questi interrogativi, che
sacrificasse l'assoluta libertà dell'iniziativa divina, contrasterebbe
con la convinzione — decisiva per la fede rivelata — dell'asso-
luta presupposizione di Dio rispetto a ogni essere e operare crea-
to: Deus semper prior et semper maior! Dio non è a misura del-
l'uomo: la sua sovranità e trascendenza, la libertà e gratuità del
suo agire per noi, sono il fondamento saldo con cui sta o cade
la certezza del suo essere Amore, rivelata fino alla profondità
dello scandalum Crucis. Proprio dove appare la suprema imma-
nenza dell'Amore — nell'abbandono cioè del Figlio crocifisso
al posto nostro e per noi — si mostra anche l'assoluta trascen-
denza e libertà dell'atto col quale l'Eterno ci ha amati: «Non
siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha
2
H. de Lubac, Il Mistero del Soprannaturale, o.c, 132.
' Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contem-
poraneo Gaudium et Spes, 22.

114
mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri
peccati» (lGv 4,10). E questa certezza della fede che ha voluto
ribadire l'enciclica Hutnani generis di fronte ai rischi dell'imma-
nentismo della modernità, affermando che «si compromette la
vera "gratuità" dell'ordine soprannaturale, quando si ritiene che
Dio non avrebbe potuto creare esseri dotati di intelligenza, senza
al tempo stesso ordinarli e chiamarli alla visione beatifica» 4. In
positivo l'affermazione intende ribadire la gratuità del «sopran-
naturale» e l'assoluta libertà dell'iniziativa d'amore, per la qua-
le Dio chiama l'uomo alla comunione con sé nella pienezza del-
la visione beatifica.

b) Al dì là degli «ordini separati»

E Henri de Lubac il pensatore che ha fatto della questione


del rapporto fra natura e grazia l'oggetto centrale della sua ri-
cerca storica e sistematica5: nonostante le incomprensioni e al
di là degli entusiasmi suscitati, è stato merito indiscutibile del
teologo di Cambrai l'aver mostrato l'insostenibilità della dot-
trina degli «ordini separati» della natura e della grazia, a favore
di una visione unitaria del piano di Dio per la storia, capace
di abbracciare creazione e redenzione senza sacrificare da una
parte l'autonomia del mondano, dall'altra la gratuità della gra-
zia. Neil'assolvere a questo compito de Lubac recepiva in teo-
logia le intuizioni filosofiche di Maurice Blondel relative al punto
di incontro fra naturale e soprannaturale, maturate grazie al «me-
todo d'immanenza» applicato nell'analisi del dinamismo intrin-
seco allo stesso agire umano. Nell'azione l'uomo oltrepassa se
stesso e si apre a ciò che al tempo stesso gli è del tutto impossi-
bile ed assolutamente necessario: «Tutto in noi e fuori di noi
esige "l'unico necessario"»6. Il «soprannaturale» non è estrin-
4
Enciclica Humanì generis (12 agosto 1950): «Alii veram "gratuitatem" ordinis
supernaturalis corrumpunt, cura autument Deum entia intellectu praedita condere non
posse, quin eadem ad beatificam visionem ordinet et vocet»: DS 3891.
5
In particolare nelle opere: Sumaturel, Paris 1946; Le Mystère du Sumaturel, Pa-
ris 1965 (tr. it.: Il Mistero del Soprannaturale, cit.); Augustinisme et théologie moderne,
Paris 1965 (tr. it.: Agostinismo e teologia moderna, cit.). I due volumi apparsi nel 1965
costituiscono una «retractatio» di Sumaturel nel senso «agostiniano» di un'ulteriore pre-
cisazione e sviluppo delle tesi di fondo: cf. quanto scrive lo stesso de Lubac in II Miste-
ro del Soprannaturale, 75-78, nonché l'approfondita e serena presentazione del «passag-
gio» fatta da J. Alfaro, Cristologia e antropologia, o.c, 294-332.
° «Tout en nous et hors de nous exige "l'unique nécessaire"»: M. Blondel, L'Ac-

115
seco al mondo dell'azione, ma è come invocato da esso quale meta
ultima e superamento assoluto, anche se nella sua permanente
irriducibilità alla pura presa della nostra «esigenza». Compren-
dere l'articolazione e la profondità di questa «exigence» imma-
nente all'uomo ed insieme riconoscere la gratuità del dono che
la soddisfa è il progetto cui de Lubac lavorerà nelle sue indagini
di storia della teologia e nelle conclusioni sistematiche che ne trar-
rà, al servizio di un cristianesimo aperto alle domande dell'uo-
mo e di un'antropologia ospitale nei confronti del Mistero.
La tesi storica dimostrata da Henri de Lubac è che l'idea
della separazione fra naturale e soprannaturale, spinta fino a
un vero e proprio reciproco «estrinsecismo», è tutt'altro che tra-
dizionale nel pensiero cristiano: anticipata terminologicamente
ed, in parte, nella posizione dei problemi dalla ricerca di san
Tommaso d'Aquino, tesa a definire la consistenza della natura
— da lui assimilata dalla filosofia aristotelica — nell'orizzonte
del primato della grazia7, la questione del «soprannaturale» si
rapporterà al concetto di «natura pura» soltanto molto dopo,
nell'ambito della polemica antibaiana, volta a riaffermare la piena
gratuità del mondo della grazia, che sembrava appunto negata
dalla concezione proposta da Baio dello stato presente dell'u-
manità decaduta, come necessariamente destinato al soccorso
esteriore dell'azione divina. «Uno dei motivi principali che ha
spinto la teologia moderna a sviluppare la sua ipotesi della "na-
tura pura", fino a metterla alla base di tutta la sua speculazio-
ne sul fine ultimo, fu la preoccupazione di assicurare la piena
gratuità del soprannaturale, contro le deviazioni, che essa con-
statava, dell'agostinismo»8. È così che la teoria della «natura
pura» compare propriamente nel secolo XVI, come osserverà
significativamente lo stesso Suarez: «Cajetano e i teologi più
moderni (modemiores) presero in considerazione un terzo sta-
to, da essi chiamato puramente naturale, che, sebbene di fatto
non sia esistito, tuttavia può essere pensato come possibile»9.
Scopo di questa «nuova teologia» era quello di sottolineare il

tion. Essai d'une critique de la vie et d'une science de la pratique, Paris 1893, 344 (nuova
trad. it. di S. Sorrentino, Milano 1993). Sui rapporti fra de Lubac e Blondel et. la do-
cumentata ricerca di A. Russo, Henri de Lubac: teologia e dogma nella storia. L'influsso
di Blondel, Roma 1990.
7
Cf. la terza parte di Surnaturel, Aux origines du mot «surnaturel», 323-428.
8
II Mistero del Soprannaturale, o.c, 79.
9
Suarez, De gratia, Proleg., 4, e. 1, n. 2, citato in H. de Lubac, Surnaturel, o.c,
105s.

116
valore della grazia come del tutto «indebita» rispetto alla natu-
ra {indebitum naturaé): concepire l'uomo in purìs natumlibus, nei
confini precisi ed esclusivi di ciò che è dovuto alla sua natura,
appariva la miglior difesa della novità sorprendente e indeduci-
bile rappresentata dal soprannaturale.
L'intenzione pia non tardò però a produrre frutti corrotti:
l'insistenza sull'autonomia e l'autosufficienza sia pur limitata
dell'ordine naturale fece sì che fra di esso e l'ordine della gra-
zia venisse sempre più concepito un rapporto di avvilente estra-
neità, che si allontanava clamorosamente dallo spirito della gran-
de tradizione cristiana. «Per un tomista ardente, ma realmente
infedele, qual è su questo punto il Cajtano, "la natura raziona-
le è un tutto chiuso, nel quale le tendenze e le capacità attive
si corrispondono rigorosamente": Naturale desiderium non se ex-
tendit ultra naturaé facultatem. Ecco il suo principio; e sarà que-
sto il principio di tutta una scuola moderna. Un tal principio
... è l'effetto di un regresso, rispetto a san Tommaso e al suo
secolo, nella comprensione dello spirito, come è un crollo dello
slancio, che la filosofia cristiana aveva conosciuto»10. Certa-
mente, la teoria della «pura natura» contribuì a difendere i di-
ritti di un sano umanesimo contro il pessimismo antropologico,
che alcune tendenze della Riforma andavano seminando: allo
stesso tempo, però, essa favorì un progressivo estraneamento
dell'esperienza spirituale dall'impegno storico e, parallelamen-
te, il processo di una crescente laicizzazione, concepita in alter-
nativa alla visione dell'uomo fondata nel Trascendente. «Vo-
lendo proteggere il soprannaturale da ogni contaminazione, lo
si era, di fatto, esiliato fuori dello spirito vivente e della vita
sociale, e il campo restava libero all'invasione del laicismo»11.
La stessa idea della grazia, ridotta al concetto di «indebitum
naturaé», venne sempre più intesa nei termini di un «superad-
ditum», di un elemento sovrapposto ed estrinseco rispetto ai
dinamismi più profondi dell'essere umano, senza risalire alla ra-
gione ultima della sua gratuità, che la rende irriducibile alla na-
tura, e che è la sovrabbondanza della vita divina. Infine, il rap-
porto della creatura razionale al soprannaturale venne spesso
ridotto a una mera non contraddizione o «non repugnantia»,
in una forma del tutto incapace di rendere ragione della bellez-

10
II Mistero del Soprannaturale, o.c, 187.
11
Ib., 9.

117
za dell'universo della grazia e della nostalgia di esso presente
nel cuore dell'uomo. Non si fatica a riconoscere che «superare
questo estrinsecismo sembra essere una vera e genuina esigen-
za della teologia»12.
Secondo Henri de Lubac, peraltro, questo estrinsecismo fra
natura e grazia è contrario all'intera tradizione cristiana: «Tut-
ta la tradizione, in realtà... da sant'Ireneo, attraverso sant'A-
gostino e san Tommaso come san Bonaventura, senza distin-
zione di scuole, ci trasmette allo stesso tempo queste due affer-
mazioni, non antagoniste ma solidali: l'uomo non può vivere
che per la visione di Dio, e questa visione di Dio dipende asso-
lutamente dal beneplacito di Dio»13. Occorre allora superare
la dottrina teologica della «natura pura» per recuperare l'idea
antica e sempre attuale dell'unità del disegno divino, che ab-
braccia creazione e redenzione: ritornando alla buona novella
del Dio Amore, si tratta di ripensare il problema del rapporto
fra la natura e la grazia come quello delle condizioni di possibi-
lità dell'incontro vivificante dell'uomo con l'autocomunicazio-
ne dell'Amore divino. «Dio vuol comunicarsi, effondere il suo
amore, che è egli stesso. Questo è il primo e l'ultimo intento
dei suoi piani reali e perciò anche del suo mondo reale. Tutto
il resto esiste, perché possa esistere quest'unica realtà: l'eterno
miracolo dell'amore infinito. E così Dio crea colui, che egli può
amare: l'uomo. Lo crea in modo che possa ricevere l'amore, che
è lui stesso, e contemporaneamente lo possa e lo debba ricevere
quale è: il miracolo eternamente sorprendente, il dono inatteso
e indebito»14. In altre parole, il superamento della separazio-
ne di naturale e soprannaturale va effettuato anzitutto riferen-
dosi all'effettiva realtà della storia della salvezza, che rivela la
corrispondenza fra l'originario atto creatore e la pienezza del-
l'atto redentore, in modo che l'uomo — creato per pura gratui-
tà dall'Amore eterno — sia da questo stesso Amore destinato
a ricevere l'autocomunicazione, assolutamente libera e gratui-
ta, del Dio vivo negli eventi pasquali.

12
K. Rahner, Rapporto fra natura e grazia, o.c, 52.
13
11 Mistero del Soprannaturale, o.c, 236.
14
K. Rahner, Rapporto tra natura e grazia, o.c, 64s.

118
c) L'unità del «mistero»

L'orizzonte dell'alleanza, il cristocentrismo della salvezza,


il grembo delle relazioni trinitarie, in cui la creatura è chiamata
ad esistere e di cui è chiamata a partecipare per ulteriore e sor-
prendente dono di grazia, escludono ogni dualismo fra un ordi-
ne della natura, in sé chiuso ed autosufficiente sia pur se nei
suoi limiti, e un ordine della grazia, che sarebbe semplicemente
aggiunto dall'esterno ad esso. Il «solus Christus» paolino esige
l'unità del «mistero», la concentrazione di tutte le vie di Dio
e dell'uomo voluto da Lui nella densità del patto d'alleanza, posto
nel sangue del Figlio e nell'effusione dello Spirito. E poiché di
fatto questa «historia salutis» è l'unica storia reale che — pur
fra resistenze e cadute — gli uomini vanno scrivendo in conse-
guenza delle missioni divine nel tempo, non si dà un ordine na-
turale «separato», ma natura e grazia vivono del dinamismo delle
relazioni dell'alleanza gratuita e sorprendente che le lega. Que-
sta condizione storica dell'uomo oggettivamente redento — an-
che se l'assimilazione soggettiva della redenzione dipende dai
tempi e dalle scelte della libertà, oltre che dalle occasioni della
grazia — è ciò che Karl Rahner chiama «esistenziale sopranna-
turale»: col primo termine egli intende esprimere la condizione
dell'uomo concretamente esistente in quanto fatto per accogliere
il dono di Dio e da esso avvolto e segnato; col secondo vuol
evidenziare il carattere non deduttivo né programmabile del dono
che compie l'attesa umana, il suo aspetto specifico di evento
della libertà e della gratuità dell'Amore soprannaturale. «L'uo-
mo può fare esperienza su se stesso solo nell'ambito dell'amo-
rosa volontà soprannaturale di Dio, non può presentare la na-
tura in uno "stato chimicamente puro", separata dal suo esi-
stenziale soprannaturale»15.
In altre parole, nel concreto ordine storico l'uomo ha a che
fare solo con la grazia di Dio in Gesù Cristo: se c'è una Parola
di Dio, c'è una capacità di ascolto creata nell'uomo, per la qua-
le egli può essere recettivo della comunicazione divina e deci-
dersi di fronte ad essa nella libertà; se c'è un'alleanza fra l'E-
terno e gli abitatori del tempo, c'è in essi una capacità radicale
ad essere chiamati da Dio ed a rispondere a Lui nell'accoglien-
za o nel rifiuto; se c'è il Dio vivente che viene incontro all'uo-
15
Ib., 72.

119
mo e gli si dona, c'è un esodo umano che è apertura illimitata
dell'essere, infinita autotrascendenza che rende possibile all'uo-
mo di andare incontro all'Avvento. Si potrebbe dire che nel con-
creto ordine storico della salvezza la natura è — in radice —
attitudine all'alleanza, condizione trascendentale di possibilità
della grazia come grazia storicamente offerta all'uomo e da lui
accolta. La fondamentale capacità dell'uomo e la sua libertà da-
vanti all'evento della rivelazione e al dono della salvezza non
sono allora totalmente compromesse dal peccato d'origine: se
lo fossero, non si potrebbe neanche parlare di «nuova allean-
za», perché il partner umano non sarebbe in grado di entrarvi
in condizioni di dignità, e cioè di consapevolezza e di responsa-
bilità. Tuttavia, questa attitudine alla grazia, questo essere «ca-
pax foederis» della creatura umana, è dedotta dal fatto della ri-
velazione e della salvezza offerta in Cristo, non lo fonda in al-
cun modo: non è insomma perché l'uomo è capace e bisognoso
dell'alleanza con Dio, che la grazia viene necessariamente con-
cessa; ma è perché Dio lo ha reso aperto al patto con Lui e gra-
tuitamente ha deciso di offrigli se stesso, che l'essere umano
viene rivelato nelle sue aperture trascendentali alla grazia16.
Nella prospettiva di una teologia del soprannaturale fondata nella
storia della salvezza la «natura» è rivelata all'uomo non meno
che il mistero della grazia!
A partire dall'orizzonte storico-salvifico dell'alleanza è dun-
que possibile operare il superamento della dottrina della «natu-
ra pura» e dei due ordini separati a favore dell'unità del disegno
divino di salvezza: la grande tradizione del pensiero cristiano non
si è però fermata alla costatazione di questo dato, ma ha voluto
approfondirlo ulteriormente in direzione di una più profonda in-
telligenza dello spirito umano e del suo rapporto col soprannatu-
rale. E così che sono state elaborate l'idea della «potentia oboe-
dientialis» e quella del «desiderium naturale videndi Deum».
La prima si serve di un singolare incontro delle categorie
aristoteliche con quelle bibliche per interpretare l'attitudine della
creatura umana alla grazia17. Dall'aristotelismo deriva l'idea di

16
Bisogna riconoscere che questa prospettiva storico-salvifica, cristologica e tri-
nitaria, non è sufficientemente marcata nelle argomentazioni di H. de Lubac: è questo
uno dei rilievi critici che gli muove, ad esempio, J. Alfaro, Cristologia e antropologia,
o.c, 308s.
17
Cf. K. Rahner, Potentia oboedentialis, in Sacramentum Mundi VI, Brescia 1976,
406-410, con bibliografia.

120
«potenza»: essa esprime la possibilità, il principio dell'azione,
che ha bisogno di essere attuato per realizzare effettivamente
ciò che è virtualmente. In questo senso, la potenza è la condi-
zione del divenire, la latenza dell'essere, che rimanda all'agen-
te che la ponga in atto. Rispetto alla concezione aristotelica la
meditazione cristiana aggiunge l'idea di «obbedienza», che le
consente di far spazio alla novità e alle sorprese dell'Avvento
divino rispetto alle semplici potenzialità nascoste nell'esodo uma-
no. Così san Tommaso distingue nell'uomo una duplice poten-
za passiva: la prima «in rapporto all'agente naturale; l'altra in-
vece in rapporto al primo agente, che può portare qualunque
creatura ad un atto più alto, al quale non verrebbe portata da
alcun agente naturale; questa potenza è invalso l'uso di chia-
marla potenza d'obbedienza (potentia oboedientiaé) nella crea-
tura» 18. La potenza obbedienziale viene dunque ad esprimere
un passaggio all'atto che non avviene per virtù intrinseca della
potenza stessa, ma per dono gratuito dell'Agente divino, accol-
to con libera obbedienza.
Con questa formula geniale la riflessione credente assume-
va al tempo stesso la metafisica aristotelica e la rivelazione cri-
stiana, rendendo la prima disponibile alla seconda ed alle sue
sorprese. Ed insieme rendeva esplicita un'apertura della crea-
tura in direzione del Creatore, attuata al di là di ogni presup-
posizione e di ogni potenza intrinseca alla natura grazie al do-
no di grazia, accolto con la libera adesione dell'obbedienza del-
la fede. In tal modo il rapporto fra natura e grazia potrebbe es-
sere implicitamente ricondotto alla profondità e complessità mi-
steriosa di una relazione d'amore: «Possiamo rendere umana-
mente comprensibile il concetto della potentia oboedientìalis sulla
base dell'esperienza dell'amore fra due persone: ognuno riceve
l'amore dell'altro come compimento della sua esistenza e cio-
nonostante come il dono gratuito che egli non può pretende-
re»19. L'analogia — applicata al rapporto dell'uomo con Dio
— regge solo per l'aspetto della sovrana libertà che l'amore com-
porta e dell'alterità che esso suppone, ma si ferma ovviamente
lì dove è in gioco la reciprocità, perché nel rapporto con l'Eter-
no questa resta sempre asimmetrica, a favore dell'assoluta e in-
condizionata presupposizione divina.
18
Summa Theologiae III q. 11 a. 1 e. Cf. pure ad esempio De veritate q. 8a 4,
13m (a proposito della conoscenza angelica).
19
K. Rahner, Potentia oboedientalis, o.c, 407.

121
Rimane inoltre aperto il problema di comprendere più in pro-
fondità quale «potenza» sia veramente in gioco nell'uomo davanti
al dono di Dio, cui aprirsi nell'obbedienza: «L'idea del sovrap-
più suppone o implica l'idea di una certa "potenza", d'una cer-
ta apertura congenita dell'essere a questa aggiunta... Se Dio de-
ve un giorno parlare alla sua creatura allo scopo di attirarla a sé,
senza dubbio bisogna che egli l'abbia prima fatta "aperta e in-
terrogativa". Senza dubbio, in altri termini, bisogna che vi sia
già, inserito da Lui in profondità nella costituzione stessa di questa
creatura, vaga e indeterminata quanto si vorrà nella sua capaci-
tà, e che avrebbe potuto restar per sempre nascosto, come un
duplice appello: quello dell'iniziativa divina e quello che scaturi-
sce dalla creatura come una prima risposta naturale»20. In che
consiste però propriamente questo appello nella costituzione stessa
dell'uomo? E qui che l'idea della «potentia oboedientialis» si ri-
vela bisognosa di un'ulteriore illuminazione: «Per san Tommaso
la sola idea di "potenza obbedienziale", che non è stata conce-
pita per esprimere la condizione in cui il dono di Dio ci mette
di poter divenire figli di Dio, ma per render conto della possibi-
lità del miracolo, non basta affatto a definire il rapporto della
natura umana col soprannaturale. Essa non fa risaltare, come sa-
rebbe necessario, il caso assolutamente originale dello spirito»21.
È possibile cercare un'illuminazione più grande nella dot-
trina del desiderium naturale della visione di Dio. Eco di una
vastissima tradizione, san Tommaso non esita ad affermare:
«L'uomo è stato fatto per vedere Dio: a tale scopo Dio fece la
creatura razionale, affinché fosse partecipe della sua somiglian-
za, che consiste nella visione di Lui»22. «Il fine per cui esiste
la creatura razionale è di vedere Dio nella sua essenza»23. In
maniera concisa, Henri de Lubac — dopo aver richiamato le
più varie testimonianze della tradizione cristiana — afferma:
«La creatura spirituale non ha il suo fine in se stessa, ma in
20
H. de Lubac, Il Mistero del Soprannaturale, o.c, 174s.
21
Ib., 190, Subito dopo de Lubac osserva che invece per il Cajetano essa basta:
anche qui emerge la distanza del grande Commentatore da san Tommaso. Mentre per
questi è evidente l'assoluta originalità della natura razionale, il Cajetano riduce «il caso
della natura umana a un semplice caso di specie nella sua considerazione degli esseri
naturali» (191).
22
De ventate q. 18 a. 1, 5: «Homo factus est ad videndum Deum: ad hoc enim
fecit Deus rationalem creaturam, ut similitudinem suae particeps esset, quae in eius
visione consistit».
23
Ih., q. 8 a. 3, 12. Cf. pure ad esempio q. 10 a. 11, T"": «Intellectus noster fac-
tus est ad hoc quod videat Deum».

122
Dio»24. Ora, se Dio con atto di sovrana libertà ha creato l'uo-
mo destinandolo come suo fine alla visione del Suo volto, sarà
Lui stesso a non privarlo dei mezzi necessari per conseguire la
meta cui lo ha destinato: ecco perché non è dalla presenza del
desiderio di Dio nel cuore umano che si desume la necessità della
grazia, ma dal libero dono di grazia, per cui l'uomo è chiamato
a vedere Dio e soccorso da Lui nel realizzare questa vocazione,
che si comprende la vera natura della creatura umana e il suo
altissimo destino. Dio resta sempre primo e sovrano! «Il desi-
derio stesso non è affatto un "appetito perfetto". Non costi-
tuisce ancora la minima "ordinazione" positiva al soprannatu-
rale. È la grazia santificante, con il suo corteo di virtù teologa-
li, che dovrà "ordinare" il soggetto al suo fine ultimo. Almeno
può essa sola ordinarvelo "sufficientemente", o "perfettamen-
te" o "immediatamente"... Se, dunque, il desiderio è veramente
una "inclinazione naturale", non è per questo una "inclinazio-
ne sufficiente" o "proporzionata"» 25 .
Il desiderio di vedere Dio è dunque nell'uomo, è anzi radi-
calmente l'uomo stesso, e tuttavia non compromette per que-
sto la gratuità della grazia, perché è solo per puro dono che l'es-
sere umano potrà realizzare il desiderio che lo costituisce. Nel-
l'unità del disegno divino si pone allora come una «doppia gra-
tuità» 2é: quella per la quale l'uomo è creato e destinato alla vi-
sione di Dio, e quella per la quale questo desiderio inscritto nel
profondo della creatura è realizzato dal dono della grazia. «Nulla
limita l'indipendenza sovrana del Dio che si dona»27. «Nessu-
na "disposizione" della creatura potrà mai, in nessuna manie-
ra, legare il Creatore»28. L'unità dell'ordine naturale e di quel-

24
H. de Lubac, Il Mistero del Soprannaturale, o.c, 137: vengono citate molte vo-
ci, da sant'Agostino a san Bonaventura, ad Alessandro di Hales, a san Tommaso, per
fare solo dei nomi.
23
Jk, 120s.
26
Cf. ib., 77: «doppia gratuità», «doppia iniziativa», «doppio dono». Cf. pure
115s: «Noi dobbiamo distinguere diligentemente e mantenere una duplice gratuità, un
duplice dono di Dio. Per conseguenza — se è lecito parlare così, designandola non in
se stessa ma attraverso il suo duplice oggetto — una duplice libertà divina».
27
Sumaturel, o.c, 494.
28
II Mistero del Soprannaturale, o.c, 307. Non sembra condivisibile pertanto l'o-
biezione che J. Alfaro continua ad avanzare al de Lubac: «Se si concepisce l'essenza
dell'uomo come desiderio naturale assoluto di vedere Dio, non sì può ammettere logi-
camente altra gratuità che quella della creazione... Non ci resta dunque che constatare
quello che si trova negli scritti di de Lubac: l'affermazione della gratuità propria del
soprannaturale e l'assenza di ogni spiegazione convincente della coerenza di tale affer-
mazione con la sua concezione dello spirito finito»: Cristologia e antropologia, o.c., 329s.

123
lo soprannaturale è fondata non sull'esigenza dell'uomo, ma sul-
l'unicità dell'iniziativa dell'Amore divino, che si differenzia solo
in rapporto alla creatura umana, che è insieme natura e libertà,
desiderio ontologico e volontà spirituale, essere e storia. In una
simile prospettiva, la trascendenza della grazia si incontra con
la sua immanenza, il dono gratuito di Dio con l'attesa radicale
dell'uomo: e l'incontro di natura e grazia si offre come il pieno
compimento dell'essere creaturale, da cui si irradia la bellezza
di un'antropologia aperta allo Spirito e realizzata nell'assenso
della libertà alla libera offerta del dono divino. Dove l'origina-
ria destinazione della creatura diviene auto-destinazione all'E-
terno e il Dio vivo a sua volta gratuitamente si destina ad auto-
comunicarsi in pienezza all'uomo, lì si compie il miracolo del-
l'antropologia soprannaturale. L'eternità entra nel tempo e vi
pone dimora.

4.2. L ' U O M O « I M M A G I N E D I D I O »

a) «Homo capax Dei»

L'uomo è dunque «capace» di tendere alla visione di Dio (ca-


pax Dei), non per le sue forze, ma per la grazia di Colui che
lo ha creato e redento, lo ha destinato a sé e si è donato a lui.
Questa capacità naturale, quest'apertura radicale dell'essere uma-
no in direzione del Mistero assoluto, voluta dal Creatore come
condizione di possibilità dell'elevazione della creatura raziona-
le alla gloria della visione, corrisponde all'idea — cara al pen-
siero dei Padri, che la svilupparono a partire dalla testimonian-
za biblica specialmente di Gen l,26s — dell'uomo «immagine
di Dio»29. Il significato dinamico-concreto dell'espressione bi-
blica risulta già dal fatto che l'uomo è immagine di Colui, che
è irrappresentabile e può esser conosciuto soltanto nel suo agi-
29
Cf. sul tema: L'uomo immagine somigliante di Dio, a cura di A.-G. Hamman,
Milano 1991; J. Gross, La divinisation du Chrétien d'après les Pères Grecs. Contribution
historique à la doctrine de la gràce, Paris 1938j A.-G. Hamman, L'homme image de Dieu.
Essai d'une anthropologie chrétienne dans l'Eglise des cinq premiers siècles, Paris 1987;
G. Langevin^ Capax Dei. La créature intellectuelle et l'intimité de Dieu, Bruges 1960;
V. Lossky, A l'image et a la ressemblance de Dieu, Paris 1967; C. Scanzillo, L'anima
nei Padri dei primi secoli, in Problemi di attualità, a cura di A. G. Manno, II: L'anima,
Napoli 1979, 33-163; W. Seibel, L'uomo come immagine soprannaturale di Dio e lo sta-
to originale dell'uomo, in Mysterium Salutis IV, Brescia 1970, 537-588.

124
re: è perciò sul piano dell'azione storica, dei rapporti concreti,
che la creatura umana può esprimere la sua condizione di im-
magine divina (come sembrano suggerire anche Gen 1,26, col-
legando direttamente all'idea dell'uomo immagine il dominio
sugli animali a lui confidato, e Gen 1,28, dove si parla della
capacità data alla coppia di essere feconda e di moltiplicarsi).
Inoltre, la non rappresentabilità dell'Eterno conferisce alla sua
immagine vivente un carattere al tempo stesso di vicarietà e di
permanente incompiutezza: il sottrarsi del Dio vivo ad ogni ten-
tativo di fermarlo in un'icona richiede che l'uomo immagine non
si trasformi mai in idolo, ma sappia incessantemente rimandare
all'ulteriorità del Mistero. Il collegamento fra il dinamismo pro-
fondo attivato nell'essere creaturale dal desiderium naturale della
visione di Dio e la teologia dell'immagine emerge allora abba-
stanza linearmente. Così lo esprime ad esempio san Tommaso,
anche in questo voce di un'ampia tradizione: «L'anima è natu-
ralmente capace della grazia: per lo stesso fatto di essere stata
creata ad immagine di Dio, è capace di Dio per grazia»30.
Come si manifesta e si esercita questa capacità nell'incon-
tro con il dono soprannaturale? come si configura di conseguenza
l'immagine divina nell'uomo in rapporto all'avvento della gra-
zia? La «tesi dualista», legata alla dottrina della «natura pura»
e alla teoria dei «due ordini», aveva finito col mantenere l'azio-
ne della grazia in un marcato estrinsecismo: alla mera non im-
putazione del peccato non veniva a corrispondere alcuna modi-
fica della dinamica spirituale e naturale dell'uomo. Le «dottri-
ne dell'immanenza» — legate ai progetti emancipatori della mo-
dernità — avevano colto unicamente nelle capacità intrinseche
dell'umano il potenziale da esprimere ed attuare nel progresso
della vita personale e sociale. Fra questi due opposti estremi-
smi, che si toccano nella medesima esasperata affermazione del-
l'autosufficienza della natura e della radicale estraneità della gra-
zia, la tradizione credente ha cercato un complesso equilibrio,
espresso nella formula gratta non destruit, sed supponit et perficit
naturarti01.
30
Summa Theologiae I-II q. 113 a. 10. Il tema dell'uomo immagine di Dio è trat-
tato in I q. 93 e nel Prologus della I-II.
31
Cf. E. Przywara, Ver Grundsatz «Grafia non destruit, sed supponit et perficit na-
turam». Etne ideengeschichtliche Interpretation, in Scholastik 17 (1942) 178-186; J. Rat-
zinger, «Grafia praesupponit naturarne, in Id., Dogma e predicazione, Brescia 1974,
137-154; B. Stoeckle, «Gratta supponit naturarne. Geschichte und Analyse eines theolo-
gischen Axioms, Roma 1962.

125
In primo luogo, se la grazia non distrugge la natura, essa
l'assume come oggettivo presupposto della sua azione: il non de-
struit dice che l'interlocutore umano del patto non è annienta-
to, ma entra nel mistero dell'alleanza con Dio in tutta la consi-
stenza e la dignità del suo essere. L'uomo sta davanti all'Eter-
no come chiamato, avvolto da un mistero di destinazione origi-
naria e di gratuita elezione: in quanto tale, egli è anche prota-
gonista, non semplice recettore passivo dell'opera divina in lui.
Se non ci fosse questa consistenza della natura nel suo incontro
con la grazia, la salvezza non entrerebbe in alcun modo nella
storia, perché solo mediandosi storicamente, e perciò assumen-
do le strutture e le forme dell'essere storico, la grazia è tale per
l'uomo. La grazia ha insomma bisogno della natura personale
come suo soggetto storico. Nel non destruit si manifesta allora
il primo significato dell'immagine divina nella creatura umana:
l'uomo non è solo passività, ma iniziativa, consistenza, esisten-
za autonoma, suscitata e rispettata in quanto tale dal gratuito
disegno divino.
L'uomo in tal senso sta davanti al Dio vivente in tutto il
fulgore della sua esteriorità, altro da Dio e perciò potenziale amico
ed alleato di Dio, icona creata del protagonismo increato, ri-
flesso di quell'eterna iniziativa divina, che chiama la creatura
— suscitata dal nulla nella gratuità dell'inizio — a essere a sua
volta inizio, sorgente di relazione e di vita. Dove fosse vanifi-
cato il non destruit, sarebbe anche tolta la differenza fra i mon-
di: l'uomo annientato sarebbe assorbito nell'Assoluto, ma l'As-
soluto stesso sarebbe risolto nella storia in cui viene ad opera-
re. La forma dell'immagine divina, che qui si affaccia nella na-
tura creata, è allora quella del possibile protagonista dell'alleanza,
del «partner» di Dio, che proprio in quanto tale è riflesso di
Colui, cui spetta nel mistero delle relazioni divine ogni iniziati-
va e ogni dono: Dio come Padre, sorgente ultima e perfetta di
ogni esistenza, energia e vita nell'eternità e nel tempo, impri-
me la propria immagine nell'uomo che egli stesso ha voluto per-
ché gli stesse dinanzi in un rapporto di vera alterità ed esterio-
rità, anche se pur sempre di radicale, ontologica dipendenza32.
L'uomo è l'altro davanti a Dio, il destinatario del patto, il chia-
32
Cf. B. Forte, Trinità come storia, Milano 1985, 172-174, e, sul tema dell'uo-
mo immagine del Dio trinitario, 174ss. Per l'approfondimento del tema dell'uomo in
quanto creatura di Dio alla luce di Gen 1-11 cf. Id., Teologia della storia, Milano 1991,
216-226.

126
mato a superare l'abisso della Differenza non nella presunzio-
ne di una identità che tutto catturi, ma nella gratuità di un rap-
porto d'alleanza, che unisca il diverso rispettandone l'alterità.

b) Nello spazio della libertà

In secondo luogo, la grazia suppone la natura: il supponit


aggiunge qualcosa alla consistenza espressa dal non destruit. La
natura non sta davanti alla grazia come semplice presupposto
ontologico, essere personale che diviene il soggetto storico del-
la vita soprannaturale. Nel passaggio dal dato oggettivo dello
stare davanti a Dio come altro da Lui, sia pur se nella dipen-
denza creaturale, all'entrare nella relazione dialogica dell'alleanza,
in cui è donata la vita nuova della grazia, l'uomo deve produrre
un assenso, che lo renda accogliente dell'Altro nella libertà del
patto. In questo senso, la creatura razionale non è solo chiama-
ta a stare davanti al Dio vivente, ma ad esercitare in rapporto
a Lui l'accoglienza o il rifiuto della libertà. Nella densità del
supponit è inteso allora precisamente lo spazio della libera azio-
ne della creatura personale, che può aprirsi con consapevolezza
e responsabilità all'accoglienza del dono soprannaturale, o può
drammaticamente chiudersi in se stessa, in una presunta auto-
sufficienza davanti al Mistero. Se il non destruit presenta l'esse-
re creato come condizione oggettiva di possibilità dell'azione
salvifica dell'Essere eterno nei suoi confronti, il supponit indi-
vidua nello spessore della libertà la condizione soggettiva, quella
grazie alla quale il Dio che ci ha creato senza di noi non ci sal-
verà senza di noi.
In tal senso, l'uomo è icona creata dell'accoglienza increa-
ta, del mistero cioè di Colui che nelle relazioni divine è l'eter-
namente aperto ed accogliente davanti alla Sorgività purissima
dell'amore e della vita. La forma dell'immagine divina che qui
si lascia cogliere è quella della capacità di una libera accoglien-
za dell'Altro come impronta dell'essere personale del Figlio eter-
no, in quanto questi nella libertà eternamente sta davanti al Pa-
dre e si lascia amare da Lui, generare nel processo eterno del-
l'Amore. In questa luce, l'immagine di Dio nella creatura spiri-
tuale si offre nell'aspetto àsVC interiorità, in quanto possibilità
dell'accoglienza e del rifiuto, in cui si definisce nel più profon-
do di sé l'identità del soggetto. L'auto-trascendenza dell'uomo

127
verso l'Assoluto, esercitata nella libertà, si presenta allora co-
me la forma in cui prende soggettivamente corpo il desiderium
naturale della visione di Dio. E l'esercizio effettivo della deci-
sione si offre come la strutturale condizione di possibilità del-
l'inquietudine e dell'angoscia, che segnano l'esistenza umana fin-
ché essa non si realizzi nella piena accoglienza del soprannatu-
rale: «Ci hai fatto per Te ed è inquieto il nostro cuore finché
non riposi in Te» 33 . Il supponit rimanda alla frontiera — tut-
t'altro che indifferente e incerta — fra l'antropologia negativa
e l'antropologia aperta al dono di grazia nella libertà.

e) La dialettica del compimento

Infine, la grazia perfeziona la natura: in base a tutto quan-


to s'è detto sulla consistenza del desiderium naturale e sulla gra-
tuità della grazia, il perficit dell'assioma non può essere inter-
pretato nel senso del semplice compimento delle aspirazioni della
creatura personale. La novità del dono di Dio non può essere
dedotta dalle premesse dell'attesa della natura: ecco perché nel
perficit occorre correttamente leggere un movimento dialettico.
La grazia compie la natura anzitutto in quanto la nega nelle sue
chiusure: il bacio di Dio è «mortale» rispetto a tutte le presun-
zioni di autosufficienza umana. L'incontro con l'avvento inizia
sempre con la chiamata alla conversione a Dio e al cambiamen-
to radicale del cuore e della vita. Nell'idea del perficit sono com-
prese tutte le possibili resistenze umane alla grazia e l'inevita-
bile aspetto di sovversione e di rottura che l'incontro dell'al-
leanza porta con sé. Insieme con questa negazione dell'antro-
pologia, in quanto chiusa all'Eterno, la grazia ne comporta la
piena affermazione: se l'uomo è radicalmente desiderio di Dio,
l'offerta dell'autocomunicazione divina lo realizza al più alto
livello dell'aspirazione del suo essere. Nel perficit sono compre-
se la gioia e la bellezza della vita soprannaturale partecipata al-
la creatura personale, la pienezza di senso che essa soltanto è
capace di dare alla vita dell'uomo sulla terra. Il Dio vivente non
è il concorrente dell'uomo, ma un «Dio di uomini», che ha creato
l'essere personale per la felicità della visione del Suo volto e

33
«Fecisti nos ad Te et inquietimi est cor nostrum donec requiescat in Te»: Ago-
stino, Confessiones I, 1.

128
si rallegra del compimento di questo desiderio ontologico della
creatura.
Il gioco della negazione e dell'affermazione, tuttavia, non
rende ancora la pienezza di senso del perfidi: se il dono che com-
pie l'attesa è e resta gratuito, frutto di una nuova iniziativa della
libertà del Dio amore verso l'essere umano chiamato all'allean-
za, allora esso si presenta come sovversivo e sorprendente an-
che nei confronti dell'antropologia più aperta. In altre parole,
il compimento del desiderio è il suo superamento a un livello,
che il desiderio stesso non avrebbe mai potuto raggiungere: so-
lo a questa condizione è salvaguardato il mistero del sopranna-
turale ed è veramente affermata la «doppia gratuità» di crea-
zione e redenzione. Ed è soltanto così che la vita di grazia, di
cui il cuore umano può avere «nostalgia», si presenta comun-
que incomparabilmente più grande di questa stessa «nostalgia»,
anche se pienamente la sazia. Nel perficit viene a risuonare l'e-
co profonda del dialogo fra Dio e l'uomo posto nella nuova al-
leanza: negazione, affermazione e indeducibile superamento stan-
no a dire la vera e piena alterità dei protagonisti del patto, il
loro reciproco riconoscimento, ma anche l'infinita differenza,
che non viene dissolta, ma mantenuta a un livello nuovo e più
alto nella vita soprannaturale.
Quale forma dell'immagine divina nell'uomo si affaccia al-
lora nel perficit? Se il non destruit evocava la consistenza dell'e-
steriorità, e il supponit l'inesausta attività dell'interiorità libe-
ra, che pone se stessa nella decisione dell'accoglienza o del ri-
fiuto, il perficit dice la permanente correlazione e inabitazione
di esteriorità ed interiorità nella condizione umana. L'esterio-
rità è abitata dall'interiorità ogni qual volta questa si affaccia
verso l'altro o riconosce nel fulgore del suo volto l'irradiazione
della sua interiorità. A sua volta l'interiorità è abitata dall'este-
riorità ogni qual volta accoglie in sé l'altro, in tutto il mistero
della sua esteriorità, e si offre all'accoglienza dell'altro per di-
morare in lui attraversando la barriera dell'esteriorità. L'incontro
d'amore, dove la donazione dei corpi è donazione dei cuori, può
essere indicato come l'espressione più densa di questa recipro-
ca inabitazione dell'interiorità e dell'esteriorità nell'agire uma-
no. Ora, anche nel rapporto alla grazia la natura spirituale sto-
ricamente determinata è chiamata a perdersi nell'Altro, attra-
verso la consegna della propria interiorità per la mediazione del-
l'esteriorità dell'assenso, e ad accogliere l'Altro in sé, lascian-

129
dosi raggiungere dalla presenza dell'Altro e inabitare da Lui at-
traverso il fulgore dell'esteriorità in cui l'Avvento risplende nella
storia.
La chiusura dell'interiorità è così negata nell'accoglienza to-
tale dell'esteriorità trascendente, mentre l'apertura dell'interio-
rità è sommamente colmata nel superamento di ogni barriera
che l'esteriorità poteva costituire nei confronti dell'Altro, ma
è anche realizzata una reciproca più alta inabitazione fra l'inte-
riorità dei «partners» dell'alleanza per la mediazione dell'este-
riorità in cui reciprocamente si donano: «Perciò, ecco, la attire-
rò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore... Ti farò
mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel di-
ritto, nella benevolenza e nell'amore» (Os 2,16.21). In questa
attitudine a vivere il mistero di «nuzialità», in cui esteriorità
ed interiorità si inabitano reciprocamente nella relazione dialo-
gica dell'alleanza, la creatura umana si offre come icona dell'e-
terno mistero di «nuzialità», che è lo Spirito Santo. Come la
Terza Persona divina unisce l'Amante all'Amato ed insieme li
apre al dono comune all'altro, così la sua impronta nell'essere
creato personale fa sì che l'uomo sia radicalmente capace di re-
lazioni dialogali sia con gli altri uomini, che con il Dio vivente.
Il perficit rinvia così alla partecipazione della vita divina dello
Spirito e ai presupposti naturali che rendono questa partecipa-
zione possibile, anche se in nessun modo la fondano o la costi-
tuiscono.
Alla luce di questo complesso rapporto fra natura e grazia
— evocato dall'assioma scolastico Grafia non destruit, sei sup-
ponit et perficit naturam — l'immagine divina nell'uomo viene
dunque intesa in forma dinamico-concreta ed in chiave propria-
mente trinitaria: l'immagine rimanda non ad un archetipo sta-
tico, ma ad un rapporto, alla relazione dialogica di alleanza che
unisce Dio all'uomo. La concezione paolina del Cristo «imma-
gine del Dio invisibile» (Col 1,15) conferma questa interpreta-
zione, perché il Risorto è in persona l'alleanza, che immette la
creatura umana nel vivo delle relazioni divine, facendola parte-
cipe della vita del Dio trinitario. La teologia patristica dell'im-
magine si muove nella stessa direzione, costituendo come lo svi-
luppo analogo di quella che sarà in età medioevale e soprattut-
to moderna la questione del rapporto fra la natura e la grazia:
«Tutti i Padri della Chiesa, sia d'Oriente sia d'Occidente, ve-
dono concordemente nella creazione dell'uomo a immagine e

130
somiglianza di Dio, una coordinazione, un accordo primordiale
fra l'essere umano e l'Essere divino»34. L'azione della grazia
viene così colta in forma dialogica, non soltanto nella gratuità
della sua trascendenza rispetto all'uomo, ma anche nella pro-
fondità dell'immanenza della sua azione all'interno della crea-
tura personale, fino a renderla partecipe della pienezza dell'au-
tocomunicazione della vita divina. Nello stesso orizzonte storico-
salvifico la natura viene considerata nella sua specificità perso-
nale, a partire dal gioco di interiorità ed esteriorità in cui la per-
sona si esprime come soggetto libero e consapevole di storia,
e il mistero dell'elevazione alla vita soprannaturale viene inte-
so come partecipazione dell'essere creato al dialogo delle Per-
sone divine, in cui si realizza la storia eterna del Dio amore.
Ogni estrinsecismo è superato; ogni confusione immanentisti-
ca è rifiutata.
Anche così, però, il mistero della Trascendenza entrata nel
mondo dell'identità e il suo rapporto con l'abisso del cuore uma-
no hanno potuto solo essere debolmente evocati. Valde profun-
dus est ipse homo! E veramente misterioso e nascosto è il nostro
Dio: Vere tu es Deus absconditus, Deus Israel salvator (Is 45,15)!
«Se la natura dell'immagine potesse essere afferrata, non sarebbe
più immagine». «Necessariamente l'immagine di Dio è incom-
prensibile ed invisibile»35. Un abisso chiama l'altro. Il miste-
ro del soprannaturale vuol dire anche questo paradossale gioco
di rimandi: Abyssus abyssum invocat (Sai 42,8)!

4.3. L ' E T H O S DELLA S T O R I C I T À

a) Le virtù morali

«In quanto immagine di Dio, l'uomo è un essere personale


posto di fronte ad un Dio personale. Dio si rivolge a lui come
a una persona e l'uomo gli risponde»36. Questa conclusione di-
venta punto di partenza di un ulteriore approfondimento: se
34
V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967, 105. L'in-
tero capitolo VI di quest'opera (105-125) è dedicato al tema Immagine e somiglianza.
35
Rispettivamente san Gregorio di Nissa, De hominis opificio, e. 11: PG 34,156B,
e san Zenone di Verona, L. 2, tract, 19: PL 11.456B, citati in H. de Lubac, Il Mistero
del Soprannaturale, o.c, 275.
36
V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, o.c, 115.

131
è nell'azione che l'uomo si rivela immagine del Dio invisibile,
ed in modo particolare nelle relazioni dialogiche di cui si intes-
se l'universo dell'alleanza, dove la persona si chiudesse al rap-
porto verso gli altri l'immagine divina risulterebbe compromessa
e offuscata. L'«antropologia aperta», capace di realizzare l'es-
sere umano secondo il desiderio naturale della visione di Dio,
esige un agire dialogico, un continuo impegno per suscitare e
mantenere le relazioni con gli altri, mediante le quali si costrui-
sce la storia. Le condizioni di possibilità di questo agire impe-
gnato si radicano nella struttura di autotrascendenza dell'esse-
re umano, nella capacità che l'interiorità della persona ha di tra-
scendersi verso l'esteriorità dell'altro e di accoglierla liberamente
in sé. L'esercizio effettivo di questa attitudine radicale, teso a
costruire relazioni dialogiche stabili ed autentiche, che riscatti-
no l'uomo dalla prigionia della propria soggettività e lo realiz-
zino come soggetto libero e consapevole di storia veramente uma-
na, si attua mediante il complesso delle virtù morali01.
Queste non riguardano soltanto l'agire transitivo dell'uomo,
attraverso cui la persona si esprime nell'esteriorità modifican-
do la realtà in cui è posta (faceré), ma anche l'attività in cui l'in-
teriorità personale si attua nelle relazioni dialogiche con tutte
le sue possibilità e si pone come principio attivo, anche se non
esclusivo, del proprio orientamento esistenziale (agere). La vir-
tù è insomma il divenire se stessa della persona nella fedeltà al-
l'orientamento radicale del proprio essere, tanto nell'aspetto delle
potenzialità che questo richiede (virtù da vis, forza, potere), quan-
to in quello della continuità e stabilità che il processo della rea-
lizzazione di sé nella storia necessariamente domanda (virtù da
vir, uomo maturo, caratterizzato dalla perseveranza e dalla for-
tezza). Specialmente in questo secondo senso la virtù si offre
come habitus, che non è la semplice ripetitività dell'abitudine, ma
la propensione stabile all'agire secondo l'orientamento profondo
dell'essere personale, una sorta di «attitudine progettuale»38.
37
Una bibliografia ricca ed aggiornata su questo tema è data da J.-C. Wolf, Bi-
bliografia sulla «virtù», in Concilium l'i (1987) 3, 173-179. L'intero fascicolo 3 di Con-
cilium 1987 è dedicato a Valori e virtù in trasformazione.
38
Aristotele, Etica Nicomachea, II (B), 6, 1106b, 36, definisce la virtù efts
irQoctiQtTixfi. L'espressione è variamente tradotta: «ein Habitus des Wahlens» (Rol-
fes), «un abito di proporsi» (Carlini), «a developped state of moral purpose in relative
balance» (Grant), «una disposizione del proponimento» (Plebe), tutte traduzioni da pre-
ferire a quelle che insistono sull'atto elettivo della volontà, come ad esempio «habitus
electivus». Se Aristotele avesse voluto sottolineare l'elemento volontario, avrebbe usa-
to una terminologia corrispondente.

132
Quando la persona acconsente liberamente all'autotrascen-
denza verso il Mistero assoluto e trascendente, perseverando
in questa impostazione radicale della propria esistenza, essa ac-
quista stabilità e vigore, si fa protagonista di storia, e i singoli
atti che pone esprimono e fondano la continuità di relazioni dia-
logiche realizzanti, manifestando l'interiorità dell'essere perso-
nale in atto. La storicità della persona non si edifica allora sol-
tanto nei singoli atti del «fare», ma vive della stabilità dell'age-
re, che abbraccia parole e silenzi, inizi e interruzioni, perma-
nenze e sospensioni, in quanto tutti orientati a stabilire ed ali-
mentare i rapporti di comunione, in cui l'essere personale di-
viene sempre più se stesso. La virtù è l'autopossedersi ordinato
del soggetto libero e consapevole di storia nella varietà e com-
plessità delle relazioni in cui vive, a cominciare da quella fon-
dante verso l'Alterità suprema e trascendente, cui l'orienta il
desiderio della propria natura.
Il complesso delle virtù morali, connesse all'attuarsi della
persona come protagonista della propria storia in relazione agli
altri (il latino mos, morìs dice appunto il costume, la forma abi-
tuale dell'agire in relazione), può essere allora descritto co-
me ethos della storicità: rifacendosi alla doppia etimologia del
termine (come «comportamento» = 'é&os e come «dimora» =
^t?os), l'espressione richiama tanto il fondamento costante
dell'agire, posto nell'orientamento radicale del soggetto perso-
nale, quanto la sua espressione storica negli atti consapevoli e
liberi. La formula suggerisce così l'unità profonda dell'agire per-
sonale, in cui l'interiorità viene a dirsi nell'esteriorità e questa
è assunta nella profondità del cuore che la esprime o l'accoglie.
C'è pertanto una connessione radicale fra le virtù morali, in quan-
to esse rimandano tutte all'essere e all'agire dell'uomo, sogget-
to responsabile di storia. Quest'unità di fondo, che si pone e
si esprime sempre di nuovo nella dinamicità degli atti, oltre che
col concetto di habitus, è espressa con l'idea di medietà, ad esso
collegata: «La virtù è una disposizione del proponimento, con-
sistente nella medietà rispetto a noi stessi, definita dalla ragio-
ne e come l'uomo saggio la determinerebbe. E una medietà tra
due vizi, uno per eccesso, l'altro per difetto; e precisamente,
nientre alcuni vizi sono per difetto, altri per eccesso di ciò che
si deve sia nelle passioni che nelle azioni, la virtù invece trova
e
sceglie il giusto mezzo. Perciò, secondo la sua essenza e se-
condo la ragione che stabilisce la sua natura, la virtù è una me-

133
dieta, ma, rispetto al bene e alla perfezione, essa è al punto più
elevato»39. Con l'idea di «giusto mezzo» la virtù è definita nel
suo carattere permanentemente tensionale e relazionale, e per-
ciò nel suo essere propriamente storico: inserita in una rete di-
namica di relazioni e di possibilità ad esse connesse, la persona
è chiamata a porsi nell'atto della decisione responsabile secon-
do l'orientamento della sua natura, correlando i mezzi al fine
ultimo e determinando la via concreta e storica in cui, fra op-
poste possibili cadute, il proprio divenire si esprima in confor-
mità al proprio essere destinata all'Eterno.
La connessione, che struttura il complesso delle virtù mo-
rali, si fonda dunque in profondità sull'apertura dell'essere per-
sonale verso la trascendenza: si potrebbe affermare che l'ethos
della storicità consiste nel vivere consapevolmente ciò che si è
per natura, e cioè l'orientamento dinamico di tutta la propria
esistenza all'altro da sé, che in ultima analisi è l'Alterità som-
ma, il Trascendente assoluto. Le virtù morali esprimono la con-
naturalità della persona al Bene supremo e personale, e consi-
stono perciò nel possesso libero e consapevole del desìderium na-
turale della visione di Dio: e questo anche quando il termine
ultimo della tensione dell'essere umano non fosse esplicitamente
riconosciuto nel volto del Dio personale. E qui che le virtù mo-
rali mostrano la loro differenza dalle virtù cosiddette teologali:
le prime appartengono totalmente al mondo dell'esodo, le se-
conde sono proprie dell'esperienza dell'avvento; le prime espri-
mono l'autotrascendenza naturale dell'uomo, le seconde sono
frutto dell'iniziativa e del dono dell'Eterno. Le virtù morali strut-
turano un'antropologia aperta e orientano la temporalità verso
il suo trascendimento ultimo; le virtù teologali esprimono un'an-
tropologia di grazia, in cui l'avvento divino prende corpo nelle
forme e nei dinamismi dell'esodo umano. La distinzione, tutta-
via, non implica separazione: si può anzi affermare che grazie
alle virtù morali l'essere personale si dispone alla grazia, realiz-
zando ordinatamente e nella libertà l'apertura consapevole del
desiderio naturale di Dio verso l'effettivo e gratuito compimento
dell'autocomunicazione dell'Eterno vivente e personale. L'ethos
della storicità viene così a costituire il luogo di inserzione del
dinamismo della vita soprannaturale nella temporalità, la porta

39
Aristotele, Etica Nìcomacbea, II (B), 6, 1106b-1107a: tr. di A. Plebe, Bari
1990, 39s.

134
in cui il regno della gloria viene a parteciparsi nella provviso-
rietà della storia.

b) La «morale autonoma»

In questo senso è legittimo — proprio nella prospettiva di


un'antropologia aperta al Trascendente — parlare di una «mo-
rale autonoma»40: la possibilità di una simile prospettiva cor-
risponde sul piano dell'ethos a quello che sul piano dell'essere
è l'affermazione di un ordine della natura sufficiente a se stes-
so, capace cioè di realizzarsi nell'ambito di un fine proporzio-
nato. Come il riconoscimento della possibilità di un simile or-
dine fa risaltare la libertà e la gratuità della grazia, così l'affer-
mazione dell'autonomia morale mette in luce la novità e gra-
tuità dell'etica teologale, proprio nel sostenere «la razionalità
della realtà come fondamento del morale» e nel supporre «un
senso permanente grazie al quale soltanto si può spiegare la fi-
ducia originaria che tutti abbiamo in questa realtà»41.
Anche qui tuttavia il problema di evitare ogni estrinsecismo
della grazia rispetto alla natura si affaccia prepotentemente: né
il rischio sembra evitato lì dove la novità dell'avvento viene li-
mitata all'offerta di un «nuovo orizzonte di senso» o al ruolo
di «spingere ad oltrepassare il minimum etico espresso dalle nor-
me e in genere il grado di crescita morale raggiunto, in direzio-
ne di una configurazione dell'esistenza umana che sia migliore
e, al limite, di livello etico elevato»42. Non si confina così l'e-
sperienza della grazia in un eventuale andare «oltre il moral-
mente prescritto»? e non è parimenti un ridurre la dignità del-
l'antropologia aperta il restringerla ad un possibile «minimo eti-
co»? L'unità del piano divino non esige un'integrazione più pro-
fonda della legittima autonomia della morale nell'orizzonte del
compimento del desiderio naturale di vedere Dio? Forse, pro-
prio un'etica delle virtù morali può costituire il punto di aggan-
cio fra le esigenze di un comportamento morale fondato auto-
nomamente e la chiamata di ogni uomo al soprannaturale, gra-

40
Cf. specialmente A. Auer, Morale autonoma e fede cristiana, Milano 1991; S.
Bastianel, Autonomia morale del credente. Senso e motivazioni di un 'attuale tendenza teo-
logica, Brescia 1980; O. Bernasconi, Morale autonoma ed etica della fede, Bologna 1981.
41
A. Auer, Morale autonoma e fede cristiana, o.c, 33s.
42
I"é„ 219s.

135
tuitamente offertogli nel dono dell'avvento. L'incontro con la
grazia non vanifica le diverse forme del bene umano, le suppo-
ne anzi e solo così le supera: anche in campo morale gratta non
destruit, sed supponit etperficit naturami La figliolanza non si edi-
fica a danno della creaturalità, ma l'assume in tutte le sue aper-
ture e la dischiude alla pienezza dell'amore filiale: le virtù teo-
logali, dono dell'avvento divino nella vita dell'uomo, non con-
traddicono, suppongono anzi ed esaltano le virtù umane.
La ricerca di un corretto equilibrio fra autonomia ed aper-
tura al Trascendente nelT agire morale richiede di sviluppare una
piena conoscenza di se stessi e delle proprie potenzialità: l'in-
telligenza dell'essere personale, la lettura in profondità dei suoi
dinamismi e delle sue strutture, com'è la coscienza maturata in
concreto nella complessità delle relazioni dialogiche che fanno
la storia di ciascuno, appaiono premessa indispensabile ad un
comportamento moralmente responsabile. U ethos della storici-
tà richiede maturità intellettuale, crescita nella conoscenza, ap-
prendimento ed esercizio di itinerari di coscientizzazione e di
esperienza sapienziale della verità inscritta nell'essere della per-
sona: senza questa coscienza storica, nutrita di riflessione ra-
gionata su se stessi e sul proprio agire, le virtù morali, anche
esercitate, potrebbero ridursi a inerzia e passività, incapaci di
aiutare il soggetto a farsi protagonista consapevole e libero di
una vicenda pienamente umana. L'intelligenza legge nel pro-
fondo (intus-kgit) i dinamismi del desiderium naturale e collega
fra loro {inter-legit) i diversi aspetti della realtà e dell'universo
personale, consentendo di stabilire la rete di relazioni dialogiche
in cui la persona si realizza e si dispone ad entrare nell'alleanza
con Dio in modo pienamente partecipe e costruttivo. In questo
senso, le virtù morali crescono con la crescita della totalità del-
l'essere personale, non solo nell'ambito dell'amore, ma anche in
quello del sapere intellettuale e della consapevolezza adulta di
se stessi, delle proprie potenzialità e dei propri limiti43.

e) L'ethos e il tempo

In questo quadro di sviluppo integrale dell'antropologia nelle


sue aperture alla Trascendenza, cui è naturalmente destinata,
43
Cf. la trattazione che san Tommaso fa delle «virtù intellettuali», ad esempio
nella Summa Tbeologiae I-II q. 57.

136
le virtù morali appaiono in tutta la loro valenza di elemento por-
tante e necessario alla piena edificazione dell'esistenza perso-
nale. La tradizione platonico-aristotelica identifica in quattro
direzioni i dinamismi strutturali dell'ethos della storicità: la sa-
pienza o prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza
{prudentia-ìustitia-fortitudo-temperantia)44. Queste virtù saranno
perciò dette cardinali, evidenziando con questa qualifica il ruo-
lo di «cardine», che ad esse compete nella vita morale della per-
sona umana45. Esse rendono l'uomo capace di orientare la pro-
pria vita secondo il desiderio più profondo dell'essere persona-
le e quindi lo dispongono alla gratuita e sempre sorprendente
autocomunicazione storica del Dio vivente: in questo senso, le
virtù morali costituiscono l'impianto etico che consente agli abi-
tatori del tempo di aprirsi all'Eterno e di accoglierlo in sé. E
pertanto possibile interpretare i quattro «cardini» della vita mo-
rale come attitudini fondamentali, in forza delle quali la stori-
cità della persona, e cioè il suo essere situata in maniera consa-
pevole e libera nel divenire del tempo, si struttura ordinatamente
in vista del fine ultimo, cui il desiderium naturale la indirizza.
La giustizia è la virtù per la quale il soggetto morale accetta
ordinatamente il proprio presente, senza cedere a evasioni di
nostalgia del passato o di presuntuosa anticipazione del futuro:
essa riconosce il realismo della verità sulla persona e sul suo mon-
do relazionale. In tal senso il giusto rende a ciascuno il suo, a
cominciare da se stesso, e non forza la realtà delle cose e delle
situazioni storiche spingendola all'indietro, verso presunti gua-
dagni del passato, o in avanti, verso confini ipotetici e spesso
illusori. Se la giustizia accetta la storicità perché aderisce ordi-
natamente al presente, la fortezza dispone la persona corretta-
mente verso il futuro, liberandola dalla paura del non ancora,
e spingendola ad investire tutte le proprie possibilità in dire-
zione dell'avvenire. E forte chi vive la propria storia senza chiu-
dersi alle sorprese del domani, andando anzi ad esse incontro
con consapevolezza e responsabilità. Grazie alla fortezza l'uo-
mo non cede alla duplice seduzione di chiudersi in se stesso in
44
Cf. ad esempio Platone, Repubblica, IV, 427 E ss: «Credo che se la nostra cit-
ta ha buoni fondamenti, debba anche essere assolutamente buona... e, pertanto, sarà,
evidenternente, sapiente, coraggiosa, temperante e giusta».
45
E merito di sant'Ambrogio l'assunzione delle quattro «virtù cardinali» nell'e-
tica cristiana. Un'organica sistemazione si trova in san Tommaso, Summa Theologiae
1-11 q. 61 a. 2: «Utrum sint quatuor virtutes cardinales». Cf. peraltro l'intera trattazio-
ne sulle virtù in MI, qq. 55-67, nonché IMI qq. 1-170.

137
atteggiamento di difesa verso i rischi del divenire o di avventu-
rarsi sconsideratamente verso il domani ignoto e imponderabi-
le. La persona forte si fa carico con libertà dell'inevitabile sof-
ferenza del divenire, accettandola con fiducia come condizione
necessaria di possibilità della realizzazione del desiderio più pro-
fondo dell'essere creaturale. L'adesione al presente, propria della
giustizia, e l'apertura ordinata al futuro, propria della fortezza,
si uniscono alla consapevole accettazione del proprio passato,
che è caratteristica della temperanza. È temperante chi fa i con-
ti realisticamente con la propria storia evolutiva, senza vivere
l'impazienza di bruciare le tappe, ma facendosi carico con rea-
lismo e umiltà dei pesi del proprio passato, delle potenzialità
espresse e non espresse in esso, degli errori commessi, delle mete
raggiunte. L'uomo temperante non affretta la realizzazione del
desiderio, ma accetta che essa si compia secondo i ritmi e le esi-
genze imposte dalla storia reale da cui proviene, e perciò dalla
somma dei fallimenti, delle possibilità e dei compimenti, da cui
essa è costituita. La virtù della temperanza porta ad evitare la
duplice impazienza, che spinge al troppo o al troppo poco, al-
l'eccesso di accelerazione o di freno nel divenire della persona.
Rispetto alle tre virtù, che situano correttamente il sogget-
to di storia nel divenire, adeguandolo ordinatamente al deside-
rio impresso nella sua natura, la sapienza o prudenza è l'attitudi-
ne che le tiene in equilibrio reciproco, sul piano dell'intelligen-
za e su quello della volontà. In tal modo la prudenza ordina ade-
guatamente le tappe ai fini, i mezzi e gli itinerari allo sviluppo
strutturato secondo il finalismo profondo dell'essere persona-
le: essa esige conoscenza articolata e comprensiva, sapienza nu-
trita di intelligenza e di esperienza. In qualche modo, la pru-
denza riassume le virtù «dianoetiche»46, che regolano la cono-
scenza articolata in rapporti, e, collegandole alle virtù «etiche»,
evita gli eccessi delle singole virtù, che altrimenti potrebbero
diventare difetti. Così, impedendo alla giustizia di assolutizzarsi,
la prudenza la rende disponibile al nuovo, cui apre la fortezza,
e docile alla progressività, cui educa la temperanza. Frenando
la fortezza, le consente di essere realistica verso il presente, unen-
dosi alla giustizia, e consapevole delle resistenze che vengono
dalla storia passata, cui rende sensibili la temperanza. Mode-
46
Così Aristotele chiama le virtù che riguardano la sfera razionale dell'uomo, da
òiàvoia, conoscenza razionale discorsiva, mentre designa come «etiche» quelle che re-
golano la sfera delle passioni: cf. ad esempio Etica Nicomachea, II (B), lss, 1103a ss.

138
rando infine la stessa temperanza, la sapienza o prudenza le im-
pedisce di legarsi troppo alle resistenze passate, aprendola al nuo-
vo nella fortezza e alla verità del presente nella giustizia. In tal
modo l'uomo prudente si forma a vivere in pienezza la storici-
tà, senza fughe in avanti o all'indietro, senza cedimenti alle se-
duzioni di un'antropologia negativa, senza aperture sconside-
rate verso la pur ambita realizzazione del desiderio.
Il complesso articolato delle virtù morali aiuta così la perso-
na ad essere in pieno soggetto consapevole e libero della pro-
pria storia, ordinandola nella corrispondenza profonda al dina-
mismo di autotrascendenza verso il Mistero, che costituisce la
natura stessa del suo essere personale. In tal modo la tempora-
lità è vissuta in pienezza, pur senza chiudersi al possibile av-
vento dell'Eterno, e la fedeltà alla terra si coniuga ordinatamente
alla fedele ricerca del cielo, cui la creatura ultimamente è desti-
nata nella visione di Dio. L'ethos della storicità impedisce di cer-
care l'ultimo saltando sul penultimo ed aiuta a coniugare cor-
rettamente il tempo con l'inquieta apertura al Trascendente. Per-
ciò, l'uomo «naturalmente» onesto, che si sforza di vivere le virtù
morali fino in fondo, è anche il più aperto alle sorprese dell'av-
vento: «Solo quando si ama a tal punto la vita e la terra, che
sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere
alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuovo; solo quando
ci si riconosce sottomessi alla legge di Dio, si può finalmente
parlare anche della grazia, e solo se l'ira e la vendetta di Dio
contro i suoi nemici restano realtà valide, qualcosa del perdono
e dell'amore verso i nemici può toccare il nostro cuore... Non
si può e non si deve dire l'ultima parola prima della penulti-
ma»47. Nell'unità del disegno divino, in cui natura e grazia si
corrispondono, pur se nella reciproca indipendenza e nella so-
vrana eccedenza della gratuità divina, la nostalgia dell'Eterno
non è mai a scapito dell'amore alla storia, a questa terra e a questo
mondo, che Dio ha voluto anzitutto in se stessi e poi, per un'ul-
teriore gratuità, ha chiamato alla sovrana bellezza della comu-
nione con sé:
Se il mondo è tanto bello, se si specchia
la tua pace nei nostri occhi, tu
potrai darci di più in un 'altra vita?

47
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, a cura di E. Bethge, Milano 1988, 225.

139
Perciò tengo così, Signore, agli occhi,
al volto, al corpo che m'hai dato e al cuore
che vi batte; e perciò temo la morte.

Con che altri sensi mi farai vedere


sulle montagne questo cielo azzurro,
e il mare immenso e il sole ovunque acceso?
Metti tu nei miei sensi etema pace,
e non vorrò che questo cielo azzurro.
Chi mai non disse «fermati!» a un momento,
fuor di quello che gli portò la morte,
non lo intendo, Signore; io che vorrei
fermar tanti momenti d'ogni giorno
per farli etemi nel mio cuore. — O questo
«farli etemi» è già morte? — E che sarebbe
allora mai la vita? Ombra del tempo,
illusione del qui, e del laggiù,
e il calcolo del poco e il molto e il troppo
solo un inganno, perché il tutto è il nulla?

Non importa. Sia il mondo ciò ch'esso è,


così diverso, esteso e temporale,
questa terra con quanto in essa cresce
è la mia patria; e non potrà, Signore,
essere la mia patria celestiale?
Uomo sono e la mìa misura umana
per ciò che posso credere e sperare;
se qui fede e speranza in me si fermano,
nell'aldilà me ne farai tu colpa?
Nell'aldilà io vedo cielo e stelle,
anche lassù vorrei essere un uomo:
se ai miei occhi le cose hai fatto belle,
se per esse mi hai fatto gli occhi e ì sensi,
con un altro «perché?» dovrò rinchiuderli?

Tu sei, lo so; ma dove, chi può dirlo?


In me ti rassomiglia ciò che vedo...
Lasciami creder dunque che sei qui.
E quando verrà l'ora del timore
che chiuderà questi miei occhi umani,

140
aprimene, Signore, altri più grandi
per contemplare la tua immensa face,
e la morte mi sia un più grande nascere48.

48
II Cant espiritual è fra le più belle composizioni del poeta catalano Joan Mara-
gali: l'originale, con traduzione castigliana a fronte, è pubblicato in Id., Obra poètica,
Madrid 1984, II, 185s. La traduzione italiana qui riportata è di E. Montale, Tutte le
poesie, Milano 19894, 747s.

141
PARTE SECONDA

L'ETERNITÀ NEL TEMPO


5.

IL MISTERO DELLA GRAZIA

Lo specifico della concezione cristiana dell'uomo viene


espresso dalla teologia della grazia e della giustificazione: essa
dice che l'uomo non è solo e il suo orizzonte non è tutto, e che
l'Altro, davanti al quale sta l'esistenza umana, non è la deva-
stante differenza del nulla, ma la prossimità misericordiosa del
Dio Amore. Il vangelo della grazia proclama che la Trascendenza
assoluta visita il mondo dell'identità e vi dimora, liberandolo
dalla prigionia del soggetto assoluto e aprendolo alla novità in-
deducibile e sorprendente della partecipazione alla più profon-
da vita dell'Eterno, signore del tempo. Perciò la grazia, come
elezione libera e gratuita che Dio fa dell'uomo, comunicando-
gli se stesso e rendendolo partecipe delle relazioni divine, è la
buona novella dell'eternità nel tempo, l'annuncio gioioso della
presenza del nuovo di Dio nell'antico degli uomini, la somma
e il compendio dell'evangelo: «La dottrina dell'elezione divina
è la somma dell'evangelo, perché la miglior cosa che mai possa
esser detta ed intesa è che Dio scelga l'uomo e che egli sia, in
questa maniera, per lui, quegli che ama nella libertà. Questa dot-
trina trova il suo fondamento e la sua pace nella conoscenza di
Gesù Cristo, poiché questi è contemporaneamente il Dio che
elegge e l'uomo eletto... Essa ha come compito di attestare, fin
dal principio, che il punto di partenza di tutte le vie e di tutte
le opere di Dio è la sua grazia eterna, libera e costante»1.
La grazia, come mistero dell'autocomunicazione divina alla
creatura libera e della conseguente partecipazione di questa al-
la vita dell'Eterno, e la giustificazione, come evento e processo
in cui questo dono si compie, sono dunque due aspetti della stessa
storia di Dio nella storia degli uomini, che rimandano entrambi
alla mediazione storica in cui avviene l'ingresso dell'eternità nel

1
K. Barth, La dottrina dell'elezione divina ( = Die Kìrchliche Dogmatik II/2), tr.
A. Moda, Torino 1983, 155 (par. 32).

145
tempo e richiedono perciò di essere considerati insieme con l'in-
tera economìa sacramentale della salvezza. Solo così può essere
evitato ogni idealismo della grazia, ogni sua riduzione a ideolo-
gia, che ignori lo spessore corposo della storia, in cui l'Eterno
viene a mettere le sue tende nel tempo.

5 . 1 . LA G R A Z I A

a) La testimonianza fontale

«Perché grazia? Perché è data gratuitamente. Perché gra-


tuitamente? Perché non furono i tuoi meriti a precedere, ma
i benefici di Dio prevennero te. Gloria dunque a colui che ci
fa liberi»2. Queste parole di Agostino — il «doctor gratiae»
della tradizione cristiana indivisa — mettono in luce il caratte-
re dialogico-personale della grazia, richiamando i protagonisti
dell'incontro salvifico nella specificità irriducibile della loro azio-
ne. Questa caratteristica dinamico-relazionale sarà oscurata dalla
tendenza a cosificare la grazia, invalsa soprattutto in Occiden-
te con lo scopo di esaltarne l'effetto creato, fin quasi a farne
un possesso dell'uomo, e sviluppatasi specialmente dopo l'ac-
centuazione data dalla Riforma all'assoluta iniziativa divina. La
grazia è incontro interpersonale, i cui protagonisti sono il Dio,
che gratuitamente si dona e precede su tutti i fronti l'opera del-
l'uomo, e l'uomo, che non ha pretese o diritti da accampare,
ma è reso libero nell'atto stesso di essere raggiunto e trasfor-
mato dall'azione della misericordia divina. Dio viene prima e
questo suo primato è così assoluto da precedere, accompagnare
e seguire il suo comunicarsi all'uomo. L'uomo è preceduto dal-
l'amore divino, e tuttavia questo divino prevenire non solo non
gli toglie la libertà, ma lo rende veramente libero 3 . Non c'è
2
Sant'Agostino, Enarratio in Psalmum XXX: PL 36,234: «Quare gratia? Quia gra-
tis datur. Quare gratis datur? Quia merita tua non praecesserunt, sed beneficia Dei
te praevenerunt. Illi ergo gloria qui nos liberat».
3
Nell'ambito della bibliografia sul tema della «grazia» cf. fra le opere più recen-
ti: J. Auer, // Vangelo della Grazia. Il nuovo ordine salvifico realizzato da Cristo nella
Chiesa, Assisi 19882; Ch. Baumgartner, La grazia di Cristo, Roma 1966; A. Beni - G.
Biffi, La grazia di Cristo, Torino 1974; L. Boff, La grazia come liberazione, Roma 1978;
T. F. Driver, Patterns of Croce. Human Experience as Word ofGod, New York 1977;
M. Flick - Z. Alszeghy, Il Vangelo della Grazia, Firenze 1964; P. Fransen, La grazia:
realtà e vita, Assisi 1972; Id., Il nuovo essere dell'uomo in Cristo, in Mysterium Satutis

146
dubbio che Agostino esprima nella sua meditazione l'esperien-
za da lui stesso fatta della grazia: proprio in questo egli testi-
monia una fondamentale esigenza ermeneutica, che cioè della
grazia non si può né si deve parlare in maniera statica, quasi
ci si riferisca a un rapporto fra cose, ma sempre e solo in manie-
ra dinamica, rimandando alla permanente eccedenza della vita,
in cui il rapporto fra i viventi resta sempre più ricco di tutte
le sue traduzioni in concetti e parole.
E peraltro questo il modo in cui la rivelazione parla della
grazia: al di là dei singoli termini che ne rendono l'idea nell'An-
tico e nel Nuovo Testamento, è l'intera storia della salvezza che
«racconta» il mistero della grazia. Alla luce della testimonianza
biblica si potrebbe affermare che la grazia è l'autocomunicazio-
ne del Dio vivente alla creatura libera, e quindi è il Dio vivo
nel suo relazionarsi salvifico all'uomo ed è l'uomo in quanto ter-
mine vivente di quest'azione gratuita e misericordiosa dell'au-
todonazione di Dio, cui egli corrisponde con la libertà — ugual-
mente ricevuta in dono — della destinazione di sé all'Eterno.
I termini più frequenti con cui l'Antico Testamento evoca «la
vita nella pienezza divina», che è per esso la grazia4, sono
hesed, che evidenzia la giustizia e la rettitudine dell'agire divi-
no nell'alleanza, ben, che è un «trovar favore agli occhi dell'al-
tro», 'emet, che dice la fedeltà, la sicurezza e la fidatezza del
patto, rahamim, che richiama le viscere materne ed esprime la
compassionevole accondiscendenza di Dio verso la sua creatu-
ra, e sedeq, che rimanda al carattere ordinato e giusto delle re-
lazioni dell'uomo. L'intreccio dei vari significati e l'interscam-
biabilità dei termini mostra come per l'Antico Testamento la
grazia, «se intesa rettamente, non è che una diversa espressio-

9 (IV/III), Brescia 1975, 409-485; A. Ganoczy, Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo
ricevuto. Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia, Brescia 1991; G. Gresha-
ke, Libertà donata. Breve trattato sulla grazia, Brescia 1984; F. Mussner, Lineamenti fon-
damentali della teologia della grazia nel Nuovo Testamento, in Mysterium Salutis 9 (IV/III),
o.c, 29-53; O. H. Pesch, Liberi per grazia. Antropologia teologica, Brescia 1988; O.
H. Pesch - A. Peters, Einfùhrung in die Lehre von Gnade und Rechtfertigung, Darmstadt
1981; G. Philips, L'union personnelle avec le Dieu vivant. Essai sur l'origine et le sens
de la gràce créée, Leuven 19892; K. Rahner, Saggi di antropologia soprannaturale, Ro-
ma 1965; Redenzione ed emancipazione, Brescia 1975; A. Rizzi, La grazia come liber-
ta. Per un'attualizzazione del trattato di antropologia teologica, Bologna 1975; H. Ron-
det, La grazia di Cristo, Roma 1966; J. L. Segundo, Grazia e condizione umana, Bre-
scia 1974.
Cf. H. Gross, La grazia nell'Antico Testamento, in Mysterium Salutis 9 (IV/III),
°-C-, 27 e tutto l'articolo 13-28.

147
ne della salvezza che Dio dona all'uomo»5. Ne sono prova i te-
sti, dove le diverse espressioni usate per indicare il dono di gra-
zia dell'alleanza si illuminano reciprocamente, fino a risultare
quasi sinonimi: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia spo-
sa nella giustizia {sedeq) e nel diritto (mispat), nella benevolen-
za (hesed) e nell'amore {rahamim), ti fidanzerò con me nella fe-
deltà {'emunah) e tu conoscerai il Signore» (Os 2,2ls).
In continuità con questa esperienza di fede ed insieme nel-
l'inaudita novità rappresentata dall'incarnazione del Figlio eter-
no, il Nuovo Testamento presenta la grazia come «l'introdu-
zione, da Dio donata, dell'uomo (e del mondo) nell'evento esca-
tologico di salvezza di Gesù Cristo, evento che è al tempo stes-
so la radicale comunicazione di sé del Dio trinitario. Quest'in-
troduzione si presenta come una "nuova creazione"»6. Se la
tradizione sinottica non pone mai il termine x«ets nel senso
di «grazia» sulla bocca di Gesù, il Dio della grazia si presenta
in lui come il Dio con noi e per noi, e l'avvento del Regno, da
lui proclamato, equivale al fondamentale evento di grazia, che
è la salvezza attesa e donata nell'incontro con lui: «Ora la "gra-
zia" ha un nome»7. In Giovanni è l'idea della vita, veniente
dall'alto ed effusa in pienezza, che equivale alla X^QI-Ì, termi-
ne che ugualmente non si trova sulle labbra del Cristo giovan-
neo, ma che compare nella riflessione teologica dell'evangeli-
sta: il Verbo è «pieno di grazia e di verità» (1,14), e «dalla sua
pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia» (1,16). Per
mezzo di Gesù — il Verbo in cui «era la vita e la vita era la
luce degli uomini» (1,4) — sono venute a noi «la grazia e la ve-
rità» (1,17): vita, luce, grazia e verità risultano così espressioni
equivalenti dell'unico evento escatologico di grazia, che si compie
in Cristo per ogni creatura.
Sarà, però, Paolo il grande cantore della grazia: nell'episto-
lario paolino x&Qlì compare cento volte (contro le citìquanta-
cinque del resto del Nuovo Testamento), con significato emi-
nentemente teologico. In diretto riferimento alla sua esperien-
za, l'Apostolo coglie la grazia come l'evento dell'incontro con
Cristo, in forza del quale l'uomo è liberato dalla schiavitù del
peccato e della Legge e diviene nuova creatura: «Se uno è in

5/é., 24.
6
F. Mussner, Lineamenti fondamentali della teologìa della grazia nel Nuovo Testa-
mento, in Mysterium Salutis 9 (IV/III), o.c., 52: cf. l'intero articolo 29-53.
7
O. H. Pesch, Liberi per grazia, o.c, 89.

148
Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco
ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17). La grazia è la giustizia di
Dio e la giustificazione gratuita del peccatore per mezzo della
fede nel Signore Gesù: «Ora invece, indipendentemente dalla
legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge
e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cri-
sto, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti
hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustifi-
cati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione rea-
lizzata da Cristo Gesù» (Rm 3,21-24). Questa grazia offerta nel
Signore Gesù si collega strettamente all'amore del Padre ed al-
la comunione dello Spirito Santo, come testimonia il saluto di
sapore liturgico riportato dallo stesso Paolo: «La grazia del Si-
gnore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito
Santo siano con tutti voi» (2Cor 13,13). Essa è dunque un par-
tecipare alla vita divina, che si compie attraverso l'economia
storica della salvezza, evocata anche lì dove il Nuovo Testamento
ricorre a formule di sapore ellenistico: «La sua potenza divina
ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la
pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con
la sua gloria e potenza. Con queste ci ha donato i beni grandis-
simi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per
mezzo loro partecipi della natura divina, essendo sfuggiti alla cor-
ruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza» (2Pt
l,3s) 8 .
Pur nella varietà delle espressioni e dei modelli linguistici,
la ricchezza della testimonianza della Scrittura concorda dun-
que nel presentare la grazia come l'evento escatologico dell'au-
tocomunicazione divina, la storia di Dio entrata nella storia del-
l'uomo: rinviando alla totalità dell'esperienza salvifica, vissuta
nel clima della fede e dell'adorazione ed espressa nel servizio
della carità e nel render ragione della speranza (cf. lPt 3,15),
la Scrittura mantiene l'esodo umano e l'avvento divino nel loro
rapporto corretto, rispettoso della differenza ed insieme custo-
de della dignità del soggetto storico.

8
Cf. B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dìo, Dio della storia, Milano 19896, spe-
cie 88-132.

149
b) Lo sviluppo della dottrina della grazia

L'equilibrio della testimonianza biblica verrà spesso com-


promesso nel corso dello sviluppo della dottrina della grazia, per-
ché lo sforzo di formulazione concettuale, connesso al tentati-
vo di definire l'eccedenza della vita e soprattutto la densità del
Mistero in rapporto ai nuovi mondi culturali con cui il cristia-
nesimo veniva a contatto, sarà non di rado segnato da riduzio-
ni indiscrete ed enfatizzazioni strumentali. Mentre l'Oriente
si manterrà in una contemplazione teologica più legata al vissu-
to spirituale e liturgico, approfondendo l'idea della «deificazio-
ne» dell'uomo9, l'Occidente rivolgerà la sua attenzione special-
mente alle dimensioni antropologiche della grazia. Ve lo spin-
geranno il senso pratico del mondo latino, con la sua marcata
sensibilità per il protagonista umano della storia, ed in partico-
lare la grandiosa recezione spirituale e teologica di questa sen-
sibilità, operata da Agostino, colui nel quale «l'Io impara a par-
lare» (W. von Loewenich) e che per primo sostituisce alla me-
tafisica dell'oggetto una «metafisica dell'esperienza interiore»,
in cui il mondo è visto nell'orizzonte dell'anima, pur senza es-
sere risolto in esso, perché il Dio vivente resta il fondamento
ultimo e trascendente di ogni realtà I0.
Nella polemica fra Agostino e Pelagio si confrontano due
recezioni culturali diverse del messaggio biblico: mentre il Mo-
naco britannico tende sia pur inconsapevolmente a risolvere il
mondo della grazia nell'universo abbracciato dal protagonista
umano dell'azione storica — ed in questo è del tutto tradizio-
nalista rispetto alla cultura pragmatica dell'Occidente —, il Ve-
scovo africano si sforza di conciliare l'attenzione al soggetto per-
sonale con il forte senso del primato di Dio, testimoniato dalla
rivelazione. Fra i due è Agostino l'innovatore, perché ha il co-
raggio di testimoniare fino in fondo la differenza del Trascen-
dente rispetto all'orizzonte totalizzante dell'identità del soggetto
umano, arbitro della prassi storica. È così che — anche al di
là delle tesi effettivamente sostenute — Pelagio diventerà l'em-
9
Cf. J. Gross, La divinisation du Chrétien d'après les Pères Grecs. Contribution hi-
storique a la dottrine de la gràce, Paris 1938; M. Lot-Borodine, La déifìcatìon de l'hom-
me selon la dottrine des Pères grecs, Paris 1970.
10 p e r un quadro storico dello sviluppo della dottrina della grazia cf. P. Fransen,
Presentazione storico-dogmatica della dottrina della grazia, in Mysterium Salutis 9 (IV/III),
o.c., 55-216, con bibliografia. Cf. pure H. Rondet, La grazia di Cristo. Saggio di storia
del dogma e di teologia dogmatica, o.c.

150
blema della riduzione del cristianesimo all'autoredenzione del-
l'uomo, mentre Agostino sarà la cifra permanente dell'assoluto
primato di Dio, non risolvibile nella cattura del mondo, pur es-
sendo il testimone insuperato della dignità e della vitalità della
coscienza umana n. Quello che però in Agostino si muove nel-
l'ambito di una verità continuamente attinta dall'esperienza, di-
venterà non di rado nell'eredità dell' agostinismo un esercizio
concettuale rarefatto rispetto al paradosso della vita: ecco per-
ché si profileranno forme esasperate di affermazione del primato
della grazia, che separeranno ciò che in Agostino è mantenuto
in unità, e svilupperanno i temi più pessimistici dell'antropolo-
gia del Dottore d'Ippona.
Anche in reazione a questo agostinismo esasperato si andrà
maturando nella riflessione di fede l'esigenza di riaffermare il
valore del soggetto umano nell'evento di grazia: maestro di que-
sto recupero, pur nell'ambito delle coordinate fondamentali del
messaggio di Agostino, sarà Tommaso d'Aquino. Servendosi del-
l'antropologia aristotelica, Tommaso saprà ridare il giusto va-
lore alla componente umana nell'esperienza della grazia: affer-
mato l'assoluto primato della gratuita iniziativa divina in ordi-
ne alla salvezza, egli sottolineerà gli effetti dell'azione di Dio
nella creatura e il carattere di qualitas e di donum habituak che
la grazia viene ad assumere nella persona. Il ragionamento muove
a partire dall'analogia fra la vita naturale, in quanto dono di
Dio, e la vita di grazia, in quanto pienezza e novità del dono,
mostrando proprio in questo modo di procedere una marcata
attenzione ai diritti dell'antropologia naturale: «Dio provvede
alle creature naturali in modo non soltanto da muoverle agli at-
ti naturali, ma anche da largire loro alcune forme e virtù, che
sono principi degli atti, cosicché siano inclinate conformemen-
te a se stesse a tali moti... Molto più perciò a coloro, che muo-
ve al conseguimento del bene soprannaturale, egli infonde al-
cune forme o qualità soprannaturali, in forza delle quali essi siano
mossi da lui soavemente e prontamente al conseguimento del
bene eterno. In tal senso il dono della grazia è in qualche modo
una qualità»12. Ogni estrinsecismo della grazia è rifiutato: l'uo-
mo intero, nella verità del suo essere e nei dinamismi più pro-
fondi e costanti del suo agire, è raggiunto, trasformato e «qua-
11
Su questa interpretazione c£. la ricerca di G. Greshake, Gnade ah konkrete Frei-
heit. Eine Untersuchung zur Gnadenlehre des Pelagim, Mainz 1972.
12
Stimma Theologiae I-II q. 110 a. 2 e.

151
lificato» dalla grazia. Di conseguenza egli è vero protagonista
dell'evento di grazia, anche se in tutto ciò che è e fa in rappor-
to alla salvezza è preceduto, accompagnato e seguito dall'azio-
ne divina, che solo lo rende libero. La grazia «forma» l'uomo
dall'interno, rendendolo al tempo stesso oggetto dell'azione as-
solutamente libera di Dio e partecipe del dinamismo di acco-
glienza parimenti libera di questa azione 13. Questo equilibrio
articolato fra primato di Dio e consistenza della creatura è al
tempo stesso il merito della dottrina della grazia di san Tom-
maso ed il suo limite, perché negli sviluppi della Scolastica esso
tenderà facilmente ad essere compromesso, ora a favore della
grazia, com'è nelle forme dell'agostinismo esasperato e della sfi-
ducia nelle possibilità dell'uomo, ora a favore del protagonismo
umano, come avviene nelle varie espressioni di pelagianesimo
risorgente, specialmente nell'ambito del nominalismo della tar-
da Scolastica.
È precisamente a questo neopelagianesimo che vorrà opporsi
la reazione di Lutero: discepolo di Agostino e della grande tra-
dizione monastica, formatosi alla convinzione del primato del-
l'esperienza spirituale sulla teorizzazione concettuale, Lutero in-
tende restituire a Dio la gloria, che gli sembrava tolta dalle pre-
sunzioni di salvezza a partire dall'uomo proprie della Scolasti-
ca deteriore (che peraltro egli riteneva la vera Scolastica!). In
questo egli si sente tutt'altro che innovatore, solidale anzi con
la grande tradizione dell'agostinismo medievale: la sua insistenza
sul carattere estrinseco della grazia non vuol dire altro che essa
è sì «in noi», ma non come proveniente «da noi» {in nobis, sed
non ex nobis). La sua negazione di ogni possibilità dell'uomo
di cooperare alla propria giustificazione non vuole escludere il
cammino di conversione che è sempre necessario per aprirsi al-
l'azione della grazia, ma evidenziare che questo cammino ha la
sua origine prima, il suo luogo costante e il suo termine ultimo
nell'assoluto primato di Dio. La dottrina luterana della grazia
è la coerente applicazione del principio soli Deo gloria a tutti
i momenti e gli aspetti della storia di Dio nella storia dell'uo-
mo: le accentuazioni polemiche e le esasperazioni non derivano

13
Cf. Summa Theologiae I-II qq. 109-114. E interessante notare che Tommaso
sviluppa la dottrina della grazia nel contesto della morale: ciò non significa però che
egli riduca la grazia a semplice strumento per la realizzazione del bene; testimonia anzi
la fedeltà alla prospettiva biblica, che afferma il primato dell'esperienza salvifica glo-
bale rispetto ai suoi frutti nella vita morale.

152
che dalla volontà di sradicare dalle fondamenta ogni possibile
idea di autoredenzione dell'uomo. La radicalità di questo rifiu-
to si estenderà tuttavia ad abbracciare ogni possibile media-
zione umana della salvezza, e perciò si tradurrà nella negazione
del valore della stessa mediazione sacramentale operata dalla
Chiesa14.
Il Concilio di Trento apporta un contributo decisivo allo svi-
luppo della dottrina della grazia proprio perché, nel suo inten-
to di risposta alle tesi dei Riformatori, ne assume le intenzioni
positive di fondo e le armonizza con l'innegabile valore che la
grande tradizione cristiana indivisa riconosce alla dignità della
creatura umana e della sua libertà: proprio reagendo ad una con-
cezione solo «imputativa» della iustitìa Dei, che veniva attribuita
a Lutero nella forma più giuridica ed estrinsecista, i Padri di
Trento sono stati spinti a celebrare il trionfo della grazia, l'as-
soluto primato cioè dell'iniziativa del Dio trinitario e della sua
opera nella giustificazione del peccatore e nella creazione in lui
della vita nuova, intesa come partecipazione alla vita divina.
Con modelli di pensiero scolastici, ma con indubbio contenuto
biblico Trento afferma: «La causa finale della giustificazione è
la gloria di Dio e di Cristo e la vita eterna; la causa efficiente
è il Dio misericordioso, che gratuitamente ci lava e ci santifica
(lCor 6,11), suggellandoci e ungendoci con lo Spirito della pro-
messa, che è caparra della nostra eredità (cf. Ef l,13s); la causa
meritoria è il suo dilettissimo Unigenito, il Signore nostro Ge-
sù Cristo, il quale "quand'eravamo nemici" (cf. Rm 5,10), per
il grande amore, con cui ci ha amati (cf. Ef 2,4), con la sua san-
tissima passione sul legno della croce meritò per noi la giusti-
ficazione, e soddisfece al posto nostro presso Dio Padre; la
causa strumentale è il sacramento del battesimo, che è il "sa-
cramento della fede", senza la quale a nessuno mai giunge la
giustificazione. Infine l'unica causa formale è "la giustizia di
Dio, non quella in forza della quale egli è giusto, ma quella
per la quale ci rende giusti", con cui cioè per suo dono sia-
mo rinnovati nello spirito della nostra mente, e non solo sia-
mo reputati, ma veramente siamo chiamati e siamo giusti, ac-
cogliendo in noi ognuno la propria giustizia, secondo la misu-
ra, che lo Spirito "distribuisce a ciascuno come vuole" (lCor

14
Cf. J. Martin-Palma, Gnadenlehre. Von der Reformation bis tur Gegenwart,
Freiburg-Basel-Wien 1980.

153
12,11), e secondo la disposizione e la cooperazione propria ad
ognuno»15.
Da questo impianto articolato emergono in piena evidenza
il primato dell'azione del Dio trinitario nella partecipazione al-
l'uomo della sua grazia e l'efficacia reale e profonda dell'opera
divina nell'essere della persona, anche se non per questo ven-
gono trascurati la mediazione sacramentale e la dignità del sog-
getto umano nella sua disposizione e cooperazione libera all'i-
niziativa dell'Eterno. Soprattutto, è la ricchezza della testimo-
nianza biblica che viene riproposta, con l'affermazione della cen-
tralità dell'opera del Figlio, del primato fontale e terminale di
Dio Padre, dell'azione dello Spirito e del ruolo che la persona
e la comunità hanno nella realizzazione dell'alleanza salvifica.
Fra gli eccessi permanentemente possibili del pessimismo e del-
l'ottimismo antropologico di fronte alla grazia, Trento mantie-
ne l'unità cristologicamente fondata, e inserisce la creatura per-
sonale nel dinamismo dell'autocomunicazione trinitaria, che lungi
dal mortificare, esalta la partecipazione della creatura. Ne con-
segue una visione dialogico-personale, storico-relazionale, e perciò
tutt'altro che statica e cosale della grazia 16.

e) La storia di Dio nella storia dell'uomo

Alla luce di queste considerazioni, si può affermare che se-


condo la grande tradizione cristiana, fondata sulla testimonianza
biblica e riproposta contro i ricorrenti, opposti riduzionismi del-
l'ottimismo e del pessimismo antropologico, la grazia è «la libe-
ra e gratuita autocomunicazione del Dio trino in Gesù Cristo
per mezzo dello Spirito Santo, autocomunicazione che rende
possibile, sorregge e completa, mediante la trascendenza stori-
ca e nonostante l'alienazione e il peccato, il giungere a se stesso
dell'uomo come persona e come essere sociale»17. Nell'orizzon-
te dell'alternativa tanto all'antropologia della sazia identità,
quanto a quella del nichilismo assoluto, si potrebbe dire che il

13
Concilio di Trento, Sessio VI (13 gennaio 1547), Decretum de iustificatione, cap.
7: DS 1529.
16
Una corretta presentazione della dottrina della giustificazione e della grazia al
Concilio di Trento è fatta — in dialogo con le tesi della Riforma riproposte da K. Barth
— da H. Kùng, La yustìficazìone, Brescia 19712.
17
A. Ganoczy, Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, o.c, 7 e 311.

154
vangelo della grazia è la buona novella del Dio trascendente e
sovrano, che visita il mondo dell'identità e vi prende dimora
per una libera e gratuita decisione d'amore: la grazia è cioè il
vangelo del Dio, che è amore (cf. lGv 4,8.16). Ed insieme, si
può affermare che questo vangelo è la buona novella dell'iden-
tità, rivelata a se stessa dalla Trascendenza che la visita e la muo-
ve ad uscire da sé e a consegnarsi nella libertà all'incontro con
Colui, in cui solo è posta la possibilità della piena realizzazione
della creatura. Fra esodo e avvento il primato assoluto è del-
l'avvento: Dio viene prima, accompagna e segue. E tuttavia,
questo eterno e gratuito precedere non annulla l'apertura au-
tentica della creatura esodale verso l'Altro, ma la fonda e l'assi-
cura, liberando l'uomo dalla prigionia di se stesso: «Tu intanto,
o Signore, mi volgevi a me stesso, togliendomi da dietro le mie
spalle dove mi ero nascosto» 18.
Questo incontro salvifico raggiunge l'essere personale nella
totalità dei suoi aspetti e dei suoi dinamismi: la storia di Dio
entra veramente nella storia dell'uomo, l'eternità viene a dimo-
rare nel tempo. E merito della teologia scolastica aver elabora-
to un complesso sistema linguistico, atto a rendere la ricchezza
e il dinamismo dell'esperienza di grazia: le coordinate della suc-
cessione temporale sono tradotte con le qualificazioni della grazia
come preveniente e seguente {praeveniens - subsequens), che ser-
vono ad attribuire a Dio il puro inizio della giustificazione, senza
escludere la possibilità di una successiva cooperazione dell'uo-
mo alla grazia stessa19; le coordinate dell'istante e della dura-
ta sono rese con l'idea della grazia attuale e della grazia abitua-
le {auxilium Dei movens nos - habìtuale donum)20, la prima of-
ferta all'uomo in vista di singoli atti, la seconda espressiva di
una relazione permanente col Dio amore, che è partecipazione
gratuitamente donata alla vita trinitaria; le coordinate spaziali
sono evocate dai concetti di grazia esterna ed interna, che ri-
mandano rispettivamente all'economia storica della salvezza ed
alle mozioni interiori dello Spirito nel cuore dell'uomo21; le
18
Agostino, Confessiones Vili, 7, 16: PL 32,756.
19
Cf. Summa Theologiae I-II q. I l i a. 3. Esplicitamente il Concilio di Trento
afferma: «L'inÌ2Ìo della giustificazione per gli adulti deve procedere dalla grazia preve-
niente di Dio, ottenuta da Gesù Cristo»: DS 1525.
20
Cf. ad esempio Summa Theologiae I-II q. 109 a. 1 ad 1™. Fu il Concilio Viennese
del 1312 che assunse k dottrina della grazia come habitus come opinione probabile: DS 904.
21
Cf. ad esempio Concilio Vaticano II, Costituzione sulla divina rivelazione Dei
Verbum, 5.

155
coordinate personali dell'interiorità e dell'esteriorità si ritrova-
no nella distinzione fra la grada gratum faciens, o santificante,
che è quella che rende l'uomo accetto a Dio nella profondità
del suo essere, e la gratta gratis data, che colma la persona in vi-
sta di un servizio verso l'altro e rifulge perciò nella dimensione
dell'esteriorità22; infine, le coordinate parimenti personali della
coscienza e della libertà sono espresse con la distinzione fra la
grazia operante e la grazia cooperante {operans - cooperarli), delle
quali la prima esprime l'azione divina rispetto a cui la creatura
è passivamente recettiva, la seconda quella che coinvolge la sua
risposta consapevole e libera23. In rapporto poi all'efficacia
dell'agire divino di grazia la simbolica della fede ha parlato di
grazia sanante e di grazia elevante, per indicare con l'una la ri-
costituzione dell'armonia personale perduta col peccato, e so-
prattutto per qualificare con l'altra l'indeducibile novità dell'of-
ferta salvifica fatta nel Figlio e nello Spirito Santo; mentre, in
rapporto al gioco della grazia e della libertà, ha distinto la gra-
zia efficace, che produce il suo effetto infallibilmente, e la gra-
zia sufficiente, che manifesta l'accondiscendenza divina alla li-
bera accoglienza della creatura24.
La complessità di questo sistema linguistico veicola l'effet-
tivo incontro della storia eterna del Dio vivo con la storia del-
l'uomo, e perciò non solo l'inaudito ingresso dell'eternità nel
tempo, ma anche la reale «compromissione» dell'amore trinita-
rio nei dinamismi e nelle categorie dell'esistenza storica della
creatura: in questo senso la varietà delle formule sta a significa-
re l'insieme dei rapporti, che la Scolastica rendeva con i termi-
ni di gratta increata e grafia creata, e che — in categorie dialogico-
personalistiche — potrebbe esser reso con l'idea delle relazioni
del Dio tripersonale con il soggetto storico, libero e consapevo-
le destinatario della sua elezione di grazia. La formula gratia creata
diventa allora la cifra non tanto di una cosificazione della gra-
zia — come purtroppo a volte è avvenuto —, quanto piuttosto
della verità e della profondità con cui l'autocomunicazione di-
22
Ci. Summa Theologiae I-II q. I l l a . 1.
23
Cf. Summa Theologiae I-II q. I l i a. 2.
24
Quest'ultima distinzione fu centrale nella controversia de auxiliis, a proposito
cioè del rapporto fra grazia e libertà, che — esplosa alla fine del secolo XVI — con-
trappose Luis de Molina e i teologi gesuiti a Domingo Bafiez e ai suoi sostenitori dome-
nicani. Se i primi rivendicavano il ruolo della libertà umana e perciò la legittimità del
concetto di gratia sufficiens, i secondi — in nome dell'assoluto primato di Dio — non
esitavano a dire: «A gratia sufficiente, libera nos Domine!».

156
vina raggiunge, trasforma e coinvolge l'esistenza storica dell'uo-
mo 25 . Paradossalmente, proprio la complessità ed, in parte,
l'artificiosità dell'armamentario terminologico-concettuale della
dottrina scolastica della grazia testimoniano la verità, che è al
centro della rivelazione, dell'avvento del Dio vivo nella storia,
perché l'esodo umano si apra alla gloria e ne partecipi già al pre-
sente nei più profondi dinamismi del suo essere e del suo agire,
immerso nelle coordinate dello spazio e del tempo e nel gioco
ineliminabile dell'esteriorità e dell'interiorità, in cui si esprimono
la libertà e la coscienza della persona.
Se si volesse allora evocare con linguaggio più biblico e con
paradigmi di pensiero personalistico-esperienziali il mistero della
grazia, si potrebbe parlare della partecipazione dell'uomo alla
vita trinitaria o anche dell'inabitazione della Trinità nell'uomo:
attraverso la remissione dei peccati donata nell'evento della giu-
stificazione, la creatura personale entra «nella libertà della glo-
ria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Questa libertà è propria della
vita di coloro che sono «figli nel Figlio», da lui liberati perché
restassero liberi (2Cor 5,1): essa è prodotta in noi dalla presen-
za dello Spirito del Risorto, poiché «dove c'è lo Spirito del Si-
gnore, c'è libertà» (2Cor 3,17), ed è lui che ci introduce nell'e-
sperienza filiale al cospetto di Dio: «Che voi siete figli ne è prova
il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo
Figlio, che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,6; cf. Rm 8,15-17). La
grazia come «libertà donata» (G. Greshake) esprime cosi il mi-
stero della presenza profonda e vivificante della Trinità nell'uo-
mo: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo
amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»
(Gv 14,23). E questa presenza è donata nell'evento della giu-
stificazione: «Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati
giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del
nostro Dio» (ICor 6,11)2b.
La radicalità, con cui la differenza del Trascendente viene
a visitare l'identità del soggetto storico e a dimorare in essa se-
condo il vangelo cristiano, autorizza a chiedersi se e fino a che
punto si possa propriamente parlare di una esperienza della gra-
zia, di una conoscenza cioè diretta ed immediata dell'autoco-
25
Cf. K. Rahner, Possibilità di una concezione scolastica della grazia increata, in
Id., Saggi di antropologia soprannaturale, o.c, 123-168.
26
Sul tema della grazia come partecipazione alla vita trinitaria divina insiste M.
Schmaus, Dogmatica cattolica, III/2, Torino 1967, 39-82.

157
municazione divina all'uomo e dei suoi effetti nella creatura per-
sonale: è merito di Karl Rahner aver richiamato la dignità teo-
logica di questa questione, rispetto a un non lontano passato
in cui riflessione critica della fede ed esperienza spirituale pa-
revano destinate ad una reciproca estraneità27. Va anzitutto af-
fermato che se per grazia si intende — nella linea della testimo-
nianza biblica e della grande tradizione cristiana — l'autoco-
municazione del Dio trinitario all'uomo, in modo che l'avven-
to entri nell'esodo e vi dimori, l'evento della grazia non potrà
compiersi senza la mediazione di eventi e parole che raggiunga-
no la creatura personale nella sua concretezza storica. In altri
termini, l'uomo come essere della trascendenza realizza di fat-
to l'autotrascendimento verso il Mistero Assoluto, quando questo
Mistero lo raggiunge in una mediazione storica di salvezza: l'in-
carnazione di Dio e il mistero pasquale, eventi storici in cui viene
a compimento l'alleanza salvifica nuova e definitiva, sono la pro-
va più alta di questa via dell'autocomunicazione divina. La con-
dizione di possibilità dell'esperienza della grazia sta dunque nel-
l'incontro del duplice movimento dell'autocomunicazione di Dio
e dell'autotrascendenza dell'uomo.
Questo incontro coinvolge la persona umana tanto nella di-
mensione della sua interiorità, quanto in quella della sua este-
riorità: si può anzi affermare che lo sfolgorio dell'esteriorità è
la via della comunicazione alle profondità interiori dell'essere
personale. Quando l'autocomunicazione divina tocca l'uomo rag-
giungendolo attraverso l'esteriorità della parola o dell'evento
salvifico e precedendo il suo assenso attraverso il lavorio inte-
riore con cui lo Spirito apre il cuore e lo dispone all'atto della
libertà, allora si ha «esperienza della grazia». Questa esperien-
za non sarà sempre necessariamente «categoriale», formulata o
formulabile in concetti o parole chiaramente elaborati: più spesso
si tratterà di un'esperienza «trascendentale», nella quale cioè
l'autotrascendenza dell'uomo riposerà nell'oggetto che solo la
realizza, che però le apparirà sempre più grande dell'incontro
raggiunto e perciò mai del tutto esprimibile. Ecco perché la co-

21
Cf. K. Rahner, Sull'esperienza della grazia, in Id., ha fede in mezzo al mondo,
Alba 1965, 73-81; esperienza di se stessi ed esperienza di Dio, in Id., Nuovi saggi V, Ro-
ma 1975, 175-189; Esperienza dello Spirito e decisione esistentiva, in Id., Teologìa dall'e-
sperienza dello Spirito, Roma 1978, 49-63; L'esperienza dell'entusiasmo e l'esperienza della
grazia, ib., 65-90; Esperienza della trascendenza dal punto di vista dogmatico cattolico,
in Id., Dio e rivelazione, Roma 1981, 253-276; Esperienza dello Spirito Santo, ib., 277-308.

158
municazione dell'esperienza di grazia può avvenire solo con di-
screzione e pudore, nella consapevolezza della permanente ul-
teriorità del «vissuto» rispetto al «detto»; ed ecco anche perché
il discernimento spirituale, operato nella fede a partire dai se-
gni storici della grazia, che sono i mezzi linguistici e sacramen-
tali dell'autocomunicazione divina, è sempre necessario. L'ine-
sauribilità del contenuto e la difficoltà del discernimento non
devono tuttavia emarginare l'esperienza spirituale della grazia,
che resta anzi la via privilegiata per la conoscenza e la verifica
esistenziale del dono di Dio.
È in questo contesto che va posto il problema della certez-
za della salvezza: non c'è dubbio che per la testimonianza bi-
blica una simile certezza è possibile sulla base della fede nella
promessa e nel dono di Dio. Paolo dà per scontato che i cristia-
ni sappiano con sicurezza di aver fatto l'esperienza dello Spiri-
to: «E per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o
per aver creduto alla predicazione?» (Gal 3,2). E la riprova di
questa certezza viene dalla voce interiore dello Spirito, speri-
mentata nella preghiera: «E che voi siete figli ne è prova il fat-
to che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio
che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio;
e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio» (Gal 4,6). Tut-
tavia questa certezza va sempre unita all'umile consapevolezza
della propria debolezza e del rischio della fede, testimoniato dallo
stesso Gesù: «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la
fede sulla terra?» (Le 18,8). Il dato biblico è ripreso dalla sim-
bolica della fede, in particolare contro l'idea di una «fede fidu-
ciale» che escluda ogni rischio e dia una eccessiva certezza: «Nes-
suno che voglia essere veramente pio può dubitare in alcun mo-
do della misericordia di Dio, del merito di Cristo e dell'effica-
cia e virtù dei sacramenti, ma nessuno, osservando la propria
debolezza e indisposizione, non può non trepidare e temere della
sua grazia, dato che nessuno può sapere con certezza di fede,
che esclude la possibilità di errore, se abbia conseguito la gra-
zia di Dio»28.
Si può dire allora che la certezza fondata nella fede non esclu-
de il dubbio, ma lo assume: ed è proprio nella consapevolezza
del rischio sempre incombente che l'atto di fede si fa più puro,

28
Concilio di Trento, Decretum de iustifìcatione, cap. 9: D5 1534. Cf. pure i ca-
noni 13-15: DS 1563-1565.

159
più abbandonato, più aperto all'invocazione e alla speranza. È
cioè nel clima dell'adorazione e della confessione orante della
fede che il dubbio si converte in umiltà fiduciosa e la pace del-
l'esperienza di grazia si estende a rasserenare l'inquietudine della
coscienza: «Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse
la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,
il pericolo, la spada?... Ma in tutte queste cose noi siamo più
che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti
persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né pre-
sente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né al-
cun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo
Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). Anche l'esperienza della
grazia e la certezza della salvezza restano — nel tempo dell'esi-
stenza terrena — determinate dalla storicità, e come tali sog-
gette alla precarietà ed alla sofferenza del divenire, anche se ra-
dicalmente assunte nella speranza della fede e nell'abbandono
della carità: «Noi infatti per virtù dello Spirito attendiamo dal-
la fede la giustificazione che speriamo» (Gal 5,6).

5.2. LA GIUSTIFICAZIONE

a) La domanda della salvezza

Il processo per il quale la storia dell'uomo viene raggiunta


e trasformata dalla gratuita autocomunicazione di Dio è la giu-
stificazione: in quanto tale essa è l'«articulus stantis aut caden-
tis Ecclesiae» (Lutero)29, il centro e il cuore dell'evangelo, per-
ché niente di più importante la fede ha da dire agli uomini che
l'Etèrno si è rivolto a loro e ha offerto ad essi la partecipazione
alla sua vita e li ammette alla comunione con sé. Ciò che è l'an-
nuncio della venuta del Regno nella predicazione di Gesù è la
dottrina e l'esperienza della giustificazione nella concezione cri-
stiana dell'uomo: l'avvento si compie nell'esodo, la novità di
Dio abita la storia dell'uomo, l'eternità entra nel tempo 30 .
29
Cf. WA ( = Weimarer Ausgabe: D. Martin Luther* Werke. Kritische Gesamt-
ausgabe, Weimar 1883 ss. Ristampa: Graz 1964 ss.) 40, III, 352, 3.
30
Nell'ambito della bibliografia sulla giustificazione segnaliamo: J. Baur, Salus
Christiana. Die Rechtfertigungslehre in der Geschichte des christlichen Heihverstàndnisses,
Gutersloh 1968; H. Kùng, La giustificazione, o.c; A. E. McGrath, Iustitia Dei: A Hi-
story of the Christian Doctrine ofjustification, I-II, Cambridge 1986-1988; G. Mùller,

160
È Martin Lutero il teologo che più di ogni altro ha posto
la giustificazione del peccatore al centro del suo messaggio31:
ve lo spingeva la stessa «causa» della sua vita, l'appassionata ed
inquieta ricerca della salvezza. Lutero «non è un sistematico.
In compenso egli è di gran lunga eccessivamente determinato
dall'esperienza vissuta (Erlebnìs) e dalla volontà... Tutto ciò che
Lutero ha scritto e ha detto è confessione, cioè riconoscimen-
to, che è pagato con la vita vissuta e con la propria sofferenza,
e che egli deve partecipare agli altri»32. Soprattutto, è nell'o-
scurità della prova e nel dolore della tentazione, che il proble-
ma della salvezza si affaccia come stimolo alla ricerca ed inter-
rogativo vitale: «Chi non è mai stato soggetto alla tentazione,
non sa che cosa voglia dire la speranza»33. Il dubbio si affac-
cia in lui sulla sua capacità a compiere il bene ed a meritare la
vita eterna {tentationes de ìndignitaté), fino a raggiungere l'orlo
della disperazione {desperatìo sui); oppure sulla volontà di sal-
vezza di Dio nei suoi confronti {tentationes de praedestìnatione);
fino a raggiungere la tentazione della ribellione (tentatio blasphe-
miaé). E nel travaglio di queste prove, è in questo doloroso «viag-
gio nelle tenebre» (ire in caliginem), che si profila la via di solu-
zione, lo spiraglio della salvezza: «Crux sola est nostra theolo-

Die Rechtfertigungslehre. Geschichte una Probleme, Giitersloh 1977; A. Peters, Recht-


fertigung, Gùtersloh 1984; H. G. Pòhlmann, Rechtfertigung. Die gegenwàrtige kontro-
verstheologische Problematik zwischen der evangelisch-lutherischen una der rómisch-
katholischen Kirche, Gùtersloh 1971; K. Rahner, Questioni di teologia controversiale sulla
giustificazione, in Id., Saggi di antropologia soprannaturale, o.c, 338-393; V. Subilia, La
giustificazione per fede, Brescia 1978; G. H. Tavard, Justification: An Ecumenica! Stu-
dy, New York 1983.
31
La bibliografia è vastissima: sotto lo specifico punto di vista del confronto e
del dialogo ecumenico cf. M. Bogdahn, Die Rechtfertigungslehre Luthers im Vrteil der
neueren katolischen Theologie. Móglichkeiten und Tendenzen der katholischen Lutherdeu-
tung in evangelischer Sicht, Góttingen 1971; O. H. Pesch, Theologie der Rechtfertigung
bei Martin Luther und Thomas von Aquin. Versuch eines systematischen Dialogs (1967),
Mainz 1985; Id., Gerechtfertigt aus Glauben. Luthers Frage an die Kirche, Freiburg 1982;
O. H. Pesch - A. Peters, Einfùhrung in die Lehre von Gnade und Rechtfertigung, Darm-
stadt 1981; A. Peters, Glaube und Werk. Luthers Rechtfertigungslehre im Lichte der Hei-
Ugen Schrift, Berlin-Hamburg 1967. Di rilevante interesse sono le conclusioni dell'O-
kumenischer Arbeitskreis evangelischer und katholischer Theologen, Lehrverurteilun-
gen - kirchentrennend?, I. Rechtfertigung, Sakramente und Amt im Zeitalter der Reforma-
tion und beute, hrsg. v. K. Lehmann u. W. Pannenberg, Freiburg i. B. - Góttingen
1988, 35-75 (Rechtfertigung), con cui concordano le riflessioni qui proposte. Cf. poi
il mio studio La giustificazione. Gli «initia Lutheri», in B. Forte, 5»»' sentieri dell'Uno.
Saggi di storia della teologia, Milano 1992, 122-199, che contiene anche varie indicazio-
ni bibliografiche. Sintetizzo alcune delle conclusioni cui sono pervenuto in questo studio.
32
E. Iserloh, in Storia della Chiesa (diretta da H. Jedin), voi. VI, Milano 1975,
13s (cap. II: Martin Lutero).
33
M. Luther, Tìschrede AHI.

161
già»34. Nel Dio nascosto si percepisce la vicinanza di Dio, nella
sua morte la nostra vita, nella tentazione più tremenda il Dio
tentatore e salvatore, nel fallimento di tutte le possibilità uma-
ne il trionfo della grazia. È dunque dal vissuto delle sue prove
e tentazioni e dalla consolante esperienza della grazia, annun-
ciata dalla Parola di Dio, oggetto delle sue lezioni e meditazio-
ni, che Lutero elabora i fondamenti della sua teologia della giu-
stificazione.
«Dopo che Heinrich Denifle, al principio del nostro secolo,
provò che la cosiddetta "scoperta" di Lutero, cioè la giustifica-
zione per la sola fede, non era punto una dottrina nuova nella
teologia cattolica, poiché la si trova in numerosi commentatori
medievali della Bibbia, l'indagine protestante si è concentrata
soprattutto sul giovane Lutero per precisare il processo spiri-
tuale, che dal cattolicesimo l'ha condotto alla Riforma»35. In
realtà, l'idea della «iustitia Dei» come «iustitia passiva» e non
«activa», tale cioè che è Dio a salvare giustificando e non l'uo-
mo a giustificarsi da solo, era comune nei teologi precedenti,
anche se sotto diversa terminologia e con conseguenze pratiche
differenti36. In tal senso si può affermare che «la scoperta di
Lutero sulla iustitia Dei è fondamentalmente cattolica»37 e che
quindi egli «nel suo impeto riformista ha abbattuto lottando un
cattolicesimo, che non era perfettamente cattolico»38. Dove sta
allora la novità del Riformatore? Si tratta di una riappropria-
zione coinvolgente sul piano esistenziale di una dottrina dive-
nuta priva di rilevanza pratica?39. Si tratta di una nuova chia-
ve di lettura di tutta la teologia — la «theologia crucis» —, di
un nuovo modo di pensare e di vivere la grazia dell'Evangelo
a partire dalla «revelatio Dei sub contraria specie»?40. Si trat-
ta di una «theologia Verbi», sola capace di liberare l'uomo da
ogni presunzione, compresa quella dell'umiltà, per sottoporlo

34
Operationes in Psalmos: WA 5, 176, 29ss.
35
V. Vinay, Introduzione, in M. Lutero, Scrìtti religiosi, Torino 1967, 16.
36
H. Denifle, Die abendldndischen Schriftausleger bis Luther ùber Iustitia Bei (Ròm
1,17) una Iusti/icatio, Mainz 1905, lo ha dimostrato esaminando circa 60 commenti
alla lettera ai Romani.
37
E. Iserloh, o.c, 41-47.
38
J. Lortz, Die Reformation in Deutschland, I, Freiburg 19634, 176.
39
Lo stesso Lutero nota nei Dictata super Psalterium che la dottrina paolina sulla
giustizia che non è nostra, ma è grazia di Dio, «non era in teoria del tutto sconosciuta
ai teologi contemporanei, però lo era praticamente»: WA 3, 21.
40
Cf. l'opera fondamentale di W. von Loewenich, Theologia crucis. Visione teo-
logica di Lutero in prospettiva ecumenica, Bologna 1975 ( l a edizione tedesca 1929).

162
al giudizio mortale insieme e vivificante della Parola di Dio?41.
Nel testo chiave di Rm 1,17 «E in esso (nel Vangelo) che si ri-
vela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: II giu-
sto vivrà mediante la fede» l'accento va posto sulla prima parte
— cioè sul Vangelo — o sulla seconda — cioè sulla «sola» fede?
Non è possibile rispondere a questi interrogativi se non a parti-
re da Lutero stesso, ed in particolare da quella fase della sua
vita in cui si sono venuti ponendo i fondamenti della sua «sco-
perta»: si potrebbe affermare che la dottrina della giustificazione
degli «initia Lutheri» è la chiave di comprensione di tutto il suo
messaggio. «È il giovane Lutero quello decisivo!»42.

b) Il processo della giustificazione

Nella descrizione che il giovane «doctor in Biblia» fa del pro-


cesso della giustificazione emergono tre momenti fondamenta-
li, in rapporto dialettico fra di loro: la presa di coscienza del
fallimento umano (tesi), cui si connette l'umiltà; il giudizio di
Dio (antitesi); e la sua giustizia (sintesi), cui si connette la fede.
La presa di coscienza del fallimento delle capacità umane, con-
sapevolezza dell'assoluto permanere nella negazione finché si
resta nelle nostre possibilità, è espressa nella dottrina del «non
ex nobis». Con essa la constatazione di peccato universale di-
venta convinzione esplicita dell'impossibilità a salvarsi da soli:
«Nessuno è senza iniquità, nessuno non è figlio dell'ira e per-
tanto non ha bisogno che gli vengano rimessi i peccati. E ciò
d'altra parte non avviene se non per mezzo di Cristo: dunque,
nessuno per proprio merito, ma soltanto per merito di Cristo
sarà salvo. E questa è anche la conclusione di tutta la Lettera
di Paolo ai Romani, alla quale quasi ciascuna delle sue parole
si riferisce, come appare a chi l'esamina attentamente. Egli, in-
fatti, dice: "Si manifesta dal cielo l'ira di Dio" (Rm 1,18), e
parimenti: "La giustizia di Dio si rivela in Lui" (Rm 1,17). Il
senso è: nessuno degli uomini sapeva che l'ira di Dio sovrasta-
va a tutti e che tutti erano in peccato davanti a Lui, ma egli
stesso lo ha rivelato dal cielo per mezzo dell'Evangelo, affinché
da quest'ira noi diventassimo salvi e fossimo liberati per quella

41
E la tesi di E. Bizer, Fides ex auditu, Neukirchen 1966'.
42
A. Agnoletto, Martin Lutero, Fossano 1972, 15.

163
giustizia, cioè per mezzo di Gesù Cristo»43. «Intento fonda-
mentale dell'Apostolo in questa lettera è distruggere qualsiasi
giustizia e sapienza propria; e ristabilire, accrescere e ingiganti-
re (cioè far in modo che si riconosca che esistono ancora, e so-
no tanti e grandi) i peccati e l'insensatezza, i quali non esiste-
vano (o meglio, non ritenevamo che esistessero, per l'illusione
che viene da una simile giustizia); e dimostrare che, stando così
le cose, a noi sono necessari Cristo e la sua giustizia per annien-
tarli davvero»44. La coscienza della nostra miseria e dell'inca-
pacità a salvarci con le nostre forze conduce all'umiltà, che è
la confessione della nostra ingiustizia, su cui viene ad effonder-
si la giustizia di Dio: «Poiché nessuno viene giustificato per la
fede se prima non si confessa ingiusto mediante l'umiltà»45.
L'umiltà si connette strettamente con la fede: Lutero menzio-
na spesso l'«humilitas fidei»46, che non toglie niente alla gra-
tuità della grazia, perché è già disposizione soprannaturale, «iu-
stitia Dei», «crux Christi»47.
Nella descrizione di questa prima fase della giustificazione
non è assente neppure l'idea del merito: il giovane Lutero parla
anzi del «thesaurus virtutum et meritorum» necessario alla cre-
scita della vita cristiana: «L'inizio della vita cristiana è cono-
scere e amare quelle cose che sono proprie della fede... Il se-
condo passo è progredire... poiché se uno non progredisce con-
tinuamente e non accumula un consistente corpo di meriti, l'i-

43
WA 3, 174: «Nullus est sine iniquitate, nullus est non filius ire et itaque eget,
ut sibi remittantur. Hoc autem non fit nisi per Christum: Ergo Nemo ex se, sed per
solum Christum salvus erit. Et hoc est etiam conclusio totius Epistole b. Pauli Roma-
nis: ad quam singula eiusdem pene verba sonant, ut videtur inspicienti. "Dicit enim:
Revelatur enim de coelo ira dei e t c " . Item "Iustitia dei revelatur in eo e t c " . Sensus
est; Nullus hominum scivit, quod ira dei esset super omnes et per quod omnes essent
in peccatis coram eo, sed per Euangelium suum ipse de coelo revelavit et quomodo
ab ista ira salvi fieremus, et per quam iustitiam Mberaremur scilicet per Christum».
44
WA 56, 3, 6ss: «Summa et intentio Apostoli in ista Epistola est omnem iusti-
tiam et sapientiam propriam destruere et peccata | atque insipientiam |, que non erant
< i(d) e(st) propter talem Iustitiam non esse putabantur a nobis >, rursum statuere,
augere et magnificare < i(d) e(st) facere, vt agnoscantur adhuc stare et multa et magna
esse > ac sic demum prò illis | vere | destruendis Christum et Iustitiam eius nobis ne-
cessarios esse». Del Commento alla lettera ai Romani esistono due traduzioni italiane,
di cui ci serviamo; M. Lutero, Lezioni sulla Lettera ai Romani (1515-1516), I (a cura
di G. Pani), Genova 1991 (parziale) e M. Lutero, La lettera ai Romani (1515-1516) (a
cura di F. Buzzi), Cinisello Balsamo 1991.
45
WA 3, 345, 29s: «Quia nemo per fidem iustificatur nisi prius per humilitatem
sese iniustum confiteatur».
46
WA 3, 588, 8; 4, 90, 20; 127, 10; 226, 4.
« C f . W A 4 , 383, 34.

164
nizio e il compimento verranno presto meno»48. Tuttavia il
merito non è connesso all'efficacia dell'opera umana: le azioni
sono meritorie in forza della grazia che le rende tali. Il merito
è già esso stesso dono di Dio: «Ricompensami, cioè fa' in modo
di ricompensarmi perché abbia un merito, al quale consegua un
premio ed una ricompensa in patria»49. Questa idea di merito
— che si oppone ad ogni tentazione pelagiana, in quanto impli-
ca la necessità della grazia che previene e soccorre — è tradi-
zionale e del tutto cattolica: come è cattolica la convinzione che
la misericordia e la gratuità dell'amore di Dio superano infini-
tamente quanto con il suo aiuto avessimo meritato: «La nuova
legge (cioè la grazia) come non ha avuto inizio dalle nostre ope-
re e dai nostri meriti, così non viene meno per i nostri demeri-
ti. Ma ha avuto inizio, ha consistenza e durerà in futuro sola-
mente a seguito della promessa, della misericordia e della veri-
tà di Dio»50. Merito e dono divino sono dunque in un rappor-
to che non è mai di equivalenza, che — adoperando la termino-
logia scolastica familiare allo stesso Lutero — mai è «de condi-
gno», ma sempre e solo «de congruo», fondato cioè sulla fedel-
tà divina alla promessa: «Da qui giustamente affermano i teo-
logi che all'uomo che fa quanto sta in lui, Dio dona infallibil-
mente la grazia, e benché egli non possa prepararsi alla grazia
in maniera adeguatamente degna ("de condigno"), poiché la gra-
zia è incomparabile, tuttavia può prepararsi in modo congruo
("de congruo"), a causa della promessa di Dio e per il patto di
misericordia (cf. Tt 2,12.13)»51. Il primato di Dio — mai ne-
gato dalla tradizione cattolica — è dunque chiaramente presente
nella teologia dell'umiltà e del merito del giovane Lutero, dove
l'umiltà è la tesi del processo dialettico della giustificazione, sulla
quale viene ad innestarsi il giudizio di Dio, radicale antitesi di
ogni affermazione umana.

48
WA 3, 337, 27ss: «Quia initium vitae Christianae est nosse et amare ea, quae
sunt fidei... Secundo proficere... quia nisi quis continue proficiat et corpus meritorum
faciat, cito inceptio et caput deficiet».
9
WA 4, 313, 20s: «Retribue, id est fac ut retribuas, ut meritum habeam, cui
premium fiat et retributio in patria».
50
WA 4, 41: «Lex nova sicut non ex operibus et meritis nostris incepit, ita nec
demeritis nostris ruit. Sed ex mera promissione et misericordia et veritate Dei incepit,
stat et perstabit».
51
WA 4, 262, 4-7: «Hinc recte dicunt Doctores, quod nomini facienti quod in
se est, deus infallibiliter dat gratiam, et licet non de condigno sese possit ad gratiam
preparare, quia est incomparabilis, tamen bene de congruo propter promissionem istam
dei et pactum misericordie».

165
Lutero distingue attentamente un giudizio attivo, per il quale
l'uomo accusa se stesso, ed un giudizio passivo, per il quale egli
è giudicato da Dio 52 . Il giudizio dell'uomo, però, anche quan-
do è attiva confessione di peccato, resta troppo debole e trop-
po miope: perciò il giudizio di Dìo si presenta come la radicale
negazione di esso, no assoluto ad ogni tesi umana, anche a quella
suprema dell'umiltà come confessione di peccato. L'opposizio-
ne assoluta fra giudizio umano e giudizio divino ricorre frequen-
temente nella teologia di Lutero: «E perciò viene chiamato giu-
dizio di Dio, perché è contrario al giudizio degli uomini; infatti
condanna quelle cose che gli uomini scelgono e sceglie quelle
cose che gli uomini condannano. E questo giudizio ci è stato
mostrato nella croce di Cristo. Perché come egli è morto ed è
diventato l'abiezione del popolo, così è necessario che soppor-
tiamo con lui un simile giudizio, cioè di essere crocefissi e di
morire spiritualmente»53. Il giudizio di Dio è dunque la mor-
te dell'uomo: non c'è atto umano che tenga, di fronte all'alter-
nativa del giudizio divino, non c'è presunzione di umiltà, che
possa garantirci dinanzi a Lui. L'intenzione profonda di questa
radicale contrapposizione è anzitutto quella di confessare il pri-
mato divino contro ogni possibile presunzione umana, in una
distanza e differenza infinite che solo la grazia può colmare, ma
è anche quella di mostrare il giudizio come l'antitesi di un pro-
cesso che tende al superamento, alla giustificazione, nella quale
l'uomo vive al di là della sua morte come vecchio Adamo nella
vita nuova del Dio morto per lui.
Le affermazioni forti e sconcertanti di Lutero vanno dun-
que interpretate dialetticamente: esse negano per affermare e
superare, sono parole di morte, in cui risplende la vita. E la via
della «revelatio sub contrario», che — a partire dalla croce di
Cristo — si offre come la chiave interpretativa dell'agire di Dio:
«Infatti, la croce di Cristo si presenta dovunque nelle Scrittu-
re... Il senso è: quando vedrete che io sono del tutto disprezza-
to, allora io sarò accetto quanto mai; e quando secondo la stol-
tezza del vostro modo di pensare crederete che io sono male-

52
Cf. WA 3, 24, 29ss.
53
WA 3, 463, 15-20: «Et ideo vocatur Iudicium dei, quia contrarium est iudicio
hominum, damnat enim ea, que eligunt homines, et eligit ea, que damnant homines.
Et hoc iudicium est in cruce Christi nobis ostensum. Quia sicut mortuus est et abiectio
plebis factus: ita oportet nos simile iudicium cum eo portare, crucifigi et mori spiritua-
liter».

166
detto da Dio, allora sarò sommamente benedetto. E questo av-
verrà per il fatto che il Signore ha magnificato il suo santo, co-
sicché mentre voi giudicate che non piaccia a Dio colui che è
nelle pene, e che piaccia grandemente a Dio colui che è nella
prosperità, avverrà il contrario e sarà occasione di meraviglia
ai vostri occhi»54. La croce è dunque già nel Lutero degli inizi
il fondamentale principio ermeneutico, il criterio che motiva e
struttura la dialettica della fede e della teologia, la chiave senza
la quale le affermazioni relative al momento negativo del pro-
cesso della giustificazione apparirebbero di una intollerabile du-
rezza e scandalosità. Ed anche qui, l'appassionato cercatore della
salvezza non nasconde di essere pervenuto a questa convinzio-
ne centrale verificandola nell'esperienza vissuta: «Poiché, secon-
do Bernardo, l'amarezza della Chiesa è amara sotto i tiranni,
sotto gli eretici è più amara, ma in pace è amarissima. Poiché
per giudizio di tutti i devoti e per l'esperienza che ne è testi-
mone, la più grande tentazione è il non avere nessuna tentazio-
ne. E l'avversità maggiore di tutte è costituita dal non avere
nessuna avversità. Ed allora massimamente è in collera Dio, se-
condo il medesimo Bernardo. Non infatti quando non ti sento,
ma quando ti sento adirato, confido che tu mi sei massimamen-
te propizio»55.
Il processo della giustificazione non si conclude però in uno
sterile rapporto di negazione-affermazione, ma perviene ad un
momento più alto, che assume in sé, risolve e supera i prece-
denti. Questo momento più alto, questa sintesi che fluidifica
la rigidità dei momenti fra loro incomparabili e fonda l'unità
vivente del processo, nel pur permanente primato dell'Eterno,
questo superamento della negazione e della morte dell'uomo vec-
chio perché nasca l'uomo nuovo, è quanto Lutero chiama «iusti-
tia Dei», cui propriamente si connette la fede. La «iustitia Dei»

54 WA 3, 63, ls e 13-18: «Crux enim Christi ubique in Scripturis occurit... Sen-


sus ergo est: Cum videritis me esse abiectissimum, tunc ero acceptissimus: et cum vos
secundum stultitiam sensus vestri putabitis maledictum a deo, tunc ero maxime bene-
dictus. Et hoc inde veniet, quia mirificavit me dominus sanctum suum, ut cum vos
non putetis piacere deo eum, qui in poenis est, et eum maxime deo piacere, qui in bo-
ws est, contrarium fiet et erit mirabile in oculis vestris».
53
WA 3, 420, 14-19: «Quia secundum Bernardum Amaritudo Ecclesie sub ty-
rannis amara, sub hereticis amarior, sed nunc in pace est amarissima. Quia omnium
devotorum iudicio et experientia teste maxima tentatio est nullam habere tentationem.
fct omnium summa adversitas nulla adversitas. Et tunc maxime deus irascitur, quando
non irascitur, secundum eundem Bernardum. Non enim cum non sentio, sed cum sen-
no te iratum, maxime propitium confido».

167
è la pura grazia che colma il cuore dell'uomo, incapace di meri-
tare; è la pienezza di Dio che entra nella vuotezza umana: «Dio
della mia giustizia, tu mi hai ascoltato, poiché ti invocavo. Con-
fesso davanti a te questa tua misericordia e bontà. E sotto que-
sta parola sono comprese tutte le confessioni dei buoni nel mo-
mento della prosperità. Ma guarda quanto è vera e devota que-
sta confessione, la quale non si attribuisce nessun merito! In-
fatti non dice: "Poiché ho fatto molte cose"; oppure: "Perché
ho meritato mediante l'azione, o la parola, o qualche parte del
mio corpo", perché tu capisca che Egli non fa valere nessuna
giustizia, non vanta nessun merito, non ostenta nessuna digni-
tà, ma esalta la nuda e sola misericordia di Dio e la sua gratuita
benignità, la quale non ha trovato in lui nulla per cui egli do-
vesse ascoltarlo se non il semplice fatto di invocarlo, essendo
ogni altra cosa messa a tacere. Ecco, tale deve essere colui che
voglia apparire un degno confessore e un vero giudeo davanti
a sì grande maestà. Questo tale appare del tutto vuoto davanti
a Dio. Poiché è vuoto di se stesso, ma pieno di Dio stesso: in-
fatti non appare per nulla vuoto davanti a Dio colui che appare
completamente vuoto»36. La giustizia non è dell'uomo, ma di
Dio: «La mia giustizia non è mia giustizia, ma di colui che mi
ha esaudito. Poiché è il Dio della mia giustizia. Ha ascoltato
me nudo e che non sono nulla perché lo invocavo e non a causa
della mia giustizia: che è di lui e che io ho ricevuto dalla sua
mano... La sua misericordia è la mia giustizia»57. La giustizia
nostra autentica non è che il dono di Dio, Cristo: «Così ora Cristo
è la nostra giustizia e la nostra pace, quella che Dio ci ha dato.
E per mezzo di essa egli ci ha giustificato e così abbiamo la pace.

56
WA 3, 42, 12s e 15-25: «O Deus Iustitie mee exaudisti me, cum invocarem,
tibi hanc tuam misericordiam et bonitatem confiteor. Et sub isto verbo omnes confes-
siones bonorum in prosperitate comprehenduntur. Sed vide quam vera et pia est ista
confessio, que nihil sibi de meritis arrogat. Non enim ait: Cum multa fecissem, vel
opere, ore aut aliquo meo membro meruissem, ut intelligas eum nullam iustitiam alle-
gare, nullum meritum iactare, nullam dignitatem ostentare, sed nudam et solam mise-
ricordiam dei et benignitatem gratuitam extollere, que nihil in eo invenit, propter quod
eum exaudiret, nisi quod invocaret, tacitis omnibus aliis. Ecce talis debet esse, qui ve-
lit dignus confessor et verus ludeus coram tanta maiestate apparere. Tali enim optime
vacuus coram domino apparet. Quia sibi vacuus, sed deo ipsi plenus: minime enim va-
cuus apparet coram domino, qui maxime vacuus apparet».
57
WA 3, 42, 39-43, 2 e 10s.: «Iustitia mea non est mea, sed eius qui me exaudi-
vit. Quia deus iustitie mee est. Nudum me et qui nihil sum exaudivit invocantem, et
non propter iustitiam meam: que eius est, et de manu eius accepi eam... eius enim mi-
sericordia est mea iustitia».

168
Prima di lui, infatti, non c'era pace, poiché non c'era giustizia
per noi, ma empietà e perciò turbamento»58.
Nell'espressione «iustitia Dei» il genitivo va dunque inteso
in senso radicalmente soggettivo: è la giustizia di Dio che ope-
ra, quella che costituisce il cuore dell'Evangelo, quella che si
identifica col Cristo: «"La giustizia di Dio si rivela in ciò..."
(Rm 1,17). Il senso è: nessun uomo ha mai saputo che l'ira di
Dio era sopra tutti e che tutti erano in peccato davanti a Lui,
ma egli stesso dal cielo ha rivelato per mezzo del suo Vangelo
in qual modo potessimo essere salvi da quest'ira e per opera di
quale giustizia essere liberati, cioè per mezzo di Gesù Cri-
sto»59. La giustificazione è dunque il trionfo dell'amore di Dio
sul nulla delle nostre capacità, prostrate sotto il no del suo giu-
dizio: e se il giudizio appariva negazione violenta di ogni possi-
bilità umana, la «iustitia Dei» appare come l'affermazione più
alta del dono di Dio, che vince il peccato del mondo, la con-
dizione dell'uomo vivo nella confessione di peccato, morto sot-
to il giudizio divino, vivente di vita nuova nella grazia che giu-
stifica.
È nella luce di questo processo dialettico che si chiarisce an-
che l'idea di «iustitia imputata»: l'espressione non sta a dire una
giustificazione estrinseca che non tocchi veramente il nostro cuo-
re, ma solo una giustizia che viene dall'esterno dell'uomo, af-
fermazione da parte di Dio, che segue alla negazione contenuta
nel suo giudizio su tutte le possibilità umane, e fa l'uomo vi-
vente di una vita nuova, più alta di ogni sua morte: «Dio infat-
ti non ci vuole salvare mediante la nostra propria giustizia e sa-
pienza, ma per mezzo d'una giustizia e d'una sapienza che pro-
vengono dall'esterno; non mediante una giustizia che derivi e
nasca da noi, ma per mezzo di quella che viene a noi provenen-
do da un altro luogo; non mediante quella che germina dalla
nostra terra, ma mediante la giustizia che viene dal cielo. Per-
ciò bisogna essere istruiti in una giustizia che proviene total-
mente dal di fuori e ci è estranea. A questo scopo, in primo luogo,

WA 4, 16, 20-23: «Sic mine iustitia nostra Christus est et pax nostra, quam
deus nobis dedit. Et per illam nos iustificavit, et ita pace habemus. Ante ipsum enim
non fuit pax, quia nec iustitia nobis, sed impietas, et ideo turbatio».
WA 3, 174, 16-20: «"Iustitia dei revelatur in eo etc." Sensus est: Nullus ho-
minum scivit, quod ira dei esset super omnes et quod omnes essent in peccatis coram
eo, sed per Euangelium suum ipse de coelo revelavit et quomodo ab ista ira salvi fiere-
•ous, et per quam iustitiam liberaremur, scilicet per Christum».

169
bisogna che sia estirpata la nostra propria giustizia»60. La «giu-
stizia imputata», che a noi viene dall'esterno, ma che non è ester-
na, equivale così alla «iustitia passiva», operata dalla sola grazia
del Dio misericordioso: «Mediante questo "essere-Dio-giusti-
ficato (da-parte-nostra)", siamo noi ad essere giustificati, e que-
sta giustificazione passiva di Dio, mediante cui egli è giusti-
ficato da noi, è la nostra stessa giustificazione attiva ad opera
di Dio»61. Giustizia «imputata», «esterna», «passiva» non vo-
gliono dire altro allora che l'identificazione del giudizio e della
giustizia con la pura, indeducibile, immeritata grazia di Dio,
accolta nella fede: «Poiché coloro che ignorano la vera giusti-
zia, cioè quella della pura fede, affermano per se stessi la loro
giustizia come idolo spirituale e non si sottomettono alla giusti-
zia di Dio»62.
La fede è tutta relativa alla iniziativa divina, dalla quale na-
sce e alla quale deve continuamente sottomettersi: la fede è la
giustizia di Dio in noi, e dunque è Cristo in noi, secondo la let-
tura che Lutero fa di Rm 1,17. Il testo della «scoperta dell'E-
vangelo» è interpretato nel senso liberante del primato di Dio:
«Solo nell'Evangelo si rivela la giustizia di Dio (cioè chi sia giu-
sto, come si sia giusti e come si diventi tali davanti a Dio), per
mezzo della sola fede con cui si crede alla Parola di Dio... In-
fatti la giustizia di Dio è la causa della salvezza. Qui di nuovo
per "giustizia di Dio" non si deve intendere quella grazie alla
quale Dio è giusto in sé, ma quella mediante la quale noi venia-
mo giustificati da lui. Ciò accade per mezzo della fede nell'E-
vangelo. Onde il beato Agostino, al capitolo XI dello scritto
Lo spirito e la lettera, afferma: "Si dice perciò giustizia di Dio,
perché è Dio che, impartendola, ci fa giusti". E ciò è detto per
distinguerla dalla giustizia degli uomini, la quale risulta dalle
opere»63. La «fides» di cui si parla in Rm 1,17 non è frutto

60
WA 56, 158, lOss. «Deus enim nos non per domesticam, Sed per extraneam
Iustitiam et sapientiam vult saluare, Non que veniat et nascatur ex nobis, Sed que aliunde
veniat in nos, Non que in terra nostra oritur, Sed que de celo venit. Igitur omnino
Externa et aliena Iustitia oportet erudiri. Quare primum oportet propriam et domesti-
cam euelli».
61
WA 56, 226: «Per hoc autem, Iustificari Deum Nos Iustificamur. et Iustifica-
tio | illa | Dei passiua, qua a nobis Iustificatur, Est ipsa Iustificatio nostri actiue a Deo».
62
WA 3, 154, 32-34: «Quia ignorantes veram iustitiam, scilicet pure fidei, suam
statuunt sibi in idolum spirituale et iustitie dei non subiiciuntur».
63
WA 56, 171-172 (commento a Rm 1,17): «Sed in solo euangelio reuelatur iu-
stitia Dei < i(d) e(st) quis et quomodo sit et fiat Iustus coram Deo > per solam fidem,
qua Dei verbo creditur... Iustitia enim Dei est causa salutis. Et hic iterum Iustitia Dei

170
delle nostre capacità, ma è l'opera di Dio e della sua fedeltà in
noi, è il Cristo nostra giustizia, vivente nel credente.
Alla luce di questa interpretazione della fede, si comprende
anche il rapporto dialettico che Lutero coglie fra essa e le ope-
re: la fede contemporaneamente nega, afferma e supera l'opera
umana. La fede nega le opere: in quanto è l'opera di Dio in noi,
essa contesta la miope fragilità di tutto ciò che noi siamo e fac-
ciamo. Le opere delle nostre mani si contrappongono all'opera
di Dio e del Cristo: «Ora, sono idoli ossia opere delle loro mani
quelle opere che essi fanno secondo la loro giustizia, ignorando
la giustizia di Dio. E così ergono le loro opere in contrapposi-
zione a Dio e alla fede di Cristo»64. La fede afferma le opere,
in quanto, trasformando il cuore dell'uomo, ne manifesta in es-
se i frutti: «Poiché non può l'albero buono fare frutti cattivi
e ogni albero buono fa frutti buoni (cf. Mt 7,17-18). Perciò la
volontà che è l'albero, ovvero la radice dell'albero buono, non
può fare se non il bene e fa buon frutto a suo tempo. Perciò
qui è stato subito paragonato l'uomo ad un albero piantato, aven-
do però messo per prima cosa la sua radice, cioè la volontà. In-
fatti, posta all'inizio la volontà buona, tutto l'uomo è buono.
E questo in ogni caso, ma non certo al di fuori del suo genere
di pianta, fa allora frutto buono, e se non sempre, tuttavia alla
sua stagione: dopo che sarà passato l'inverno. Infatti l'inverno
è il tempo della legge e della sinagoga. La primavera, invece,
il più ridente tempo dell'anno, è il tempo della chiesa primiti-
va: dove lo Spirito santo ha prodotto il tempo più piacevole in
fiori e frutti»65.
Soprattutto, però, la fede «supera» le opere umane median-

non ea debet accipi, qua ipse Iustus est in seipso, Sed qua nos ex ipso Iustificamur,
quod fit per fidem euangelii j Vnde b(eatus) Augustinus c(ap). XI. de spi(ritu) et liste-
rà): "Ideo Iustitia Dei dicitur, quodimpertiendo eam Iustos facit"... Et dicitur addif-
ferentiam Iustitie hominum, que ex operibus fit».
64
WA 3, 154, 18-21: «Et sunt nunc idola seu opera manuum eorum opera Illa,
que faciunt secundum iustitiam suam, ignorantes iustitia dei. Et sic erigunt opera sua
contra deum et fidem Ckristi».
65
WA 3, 25, 15-25: «Quia non potest arbor bona malos fructus facere, et omnis
arbor bona fructus bonos facit. Ideo voluntas, que est arbor vel radix arboris bone,
non potest facere nisi bonum et facit fructum bonum tempore suo. Ideo hic mox com-
paravit hominem ligno piantato, cum premisisset radicem eius, scilicet voluntatem. Habita
enim voluntate bona totus homo bonus est. Sic radice bona arbor bona est. Que utique
facit tunc, non nisi secundum genus suum, fructum bonum, et si non semper, tamen
tempore suo: postquam hiems transierit. Etenim hiems est tempus legis et synagoge.
Ver autem, amenissimum tempus anni, est primitive Ecclesie tempus: ubi Spiritus sanctus
amenissimum fecit tempus in floribus, fructibus età».

171
te quelle opere in cui si incarna l'«oboedientia fidei», dove non
è tanto una volontà buona a produrre frutti buoni, quanto l'i-
niziativa di Dio attiva nella fede a divenire efficace nelle ope-
re, per una sorta di prolungamento analogico dell'incarnazio-
ne: «Ma anche l'incarnazione assunta nel suo significato tropo-
logico... non è nient'altro che obbedienza nell'operare, come
essa è divinità nella carne. Ogni opera è come l'umanità, nella
quale si incarna l'obbedienza, allo stesso modo in cui la divini-
tà si incarna nell'umanità, ogni volta che si opera nell'obbedienza.
Così dunque bisogna che tutte le cose provengano dalla fede
e dall'obbedienza della fede»66. Come la divinità si è incarna-
ta nell'umanità, così l'obbedienza della fede, opera della grazia
nel cuore dell'uomo, si incarna nelle opere; queste opere non
sono frutto della capacità umana, ma espressione efficace della
grazia assolutamente gratuita della giustificazione. Il movimento
della salvezza non è dunque dalle opere alla fede («fa' questo
e vivrai»), ma esattamente all'inverso dalla fede alle opere («credi,
cioè arrenditi alla grazia, prostrati sotto il no divino, perché il
si della sua giustizia risplenda in te, e avrai la vita»). L'opposi-
zione non è fra le opere e la fede, ma fra le opere puramente
umane e le opere che nascono dall'obbedienza della fede: «Quan-
do l'Apostolo dice: "Siamo giustificati indipendentemente dalle
opere della legge" (Rm 3,28), non parla delle opere che si fan-
no per chiedere la giustificazione. Poiché queste non sono già
più opere della legge, ma della grazia e della fede, dal momento
che chi le compie non confida affatto di essere giustificato per
mezzo di esse, ma desidera essere giustificato; né pensa — com-
piendole — di avere già adempiuto la legge, bensì chiede di po-
terla adempiere. Chiama, invece, opere della legge quelle fatte
da coloro che, per il semplice fatto d'averle compiute, ritengo-
no che anche la giustificazione è stata realizzata, e che essi so-
no giusti, perché le hanno fatte»67.
L'uomo che percorre il processo della giustificazione, ucci-
66
WA 3, 155, 20-23: «Sed incarnatio tropologice sumpta idem significai:. Quia
est nihii aliud nisi obedientia in opere, sicut divinitas in carne. Omne opus est sicut
humanitas, in quo obedientia incarnatur, sicut divinitas in humanitate, quoties opera-
tur obedienter. Sic ergo omnia ex fide esse oportet et obedientia fidei».
67
WA 56, 264: «Quando Apostolus dicit, Quod sine operibus legis Iustificamur,
Non loquitur de operibus, que prò lustificatione querenda fiunt. Quia hec iam non
legis opera sunt, Sed gratie et fidei, cum qui hec operatur, non per hec sese Iustifica-
tum confidat, Sed Iustificari cupiat Nec legem se per hec implesse putat, Sed impletio-
nem ipsius querit. Sed ea dicit opera legis, que qui fecerint, iis ipsis factis ponunt Iu-
stificationem quoque factam ac ideo Iustos esse, quia facerint».

172
so dal no del giudizio divino, vive dunque in modo nuovo nella
fede; e le sue opere incarnano il dono della grazia, che gli ha
cambiato il cuore e la vita. Il giovane Lutero è anche su questo
punto nella più pura tradizione cattolica, benché si avvalga di
una dialettica che registra più il movimento dell'esperienza che
non la chiarezza delle formule scolastiche. Nell'esperienza l'uomo
cerca le opere e sperimenta il fallimento, prima di arrendersi
e consegnarsi all'opera di Dio, che è la sua giustizia, il Cristo
operante nella fede: è in questo movimento dialettico che ac-
quista il suo significato più pieno la dottrina dell'uomo giustifi-
cato, che resta «simul iustus et peccator»: «È forse perfettamente
giusto quest'uomo? No: è insieme peccatore e giusto; peccato-
re in realtà, ma giusto grazie alla reputazione di Dio e alla sicu-
ra promessa che Dio intende liberarlo dal peccato, fino a gua-
rirlo perfettamente. Perciò egli è perfettamente sano nella spe-
ranza, mentre in realtà è peccatore. Tuttavia possiede l'inizio
della giustizia, per chiedere d'essere giustificato sempre di più,
sapendo di essere sempre ingiusto»68. La santità del giustifica-
to non è dunque uno stato di totale assenza del peccato: al con-
trario, essa include il peccato, e per questo vive della perma-
nente confessione della propria miseria e della permanente espe-
rienza della misericordia di Dio, del negativo «in re» e del posi-
tivo «in spe». La giustizia è una forma dell'«expectatio creatu-
rae», della tensione in cui ci troviamo fra il dono già ricevuto
e la promessa non ancora pienamente compiuta. La dottrina del
«simul iustus et peccator» viene allora a significare contempo-
raneamente la continua pesantezza del peccato che è in noi, la
forza liberante e sempre nuova della grazia che ci è donata e
il dinamismo perenne della vita giustificata, che deve continua-
mente superare l'un polo nell'altro, come vita nella speranza.
Solo alla luce di questa dialettica si chiarisce come la sintesi
del processo non sia scandalosa compromissione di grazia e di
peccato, ma movimento permanente del peccato verso la grazia
e della grazia verso il peccato, tensione che corrisponde all'e-
sperienza vissuta della costante lotta interiore per conseguire
in noi la resa del peccatore ed il trionfo della grazia. Il com-
mento a Rm 12,2 — «Sed reformamini» — offre a Lutero lo

68
WA 56, 272: «Nunquid ergo perfette Iustus? Non, Sed simul peccator et Iu-
stus; peccator re vera, sed Iustus ex reputatìone et promissione | Dei certa |, quod libe-
ret ab ilio, donec perfecte sanet. Ac per hoc sanus perfecte est in spe, In re autem pec-
cator, Sed Initium habens Iustitie, ut amplius querat semper, semper iniustum se sciens».

173
spunto per la descrizione addirittura formale di questa dialetti-
ca della giustificazione: «L'uomo si trova sempre nel non-essere,
nel divenire, nell'essere; sempre in privazione, sempre in po-
tenza, sempre in atto; sempre nel peccato, sempre nella giusti-
ficazione, sempre nella giustizia; cioè: egli è sempre peccatore,
sempre penitente, sempre giusto! Infatti, proprio perché si pente,
diventa giusto da non-giusto. Dunque il pentimento è il termi-
ne medio tra l'ingiustizia e la giustizia. Così egli è nel peccato,
relativamente al punto di partenza; e nella giustizia, relativa-
mente al punto d'arrivo. Dunque: se ci pentiamo sempre, sia-
mo sempre peccatori, tuttavia siamo per ciò stesso giusti e ve-
niamo giustificati» 69. La giustificazione per sola fede, cioè per
la sola azione giustificante di Dio accolta nell'obbedienza della
fede, non si consuma dunque in un atto unico e definitivo di
Dio, ma vive di un costante superamento nell'uomo: è l'inter-
pretazione che Lutero dà dell'espressione paolina «ex fide in
fidem»: «Il senso è manifestamente questo: la giustizia di Dio
proviene totalmente dalla fede, in modo tale però che, crescen-
do progressivamente, non si risolve in visione, ma diventa una
fede sempre più luminosa... la fede andrà sempre più aumen-
tando, affinché chi è giusto continui ad essere ulteriormente giu-
stificato, e nessuno ritenga subito di avere già raggiunto la me-
ta, e con ciò smetta di progredire, cioè cominci a venir me-
no»70. Non esiste uno «stato» di giustizia che lasci l'uomo iner-
te: la condizione del giusto è quella di un perenne cammino,
che lo porta a credere sempre di più, sempre di più superando
il peccato, che è in lui, per la grazia donatagli dall'alto, sempre
più diffidando di se stesso e confidando in Dio.
«Perciò tutta la vita del popolo nuovo, del popolo fedele,
del popolo spirituale non consiste che in questo: col gemito del
cuore, con la voce delle opere, con la fatica del corpo domanda-
69
WA 56, 442, 17-22: «Semper homo Est in Non Esse, In fieri, In Esse, Sem-
per in priuatione, in potentia, in actu, Semper in peccato, in Iustificatione, In Iustitia,
i(d) e(st), Semper peccator, semper penitens, semper lustus. Quod enim penitet, hoc
fit de non Iusto lustus. Ergo penitentia est medium inter Iniustitiam et Iustitiam. Et
sic est in peccato quoad terminum a quo et in Iustitia quoad terminum ad quem. Si
ergo semper penitemus, semper peccatores sumus, et tamen eoipso et Iusti sumus ac
Iustificamur».
70
WA 56, 173: «Ex fide in fidem... Ideoque sensus Videtur esse, Quod Iustitia
Dei sit ex fide totaliter, ita tamen, quod proficiendo non venit in speciem, Sed semper
in clariorem fidem... de fide in fidem, semper magis ac magis credendo. Vt, qui lustus
est, Iustificetur adhuc, ne quis statim arbitretur se apprehendisse et ita desinat profi-
cere i(d) e(st) incipiat deficere».

174
re, supplicare e chiedere di essere continuamente giustificati fi-
no alla morte; consiste nel non fermarsi mai, nel non essere già
arrivati, nel non considerare nessuna opera come il traguardo
della giustizia raggiunta, ma nel continuare ad attenderla come
se abitasse ancor sempre al di fuori di noi, mentre si continua
ad esser pur sempre immersi nei peccati e a vivere in essi»71.
L'opera di Dio che giustifica si pone come estrinseca rispetto
all'unica opera a noi intrinsecamente possibile, il peccato e la
confessione di esso: l'estrinsecità equivale all'«a partire da Dio»,
l'intrinsecità all'«a partire da noi». «"I santi, intrinsecamente,
sono sempre peccatori; perciò sono sempre giustificati estrinse-
camente...". "Intrinsecamente", dico, cioè come siamo in noi
stessi, ai nostri occhi, nella stima che abbiamo di noi stessi; in-
vece, con "estrinsecamente", intendo come siamo davanti a Dio,
nella reputazione che egli ha di noi. Dunque noi siamo estrin-
secamente giusti, quando non lo siamo da noi stessi né a moti-
vo delle nostre opere, ma solo grazie alla reputazione di Dio.
Infatti la sua reputazione non sta in noi né è in nostro potere;
dunque neanche la nostra giustizia si trova in noi né è in nostro
potere... Invece, intrinsecamente, siamo peccatori, per la natu-
ra dei relativi: se siamo giusti solo perché Dio ci reputa tali,
non siamo tali per il fatto di vivere e di operare. Perciò, intrin-
secamente e per quanto dipende da noi, siamo sempre malva-
gi»72. La condizione del «simul iustus et peccator» appare per-
ciò come il luogo della permanente dialettica fra l'«ex nobis»
(«intrinsece») incapace a salvarci, e l'«a Deo» («extrinsece»), che
solo ci salva.
La misericordia divina fa dunque il peccatore interiormen-
te giusto, e questo perché nei credenti e gementi il Cristo lava
con la pienezza della sua purezza l'imperfezione delle loro col-
71
WA 56, 264, 16ss: «Quare tota Vita populi noui, populi fidelis, populi spiri-
tualis Est gemitu cordis, voce oris, opere corporis non nisi postulare, querere et petere
Iustificari semper vsque ad mortem, Nunquam stare, nunquam apprehendisse, Nulla
opera ponere Hnem adepte lustitie. Sed tanquam adhuc semper extra se habitantem
expectare, se vero semper in peccatis adhuc viuere et esse».
72
WA 56, 268-269: «"Sancti Intrinsece sunt peccatores semper, ideo extrinsece
Iustificantur semper". Intrinsece dico, i(d) e(st) quomodo in nobis, in nostris oculis,
in nostra estimatione sumus, Extrinsece autem, quomodo apud Deum et in reputatio-
ne eius sumus. Igitur extrinsece sumus Iusti, quando non ex nobis nec ex operibus,
Sed ex sola Dei reputatione Iusti sumus. Reputatio enim eius non in nobis nec in pote-
state nostra est. Ergo nec Iustitia nostra in nobis est nec in potestate nostra. Intrinsece
autem sumus peccatores per naturare relatiuorum. Quia si solum Deo reputante sumus
Iusti, ergo non nobis viuentibus vel operantibus. Quare intrinsece et ex nobis Impii
semper».

175
pe. La «imputatio Dei», che ci rende giusti, è la volontà divina
efficace che qualcuno sia giusto presso di Lui, per la fede nella
sua Parola: «Ma la giustizia di cui parla la Scrittura dipende più
dall'imputazione di Dio che dalla situazione di fatto dell'uomo.
In realtà, ha la giustizia, non chi semplicemente possiede que-
sta qualità — che anzi, da questo punto di vista, è senz'altro
peccatore e ingiusto —, ma colui che Dio, con misericordia, con-
sidera giusto e tale ha voluto che sia considerato al suo cospet-
to, perché confessa la propria ingiustizia ed implora la giustizia
di Dio»73. Ciò che Lutero intende spezzare con la sua teolo-
gia della giustizia imputata è la presunzione che l'uomo resti
lo stesso dopo essere passato nel fuoco della giustificazione, quasi
per un semplice potenziamento delle sue facoltà precedenti: è
quanto si evince dalla polemica che egli imposta contro la teo-
logia del «charitate formatus»: «I dottori scolastici, in modo mol-
to oscuro ed affatto incomprensibile, dicono che nessun atto
di adempimento di un precetto ha valore se non è "formato"
dalla carità. Questo "formato" è un vocabolo maledetto. Esso
costringe a pensare che l'anima sia — per così dire — la stessa,
sia prima che dopo il dono della carità, come se (solo) al mo-
mento d'agire sopraggiungesse la forma. Invece, è necessario
che l'anima tutta sia fatta morire e diventi un'altra, prima di
vestirsi della carità e di agire»74. La «iustificatio» non è una
nuova «forma» del vecchio uomo, ma il sorgere dell'uomo nuo-
vo, vivificato dallo Spirito: «Non dice: i tuoi peccati saranno
trasformati; ma: tu per primo sarai trasformato e, una volta tra-
sformato, anche le tue opere saranno bell'e trasformate... In-
fatti non può non servire il peccato chi, nella sua volontà, non
è ancora stato vivificato dallo Spirito, benché compia opere buo-
ne» 75 . Dunque, non un rivestimento esterno fa l'uomo giusto,
ma l'essere nuova creatura per la grazia che gli viene dall'ester-

73
WA 56, 287: «Iustitia Scripture magis pendet ab imputatione Dei quam ab
esse rei. Ille enim habet Iustitiam, non qui qualitatem solam habet, immo ille peccator
est omnino et Iniustus, Sed quem Deus propter confessionem iniustitie sue et implora-
tionem Iustitie Dei misericorditer reputat et voluit Iustum apud se haberi».
74
WA 56, 337: «Scolastici doctores obscurissime planeque non intelligibiliter di-
cunt Nullum actum precepti formatum charitate valere. Maledictum vocabulum illud
formatum, quod cogit intelligere animam esse velut eandem post et ante charitatem
ac velut accedente forma in actu operari, cum sit necesse ipsam totam mortificari et
aliam, antequam charitatem induat et operatur».
75
WA 56, 335: «Non ait: peccata tua mutabuntur, Sed: tu prior mutaberis Et
te mutato iam opera quoque mutata erunt... quia non potest non seruire, qui voluntate
per spiritum non est viuificatus, quantumlibet operatur bona».

176
no, cioè da Dio e non dalle proprie opere. La polemica contro
l'ottimismo nei confronti delle capacità umane di salvezza si ri-
solve così nel duplice effetto di attribuire a Dio solo l'opera sal-
vifica («iustitia imputata, extrinseca») e di concepire quest'o-
pera come un'autentica, nuova creazione, che non potenzia, anzi
distrugge, quel che già c'è, e produce quel che non c'è: l'uomo
nuovo nella grazia.

e) Il divino e l'umano nella giustificazione

Sono queste tesi del tutto contrarie rispetto alla dottrina della
giustificazione definita a Trento? Un attento esame delle affer-
mazioni del Concilio porta a rispondere negativamente alla do-
manda: e questo proprio sulla base dei punti, in cui più diretta-
mente sembrò affacciarsi il contrasto. Questi punti nell'inten-
zione dei Padri conciliari erano soprattutto due: sul piano del-
l'essere la realtà e l'efficacia della giustificazione; sul piano del-
l'agire la collaborazione dell'uomo all'opera della grazia che lo
giustifica. Riguardo al primo punto, ciò che si intendeva rifiu-
tare era una concezione meramente estrinseca, «forense», della
giustificazione, che si riteneva presente nell'insistenza di Lute-
ro sulla giustizia esterna, solamente «imputata»: di contro, ciò
che si voleva affermare era il carattere reale, ontologico dell'o-
pera di Dio nel processo che fa del peccatore un «giusto». Ri-
guardo al secondo punto, l'oggetto del rifiuto era una conce-
zione meramente pessimistica e negativa dell'uomo e del suo
agire, che si coglieva nell'agostinismo esasperato del Riforma-
tore: ciò che invece si intendeva ribadire era la dignità della crea-
tura libera e responsabile davanti all'Eterno, nell'unità del di-
segno divino di creazione e redenzione.
Si è visto come la forte sottolineatura data da Lutero alla
«iustitia passiva» e al suo carattere esterno e forense rispondes-
se all'esigenza di affermare l'assoluto primato dell'iniziativa di
Dio nell'evento della giustificazione: contro ogni pretesa uma-
na di autoredenzione, 1'«extra nos» della grazia doveva ribadi-
re la gratuità, la libertà e la sovranità assoluta dell'agire divino.
Con paradigmi di pensiero e modelli linguistici differenti, at-
tinti alla grande tradizione della Scolastica, ma del tutto biblici
nel contenuto, il Concilio di Trento intende affermare esatta-
mente la stessa verità della salvezza: il ricorso allo schema delle

177
«cause» non serve ad altro che a proclamare il primato dell'ope-
ra di Dio prima, durante e dopo il processo della giustificazio-
ne 76. Il Dio vivente è non solo la prima origine e l'ultimo fi-
ne, ma la via e la forma della iustìficatio ìmpii, in quanto questa
si compie per la volontà del Padre, mediante l'opera meritoria
del Figlio, estesa al credente nel battesimo, e si esplica grazie
all'azione dello Spirito, che distribuisce a ciascuno i suoi doni
come vuole. Nessuna opera umana, nessuna forza della natura
o potenza della legge è in grado di giustificare il peccatore77,
ma solo Cristo nel mistero del suo avvento, voluto dal Padre
e promesso ed atteso nell'economia dell'antica Legge. Manda-
to agli uomini nella pienezza del tempo, egli è venuto «perché
fossero redenti i Giudei, che erano sotto la Legge, e "i pagani,
che non ricercavano la giustizia, raggiungessero la giustizia" (Rm
9,30), e tutti "ricevessero l'adozione a figli" (Gal 4,5)»78.
Nel descrivere poi chi sia giustificato per mezzo di Cristo,
Trento traccia un vero e proprio inno alla sola grazia, che ri-
splende nel mistero del Redentore: «Sebbene egli "sia morto
per tutti" (2Cor 5,15), non tutti ricevono il beneficio della sua
morte, ma solo quelli, ai quali è comunicato il merito della sua
passione. Infatti, come è vero che gli uomini, se non nascessero
dalla propagazione del seme di Adamo, non nascerebbero in-
giusti, perché in forza di quella propagazione per l'atto stesso
di essere concepiti contraggono la propria ingiustizia, così se
non rinascessero in Cristo, non sarebbero mai giustificati, per-
ché in forza di quella rinascita dovuta al merito della sua pas-
sione è ad essi tributata la grazia, per la quale divengono giusti.
Per questo beneficio l'Apostolo ci esorta a rendere sempre gra-
zie al Padre, che ' 'ci ha messi in grado di partecipare alla sorte
dei santi nella luce" (Col 1,12), e ci ha liberati dal potere delle
tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per
opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dèi pecca-
ti (Col l,13s)»79. Il linguaggio biblico si salda a questo punto
a quello scolastico, familiare ai Padri del Concilio, per descri-
vere il processo della giustificazione: «Con tali parole (Col l,12ss)
viene insinuata la descrizione della giustificazione dell'empio

76
Cf. il testo citato sopra del capitolo VII del Decretum de iustificatione: DS 1529.
77
Cf. il capitolo I dello stesso Decretum: De naturae et legis ad iustificandos homi-
nes imbecillitale: DS 1521.
78
Decretum de iustificatione, cap. II: DS 1522.
79
Ib., cap. Ili: DS 1523.

178
come trasferimento (translatio) da quello stato {ab eo statu), in
cui l'uomo nasce figlio del primo Adamo, allo stato di grazia
e di adozione dei figli di Dio (Rm 8,15) {in statum gratiae etadop-
tionìs filiorum Dei) per mezzo del secondo Adamo Gesù Cristo
Salvatore nostro»so. I paradigmi dialettici usati da Lutero non
si conciliano certo con l'idea qui espressa di uno «stato di gra-
zia»: ma il contenuto significato nella diversità delle forme di
pensiero e dei linguaggi non è che quello biblico paolino dell'a-
dozione a figli nel Figlio ottenuta dai meriti di Cristo. Va pe-
raltro notato come il Concilio non abbia dato alcun avallo ma-
gisteriale alla terminologia scolastica della qualitas e dell'habi-
tus, mostrando in questo una fine sensibilità verso l'interlocu-
tore 81 .
Lo stesso può dirsi dell'idea espressa da Trento, per la qua-
le nell'atto della giustificazione lo Spirito infonde nel credente
la vita teologale, che gli inerisce profondamente: «Sebbene nes-
suno possa esser giusto, senza che gli vengano comunicati i me-
riti della passione di Cristo, avviene tuttavia nella giustifica-
zione del peccatore che per merito della stessa santissima pas-
sione la carità di Dio sia effusa per mezzo dello Spirito Santo
(cf. Rm 5,5) nei cuori di coloro, che vengono giustificati, ed
inerisce ad essi. Per cui nell'atto stesso della giustificazione con
la remissione dei peccati l'uomo riceve simultaneamente median-
te Cristo Gesù, nel quale viene inserito, la fede, la speranza e
la carità infuse»82. Anche qui la concezione scolastica della gra-
zia come «habitus» e come «qualitas» è presente, ma senza la
corrispondente terminologia ed in una forma che, se è certa-
mente lontana dalla sensibilità di Lutero, nella sostanza equi-
vale all'idea — su cui insiste il Riformatore — della creazione
dell'uomo nuovo mediante il processo della giustificazione. Non
c'è dubbio allora che — nella reale diversità dei paradigmi di
pensiero e dei modelli di linguaggio — il messaggio di Lutero
sul primato della grazia nel processo della giustificazione e la
dottrina del Concilio di Trento sulle cause e gli effetti dello stesso
processo convergano profondamente: per entrambi è fuori del-
la fede cristiana chi ritenesse che «l'uomo possa essere giustifi-
cato davanti a Dio per le proprie opere, compiute grazie alle
80
Ik, cap. IV: DS 1524.
81
Cf. in tal senso ad esempio le osservazioni di A. Ganoczy, Dalla sua pienez-
za..., o.c, 189.
82
Decretum de iustìfìcatione, cap. VII: DS 1530.

179
forze della natura umana o mediante la dottrina della Legge,
senza la grazia divina per mezzo di Cristo Gesù»83. Per en-
trambi non v'è dubbio che per effetto di quest'azione della grazia
«l'uomo da ingiusto diventa giusto e da nemico amico, per es-
sere "erede secondo la speranza della vita eterna" (Tt 3,7)» M.
Anche sul piano dell'agire, tanto divino, quanto umano, nel
processo della giustificazione la convergenza è reale: l'intenzione
dei Padri su questo punto era quella di riaffermare un'attiva
presenza della componente umana, contro il pessimismo antro-
pologico, che sembrava emergere dalle tesi della Riforma. In
realtà, la preoccupazione di Lutero era anche su questo punto
quella di ribadire il soli Deo gloria, per sradicare dalle fonda-
menta ogni pretesa di giustizia umana: all'interno del primato
della grazia, egli non negava però il ruolo della fede, dell'umil-
tà, delle opere e perfino del merito, inteso con Agostino come
l'agire con cui Dio premia in noi i suoi doni 85 . Il sola fide do-
veva celebrare nella creatura l'assoluto primato del Creatore,
davanti al quale essa non può che arrendersi e lasciarsi condur-
re: proprio per questo, però, la resa a Dio si congiunge con l'o-
perare che egli stesso suscita nel peccatore giustificato, e le opere
della fede, prodotte dall'uomo raggiunto dalla grazia, sono tut-
t'altro che presunzione umana, espressione, anzi, delle meravi-
glie divine, come l'umanità del Salvatore fu espressione della
sua divinità misericordiosa ed operosa per amore degli uomini.
Perciò la fede, totalmente abbandonata in Dio e recettiva della
grazia, non è mai separata da un agire umano, suscitato nel giu-
stificato dalla vita nuova che è in lui e fecondo secondo il dono
dallo Spirito dato a ciascuno: sola fide numquam solai86
Anche su questo punto i paradigmi di pensiero ed i modelli
di linguaggio del Concilio di Trento sono diversi da quelli usati
dal Riformatore, ma la profondità del messaggio è tutt'altro che
differente. Non è difficile riconoscere anzi anche nella dottri-
na conciliare un impianto storico-esperienziale, che soggiace al-
l'uso di formule e strumenti scolastici. L'azione dell'uomo in
rapporto alla giustificazione è colta secondo uno schema tem-
83
Canones de iustìficatione, can. 1: DS 1551.
84
Decreium de iustìficatione, cap. VII: DS 1528. Cf. ad esempio O. H. Pesch,
Liberi per grazia, o.c, 336s.
85
«Cuius tanta est erga omnes homines bonitas, ut eorum velit esse merita quae
sunt ipsius dona»: Agostino, Epistola 194 ad Sixtum presb., 5,19: PL 33,880.
86
Cf. P. Althaus, Sola fide numquam sola. Glaube und Werke in ihrer Bedeutung
fiir das Heil in Martin Luther, in Una Sancta 16 (1961) 227-235.

180
porale, che distingue la preparazione alla giustificazione, la col-
laborazione ad essa, e gli effetti che ne derivano nella vita della
creatura giustificata. L'idea fondamentale che emerge in tutte
e tre queste tappe è che non c'è, né può veramente esserci con-
correnza fra l'assoluto primato di Dio e la libertà, che Dio stes-
so ha dato all'uomo: in altre parole, è la grazia che ci fa liberi,
e perciò la radicale presupposizione divina rispetto a ogni no-
stro operare, lungi dal negare la nostra libera scelta, la rende
possibile e la esalta. Il Dio della fede cristiana non è il concor-
rente dell'uomo, ma in senso forte è il Dio degli uomini, che
ha voluto la creatura libera cooperatrice dell'alleanza con Lui.
Già il primo inizio del processo della giustificazione è attri-
buito dal Concilio all'opera della sola grazia: contro ogni forma
di sia pur debole pelagianesimo87, Trento non esita ad affer-
mare che «l'esordio della stessa giustificazione negli adulti si deve
desumere dalla grazia preveniente di Dio per mezzo di Gesù
Cristo, cioè dalla vocazione, con cui sono chiamati senza alcun
loro merito preesistente»88. La descrizione dell'itinerario per-
sonale verso l'evento con cui Dio giustifica il peccatore ha un
sapore quasi narrativo e tende ad evidenziare i contenuti og-
gettivi cui bisogna credere per essere salvi, contro una visione
di fede genericamente fiduciale, che veniva attribuita ai Rifor-
matori, equivocando peraltro il loro linguaggio e il forte conte-
nuto biblico-cristologico del loro messaggio89: «Gli adulti si di-
spongono alla giustificazione quando stimolati e sorretti dalla
grazia divina, accolgono la fede mediante la predicazione e si
muovono liberamente verso Dio, ritenendo per vere le cose che
sono state divinamente rivelate e promesse e, prima di tutto,
che l'uomo colpevole è giustificato da Dio per mezzo della sua
grazia attraverso la redenzione che si ha in Cristo (Rm 3,24);
e quando, riconoscendosi peccatori e per timore della giustizia
di Dio, da cui sono utilmente colpiti, si convertono alla consi-
derazione della misericordia divina e si aprono alla speranza,
confidando che Dio sia loro propizio per i meriti di Cristo, e
incominciano ad amarlo come fonte di giustizia e perciò odiano
e detestano il peccato, per quella penitenza che si deve avere

87
II cosiddetto «semipelagianesimo» — chiamato così a partire dalla fine del XVI
secolo — attribuiva Vinitìum fidei esclusivamente all'uomo: queste tesi erano state già
condannate al II Concilio di Orange del 529: D5 370ss.
88
Decretum de imtificatìone, cap. V: D5 1525.
89
Cf. ib., cap. IX: DS 1533.

181
prima del battesimo; finalmente quando si propongono di rice-
vere il battesimo, di incominciare una vita nuova e di osservare
i comandamenti divini»90.
Il Concilio precisa poi che è la fede l'atto decisivo e indi-
spensabile che prepara alla giustificazione, in piena sintonia con
il messaggio dei Riformatori, che — come i Padri di Trento —
considerano l'atto di credere già totalmente all'interno dell'ini-
ziativa divina della grazia: «L'Apostolo dice che l'uomo è giu-
stificato senza alcun suo merito dalla fede (Rm 3,22-24). Que-
ste parole vanno intese nel senso che la Chiesa cattolica ha sempre
ritenuto ed espresso, che cioè noi veniamo giustificati dalla fe-
de perché la fede è inizio della salvezza umana, fondamento e
radice di ogni giustificazione. Senza di essa è impossibile piace-
re a Dio (Eb 11,6) e giungere al consorzio dei suoi figli. E la
gratuità della giustificazione consiste in questo, che nulla di ciò
che precede la giustificazione, sia la fede, sia le opere, può me-
ritare la grazia della stessa giustificazione. Infatti se è grazia
non può provenire dalle opere, altrimenti, come dice lo stesso
Apostolo, la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6)»91.
Preceduto ed avvolto dalla grazia, l'uomo può accogliere nella
fede il dono di Dio e cosi — nel senso più radicale — collabora-
re alla sua giustificazione: ma anche questa collaborazione è dono.
«Quelli che per i loro peccati si erano allontanati da Dio, sono
da lui chiamati, senza alcun loro merito preesistente, perché si
dispongano alla giustificazione assentendo e cooperando libe-
ramente {lìbere assentìendo et cooperando) alla grazia che li sti-
mola e che li aiuta, in modo che, toccando Dio il cuore dell'uo-
mo con l'illuminazione dello Spirito Santo, non solo l'uomo non
resti inerte (nihilomnino agat), ma riceva quella ispirazione. Ben-
ché egli possa anche respingerla, in ogni caso senza la grazia di
Dio non può muoversi con la sua libera volontà verso la giusti-
zia al cospetto di Lui. Perciò nella Sacra Scrittura quando si
dice: "Convertitevi a me e io mi rivolgerò a voi" (Zc 1,3), ve-
niamo ammoniti riguardo alla nostra libertà; e quando rispon-
diamo: "Convertici a te, Signore, e noi ci convertiremo" (Lam
5,21), confessiamo che la grazia di Dio ci previene»92. In nes-
sun modo, dunque, il rapporto di collaborazione dell'uomo alla
grazia nel processo della giustificazione è inteso nel senso di una
90 Ib., cap. VI: DS 1526.
91
lb., cap. Vili: DS 1532.
92
/ é . , c a p . V: DS 1525.

182
relazione fra pari: in pieno accordo col messaggio della Rifor-
ma intorno alla sola gratta Trento riconosce che non c'è libertà
che non sia stata data all'uomo per grazia, e che perciò la stessa
cooperazione umana è dono di Dio. Più fortemente della Ri-
forma, però, in reazione ad ogni possibile pessimismo antropo-
logico il Concilio mostra come questa libertà donata sia vera
libertà, che nulla toglie alla dignità della creatura coram Deo,
anzi la esalta: con e al cospetto di Dio, noi viviamo sotto il to-
tale primato di Dio, che solo ci fa liberi.
Prevenuto dalla grazia, libero di fronte ad essa per puro do-
no, che è esso stesso grazia, l'uomo accoglie gli effetti della giu-
stificazione e può così produrre i frutti della vita nuova che è
in lui: è qui che Trento scrive una delle più belle pagine della
storia della teologia della grazia. E la dottrina del merito, vici-
na in maniera sorprendente alle tesi del giovane Lutero: «Agli
uomini giustificati, sia che abbiano sempre conservata la grazia
ricevuta, sia che l'abbiano recuperata dopo averla persa, vanno
proposte le parole dell'Apostolo: Abbondate in ogni opera buona,
"sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore" (ICor
15,58); "Dio infatti non è ingiusto da dimenticare il vostro la-
voro e la carità che avete dimostrato verso il suo nome" (Eb
6,10). "Non perdete la vostra fiducia, alla quale è riservata una
grande ricompensa" (Eb 10,35). Perciò a coloro che operano
bene "fino alla fine" (Mt 10,22) e che sperano in Dio va pro-
posta la vita eterna, sia come grazia promessa misericordiosa-
mente ai figli di Dio mediante Cristo, sia come ricompensa da
rendere alle loro opere buone e ai loro meriti secondo la pro-
messa dello stesso Dio. Questa infatti è quella corona di giusti-
zia che dopo il suo combattimento e la sua corsa l'Apostolo af-
fermava gli fosse riservata dal giusto giudice, e non solo a lui,
ma anche a tutti coloro che amano il suo avvento (2Tm 4,7s).
Gesù Cristo infatti come "capo nelle membra" (Ef 4,15) e co-
me "vite nei tralci" (Gv 15,5) infonde continuamente nei giu-
stificati la potenza, che precede, accompagna e segue le loro opere
buone {quae virtus bona eorum opera semper antecedit, comitatur
et subsequitur), e senza la quale in nessun modo esse possono
essere gradite a Dio e meritorie: perciò si deve credere che nul-
l'altro manchi ai giustificati perché, mediante quelle opere fat-
te in Dio, soddisfino pienamente alla legge divina nella vita pre-
sente e meritino di conseguire a suo tempo la vita eterna, pur-
ché muoiano in grazia (Ap 14,13)... In tal modo né si stabilisce

183
come dipendente da noi la nostra giustizia, né si ignora o si ri-
pudia la giustizia di Dio (Rm 10,3). La giustizia che diciamo
nostra, perché grazie al suo inerire a noi veniamo giustificati,
è quella stessa di Dio, infusa da Lui in noi per merito di Cri-
sto»93. Come si vede, in nessun modo Trento attribuisce al-
l'uomo la capacità di meritare da solo, senza l'aiuto della grazia
che precede, accompagna e segue il suo agire: anzi, con un lin-
guaggio densamente biblico e ricco di riferimenti esperienziali
(si pensi all'uso della prima persona plurale, per dire il diretto
coinvolgimento di chi parla nell'esperienza descritta), il Conci-
lio delinea un operare umano totalmente all'interno dell'opera-
re divino, celebrando anche così la priorità e il primato dell'a-
more misericordioso del Dio della grazia.
Non per questo i Padri conciliari hanno lasciato in ombra
le possibili tensioni e i conflitti dovuti alle resistenze della no-
stra libertà, richiamando anzi alla necessaria vigilanza e al biso-
gno di continua conversione e di sempre rinnovata confidenza
in Dio: «Non si deve poi dimenticare che, per quanto valore
la Scrittura attribuisca alle opere buone... deve essere ben lun-
gi dal cristiano il riporre la fiducia e la gloria in se stesso, anzi-
ché nel Signore (cf. lCor 1,31; 2Cor 10,17), la cui bontà verso
gli uomini è così grande da volere che siano loro meriti quelli
che in realtà sono suoi doni. E siccome tutti pecchiamo in mol-
te cose (Gc 3,2), ognuno deve tenere davanti agli occhi tanto
la misericordia e la bontà, quanto la severità e il giudizio...»94.
Lungi dal deresponsabilizzare l'uomo, l'assoluto primato della
grazia esalta la libertà, perché chiama continuamente la perso-
na ad accogliere il dono nella decisione del cuore e nella vigi-
lanza più attenta. In questa luce, l'intero processo della giusti-
ficazione appare come il continuo e sempre nuovo dinamismo
della storia di Dio nella storia dell'uomo, che prevede una cre-
scita reale nell'amicizia con il Signore, da invocare soprattutto
nella preghiera95, comprende lo sforzo possibile e necessario di
osservare i suoi comandamenti96, non esclude mai il rischio
dell'infedeltà ed esige perciò l'impegno della perseveranza, es-
so stesso dono della fedeltà dell'Eterno, senza che siano mai

93
Ib., cap. XVI: DS 1545-1547.
94
Ib., DS 1548s.
" Cf. ib., cap. X: DS 1535.
9
« Cf. ib., cap. XI: DS 1536-1539.

184
chiuse le porte del ritorno a chi sia caduto 97 . In questo com-
plesso di considerazioni Trento mostra una profonda conoscenza
della condizione umana, nella sua dignità e nella sua debolezza,
con approcci sorprendentemente simili a quelli con cui Lutero
presenta la sua visione del simuliustus etpeccator, dove il simul
va inteso in senso dinamico-processuale, più che statico-
ontologico98: a differenza del Riformatore, però, il Concilio
riesce ad affermare il soli Deo gloria in un modo, che evita ogni
pessimismo antropologico. In tal senso va compresa l'insisten-
za di Trento sulla libertà umana, non perduta neanche dopo il
peccato99, e l'affermazione della possibilità di compiere opere
buone anteriormente alla giustificazione 10°, fermo restando che
solo quelle prodotte all'interno della grazia sono meritorie ed
efficaci.
Si potrebbe dire che la convergenza del messaggio fonda-
mentale del Tridentino con le tesi della Riforma si congiunga
a forme di espressione profondamente diverse, non solo a cau-
sa dei differenti paradigmi di pensiero e dei diversi modelli lin-
guistici, ma anche a motivo dell'intentio ultima, che nei Rifor-
matori è soprattutto antipelagiana, in un no deciso ad ogni ot-
timismo sull'uomo, a Trento è nella ricerca dell'equilibrio, bi-
blicamente fondato, del duplice rifiuto tanto dell'ottimismo,
quanto del pessimismo antropologico. Se nelle successive pole-
miche antiprotestanti e nelle controversie di scuola questo equi-
librio sarà talvolta compromesso, ciò sarà dovuto soprattutto
alla perdita di riferimento alla ricchezza del dato biblico ed espe-
rienziale, che invece nei testi del Concilio è densamente custo-
dita e testimoniata101. Tenere insieme il primato assoluto del-
la grazia e l'autentica dignità della creatura libera davanti a Dio
non è avvertito a Trento come problema, per il semplice fatto

97 Cf. ih., capitoli XII-XIV: DS 1540-1542.


98
Cf. K. Rahner, Giusti e al contempo peccatori, in Id., Nuovi Saggi I, Roma 1968,
363-384.
99
Cf. i canoni 4-6 dello stesso Decretum de iustificatione: DS 1554-1556.
100
Cf. ih., can. 7: DS 1557.
101
L'esempio classico di un simile sviluppo è la controversia de auxiliis riguardo
all'azione della grazia nei confronti della libertà dell'uomo: fra l'ottimismo antropolo-
gico di Luis de Molina e dei teologi gesuiti e il pessimismo di Domingo Bafiez e dei
domenicani il magistero della Chiesa significativamente rifiuterà una soluzione univo-
ca, rimandando così in fondo alla complessità dinamica, ancora custodita a Trento: cf.
l'intervento di Paolo V del 5 settembre 1607, che non solo si rifiuta di scegliere fra
le due alternative, ma proibisce ai teologi di ciascuna scuola di considerare eretiche
le posizioni dell'altra: DS 1997. Cf. H. Rondet, La grazia di Cristo, o.c, 337-359.

185
che i due termini non sono considerati come grandezze separa-
te, fra loro commensurabili: come si può verificare in ogni atto
di preghiera autentica e in ogni esperienza di grazia, riconosciuta
nella fede, il dono divino non fa concorrenza alla libera rispo-
sta dell'uomo, la suscita, anzi, e la rafforza, rendendola non so-
lo possibile, ma anche efficace e gioiosa. E anche lì dove la ri-
sposta è negativa, non per questo la fedeltà di Dio e la sua mi-
sericordia cessano di raggiungere la creatura e di lasciarle aper-
ta la possibilità — gratuitamente donata — della conversione.
«Per "comprendere" realmente il problema "grazia-libertà", per
lasciarlo qual è e accettarlo, bisogna rimettersi nell'atteggiamento
di colui che prega: egli riceve, è e restituisce se stesso a Dio,
con l'assumere questa ricezione, come un momento del dono
stesso. Se ci si mette in questa posizione dell'orante, accettan-
do così già la "soluzione" del problema, non si incorre in alcu-
na petitio principii o fuga: si assume solo ciò che si è innegabil-
mente, cioè il proprio essere-reale e insieme ' 'proveniente-da' ' :
la creatura che crea nella libertà e, creando, viene creata come
grazia»102. È questo appunto l'atteggiamento a cui sembra rin-
viare la densa testimonianza dei Padri di Trento, che è confes-
sione di fede, radicata nell'esperienza della tradizione cristiana
indivisa, prima che teologia di scuola.

5.3. L'ECONOMIA SACRAMENTALE

L'ingresso dell'eternità nel tempo, che è il mistero della grazia


come libera e gratuita autocomunicazione del Dio trinitario al-
la creatura personale, viene a compiersi nella storia attraverso
delle mediazioni, che sono esse stesse necessariamente storiche.
Se così non fosse, la differenza del Trascendente resterebbe lon-
tananza insuperabile e l'identità del soggetto storico non ver-
rebbe raggiunta dalla novità dell'avvento nella concretezza del
suo mondo vitale e non sarebbe perciò liberata dalla propria pri-
gione. La novità cristiana non sta in una eternizzazione del tem-
po, che porterebbe l'uomo al di fuori della caducità del presen-
te verso una vita eterna totalmente altra dalla storicità, ma nel
farsi storia dell'Eterno, che consente al qui ed ora della condi-

102
K. Rahner, Grazia e libertà, in Sacmtnentum Mundi IV, Brescia 1975, 401s.

186
zione umana di diventare dimora di Dio, anticipo e caparra d'e-
ternità. In quanto salvezza della storia, e non dalla storia, la re-
ligione dell'incarnazione non disprezza nulla di ciò che è stori-
co e mondano, ma accoglie l'immensità del dono divino nelle
umili coordinate degli eventi e delle parole, in cui l'Eterno ha
voluto offrirsi al tempo. L'insieme delle mediazioni storiche del
dono di Dio è quanto viene chiamato economia sacramentale 10 \

a) Il «mistero»-«sacramento»

Il termine sacramentum, comunemente usato col senso di


«giuramento di fedeltà» civile o militare, fu adoperato dalle an-
tiche versioni latine della Bibbia (l'africana e P«Itala») per tra-
durre il greco iivarfiQLOv, che nel Nuovo Testamento — soprat-
tutto nell'uso paolino — sta a dire il disegno divino di salvezza
che viene a realizzarsi nella storia e si identifica perciò con l'e-
vento Cristo (cf. lCor 2,1; Col 2,2). In lui Dio ci ha fatto co-
noscere «il mistero della sua volontà» (Ef 1,9; cf. 3,3-5), dai
secoli avvolto nel silenzio ed ora rivelato (cf. Rm 16,25). Punto
di contatto fra le espressioni usate nei due mondi linguistici era
l'idea del convenire solenne, mediato storicamente, di due vo-
lontà, e dell'impegno conseguente nei riguardi del patto che ne
fosse scaturito. Nella sua accezione teologica il ixvorrjQLOV-sa-
cramentum viene pertanto a significare l'incontro d'alleanza, che
103
Cf. su quanto segue: J. M. Castillo, Sìmboli di libertà. Analisi teologica dei sa-
cramenti, Assisi 1983; L.-M. Chauvet, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale
dell'esistenza cristiana, Torino-Leumann 1990; T. Citrini, La Chiesa e i Sacramenti, in
Enciclopedia di Teologia Fondamentale I, Genova 1987, 555-651; V. Croce, Cristo nel
tempo della Chiesa. Teologia dell'azione liturgica, dei sacramenti e dei sacramentali, Tori-
no 1992; Groupe des Dombes, L'Esprit Saint, l'Église et les Sacrements, Taizé 1979;
L. Lies, Sakramententheologie. Eine personale Sicht, Graz-Wien-Kòln 1990; K. Rahner,
Chiesa e sacramenti, Brescia 1966; Id., Saggi sui sacramenti e sull'escatologia, Roma
19692; Rites, Symboles, Sacrements, Paris 1988; C. Rocchetta, I sacramenti della fede.
Saggio di teologia biblica sui sacramenti quali "meravìglie della salvezza" nel tempo iella
Chiesa, Bologna 1982; Id., Sacramentaria fondamentale. Dal "Mysterion" al "Sacramen-
tum", Bologna 1989; E. Ruffini - E. Lodi, "Mysterion" e "Sacramentum". La sacra-
mentalità negli scritti dei Padri e nei testi liturgici primitivi, Bologna 1987; Sacrements
de Jésus-Christ, ed. L.-M. Chauvet, Paris 1983; E. Schillebeeckx, De sacramentele heies-
economìe, Antwerpen 1952; Id., Cristo, sacramento dell'incontro con Dìo, Roma 1966;
Id., I sacramenti punti dì incontro con Dio, Brescia 19835; R. Schulte, I singoli sacra-
menti come articolazioni del sacramento radicale, in Mysterium Salutis 8 (IV/II), Brescia
1973, 51-192; O. Semmelroth, La Chiesa, sacramento di salvezza, Napoli 1965; J.-M.R.
Tillard, Le sacrement, événement du salut, Bruxelles 1964. Un'esauriente bibliogtafia
sui sacramenti è offerta da M. Zitnick, Sacramenta. Biblìographia intemationalìs, 4 voli.,
Roma 1992.

187
si compie nella storia, fra l'avvento divino e l'esodo umano. In
quanto abbraccia la gloria e la storia nel dinamismo del loro re-
lazionarsi salvifico, l'orizzonte intenzionale dell'idea è ricco di
simbolicità: esso «tiene insieme» l'eternità e il tempo, in tutto
il gioco di interiorità ed esteriorità, in cui si realizza l'evento
del loro incontrarsi. La libera e gratuita autodestinazione del
Dio vivente all'uomo muove dalle profondità dell'interiorità di-
vina per risplendere nello sfolgorio dell'esteriorità degli eventi
e delle parole della rivelazione. A sua volta, l'autodestinarsi della
creatura all'Eterno, suscitato dall'azione della grazia liberamente
accolta nell'interiorità della persona, viene ad esprimersi nel-
l'esteriorità dell'assenso, in cui risplende la ricchezza del cuo-
re. Il campo dell'incontro delle due interiorità — in tutta la lo-
ro radicale asimmetria — nello spazio comunicativo dell'este-
riorità, che le esprime, è l'universo misterico-sacramentale: esodo
abitato dall'avvento ed avvento colto precisamente nell'atto del
suo visitare e dimorare nella condizione umana, il «mistero»-
«sacramento» investe profondamente la corporeità, in quanto
solo la simbolicità del corpo tiene insieme i mondi interiori, che
reciprocamente si manifestano, nell'esteriorità intermediaria del-
l'una e dell'altra. Si può dire in tal senso che il sacramento è
l'avvento di Dio nella corporeità104, e che l'intera economia
della grazia, in quanto dispensazione gratuita dell'autocomuni-
cazione divina al soggetto storico, è sacramentale 105.
Simbolicità, realtà della comunicazione stabilita fra l'inte-
riorità divina e l'interiorità umana personale nello spazio del-
l'esteriorità comunicativa e asimmetria del rapporto a favore del-
l'assoluto primato e della permanente eccedenza del protagoni-
sta divino, sono dunque gli elementi costitutivi dell'idea di «mi-
stero»-«sacramento»: come tali essi si ritrovano — sia pur se
con paradigmi concettuali e modelli linguistici differenti — nella
definizione scolastica del sacramento come segno efficace della
grazia (signum effìcax gratiaé)106. Nella prioritaria attenzione ai
104
Cf. L.-M. Chauvet, Simbolo e sacramento, o.c, 335: tutta quest'opera analiz-
za articolatamente Io spessore simbolico della sacramentalità.
105
Cf. E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, o.c, 14 e l'in-
tera trattazione.
106
Cf. la definizione di sacramento di Pietro Lombardo: «Sacramentum proprie
dicitur quod ita signum est gratiae Dei et invisibilis gratiae forma, ut ipsius imaginem
gerat et causa existat» (LiberSent. IV d. 1 e. 4). L'idea di causalità efficiente è presente
chiaramente nella sacramentaria di san Tommaso: «Necesse est dicere sacramenta no-
vae Iegis per aliquem modum gratiam causare» (Summa Theologiae III q. 62 a. l e ) .
La definizione data del sacramento correla però il segno e la grazia in maniera più gè-

188
rapporti di causalità, caratteristica di un impianto metafisico
che cerca le connessioni profonde del reale nella comune parte-
cipazione dell'essere, questa formula richiama l'esteriorità del
mondo storico, in cui la sacramentalità si realizza (il «segno»),
l'interiorità del mondo divino dell'avvento e di quello umano
dell'esodo nel loro comunicarsi, scaturito dalla libera iniziativa
dell'Eterno (la «grazia»), e la realtà del rapporto che si stabili-
sce fra loro attraverso la mediazione del segno, scelto dal Dio
vivente come strumento della propria autocomunicazione alla
creatura personale (P«efficacia»). Grazie all'asimmetria della re-
lazione, che pende tutta dalla parte del primato della grazia, que-
sta concezione non può tuttavia essere riportata ad una morti-
ficante onto-teologia, che farebbe del divino un ente fra gli en-
ti di questo mondo107. Tradotta in categorie dialogico-perso-
nalistiche, la formula esprime nient'altro che l'incontro perso-
nale fra il Dio vivente e l'uomo vivente, che si compie attraver-
so la mediazione dell'esteriorità scelta da Dio come luogo del
suo avvento ed attraversata perciò realmente dal movimento della
sua libera autodestinazione all'essere personale umano, il quale
— a partire dal profondo della propria interiorità — corrispon-
de ad essa nella libertà di un assenso, a sua volta preparato e
consentito dalla grazia. In questo senso l'evento sacramentale
rende l'uomo partecipe della pericoresi divina e rappresenta il
luogo storico di ingresso dell'eternità nel tempo e del tempo nel-
l'eternità, che non elimina, ma rispetta anzi fino in fondo la
differenza del Trascendente, anche se nella piena verità della
comunicazione dialogica e della partecipazione del soggetto sto-
rico alla vita eterna: «Il modello della pericoresi deve soggiace-
re ai sacramenti come forma dell'incontro personale»108.

b) il sacramento originario

In questa concezione della sacramentalità non è difficile per


la fede cristiana riconoscere che il sacramento originario, che
esprime e realizza nella forma più alta l'intera economia sacra-

nerale: «Sacramentum... est signum rei sacrae inquantum est sanctificans homines» (III
q. 60 a. 2 e ) .
107
Cf. la critica dei presupposti onto-teologici della sacramentaria classica in L.-
M. Chauvet, Simbolo e sacramento, o.c, llss.
108
L. Lies, Sakramententheologie, o.c, 52.

189
mentale, è il Verbo incarnato: egli è in persona l'eternità nel
tempo, il Figlio eterno, che si fa soggetto di una storia vera-
mente umana, ed unisce perciò in se stesso il mondo di Dio e
il mondo degli uomini senza divisione e separazione, ma anche
senza confusione e mutamento 109. Egli è per eccellenza il «sa-
cramento di Dio»: «Non c'è infatti altro sacramento di Dio che
Cristo»110! Questa sacramentalità originaria va intesa nel sen-
so del duplice movimento che va da Dio all'uomo e dall'uomo
a Dio: nel primo senso Cristo è nella sua carne il dono supremo
del Padre al mondo, l'autocomunicazione personale del Dio vi-
vente nella sua forma storicamente perfetta, il termine di para-
gone che autorizza a confidare anche nell'impossibile possibili-
tà di Dio. «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che
non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per
tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi
accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cri-
sto Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra
di Dio e intercede per noi?» (Rm 8,31-34). «Gli atti di salvezza
dell'uomo Gesù, essendo posti da una persona divina, hanno
una forza divina di salvezza; ma poiché questa forza divina ci
appare sotto una forma terrena, visibile, gli atti salutari di Ge-
sù sono sacramentali. "Sacramento" significa infatti dono di-
vino di salvezza in e attraverso una forma esteriormente tangi-
bile, costatabile, che concreta il dono: un dono di salvezza in
forma storica visibile... L'incontro umano con Gesù è il sacra-
mento dell'incontro con Dio»111.
In quanto poi il Verbo incarnato è veramente uomo, egli
introduce nel mistero più intimo della divinità la realtà dell'in-
tero mondo umano: in questo senso, che può dirsi di mediazio-
ne ascendente, Cristo è nella sua umanità il sacramento del mon-
do, l'esteriorità in cui l'interiorità ultima dell'esodo umano si
media al cuore dell'Eterno e lo raggiunge, non solo nella prov-
visorietà del tempo presente, ma anche come anticipo e pro-
messa della definitività della gloria. «Cristo è la primizia... poi
sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre... e
quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà

109
Sono i quattro avverbi usati a Calcedonia per precisare il rapporto fra le due
nature, divina ed umana, nell'unicità della persona divina del Cristo: cf. DS 302.
110
«Non est enim aliud Dei sacramentum nisi Christus»: sant'Agostino, Epist.
187, 34: PL 38, 845.
111
E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, o.c, 30s.

190
sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio
sia tutto in tutti» (ICor 15,23s.28). «Gesù non è solo la rivela-
zione salvatrice di Dio: egli è anche l'adoratore supremo del Pa-
dre, la realizzazione suprema e perfetta di ogni religione... Nel
Cristo, Dio e il suo amore per gli uomini non sono stati solo
rivelati, Dio ci ha anche mostrato che cos'è un uomo che si dà
interamente a lui, il Padre invisibile. Dio ci ha dunque rivelato
la forma concreta della religione, la figura di un uomo veramente
religioso»112. Gesù rivela al mondo la sua vocazione ultima, il
suo destino più profondo, orientando decisamente l'autotrascen-
denza dell'esodo umano verso il suo unico, possibile compimento
pieno e definitivo: l'autocomunicazione di Dio. Nell'uomo ve-
ro, che è il Figlio incarnato, l'identità del soggetto storico è ri-
velata nella sua più profonda struttura religiosa: non identità
chiusa e sazia di sé, ma identità aperta, io inquieto e problema-
tico, perennemente in ricerca e destinato all'Eterno, cui però
può destinarsi soltanto nella libertà di un'autodonazione, che
nell'obbedienza filiale del Cristo trova il suo compimento per-
fetto.
Sacramento di Dio, sacramento dell'uomo, Cristo è in per-
sona l'alleanza dei mondi, Colui in cui cielo e terra si incontra-
no e l'esodo e l'avvento pienamente comunicano: «Gesù Cristo
è nella sua scandalosa identità di unico soggetto della storia di-
vina e della storia umana, che in lui si compiono, l'alleanza in
persona: in lui non si incontrano staticamente due nature sim-
metriche in un'unica ipostasi, ma dinamicamente due condizioni,
due storie totalmente diverse e incomparabili, di cui egli è lo
stesso soggetto, in un fecondo divenire di relazioni. Questo in-
contro dinamico e sconcertante, è insieme apertura dell'un mon-
do all'altro, e sovversione del mondo umano da parte del mon-
do di Dio»113. Gesù Cristo è la grazia in persona! In lui Dio
si rivela come il Dio per noi e con noi, il Dio amore, che libera-
mente sceglie di «uscire da sé» e di autocomunicarsi all'uomo
per stringere con la sua creatura un'alleanza di vita eterna: l'av-
vento che si compie nel mistero dell'incarnazione e della pasqua
è il sacramento dell'esodo eterno, della gratuita destinazione che
il Dio vivente fa di sé all'altro da sé, creato dal nulla per puro
amore. Il Risorto è parimenti il sacramento dell'avvento della

112
Ih., 33.
113
B. Forte, Gesù dì Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, o.c, 189.

191
creatura nel mondo delle relazioni dell'eterna storia divina: in
lui non solo la differenza del Trascendente ha abitato l'identità
del soggetto storico, ma questa a sua volta è stata ammessa a
dimorare nell'Altro, resa capace di uscire da sé per ritrovarsi
in Dio. Sacramento dell'esodo e dell'avvento umano e divino,
il Verbo incarnato realizza tutte le dimensioni della simbolici-
tà, propria del «mistero»-«sacramento»: egli tiene insieme il lon-
tano e il diviso, egli è il riconciliatore, in cui la vita eterna di
Dio scorre nella storia e la storia abita la gloria. Egli solo è la
nostra pace, che abbatte per mezzo della sua carne il muro del-
la lontananza invalicabile e della separazione colpevole: per mez-
zo di lui possiamo tutti presentarci al Padre in un solo Spirito
(cf. Ef 2,14-18)!

e) La Chiesa sacramento

L'economia sacramentale, realizzata pienamente nel sacra-


mento originario che è Cristo, esige però un prolungamento
analogico: se l'eterna autodestinazione di Dio all'uomo è fe-
dele e senza pentimento, e se l'uomo ha sempre assoluto bi-
sogno di uscire dalla prigionia del proprio io per aprirsi all'al-
terità salutare, l'incontro di grazia compiutosi nel Figlio in-
carnato dovrà attualizzarsi nel tempo per ogni creatura. Si co-
glie qui in particolare il ruolo dello Spirito Santo, la cui mis-
sione storica non è solo quella di riempire con la propria un-
zione il Verbo fatto carne, ma anche quella di raggiungere ogni
uomo con la grazia del Redentore, rendendo presente il Cro-
cifisso Risorto ad ogni situazione umana. Lo Spirito è la di-
mensione storica del mistero, la memoria potente di Dio che
si accompagna alla sua creatura in ogni ora del tempo, in ogni
frammento di spazio: «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il
Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi
ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Questa azio-
ne del Paraclito si compie nella storia e per la storia, e si av-
vale perciò delle mediazioni storiche che, volute dal Signo-
re, prolungano analogicamente il mistero della sua incarna-
zione: la Chiesa, comunità della salvezza, è il luogo privile-
giato dello Spirito, e perciò è il sacramento di Cristo. «La Chie-
sa è in Cristo come un sacramento, cioè un segno e uno stru-

192
mento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere
umano» m .
La struttura sacramentale della realtà ecclesiale si chiarisce
in analogia a quella del sacramento originario: «Cristo, unico
mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa, comu-
nità di fede, di speranza e di carità, come una compagine visi-
bile e la sostenta incessantemente e per mezzo di essa diffonde
su tutti la verità e la grazia. La società costituita di organi ge-
rarchici e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la co-
munità spirituale, la Chiesa della terra e la Chiesa ormai in pos-
sesso dei beni celesti non si devono considerare come due real-
tà, ma formano un'unica complessa realtà risultante di un ele-
mento umano e di un elemento divino. Per una non debole ana-
logia, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. In-
fatti, come la natura assunta è a servizio del Verbo divino co-
me vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in mo-
do non dissimile l'organismo sociale della Chiesa è a servizio
dello Spirito di Cristo, che lo vivifica, per la crescita del corpo
(cf. Ef 4,16)»115. All'economia sacramentale dell'incarnazione
succede — secondo una continuità analogica U6 — la Chiesa,
corpo animato dallo Spirito, sacramento di salvezza: essa «è sulla
terra il sacramento di Cristo come Gesù Cristo è per noi, nella
sua umanità, il sacramento di Dio»117. Nella Chiesa lo Spirito
rende presente il Cristo perché la grazia della riconciliazione
in lui offerta raggiunga ogni uomo nello sfolgorio di un'esterio-
rità, carica di interiorità divina: «La Chiesa non è solo un mez-
zo di salvezza: è la salvezza stessa del Cristo, cioè la forma cor-
porale di questa salvezza, questa salvezza in quanto si manife-
sta nel mondo. Essa è "il corpo del Signore"» U8 . Nello stesso
114
Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
1. L'intero capitolo I della Costituzione è dedicato al mistero, che è la Chiesa: De Ec-
clesiale mysterio. L'idea della Chiesa sacramento — riemersa nella teologia del secolo
XX, il «secolo della Chiesa» — ritorna in più luoghi del Concilio: cf. Lumen Gentium
9 e 48; Ad Gentes 1 e 5; Gaudium et Spes 45. Cf. per l'immediata preparazione delle
idee del Vaticano II O. Semmelroth, La Chiesa sacramento di salvezza (1953), o.c, e
per la loro recezione al Concilio P. Smulders, La Chiesa sacramento della salvezza, in
La Chiesa del Vaticano II, sotto la direzione di G. Baraùna, Firenze 1967, 363-386.
115
Lumen Gentium 8. Cf. B. Forte, La Chiesa nell'eucarestia, Napoli 19882,
196-206.
116
Parlare di continuità analogica significa escludere ogni idea di incarnazione
dello Spirito: cf. H. J. Nicolas, Le sens et la valeur en ecclésiologie du parallélisme de
structure entre le Christ et l'Eglise, in Angelicum 43 (1966) 353-358.
117
H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa (1953), Milano 1965, 249.
118
E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, o.c, 79.

193
tempo, in quanto popolo di Dio solidale alla vicenda umana,
la Chiesa si offre in Cristo al Padre come sacramento dell'uma-
nità, bisognosa del dono della grazia: essa è la vivente simboli-
ca dell'esodo, dell'umano andare che appella al divino venire
dell'avvento.
In questo duplice senso la Chiesa è «per tutti e per i singoli
il sacramento visibile dell'unità salvifica», il «sacramento uni-
versale di salvezza» 119: in quanto però rimanda alla pienezza
del suo Signore e alla realizzazione definitiva del dono promes-
so, la sacramentalità della Chiesa ha un carattere «escatologi-
co», che «tiene insieme» nella sua simbolicità l'ulteriorità del
futuro atteso e sperato e la provvisorietà del «frattempo», che
è il tempo del pellegrinaggio. Sacramento del «già» compiutosi
in Cristo, la Chiesa è non di meno sacramento del «non anco-
ra», che in lui è stato promesso: perciò, essa «prosegue il suo
pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni
di Dio, annunziando la passione e la morte del Signore fino a
che egli venga (cf. ICor 11,26). Dalla forza del Signore risusci-
tato trova forza per vincere con pazienza e amore le sue inter-
ne ed esterne afflizioni e difficoltà, e per svelare al mondo con
fedeltà, anche se sotto ombre, il mistero del Signore, fino a che
alla fine dei tempi sarà manifestato nella pienezza della sua lu-
ce» 120. Il sacramento ecclesiale è dunque il luogo della grazia
nella totale fedeltà dell'autocomunicazione divina all'essere e
al divenire storico del protagonista umano dell'alleanza: è la gra-
zia nella corporeità del frammento e nella dinamicità del frat-
tempo!
La sacramentalità della Chiesa come presenza permanente
dell'autocomunicazione di Dio in Gesù Cristo, attuata nella sto-
ria per la forza dello Spirito, raggiunge allora gli uomini non
genericamente, ma nella concretezza della loro esistenza stori-
ca. Quando l'agire salvifico del «mistero»-«sacramerito», che è
la Chiesa, viene a realizzarsi nella situazione del singolo, impe-
gnando l'efficacia sacramentale del Corpo del Signore analogi-
camente prolungato nel tempo, si pongono quegli eventi del-
l'incontro con la grazia, che sono i sacramenti: si potrebbe dire
che i singoli sacramenti, attualizzando il dono di Dio nella co-
munione ecclesiale, si presentano come attuazioni fondamen-

119
Lumen Gentium 9 e 48; Gaudìum et Spes 45. Cf. pure Ad Gentes 1 e 5.
120
Lumen Gentium 8.

194
tali della Chiesa stessa. Come cioè la Chiesa è il sacramento di
Cristo e Cristo il sacramento di Dio, così gli eventi sacramen-
tali sono i sacramenti della Chiesa, l'effettiva attuazione stori-
ca del suo essere il luogo dell'autocomunicazione di Dio in Cri-
sto e nello Spirito. Perciò essi sono luoghi di incontro persona-
le col Vivente, che — raggiungendo il cuore dell'uomo con la
grazia — si offre al credente nel volto visibile del gesto sacra-
mentale: «Tu ti sei mostrato a me faccia a faccia, o Cristo: io
ti trovo nei tuoi sacramenti»121. In modo analogico, i sacra-
menti prolungano la visibilità del Salvatore: «Ciò che era visi-
bile nel Cristo è passato nei sacramenti della Chiesa»122. Si po-
trebbe perciò dire che il sacramento è un atto salvifico compiu-
to dal Cristo stesso, che incontra la persona umana attraverso
la mediazione di un evento ecclesiale di grazia, in cui l'esterio-
rità comunicativa è posta in obbedienza alle istituzioni sacra-
mentali della Chiesa, volute dal Signore, e l'interiorità della par-
tecipazione alla vita trinitaria è prodotta dall'azione dello Spi-
rito Santo: così, attraverso i ministri della Chiesa è Cristo glo-
rioso che «predica la parola di Dio a tutte le genti e continua-
mente amministra ai credenti i sacramenti della fede» 12 \
Nei sacramenti della Chiesa la giustificazione diviene dun-
que evento della storia concreta degli uomini e il mistero della
grazia può raggiungere e trasformare l'intero loro cuore, nella
verità delle situazioni in cui la loro vita è posta e si sviluppa.
Nella visibilità del sacramento l'eternità mette le sue tende nel
tempo e la storia di Dio viene veramente a visitare e ad abitare
l'esodo umano. L'unico e definitivo evento pasquale del Croci-
fisso Risorto, in cui si è compiuta una volta per sempre la no-
stra riconciliazione, si attualizza nel gesto sacramentale della
Chiesa, istituzione del tempo vivificata dallo Spirito dell'Eter-
no: e così, nella verità più profonda, nell'economia sacramen-
tale la grazia si fa storia e la storia partecipa dell'eternità del
Dio vivo. Il sacramento della differenza salvifica redime l'identità
dalla sua prigione ed insieme si fa sacramento della stessa iden-
tità dell'uomo e del mondo nel cuore accogliente della Trinità.
L'economia sacramentale — nel denso rimando simbolico di Cri-

121
Sant'Ambrogio, Apologia prophetae David, XII, 58: PL 14,875: «Facie ad fa-
ciem te mihi, Christe, demonstrasti, in tuis te invenio sacramentis».
122
Leone Magno, Sermo 74,2: PL 54,398: «Quod conspicuum erat in Christo,
transivit in ecclesiae sacramenta».
23
Lumen Gentìum 21.

195
sto al Padre, della Chiesa a Cristo, dei sacramenti alla Chiesa
— è la porta storica dell'eternità nel tempo e del tempo nell'e-
ternità, la «carne» in cui passa lo Spirito, la visibilità irrinun-
ciabile della grazia e della giustificazione, che sono e restano
sempre nel disegno divino «per noi uomini e per la nostra sal-

l2
* La formula «propter nos homines et nostram salutem» esplicita il valore sote-
riologia} dei Simboli di fede: cf. ad esempio DS 150 (il Credo Niceno-Costantinopolitano
del 381). L'intenzione antipelagiana ha portato Lutero ad estendere il rifiuto verso tutto
ciò che gli appariva presunzione umana di salvezza anche a molti aspetti della necessa-
ria mediazione storica della grazia: appare perciò sempre più chiaro che il vero punto
del dialogo e della ricerca ecumenica fra le tradizioni confessionali non è tanto la dot-
trina della giustificazione, quanto quella della Chiesa e dei sacramenti, con l'etica che
ad essa consegue.

196
6.

L'ETHOS SACRAMENTALE

6.1. I S A C R A M E N T I E L ' E T H O S

a) Sacramenti ed esistenza redenta

La creatura nuova, che è l'uomo giustificato dalla grazia,


manifesta nel suo agire la novità del dono divino, che ha rag-
giunto e trasformato il suo cuore: gli uomini nuovi cantano il
cantico nuovo. Novi novum canamus canticum! Anche se in un
continuo processo di uscita da sé per lasciarsi abitare dalla salu-
tare alterità, che libera dal dominio catturante dell'identità, spe-
rimentando dunque sempre di nuovo in se stesso la verità esi-
stenziale del simul iustus etpeccator, chi ha fatto esperienza del
dono dell'autocomunicazione divina non può non esserne se-
gnato nell'interiorità più profonda e nello splendore irradiante
dell'esteriorità. La grazia si esprime in un ethos, in quanto es-
sa è al tempo stesso «dimora» (^$os) dell'uomo nuovo, nasco-
sto con Cristo in Dio (cf. Col 3,3), e forza di un nuovo «costume»
(!'t?os), in cui il comportamento è motivato, sostenuto e carat-
terizzato dall'alleanza con Dio e dalla presenza del suo Spirito,
effuso nei nostri cuori: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spi-
rito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8,14). Poiché però
il dono di grazia è sempre storicizzato e raggiunge concretamente
l'essere personale negli eventi sacramentali della Chiesa 1 , si

1
Cf. su quanto segue e su quanto verrà detto riguardo ai singoli sacramenti: J.
Auer, I sacramenti della Chiesa, Assisi 19892; Id., Il mistero dell'eucaristia. La dottrina
generale dei sacramenti e il mistero dell'eucaristia, Assisi 19892; J. M. Castillo, Simboli
di libertà. Analisi teologica dei sacramenti, Assisi 1983; L.-M. Chauvet, Simbolo e sacra-
mento. Una rilettura sacramentale dell'esistenza cristiana, Torino-Leumann 1990; H. Denis,
Sacrements, sources de vie. Etudes de théologie sacramentaire, Paris 1982; W. Eckermann
(ed.), Sakramente. Heilszeichen fùr das Leben der Welt, Cloppenburg 1987; J. Finken-
zeller, Die Lehre von den Sakramenten im allgemeinen. Von der Schrift bis zur Scbolastik,
Freiburg-Basel-Wien 1980; H. Fries, Wort und Sacrament, Miinchen 1966; A. Gonzà-
lez Dorado, Los Sacramentos del Evangelio. Sacramentologia fundamental y organica, Bo-

197
può dire che l'ethos cristiano — come «dimora» della persona
nel Dio vivente e «comportamento» da Lui vivificato — è l'e-
thos della grazia sacramentale. I sacramenti — attuazione del
sacramento ecclesiale, che rimanda a sua volta nello Spirito al
sacramento originario, Cristo — sono la sorgente, la forma e
la via dell'etica dell'esistenza redenta. L'economia sacramenta-
le — in cui la grazia e la giustificazione prendono «volto» e si
fanno evento e vita del concreto soggetto storico — è al tempo
stesso il fondamento, lo statuto e la legge di sviluppo del «do-
ver essere» del cristiano2. Si può affermare che il sacramento
è «il luogo simbolico del passaggio, sempre da farsi, dalla Scrit-
tura all'Etica, dalla lettera al corpo»3.
gota 1988; A. Gonzàlez Fuente, ElEspirìtu Santo y los sacramentos, in Angelicum 55
(1978) 12-57.366-414; U. Kuhn, Sakramente, Gutersloh 1985; M. G. Lawler, Symbol
and Sacramenti A Contemporary Sacramentai Theology, New York 1987; L. Lies, Sakra-
mententheologie. Eine personale Sìcht, Graz-Wien-Kòln 1990; F. Marinelli, Segno e realtà.
Studi di sacramentaria tomista (Lateranum 43, n. 2), Roma 1977; S. Marsili, 1 segni del
mistero di Cristo. Teologia liturgica dei sacramenti, Roma 1987; A. G. Martimort, I Se-
gni della Nuova Alleanza, Roma 19663; M. Nicolau, Teologia del segno sacramentale,
Roma 1971; F.-J. Nocke, Parola e gesto. Per comprendere i sacramenti, Brescia 1988;
K. B. Osborne, Sacramentai Theology: A Generallntroduction, New York 1988; K. Rah-
ner, Chiesa e sacramenti, Brescia 1966; Id., Saggi sui sacramenti e sull'escatologia, Roma
19692; Rites, Symboles, Sacrements, Paris 1988; C. Rocchetta, I sacramenti della fede.
Saggio di teologia biblica sui sacramenti quali "meraviglie della salvezza" nel tempo della
Chiesa, Bologna 1982; Id., Sacramentaria fondamentale. Dal "Mysterion" al "Sacramen-
tum", Bologna 1989; H. Rondet, La vìe sacramentaire. Théologie, histoire et dogme, Pa-
ris 1972; E. Ruffini - E. Lodi, "Mysterion" e "Sacramentum". La sacramentalità negli
scritti dei Padri e nei testi liturgici primitivi, Bologna 1987; Sacrements de Jésus-Christ,
ed L.-M. Chauvet, Paris 1983; E. Schillebeeckx, De sacramentele heilseconomie, Ant-
werpen 1952; Id., Cristo, sacramento dell'incontro con Dìo, Roma 1966; Id., I sacra-
menti punti dì incontro con Dìo, Brescia 19835; Th. Schneider, Segni della vicinanza di
Dio. Compendio di teologia dei sacramenti, Brescia 19852; R. Schulte, / singoli sacra-
menti come articolazioni del sacramento radicale, in Mysterium Salutis 8 (IV/II), Brescia
1973, 51-192; C. Scordato, Mondo. Numero. Immaginario. Saggi sui Sacramenti, Paler-
mo 1988; M. Semeraro, // Risorto tra noi. Origine, natura e funzioni dei sacramenti, Bo-
logna 1992; O. Semmelroth, La Chiesa, sacramento dì salvezza, Napoli 1965; F. Tabor-
da, Sacramenti, prassi e festa, Assisi 1989; J.-M. R. Tillard, Le sacrement, événement du
salut, Bruxelles 1964; E. R. Tura, Il Signore cammina con noi. Introduzione hi sacramen-
ti, Padova 1987; H. Vorgrimler, Sakramententheologie, Dusseldorf 1987. Per una ras-
segna bibliografica pressoché completa cf. M. Zitnik, Sacramenta. Bibliographia inter-
nationalìs, 4 voli., Roma 1992.
2
II tema merita ancora molto approfondimento: fra la bibliografia utile cf. L.-M.
Chauvet, Sìmbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell'esistenza cristiana, o.c., spe-
cie 159ss («Il rapporto sacramento/etica»); V. Eid, Sakramente und christliches Ethos. Skizze
zu eìnem Thema des Problem Glaube und Moral, in In libertatem vocali estis, ed. da H.
Boelaars e R. Tremblay, Roma 1977, 139-153; B. de Margerie, Sacrements et développe-
ment integrai, Paris 1977; J. Ratzinger, Il fondamento sacramentale dell'esistenza cristiana,
Brescia 1981; L. Villette, Voi et sacrement. De Saint Thomas à Karl Barth, Paris 1964;
D. Zadra, I sacramenti e il tempo, in K. H. Neufeld (ed.), Problemi e prospettive di teolo-
gia dommatica, Brescia 1983, 253-273; C. Yannaras, La libertà dell'ethos, Bologna 1984.
^L.-M. Chauvet, Simbolo e sacramento, o.c, 183.

198
La convinzione che attraverso i sacramenti la grazia della
riconciliazione operata da Cristo raggiunga nello Spirito Santo
l'intera esistenza del credente e la trasformi dall'interno è espres-
sa già nel loro numero settenario4: indicativo di pienezza nel-
la simbologia biblica5, il numero sette evoca l'attuazione della
mediazione della grazia nell'intero sviluppo della vita persona-
le. È così che l'interpreta Tommaso d'Aquino, secondo il du-
plice dinamismo della simbolicità sacramentale: in quanto i sa-
cramenti sono ordinati al movimento dalla creatura a Dio, essi
esprimono le esigenze fondamentali della struttura esodale del-
l'uomo, sul piano individuale — la nascita, la crescita, il nutri-
mento, la guarigione e il sostegno nell'infermità — e su quello
sociale — il governo della comunità e il suo sviluppo —; in quan-
to invece sono ordinati a visibilizzare la prossimità amorevole
dell'avvento divino, i sacramenti manifestano l'accondiscendenza
dell'Eterno alla fragilità della creatura 6 . Ne risulta che il set-
tenario sacramentale ha un precipuo impianto storico-dinamico,
attraverso il quale la storia di Dio «prende corpo» nella concre-
tezza e nella verità della storia degli uomini: in tal senso, esso
corrisponde alla sacramentalità generale della storia della sal-
vezza, testimoniata nella rivelazione, per la quale non si dà fram-
mento di tempo o luogo dello spazio che non sia raggiunto dal-
la vicinanza salvifica del Dio dell'alleanza. «Il sacramento non
è la redenzione e basta, ma l'atto di redenzione in quanto ri-
volto ad un particolare bisogno di redenzione, umano ed ec-
clesiale, differenziato secondo i sette sacramenti»7. L'even-
to sacramentale è così il segno vivo del «farsi prossimo» di Cri-
sto nello Spirito ad una persona determinata, in una situazio-
ne ed in un bisogno preciso della sua esistenza, attraverso la
sacramentalità ecclesiale: prospettiva, questa, che indirizza ver-
so «un'intelligenza teologica dei sacramenti come espressio-
ne della "corporalità" della fede»8, e perciò verso un ethos
che, radicato nel sacramento, investa l'interiorità della perso-

4
La Chiesa professò il numero settenario dei sacramenti solennemente nel Con-
cilio di Lione nel 1274 {DS 860: «septem esse ecclesiastica sacramenta»), in quello di
Firenze nel 1439 (DS 1310-1313: «novae legis septem sunt sacramenta») ed a Trento
(Sessio VII, 3 mar2o 1547, Decretum de sacramentis, can. 1: DS 1601).
5 Cf. C. Scordato, Mondo. Numero. Immaginario. Saggi sui Sacramenti, o.c, 61-101
(«Per una comprensione simbolica del settenario sacramentale»).
6
Cf. il bel testo di Summa Theologiae III q. 65 a. 1.
7
E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, o.c, 123.
8
L.-M. Chauvet, Simbolo e sacramento, o.c, 107.

199
na nella verità della sua storia e si irradi nello sfolgorio dell'e-
steriorità.
A conclusioni analoghe circa il rapporto fra sacramenti e in-
tegralità dell'esistenza storica si perviene muovendo dalla con-
siderazione del ruolo che la parola ha nell'evento sacramentale:
la densa formula di Agostino — «Accedit verbum ad elemen-
tum et fit sacramentum»9 — sta a dire l'indissolubile intrec-
cio di «corporalità» e di «linguaggio», che si compie nei sacra-
menti della salvezza. Questo intreccio è caratteristico dell'in-
tera economia della rivelazione: «Questa economia della rivela-
zione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra lo-
ro (gestis verbisque intrinsece inter se connexis), in modo che le
opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano
e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le
parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse con-
tenuto» 10. Il Dio, che vuol parlare agli uomini come ad amici
(cf. Es 33,11 e Gv 15,14s), si rivolge ad essi nel loro campo
comunicativo, con i mezzi di cui essi si servono per realizzare
l'incontro interpersonale: per comunicarsi all'uomo, Dio «si fa»
linguaggio, assumendo i gesti e le parole attraverso cui è possi-
bile raggiungere l'interiorità del suo interlocutore n. La Paro-
la entra nelle parole, l'eterno evento dell'amore viene ad affac-
ciarsi negli umili eventi dell'amore umano: l'esteriorità dei ge-
sti e della voce viene riempita dal di dentro dall'interiorità del
mistero divino, per visitare così il cuore dell'uomo e dimorare
in esso. Le parole dell'autocomunicazione divina hanno perciò
un carattere «performativo», tale cioè da porre in essere la real-
tà che esprimono. Ciò che avviene nell'intera economia sacra-
mentale della salvezza, e che si realizza sommamente nel farsi
carne della Parola eterna, si compie analogamente nei singoli
eventi sacramentali: attraverso gesti e parole familiari all'uomo
e da lui comprensibili, la grazia raggiunge l'interiorità della per-
sona e vi opera le sue meraviglie. E poiché l'evento linguistico
è sempre storicamente determinato, accade cioè in situazioni
concrete e nell'ambito di campi intenzionali definiti, il sacra-
mento come evento della parola che si unisce al gesto viene ad

9
Iti Johatmis Evangelium, 80, 3: PL 35,1840.
10
Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Ver-
bum 2.
11
Sul significato del linguaggio nella comunicazione umana e nell'atto di rivela-
zione cf. B. Forte, Teologia della storia, Milano 19912, 113ss.

200
attuarsi sempre nella concreta determinazione storica delle si-
tuazioni vitali in cui la persona e la comunità sono poste. «È
nella professione di fede sacramentale (deprecatoria e dichiara-
tiva) della Chiesa che il Cristo celeste può fare di un elemento
terrestre o di un atto umano l'espressione sacramentalmente vi-
sibile del suo atto celeste salvifico» u. Anche così la Parola fat-
ta carne «prende corpo» nella verità delle esistenze umane, che
raggiunge e salva.
11 legame performativo, che unisce l'evento sacramentale al-
l'esistenza storica della persona in tutte le dimensioni in cui es-
sa si realizza, è espresso anche dal sistema linguistico elaborato
dalla Scolastica per indicare il nesso di esteriorità ed interiorità
nell'avvenimento di grazia, che sono i sacramenti: è Pietro Lom-
bardo che distingue l'esteriorità del segno {sacramentum tantum)
dalla realtà interiore comunicata, la comunione di vita col Dio
trinitario {res sacramenti), e qualifica il rapporto dinamico fra
segno esteriore ed interiorità dell'evento combinando i due ter-
mini {res et sacramentum)13. Grazie a questo gioco linguistico
è reso con efficacia il rapporto fra sacramento ed ethos reden-
to: i sacramenti non toccano né solo l'esteriorità dell'agire, né
solo l'interiorità dell'essere, ma saldano il comportamento este-
riore alla trasformazione interiore operata dalla grazia.
Di conseguenza, l'etica sacramentale non è né solo osser-
vanza esteriore, né solo motivazione e vitalità interiore inespres-
se, ma «etica del volto», sfolgorio dell'esteriorità abitata e mos-
sa dalla novità della grazia che opera nell'uomo interiore e pro-
fondità del cuore trasformata dallo Spirito, che si irradia nella
visibilità dell'agire. Il campo proprio dell'etica teologale è quello
indicato dall'espressione res et sacramentum, campo dell'interio-
rità e della socialità insieme, dell'autocomunicazione divina al-
la creatura personale e della comunione storica ed ecclesiale, in
cui questa autocomunicazione si realizza e si esprime: «dimo-
ra» e «costume» — le due dimensioni richiamate dall'etimo di
ethos —, in quanto sono caratterizzati dalla presenza e dall'a-
zione della grazia nell'uomo, si rapportano fra loro precisamen-
te secondo il nesso indicato dalla formula res et sacramentum.
In forza dell'evento sacramentale la «dimora» — che è l'essere
in Dio della creatura e l'inabitazione divina nell'interiorità per-

12
E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, o.c, 140.
13
Cf. LiberSent. IV d. 22 e. 2.

201
sonale — si manifesta nel «costume», e il «costume» — che è
la prassi storica della creatura nuova suscitata dalla grazia —
irradia nella visibilità dei volti il mistero della «dimora».

b) Ethos crìstologico

L'ethos che i sacramenti vengono a fondare si caratterizza


anzitutto nel suo rapporto col sacramento originario: l'ethos sa-
cramentale è un ethos crìstologico. Il rapporto fra l'essere e l'a-
gire del cristiano e il Cristo vivente in Dio è mediato dai sacra-
menti sul triplice piano storico-istituzionale, misterico e perfor-
mativo. Sul piano storico-istituzionale gli eventi sacramentali
si rapportano al Signore Gesù in quanto da lui voluti e «istitui-
ti»: senza questa continuità storico-visibile si perderebbe la forza
della stessa continuità analogica stabilita fra l'incarnazione del
Verbo, il sacramento ecclesiale e i sacramenti della Chiesa. Perciò
la simbolica della fede si è preoccupata di difendere Yinstitutio
sacramentorum ad opera di Cristo contro le tesi che, negandola,
tendevano in realtà ad indebolire più in generale la sacramen-
talità del Corpo ecclesiale del Signore14. Certamente, l'idea di
un'istituzione storica non va intesa in senso positivistico: «Una
"istituzione" indiretta o implicita da parte del Gesù pre-
pasquale, terreno, non solo è sufficiente ma è anche necessaria,
a partire dalla natura stessa del gesto. In senso pieno, infatti,
il sacramento è una realtà porf-pasquale, e questo vale sia per
il sacramento primordiale Gesù Cristo, come per la Chiesa ed
i singoli atti»15. In quanto, cioè, i sacramenti sono attuazione
del sacramento ecclesiale, si può affermare che essi sono stati
istituiti dal Signore precisamente perché ed in quanto la Chie-
sa è stata voluta ed istituita da Lui. La continuità storica teolo-
gicamente significativa non è tanto quella fra il Gesù pre-pasquale
e gli eventi sacramentali della nuova alleanza, peraltro attesta-
ta nel Nuovo Testamento, esplicitamente almeno per alcuni sa-
cramenti (battesimo: Mt 28,19; confermazione: cf. At 8,14-17;
eucaristia: Me 14,22-25 par. e lCor 11,23-25.26; penitenza:
Gv 20,21-23; unzione: cf. Me 6,13, Le 9,1 e Gc 5,14s; ordine
sacro: Le 22,19 e lCor 11,24; matrimonio: cf. Mt 19,3-6 e Ef

14
Cf. il can. 1 del Decretum de sacramentis del Concilio di Trento: DS 1601.
15
Th. Schneider, Segni della vicinanza di Dio, o.c, 57.

202
5,22-27), quanto quella fra il Cristo, la Chiesa suo sacramento
e i sacramenti in cui concretamente si attua la sacramentalità
ecclesiale. È questa continuità che — anche storicamente —
non può esser messa in dubbio 16 e che assicura il credente cir-
ca la volontà del Signore di venirgli incontro nel suo bisogno
specifico proprio nel singolo sacramento.
Sul piano misterico il rapporto fra l'evento sacramentale e
l'evento Cristo è illuminato dalla concezione biblica del «me-
moriale»17: la radice ebraica zkr, nei testi veterotestamentari
in cui compare riferita a Dio, e i termini neotestamentari èa>a.\ivt\-
OLS e ixurj^óavvov usati in riferimento alla Cena del Signore (cf.
Le 22,19 e ICor ll,24s) o all'azione del suo Spirito (cf. Gv
14,26), rendono l'idea di una memoria potente, che attualizza
in maniera dinamica l'azione salvifica dell'Eterno. Non si trat-
ta di una semplice estensione della mente al passato, priva di
contenuto reale, ma di un movimento di ripresentazione per cui
ciò che è avvenuto una volta per sempre si rende presente nel-
l'oggi della comunità celebrante per raggiungerla e contagiarla
della sua efficacia18. L'evento pasquale della morte e resurre-
zione del Signore — ora suprema e definitiva della nostra sal-
vezza — viene reso attuale, contemporaneo all'oggi della Chie-
sa nel concreto della sua situazione storica, grazie all'azione dello
Spirito consolatore, che è la vivente memoria di Dio per noi.
Nella concretezza del segno sacramentale, la parola e il gesto
della Chiesa sono strumento della presenza viva di Cristo e luogo
del nostro incontro personale con lui: in quanto è il Crocifisso
Risorto a farsi presente nel suo Spirito, il sacramento attualiz-
za l'incontro con lui — già prigioniero della morte per amore
nostro, ora vivente di vita piena presso il Padre — nella tripli-
ce dimensione della storicità.

^ Si pensi soltanto al significato che l'ultima cena ha per l'istituzione della Chiesa,
oltre che dell'eucaristia: cf. J. Coppens, L'Eucharistie, Sacrement et sacri/ice de la nou-
velle Alliance - Fondement de l'Église, in Aux origìnes de l'Église, sous la dir. de J. Gi-
blet, Paris 1965, 125-258.
17
Cf. M. Thurian, L'eucaristìa, memoriale del Signore, sacrificio di azione di gra-
zia e d'intercessione (1959), Roma 1967, e B. Neunheuser, Memoriale, in Nuovo Dizio-
nario di Liturgia, Milano 1990", 820-838, con bibliografia.
18
La riscoperta della categoria di «memoriale» si deve anche alla «teologia dei
misteri» di Odo Casel, fra i cui scritti cf. Die Liturgie als Mysterienfeier, Freiburg i.
B. 1922, e II mistero del culto cristiano (1932), Torino 1966. Cf. A. Schilson, Theologie
als Sakramententheologie. Die Mysterientheologie Odo Casels, Mainz 1982. L'obiezione
mossa a Casel riguarda l'uso dei misteri pagani ellenistici per chiarire le categorie storico-
salvifiche proprie del mondo biblico.

203
Questo aspetto è illustrato magistralmente da san Tomma-
so: «Sacramento è propriamente ciò che è ordinato a significa-
re la nostra santificazione. In essa possono venire considerate
tre cose: la causa stessa della nostra santificazione, che è la pas-
sione di Cristo; la forma di essa, che consiste nella grazia e nel-
le virtù; e il suo fine ultimo, che è la vita eterna. Tutto questo
viene significato per mezzo dei sacramenti. Per cui il sacramento
è sia segno commemorativo {signum rememorativum) di ciò che
ci ha preceduto, cioè della passione di Cristo; sia segno dimo-
strativo {signum detnonstratìvum) di ciò che in noi viene opera-
to dalla passione di Cristo, e quindi della grazia; sia segno anti-
cipante [signum prognosticum), cioè prefigurativo della gloria fu-
tura» 19. In rapporto al «già» della salvezza il sacramento è me-
moria attualizzante; in rapporto al «non ancora» della promes-
sa è memoriale anticipante; in rapporto all'oggi del «frattem-
po» è evento in cui si comunica nei segni visibili ciò che la gra-
zia del Vivente viene ad operare nell'interiorità dei cuori. Gra-
zie a questo impianto storico dell'evento sacramentale nel suo
rapporto misterico al Cristo, il credente è raggiunto in esso dal
«già» della riconciliazione, ne partecipa nella profondità del suo
presente e pregusta l'anticipazione della Patria: in altri termi-
ni, grazie alla celebrazione del sacramento, la persona è inserita
nel dinamismo dell'«historia salutis», sperimenta per sé e per
l'oggi della comunità le «meraviglie» operate dall'Eterno e vie-
ne protesa verso il compimento atteso e sperato delle promesse
di Dio.
È così che il rapporto misterico stabilito dai sacramenti fra
il Risorto e i pellegrini nella fede si mostra nel suo carattere «per-
formativo»: esso, cioè, produce nell'esistenza del credente ciò
che visibilizza nel segno e trasmette nella realtà. E quanto vei-
cola la dottrina scolastica dell'«ex opere operato»: lungi dal si-
gnificare un meccanicismo della grazia, che la renda funzionale
e sottoposta all'uomo, secondo una logica del tutto contraria
al primato di Dio continuamente ribadito dalla simbolica della
fede, nelle affermazioni del Concilio di Trento la formula sta
a dire l'assoluta certezza nella fedeltà di Dio all'impegno, libe-
ramente da lui preso verso l'uomo20. Ciò che si intende affer-
mare è che, posto debitamente l'atto sacramentale [opus) secondo

19
Summa Tbeologiae III q. 60 a. 3 e.
20
Cf. i canoni 6-8 del Decretum de sacramenti^: DS 1606-1608.

204
la sua effettiva realizzazione in conformità a quanto la Chiesa
intende (operatum), l'evento dell'autocomunicazione divina si
compie indipendentemente dalle condizioni soggettive del mi-
nistro, che celebra il sacramento: diversamente, il dono della
grazia dipenderebbe dalle capacità e dal merito di chi l'ammi-
nistra. L'ex opere operato è così un altro modo di proclamare
il soli Deo gloria, un altro vigoroso rifiuto di ogni pelagianesi-
mo, manifesto o celato, un ulteriore modo di annunciare il van-
gelo del Dio misericordioso e fedele, che non viene mai meno
al patto di salvezza, cui si è legato nella sua infinita gratuità
ed umiltà d'amore. «Ciò che s'intende chiarire è la promessa
di un impegno certo, incrollabile di Dio. Il suo agire nella Chiesa
risulta talmente incarnato nelle azioni decisive che questa com-
pie, talmente legato alla situazione storica, che ogni qual volta
un sacramento viene amministrato in modo corretto, colui che
lo riceve può esser certo che qui Dio gli si rivolge in Gesù Cri-
sto, anche se chi lo amministra dovesse essere strumento del
tutto indegno»21.
Questa certezza della fede non esclude ovviamente l'impor-
tanza dell'impegno di disposizione e di accoglienza dei prota-
gonisti umani dell'evento sacramentale: anzi, è la stessa fedeltà
senza pentimento con cui il Dio vivente si è impegnato nel pat-
to a chiamare l'uomo ad una reciprocità totale, frutto della gra-
zia e dell'assenso della libertà22. «Il senso di ogni azione sacra-
mentale è precisamente orientato in maniera da realizzare l'in-
contro col Cristo. Poiché la reciprocità è essenziale all'incontro
stesso, l'impegno religioso del soggetto ricevente o "incontran-
te" appartiene al nucleo stesso del sacramento completo, come
incontro col Dio vivente»23. È così che i sacramenti congiun-
gono a Cristo in maniera «performativa»: significando causant,
cioè «causano ciò che rappresentano»24, e producono frutto in
chi nella libertà donata dalla grazia va incontro al Cristo reden-
tore che gli viene incontro. Dalla pienezza di questo incontro
interpersonale scaturisce l'ethos della sequela Còristi, inteso non
21
Th. Schneider, Segni della vicinanza di Dio, o.c, 60.
22
Cf. il can. 6 del Decretum tridentino: «Si quis dixerit, sacramenta novae Legis
non continere gratiam, quam significant, aut gratiam ipsam non ponentibus obicem non
conferre... anathema sit» (D5 1606).
23
E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, o.c, 187s.
24
Tommaso d'Aquino, De ventate, q. 28 a. 2 ad 12um: «Sacramenta significan-
do causant; hoc enim causant quod figurant». Cf. pure Summa Theologiae III q. 62
a. 1 ad l° m .

205
come semplice imitazione esteriore del Salvatore, ma come ri-
presentazione di lui nel cuore dell'uomo, che trasforma l'intero
suo essere e agire, fino al punto che questi può dire come l'A-
postolo: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che
vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). In tal modo «la passio-
ne di Cristo sortisce il suo effetto in coloro che sono da essa
raggiunti per mezzo della fede e della carità e dei sacramenti
della fede»25.
Una particolare espressione della «performatività» dell'evento
sacramentale è quella veicolata dalla dottrina del «carattere»,
che i sacramenti non reiterabili (battesimo, confermazione, or-
dine sacro) imprimono nella persona26: essa sta a dire il rappor-
to definitivo di alleanza e di appartenenza a Cristo che essi at-
tuano, e che comporta una specifica «ri-presentazione» di lui
e del suo ministero salvifico nella comunità ecclesiale. «Il carat-
tere sacramentale è un carattere del Cristo, al cui sacerdozio
i credenti sono configurati secondo i caratteri sacramentali, che
nuli'altro sono che partecipazioni al sacerdozio di Lui, derivate
dallo stesso Cristo»27. Se col battesimo il cristiano è unto dal-
lo Spirito e configurato al Signore Risorto nel più profondo del
suo essere e del suo divenire nel tempo e per l'eternità, con la
confermazione l'effusione dello Spirito che viene espressa ren-
de il battezzato definitivamente partecipe delle missioni divine
nella Chiesa e nella storia, mentre col sacramento dell'ordine
è stabilita la configurazione a Cristo, Capo del Corpo ecclesia-
le, segno e servo dell'unità nella comunità dell'alleanza28. In
questi eventi sacramentali la fedeltà di Dio si impegna al punto
che, anche nel caso in cui l'uomo rifiutasse successivamente il
dono ricevuto, non per questo il legame stabilito con l'Eterno
sarebbe perduto: nella dottrina del carattere risplende l'idea bi-
blica di un amore divino più forte della dimenticanza, e della
morte. «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da
non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se que-

25
Summa Theologiae III q. 49 a. 3 ad lum.
26
Cf. il Decreto tridentino De sacramentis, can. 9: DS 1609 e il cap. IV del De
sacramento ordinis: DS 1767, col canone corrispondente: DS 1774.
27
Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae III q. 63 a. 3 e.
28
L'insistenza sull'aspetto ecclesiale del carattere è giusta, a condizione però che
non si oscuri il fondamento cristologico e pneumatologico: di qui qualche riserva alle
idee espresse ad esempio da E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dìo,
o.c, 218ss. In san Tommaso l'ordinazione del «character» al culto divino salda invece
bene le due dimensioni: cf. Summa Theologiae III q. 63.

206
ste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»
(Is 49,15). Ed insieme il carattere sacramentale manifesta uno
specifico rapporto della persona con la Trinità tutta, perché è
«sigillo»29 del Padre che configura in modo peculiare al Cristo
nella forza dello Spirito30: «È Dio stesso che ci conferma, in-
sieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l'unzione, ci ha impres-
so il sigillo {oipQayioànepos) e ci ha dato la caparra dello Spiri-
to nei nostri cuori» (2Cor l,21s; cf. pure Ef l,13s e 4,30).

e) Ethos dialogico-relazionale

L'ethos sacramentale si radica dunque nell'unione a Cristo,


stabilita dalla grazia dei sacramenti, e vive nella prassi della se-
quela di lui, che questa stessa grazia rende possibile, dando «cor-
po» alle parole dell'evangelo: l'intera vita cristiana è chiamata
ad essere la sequentia sancti evangelii nella storia degli uomini.
Proprio perché fondato nella «dimora», che è il Signore Risor-
to, e manifestato nel «costume», che è l'imitazione di lui, l'e-
thos sacramentale è al tempo stesso un ethos trinitario: in unio-
ne a Cristo, per lui ed in lui, l'essere e l'agire del cristiano si
radicano nel mistero della Trinità Santa e vivono del dono del-
la partecipazione al dialogo eterno delle relazioni divine. Il di-
segno salvifico del Padre, realizzato nella missione del Figlio e
perennemente attualizzato nell'azione dello Spirito, si compie,
grazie agli eventi sacramentali, nell'esistenza redenta, come esi-
stenza trinitaria-pasquale: «I sacramenti quali "mirabilia Dei"
che continuano, nel tempo della Chiesa, i "mirabilia Dei" del-
l'Antico e del Nuovo Testamento, attualizzano nel simbolo
sacramentale il mistero della pasqua, e prennunciano i "mi-
rabilia" dell'escatologia definitiva»31. La riattualizzazione del-
l'intero mistero trinitario della salvezza è significata dalla stes-
sa celebrazione degli eventi sacramentali, che si compiono sem-
pre nel nome della Trinità, rendendo così presente nell'oggi
dell'uomo l'eterno evento dell'amore dei Tre, ed hanno una
struttura trinitaria, particolarmente evidente nell'eucaristia, ver-
29
II termine greco neotestamentario o<pQ<xyh, che ha il senso di «sigillo», tra-
dotto in latino con signaculum, fu usato nei primi secoli cristiani per rendere l'idea suc-
cessivamente espressa con character. Quest'ultimo termine, derivante dal greco x&Q&oou
( = incido, solco), fu consacrato nell'uso teologico da Agostino.
M
Cf. C. Sepe, La dimensione trinitaria del carattere sacramentale, Roma 1969.
31
C. Rocchetta, / sacramenti della fede, o.c, 19.

207
tice e somma di tutti i sacramenti, nella quale alla preghiera di
benedizione rivolta al Padre, fa seguito l'invocazione dello Spi-
rito, che realizza nel memoriale la presenza del Crocifisso Ri-
sorto, cui si aggiunge la seconda epiclesi, con la quale il Conso-
latore è chiamato ad attualizzare nei fedeli e nella comunità tutta
il mistero del Corpo del Signore. In tal modo, gli eventi sacra-
mentali aprono la Trinità alla storia e la storia alla Trinità, fon-
dando un ethos dialogico-relazionale, la cui legge suprema è l'a-
more di Dio effuso dallo Spirito Santo nei nostri cuori (cf. Rm
5,5).
Questo ethos dialogico-relazionale, che i sacramenti susci-
tano ed esprimono nella vita dei credenti, è anche ed insepara-
bilmente un ethos ecclesiale: già la connessione simbolica che
unisce Cristo al Padre, la Chiesa al Cristo, e gli eventi sacra-
mentali alla Chiesa mostra come la presenza del Signore Risor-
to nella storia per mezzo del suo Spirito nell'incontro interper-
sonale proprio dei sacramenti sia realizzazione e al tempo stes-
so manifestazione del suo Corpo ecclesiale nel tempo. In quan-
to attuazione concreta della sacramentalità ecclesiale, gli even-
ti sacramentali non possono essere celebrati che come atti della
Chiesa: in essi il popolo di Dio si esprime e si realizza nella sua
forma più alta32. La Chiesa «fa» i sacramenti, manifesta cioè
ed attua se stessa nella densità dell'evento sacramentale: si può
anzi affermare che il soggetto integrale della celebrazione del
sacramento in quanto atto di Cristo nella Chiesa è il popolo di
Dio, nella sua articolazione carismatica e ministeriale33. Perciò
il ministro deve aver ricevuto dalla Chiesa il potere sacramen-
tale richiesto per la celebrazione dei singoli sacramenti (dato dallo
Spirito a tutti, anche a un non battezzato, per la celebrazione
del battesimo in caso di necessità, agli sposi per la celebrazione
del matrimonio, ai ministri ordinati per gli altri sacramenti) e
deve esercitarlo in comunione con la Chiesa: e perciò è decisiva
per l'effettiva realizzazione dell'evento sacramentale l'intenzione
del celebrante di compiere ciò che la Chiesa intende, di non agire
cioè in persona propria, ma in persona Còristi e — in certo sen-
so — in persona Ecclesiae34. È così che la celebrazione sacra-
mentale educa al senso della Chiesa e alla comunione profonda

^2 Cf. O. Semmelroth, La Chiesa sacramento di salvezza, Napoli 1965, 37ss («Il


sacramento primordiale e gli altri sacramenti»).
53
Cf. C. Rocchetta, Sacramentaria fondamentale, o.c, 458ss.
54
Cf. Concilio di Trento, Decretum de sacramentis, can. 11: DS 1611.

208
della fede vissuta in essa: «L'intenzione è necessaria in quanto
con essa l'atto particolare ed attuale del ministro è congiunto
alla fede della Chiesa»35.
Al tempo stesso, però, i sacramenti «fanno» la Chiesa, nel
senso che la attuano nella concretezza delle diverse situazioni
storiche e fondano la prassi della comunità redenta: ripresen-
tando il mistero pasquale di Cristo — unica, vera sorgente di
riconciliazione per gli uomini — gli eventi sacramentali della
grazia suscitano esistenze riconciliate e radunano il popolo dei
credenti nell'unità e nella pace, donate dal Signore. Nasce così
l'ethos ecclesiale, il comportamento che trova nell'appartenen-
za alla «dimora», che è la Chiesa, il suo fondamento, e che espri-
me nel «costume» la condizione d'alleanza del nuovo popolo di
Dio. Ethos di comunione e di servizio, di consacrazione e di
missione, l'ethos ecclesiale ha la sua fonte e il suo culmine nella
celebrazione liturgica dei sacramenti, specialmente dell'eucari-
stia: in questo esso si presenta come un ethos liturgico, che uni-
sce la vita della terra alla liturgia del cielo, la fatica della storia
alla bellezza della gloria, e, celebrando l'ingresso dell'eternità nel
tempo, prepara l'ora escatologica in cui il tempo entrerà per sem-
pre nell'eternità. La liturgia — celebrazione del sacramento —
è «la grande pedagogia in cui impariamo ad acconsentire a que-
sta presenza della mancanza di Dio che ci chiede di dargli un
corpo in questo mondo, compiendo così il sacramento in "litur-
gia del prossimo", e la memoria rituale di Gesù Cristo in memo-
ria esistenziale»36. Alle sorgenti della liturgia il cristiano attin-
ge la grazia della sequela Còristi, per la quale dimora nella Trini-
tà e ne esprime la vita relazionale edificandosi in comunione con
gli altri credenti come popolo di Dio nella storia, segno e stru-
mento dell'unità dell'intero genere umano. Ed è ancora nell'e-
vento liturgico che si manifesta il carattere intrinsecamente escato-
logico dei sacramenti, in quanto in essi la grazia si fa presente nel
tempo come anticipo e caparra di eternità: in tal senso la liturgia,
nella tensione fra il dono già ricevuto e sperimentato e la pro-
messa non ancora compiuta, rivela in maniera pregnante come
la grazia non sia altro che la gloria nel tempo del pellegrinaggio,
e la gloria nient'altro che la grazia nel compimento della patria.
«Grace is glory in exile, glory is grace at home» (J. H. Newman)!

35
San Bonaventura, In Sent. d. 6 p. 2 a. 2 q. 1.
36
L.-M. Chauvet, Sìmbolo e sacramento, o.c, 183.

209
6.2. I SACRAMENTI DELL'INIZIAZIONE

a) L'iniziazione cristiana

«La carne viene lavata, perché l'anima sia purificata; la car-


ne viene unta, perché l'anima sia consacrata; la carne viene se-
gnata, perché l'anima sia fortificata; la carne viene adombrata
dall'imposizione della mano, perché l'anima sia illuminata dal-
lo Spirito; la carne viene nutrita del corpo e del sangue di Cri-
sto, perché l'anima sia saziata di Dio»37. Queste parole di Ter-
tulliano testimoniano come la Chiesa antica percepisse in unità
e celebrasse in un unico evento sacramentale — come tuttora
fa la Chiesa d'Oriente — il battesimo, la confermazione e l'eu-
caristia, i tre sacramenti che costituiscono le tappe indispensa-
bili per entrare nella comunità ecclesiale e nella pienezza della
sua vita e del suo culto in spirito e verità. Per esprimere l'unità
del processo di grazia che nel loro insieme essi vengono a costi-
tuire, sono chiamati sacramenti dell'iniziazione cristiana™. La
formula sta a dire anzitutto il miracolo del nuovo inizio, unico
e definitivo, che si compie in questi eventi sacramentali: la nuova
creazione prende «carne» e si fa «volto» nella storia dell'uomo
attraverso di essi. Al tempo stesso, però, l'espressione eviden-
zia la gradualità del processo attraverso cui l'eternità entra nel
tempo e il Dio vivente viene a mettere le sue tende nell'interiori-
tà della persona e nello splendore irradiante della sua esteriorità.
Questa gradualità è motivata anzitutto dalla storicità del-
l'essere umano, che esige per ogni cosa la fatica e la pazienza
del divenire: anche nell'esistenza redenta la presa di coscienza
del dono ricevuto si attua solo progressivamente e la vita nella
signoria del Cristo si sviluppa per tappe e per gradi nella cresci-
ta della fede, della speranza e dell'amore. Ma è soprattutto l'«ac-
37
Tertulliano, De resurrectione, 8: PL 2,806 (CCL 2,931): «Caro abluitur, ut ani-
ma emaculetur; caro ungitur, ut anima consecretur; caro signatur, ut et anima munia-
tur; caro manus impositione adumbratur, ut et anima Spiritu illuminetur; caro corpore
et sanguine Christi vescitur, ut et anima Deo saginetur».
38
Cf. R. Beraudy, L'iniziazione cristiana, in La Chiesa in preghiera. Introduzione
alla liturgia a cura di A. G. Martimort, Roma 19662, 572-634; H. Bourgeois, L'initia-
tion chrétienne et ses sacrements, Paris 1982; V. Codina - D. Irarrazaval, Sacramenti del-
l'iniziazione. Acqua e Spirito di libertà, Assisi 1990; R. Falsini, Iniziazione cristiana, Mi-
lano 1975; Id., L'iniziazione cristiana e i suoi sacramenti, Milano 1986; L. Heiser, Die
Taufe in der orthodoxen Kirche, Trier 1987; S. Vitalini, Les Sacrements de l'initiation,
Fribourg 1986; L. G. Walsh, The Sacrements of Initiation: Baptism, Confirmation, Eu-
charist, London 1988.

210
condiscendenza» divina che giustifica l'esigenza di una inizia-
zione: il Dio, che non fa violenza alla sua creatura, entra nel
tempo e accetta di «storicizzare» il suo amore per essa nella pro-
gressività di un cammino, che ripresenta nell'umile vicenda di
ciascuno le meraviglie della storia della salvezza. Ecco perché
alla celebrazione unitaria dei tre eventi sacramentali la Chiesa
antica faceva seguire una vera e propria catechesi «mistagogi-
ca», che partiva cioè dall'esperienza vitale già fatta dei sacra-
menti dell'iniziazione e portava gradualmente il cristiano a di-
venir consapevole del dono ricevuto e ad esplicitarlo in pienez-
za nella testimonianza della vita e nell'appartenenza responsa-
bile al nuovo popolo di Dio. La «mistagogia» consentiva in tal
modo di attualizzare la memoria potente dei misteri del Salva-
tore nelle scelte e nelle tappe della vita del cristiano, con l'aiu-
to della comunità e sotto l'azione incessante dello Spirito della
verità che salva. Già questa prassi dell'iniziazione mostrava co-
sì il forte legame fra il sacramento e l'etica.
È per questo che, anche quando i tre eventi sacramentali
saranno celebrati in momenti diversi, con distanze temporali
più o meno lunghe fra l'uno e l'altro, l'unità dell'iniziazione e
il suo valore mistagogico non dovranno esser persi di vista: cia-
scuno dei tre sacramenti rimanda agli altri, per cui si può dire
che se il battesimo consacra nella Trinità l'essere nuova creatu-
ra del cristiano, incorporandolo alla comunità della nuova al-
leanza, la confermazione nell'unzione dello Spirito lo abilita ad
agire da nuova creatura, inserendolo nel vivo delle relazioni e
delle missioni divine, che si riflettono nella comunione della Chie-
sa e nel suo servizio agli uomini, mentre l'eucaristia, culmine
e fonte di tutta la vita del popolo di Dio, attualizza la riconci-
liazione pasquale nella fatica dei giorni e consente al credente
di vivere in pienezza nella Trinità e nella storia, nascosto con
Cristo in Dio nell'unità del suo Corpo ecclesiale. Il battesimo
e la confermazione comprendono perciò costitutivamente un vo-
tum eucharistìae39, che orienta il cristiano nella profondità del
suo essere e del suo agire a celebrare la pienezza dell'incontro
con Cristo nel sacramento del suo memoriale pasquale; l'euca-
ristia, peraltro, richiede il battesimo — inizio di tutta l'esisten-
za sacramentale — e rimanda alla confermazione nello Spirito
39
Cf. J.-M. R. Tillard, Le «votum eucharistìae»: l'Eucharistie data la rencontre des
Chrétiens, in Miscellanea liturgica in onore dì S. E. il Card. G. Lercaro, II, Roma 1967,
143-194.

211
come alla sorgente della coerente esplicitazione nella testimo-
nianza dell'incontro trasformante col Crocifisso Risorto, offer-
tosi nella presenza reale del suo corpo e del suo sangue. Così,
anche nell'unità e nella gradualità dell'iniziazione cristiana si
dimostra come il Trascendente, che entra nel mondo dell'iden-
tità secondo il vangelo del Dio cristiano, non solo non annienta
questo mondo, ma lo trasforma e lo rinnova rispettandone la
costitutiva storicità ed insieme facendone esperienza ed antici-
po d'eterno.

b) Battesimo e confermazione

«Porta dei sacramenti» (ianua sacramentorum) e nuovo ini-


zio della storia di Dio nella storia dell'essere personale per il
tempo presente e per l'eternità, è il battesimo40: radicato nel
ministero di Gesù di Nazaret (cf. Gv 4,lss), in un rapporto di
continuità e di novità con una prassi già diffusa, di cui è testi-
monianza il battesimo di Giovanni ricevuto dallo stesso Profe-
ta galileo (cf. Me 1,2-11), l'evento battesimale fu celebrato sin
dalle origini cristiane (cf. ad esempio At 2,37-41; 19,2-6) in ob-
bedienza al mandato del Risorto (cf. Mt 28,19s). Dal punto di
vista del gesto e del significato, esso fu percepito come parteci-
pazione alla morte e resurrezione di Cristo, che si compie me-
diante il lavacro nell'acqua accompagnato dalla parola, pronun-
ciata nel nome di lui (cf. ad esempio At 2,38; 8,16; 10,48) o
nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (cf. Mt
28,19). Così lo presenta Paolo: «Non sapete che quanti siamo
stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua
morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti in-

40
Cf. Baptìsm Confìrmation. International Bibliography 1975-1984, Strasbourg
1985; Il Battesimo, Teologia e pastorale, Torino 1970; K. Barth, Il fondamento della vita
cristiana, Roma 1976 ( = Kircbliche Dogmatik IV, 4); Th. Camelot, Spiritualità del bat-
tesimo, Torino-Leumann 1966; A. Hamman, Baptéme et confìrmation, Paris 1969; A.
Houssiau - J. Ries - J. Giblet - P. de Clerck, Le baptéme, entrée dans Vexìstence chrétien-
ne, Bruxelles 1983; C. Lienemann-Perrin (ed.), Taufe und Kirchenzugehórigkeit. Stu-
àien zur Bedeutung der Taufe fùr Verkùndigung, Gestalt und Ordnung der Kircbe, Mùn-
chen 1983; M. Magrassi, Teologia del battesimo e della cresima, Roma 1968; F. Mari-
nelli, Battesimo e Trinità, in Divinitas 15 (1971) 64-98; H. L. Martensen, Baptéme et
vie chrétienne, Paris 1982; B. Neunheuser, Taufe und Firmung, Freiburg-Basel-Wien
1982; K. Rahner, Sul battesimo, Brescia 1967. Cf. pure la sezione sul battesimo del
documento della Commissione di Fede e Costituzione del Consiglio Mondiale delle Chie-
se, approvato a Lima nel 1982, Battesimo-Eucarìstìa-Mìnistero, Torino-Leumann 1984.

212
sieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai
morti per mezzo della gloria del Padre, cosi anche noi possiamo
camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completa-
mente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche
con la sua risurrezione» (Rm 6,3-5). Questo passaggio dalla morte
alla vita, attuato nel battesimo mediante la ripresentazione del
mistero pasquale del Signore, si compie per la potenza del Dio
vivente, alla quale ci si apre nella fede (cf. Col 2,12).
Figli di Dio per la fede in Cristo, rivestiti di lui per il batte-
simo (cf. Gal 3,26-28), i credenti sono stati lavati e santificati
nel suo nome e nel suo Spirito, nel quale formano un solo cor-
po: «Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustifi-
cati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del no-
stro Dio!» (lCor 6,11). «E in realtà noi tutti siamo stati battez-
zati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci,
schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito»
(lCor 12,13). Morti e resuscitati con Cristo nel battesimo, vi-
venti per Dio in lui, i battezzati dovranno perciò vivere l'ethos
della nuova creatura: «Così anche voi consideratevi morti al pec-
cato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. Non regni più dun-
que il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai
suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di
ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi tor-
nati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia
per Dio. Il peccato infatti non dominerà più su di voi poiché
non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia» (Rm 6,11-14).
Celebrato nel nome della Trinità 41 , il battesimo è dunque
il sacramento dell'incontro di grazia col Padre, col Figlio e con
lo Spirito Santo e l'inizio della vita nuova, che consegue alla
gratuita autocomunicazione della vita trinitaria. Dìo Padre opera
potentemente nell'evento battesimale, come ha operato nella
resurrezione del Figlio (cf. Col 2,12s). E il Padre che chiama
a vivere il cambiamento di mentalità nell'accoglienza del Cri-
sto, muovendo il cuore alla conversione necessaria per entrare
nella nuova alleanza: «Nessuno può venire a me, se non lo atti-
ra il Padre che mi ha mandato... Chiunque ha udito il Padre

41
II battesimo nel nome di Gesù Cristo cedette presto il predominio a quello nel
nome della Trinità (cf. la Didaché, e. 7 e Tertulliano, De baptismo 13): osserva peraltro
sant'Ambrogio che fra le due formule c'è equivalenza, perché con Cristo sono nomina-
ti, anche se implicitamente, il Padre, che lo ha unto, e lo Spirito, con il quale è stato
unto: De Spìriti! Sanato, I e. 3 n. 42: PL 16,713s.

213
e ha imparato da lui, viene a me» (Gv 6,44s). Questa attrazio-
ne del Dio vivente — inizio di ogni itinerario di fede — è così
importante, che dove essa è recepita nella profondità della vita
si parla di una partecipazione alla grazia battesimale, anche in
caso di assenza forzata del sacramento {votum sacramenti)42.
Ed è la fede nella potenza di Dio Padre che indirizza il creden-
te al sacramento della rinascita: «Con lui (Cristo) infatti siete
stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insie-
me risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risusci-
tato dai morti» (Col 2,12). «Chi crederà e sarà battezzato sarà
salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Me 16,16). Il bat-
tesimo è perciò sacramento della fede {sacramentum fìdei), «senza
la quale mai potrà esservi giustificazione»43. Questa fede va
professata nell'evento battesimale (cf. Rm 10,9s, con probabi-
le riferimento all'atto liturgico della comunità primitiva) e si
esprime nell'invocazione di salvezza rivolta a Dio Padre: «Esso
non è rimozione di sporcizia del corpo, ma invocazione di sal-
vezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù
della risurrezione di Gesù Cristo» (lPt 3,21). Nell'incontro con
colui, che viene sepolto nelle acque del battesimo, Dio Padre
dona la vita, «perdonandoci tutti i peccati e annullando il do-
cumento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfa-
vorevoli» (Col 2,13s). Perciò la simbolica della fede confessa «un
solo battesimo per la remissione dei peccati»44.
In relazione al Padre l'evento battesimale esprime pertanto
un duplice movimento: quello della fede in lui, da lui stesso su-
scitata mediante l'attrazione del cuore verso il Figlio incarna-
to, esercitata nelle profondità della persona e da essa accolta
nella libertà; e quello per il quale egli dona al credente il perdo-
no e la purificazione da ogni peccato nella grazia della giustifica-
zione e della condizione filiale (cf. ad esempio At 2,38-41; Rm
6,1-14; Tt 3,3-7). Come il peccato è rottura d'alleanza'ed inca-
pacità ad essa, così nel battesimo Dio stabilisce la nuova allean-
42
Cf. a sostegno dell'idea di un «battesimo di desiderio» le affermazioni del Tri-
dentino sull'inizio della giustificazione operato dalla grazia preveniente, che suscita e
richiede l'assenso e la cooperazione umana (Decretarti de iustificatione, cap. V: DS 1525),
e quelle sulla necessità dei sacramenti della Nuova Legge, per cui, senza di essi o il
desiderio di essi («sine eis aut eorum voto»), non si ottiene la giustificazione: DS 1604.
43
Concilio di Trento, Decretum de iustificatione, cap. VII: «(Causa) instrumen-
talis (iustificationis est) sacramentum baptismi, quod est "sacramentum fidei", sine
qua nulli umquam contigit iustificatio».
44
Cf. il Simbolo niceno-costantinopolitano: DS 150: «Confiteor unum baptisma
in remissionem peccatorum».

214
za per Cristo e nello Spirito, rendendo gli uomini figli nel Fi-
glio: «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo
Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete ri-
vestiti di Cristo» (Gal 3,26s). L'universale presenza del pecca-
to fonda perciò l'universale necessità del battesimo, che solo
toglie il peccato originale e ogni altro peccato che possa essere
stato commesso45. Secondo l'antichissima prassi della Chiesa
cristiana è questa necessità assoluta ed universale a giustificare
il battesimo dei bambini, ancora incapaci di un atto personale
di fede: in questo caso il sacramento viene celebrato in forza
della fede della comunità che presenta ed accoglie il battezzan-
do ed è fondato nella fiducia dell'azione preveniente della gra-
zia di Dio e dell'efficacia oggettiva della giustificazione batte-
simale. La catechesi dell'iniziazione cristiana, peraltro, proprio
nel suo carattere «mistagogico» dovrà costituire l'aiuto neces-
sario alla crescita nel battezzato della coscienza del dono rice-
vuto e della responsabilità nei confronti dell'impegno etico che
ne consegue46.
Mistero dell'incontro con Dio Padre, il battesimo è non di
meno sacramento dell'incontro col Figlio, Gesù Cristo: in quan-
to ripresentazione della morte e resurrezione di lui, l'evento bat-
tesimale conduce il credente non solo a condividere l'itinerario
pasquale del Salvatore, ma anche a sperimentarne i frutti di ri-
conciliazione nella propria esistenza. È il transitus paschalis, il
passaggio dalla morte alla vita che avviene nel battesimo, poi-
ché in esso vengono ad attualizzarsi nella storia della persona
le meraviglie operate dal Dio vivente nella liberazione del po-
polo d'Israele dalla schiavitù d'Egitto e viene ripresentato il lo-
ro più alto compimento nella Pasqua dell'alleanza nuova e defi-
45
Cf. le affermazioni sulla necessità del battesimo del Concilio di Firenze, De-
creterà prò Armenih, DS 1314, e del Concilio di Trento: D5 1513.1618,1625-1627.
46
Cf. K. Aland, Taufe und Kinder-Taufe, Gùtersloh 1971; Il battesimo dei bam-
bini. Revisione in vista?, in Studia Patavina 21 (1974) 511-585; Christsein ohne Entscheì-
dung oder: Soli die Kirche Kinder taufen?, hrsg. v; W. Kasper, Mainz 1972; J. C. Di-
dier, Le baptème des enfants dans la tradition de l'Eglise, Paris 1960; G. Delling, Faut-il
baptiser les enfants? La réponse de la tradition, Paris 1967; P. A. Gramaglia, Il battesimo
dei bambini nei primi quattro secoli, Brescia 1973; D. Grasso, Dobbiamo ancora battez-
zare i bambini?, Assisi 1972; J. Jeremias, Nochmals: Die Anfdnge der Kinder-Taufe, Mùn-
chen 1962. Il dibattito sulla questione fu ravvivato dal rifiuto opposto da K. Bardi
al pedobattesimo: cf. K. Barth, Il fondamento della vita cristiana ( = Kirchliche Dogma-
tìk IV/4, frammento), o.c, nonché Zu Karl Bartbs Lehre von der Taufe, mit Beitragen
von J. Beckmann u. A., Giitersloh 1971, e H. Hubert, Der Streìt um die Kindertaufe.
Eine Darstellung der von Karl Barth 1943 ausgelósten Diskussion um àie Kindertaufe una
ihrer Bedeutung fù'r die heutige Tauffrage, Bern-Frankfurt 1972.

215
nitiva (quel compimento, che Gesù stesso indica come il suo
battesimo: Me 10,38; Le 12,50). È Paolo che fa la descrizione
più completa di questa «pascha Domini», attualizzata nell'esi-
stenza battesimale: «Non sapete che quanti siamo stati battez-
zati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per
mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui
nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mez-
zo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare
in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti
a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua
risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato
crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato,
e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto,
è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, cre-
diamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscita-
to dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di
lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una
volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per
Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi
per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,3-11).
L'ethos del battezzato è perciò un ethos pasquale: unito al
suo Signore, egli vive la storicità in maniera nuova, perché l'e-
sperienza del dolore e della morte, che la finitudine dell'esistenza
creata e l'inesorabilità del divenire continuamente ripropongo-
no, diventa per lui via per attualizzare nella storia l'opera della
riconciliazione con Dio e fra gli uomini, compiuta da Cristo nella
sua passione e resurrezione. La sofferenza del divenire diviene
«via crucis» dell'amore a Dio e agli altri, luogo di esercizio di
un'etica della responsabilità verso il prossimo, che spinge l'io
a farsi ostaggio della solidarietà che salva: «Perciò sono lieto delle
sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello
che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che
è la Chiesa» (Col 1,24). A nessuno però è possibile percorrere
la via dell'amore più grande senza sperimentare nella propria
debolezza la forza della vittoria di Pasqua, partecipata all'esi-
stenza battesimale: «"Ti basta la mia grazia; la mia potenza in-
fatti si manifesta pienamente nella debolezza". Mi vanterò quin-
di ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la
potenza di Cristo» (2Cor 12,9s).
Morte e vita coesistono nell'esistenza del cristiano, che è
perciò continua esperienza del conflitto, «agonia» nella lotta pe-

216
rennemente esercitata contro il potere delle tenebre, che solo
la luce del Risorto può vincere: «Io non compio il bene che vo-
glio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non
voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me»
(Rm 7,19s). «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo
via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della lu-
ce... Rivestitevi del Signore Gesù Cristo» (Rm 13,12.14). Per-
tanto il cristiano non si sente mai arrivato e vive il suo battesi-
mo nella continua tensione verso la finale vittoria di Dio: «Non
però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato
alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, per-
ché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo... dimentico
del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per
arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo
Gesù» (Fil 3,12-14). L'intera esistenza battesimale è un vivere
con Cristo ed in lui, anzi uno sperimentare la sua presenza in
noi: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vi-
vo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo
nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso
per me» (Gal 2,20). Il battesimo, dunque, in rapporto al Figlio
fatto carne configura il cristiano a Cristo e lo rende contìnuamen-
te partecipe del suo mistero pasquale di morte e di vita nuova.
Sacramento dell'incontro col Padre e col Figlio, il battesi-
mo è infine anche sacramento dell'azione dello Spirito Santo:
il Nuovo Testamento non solo parla di un battesimo nello Spi-
rito (cf. ICor 12,13; Tt 3,5), ma collega il tema dell'acqua di
salvezza allo Spirito (cf. Gv 7,37-39) e definisce la nascita dal-
l'alto come un nascere da acqua e da Spirito (cf. Gv 3,3-5). Nel
suo discorso a Pentecoste Pietro così descrive l'evento battesi-
male, in cui vengono ad attuarsi le promesse di Dio: «Pentitevi
e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo,
per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello
Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli
e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signo-
re Dio nostro» (At 2,38s). Il libro degli Atti testimonia di un'a-
zione dello Spirito che precede l'evento del battesimo (cf. At
10,44-48) o che lo segue e si cpmpie per l'imposizione delle ma-
ni (cf. At 8,15-17; 19,1-6). È dunque nello Spirito che viene
a suggellarsi l'opera della Trinità nell'uomo, realizzata negli even-
ti pasquali ed attualizzata nel mistero battesimale: «È Dio stes-
so che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito

217
l'unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello
Spirito nei nostri cuori» (2Cor l,21s). Ed è cosi che il dono dello
Spirito è anche la suprema risposta alla domanda della fede: «In
lui (Cristo) anche voi, dopo aver ascoltato la parola della veri-
tà, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, ave-
te ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promes-
so, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della com-
pleta redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della
sua gloria» (Ef l,13s).
Nello Spirito si compie il perdono dei peccati e l'adozione
filiale, che unisce il battezzato a Dio Padre: «Che voi siete figli
ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spiri-
to del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,6). Nello Spi-
rito il battezzato è configurato al Figlio Gesù Cristo nella pie-
nezza del suo mistero: «Se qualcuno non ha lo Spirito di Cri-
sto, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è
morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giu-
stificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai
morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti da-
rà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spiri-
to che abita in voi» (Rm 8,9-11). E nello Spirito che il cristia-
no, figlio nel Figlio davanti al Padre, forma un solo corpo con
coloro che come lui sono stati battezzati nel nome della Trini-
tà: «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spiri-
to per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi;
e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (lCor 12,13). Que-
sto corpo è il corpo di Cristo, la Chiesa: «Ora voi siete corpo
di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte. Alcuni per-
ciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli,
in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi
vengono i miracoli, poi i doni...» (ICor 12,27s). Il battesimo
incorpora alla Chiesa, in analogia con la circoncisione; che in-
corporava all'antico Israele: «In lui (Cristo) voi siete stati an-
che circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di
uomo, mediante la spogliazione del nostro corpo di carne, ma
della vera circoncisione di Cristo. Con lui infatti siete stati se-
polti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme ri-
suscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato
dai morti» (Col 2,lls).
In rapporto allo Spirito Santo, dunque, l'evento battesima-
le è non solo il luogo della sua effusione e della comunicazione

218
dei suoi doni, ma anche il sacramento che incorpora alla Chiesa,
nella comunione col Cristo e con i fratelli, riflesso della comu-
nione trinitaria: così il nuovo popolo di Dio è «de unitate Pa-
tris et Filii et Spiritus Saneti plebs adunata»47, icona vivente
della Trinità. L'ethos battesimale pertanto è un ethos ecclesia-
le: non c'è Chiesa senza battesimo, non c'è battesimo senza Chie-
sa. Vivere da battezzati è vivere nella comunione col popolo santo
di Dio, nella reciproca accoglienza e nel comune servizio della
carità, nell'unica testimonianza agli uomini del dono dell'eter-
nità nel tempo, compiutosi in Cristo e nello Spirito: il sacra-
mento della rigenerazione mette fine alla massa come somma
di solitudini, per suscitare la comunità messianica della nuova
alleanza. Grazie all'evento battesimale la Chiesa è l'interiorità
degli uomini abitata dalla Trinità che si visibilizza nell'esterio-
rità di un'istituzione storica, in cui lo sfolgorio del dono dal-
l'alto si irradia insieme ed attraverso le pesantezze delle resi-
stenze opposte dalle libertà personali all'efficacia del dono di Dio.
L'inserzione nella vita trinitaria e la conseguente apparte-
nenza alla Chiesa, che si realizzano nel battesimo, sono cosi ra-
dicate nella fedeltà divina, che non possono essere perdute, quale
che siano l'infedeltà o il rifiuto vissuti successivamente dal bat-
tezzato. Questa certezza, in cui ancora una volta risplende il
primato di Dio nell'antropologia cristiana, è stata precisata nelle
controversie della Chiesa antica relative alla riammissione dei
«lapsi» ed al battesimo degli eretici48, ed è veicolata dalla dot-
trina del «carattere» inamissibile, che il battesimo e la confer-
mazione conferiscono nell'ambito dell'iniziazione cristiana, e per
il quale essi non possono essere ripetuti in nessun caso in cui
siano stati autenticamente celebrati: non vi è, infatti, che «un

4? Cipriano, De àomìnìca oratione, 23: PL 4,536.


48
Furono detti lapsi, cioè «caduti», quei cristiani che in seguito alla persecuzio-
ne di Decio (250) avevano apostatato dalla fede. Affievolitasi la persecuzione, molti
di essi chiesero di essere riammessi nella comunità della Chiesa: ebbe cosi origine la
controversia circa le condizioni della loro riammissione. Fra il lassismo di Novato e
il rigorismo di Novaziano si impose la linea di Cipriano [De lapsis), condivisa da Roma
e dalla Chiese d'Oriente, che concedeva la riconciliazione, sulla base del battesimo già
ricevuto, a chi avesse dato prova di conversione vera ed avesse accettato la penitenza
prescrittagli. Nella controversia sul battesimo degli eretici — in cui Cipriano era su
posizioni rigide, anche contro Roma — sarà invece la posizione di Agostino ad impor-
si: il battesimo degli eretici è valido, se celebrato correttamente, anche se pregiudicato
negli effetti, perché è Cristo stesso a impegnarsi col battezzato, imprimendogli il cha-
racter (et. ad esempio Contra Epist. Parmen., II, 28: PL 43,70s e De baptismo, III, 10,
13: PL 43,144). «Nomen est quod sanctificat, non opus»: Ottato di Milevi, Contra Par-
menianum, V, 7: PL 11,1058.

219
solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla qua-
le siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Si-
gnore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di
tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è
presente in tutti» (Ef 4,4-6). Alla luce della teologia trinitaria
dell'evento battesimale risulta ancora più chiaro allora come il
«carattere» consista in una relazione del battezzato a Dio per
Cristo nello Spirito, e conseguentemente in un suo rapporto di
comunione e di missione con la Chiesa ed il mistero della sua
unità: perciò esiste fra i battezzati una comunione reale, più forte
della diversità delle tradizioni confessionali di appartenenza, che,
pur esprimendosi in gradi diversi, è per tutti il fondamento esi-
gente dell'impegno teso al superamento delle loro divisioni sto-
riche. «Quelli che credono in Cristo e hanno ricevuto debita-
mente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, seb-
bene imperfetta, con la Chiesa cattolica... Nondimeno, giusti-
ficati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo, e per-
ciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della
Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel
Signore»49.

Intimamente connesso al battesimo nello sviluppo unitario


dell'iniziazione cristiana è il sacramento della confermazione,50:
il suo fondamento neotestamentario va colto nel complesso dei
testi che affermano il legame strettissimo fra l'azione dello Spi-
rito e l'evento battesimale, fra il battesimo nell'acqua e il bat-
tesimo nello Spirito, e in generale fra lo Spirito Santo e la Chiesa
(cf. ad esempio At 2,38s; ICor 12,13; Tt 3,5). Il libro degli At-
ti testimonia di un'effusione dello Spirito successiva al battesi-
mo, che si compie attraverso l'imposizione delle mani degli Apo-

49
Concilio Vaticano II, Decreto sull'ecumenismo Unitatìs Redintegratio 3. Il bat-
tesimo costituisce il «vinculum unitatis sacramentale»: ìb. 22. Sulla dottrina dei «gradi
di comunione» cf. Lumen Gentium 15.
50
Cf. Baptism Confirmation. International Bibliography 1975-1984, o.c.; B. Bou-
hot, La confermazione, sacramento della comunione ecclesiale, Torino 1970; La confer-
mazione e l'iniziazione cristiana, Torino 1967; R. Falsini, La cresima sigillo dello Spirito,
Milano 1972; F. Gaboriau, Chrétiens confirmés. Le sacrement de la croissance, Paris 1987;
A. Hamman, Baptème et confirmation, o.c; L. Ligier, La confirmation, Paris 1973; M.
Magrassi, Teologia del battesimo e della cresima, o.c; B. Neunheuser, Taufe una Fir-
mung, o.c; A. M. Triacca, Per una trattazione organica sulla «confermazione»: verso una
teologia liturgica, Roma 1972; P. Wekel, Theologie der Konfirmation, Regensburg 1988;
J. Zerndl, Die Theologie der Firmung in der Vorbeireitung und in den Akten des Zweiten
Vatikanischen Konzils, Paderborn 1986.

220
stoli: «Quando cominciarono a credere a Filippo, che recava la
buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo, uo-
mini e donne si facevano battezzare... Frattanto gli apostoli,
a Gerusalemme, seppero che la Samaria aveva accolto la parola
di Dio e vi inviarono Pietro e Giovanni. Essi discesero e prega-
rono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era in-
fatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto
battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro
le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (At 8,12-17; cf.
19,1-7). Nell'unità dell'attualizzazione salvifica del mistero, è
possibile dunque distinguere l'evento battesimale da quello di
una particolare comunicazione dello Spirito, che si realizza me-
diante la preghiera e l'imposizione delle mani da parte degli Apo-
stoli. La distinzione non va pensata come separazione, come di-
mostrano tanto la varietà e la fluttuazione delle testimonianze
bibliche, quanto la stessa prassi della Chiesa, che in antico —
come tuttora in Oriente — celebrava in un unico atto i sacra-
menti dell'iniziazione. Il gesto dell'imposizione delle mani è stato
spesso unito — o sostituito del tutto — con quello dell'unzio-
ne, in riferimento alle metafore neotestamentarie di una «un-
zione» del cristiano (cf. 2Cor 1,21), di un «crisma» (cf. lGv
2,20-27) e di un «sigillo» dello Spirito (cf. 2Cor 1,22; Ef 1,13;
4,30), che in realtà hanno un significato spirituale, più che ri-
tuale, in analogia con l'unzione profetica dell'Antico Testamento
e con quella del Cristo (cf. Le 4,18; At 4,27; 10,38; Eb 1,9),
ed evocano l'azione divina che prende possesso dei cuori e su-
scita l'impegno corrispondente all'alleanza.
L'interpretazione teologica della relazione fra il battesimo
e la confermazione riflette la più generale complessità della com-
prensione del rapporto fra cristologia e pneumatologia: come
il Cristo riceve e dona lo Spirito, così lo Spirito unge Gesù ed
è da lui inviato; fra le due missioni divine c'è un rapporto di
reciprocità così denso, da riflettere nel tempo la «pericoresi» di-
vina. Non è possibile, allora, collegare separatamente i due sa-
cramenti rispettivamente ai misteri della Pasqua e della Pente-
coste, perché in entrambi sono presenti il Cristo pasquale e lo
Spirito, che lo rende presente e che da lui è effuso51. Nell'u-
nità totale del mistero dell'iniziazione cristiana è piuttosto dal

51
Cf. ad esempio le osservazioni di W. Breuning, Il posto della cresima nel batte-
simo degli adulti, in Concìlium 3 (1967) fase. 2, 110-122, specie 119s.

221
punto di vista antropologico che è conveniente operare una di-
stinzione: come la persona si sviluppa in una crescita per la quale
sempre più diviene se stessa, così nel passaggio dal battesimo
alla confermazione il cristiano è aiutato a divenire in pienezza
ciò che è, la «nuova creatura» in cui è stato trasformato. Il pas-
saggio è cioè piuttosto dall'interiorità accogliente allo sfolgorio
dell'esteriorità testimoniante, dalla consacrazione battesimale
a Dio per Cristo nello Spirito all'esercizio attivo della missio-
ne, che da essa scaturisce, per la gloria di Dio, in unione al Si-
gnore Gesù nella forza, specialmente donata, dello stesso Spi-
rito. La confermazione viene cosi a realizzare — grazie ad una
speciale effusione dello Spirito Consolatore — una nuova atti-
vazione del triplice rapporto, che il battesimo aveva già stabili-
to fra il cristiano e le persone divine, in vista dell'agire testimo-
niante del singolo e della piena realizzazione della missione ec-
clesiale.
Si comprende in questa luce la ricchezza trinitaria della de-
scrizione, che il Concilio Vaticano II ha fatto di questo evento
sacramentale: «Col sacramento della confermazione i fedeli ven-
gono vincolati più perfettamente (perfectius) alla Chiesa, sono
arricchiti di una speciale forza {speciali robore) dallo Spirito Santo,
e in questo modo sono più strettamente (arctius) obbligati a dif-
fondere e a difendere la fede con la parola e con le opere come
veri testimoni {tamquam veri testes) di Cristo»52. Se il battesi-
mo ha reso il cristiano figlio nel Figlio davanti al Padre, che gli
ha perdonato i peccati e lo ha giustificato donandogli la vita
eterna, la confermazione lo arricchisce di una nuova, particola-
re forza dello Spirito Santo, che lo rende capace di testimonia-
re l'esistenza redenta, irradiando la fede, che la misteriosa at-
trazione di Dio Padre aveva suscitato in lui. Se il battesimo ha
configurato il credente al Figlio Gesù Cristo, rendendolo parte-
cipe del suo mistero pasquale, la confermazione, per lo stesso
speciale dono dello Spirito, lo fa in pienezza testimone del Si-
gnore Gesù, attivando in lui un nuovo agire in unione al Croci-
fisso Risorto. Se infine il battesimo ha colmato il credente dei
doni dello stesso Spirito e lo ha incorporato alla Chiesa, la con-

52
Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 11. Il testo rimanda a Cirillo di Geru-
salemme (Catech. 17, de Spiritu Sancto, II, 35-37: PG 33,1009-1012), a Nicola Caba-
silas (De vita in Christo, lib. Ili, de utilitate chrismatis: PG 150,569-580) e a Tommaso
d'Aquino (Summa Theol. Ili q. 65 a. 3 e q. 72 aa. 1 e 5). Sulla confermazione cf. pure
i testi dei Concili di Firenze: DS 1310.1317, e di Trento: DS 1628-1630.

222
fermazione, sempre per lo speciale dono del Consolatore in es-
sa conferito, lo spinge a far fruttificare nel servizio i carismi
ricevuti e ad essere più pienamente unito alla Chiesa tutta nella
sua consacrazione e missione. Il fatto che il Vescovo, segno e
servo dell'unità della Chiesa, sia il ministro «originario» della
confermazione, sta a sottolineare il carattere ecclesiale di que-
sto nuovo agire, reso possibile dallo speciale dono dello Spirito
operante nel sacramento53. In rapporto alla Trinità battesimo
e confermazione costituiscono allora due momenti della stessa
gratuita autocomunicazione divina all'uomo, di cui il primo im-
mette la profondità dell'essere personale nella vita trinitaria,
il secondo aiuta il credente a far risplendere questa stessa vita
divina nel fulgore dell'esteriorità, attraverso un nuovo agire, cor-
roborato dallo Spirito. L'essere nella Trinità e l'agire in essa
e grazie ad essa non sono naturalmente mai propriamente sepa-
rabili, come non sono separabili l'azione divina nell'interiorità
della persona e il suo irradiarsi nell'esteriorità testimoniante:
perciò battesimo e confermazione restano inseparabilmente con-
nessi nell'unità dell'iniziazione cristiana, grazie alla quale l'e-
ternità entra nel tempo e Io consacra, e il tempo entra nell'eter-
no per il miracolo dell'agire redento.

e) L'eucaristia

Battesimo e confermazione rimandano entrambi al sacramen-


to, che è culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa54: l'eu-
caristia55. Sacramento dell'unità degli uomini con Dio e fra di

5
^ Cf. Lumen Gentium 26: i Vescovi sono «ministri originarii confirmationis».
Trento aveva parlato del Vescovo come ministro «ordinarius»: DS 1318. La formula
del Vaticano II rispetta di più la prassi, sia occidentale, per la quale il Vescovo può
delegare ad alcuni presbiteri questo ministero, sia orientale, secondo cui il presbitero
è ministro ordinario, anche se la consacrazione dell'olio rimane riservata al Vescovo.
54
Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Conci-
lium 10.
55
Sull'eucaristia e sul suo rapporto con la comunione ecclesiale cf. nell'ambito
della vastissima bibliografia: J.-J. von Allmen, Saggio sulla Cena del Signore, Roma 1968;
J. Auer, Il mistero dell'eucaristia, Assisi 19892; M.-V. Bernadot, De Veucharistie a la
Trinità, Paris 1980; J. Betz, Die Eucharistie in der Zeit der griechischen Vàter, Freiburg
1955; Id., Eucharistie in derSchrift und Patristik, Freiburg i.Br. 1979; L. Bouyer, Euca-
ristia. Teologia e spiritualità della preghiera eucaristica, Torino 1983; Chiesa-Eucaristia.
Un rapporto costitutivo. Atti del TV Colloquio cattolico-ortodosso (Bari, 5-6 maggio 1982),
in Nicolaus 10 (1982) n. 2, 223-376; F.-X. Durwell, L'Eucaristia sacramento del mistero
pasquale, Roma 19832; Eucaristia. Aspetti e problemi dopo il Vaticano II, Assisi 1968;

223
loro, la Cena del Signore è il luogo in cui la Trinità si fa presen-
te nella storia nella maniera più piena e suscita la comunità ec-
clesiale, sua «icona»56: l'eucaristia «fa» la Chiesa. Al tempo
stesso, nell'evento eucaristico la Chiesa, voce e segno dell'inte-
ro genere umano, invoca il dono di Dio e si apre ad esso nella
novità dei tempi e dei luoghi: la Chiesa «fa» l'eucaristia.
Il fondamento neotestamentario della Santa Cena sta nella
consuetudine conviviale di Gesù con i suoi, prima e dopo la Pa-
squa, e soprattutto nell'ultima cena, da lui celebrata nel conte-
sto del banchetto pasquale ebraico, come «memoriale» della nuo-
va alleanza, stabilita nel suo sacrificio pasquale, che la cena pro-
feticamente annuncia ed anticipa nel mistero (cf. Me 14,22-25;
Mt 26,26-29; Le 22,17-20; ICor 11,23-26)57. Confidato dal
Signore ai suoi con la solennità di un comando («Fate questo
Eucaristìa: tra memoria e attesa, a cura di B. Salvarani, Brescia 1990; Eucaristia y Trini-
dad, Salamanca 1990; Eucharìst. International Biblìography 1975-1984, Strasbourg 1985;
L'eucharistie, Paris 1970; A. Fallico, Eucaristia comunione trinitaria e comunità ecclesia-
le, Milano 1986; B. Forte, ha Chiesa nell'eucaristìa. Per un'ecclesiologia eucaristica alla
luce del Vaticano II, Napoli 19882; Id., Corpus Christi, Napoli 19832; A. Gerken, Teo-
logia dell'eucaristia, Milano 19862; C. Giraudo, Eucaristia per la Chiesa. Prospettive teo-
logiche sull'eucaristia a partire dalla «lex orandi», Brescia 1989; Id., La struttura letteraria
della preghiera eucaristica, Roma 1981; J. Jeremias, Le parole dell'Ultima Cena, Brescia
1973; R. Johanny, L'eucaristìa cammino dì risurrezione, Torino-Leumann 1976; Joseph
de Sainte-Marie, L'Eucharistie Salut du monde, Paris 1982; S. Lyonnet, Eucaristia e
vita cristiana. Il sacrificio della nuova alleanza, Roma 1982; S. Marsili (ed.), Eucaristia:
Teologia e storia della celebrazione (Anàmnesis 3/2), Casale Monferrato 1983; H.-B. Meyer,
Eucharistie. Geschichte, Theologie, Pastora!, Regensburg 1989; J. Mouroux, Fate questo
in memoria di me, Brescia 1971; C. O'Neill, Nuove prospettive sul mistero eucarìstico,
Assisi 1968; A. Piotanti, Il mistero eucaristico, Roma 1983; C. Porro, L'Eucaristia. Tra
storia e teologia, Casale Monferrato 1989; J. Powers, Teologia eucaristica, Brescia 1969;
Le sacrifice eucbaristìque, Communio 10 (1985) n. 3, 1-128; E. Schillebeeckx, La pre-
senza eucaristica, Roma 19682; H. J. Schulz, Okumenische Glaubenseinheit aus eucha-
ristischer Uberlieferung, Paderborn 1976; A. Thaler, Gemeinde Und Eucharistie. Grund-
legung einer eucharistischen Ekklesiologie, Freiburg 1988; M. Thurian, L'Eucaristia. Me-
moriale del Signore. Sacrificio di azione di grazia e d'intercessione, Roma 1967; Id., Il
mistero dell'eucaristia. Un approccio ecumenico, Roma 1982; J.-M. R. Tillard, L'Eucari-
stia, Pasqua della Chiesa, Roma 19682; A. Tourneux, Église et Eucharistieà Vatican IL
Elude génétique, cohérence et signìfication d'un thème conciliane, 2 voli., Louvain-la-Neuve
1986; Un solo pane e un solo corpo. L'eucaristia nella vita della Chiesa, a cura di R. Falsi-
ni, Milano 1982.
56
Cf. B. Forte, La Chiesa, icona della Trinità, Brescia 19906.
57
Cf. J. Jeremias, Le parole dell'Ultima Cena, Brescia 1973, specie 97ss, per il
quale la datazione giovannea della morte di Gesù al 14 di Nisan, data dell'offerta pa-
squale dell'agnello, non contraddice la testimonianza sinottica del fatto che egli ha ce-
lebrato la cena pasquale con i suoi per il semplice motivo che Giovanni avrebbe tra-
sformato in tipologia la cronologia dell'agnello immolato la vigilia. Diversamente A.
Jaubert, La date de la Cène. Calendrier biblique et liturgìe chrétienne, Paris 1957, con-
gettura di un'assunzione da parte di Gesù del calendario esseno-sacerdotale antico, che
poneva la pasqua al mercoledì: egli sarebbe morto pertanto il 14 di Nisan del calenda-
rio giudaico ufficiale, in conformità all'indicazione giovannea.

224
in memoria di me»: Le 22,19 e ICor ll,24s) 58 , il memoriale
della Cena — presto chiamato eucaristia, in riferimento all'a-
zione di grazie in cui si compie — è diventato subito atto vitale
della Chiesa nascente, assidua appunto nella frazione del pane:
«Erano assidui nelTascoltare l'insegnamento degli apostoli e nel-
l'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere... Ogni
giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane
a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At
2,42 e 46; cf. ICor 10,17). Nell'ininterrotta continuità della
tradizione apostolica il gesto sacramentale della celebrazione del-
l'eucaristia è l'azione scelta dallo stesso Gesù: il pane spezzato
della fraternità e il calice di vino condiviso della comunione di
sorte, nel contesto della benedizione a Dio 59 . Sin dalle origini
a presiedere l'eucaristia è stato il vescovo o il presbitero in sua
vece, colui cioè che rappresenta nella comunità il Cristo in quanto
capo del suo Corpo ecclesiale, in obbedienza al Signore, che aveva
affidato agli apostoli la celebrazione del suo memoriale e si era
egli stesso presentato nell'ultima cena nel ruolo del capo fami-
glia, tipico della tradizione pasquale ebraica 60. Non di meno,
tutta l'assemblea partecipa attivamente alla celebrazione euca-
ristica, esercitando in essa il suo sacerdozio battesimale61.
Nella sua stessa struttura la celebrazione dell'eucaristia ma-
nifesta il suo rapporto strettissimo con la Trinità, che si fa pre-
sente nell'evento sacramentale: essa è azione di grazie al Padre,
memoriale pasquale del Figlio ed epiclesi dello Spirito Santo.
L'eucaristia è anzitutto benedizione rivolta a Dio per i suoi be-
nefici, nella continuità con la berakah ebraica, che Gesù stesso
ha fatto propria: l'azione di grazie è riconoscimento dell'asso-

58
II fatto che queste parole siano assenti in Marco e Matteo non stupisce, se si
considerano i destinatari giudaici di questi due evangelisti, per i quali la cena pasquale
era naturalmente connessa al concetto di «memoriale».
55
Pane e vino cioè sono stati scelti dal Signore nel significato che essi avevano
in un'azione simbolica, espressiva di fraternità e condivisione di sorte, propria della
tradizione ebraica: cf. J.-M. R. Tillard, L'Eucharistie etlafratemité, in Nouvelk Revue
Théologique 91 (1969) 113-135.
60
Cf. J.-J. von Allmen, Saggio sulla Cena del Signore, Roma 1968, e II santo mini-
stero nell'idea e nell'intenzione dei Riformati del XVI secolo, Roma 1971: «La presiden-
za del pasto spetta al capo famiglia, ed è come tale che Gesù ha istituito la Cena: colui
che presiede all'eucaristia della Chiesa deve dunque compiere la stessa funzione...» {Saggio
sulla Cena.,., 97). Cf. poi quanto dice a proposito del ministro dell'eucaristia il Conci-
lio Lateranense IV (1215): «Hoc sacramentum nemo potest conficere, nisi sacerdos,
qui rite fuerit ordinatus secundum claves Ecclesiae, quas ipse concessit Apostolis eo-
rumque successoribus Iesus Christus» (D5 802).
61
Cf. Sacrosanctum Concilium nn. 7, 14 e 48.

225
luta principialità del Padre, confessione di lode per le meravi-
glie compiute dal Dio vivente nella creazione e nella redenzio-
ne, ed invocazione del dono, che da lui solo procede e che si
compirà interamente nella pienezza del Regno. «L'eucaristia è
il grande sacrificio di lode, con il quale la Chiesa parla a nome
dell'intera creazione. Difatti in ogni eucaristia è presente il mon-
do che Dio ha riconciliato a sé: nel pane e nel vino, nella perso-
na dei fedeli e nelle preghiere che essi offrono per se stessi e
per tutti gli esseri umani, Cristo unisce a sé i fedeli e associa
le loro preghiere alla propria intercessione, di modo che i fedeli
vengono trasfigurati e le loro preghiere accolte. Questo sacrifi-
cio di lode è possibile solo per mezzo di Cristo, con lui ed in
lui. Il pane e il vino, frutti della terra e del lavoro degli uomini,
vengono presentati al Padre nella fede e nell'azione di grazie.
L'eucaristia significa cosi ciò che il mondo deve diventare: un'of-
ferta e un inno di lode al Creatore, una comunione universale
nel corpo di Cristo, un regno di giustizia, amore e pace nello
Spirito Santo»62. L'ethos che la Cena del Signore fonda è per-
ciò anzitutto un ethos eucaristico, di ringraziamento, di adora-
zione e di offerta, che relaziona a Dio come a prima sorgente
ed ultima patria ogni essere ed agire e si apre all'accoglienza
dell'evento della donazione, che è in ogni istante l'esistere in
quanto veniente dal Padre. Questo ethos della meraviglia co-
scientizzata libera dalla prigionia dell'identità e schiude alle sor-
prese della differenza del Dio per noi.
In quanto memoriale del mistero pasquale del Figlio, l'euca-
ristia è sacramento del sacrificio della Croce, che in essa realmente
si ripresenta per la forza dello Spirito, e convito, nel quale si
partecipa veramente al Corpo e al Sangue del Signore: non com-
memorazione vuota di realtà, ma memoria potente, il memo-
riale in senso biblico è vera riattualizzazione dell'evento unico
di salvezza nell'oggi della comunità celebrante. Il Cristo «pas-
sus et glorificatus» è presente nel segno del pane e del vino, che
diventano realmente il suo corpo e il suo sangue: la sua presen-
za, personale ed attuale, fa della Santa Cena il sacramento del-
l'incontro pieno con lui, la partecipazione viva al suo mistero
di riconciliazione, unificando l'esistenza della persona e della
comunità celebrante nella nuova alleanza con Dio. Ecco perché

62
Commissione di Fede e Costituzione, Battesimo-Eucaristia-Minìstero, o.c, Eu-
caristia, n. 4.

226
il memoriale eucaristico è segno vivo del sacrificio di espiazio-
ne e di lode, che Cristo ha compiuto una volta per sempre sulla
Croce e che viene ripresentato efficacemente nell'evento sacra-
mentale63: unendosi al Crocefisso, la comunità celebrante si of-
fre al Padre ed entra nella gloria della riconciliazione pasquale
realizzatasi nel Risorto. La riattualizzazione della passione e re-
surrezione del Signore, che non è mai ripetizione, ma sempre
e solo ripresentazione potente per la vita e per la storia di colo-
ro che la celebrano, si esprime adeguatamente nella forma del
convito, in cui coloro che sono stati riconciliati dalla pasqua di
Cristo vengono anche nutriti dell'unico pane e dell'unico calice
per diventare il suo unico Corpo, la Chiesa: «Il calice della be-
nedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il
sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse co-
munione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi,
pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipia-
mo dell'unico pane» (ICor 10,16s).
L'evento, per il quale Cristo si fa veramente presente nei
segni eucaristici del pane e del vino, è stato chiamato nella tra-
dizione cattolica «transustanziazione»: «Poiché Cristo nostro re-
dentore disse che era veramente il suo corpo quello che offriva
sotto la specie del pane, ci fu sempre nella Chiesa di Dio la per-
suasione... che attraverso la consacrazione del pane e del vino
si compia la conversione di tutta intera la sostanza del pane nella
sostanza del corpo di Cristo Signore nostro, e di tutta intera
la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue. Questa con-
versione è chiamata convenientemente e propriamente dalla santa
Chiesa cattolica transustanziazione {transubstantiatió)»M. Attra-
verso la formula ciò che si vuol affermare è che realmente nel-
l'evento eucaristico si compie nella maniera più alta l'ingresso
dell'eternità nel tempo: il Figlio di Dio fatto carne è veramente
presente nei segni sacramentali, nella pienezza del suo mistero
pasquale, che rende gli uomini riconciliati con Dio e fra di loro
e li arricchisce della vita divina65.
Perciò, l'ethos generato dall'eucaristia in quanto memoria-
63
Trento usa termini incisivi per esprimere questa idea: repraesentare, quo... eius-
que memoria... permaneret, applicare: DS 1740.
M
Concilio di Trento, Decretum de ss. Eucharistia, cap. IV: DS 1642.
65
Se questi stessi contenuti vengono veicolati con altre formule linguistiche, non
c'è problema teologico per adoperarle: cf. il dibattito intorno al concetto di «transigni-
ficazione», proposto da P. Schoonenberg, presentato equilibratamente da Th. Schnei-
der, Segni della vicinanza di Dio, o.c, 168ss.

227
le della morte e resurrezione del Signore è un ethos della seque-
la di lui, un ethos pasquale, in cui i risorti, che sono tali per aver
incontrato realmente il Risorto nel pane della vita, ne sperimen-
tano e ne irradiano la vittoria sulla morte e sul peccato. Uniti
a Cristo nella partecipazione alla sua Croce, essi sono uniti a
lui nella potenza della resurrezione, riconciliati in lui col Padre
e con gli uomini, capaci di edificare il suo Corpo nella storia.
Partecipi del sacrificio di lode e di intercessione del Signore Gesù,
i cristiani possono ringraziare ed intercedere a loro volta nel-
l'eucaristia per la Chiesa e il mondo intero. In questa luce il
carattere sacrificale dell'eucaristia, sacramento della Croce, ne
fa anche il sacramento dell'umanità, che si offre a Dio nel suo
cammino esodale e ne attende i benefici di riconciliazione e di
pace (cf. Rm 12,1; lPt 2,5): «È vero sacrificio ogni azione che
si compie per essere in comunione con Dio nella santità, ogni
azione ordinata a quel fine buono nel quale veramente potre-
mo essere felici»66. Nulla di magico o di pagano vi è in questo
atto sacrificale, che si compie per Cristo, con Lui ed in Lui nel
seno della Trinità e nel cuore della storia. Nutriti, infine, della
«medicina dell'immortalità», i cristiani possono pregustare le
gioie del Regno a venire ed anticiparne la realizzazione nel tempo
della provvisorietà e delTitineranza: l'ethos eucaristico è ricco
di tensione escatologica, che si manifesta nella gioia del dono
già sperimentato e nella speranza della promessa non ancora pie-
namente compiuta.
L'eucaristia è infine epiclesi dello Spirito: poiché è lo Spirito
Santo che attualizza nel tempo la presenza e l'opera di Cristo,
la Chiesa invoca dal Padre il dono del Consolatore, che renda
presente nei segni sacramentali il Cristo morto e risorto e ne
estenda i benefici di riconciliazione a tutti i partecipanti e al-
l'umanità intera per cui essi intercedono.,Questa invocazione,
che è chiamata «epiclesi», è esaudita dalla misericordia di Dio
secondo la promessa racchiusa nel comando di celebrare il me-
moriale del Signore, e costituisce la condizione che rende pos-
sibile la presenza reale, personale ed attuale del Cristo e che
compie nei partecipanti il mistero del loro inserimento nella gra-
zia della riconciliazione pasquale. L'epiclesi e le parole dell'isti-
tuzione nella loro connessione e reciproca implicazione richia-
mano lo strettissimo rapporto che unisce le missioni delle due
66
S. Agostino, De civitate Dei X, 6: PL 41,283s. Cf. pure X, 5: 282s.

228
divine persone nella storia: è grazie all'azione dello Spirito che
si compie l'attualizzazione dell'evento pasquale, in forza della
quale i credenti sono uniti in Cristo al Padre e fra di loro e so-
no inviati agli uomini come operai di riconciliazione.
L'ethos eucaristico è pertanto un ethos della comunione, della
testimonianza e del servizio, resi possibili nella forza dello Spiri-
to: esso impegna il cristiano a vivere da riconciliato e ad an-
nunciare e donare agli altri la grazia della comunione che gli è
stata gratuitamente donata. Lasciandosi guidare dallo Spirito,
che il pane della vita gli trasmette, il credente vive la passione
per l'unità del corpo di Cristo e tende a manifestarne la bellez-
za nella storia degli uomini. Anche così l'eucaristia è il sacra-
mento dell'unità della Chiesa, segno e strumento della riconci-
liazione donata e sorgente di nuovi cammini di riconciliazione
e di pace. L'ethos eucaristico si oppone in questo senso ad ogni
lacerazione e motiva la causa ecumenica come obbedienza al dono
eucaristico, che il Signore fa di sé nel suo Spirito alla Chiesa:
«Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un
mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando parteci-
pa alla cena, prende prima il proprio pasto e cosi uno ha fame,
l'altro è ubriaco... Ogni volta che mangiate di questo pane e
bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore fin-
ché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pa-
ne o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue
del Signore» (ICor ll,20s.26s). Nell'attesa della venuta di Cristo
la comunità eucaristica, che è la Chiesa continuamente rigene-
rata ed espressa dal memoriale pasquale nello Spirito, è chia-
mata ad essere segno e strumento di unità per l'intero genere
umano, e a darne testimonianza, confessando lo scandalo delle
divisioni come colpa, e impegnandosi nel cammino dell'unità
in obbedienza al suo Signore.
Nella comunità, che celebra l'eucaristia sotto la presidenza
del Vescovo o del presbitero in sua vece ed in comunione con
lui, si attua pertanto il mistero della Chiesa nella pienezza dei
suoi elementi: perciò la Chiesa eucaristica è anzitutto Chiesa
locale, cattolica nella realizzazione piena del mistero (xad"ó-
Xou = in pienezza), una e santa nell'unico Corpo del Cristo
eucaristico e nell'unico Spirito, apostolica nella fedeltà al man-
dato da Gesù confidato ai suoi di celebrare il suo memoriale.
«In ogni comunità che partecipa all'altare sotto il sacro mini-
stero del Vescovo viene offerto il simbolo di quella carità e uni-

229
tà del Corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza.
In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere o viventi
nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del quale si rac-
coglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Infatti la par-
tecipazione al corpo e al sangue di Cristo altro non fa, se non
che ci mutiamo in ciò che prendiamo»67. Lo stesso Cristo e lo
stesso Spirito, sulla base dell'unico battesimo, fondano poi la
comunione di ciascuna Chiesa locale con tutte le altre nella co-
munione universale delle Chiese, generate dalla stessa Parola,
dallo stesso Pane, dall'unico Spirito del Signore Gesù. Nell'u-
nica Chiesa universale ciascuna Chiesa locale riconosce come
se stessa ogni altra Chiesa eucaristica, perché riconosce in essa
l'unico Signore presente nel Suo Spirito e nel Suo Corpo. La
comunione delle Chiese è manifestata e servita dalla collegiali-
tà dei loro Vescovi, che si struttura intorno al ministero di uni-
tà del Vescovo di Roma, la Chiesa che «presiede nell'amore»
(sant'Ignazio di Antiochia). Il Vescovo romano è nella Chiesa
universale il servo dell'unità di tutti i fratelli («servus servorum
Dei»), colui che nell'assemblea eucaristica di tutte le Chiese an-
nuncia profeticamente la Parola del Signore, offre il sacrificio
e si offre in sacrificio per il loro bene. Essere in comunione col
Vescovo della Chiesa di Roma è, per i singoli e per le Chiese,
criterio ultimo dell'appartenenza alla comunione eucaristica, che
è la Chiesa cattolica. L'ethos ecclesiale, radicato nell'eucaristia,
si apre così alle dimensioni della cattolicità, che abbraccia il cor-
poso spessore della storia, in tutte le sue espressioni, individua-
li e sociali, spaziali e temporali, naturali e culturali, e lo unisce
all'Eterno entrato nel tempo.

6.3. I S A C R A M E N T I DELLA S T O R I C I T À

L'iniziazione cristiana introduce l'essere personale nella par-


tecipazione alla vita divina, che il Dio trinitario ha offerto agli
uomini con amore gratuito entrando nella storia. L'inizio e la
pienezza dell'incontro col Signore compiutisi nel battesimo, nella
confermazione e nell'eucaristia, si pongono e si sviluppano pe-
rò nel tempo, subendo tutti i condizionamenti e le sfide della
67
Lumen Gentìum 26. Sul complesso di queste riflessioni relative all'ecclesiolo-
gia eucaristica cf. B. Forte, ha Chiesa nell'eucaristia, o.c.

230
storicità. Sul piano personale anche l'esistenza redenta conosce
la fallibilità e può sperimentare la caduta; anch'essa convive con
la propria finitudine, attraversa l'infermità, si affaccia alla morte.
Al bisogno determinato da queste situazioni, tipiche della sof-
ferenza del divenire, vengono a rispondere i sacramenti di gua-
rigione — penitenza e unzione degli infermi —, che soccorro-
no la persona nella sua profondità interiore e nelle dimensioni
dell'esteriorità in cui essa si esprime. Al piano personale si uni-
sce strettamente quello della reciprocità delle coscienze: anche
la dimensione comunitaria dell'esistenza redenta sperimenta la
fatica della storicità. Da una parte, la comunità ha bisogno di
essere custodita e di crescere nell'unità contro la continua ten-
tazione dell'individualismo e della divisione; dall'altra, la reci-
procità interpersonale richiede di esprimersi nella sua forma più
alta nel rapporto di coppia, costitutivo dell'alleanza nuziale, fon-
damento della famiglia e della società, contro il rischio della so-
litudine egoistica e le difficoltà della comunicazione. Alle esi-
genze cosi delineate rispondono i sacramenti del servizio della
comunione — l'ordine e il matrimonio —, che soccorrono e con-
sacrano con l'aiuto della grazia i vincoli che si stabiliscono nel-
l'ambito della reciprocità delle coscienze delle esistenze reden-
te. Nel loro complesso, pertanto, penitenza, unzione, ordine e
matrimonio costituiscono i sacramenti della storicità, orientati
a far vivere nella grazia la fatica del divenire, tanto nella di-
mensione personale, quanto in quella interpersonale o comuni-
taria, che peraltro reciprocamente si richiamano.

a) Penitenza e unzione degli infermi

L'evento sacramentale che soccorre la debolezza del pecca-


tore, che abbia tradito o rifiutato la fedeltà all'alleanza con Dio
posta nei sacramenti dell'iniziazione, conferendo per Cristo nello
Spirito la riconciliazione col Padre e con la Chiesa è il sacramen-
to della penitenza o riconciliazione,68'. Il suo fondamento ultimo
68
Sul sacramento della penitenza cf.: Z. Alszeghy - M. Flick, Il sacramento della
riconciliazione, Torino 1976; C. Blanchette, Pénìtence et Eucharistie. Dossier d'une que-
stion controversée, Montreal-Paris 1989; D. Borobio, Keconciliación penitencial. Trata-
do actual del sacramento de la Penitencia, Bilbao 1988; S. Maggiolini, La riconciliazione
sacramentale nella Chiesa, Brescia 1974; Penarne and Reconciliation. International Bi-
bliography 197.5-I9&3, Strasbourg 1984; La penitenza. Studi biblici, teologici e pastorali,
Torino-Leumann 1916; La penitenza oggi. Aspetti teologici e pastorali del sacramento della

231
è nell'esigenza di conversione (/nerapota), che la buona novella
dell'avvento divino improrogabilmente pone: «Il tempo è com-
piuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vange-
lo» (Me 1,15). L'esodo della condizione umana è chiamato ad
autotrascendersi, aprendosi al Dio che viene e fa nuove tutte
le cose, lasciandosi riconciliare con lui: «Se uno è in Cristo, è
una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono
nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha ricon-
ciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero
della riconciliazione. E stato Dio infatti a riconciliare a sé il mon-
do in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affi-
dando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quin-
di da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo
nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconci-
liare con Dio» (2Cor 5,17-20).
L'evento della riconciliazione si compie nella storia, abbrac-
ciando inseparabilmente l'interiorità della persona e l'esteriori-
tà in cui essa risplende: nell'economia sacramentale della sal-
vezza il dono non giunge mai al cuore senza passare attraverso
la mediazione del sacramento originario, Cristo, e del sacramen-
to, che è la Chiesa. E Cristo stesso che — secondo la testimo-
nianza della fede delle origini — ha confidato alla Chiesa il po-
tere di legare e sciogliere, di escludere e di ammettere cioè nel-
la comunità dell'alleanza, che è il luogo della comunione salvi-
fica con Dio e fra gli uomini: «In verità vi dico: tutto quello
che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto
quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo»
(Mt 18,17). Questo potere corrisponde a quello di rimettere o
ritenere i peccati, che il Risorto affida ai capi del nuovo Israe-
le: «I discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro
di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io
mando voi". Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse:
"Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno
rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi"» (Gv
20,20-23). Ed è l'Apostolo che nella Chiesa nascente di fatto

penitenza, Napoli 1974; K. Rahner, La penitenza della Chiesa. Saggi teologici e storici,
Milano 19923; J. Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza, Torino-Leumann 1970;
Le sacrement de la réconciliation,in Studia Moralia 21 (1983) 3-202; P. Toinet - B. deMar-
gerie, S'ouvrir à la miséricorde par le Sacrement de Pénitence, Paris 1982; C. Vogel, //
peccato e la penitenza nella Chiesa antica, Torino 1968; Id., Il peccato e la penitenza nel
Medio Evo, Torino 1970; H. Vorgrimler, Busse und Krankensalbung, Freiburg i.Br. 1978.

232
esclude dalla comunità «con il potere del Signore nostro Gesù»
(lCor 5,4s).
Sulla base di questo fondamento neotestamentario la prassi
della penitenza sacramentale si è sviluppata nella storia con gran-
de varietà di forme, comunitarie ed individuali, che hanno pe-
rò mantenuto tutte la struttura fondamentale dell'incontro in-
terpersonale fra il peccatore pentito e il Dio vivente, che si com-
pie attraverso il segno e la mediazione del vescovo o del presbi-
tero, i quali solo, in quanto ministri di unità della Chiesa, ri-
presentazione del Cristo, capo del Corpo ecclesiale, possono am-
mettere o escludere dalla comunione che salva69. L'assoluzio-
ne da parte del ministro nel nome della Trinità è il segno este-
riore attraverso cui si comunica la grazia del perdono e si com-
pie la riconciliazione del peccatore con Dio e con la Chiesa. Quel-
lo che si richiede da parte del penitente è invece espresso dai
tre atti della contritio, della confessio e della satisfactio70, che
stanno ad indicare un vero e proprio itinerario nella storia della
persona: al pentimento ed alla volontà di conversione deve se-
guire l'atto sacramentale di confessione delle colpe nella fede
della misericordia riconciliante di Dio, unito alla sincera dispo-
nibilità a fare scelte ed a porre gesti autentici di vita nuova.
Anche nell'evento del perdono l'esodo umano incontra così l'av-
vento divino in tutta la dignità del suo divenire storico e l'av-
vento della grazia liberamente accondiscende a questo proces-
so di ritorno dell'uomo a Dio ed alla Chiesa.
La dinamica trinitaria del sacramento della riconciliazione
si rapporta precisamente all'itinerario esodale, che esso richie-
de ed attiva: alla contrizione corrisponde il perdono del Padre;
alla confessione l'applicazione dei meriti di Cristo, unico ricon-
ciliatore; alla soddisfazione la comunione rinnovata con la Tri-
nità e con la Chiesa, operata dallo Spirito Santo. In rapporto
a Dio Padre la penitenza è un «ritorno a casa» (cf. la parabola
di Le 15,llss), che si compie attraverso la presa di coscienza
dolorosa della gravità della colpa, intesa non solo come rottura
dell'alleanza con l'Eterno, ma anche come sorgente di aliena-
zione della persona, e la decisione del cuore di tornare a Dio.

69
Cf. il cap. VI del De sacramento paetiitentiae del Tridentino: DS 1684s, col ca-
none corrispondente: DS 1709.
70
Cf. il can. 4 di Trento, indirizzato contro la concezione che si attribuiva ai
Riformatori, per la quale bastava al perdono il terrore del peccato commesso e la fede
nell'Evangelo: DS 1704.

233
A questo cammino di conversione della persona nel più profon-
do del suo essere (neruvoia), stimolato e sostenuto dalla grazia
preveniente di Dio, ma esercitato nella libertà, viene a corri-
spondere la gratuita comunicazione del perdono, con cui il Pa-
dre riconcilia il peccatore con sé: «"Mi leverò e andrò da mio
padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di
te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami
come uno dei tuoi garzoni". Partì e si incamminò verso suo pa-
dre. Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso
gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Le 15,18-20).
La penitenza sacramentale è in questo senso vera remissione dei
peccati commessi dopo il battesimo, che la misericordia divina
accorda a chi sinceramente riconosce la propria colpa e vuole
ritornare nella condizione dell'alleanza.
In rapporto al Figlio, Gesù Cristo il sacramento della riconci-
liazione domanda al peccatore di aderire alla mediazione sacra-
mentale della Chiesa, sacramento di Cristo, mediante la con-
fessione, che, comunque sia esercitata, in forma personale o co-
munitaria, esige la presenza del ministro, segno dell'unico e per-
fetto Riconciliatore. A questa «confessio» — che può unire la
lode dell'Eterno al riconoscimento della colpa e all'atto di fede
nella misericordia divina (confessio laudis - confessio vitae et pec-
cati - confessio fidei) — corrisponde l'applicazione dei meriti del
sacrificio di Cristo, che si compie mediante l'attualizzazione sa-
cramentale della sua opera di riconciliazione e di pace71, e vie-
ne ad unire il peccatore perdonato al Figlio, oggetto dell'infini-
to amore del Padre.
Infine, in rapporto allo Spirito Santo la penitenza è nuovo
ingresso nella comunione con Dio e con la Chiesa, di cui lo Spi-
rito è l'anima e la forza di coesione: «Quelli che si accostano
al sacramento della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio
il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con
la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che
coopera alla loro conversione con la carità, l'esempio e la pre-
ghiera»72. Lo Spirito effonde l'amore di Dio nei nostri cuori
(cf. Rm 5,5) e muove il peccatore perdonato ad esprimere nello
splendore dell'esteriorità personale e della comunione con gli
altri la pace ricevuta nell'interiorità del proprio essere. I gesti,

71
Cf. il cap. I del Ve sacramento paenitentiae del Tridentino: DS 1668ss.
72
Lumen Gentìum 11.

234
con cui si accetta consapevolmente il peso della pena, conse-
guente alla colpa commessa, e si assume volontariamente un iti-
nerario penitenziale per vivere in costante conversione, costi-
tuiscono la «soddisfazione», che non va intesa come merito uma-
no, ma come frutto della grazia, segno della rinnovata comu-
nione del peccatore perdonato con Dio e con la Chiesa. L'azio-
ne della Trinità e l'itinerario antropologico della penitenza ven-
gono dunque a corrispondersi profondamente nel sacramento
della riconciliazione: esso mostra come l'avvento divino non di-
sprezzi le debolezze e le resistenze dell'uomo, ma le prenda fi-
no in fondo sul serio, offrendo alla persona l'aiuto necessario
per vivere l'ethos di un'esistenza riconciliata ed essere così essa
stessa strumento di riconciliazione fra gli uomini. L'eternità —
anche in questo modo — entra nel tempo e veramente lo redi-
me dal di dentro delle sue tensioni e delle sue contraddizioni.

Alla finitudine della creatura viene incontro anche il sacra-


mento dell'unzione degli infermi13. Il suo fondamento ultimo
sta nella vittoria che l'avvento divino riporta sul peccato e le
sue conseguenze: «Gesù andava attorno per tutte le città e i vil-
laggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del
regno e curando ogni malattia e infermità» (Mt 9,35). Questo
potere di annunciare e realizzare il vittorioso avvento della grazia
anche in rapporto alle infermità è confidato dal Signore agli apo-
stoli: «Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di
scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie
e d'infermità... Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istrui-
ti: "... Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino.
Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cac-
ciate i demoni"» (Mt 10,1.5.7s; cf. Le 9,1 e 6). Gli apostoli
assolvono il mandato anche utilizzando il segno dell'unzione:
«Partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano mol-
ti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Me
6,12s). È la lettera di Giacomo che attesta come questa prassi
sia continuata nella Chiesa delle origini: «Chi è malato, chiami
a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo

73
Cf. S. J. Empereur, Prophetic Anointing: God's Cali to the Sick, the Elderly and
the Dying, Wilmington 1982; P. Fedrizzi, L'unzione degli infermi e la sofferenza, Pado-
va 1972; M. Nicolau, La unción de los enfermos. Estudio histórico-dogmdtico, Madrid
1975; S. Ubbiali, La teologia della unzione per gli infermi, in Teologia 10 (1985) 259-271;
H. Vorgriraler, Busse und Krankensalbung, Freiburg i. Br. 1978.

235
unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con
fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso
peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14s). Sulla base di questi
elementi la simbolica della fede ha riconosciuto nell'unzione e
nella preghiera fatte dal sacerdote sull'infermo il segno sacra-
mentale dell'avvento della grazia in rapporto alla debolezza ed
alla malattia, che così fortemente segnano la condizione della
storicità74.
Come in tutti gli eventi sacramentali, anche nell'unzione de-
gli infermi è riconoscibile una struttura trinitaria, che viene a
corrispondere a un itinerario antropologico. In rapporto al Pa-
dre l'unzione è il sacramento dell'offerta della sofferenza del-
l'infermo e dell'accettazione di grazia con cui Dio l'accoglie,
valorizzando così l'esperienza del dolore e della finitudine co-
me via di redenzione e di salvezza nell'economia dell'alleanza.
In rapporto al Figlio l'evento sacramentale dell'unzione unisce
la passione dell'uomo alla passione di Cristo ed applica ad essa
i meriti del Salvatore, raggiungendola con la potenza della sua
vittoria pasquale sul peccato e sulla morte e facendo dell'infer-
mità una partecipazione alla croce e resurrezione del Signore
a vantaggio di tutta la Chiesa: «Con la sacra unzione degli in-
fermi e la preghiera dei sacerdoti tutta la Chiesa raccomanda
gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché allegge-
risca le loro pene e li salvi (cf. Gc 5,14-16), anzi li esorta a unir-
si spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo (cf. Rm
8,17; Col 1,24; 2 Tm 2,lls; lPt 4,13), per contribuire così al
bene del popolo di Dio»75. Infine, in rapporto allo Spirito San-
to l'unzione stabilisce la comunione solidale degli infermi con
tutta la Chiesa nel vincolo operato dal Consolatore, grazie al
quale la comunità e il singolo reciprocamente si aiutano nell'o-
ra della sofferenza e della prova ed anche la condizione di de-
bolezza ed apparente inutilità può divenire via di servizio ad
altri ed esperienza del beneficio della loro solidarietà spiritua-
le. L'unzione — incontro sacramentale della Trinità con la ma-
lattia ed il patire umano — fonda così un ethos del dolore salvi-
fico 76, in cui l'essere nascosto con Cristo in Dio del cristiano

74
Cf. a Trento la Doctrìna de sacramento unctìonis: DS 1694-1700, con i canoni
corrispondenti: D5 1716-1719. Cf. pure Sacrosanctum Concìlium 73.
75
Lumen Gentìum 11.
76
Cf. la Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II Salvifici doloris, sul significato
cristiano della sofferenza umana, dell'11 febbraio 1984.

236
si manifesta nell'esperienza dell'infermità come forza di offer-
ta al Padre e di comunione con gli uomini, capace di trasforma-
re il dolore in amore e di produrre effetti di guarigione e di vita
nell'interiorità del cuore e nella sua irradiazione corporea.

b) L'ordine sacro

Nella dimensione della reciprocità delle coscienze e della co-


struzione della comunità ecclesiale la storicità dell'essere per-
sonale è raggiunta dalla grazia in modo particolare attraverso
i sacramenti dell'ordine e del matrimonio. \J ordine sacro71 tro-
va il suo fondamento ultimo nella legge dell'economia sacramen-
tale, per la quale il dono di Dio raggiunge gli uomini attraverso
una mediazione umana, scelta da Dio stesso. Come l'umanità
assunta è strumento congiunto del Verbo, così — secondo una
non debole analogia78 — l'elemento umano della Chiesa volu-
ta da Cristo come suo sacramento nel tempo è segno e strumento
della grazia della redenzione. Tutta la Chiesa è in tal senso chia-
mata a ricevere e testimoniare il dono divino nella sua umani-
tà: la vocazione del popolo di Dio tutto intero a testimoniare
ed irradiare la riconciliazione è il fondamento comune di ogni
ministero particolare. La vivente trasmissione ecclesiale del dono
77
Cf. J.-J. von Allmen, Il santo ministero. Nell'idea e nell'intenzione dei Riformati
del XVI secolo, Roma 1971; J. Colson, Sacerdoti e popolo sacerdotale. Scrittura e tradi-
zione, Bologna 1970; Commissione Teologica Internazionale, Il Sacerdozio ministeria-
le. Ricerca storica e riflessione teologica, Bologna 1972; Y. Congar, Ministeri e comunio-
ne ecclesiale, Bologna 1973; J. Deforme, Il ministero e i ministeri secondo il Nuovo Testa-
mento. Documentazione esegetica e riflessione teologica, Milano 1977; S. Dianich, Teo-
logia del ministero ordinato. Una interpretazione ecclesiologica, Milano 19933; A. Fava-
te, Il ministero presbiterale, Roma 1989; B. Forte, Sul sacerdozio ministeriale, Milano
19902; J. Galot, Un nuovo volto del prete, Assisi 1971; R. Gerardi, Il ministero pasto-
rale del presbitero, Casale Monferrato 1989; G. Greshake, Essere preti. Teologia e spiri-
tualità del ministero sacerdotale, Brescia 1984; Il ministero ordinato nel dialogo ecumeni-
co, ed. da G. Famedi e P. Rouillard, Roma 1985; J. Lécuyer, Le sacrement de l'ordina-
tion. Recherche historique et théologique, Paris 1983; F. Marinelli, Il prete in una Chiesa
credibile, Roma 1975; B.-D. Marliangeas, Cléspour une théologie du mìnistère. In perso-
na Christi. In persona Ecclesiae, Paris 1978; G. Martelet, Teologia del sacerdozio, Bre-
scia 1986; I ministeri ecclesiali oggi, a cura di L. Sartori, Roma 1977; N. Mitchell, Mis-
sion and Ministry: History and Theology in the Sacrament of Order, Wilmington 1982;
T. F. O'Meara, Theology of Ministry, New York 1983; Popolo di Dio e sacerdozio. Pras-
si e linguaggi ecclesiali, Padova 1984; K. Rahner, Sul sacerdozio, Brescia 1967; h sacer-
dozio ministeriale. Natura, funzione, missione, Napoli 1970; Studi sul sacramento dell'or-
dine, Roma 1959; M. Thurian, Sacerdozio e ministero, Roma 1971; A. Vanhoye, Sacer-
doti antichi e nuovo Sacerdote secondo il Nuovo Testamento, Torino 1985; L. Vischer
(ed.), Episkopé and Episcopale in Ecumenical Perspective, Geneva 1980.
78
Cf. Lumen Gentium 8.

237
divino in Cristo e nello Spirito, nella continuità con la comunità
degli apostoli intorno al Gesù terreno e al Cristo risorto, è la
«tradizione apostolica» della Chiesa: essa sta a dire la permanen-
za nella comunità ecclesiale — assicurata dall'azione del Conso-
latore — delle caratteristiche fondamentali della Chiesa degli
apostoli. Queste caratteristiche possono descriversi tra l'altro co-
me «testimonianza della fede apostolica, proclamazione e inter-
pretazione sempre rinnovata dell'Evangelo, celebrazione del bat-
tesimo e dell'eucaristia, trasmissione delle responsabilità ministe-
riali, comunione nella preghiera, nell'amore, nella gioia e nella
sofferenza, servizio ai malati e ai bisognosi, unità tra le Chiese
locali e condivisione dei beni che il Signore dona a ciascuna»79.
Segno, strumento e garante della tradizione apostolica di tut-
ta la Chiesa è per la grande tradizione cristiana, ininterrotta-
mente presente nella concezione cattolica ed ortodossa, la «suc-
cessione apostolica» del ministero, la continuità cioè di trasmis-
sione del carisma del ministero ordinato attraverso l'imposizio-
ne delle mani e la preghiera consacratoria dei vescovi. La «suc-
cessione episcopale» è l'elemento storico che testimonia, visi-
bilizza ed assicura la continuità e la permanenza della Chiesa
nella «tradizione apostolica». In questa prospettiva, il fonda-
mento scritturistico dell'ordine sacro va cercato non solo nella
vocazione e missione dei Dodici (cf. Me 3,13-19 e par.), il cui
numero esplicitamente richiama i dodici patriarchi e le dodici
tribù d'Israele per indicare in essi i capi del nuovo popolo di
Dio (cf. Mt 19,28 e Le 22,30), ma anche nella scelta di Gesù
di affidare loro il suo memoriale nell'ultima cena (cf. Le 22,19
e ICor 11,24), istituzione dell'eucaristia e della Chiesa, che da
essa nasce e in essa si esprime. Inoltre, l'esercizio della ^TTI-
axoirri nella Chiesa delle origini, testimoniato nella prassi degli
apostoli e dei loro primi collaboratori e successori (cf. ad esem-
pio At 2,42; 6,2-6; ecc.), mostra come la volontà del Signore
circa i capi e pastori del suo popolo sia stata compresa e realiz-
zata dalla comunità nascente. C'è certamente un aspetto della
condizione dell'apostolo che è e resterà irripetibile: il suo di-
retto contatto con Gesù, il Cristo (cf. Le 24,48 e At 1,4-11,
nonché la significativa elencazione di ICor 15,5-8, dove Pietro
e i Dodici sono indicati come i primi testimoni del Risorto). La

79
Commissione di Fede e Costituzione, Battesimo-Eucaristia-Ministero, Ministe-
ro, o.c, 34.

238
sua funzione di guida e il suo ministero di unità non cesseranno
tuttavia nella Chiesa voluta dal Signore, la cui continuità nel
tempo esige appunto la permanenza di una ìiuoxo'Kr) analoga
a quella degli apostoli ed in diretta continuità storica e spiri-
tuale con essa, nell'ambito ed anche a motivo dell'ampia varie-
tà carismatica e ministeriale del popolo di Dio (cf. ad esempio
Rm 12,6-8; ICor 12,8-10; lCor 12,28-30; Fil 1,1; lTs 5,12).
A partire da Tertulliano questo ministero apostolico sarà chia-
mato «ordo», forse in riferimento all'espressione sacerdos secun-
dum ordinem Melchisedech, usata dal Sai 110,4 e da Eb 5-7 in
relazione al sacerdozio di Cristo. Parimenti si adopererà la ter-
minologia sacerdotale, impiegata soprattutto dalla lettera agli
Ebrei in rapporto al Signore Gesù, e si adotteranno — per in-
dicare i vari gradi del ministero ordinato — le espressioni di
origine biblica di «vescovo», «presbitero» e «diacono», che già
molto presto designano l'articolazione del ministero di unità nella
Chiesa localmente realizzata80. La simbolica della fede — sul-
la base di tutti questi elementi, vissuti ed espressi nella vivente
tradizione apostolica del popolo di Dio indiviso — ha ricono-
sciuto che il sacramento dell'ordine si attua per l'imposizione
delle mani e la preghiera consacratoria del vescovo sull'ordinando
(cf. lTm 4,14 e 2Tm 1,6)S1. Esso comprende i tre gradi del-
l'episcopato, del presbiterato e del diaconato. L'episcopato, «pie-
nezza del sacramento dell'ordine», fa del Vescovo il segno e il
ministro dell'unità della Chiesa locale, al suo interno e nella co-
munione delle Chiese, espressa dal collegio episcopale presie-
duto dal Vescovo di Roma; il presbiterato costituisce i sacerdo-
ti «cooperatores episcopi», uniti collegialmente intorno al litur-
go e pastore della Chiesa locale e chiamati ad esercitare il mini-
stero di unità nella parola, nella liturgia e nella guida pastorale
nell'ambito ad essi affidato; il diaconato, infine, incorpora al
collegio diaconale in aiuto del Vescovo, e costituisce il diacono
segno e strumento del servizio della parola e della carità della
comunità cui è inviato82.
Il rapporto del sacramento dell'ordine alla Trinità ed alla
Chiesa è esplicitato nella struttura dell'ordinazione, che per an-
tica tradizione si situa all'interno della celebrazione eucaristi-
80
Cf. Ignazio di Antiochia, Ad Magnesios, 6, 1; 3, 1-2; Trall. 3, 1.
81
Cf. la Sessio XXIII del Concilio di Trento (15 luglio 1563): DS 1763-1778,
e i decreti Cbrìstus Dominus e Presbyterorum Ordinis del Concilio Vaticano II.
82
Cf. su tutto questo Lumen Gentìum 28 e 29.

239
ca, in cui sommamente la Chiesa nasce e si esprime. In rapporto
al Padre l'ordinazione è un'invocazione rivolta a lui perché prenda
possesso dell'ordinando — secondo il significato profondo del-
l'imposizione delle mani da parte del Vescovo ordinante — e,
colmandolo del dono dello Spirito, lo configuri a Cristo sacer-
dote e ne faccia il segno della sua «principialità» (o «monarchia»
paterna, secondo il linguaggio dell'Oriente) nella comunità del
popolo di Dio. In rapporto al Figlio Gesù Cristo, sommo ed eter-
no Sacerdote della nuova alleanza, l'atto sacramentale dell'or-
dinazione configura l'ordinando al Cristo, in quanto Capo del
corpo ecclesiale, affinché possa agire in persona di lui («ut in
persona Christi Capitis agere valeant»83) per la crescita della
Chiesa nell'unità mediante l'azione autorevole nell'ambito pro-
fetico, liturgico e pastorale. Questo rapporto con Cristo, che
ordina al servizio sacerdotale di Dio e della Chiesa, è così pro-
fondo ed inamissibile in forza della fedeltà del Signore, che ad
esso viene dato il nome di «carattere». Infine, in rapporto allo
Spirito Santo, invocato da Dio sull'ordinando, l'ordinazione fa
del ministro il segno e il servo vivente della comunione eccle-
siale, che il Consolatore incessantemente suscita e vivifica, e
lo rende capace di operare il discernimento e il coordinamento
dei carismi in vista dell'organica articolazione ministeriale del-
la Chiesa e per l'utilità comune. Anche attraverso il sacramen-
to dell'ordine la Trinità entra nella storia e suscita — nella re-
ciprocità delle coscienze, tipica della storicità — vincoli di uni-
tà degli uomini fra di loro e con Dio. Ecco perché l'ethos susci-
tato nella vita del ministro ordinato, ma anche tramite lui e nei
rapporti da lui alimentati e promossi nella vita dell'intero po-
polo di Dio, può esser descritto come un ethos della comunione
e del servizio: l'esistenza stessa di persone, consacrate dalla Tri-
nità ad essere segno e strumento di reciprocità liberata e libe-
rante per tutti, mostra, anche al di là della fragilità delle realiz-
zazioni storiche, il rilievo che per ogni vita vissuta nella grazia
dell'alleanza ha il dialogo nella carità e la solidarietà nel servi-
zio reciproco.

Presbyterorum ordinis 2.

240
c) Il matrimonio

Analogamente destinato a vivificare nel dono di Dio la re-


lazione interpersonale è il sacramento del matrimonio M. Fon-
damento remoto della concezione sacramentale del vincolo ma-
trimoniale è la testimonianza biblica dell'unità originaria dei due,
l'uomo e la donna, radice della loro assoluta parità nella dignità
e della loro costitutiva vocazione alla reciprocità nel disegno di
Dio (cf. Gen l,27s; 2,22-24). La simbolicità del vincolo nuzia-
le è spesso richiamata dall'Antico Testamento per esprimere il
rapporto d'amore fra il Signore e il suo popolo (cf. Os 1-3; Ger
2 e 3; Ez 16 e 23; Is 54 e 62; e il Cantico dei Cantici). Gesù
afferma il carattere indissolubile dell'alleanza matrimoniale: «Al-
lora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e
gli chiesero: "È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie
per qualsiasi motivo?". Ed egli rispose: "Non avete letto che
il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per
questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più
due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto,
l'uomo non lo separi"» (Mt 19,3-6). La forte affermazione del-
la dignità del matrimonio come alleanza stabilita in Dio non è
indebolita dai testi in cui si tocca la questione del divorzio: «Fu
detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto di ripudio; ma
io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di con-
cubinato, la espone all'adulterio e chiunque sposa una ripudia-
ta, commette adulterio» (Mt 5,31s; cf. pure 19,7-9)85. Il Pro-
feta galileo unisce comunque il rilievo dato all'esigenza della fe-

84
Cf. P. Adnès, Il matrimonio, Roma 1966; A. Autiero, Amore e coniugalità, To-
rino 1980; J. Cottiaux, La sacralisatìon du marriage. De la genèse aux ìncises matthéennes,
Paris 1982; P. Dacquino, Storia del matrimonio cristiano alla luce della Bibbia, Torino-
Leumann 1984; F. Dell'Oro (ed.), Il Matrimonio cristiano. Studi biblici, teologici e pa-
storali, Torino-Leumann 1978; Evangelizzazione e matrimonio, Napoli 1975; P. Evdo-
kimov, Sacramento dell'Amore, Sotto il Monte-Bergamo 19873; R. Grimm, L'institu-
tion du marriage. Essai d'étbìque fondamentale, Paris 1984; H. Jedin - K. Reinhardt,
Il matrimonio. Una ricerca storico-teologica, Brescia 1982; W. Kasper, Teologia del ma-
trimonio cristiano, Brescia 1979; G. Pattaro, Gli sposi servi del Signore, Bologna 1979;
E. Schillebeeckx, Il matrimonio. Realtà terrena e mistero di salvezza, Milano 19935; D.
Tettamanzi, I due saranno una sola carne. Saggi teologici su matrimonio e famiglia, Tori-
no 1986.
83
La «clausola dell'adulterio», assente in Me 10,2ss e Le 16,18, al di là delle dif-
ficoltà di interpretazione attesta la possibilità condizionata di una separazione, che pe-
rò non contraddice al patto fondamentale che esiste ed obbliga i due, quando ci sia
l'alleanza nuziale.

241
deità coniugale alla consapevolezza della storicità costitutiva della
condizione matrimoniale: «Quando risusciteranno dai morti, in-
fatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come an-
geli nei cieli» (Me 12,25 e par.).
A partire da questi elementi la Chiesa delle origini ha inter-
pretato il vincolo nuziale come segno vivo dell'unione sponsale
fra Cristo e la Chiesa: «L'uomo lascerà suo padre e sua madre
e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Que-
sto mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chie-
sa!» (Ef 5,3 ls). In questa luce la reciprocità coniugale deve ri-
flettere l'amore fedele e totale con cui il Signore ama la Chiesa
(cf. Ef 5,21-33; Col 3,18s) e deve tendere alla crescita comune
nella fede e nell'alleanza con Dio (cf. lPt 3,1-7), che va assicu-
rata e difesa in caso di rischio per il coniuge credente (cf. la
complessa tematica della «concessione» paolina in ICor 7,10s
e 15). Questa visione positiva ed esigente del matrimonio al-
l'interno dell'economia sacramentale della salvezza non impe-
disce tuttavia alla Chiesa nascente di affermare il valore altissi-
mo della verginità vissuta come segno del Regno, capace di pro-
fonde e vaste relazioni di reciprocità nella comunione con Dio
e con gli altri (cf. ICor 7). Su queste basi bibliche la simbolica
della fede ha riconosciuto nel matrimonio come patto d'eterna
alleanza fra i due coniugi un vero sacramento, di cui gli stessi
sposi sono ministri, e che comunica ai due la grazia della pre-
senza santificante e della fedeltà di Dio, non solo nell'atto del-
la celebrazione, ma anche in ogni istante della vita coniugale86.
Anche il sacramento del matrimonio può essere letto in chia-
ve trinitaria: in rapporto al Padre esso si presenta come l'atto
per il quale gli sposi si consacrano insieme a Dio e vengono ac-
colti da lui, che li ha chiamati alla donazione reciproca. Risplende
in questo segno sacramentale il carattere sponsale dell'alleanza
che l'Eterno ha gratuitamente stabilito con gli uomini, ponen-
dosi come principio e termine ultimo di ogni amore. La reci-
procità in cui l'alleanza nuziale si esprime è perciò segno della
reciprocità che Dio chiede e dona alle creature. Nel vincolo dei
due, donato al tempo stesso ed accolto dal Padre, viene a riflet-
tersi lo stesso vincolo che egli ha voluto col suo popolo: «Ti fa-
rò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel
86
Cf. ad esempio quanto affermano il Decretum prò Armeniis del Concilio di Fi-
renze (1439): DS 1310s e 1327; la Sessio XXIV (11 novembre 1563) del Tridentino:
DS 1797-1812; e il Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 11 e Gaudium et Spes 47-52.

242
diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella
fedeltà e tu conoscerai il Signore... e amerò Non-amata; e a Non-
mio-popolo dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio» (Os 2,21s
e 25).
Se in relazione al Padre il matrimonio è segno sacramentale
dell'unità degli sposi con Dio nel tempo e per l'eternità, in rap-
porto al Tiglio il vincolo nuziale è segno dell'alleanza indissolu-
bile fra Cristo e la Chiesa ed è dono efficace di grazia in ordine
all'unità piena dei due. In questa luce si comprende come la co-
munione coniugale sia fine proprio ed adeguato del sacramento
(comprimario, come si dice in relazione all'altro, quello della
procreazione), perché visibilizza l'unione di Cristo con la Chie-
sa e ne è nutrita e vivificata: «I coniugi cristiani, in virtù del
sacramento del matrimonio, col quale essi sono il segno del mi-
stero di unità e di fecondo amore che intercorre fra Cristo e
la Chiesa e vi partecipano (cf. Ef 5,32), si aiutano a vicenda
per raggiungere la santità nella vita coniugale, nell'accettazio-
ne e nell'educazione della prole, e hanno così, nel loro stato di
vita e nel loro ordine, il proprio dono in mezzo al popolo di
Dio»87. L'esigenza della fedeltà e dell'indissolubilità del matri-
monio si fonda — oltre che sulla donazione reciproca totale e
senza riserve, necessaria per edificare nella storia l'unità piena
dei due, che è fondamento della famiglia — su questo suo esse-
re il sacramento dell'unione indissolubile del Signore Gesù con
la Chiesa.
Infine, in rapporto allo Spirito Santo l'evento sacramentale
del matrimonio si pone come segno e strumento di alleanza nu-
ziale. Lo Spirito è colui che nel mistero trinitario è al tempo
stesso vincolo dell'eterno amore e apertura del dono ad altri,
«estasi di Dio»: analogamente, la sua azione sugli sposi fa sì che
essi approfondiscano il patto del consenso umano con la grazia
che radica nella stessa unità divina il loro amore ed al tempo
stesso arricchisce e potenzia la naturale tendenza dell'amore co-
niugale alla diffusione di sé nella procreazione. Inoltre l'azione
del Paraclito — principio invisibile dell'unità ecclesiale — fa
degli sposi segno e strumento della comunione della Chiesa, im-
pegnandoli ad essere testimoni ed artefici di unità e di crescita
del popolo di Dio, anzitutto attraverso l'educazione dei figli:
«Da questo matrimonio procede la famiglia, nella quale nasco-

87
'Lumen Gentium 11.

243
no i nuovi cittadini della società umana, i quali per la grazia
dello Spirito Santo sono elevati col battesimo allo stato di figli
di Dio, per perpetuare attraverso i secoli il suo popolo. In que-
sta che si potrebbe chiamare Chiesa domestica i genitori devo-
no essere per i loro figli, con la parola e con l'esempio, i primi
annunciatori della fede e favorire la vocazione propria di ognu-
no, quella sacra in modo speciale»88.
Il legame con la Trinità, suggellato nell'evento sacramenta-
le del matrimonio, fa dunque degli sposi una vivente «icona»
dell'eterno amore e nutre in essi e attraverso di essi nella co-
munità ecclesiale la reciprocità dialogica e solidale: a sua volta
la Chiesa aiuta i coniugi ad essere fedeli al dono ricevuto e rico-
nosce in essi la vocazione a un ethos nuziale, che in forza del
dono dello Spirito deve caratterizzare la vita non solo degli sposi,
ma di ogni membro della famiglia di Dio. Nella più alta espres-
sione dell'amore umano — la reciproca donazione degli sposi
nella profondità del cuore e nella unione sessuale, che la mani-
festa e la realizza come evento di grazia — viene così a risplen-
dere l'intensità e la fedeltà con cui l'eternità del Dio cristiano
è entrata nel tempo e vi ha preso dimora, per farne anticipo
e promessa della Gloria futura.

« 8 Ib.

244
7.

L'ETHOS TRINITARIO

7.1. LA TRINITÀ E L'ETHOS

a) Dogma ed ethos

La rivelazione, fondamento della fede ebraico-cristiana, è


una storia di salvezza, intessuta di eventi e parole intimamente
connessi, in cui la verità che salva non è mai separata dall'espe-
rienza che se ne fa, e l'unità fra alleanza e legge dell'alleanza,
fra messaggio e via per realizzarlo nella vita, è colta come un
dato originario nella concretezza dell'incontro col Dio salvato-
re. Il Decalogo è testimonianza emblematica di questo rappor-
to fra rivelazione divina e impegno morale dell'uomo: le «dieci
parole» (cf. Dt 4,13 e 10,4) nella loro stessa articolazione mo-
strano come l'avvento divino fondi ed esiga la nuova prassi del-
l'esodo umano. «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire
dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai al-
tri dei di fronte a me» (Es 20,1). L'Eterno, che ha dato ad Israele
di sperimentare le meraviglie della liberazione, chiede al popo-
lo dell'alleanza l'incondizionata adesione del cuore e della vita
alla sua signoria, confessione della verità dell'unico Dio contro
tutti gli idoli, espressa in particolare attraverso la santificazio-
ne del tempo nel segno del «sabato in onore del Signore»: «Non
ti farai idolo né immagine alcuna... Non pronuncerai invano il
nome del Signore, tuo Dio. v Ricordati del giorno di sabato per
santificarlo» (Es 20,4. 7.8). È specialmente questa santificazione
del tempo che viene collegata alla memoria delle gesta salvifi-
che del Dio dell'alleanza: «Osserva il giorno di sabato per san-
tificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato... Ricordati
che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio
ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò
il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato» (Dt

245
5,15: il testo di Dt 5,6-21 è analogo a quello di Es 20,1-21, pro-
babilmente più antico, come sembra suggerire la stessa motiva-
zione del comandamento del sabato). La prima sezione delle «die-
ci parole» ha dunque il carattere di una confessione di fede e
di adorazione dovuta al Signore della storia, di un'etica della
dossologia e della gratitudine, richiesta a chi riconosce la verità
dell'esperienza salvifica suscitata dall'Eterno.
Alla prima sezione segue la parte del Decalogo dedicata al-
l'agire morale del credente in rapporto al suo prossimo. Il pas-
saggio è attuato attraverso un comandamento che, formulato
a differenza dei seguenti come imperativo e non come divieto,
costituisce quasi un legame fra le due sezioni, perché nell'ono-
re ai padri si riconosce la continuità del dono, che attraverso
di essi viene sempre e unicamente attribuito a Dio come ultima
sorgente: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino
i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio. Non ucci-
dere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronuncia-
re falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desiderare
la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo pros-
simo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il
suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es
20,12-17). Il «sì» incondizionato all'Eterno entrato nella storia
si salda al «no» pronunciato su ogni rapporto in cui l'uomo vo-
glia sostituire al dominio di Dio sugli uomini e sulle cose il suo
proprio dominio. L'ethos della prassi storica è dunque fondato
dalle «dieci parole» nel riconoscimento professato e vissuto del-
l'assoluta signoria di Dio: il dover essere consegue alla rivela-
zione del mistero più grande di tutto ciò che esiste, la legge del-
l'agire alla verità salvifica, di cui si è fatta esperienza, dell'E-
terno entrato nella storia1.
L'unità inscindibile fra l'esperienza dell'essere salvati da Dio
nel suo amore e l'impegno morale nella prassi storica è afferma-
ta dallo stesso Gesù nel suo «comandamento nuovo»: «Vi do
un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come
io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv
13,34). Quel «come... così» (xai?ws...f'ra xm) riprende il rap-

1
Cf. C. Carmichael, The Ten Commandments, Oxford 1983; 1 dieci comandamenti,
Assisi 1978; F. L. Hossfeld, Der Dekalog. Seine spàten Fassungen, die originale Komposi-
tion und seine Vorstufen, Freiburg-Gòttingen 1982; O. H. Pesch, I dieci comandamen-
ti, Brescia 19913; H. Schùngel-Straumann, Decalogo e comandamenti di Dio, Brescia
1977.

246
porto strettissimo fra le due sezioni del Decalogo, attualizzan-
dolo alla relazione vitale dei discepoli con Cristo. Lo stesso rap-
porto è espresso dal modo con cui il Profeta galileo collega i due
comandamenti, in cui si compendiano la Legge e i Profeti: «Al-
lora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei,
si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo in-
terrogò per metterlo alla prova: "Maestro, qual è il più grande
comandamento della legge?". Gli rispose: "Amerai il Signore
Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta
la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comanda-
menti. E il secondo è simile (ò/ioia) al primo: Amerai il pros-
simo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipen-
dono tutta la Legge e i Profeti"» (Mt 22,34-40). La corrispon-
denza fra verità dell'avvento ed etica dell'esodo raggiunge il suo
vertice nella stessa persona del Verbo incarnato, in quanto il
Signore Gesù è in unità inscindibile la verità che salva e che
dà vita e la via per andare al Padre: «Io sono la via, la verità,
la vita» (Gv 14,6). La Chiesa nascente, a sua volta, mostra di
aver fatto propria la convinzione che è l'incontro salvifico col
Dio dell'alleanza a fondare il nuovo comportamento del cristia-
no: il comandamento è la fede nella rivelazione del Dio vivo
e l'amore al prossimo che ne consegue. «Questo è il suo coman-
damento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e
ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.
Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui.
E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che
ci ha dato» (lGv 3,23s).
Secondo la testimonianza biblica, dunque, la verità dell'a-
more salvifico di Dio motiva l'esigenza dell'amore operoso ver-
so il prossimo: l'indicativo teologico fonda l'imperativo mora-
le; il dogma si esprime nell'etica. L'incontro col Dio vivente si
offre pertanto come la radice e la sorgente del nuovo agire dei
redenti: la verità che salva è ethos, «dimora» (^/t?os) acco-
gliente e vivificante nel mistero dell'autocomunicazione divi-
na, e «costume» (ì'$os), inteso come comportamento abituale
e costante, che da questa esperienza scaturisce. L'unità dei due
aspetti sarà mantenuta a lungo nella grande tradizione cristia-
na, e soltanto nell'età moderna, quando il dogma dovrà essere
affermato polemicamente contro quelle che apparivano le ridu-
zioni dell'eresia, e dovrà essere difeso nel suo aspetto di verità
universale contro le presunzioni della ragione totalizzante, la

247
teologia morale si svilupperà autonomamente, come dottrina del
contingente ed esame dei «casi» (casuistica)2. La distinzione il-
luministica fra «verità di ragione» {Vemunftswahrheiten), uni-
versali e necessarie, e «verità storiche» {Geschicbtswahrheiten),
fattuali e contingenti, si rifletterà nella separazione fra teolo-
gia dogmatica, riservata all'eternamente vero, di per sé immu-
tabile, ed etica teologica, consacrata alla regolazione del parti-
colare, passeggero e mutevole. In tal modo, però, si perderà di
vista proprio la singolarità della concezione ebraico-cristiana,
in cui la verità divina si offre sempre come verità salvifica, ri-
velata e trasmessa attraverso una storia, in un intreccio di rela-
zioni vitali d'alleanza, che culmina nel supremo scandalo di Colui
che è in persona, in tutte le fasi della sua vicenda, nell'umilia-
zione come nell'esaltazione gloriosa, la verità di Dio, mistero
e salvezza del mondo. Il ritorno alla storia di rivelazione ed alla
prospettiva biblica unificante dell'alleanza implica perciò anche
il recupero del rapporto originario e strutturale fra dogma ed
etica. Il centro del messaggio deve essere il cuore della vita: il
vangelo è «buona novella» dell'imminenza del Regno che susci-
ta conversione ed è grazia che si irradia nella novità dell'esi-
stenza. «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; conver-
titevi e credete al vangelo» (Me 1,15).

b) La Trinità come «dimora» e come «patria»

La ritrovata unità fra dogma ed etica motiva l'esigenza di


approfondire il rapporto fra la fede trinitaria, centro e cuore
dell'evangelo e della sua formulazione dommatica3, e l'ethos:
la Trinità, come «dimora» e come «patria», è il fondamento, il
grembo e l'ultimo destino dell'agire redento, che è a sua volta
«costume» ispirato e vivificato dalle relazioni del Dio amore,
gratuitamente partecipate all'essere personale4. La Trinità è
2
Cf. l'efficace sintesi di B. Haring, Teologia morale, in Sacramentum Mundi 8,
Brescia 1977, 275-288. Cf. pure G. Angelini - A. Valsecchi, Disegno storico della teolo-
gia morale, Bologna 1972.
3
Cf. B. Forte, Trinità come storia, Milano 19884.
4
Lo sviluppo di un'etica rigorosamente trinitaria è ancora agli inizi: lo dimostra-
no le poche indicazioni in tal senso che si trovano anche nelle più recenti opere di teo-
logia morale fondamentale. Cf. ad esempio: F. Bòckle, Morale fondamentale, Brescia
1979; D. Capone, L'uomo è persona in Cristo. Introduzione antropologica alla teologia
morale, Bologna 1973; V. Caporale, Teologia dell'imperativo morale, Napoli 1972; A.
Chapelle, Les fondements de l'éthique. La symbolique de l'action, Bruxelles 1988; E.

248
«dimora» in quanto si offre nella rivelazione come Trascenden-
za accogliente ed ospitale: comunicando all'uomo la propria vi-
ta, il Dio tripersonale l'ammette alla più profonda comunione
con sé. L'esistenza redenta è nascosta con Cristo in Dio: «Se
dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove
si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di las-
sù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra
vita è ormai nascosta con Cristo in Dio!» (Col 3,1-3). Questo
radicale «essere in Dio» dei risorti, viventi della nuova vita del-
la grazia, è mediato storicamente dall'incontro con Cristo, la
Parola visibile del Padre: «Se uno è in Cristo, è una creatura
nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuo-
ve» (2Cor 5,17).
L'essere in Cristo {iv XQIOTCP) è per la fede della Chiesa
nascente la condizione propria del cristiano (la formula ricorre
in Paolo 165 volte!), perché soltanto vivendo di lui, uniti a lui
fino all'identificazione mistica con lui (cf. Gal 2,20), si è anche
creatura nuova, crocefissi per il mondo, requisiti per Dio: «Quan-
to a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro
Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato cro-
cifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che
conta, né la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura» (Gal
6,14s). Essere in Cristo, «dimorare» in lui è la sorgente del nuovo
agire dell'esistenza redenta: «Chi dice di dimorare in lui, deve
comportarsi come lui si è comportato» (lGv 2,6). «Chi rimane
in me ed io in lui, fa molto frutto» (Gv 15,5: cf. il tema del

Chiavacci, Teologia morale. I. Morale generale, Assisi 1977; J. de Finance, Etica genera-
le, Bari 1975; K. Demmer, Interpretare e agire. Fondamenti della morale cristiana, Mila-
no 1989; O. Du Roy, La récìprocité. Essai de morale fondamentale, Paris 1970; J. Fuchs,
Far eine menschlìche Moral. Grundfragen der theologischen Ethik, 2 voli., Freiburg-Wien
1989; T. Goffi - G. Piana (ed.), Vita nuova in Cristo. Morale fondamentale e generale,
Brescia 1989; A. Gunthòr, Chiamata e risposta. I. Morale generale, Alba 1974; B. Ha-
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3 voli., Roma 1979.1980.1981; Iniziazione alla pratica della teologia. IV. Morale, Bre-
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e prospettive di teologia morale, a cura di T. Goffi, Brescia 1976; J. Reiter, Modelle chri-
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1984; B. Schùller, L'uomo veramente uomo. La dimensione teologica dell'etica nella di-
mensione etica dell'uomo, Palermo 1987; D. Tettamanzi, Temi di morale fondamentale,
Milano 1975; Trattato di etica teologica, a cura di L. Lorenzetti, Bologna 1981; W. H.
M. van der Marck, Lineamenti di un'etica cristiana, Roma 1971; M. Vidal, L'atteggia-
mento morale. I. Morale fondamentale, Assisi 1976; H. Wattiaux, Engagement de Dieu
et fidélité du chrétien. Perspectives pour une théologie morale fondamentale, Louvain-la-
Neuve 1979.

249
«dimorare in Cristo» nel vangelo giovanneo, ad esempio in 6,56
in rapporto al «pane di vita», o nell'intera pericope sulla vite
e i tralci: 15,4-11).
Questo rimanere in Dio si attua nello Spirito Santo: è in lui
che si compie l'adorazione vera del Padre (cf. Gv 4,23s), la giu-
stificazione del peccatore (cf. ICor 6,11), la semina, che dà frutti
di vita eterna (cf. Gal 6,8). In lui per Cristo ci si può presenta-
re al Padre (cf. Ef 2,18), ed è per mezzo suo che si diventa di-
mora di Dio: «In lui (Cristo) anche voi insieme con gli altri ve-
nite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spi-
rito» (Ef 2,22). Ed è lo Spirito che ci fa entrare nel dialogo eterno
dell'amore, proprio della condizione filiale: «Che voi siete figli
ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spiri-
to del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,6: cf. Rm 8,15).
Coloro che sono stati battezzati nel nome della Trinità (cf. Mt
28,19), dimorano dunque nella Trinità, nell'esperienza avvol-
gente e vivificante dell'amore dei Tre, sperimentata dall'inte-
riorità della persona come una sorta di inabitazione di Dio in
lei, che è in realtà il più profondo essere accolto della creatura
nel vivo delle relazioni divine: «Se uno mi ama, osserverà la mia
parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo
dimora presso di lui» (Gv 14,23). La Trinità abita nell'uomo
che l'accoglie nella conoscenza e nell'amore e che, accogliendo-
la, comprende — mediante una conoscenza sapienziale {sapida
scientia) — di essere a sua volta «compreso», avvolto nell'eter-
no amore5.

e) Agire nella Trinità: le virtù teologali

Dal dimorare nella Trinità scaturisce il nuovo agire dell'esi-


stenza redenta: esso si esprime nel dinamismo della fede, della
speranza e della carità. Già nel Nuovo Testamento fede, spe-
ranza e carità sono collegate al mondo di Dio, quello delle cose
che «rimangono» (cf. ICor 13,13), e vengono richiamate con-
giuntamente per esprimere la condizione dell'esistenza rinata
in Gesù Cristo6: «Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricor-
5
Cf. i bei testi sull'inabitazione trinitaria di san Tommaso, Summa Theologiae
I q. 43 aa. 3 e. e 5 ad 2™.
6
Cf. C. Spicq, L'orìgine de la trìade: foi, espérance, ebarìté, in Id., Agape dans le
Nouveau Testament, Analyses des textes, 3 voli., Paris 19663, III, 365-378.

250
dandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davan-
ti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vo-
stra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel
Signore nostro Gesù Cristo» (lTs 1,3: cf. pure 5,8). In partico-
lare, la fede — condizione e inizio della salvezza (cf. Eb 11,6)
— è ricordata unitamente alla carità verso i santi e alla speran-
za della gloria promessa (cf. Ef 1,15-18 e Col l,4s). L'intera
esistenza morale del cristiano, vissuta nella «sequela Christi»,
viene così presentata come un camminare nella fede, nella spe-
ranza e nella carità: «Avendo dunque, fratelli, piena libertà di
entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa
via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso
il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra
la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza
della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il
corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la pro-
fessione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha pro-
messo. Cerchiamo anche di stimolarci a vicenda nella carità e
nelle opere buone» (Eb 10,19-24). Fede, speranza e carità sono
dunque considerate sin dalle origini cristiane come le attitudini
fondamentali e caratterizzanti, in cui si esprime la vita nuova
suscitata dall'avvento divino nella storia degli uomini: ed è per
questo che esse saranno successivamente chiamate virtù «teo-
logali», non solo per distinguerle da quelle «morali», proprie della
condizione esodale, ma anche e soprattutto per sottolinearne
il legame originario e costitutivo con la novità dell'avvento. «So-
no dette virtù teologali {virtutes theologicae) sia perché hanno
Dio per oggetto, in quanto mediante esse siamo ordinati retta-
mente a Dio; sia perché sono infuse in noi soltanto da Dio; sia
per il fatto di essere conosciute grazie alla divina rivelazione»7.
Introdotte nell'uomo con la grazia della giustificazione8, le
virtù teologali nascono e si sviluppano in forza della partecipa-
zione dell'essere personale alla vita trinitaria di Dio e conferi-
scono la possibilità di orientare in maniera libera e spontanea
l'interiorità del cuore e l'esteriorità in cui essa si manifesta alla
gloria dell'Eterno. Frutto della libera autodonazione divina, fede,
speranza e carità sono non di meno vitalmente inserite nei di-

7
Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II q. 62 a. 1 e.
8
Cf. quanto afferma il Decretum de iustificatione del Concilio di Trento: «In ipsa
iustificatione cum remissione peccatorum haec omnia simul infusa accipit homo per
lesum Christum, cui inseritur: fidem, spem et caritatem» (DS 1530).

251
namismi della creatura personale: esse esprimono così l'esodo
della condizione umana in quanto raggiunto e trasformato dal-
la novità dell'avvento e l'opera divina della giustificazione in
quanto accolta nella libertà dell'uomo e mediata nel suo diveni-
re storico. Grazie a queste virtù la vita della persona viene a
configurarsi come storia del divenire della vita eterna nel tem-
po, in modo tale che non è possibile separare se non astratta-
mente la componente umana esodale, quale si esprime ad esem-
pio nelle virtù che costituiscono l'«ethos della storicità», dalla
componente esclusivamente donata dall'alto: è in realtà tutto
l'uomo che si sviluppa nell'esistenza redenta, in modo che le
attitudini abituali e costanti a realizzare l'apertura del cuore e
la trascendenza di sé verso il mistero assoluto vengono finaliz-
zate all'avvento del dono divino, e la vita nuova partecipata da
Dio viene a compiersi e manifestarsi in ciò che la persona speri-
menta come la propria storicità. Si può allora affermare che le
virtù teologali sono «i modi fondamentali dell'accettazione cre-
scente dell'automediazione divina mediante la grazia» ed indi-
rizzano «l'esistenza spirituale-personale dell'uomo verso il Dio
trinitario della vita eterna, nella partecipazione alla vita stessa
di Dio» 9 : esse, cioè, rappresentano la storia stessa del Dio vi-
vente nella storia dell'uomo, che accolga il dono della grazia nella
libertà del cuore, lasciandosi trasformare nella profondità del
suo essere personale e irradiando la presenza divina nello splen-
dore dell'esteriorità.
In quanto partecipazione alla vita del Dio vivo, le virtù teo-
logali vengono ad imprimere nell'essere personale l'impronta delle
stesse relazioni divine: la carità si rapporta al Padre, il Dio che
è amore, e si esprime nell'ethos della gratuità; la fede si relazio-
na al Figlio, e trova nell'obbedienza credente la sua espressione
più piena; la speranza manifesta la presenza dello Spirito, e su-
scita l'ethos della povertà, vissuta come apertura al Regno ve-
niente di Dio 10. Nel Nuovo Testamento la carità n è riferita
9
K. Rahner, Virtù, in Sacramentum Mundi 8, o.c, 634. Cf. l'intera voce: 631-637,
con bibliografia.
10
Su quanto segue cf. B. Forte, Trinità come storia, Milano 1988", specie 188ss.
11
Cf. B. Forte, Sull'amore, Napoli 1988; O. Kaiser, Dynamik und Struktur des
Christlichen. Die Agape-Liebe als individuale und soziale Gestaltungskraft in Christentum
und Welt, I-II, Aschaffenburg 1977 e 1978; S. Lyonnet, La carità pienezza della legge
secondo S. Paolo, Roma 1969; A. Nygren, Eros e agape, Bologna 1971; J. Pieper, Sull'a-
more, Brescia 1974; C. Spicq, Agapedans le Nouveau Testamene o.c; Id., L'agape nella
vita e nella morale cristiana, in Asprenas 15 (1968) 115-157; Id., L'amour de Dieu révélé
aux hommes dans les écrits de saint Jean, Paris 1978.

252
principalmente a Dio Padre: la buona novella del Dio con noi
è il vangelo di Colui, che «ha tanto amato il mondo da dare il
suo Figlio unigenito» (Gv 3,16), lui «che non ha risparmiato il
proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32).
Dalla contemplazione del dono supremo la teologia della Chie-
sa nascente non ha tardato a concludere che Dio, il Padre di
Gesù, è amore: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'a-
more è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In
questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato
il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita
per lui... Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio
dimora in lui» (lGv 4,7-9.16). È dunque la carità a farci dimo-
rare nel Padre ed a manifestarlo al mondo: «Nessuno mai ha
visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e
l'amore di lui è perfetto in noi» (lGv 4,12). Anche se è lo Spi-
rito che rende presente in noi la carità, essa resta la vivente im-
pronta di Dio, il Padre, principio senza principio dell'amore:
«L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
L'ethos che consegue a questa partecipazione del credente
alla carità del Padre è quello della gratuità, suscitata ed ispirata
dal suo amore sorgivo: «Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi
dobbiamo amarci gli uni gli altri» (lGv lOs). Come l'amore divi-
no è inizio purissimo, non necessitato da nulla, motivato soltan-
to da se stesso e, perciò, dalla gioia irradiante di amare, così la
carità rifiuta il calcolo e l'interesse, ed esige il dono senza riser-
ve, l'esodo da sé senza ritorno: «La carità è paziente, è benigna
la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia,
non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira,
non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma
si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera,
tutto sopporta» (lCor 13,4-7). Forma di questa gratuità è l'a-
more di castità, che ama l'altro in quanto tale e non in quanto
l'io si affermi in lui: segno della possibilità che un simile amore
possa esistere per il dono della grazia, è nella Chiesa la castità
consacrata, vissuta nel dono totale di sé a Dio per la causa del
Regno nella sequela di Cristo (cf. Mt 19,lls; lCor 7,25.32-34).
Se la carità si rapporta al Padre, la fede u è nel cristiano
12
Cf. R. Aubert, Le problème de l'acte de foi. Données traditionnelles et resultati

253
l'impronta della presenza del Figlio, Gesù Cristo, la cui vita «nei
giorni della sua carne» fu totalmente un'«esistenza accolta», vis-
suta nell'obbedienza d'amore a Dio, suo Padre: «Nei giorni della
sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida
e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito
per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza
dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza
eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,7-9). Secon-
do la stessa lettera agli Ebrei Gesù è «autore e perfezionatore
della fede» (Eb 12,2), colui cioè che ci ha preceduto e ci soccor-
re nella lotta che è la fede. La «fides Christi»13 è rivelazione
nel tempo dell'accoglienza con cui il Figlio riceve l'amore del
Padre nel suo procedere da lui per generazione eterna: essa vie-
ne così a manifestare come anche il ricevere sia divino e il la-
sciarsi amare non meno divino che l'amare. Nell'unione al Si-
gnore Gesù il cristiano partecipa all'accoglienza dell'eterno amore
e si consegna nella docilità della fede al Dio vivente: credere
è in tal senso fidarsi dell'Eterno entrato nel tempo, rimettere
la propria vita nelle mani dell'Altro, perché sia Lui ad esserne
l'unico, vero Signore. Crede chi si lascia far prigioniero dell'in-
visibile Dio, chi accetta di essere posseduto da Lui nell'ascolto
obbediente della sua parola e nella docilità profonda del cuore
(cf. Rm 10,8-10): l'accettazione della verità rivelata {fides quae
creditur, la fede nella sua dimensione oggettiva: cf. Rm 10,14-17)
si unisce pertanto nell'atto di fede alla libera sottomissione alla
grazia e alla fiducia nelle promesse divine {fides qua creditur, la
fede nel suo aspetto di incontro personale e di affidamento sog-
gettivo a Dio: cf. ad esempio Gv 20,28s)14.
L'ethos della fede è in tal senso un ethos dell'obbedienza (cf.
Rm 1,5; 6,17), vissuta come consegna ed abbandono di sé alla
verità dell'Altro ed al suo amore, rifiutando il possesso, la ga-
ranzia e la sicurezza, caratteristici del mondo dell'identità pri-
gioniera di sé. Vive nell'obbedienza della fede chi ascolta pro-
fondamente (ob-audire = ascoltare ciò che è sotto, oltre, al di
là), chi non si ferma all'evidenza, accetta anzi il paradosso e si
des controverses récentes, Louvain 19704; J. Mouroux, Io credo in Te. Struttura persona-
le della fede, Brescia 1966; J. Pieper, Sulla fede, Brescia 1963; P. Rousselot, Gli occhi
della fede, Milano 1977.
13
Cf. B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Milano 19896,
209ss.
14
Cf. la densa presentazione dell'atto di fede fatta nella Costituzione sulla divi-
na rivelazione Dei Verbum del Vaticano II al n. 5.

254
apre alla novità dell'avvento. Credere, perciò, non è evitare lo
scandalo o fuggire il rischio: si crede non nonostante lo scanda-
lo e il rischio, ma proprio sfidati da essi ed in essi. Crede chi
confessa l'amore di Dio nonostante l'inevidenza dell'amore, chi
spera contro ogni speranza, chi accetta di crocifiggere le pro-
prie attese sulla Croce di Cristo, e non il Cristo sulla croce del-
le proprie attese. Alla fede ci si avvicina con timore e tremore,
togliendosi i calzari, disposti a riconoscere un Dio che non par-
la nel vento, nel fuoco o nel terremoto, ma nella brezza appena
percettibile, come fu per Elia sulla santa montagna, ed è stato,
è e sarà per tutti i santi e i profeti (cf. IRe 19,11-13). Segno
profetico della possibilità della vita di fede radicalmente accol-
ta è nella Chiesa l'obbedienza della vita consacrata, vissuta nello
spirito dei consigli evangelici come conformità al Cristo obbe-
diente, che si lascia consegnare senza resistenze al supremo com-
pimento della volontà del Padre su di lui.
Impronta viva della presenza dello Spirito Santo nell'esistenza
redenta è la virtù teologale della speranza15: essa nasce nel cam-
po di tensione fra l'eternità e il tempo, determinato dalla gra-
tuita autocomunicazione di Dio e dall'apertura così resa possi-
bile del tempo sull'eternità. In tal senso la speranza è suscitata
da Colui, che nella Trinità è l'estasi e il dono di Dio, l'inces-
sante apertura dei Tre al dono reciproco e alla generosità crea-
trice. E grazie alla missione dello Spirito Santo che la storia è
il luogo di realizzazione e di ripresentazione sempre nuova del
mistero salvifico, ed è perciò grazie al Consolatore che l'oggi
dell'uomo può divenire ricolmo nella grazia del domani di Dio.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consa-
crato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri
un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predi-
care un anno di grazia del Signore... Oggi si è adempiuta que-
sta Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Le 4,18s.
21). Come apre la Trinità al mondo e il mondo alla Trinità, co-
sì lo Spirito è il vincolo della loro unione, lui, che nel mistero
eterno è il vincolo della carità del Padre e del Figlio: nello Spi-
rito, perciò, la speranza non delude, è anzi anticipazione e ca-
15
Cf. J. Alfaro, Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, Brescia 1972; L. Bo-
ros, Vivere nella speranza, Brescia 1969; H. Bourgeois, La speranza ora e sempre, Bre-
scia 1987; J. Moltmann, Teologia della speranza, Brescia 19712; J. Pieper, Sulla speranza,
Brescia I9602; Id., Speranza e storia, Brescia 1969.

255
parrà dell'avvenire promesso: «La speranza poi non delude, per-
ché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Certamente
è Cristo in noi la speranza della gloria (cf. Col 1,27; lTm 1,1)
ed è il Padre il Dio della speranza (cf. Rm 15,13): ma è lo Spiri-
to colui grazie al quale il cristiano può abbondare nella speran-
za: «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella
fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spiri-
to Santo» (Rm 15,13).
La speranza teologale, perciò, non è la semplice attesa in
cui si proiettano i desideri del cuore: essa non nasce dal movi-
mento esodale dell'autotrascendenza umana. In quanto susci-
tata dall'avvento e continuamente vivificata nell'essere perso-
nale dall'azione dello Spirito, la speranza donata dall'alto è piut-
tosto anticipazione, futuro operante della storia di Dio nella sto-
ria dell'uomo. Non per questo essa ignora i dinamismi umani
della speranza: il desiderio e l'attesa di un bene futuro arduo,
ma possibile a conseguirsi, i «sogni diurni» e la «coscienza anti-
cipante», che esprimono nel profondo della persona il «princi-
pio speranza»16, sono investiti e vivificati dall'autocomunica-
zione della vita divina. È così tutto l'uomo, nella sua tensione
esodale e nella novità in lui prodotta dall'avvento, che vive nella
speranza teologale delle cose venienti e nuove di Dio: il futuro
dell'Eterno entrato nel tempo viene a prendere corpo nel cam-
mino dell'esodo umano, che si apra nella libertà al dono.
L'ethos, che nasce da questo incontro col Dio della speran-
za, può essere caratterizzato come ethos della povertà: nella con-
cezione biblica la povertà non è la mancanza alienante, la mise-
ria che va combattuta e vinta (cf. ad esempio Dt 15,4), ma la
condizione dei «poveri del Signore» (anawim), che ripongono
totalmente in Dio la loro fiducia e la loro certezza. Povertà è
essere aperti alle sorprese dell'Eterno, improgrammabili ed in-
deducibili, senza voler gestire esclusivamente in proprio la fati-
ca del divenire; povertà è vivere il futuro relativo, progettato
ed edificato a partire dall'uomo, nella prospettiva del primato

16
Cf. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung (1959), 3 voli., Frankfurt 19785: nei «so-
gni diurni» («Tagtràume») e nella «coscienza anticipante» («antizipierendes Bewusstein»)
del «principio speranza» è l'«homo absconditus» che si affaccia, non la novità assoluta
di Dio: cf. in tal senso le osservazioni di J. Moltmann nell'Appendice a Teologia della
speranza, o.c, 349ss («Ilprincipio speranza» e la «teologia della speranza». Dialogo con
Ernst Bloch).

256
del futuro assoluto, che è quello dell'avvento di Dio, che rag-
giunge e trasforma nella libertà tutto ciò che esiste, l'interiori-
tà del cuore, come lo sfolgorio dell'esteriorità17. Vivere l'ethos
della povertà significa allora essere aperti all'Eterno, lasciarsi
raggiungere e turbare dalla sua venuta, tenersi sempre pronti
a lasciare ogni sicurezza raggiunta per accettare di stabilirsi nella
custodia della promessa sempre sorprendente di Dio. Segno pro-
fetico nella Chiesa della possibilità di vivere questo ethos è la
povertà consacrata di coloro che, per amore del Regno veniente,
accettano di rinunciare a ogni garanzia e sicurezza mondana e
di affidarsi senza riserve a Colui, che veste i gigli del campo
e nutre gli uccelli del cielo (cf. Mt 6,25-34).
Fede, speranza e carità — impronta viva della Trinità perso-
nale nell'uomo che l'accolga nella grazia — sono dunque anima
e ispirazione dell'ethos redento, ethos della gratuità, dell'obbe-
dienza all'avvento e della povertà che apre al futuro di Dio. In
questo ethos l'uomo partecipa del dinamismo delle relazioni di-
vine e lo riflette nel suo essere e nel suo agire storico: perciò es-
so può dirsi un ethos trinitario, suscitato nella profondità del cuore
dal miracolo della grazia e tale da visibilizzare nella corposità del
divenire il dono sorprendente dell'eternità entrata nel tempo.

7.2. E T H O S E C C L E S I A L E

a) La memoria dell'Origine: «Ecclesia de Trinitate»


Nell'economia sacramentale della salvezza Cristo e la Chie-
sa sono intimamente congiunti: la Chiesa è sacramento di Cri-
sto, come Cristo è sacramento di Dio. Attraverso la mediazio-
ne del Verbo incarnato la Chiesa si rapporta alla Trinità e la
Trinità viene a visibilizzarsi nella storia attraverso il popolo adu-
nato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: «de
unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata»18. Per-
ciò, se l'ethos cristiano suscitato dai sacramenti è propriamen-
te un ethos trinitario, non di meno è un ethos ecclesiale: la Chiesa,
«icona della Trinità» 19 , analogamente ad essa è «dimora» del-
17
Cf. K. Rahner, Il concetto dì futuro: considerazioni frammentarie di un teologo,
in Id., Nuovi Saggi, III, Roma 1969, 619-626.
18
Cipriano, De dominica oratione, 23: PL 4, 536.
19
Cf. anche per quanto segue B. Forte, La Chiesa icona della Trinità, Brescia
19906, nonché Id., Laicato e laicità, Genova 19884.

257
l'esistenza redenta e radice e riferimento costante del suo agi-
re. La prassi cristiana, costitutivamente radicata nella sacramen-
talità ecclesiale, è pertanto inseparabilmente partecipazione al-
la vita trinitaria e inserimento vitale nella comunione e nella
missione del popolo di Dio. Nella Trinità la Chiesa riconosce
la sua origine ultima, il suo «grembo» adorabilmente trascen-
dente e la sua patria: l'ethos ecclesiale si rapporta perciò al Dio
vivo secondo una «memoria dell'origine», una «coscienza del frat-
tempo» ed una «anticipazione della patria»20.
Pensata da sempre nel disegno salvifico del Padre, la Chie-
sa è stata preparata da lui nella storia dell'alleanza con Israele,
perché, compiutisi i tempi, fosse istituita dalla missione del Fi-
glio e nell'effusione dello Spirito21. Come il suo Signore, la
Chiesa è «oriens ex alto». La sua origine non è quaggiù nel mo-
vimento esodale della creatura, ma è «in alto», presso Dio, da
dove è venuto il Figlio nella carne, per vivificare questa carne
nella forza — insieme mortale e trasformante — della vita tri-
nitaria: «de Trinitate Ecclesia»! Tre conseguenze possono trar-
si da questa memoria dell'orìgine per la comprensione dell'ethos
ecclesiale. In primo luogo, in quanto è opera di Dio anzitutto,
e non dell'uomo, la Chiesa è mistero22, gloria nascosta e rive-
lata sotto i segni della storia. La realtà misterica della Chiesa
non si lascia catturare dalle coordinate del mondo dell'identità:
anche se è vero, e sarà sempre vero, che è una presenza fra le
presenze della storia, resta pure vero che la Chiesa è il luogo
di un'altra Presenza, la vivente memoria di Colui, che, entrato
nella storia, non si lascia ridurre ad essa, ma è e resta salutare

20
Riflessioni sul rapporto fra ethos e realtà ecclesiale si possono trovare ad esem-
pio in: A. Acerbi, Due ecclesiologie, Bologna 1975; H. U. von Balthasar, Sponsa Verbi,
Brescia 1972; L. Boff, Chiesa: carisma e potere, Assisi 1983; D. Bonhoeffer, Sanctorum
Communio, Brescia 1972; P. C. Bori, Koinonia, Brescia 1970; L. Bouyer, La Chiesa
di Dio, Assisi 1971; Y. Congar, L'Eglise de Saint Augustin à l'epoque moderne, Paris
1970; Id., Un popolo messianico, Brescia 1976; S. Dianich, La Chiesa mistero di comu-
nione, Torino 1975; Id., Chiesa in missione. Per un'ecclesiologia dinamica, Milano 19873;
B. Forte, La Chiesa nell'eucarestia, Napoli 19882; L. A. Gallo, Una chiesa al servizio
degli uomini, Torino 1982; H. Kùng, La Chiesa, Brescia 1969; H. de Lubac, Cattolice-
simo, Roma 1948; Id., Meditazione sulla Chiesa, Milano 19654; J. A. Mòhler, L'unità
nella Chiesa, Roma 1969; J. Moltmann, La Chiesa nella forza dello Spirito, Brescia 1976;
J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971; A. Rosmini, Delle cinque piaghe
della santa Chiesa, Brescia 1966; C. Scanzillo, La Chiesa sacramento di comunione, Ro-
ma 1987; J.-M. R. Tillard, Chiesa di Chiese. L'ecclesiologia di comunione, Brescia 1989.
21
Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
nn. 2-4.
22
Cf. l'intero capitolo I della Lumen Gentium: De Ecclesiae mysterio.

258
Differenza. La Chiesa viene da altrove: chi vuole misurarla e
definirla con gli schemi delle analogie di questa terra, chi non
vuol vedervi altro che una forza tra le forze della vicenda uma-
na, non ne conoscerà mai il cuore. L'ethos ecclesiale si presenta
in questa luce anzitutto come un ethos del discernimento, atten-
to a riconoscere l'opera di Dio nella complessità della storia de-
gli uomini, e perciò vigilante nei confronti dei «segni dei tem-
pi» e disponibile allo stupore di fronte alla novità sempre inde-
ducibile dell'ingresso dell'eternità nel tempo.
In secondo luogo, la memoria dell'origine dalla Trinità mo-
stra come la Chiesa sia dono, evento sempre nuovo della gra-
zia: essa non si inventa o si produce, si riceve. Non è il frutto
della fatica dell'uomo, ma l'offerta gratuita di una grazia, che
non è né meritata né prevedibile. La Chiesa nasce perciò dal-
l'accoglienza e dal rendimento di grazie: ne risulta l'esigenza
di un ethos contemplativo ed eucaristico. Dove Dio è adorato nel-
l'attesa perseverante e si celebra il rendimento di grazie nella
memoria potente, che riattualizza la presenza del Crocifisso-
Risorto fra i suoi, lì irrompe lo Spirito e suscita la famiglia dei
figli di Dio.
Infine, il richiamo dell'origine porta a ripensare la Chiesa
nella storia, quale segno vivente dell'eternità nel tempo: come
il Verbo si è fatto carne, entrando fino in fondo nella contrad-
dizione dell'esistenza umana e nella morte, così la Chiesa do-
vrà farsi presente fino in fondo a tutte le situazioni umane, per
rendere presente in esse la forza e la pace del Redentore del-
l'uomo. L'ethos ecclesiale è in tal senso un ethos della compa-
gnia e della solidarietà: se il Dio della Chiesa si è fatto totalmen-
te dentro alla vicenda umana, la Chiesa di Dio non potrà resta-
re spettatrice della storia. Non c'è situazione umana, special-
mente di dolore e di miseria, dalla quale la Chiesa possa sentir-
si estranea: il suo compito è di rendersi presente in una condi-
visione, che non è né forzatura né supplenza. L'ethos della so-
lidarietà si manifesta nell'essere popolo in cammino con gli uo-
mini, capace di portarne a Dio le lacrime e la protesta ed insie-
me capace di annunciare loro l'orizzonte del Regno che viene,
contestazione e sovversione della miopia dei calcoli e delle pre-
sunzioni di questo mondo.

259
b) La coscienza del frattempo: «Ecclesia inter tempora»

Con la storia di Pasqua, lo Spirito è entrato in modo pieno


e definitivo nella vicenda di questo mondo: Dio ha avuto «tem-
po per l'uomo» (K. Barth), e i giorni dell'uomo sono diventati,
a partire dal giorno di Pasqua, il tempo penultimo, il «frattem-
po», che sta fra la prima venuta del Figlio dell'uomo e il suo
ritorno nella gloria, tempo del Cristo glorioso, sempre vivo ad
intercedere per noi presso il Padre, e tempo dello Spirito, che
instancabilmente opera nella vicenda umana. All'annientamento
del Verbo nelle tenebre della carne, è seguito l'annientamento
dello Spirito nelle tenebre della Sposa: dalla missione del Figlio
e dello Spirito è nata la Chiesa! «Il Cristo diviene l'immagine
unica appropriata alla natura comune dell'umanità; lo Spirito
Santo conferisce a ogni persona creata a immagine di Dio la pos-
sibilità di attuare la somiglianza nella natura comune. L'Uno
presta la sua ipostasi alla natura, l'Altro dà la sua divinità alle
persone»23. La coscienza del frattempo evidenzia come la Chie-
sa riceva lo Spirito per donarlo agli uomini: l'Ecclesia inter tem-
pora è la comunione di vita in Lui, che esige di espandersi, di
raggiungere tutto l'uomo in ogni uomo, per contagiargli la for-
za del Risorto dai morti. Nel «frattempo» della grazia si danno
così due movimenti, che uniscono la Chiesa allo Spirito: essa
lo riceve e, ripiena di grazia nella sua umanità pur debole e pec-
catrice, lo dona nell'economia della Parola, dei sacramenti e della
carità.
La Chiesa riceve lo Spirito: come Maria, è coperta dalla Sua
ombra, per rendere presente in modo sempre nuovo il Verbo
divino nella storia degli uomini. La vita cristiana, generata nel
seno della Chiesa Madre, è vita secondo lo Spirito: «Tutti quelli
che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio»
(Rm 8,14). Il cristiano è l'unto dallo Spirito: nel battesimo egli
è configurato a Cristo, per il quale e nel quale gli è dato lo Spi-
rito Santo. Qui sta il motivo profondo della novità cristiana,
della diversità cioè dell'essere cristiano rispetto al divenire pu-
ramente naturale della storia, ed insieme qui è la fonte e il prin-
cipio di ogni dono e servizio particolare. Qui si radicano l'uni-
tà e la varietà nella Chiesa, la comunione e l'articolazione mini-
steriale. La Chiesa è la «communio sanctorum», perché, parte-
23
V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967, 159.

260
cipando all'unico Spirito («communio Sancti») attraverso la co-
munione ai santi doni («communio sanctorum» = «comunione
delle realtà sante»), i battezzati sono arricchiti dalla varietà dei
suoi doni, orientati tutti all'utilità comune («communio sanc-
torum» = «comunione dei santi»). Questi doni incessantemen-
te lo Spirito li distribuisce a ciascuno come vuole. Essi vengo-
no detti «carismi», perché sono gratuiti, frutto della libertà e
della fantasia dello Spirito, da Lui elargiti con sovrabbondante
ricchezza e rivolti alla crescita dell'intero Corpo di Cristo: «A
ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per
l'utilità comune» (ICor 12,7). In forza degli eventi sacramen-
tali ogni cristiano è un «carismatico», che deve riconoscere e
accogliere il dono di Dio.
L'ethos ecclesiale viene allora a configurarsi come un ethos
della comunione e della corresponsabilità: nella Chiesa, icona della
Trinità, unità e diversità convergono nel dialogo della comu-
nione. In questa sorta di «pericoresi ecclesiologica», partecipa-
zione creata della pericoresi eterna dei Tre, nessun battezzato
ha diritto al disimpegno, perché ognuno è per la sua parte dota-
to di carismi da vivere nel servizio e nella comunione; nessuno
ha diritto alla divisione, perché i carismi vengono dall'unico Si-
gnore e sono orientati alla costruzione dell'unico Corpo, che è
la Chiesa; nessuno ha diritto alla stasi e alla nostalgia del passa-
to, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante, è la novità di
Dio, il Signore del futuro del tempo. Ne consegue l'ethos di
una Chiesa aperta allo Spirito e alle sue sorprese: sempre impe-
gnata nella vittoria sulla tragica resistenza del peccato persona-
le e sociale, «semper reformanda et purificanda», essa deve es-
sere docile nel discernimento dei doni del Signore, pronta ad
accoglierli da qualunque parte provengano, nella fatica dell'a-
scolto e del dialogo della carità. «Non spegnete lo Spirito, non
disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, ritenete ciò che
è buono» (lTs 5,19-20). Quest'apertura al nuovo di Dio deve
essere accompagnata sempre da un profondo senso di correspon-
sabilità: se tutti hanno ricevuto lo Spirito, tutti devono comu-
nicarlo, impegnandosi in vista della crescita della Chiesa nella
comunione e nel servizio. La fedeltà all'unico Signore e all'uni-
co Spirito esige la coraggiosa e paziente crescita in comunione
con tutti, sul fondamento dell'unico battesimo.
La Chiesa dona lo Spirito: luogo privilegiato della irruzione
del dono di Dio nel tempo, essa è anche il segno e lo strumento

261
privilegiato dell'opera dello Spirito nella storia24. La totale sa-
cramentalità della Chiesa si esprime attraverso due vie fonda-
mentali: la Parola di Dio, «sacramentum audibile», e il Sacra-
mento, «verbum visibile», massima densificazione della Paro-
la. Parola e Sacramento sono sommamente presenti e conver-
genti nella celebrazione dell'eucaristia: memoriale della Pasqua,
l'eucaristia riconcilia gli uomini con Dio e fra di loro. E il «sa-
cramentum unitatis», il pane unico da cui nasce l'unico Corpo
di Cristo, che è la Chiesa, nella forza dello Spirito. Parola e pa-
ne nella Santa Cena sono il sacramento da cui nasce la comu-
nione ecclesiale: l'eucaristia fa la Chiesa, comunione alle realtà
sante donate nel memoriale eucaristico. Al tempo stesso, però,
anche la Chiesa fa l'eucaristia: la Parola non è proclamata, se
non c'è chi l'annunci; il memoriale della Pasqua non è celebra-
to, se non c'è chi lo faccia in obbedienza al mandato del Signo-
re. Parola e Sacramento suppongono la ministerialità della Chie-
sa, il servizio dell'annuncio, quello della celebrazione del me-
moriale sacrificale, e quello della ricapitolaziome della famiglia
umana dispersa nell'unità del popolo santo di Dio. La Chiesa
è tutta impegnata in questo triplice compito profetico, sacer-
dotale e regale, è tutta ministeriale: ogni battezzato è dallo Spi-
rito configurato a Cristo Profeta, Sacerdote e Re, e pertanto
è chiamato, in comunione con tutti i battezzati, ad annunciare
nella vita la Parola di Dio, a celebrare la memoria potente degli
eventi salvifici e a realizzare nella storia la giustizia del venien-
te Regno di Dio. L'esercizio di questo impegno, fondato nei
doni che lo Spirito elargisce a ciascuno, si attua nei diversi mi-
nisteri: il ministero ecclesiale potrebbe definirsi come un cari-
sma legato a un incarico, configurato in forma di un servizio
stabile alla comunità, dalla comunità riconosciuto e recepito25.
La Chiesa tutta ministeriale non è altro pertanto che la Chie-
sa tutta carismatica nel suo stato di servizio: in questo senso
l'ethos ecclesiale si configura come un ethos del servizio e della
missione. Esso è quanto mai vario e articolato, perché la mini-
sterialità della Chiesa si esprime in un'ampia varietà di mini-
steri. Fra questi, necessari all'essere stesso della Chiesa sono i
ministeri ordinati, che derivano dal sacramento dell'ordine: tra-
mandati dagli apostoli e dai loro successori («successione apo-

24
Per quanto segue cf. particolarmente i capitoli II-VI della Lumen Gentìutn.
25
Cf. Y. Congar, Ministeri e comunione ecclesiale, Bologna 1973, specie 9ss e 29ss.

262
stolica»), essi rappresentano il servizio di chi, in forza del cari-
sma ricevuto con l'ordinazione, annuncia la Parola, celebra «in
persona Chris ti Capitis» il sacrificio, discerne e coordina i cari-
smi, esprimendo e promuovendo in tal modo l'unità del Corpo,
che è la Chiesa. Diverso essenzialmente da ogni altro ministe-
ro, in quanto rende presente il Cristo come Capo del Corpo ec-
clesiale, il ministero ordinato è propriamente il ministero del-
l'unità: il suo ethos è di essere non sintesi di ministeri, ma mi-
nistero della sintesi, in corrispondenza al dono ricevuto. I mi-
nisteri ordinati non esauriscono però la ministerialità della Chie-
sa: quest'idea va fortemente sottolineata, anche per superare
una tendenza del passato, che, evidenziando esclusivamente il
binomio gerarchia-laicato e definendo in modo puramente ne-
gativo il laico come «non chierico», finiva col non cogliere la
straordinaria ricchezza carismatica e ministeriale della Chiesa,
ripiegandosi in una prospettiva clericalizzante e parziale. Se tutti
hanno ricevuto lo Spirito, tutti devono poterlo donare: l'ethos
del servizio e della missione riguarda tutti 26 , in una moltepli-
cità di forme, che vanno dall'azione profetica (si pensi ad esempio
al teologo, al catechista, ai genitori primi testimoni della fe-
de), a quella sacerdotale (si pensi al servizio dell'altare, all'of-
ferta delle proprie sofferenze da parte degli ammalati), a quel-
la regale (si pensi al responsabile di un'attività pastorale, al
ministro della diaconia della carità o al cristiano impegnato in
politica). Attraverso questa ricchezza e varietà ministeriale lo
Spirito agisce nella Chiesa, costantemente rinnovandola e fa-
cendola crescere nella comunione e nel servizio perché il mon-
do creda.

e) L'anticipazione della Patria: «Ecclesia viatorum»

La comunione ecclesiale, sorgente dall'alto, dal Padre, per


Cristo, nello Spirito, e costituita nella sua unità e nella diversi-
tà dei doni e dei servizi a immagine della comunione trinitaria,
non ha come fine se stessa: essa tende verso l'origine da cui è
venuta; è in cammino verso la patria, in quanto è il Regno di Dio
soltanto incoato, «presente nel mistero»; è «Ecclesia viatorum»,

Cf. Lumen Gentium 12 e il Decreto dello stesso Concilio sull'attività missio-


naria della Chiesa Ad Gentes 4.

263
popolo dei pellegrini di Dio 27 . Nello Spirito, per Cristo la
Chiesa va verso il Padre, anticipando nel tempo e sotto i segni
del provvisorio l'eternità, già entrata nel tempo, ma non anco-
ra pienamente manifesta. Sempre nuovamente generata dalla
memoria potente degli eventi salvifici, la Chiesa è spinta da es-
si ad aprirsi incessantemente al futuro: il dono già ricevuto è
anticipo e promessa di un dono più grande, non ancora com-
piuto. Il futuro promesso è qualità dell'essere e dell'agire eccle-
siale, dimensione che tutto raggiunge e vivifica, richiamo della
fine, che dà il vero senso e valore di ogni passo del cammino.
Quest'anticipazione della patria insegna anzitutto alla Chie-
sa a relativizzarsi: essa scopre di non essere un assoluto, ma uno
strumento, non un fine, ma un mezzo, non «domina», ma po-
vera e serva. Nessuna acquisizione, nessun successo deve tem-
perare l'ardore dell'attesa: ogni presunzione di essere arrivati
va contestata. La Chiesa è «semper reformanda», chiamata a
continua purificazione e ad incessante rinnovamento, inappa-
gata ed inappagabile rispetto a qualsiasi conquista umana. Niente
è più lontano dall'ethos di una Chiesa non dimentica della fi-
ne, che un atteggiamento di trionfalismo, di cedimento di fronte
alla seduzione del potere e del possesso in questo mondo. La
Chiesa, nata ai piedi della Croce e pellegrina in questo lungo
Venerdì Santo che è la storia dell'uomo, non dovrà mai scam-
biare le luci di qualche onore terreno, con la luce sfolgorante,
che le è stata promessa nella vittoria di Pasqua.
Questo ethos della Chiesa pellegrina, che potrebbe definir-
si ethos escatologico, impegna il popolo di Dio a relativizzare
oltre che se stesso, anche le grandezze e le acquisizioni di que-
sto mondo: tutto va sottoposto al giudizio della Croce e della
resurrezione del Signore. In nome della sua meta più grande,
la Chiesa dovrà allora essere sovversiva e critica verso tutte le
miopi realizzazioni di questo mondo: presente ad ogni situazione
umana, solidale con il povero e con l'oppresso, non le sarà leci-
to identificare la sua speranza con una delle speranze della sto-
ria. Questa «riserva escatologica» non potrà significare, tutta-
via, disimpegno o critica a buon mercato: la vigilanza che è chie-
sta alla Chiesa è ben più costosa ed esigente. Si tratta contem-
poraneamente di assumere le speranze umane e di verificarle

27
Cf. Lumen Gentìum 3 e, per quanto segue, i capitoli VII e Vili della Costitu-
zione conciliare sulla Chiesa.

264
al vaglio della resurrezione, che da una parte sostiene ogni im-
pegno autentico di liberazione dell'uomo, dall'altra contesta ogni
assolutizzazione di mete terrene. In questo duplice senso, la spe-
ranza della Chiesa come speranza della resurrezione è la resur-
rezione della speranza: essa dà vita a quanto è prigioniero della
morte, e spezza implacabilmente quanto presume di farsi idolo
della vita. Sta qui l'ispirazione profonda della presenza cristia-
na nei differenti contesti culturali, politici e sociali: in nome
della speranza più grande, la Chiesa non può identificarsi con
alcuna ideologia o forza partitica o sistema, ma di tutti deve
essere coscienza critica, richiamo dell'origine e della fine, sti-
molo affinché in tutto si tenda a sviluppare tutto l'uomo in ogni
uomo secondo il progetto di Dio. L'ethos escatologico richiede
una Chiesa scomoda ed inquietante, libera per la fede e serva
nella carità: non la Chiesa del sistema, del compromesso o del
disimpegno.
Infine, il richiamo della patria trinitaria riempie la Chiesa
di gioia: essa esulta già nella speranza, che la promessa ha acce-
so in lei. Essa sa di essere anticipazione militante di quanto è
stato promesso nella resurrezione del Crocifisso. Non c'è scon-
fitta, non c'è vittoria della morte, che possa spegnere nella co-
munità dei credenti la forza della speranza: l'ultima parola è ga-
rantita nella vicenda di Pasqua come parola di gioia e non di
dolore, di grazia e non di peccato, di vita e non di morte. L'e-
thos escatologico contesta ogni presunzione di edificare una scala
verso il cielo, una specie di nuova torre di Babele, di un mondo
prigioniero di se stesso, ed infonde pace e fiducia, perché si fonda
sulla certezza che lo Spirito è all'opera nel tempo degli uomini,
e che, se Dio ha tempo per l'uomo, costruisce con lui la sua ca-
sa. Ai credenti resta il compito di vivere il mistero dell'Avven-
to nel cuore della vicenda umana, accogliendo nella libertà il
miracolo dell'eternità che entra nella storia.

7.3. ETHOS LITURGICO

a) La preghiera nella Trinità

La liturgia è «l'esercizio dell'ufficio sacerdotale di Gesù Cri-


sto, in cui attraverso segni sensibili viene significata e realizza-

265
ta, in modo proprio a ciascuno, la santificazione dell'uomo, e
viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Ca-
po e dalle sue membra, il culto pubblico integrale»28. Nella
concretezza dell'evento cultuale, dove Parola di Dio, parola uma-
na e gesto concorrono a realizzare nella forza dello Spirito San-
to l'incontro di grazia, la liturgia esprime la densità dell'econo-
mia sacramentale della salvezza: in essa è presente e operante
il sacramento originario, Cristo, ed in lui e per lui la Trinità
tutta; in essa — come nel proprio «culmine» e nella propria «fon-
te» 29 — si manifesta e viene continuamente generata la Chie-
sa, sacramento di Cristo; in essa si compiono gli eventi sacra-
mentali, in cui la grazia irrompe nel tempo per realizzare nella
vita della persona il processo della giustificazione e della santi-
ficazione. L'intera esistenza redenta, in quanto storia di Dio
offerta ed accolta nella storia degli uomini, trova così nella li-
turgia la sua più alta espressione ed attinge da essa il dono, di
cui si alimenta e vive. In particolare, la continua esperienza del-
l'incontro personale col Dio salvatore, che è la preghiera cri-
stiana, attinge dalla liturgia la propria linfa, si struttura in pro-
fondità sul modello dell'evento liturgico ed orienta al «culto
pubblico integrale» della Chiesa, allo splendore cioè dell'este-
riorità solidale in cui l'interiorità dei singoli e il «cuor solo e
l'anima sola» (At 4,32) della comunità rivolgono al Dio tre vol-
te santo la lode e l'intercessione. In forza di questi forti le-
gami l'ethos dell'esistenza redenta, che è un ethos sacramentale-
ecclesiale-trinitario, è anche ed inseparabilmente un ethos litur-
30
gico .
Nella liturgia della Chiesa la Trinità si offre come «dimora»

28
Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concìlium
7, che riprende le tesi della Mediator Dei (1947), l'Enciclica di Pio XII che aveva già
recepito molti risultati del «movimento liturgico» del nostro secolo: et. DS 3841. Si
noti però che l'impostazione è differente: mentre la Mediator Dei parte dal culto che
esiste sul piano naturale e diventa poi «soprannaturale» per l'elevazione di grazia, la
Sacrosanctum Concilìum si muove direttamente in una prospettiva teologica storico-
salvifica, marcatamente biblica.
29
Sacrosanctum Concilìum 10: «Liturgia est culmen ad quod actio Ecclesiae ten-
dit et simul fons unde omnis eius virtus emanat».
30
Nell'immensa bibliografia prodotta dal «movimento liturgico» basti richiama-
re alcune opere chiave, in cui il rapporto fra liturgia ed ethos cristiano è insinuato o
esplicitato: Anàmnesis. Introduzione storico-teologica alla liturgia, I e II, Torino 1974
e 1978; O. Casel, Il mistero del culto cristiano, Torino 1966; G. Dix, The Shape of the
Liturgy, London 1945; R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Brescia 1946; A.-G. Mar-
timort, La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, (con vari collaboratori) Roma
19662; C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, Roma 1965''.

266
e sorgente del «costume»: in essa il cristiano non sta davanti
all'Eterno come uno straniero davanti all'irraggiungibile Alte-
rità, ma entra nelle profondità di Dio, lasciandosi avvolgere dal
mistero delle relazioni divine. Lo specifico della preghiera li-
turgica, che la distingue da ogni altra esperienza di preghiera,
è di essere preghiera trinitaria31: nello Spirito, per il Figlio la co-
munità che celebra va al Padre, ed è dal Padre, per il Figlio,
che ogni dono perfetto le viene nello Spirito Santo. Perciò le
orazioni liturgiche si concludono con la formula trinitaria, che
muove verso Dio, il Padre, per Cristo, nello Spirito, o accoglie
dal Padre il dono dello Spirito per mezzo del Figlio. La grande
preghiera liturgica, l'eucaristia, consiste precisamente in que-
sto movimento nel seno della Trinità: essa benedice il «Padre
veramente santo», invocandolo perché invìi il dono dello Spiri-
to e perché questo dono renda il Cristo presente per coloro, che
fanno memoria della sua passione e della sua resurrezione. Do-
po che il dono è stato invocato nell'azione di grazie e nella be-
nedizione al Padre, nell'epiclesi dello Spirito e nel memoriale
del Figlio, per lo stesso Figlio nel medesimo Spirito, per il pane
e il vino trasformati dallo Spirito Santo nel corpo e nel sangue
del Signore Gesù, i credenti ritornano al Padre, affinché tutto
per Cristo, con Lui ed in Lui salga verso Dio, nell'unità dello
Spirito Santo, a lode della Sua gloria32.
Il cuore della liturgia sta dunque nel pregare nello stesso mi-
stero di Dio, in unione a Cristo, che si rende presente nell'atto
liturgico nella pienezza del suo mistero pasquale, per l'azione
dello Spirito Santo. Gesù stesso, peraltro, ha introdotto i suoi
nel mistero trinitario quando ha insegnato loro a pregare: «Voi
dunque pregate così: Padre nostro...» (Mt 6,9; cf. Le 11,2). Nella
preghiera il cristiano sperimenta il mistero della filiazione divi-
na: egli non sta davanti a Dio come dinanzi a un assente o a

31
Cf. H. Urs von Balthasar, La preghiera contemplativa, Milano 1982; Ch. Ber-
nard, La preghiera cristiana, Roma 1976; L. Boros, Sulla preghiera cristiana, Brescia 1975;
A. Fallico, La preghiera, Roma 1984; R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia
1960; B. Haring, Preghiera: integrazione fra fede e vita, Catania 1974; A. Hamman, Com-
pendio della preghiera cristiana, Milano 1989; J. A. Jungmann, Breve storia della preghie-
ra cristiana, Brescia 1991; W. Marchel, Ahha, Pére! La prière du Christ et des chrétiens,
Roma 1963; La preghiera, a cura di R. Bocassino, 3 voli., Roma 1967; La preghiera cri-
stiana, a cura di E. Ancilli, Roma 1975 ; La preghiera nella Bibbia e nella tradizione patri-
stica, a cura di C. Vagaggini, Milano 19892. Per cogliere ancor più lo specifico trini-
tario della preghiera cristiana può essere utile la lettura di Preghiera e filosofia, a cura
di G. Moretto, Brescia 1991.
52
Cf. ad esempio C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, o.c, 196ss.

267
uno straniero, adorabile e terribile, ma dimora in Lui nello Spi-
rito, per il Figlio, come figlio, nel mistero del Padre. «Dio ha
mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida:
Abbà, Padre!» (Gal 4,6; cf. Rm 8,15). Perciò la liturgia è il ter-
reno della venuta della Trinità nella storia del mondo, il luogo
di alleanza fra la storia eterna di Dio e la storia dell'umanità:
in essa la storia assume coscienza di essere accolta nel grembo
della Trinità e la Trinità è proclamata presente nel cuore del-
l'uomo. Si potrebbe affermare che il mistero della preghiera cri-
stiana — manifestato nella liturgia — è il dialogo di Dio con
Dio nel cuore dell'uomo, è l'ingresso dell'orante nella Trinità
Santa: pregare, per il cristiano, non è pregare un Dio, ma pre-
gare in Dio.

b) Dal Padre al Padre

La liturgia pone il credente anzitutto in rapporto al Padre.


Il rapporto della comunità che prega e di ciascun orante con
il Padre vive di una duplice relazione: dal Padre agli uomini e
dagli uomini al Padre. Dio Padre è la sorgente di ogni dono per-
fetto (cf. Gc 1,17), colui che prende l'iniziativa dell'amore ed
invia il Figlio e lo Spirito Santo. Il Padre è la pura gratuità irra-
diante dell'amore, l'Amante eterno, che ama da sempre ed amerà
per sempre, né sarà mai stanco di amare. La liturgia è il luogo
in cui il singolo e la Chiesa riconoscono questa venuta dell'a-
more, fedele e sempre nuova. In quanto tutto viene dal Padre,
la preghiera liturgica è anzitutto accoglienza, terreno d'avven-
to del mistero di Dio nel cuore della storia umana: pregare è
lasciarsi amare da Dio, stare davanti alla gratuità pura del Pa-
dre, affinché essa inondi il cuore e la vita della sua generosità
traboccante. Pregare è ricevere, attendere nella pazienza e nel-
la perseveranza del silenzio pieno di meraviglia e di stupore del-
l'amore. È Dio ad agire nella preghiera e l'uomo sta davanti al
mistero in povertà, per lasciarsi amare dall'Eterno. In questo
senso, l'ethos liturgico è esperienza notturna di Dio, silenzio,
in cui ci si lascia inondare dal mistero della presenza divina. Ciò
esige dei tempi morti, richiede che si «perda tempo» per Dio:
se peraltro Dio ha avuto tempo per l'uomo, la risposta dell'uo-
mo è avere tempo per Dio, lasciarsi amare nella docilità, nella
perseveranza, nella fedeltà. L'ethos liturgico appare qui come

268
passività, «passio» che prepara l'«actio», accoglienza da cui na-
sce il dono.
Se tutto viene dal Padre, tutto però ritorna al Padre: la li-
turgia, terreno d'avvento, è insieme movimento di risposta, at-
to del riportare tutto a Dio. La preghiera liturgica diventa così
il veicolo della nostalgia di Dio che è nel cuore dell'uomo e nel
cuore della storia e, in quanto tale, è sacrificio di lode, azione
di grazie, intercessione, nella quale il mondo intero è assunto
per ritrovare se stesso nella sua vera origine. In questo dinami-
smo della liturgia si radica l'ethos politico del cristiano, nel senso
forte dell'impegno a favore dell'uomo, della lotta per la giusti-
zia, della solidarietà con i poveri. È pregando che il cristiano
impara a vedere tutte le cose nella luce di Dio e, di conseguen-
za, a denunciare l'ingiustizia e a proclamare la giustizia del Re-
gno che viene. Pregando, egli orienta la sua vicenda personale,
quella degli uomini e della Chiesa verso la Patria, intravista ma
non ancora posseduta, del mistero eterno di Dio. In quest'otti-
ca l'ethos liturgico è farsi voce dei senza voce, perché tutto sia
ricondotto al cuore del Padre, ed è avere il senso delle cose di
Dio, per cui la lotta per la giustizia e l'impegno per la liberazio-
ne dell'uomo si uniscono alla fame di un'altra giustizia e di un'al-
tra liberazione, proprie soltanto del Regno di Dio, che deve ve-
nire.

e) Per Cristo, nello Spirito

La liturgia si compie per il Figlio, in unione al Cristo som-


mo ed eterno Sacerdote della nuova alleanza, nella ripresenta-
zione del suo mistero pasquale. Se il Padre è la sorgente pura
dell'amore, il Figlio è colui che accoglie eternamente l'amore,
l'eterno Amato, che si lascia inviare nel mondo e consegnare
alla morte di croce, per essere colmato di Spirito Santo nel giorno
della resurrezione. La preghiera per il Figlio significa allora en-
trare nel mistero della sua accoglienza e, in questo accogliere
grato davanti a Dio, divenire accoglienti verso la Chiesa e il mon-
do nella compagnia della vita. Sono i due aspetti che la preghiera
liturgica in relazione al Figlio fa rifulgere nell'ethos: l i m i t a -
zione di Cristo» e la compagnia della fede e della vita. La litur-
gia suscita 1'«imitazione di Cristo» (imitatio Christi) non come
copia di un modello lontano, che ci si debba sforzare di ripro-

269
durre. Secondo la grande tradizione spirituale, nutrita dalla li-
turgia, «imitazione» significa «ripresentazione». Ethos liturgi-
co vuol dire ripresentare il Cristo in noi, per la grazia della sua
ripresentazione sacramentale, fino al punto da poter dire come
Paolo: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal
2,20). Imitare il Cristo significa aprirsi così profondamente al-
l'ascolto della Parola di Dio ed alla venuta del Cristo vivo nel-
l'evento sacramentale, che sia lui ad abitare in noi. La preghie-
ra per il Figlio è allora il luogo in cui il Cristo viene a dimorare
nei nostri cuori: «Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuo-
ri» (Ef 3,14). La liturgia è l'evento in cui il Figlio mette la sua
tenda nella storia, nella carne, nella vita degli uomini. E poiché
egli è in unità inscindibile il Crocefisso e il Risorto, l'ethos li-
turgico, in quanto «imitazione di Cristo», sarà esperienza della
croce di Cristo e della sua resurrezione. Imitare il Crocefisso
è conoscere l'aridità nell'esperienza spirituale, che non è solo
frutto della resistenza umana, motivata dal peccato o dalla fati-
ca della sensibilità a lasciarsi far prigioniera dell'invisibile, ma
anche e profondamente «notte oscura» (la fioche oscura di san
Giovanni della Croce), tempo che fa entrare il credente nel mi-
stero della Croce del Signore. Ciò spiega perché tutti coloro che
hanno accettato di fare l'esperienza di Dio, sono passati per la
notte della tentazione e l'aridità della preghiera e solo così han-
no raggiunto la pienezza della luce. Perciò di questa notte si
può dire: «O notte più amabile che l'aurora, o notte che hai
congiunto l'amata con l'Amato, l'amata nell'Amato trasfor-
mata!»33.
L'ethos liturgico conduce parimenti a imitare il Cristo glo-
rificato: qui la liturgia si offre come sorgente di pace, parteci-
pazione viva alla potenza di Colui che ha vinto la morte. La
vita morale del cristiano non è che «conoscere lui, la potenza
della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, di-
ventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere
alla risurrezione dai morti» (Fil 3, lOs). La gioia dei risorti è espe-
rienza della vittoria di Pasqua, in cui tutto l'uomo ed ogni uo-
mo è accolto con Cristo in Dio. Ed è proprio in questo lasciarsi
accogliere nell'accoglienza del Figlio che l'ethos liturgico divie-
ne accoglienza degli altri in Lui. La liturgia genera la compa-
35
San Giovanni della Croce, En una noche oscura, V strofa: «|Oh noche amable
mas que el alborada! / \Oh noche que juntaste / Amado con amada, / amada en el Ama-
do trànsformada!».

270
gnia della fede e della vita: in essa i molti diventano l'unico Corpo
del Signore, vivente nel tempo. Il senso della Chiesa si nutre
perciò alle sorgenti dell'esperienza del mistero, che è la litur-
gia, evento dell'ingresso dell'eternità nel tempo. Oltre la com-
pagnia della fede, però, anche la compagnia della vita si radica
nella realtà dell'essere accolti nel Cristo. «Se dunque io, il Si-
gnore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete
lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, per-
ché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,14s, nel con-
testo della lavanda dei piedi, che corrisponde nel vangelo gio-
vanneo alla «liturgia» dell'ultima cena). La compagnia della vi-
ta è «pane condiviso» (da cum e panis), solidarietà dell'«essere
con», prima dell'«essere per»: in questo senso l'ethos liturgico
è ethos della solidarietà, in cui si impara a portare gli uni i pesi
degli altri.
La liturgia si compie infine nello Spirito Santo: nel seno del-
la Trinità la teologia occidentale pensa lo Spirito come il lega-
me dell'amore eterno. Fra l'Amante e l'Amato, lo Spirito è l'A-
more, il «vinculum caritatis aeternae» (Agostino), la comunio-
ne divina, che suscita la comunione e la pace nel cuore degli
uomini. Accanto a questa tradizione, che è tutta pasquale, la
teologia orientale considera piuttosto lo Spirito nell'evento della
Croce del Signore. Per essa lo Spirito è Colui, grazie al quale
Gesù è entrato nella solidarietà dei peccatori, dei senza Dio,
e perciò è l'«estasi di Dio», il dono, nel quale Dio esce da se
stesso. Lo Spirito è Colui che suscita il nuovo, che apre al futu-
ro: egli è libertà nell'amore34. La liturgia insegna a pregare «in
unitate Spiritus Sancti»: in quanto lo Spirito è fonte d'unità,
la preghiera nello Spirito fa fare esperienza dell'unità del mi-
stero. L'ethos che ne consegue è quello del dialogo e della co-
munione, che induce a riconoscere l'altro come dono, che non
fa concorrenza o suscita timore. Ed insieme, in quanto lo Spiri-
to è apertura e libertà, l'ethos che nasce dalla liturgia vissuta
nello Spirito apre alla fantasia dell'Eterno, rende docili e sensi-
bili alla profezia, disposti al «nuovo» di Dio nell'«antico» degli
uomini. Chi prega nello Spirito non potrà non essere aperto al-
la speranza, perché lo Spirito è sempre vivo nella storia. Nella
liturgia celebrata nello Spirito fedeltà e novità, lungi dall'op-
porsi, si offrono come aspetti della medesima esperienza, in cui

34
Cf. su questo B. Forte, Trinità come storia, o.c, 114-138.

271
il futuro di Dio viene a mettere la sua tenda nel presente degli
uomini.
La liturgia è dunque il luogo in cui la Trinità, come eterno
evento dell'Amore, entra nelle umili e quotidiane storie dell'e-
sodo umano, e queste a loro volta entrano liberamente e sem-
pre più profondamente nel mistero delle relazioni divine. Per-
ciò l'ethos dell'esperienza dell'eternità nel tempo è densamen-
te liturgico: nella liturgia l'antropologia dell'identità prigionie-
ra di sé è superata grazie all'accoglienza del dono dell'avvento,
mentre l'antropologia della differenza distruttrice è vinta nel-
l'esperienza salvifica dell'Alterità trascendente. L'ethos litur-
gico è insomma la vita corrispondente alla buona novella, dove
l'uomo ha tempo per Dio, perché Dio ha avuto tempo per l'uo-
mo, e il tempo entra nell'eternità, perché l'eternità è entrata
nel tempo.

272
PARTE TERZA

IL TEMPO NELL'ETERNITÀ
8.

IL MISTERO DELL'ELEZIONE DIVINA

La rivelazione del mistero dell'eternità nel tempo provoca


il pensiero della fede non soltanto a considerare l'incontro del-
la storia di Dio con la storia degli uomini nel «frattempo» della
salvezza, fra il «già» della prima venuta del Signore e il «non
ancora» del suo ritorno nella gloria, ma lo spinge anche verso
le profondità divine, lì dove il tempo è «contemplato» a partire
dall'eternità, in cui ha avuto inizio, e l'eternità si offre al cam-
mino del tempo come ultima sponda e patria promessa. In que-
sta duplice direzione — dall'Eterno alla storia e dalla storia al-
l'Eterno — il tempo entra nell'eternità e vi prende dimora. Al
primo movimento, per il quale la gratuità dell'amore divino crea
il suo oggetto e vi si rivolge nella libertà destinandolo alla co-
munione con sé, corrisponde la concezione biblica della elezio-
ne divina col suo sviluppo nella dottrina biblico-teologica della
predestinazione. Al secondo movimento, per il quale la libertà
creata riconosce nella gloria dell'Eterno la sua vocazione ed ac-
coglie il dono della vita eterna nel tempo come primizia e ca-
parra della gloria futura, fa da riscontro il motivo etico-teologico
dell'anticipazione. Fra i due dinamismi si pone l'orientamento
della creatura personale, che, nel definirsi della coscienza e del-
la libertà sotto l'azione della grazia divina, esercita l'atto della
decisione e nel dono della perseveranza, non meno liberamente
accolto, si apre all'esperienza della fedeltà del Dio vivente co-
me eterna novità del suo amore.

8.1. LA PREDESTINAZIONE

a) La «somma dell'evangelo»

La storia della salvezza viene presentata dalla testimonian-


za biblica come il mistero dell'alleanza fra Dio e il suo popolo,

275
e perciò radicalmente come il mistero dell'elezione, in forza della
quale l'Eterno con atto di sovrana libertà e di totale gratuità
sceglie di autocomunicarsi agli uomini che egli chiama e di ren-
derli partecipi della propria vita. La coscienza che Israele ha di
sé e del proprio destino è fondata su questa elezione divina, tanto
che la chiave di lettura della sua storia è colta costantemente
nel rapporto di corrispondenza o di rifiuto con la fedeltà del
Dio dell'alleanza: «Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore
tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo
privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si
è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di
tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popo-
li —, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantene-
re il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti usci-
re con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condi-
zione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto» (Dt 7,6-8;
cf. 4,32-40). «Il Signore predilesse soltanto i tuoi padri, li amò
e, dopo loro, ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza, cioè
voi, come oggi» (Dt 10,15). «Tu sei infatti un popolo consacra-
to al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi
il suo popolo privilegiato, fra tutti i popoli che sono sulla terra»
(Dt 14,2). L'elezione di Israele riposa dunque sulla totale gra-
tuità e libertà dell'iniziativa divina e sulla fedeltà dell'Eterno
al patto che egli ha voluto stringere con la comunità dell'allean-
za: perciò il termine tecnico usato per significare l'atto di eleg-
gere {bachar), se in origine indicava una scelta tra due alternati-
ve o fra più persone, a favore dell'una e ad esclusione del resto,
nella prospettiva religiosa e teocentrica propria dell'ebraismo
«designa l'azione sovrana di Dio, l'iniziativa della salvezza, che
è normativa e si sottrae ad ogni calcolo»l. Nella fede ebraica
la coscienza dell'elezione si andrà poi progressivamente apren-
do all'universalismo dell'amore divino e della salvezza offerta
a tutte le genti: così, la voce della profezia nel tempo dell'esilio
canterà il servizio che Israele dovrà assolvere nei confronti del-
l'umanità intera nella figura del servo sofferente di Dio, che
«porterà il diritto alle nazioni» (Is 42,1), e sarà «luce delle gen-
ti» (Is 42,6), ed a cui l'Eterno dirà: «È troppo poco che tu sia
mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i su-
1
J. de Fraine, Vocazione ed elezione nella Bibbia, Bari 19682, 67. Cf. l'intera pre-
sentazione del tema della vocazione (1 lss) e di quello dell'elezione (59ss), che risultano
«praticamente equivalenti» (7).

276
perstiti di Israele. Io ti renderò luce delle nazioni perché porti
la mia salvezza fino all'estremità della terra» (Is 49,6).
Anche il Nuovo Testamento testimonia l'elezione del po-
polo santo, nuovo «Israele di Dio» (Gal 6,16), «secondo lo spi-
rito» e non «secondo la carne» (cf. ICor 10,18), «resto eletto
per grazia» (Rm 11,5). Questa elezione è compiuta per mezzo
di Gesù Cristo: «Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli
uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite
impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spi-
rituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali
graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo... voi siete la stirpe eletta,
il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acqui-
stato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chia-
mato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tei : pò
eravate non-popolo, ora invece siete ilpopolo di Dio» (lPt 2,4s.
9s). «È interessante notare come nella catechesi della prima let-
tera di Pietro l'elezione della prima comunità cristiana ha già
assunto un carattere spiccatamente trinitario»2: «Pietro, apo-
stolo di Gesù Cristo, ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia,
nella Cappadocia, nell'Asia e nella Bitinia, eletti secondo la pre-
scienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito,
per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue:
grazia e pace a voi in abbondanza» (lPt l,ls). La stessa strut-
tura trinitaria è presente in forma dossologica nel prologo della
lettera agli Efesini, che celebra il disegno del Padre, che in Cri-
sto «ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi
e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a es-
sere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (l,4s), nel quale
abbiamo la redenzione e la remissione dei peccati secondo la
ricchezza della sua grazia (cf. 1,7). È nello Spirito che questo
mistero d'elezione giunge a compimento: «In lui (Cristo) anche
voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della
vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggel-
lo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra
della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di co-
loro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria» (Ef l,13s).
La gratuità assoluta dell'elezione divina (cf. ICor 1,27-29
e Gc 2,5) si congiunge alla sovrana libertà della misericordia
che l'ispira: per sottolinearla Paolo non esita a richiamare la scon-
2
Ik, 118.

277
certante affermazione di Malachia «ho amato Giacobbe e ho
odiato Esaù» (l,2s: cf. Rm 9,13) e ad aggiungere: «Che diremo
dunque? C'è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente!
Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò
pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla volontà né
dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia. Dice
infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare
in te la mìa potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta
la terra. Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce
chi vuole» (Rm 9,14-18). E contro l'obiezione che potrebbe sol-
levarsi l'Apostolo ribadisce l'insondabile sovranità della libertà
divina: «Mi potrai però dire: "Ma allora perché ancora rimpro-
vera? Chi può infatti resistere al suo volere?". O uomo, tu chi
sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a co-
lui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così?". Forse il vasaio
non è padrone dell'argilla, per fare con la medesima pasta un
vaso per uso nobile e uno per uso volgare?» (Rm 9,19-21: ana-
loga argomentazione in 3,7 e 6,1). È questo peraltro l'insegna-
mento di Gesù: «Non sta a me concedere che vi sediate alla mia
destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato pre-
parato dal Padre mio» (Mt 20,23). Nella continuità del disegno
dell'alleanza, fondata sulla libera e gratuita iniziativa divina e
tale da coinvolgere il popolo eletto e in esso ciascun individuo
(cf. Rm 8,29.33), la novità neotestamentaria sta dunque nella
rivelazione della profondità trinitaria del mistero dell'elezione,
che si attua in Cristo, per lui e con lui nella potenza dello Spiri-
to Santo. In questa continuità si percepisce come Israele e la
Chiesa si coappartengano, in quanto popolo d'elezione rispet-
tivamente dell'attesa e del compimento (cf. Rm 11): Israele ap-
pare come la «santa radice» (Rm 11,16), e la Chiesa come il nuo-
vo, sorprendente innesto, «portato» da essa (cf. v. 18). Tutta-
via, la novità della rivelazione trinitaria è la pietra d'inciampo,
in rapporto alla quale si compie il dramma del rifiuto del popo-
lo eletto ed il passaggio della salvezza al nuovo Israele (cf. Rm
10): «Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la giu-
stizia a chiunque crede» (Rm 10,4). Il problema di Paolo nei
capitoli decisivi di Rm 9-11 non è dunque propriamente quello
teologico-speculativo della predestinazione dell'individuo, ma
quello storico-salvifico del destino dell'antico popolo eletto nel-
l'economia della salvezza pienamente realizzata in Cristo e nel-
lo Spirito. Ciò che egli intende sottolineare è il primato della

278
libertà e della gratuità dell'iniziativa divina e l'assoluta fedeltà
del Dio dell'alleanza, con la conseguente speranza di una futu-
ra reintegrazione d'Israele, in cui verranno a compimento tutte
le promesse dell'elezione mai revocata (cf. Rm 11,11-15 e 25-32):
perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm
11,29).
Il tema biblico dell'elezione situa dunque l'idea di predesti-
nazione (TtQÓdeois, irQÓyvoiois, TTQOOQIOUÓS) all'interno del di-
segno storico-salvifico dell'alleanza, che si compie in pienezza
per mezzo di Gesù Cristo, con lui ed in lui, e si attua nel tempo
per la potenza dello Spirito Santo. Di conseguenza, oggetto
dell'elezione-predestinazione è anzitutto Lui, il solo mediatore
fra Dio e gli uomini (cf. lTm 2,5), ed in Lui la comunità degli
eletti, il popolo santo di Dio: la singola persona è eletta e pre-
destinata nella comunione dell'alleanza, cui partecipa nella li-
bertà che lo Spirito le dona di esercitare (cf. 2Cor 3,17). Il mi-
stero storico-salvifico, radicato nel seno della Trinità, e la di-
mensione comunitaria della chiamata divina sono in primo pia-
no: la dottrina biblica dell'elezione-predestinazione è perciò es-
senzialmente la «buona novella» della grazia con cui Dio ha amato
tutti gli uomini e li ha chiamati alla comunione con sé, messag-
gio di consolazione e di speranza per il mondo intero, vera «som-
ma dell'evangelo» (K. Barth).

b) La «doppia predestinazione»

Nella testimonianza biblica non compare mai l'idea di una


«doppia predestinazione», degli uni alla salvezza, degli altri al-
la dannazione in conformità ad un astratto decreto assoluto {de-
cretum absolutum), precedente rispetto al concreto piano di sal-
vezza realizzato dal Dio vivo nella storia. Si può anzi dire che
lo sviluppo della dottrina della praedestinatìo gemina è il segno
di un profondo allontanamento di parte della tradizione teo-
logica dalla voce della Scrittura. L'allontanamento si è com-
piuto attraverso un duplice processo di recezione-reazione, che
il cristianesimo ha vissuto nel secolare sviluppo della sua in-
culturazione nel mondo classico prima, ed in quello medioe-
vale e moderno poi: da una parte, l'idea di predestinazione ha
subito il fascino della purezza dell'Uno della metafisica gre-
ca; dall'altra, essa è stata condizionata dall'interesse crescente

279
della cultura occidentale all'uomo colto nel suo destino indivi-
duale 3 .
Il primo processo consegue all'incontro del messaggio ebraico-
cristiano con la cultura greco-latina: lo spirito della grecità, am-
maliato dall'ideale dell'Uno, altro e sovrano rispetto al molte-
plice frammentario e caduco, mal tollera l'idea di un piano di-
vino, qual è quello trinitario, in cui il molteplice viene a dimo-
rare nelle profondità dell'Uno. In forma ricorrente la seduzio-
ne della riduzione dello scandalo cristiano alla «semplicità» me-
tafisica dell'Uno e dei molti si ripresenterà nella storia delle eresie
cristologiche e trinitarie, tendenti appunto a separare il divino
dall'umano o in direzione subordinazionista, o in chiave moda-
lista, per fare di volta in volta del Cristo o una semplice creatu-
ra, sia pure di livello supremo, o una semplice manifestazione
dell'unica, incontaminata divinità4. Se lo sviluppo dommatico
reagirà a questa evacuatio Chris ti, ribadendo lo scandalo dell'in-
contro del divino e dell'umano nel Verbo incarnato senza con-
fusione né mutazione, ma anche senza separazione né divisio-
ne 3 , ed affermerà l'assoluta parità nell'essere divino del Figlio
e dello Spirito col Padre 6 , il fascino dell'Assoluto metafisico
penetrerà nella cultura cristiana, fattasi greca con i greci. Sul
tema della elezione di grazia e della predestinazione questo fa-
scino si tradurrà nell'esigenza di concepire il disegno di Dio sul-
l'uomo in forma «pura», separata dalle contaminazioni della ca-
ducità e della frammentarietà storica: l'idea di un decreto divi-
no assoluto, non condizionato dal divenire mondano, si profi-
lerà in questa direzione come l'espressione adeguata di una cor-
retta relazione fra l'Assoluto e la storia.
3
Nell'ambito della bibliografia sulla storia e la teologia dell'idea di predestina-
zione cf.: K. Barth, La dottrina dell'elezione divina. Dalla Dogmatica Ecclesiastica, a cu-
ra di A. Moda, Torino 1983 (= Die Kirchlìche Dogmatik 11/2: Die Lehre von Gott.
Gottes Gnadenwahl, Zurich 1942.19594, 1-563); M. Lòhrer, Azione della grazia di Dio
come elezione dell'uomo, in Mysterium Salutis 9 (IV/HD, Brescia 1975, 225-295; A. Moda,
La dottrina dell'elezione divina in Karl Barth, Bologna 1972; J. Moltmann, Pràdestina-
tìon uni Perseveranz, Neukirchen 1961; J. Mouroux, Il mistero del tempo. Indagine teo-
logica, Brescia 1965; K. Schwarzwaller, Das Gotteslob der angefochtenen Gemeìnde. Dog-
matische Grundlegung der Pràdestinationslehre, Neukirchen 1970; G. Tourn, La prede-
stinazione nella Bibbia e nella storia. Lina dottrina controversa, Torino 1978.
4 Cf. in proposito la storia del dogma cristologico e trinitario: ad esempio in B.
Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Milano 19896, 133ss, e Id., Tri-
nità come storia, Milano 19884, 60ss.
5
Cf. i quattro avverbi usati a Calcedonia (451): D5 301s {àovyxvTois, àrQtirTas
= inconfuse, immutabiliter, àòiaiotruis, àx<dQÌOTO)s indivise, ìnseparabiliter).
6
Nel cosiddetto «episodio dommatico» che va da Nicea (325) al Costantinopoli-
tano I (381): cf. D5 125s e 150.

280
È cosi che nel grande dottore della dottrina della predesti-
nazione, Agostino, motivi propriamente biblici vengono ad in-
contrarsi con le esigenze dello spirito greco, oltre che con l'e-
mergenza dell'interesse al destino del singolo, che derivava in
lui tanto dallo spirito pratico e dal protagonismo storico dei la-
tini, quanto dalla sua stessa biografia teologica7. La classica de-
finizione agostiniana della praedestìnatio è del tutto corrispon-
dente all'anima biblica: «Nient'altro che questo è la predesti-
nazione dei santi: la prescienza e la preparazione dei benefici
di Dio, mediante i quali in modo del tutto certo sono liberati
tutti quelli che sono liberati»8. Risuona in queste parole la
buona notizia della libertà donata all'uomo per la pura grazia
dell'iniziativa divina. Parimenti in piena sintonia con la Scrit-
tura sono le affermazioni che riconoscono in Cristo il luogo vi-
vente in cui si compie e si rivela ogni predestinazione: «Il Sal-
vatore in persona, il Mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cri-
sto Gesù, è il lume risplendente della predestinazione e della
grazia»9.
Insieme a queste tesi, però, la distinzione rigorosa tra i vo-
cati e gli electi10, al fine di affermare l'assoluto primato della
grazia, viene collegata ad un unico proposito divino, che nella
massa perditionis sceglie alcuni perché siano salvati, lasciando
i rimanenti nella condizione di dannazione, peraltro del tutto
meritata n: «Il proposito di Dio non si basa su di un'elezione,
ma è invece l'elezione che dipende dal proposito; ciò significa
che il proposito di giustificazione {propositum iustificationis) per-
mane non perché Dio trovi nell'uomo delle opere buone, in ba-
se alle quali egli possa fare la sua scelta, ma, in quanto il propo-
sito di salvezza continua ad operare per la giustificazione dei
credenti, Dio trova le opere, che egli poi elegge in vista del re-

7
Sulla dottrina della predestinazione in Agostino cf.: VI. Boublik, La predestina-
zione. S. Paolo e S. Agostino, Roma 1961; G. Nygren, Dos Pràdestinationsproblem in
der Theologie Augustinus, Gòttingen 1956.
8
De dono perseverantìae XIV, 35: «Haec est praedestìnatio sanctorum, nihil aliud:
praescientia scilicet, et praeparatio beneficiorum Dei, quibus certissime liberantur, qui-
cumque liberantur» (PL 45,1014).
9
De praedestinatione sanctorum XV, 30: «Est praeclarissimum lumen praedesti-
nationis et gratiae ipse Salvator, ipse Mediator Dei et hominum, homo Christus Jesus»
(PL 44,981).
10
C£. De correptione et gratia, VII, 13s; IX, 21-23; XIII, 39s: PL
44,924s.928-930.940.
11
De dono perseverantìae, XIV, 35: «Caeteri autem ubi nisi in massa perditionis
iusto divino iudicio relinquuntur?» (PL 45,1014).

281
gno dei cieli»12. Il fatto che Dio elegga alcuni e lasci altri nel-
la condizione di massa dannata non inficia la sua giustizia, per-
ché a nessuno è dovuto altro che la condanna: «Si deve solo af-
fermare, con fede irremovibile, che in Dio non c'è iniquità: sia
che voglia rimettere il debito, sia che lo voglia esigere, né colui
al quale lo richiede, né colui al quale viene condonato, può van-
tarsi dei suoi meriti. All'uno infatti dà solo ciò che spetta; l'al-
tro ha solo ciò che ha ricevuto»13. E così aperta la strada al-
l'affermazione di un decretimi absolutum di Dio indipendente
da ogni effettualità storica, all'idea ad esso connessa di una dop-
pia predestinazione e all'interesse, inevitabilmente sempre più
marcato, che verrà rivolto al destino individuale rispetto alla
solidarietà nell'elezione e nella grazia.
Lo sviluppo di queste tesi nell'agostinismo patristico e me-
dievale andrà precisamente nelle direzioni segnalate, sotto la spin-
ta della «pia» cura di voler celebrare in maniera sempre più ra-
dicale l'assolutezza della grazia contro ogni tentazione pelagia-
na. Un intervento come quello del sinodo di Quiercy (853) evi-
denzia da solo la necessità che si era venuta profilando di rie-
quilibrare la linea di tendenza dell'agostinismo esagerato: «Dio
onnipotente vuole che tutti gli uomini senza eccezione alcuna
siano salvati (lTm 2,4), anche se non tutti si salveranno. Che
alcuni si salvino, è dono di Colui che salva; che alcuni perisca-
no, è dovuto a coloro che periscono»14. Ritorna significativa-
mente in questo Sinodo la consolante affermazione dell'unica
predestinazione e del suo essere realizzata in Cristo: «Affermia-
mo pertanto che non c'è che un'unica predestinazione divina,
che riguarda il dono della grazia o la retribuzione della giusti-
zia»15. «Poiché non c'è, né ci fu, né ci sarà alcun uomo la cui
12
Ad Simplicìanum, I, 2, 6: «Non ergo secundum electionem propositum Dei ma-
net, sed ex proposito electio: id est, non quia invenit Deus opera bona in hominibus
quae eligat, ideo manet propositum iustificationis ipsius; sed quia illud manet ut iusti-
ficet credentes, ideo invenit opera quae iam eligat ad regnum coelorum» (PL 40, 115).
^ Ib., I, 2, 17: «Illud tantummodo inconcussa fide teneatur, quod non sit ini-
quitas apud Deum: qui, sive donet, sive exigat debitum, nec ille a quo exigit, recte
potest de iniquitate eius conqueri, nec ille cui donat, debet de suis meritis gloriari. Et
ille enim, nisi quod debetur, non reddif. et ille non habet, nisi quod accepit» (PL 40,122).
1
* DS 623: «Deus omnipotens "omnes homines" sine exceptione "vult salvos fie-
ri" (lTm 2,4), licet non omnes salventur. Quod autem quidam salvantur, salvantis est
donum: quod autem quidam pereunt, pereuntium est meritum». Il Sinodo aveva di mi-
ra la condanna della dottrina della doppia predestinazione di Gottschalk di Orbais.
Trento ribadirà questa condanna nei canoni del Decretum de ìustificatìone: DS 1567.
15
Cap. 1: «Ac per hoc unam Dei praedestinationem tantummodo dicimus, quae
aut ad donum pertinet gratiae aut ad retributionem iusritiae» [DS 621).

282
natura non sia stata assunta in Cristo Gesù nostro Signore, non
c'è, né ci fu, né ci sarà uomo, per il quale Cristo non abbia sof-
ferto, sebbene non tutti siano redenti dal mistero della sua pas-
sione. E questo non dipende dalla grandezza ed abbondanza del-
l'offerta, ma dall'infedeltà e dalla mancanza di quella fede, che
opera nella carità (Gal 5,6)»16.
Nella stessa linea di un agostinismo moderato si muoverà
la sintesi equilibrata di Tommaso d'Aquino: «Tutto quanto nel-
l'uomo lo dirige verso la salvezza deve essere compreso sotto
l'effetto della predestinazione, anche la stessa preparazione al-
la grazia: questo infatti non accade se non per mezzo dell'aiuto
divino»17. Bisogna tuttavia riconoscere che l'interpretazione di
Tommaso alimenterà la tendenza verso la tesi di un decreto di-
vino assoluto, in quanto considera la predestinazione come un
aspetto della generale provvidenza del Dio creatore: «E conve-
niente che Dio predestini gli uomini, perché tutto sottostà alla
provvidenza divina e compete alla provvidenza ordinare ogni
realtà al proprio fine. Il fine cui le creature sono ordinate da
Dio è duplice: l'uno, che eccede la proporzione e la capacità della
natura creata, è la vita eterna... L'altro proporzionato alla crea-
tura... E opportuno pertanto che la creatura sia orientata e con-
dotta (transmìttatur) da un altro al fine, cui non può giungere
in virtù della propria natura. Per cui, propriamente la creatura
razionale, capace della vita eterna, è come orientata e condotta
in essa da Dio»18. Se in queste parole si sente l'eco gioiosa del-
la dottrina biblica dell'elezione di grazia, si avverte non di me-
no il collegamento di questa prospettiva al disegno della prov-
videnza del Creatore, più che al mistero storico-salvifico attua-
to nel tempo dal Salvatore19.
16
lb., cap. 4: DS 624: «Christus Iesus D. N., sicut nullus homo est, fuit vel erit,
cuius natura in ilio assumpta non fuerit, ita nullus est, fuit vel erit homo, prò quo pas-
sus non fuerit; licet non omnes passionis eius mysterio redimantur. Quod vero omnes
passionis eius mysterio non redimuntur, non respicit ad magnitudinem et predi copio-
sitatem, sed ad infidelium et ad non credentium ea fide, ' 'quae per dilectionem opera-
tur" (Gal 5,6), respicit partem...».
17
Summa Theologiae I q. 23 a. 5 e.
™Ib.,lq. 23 a. 1 e.
19
Non manca altrove in Tommaso il collegamento della predestinazione a Cri-
sto, anche se nel senso di una riconduzione della predestinazione del Verbo incarnato
al generale disegno divino e non della riconduzione inversa del disegno divino al suo
centro, l'incarnazione: cf. Summa Theologiae III q. 24 a. 1: «Praedestinatio, proprie
accepta, est quaedam divina praeordinatio ab aeterno de his quae per gratiam Dei sunt
fienda in tempore. Est autem hoc in tempore factum per gratiam unionis a Deo, ut
homo esset Deus et Deus esset homo. Non potest dici quod Deus ab aeterno non praeor-

283
E tuttavia in Giovanni Calvino che le idee del decretum ab-
solutum e della gemina praedestinatio vengono non solo formu-
late in maniera compiuta, ma anche sviluppate con rilievo asso-
luto: «È soprattutto per Calvino che si deve affermare che, al-
meno nelle sue esposizioni specificamente dottrinali, non ha sa-
puto o non ha creduto necessario sciogliersi dal parallelismo fa-
tale dei concetti di elezione e di riprovazione»20. Anche per lui
l'intenzione ultima è quella di celebrare il trionfo della grazia
e l'assoluta sovranità della libertà divina di eleggere o rigettare
chiunque: il fascino e l'anima di verità delle tesi del Riformato-
re si radicano su questa ispirazione indiscutibile. Il prezzo pa-
gato, tuttavia, non è solo l'abbandono del cristocentrismo bi-
blico, ma il cedimento a un pensiero speculativo sulla divinità
e sul suo rapporto col mondo, che contraddice proprio alla pro-
fonda ispirazione biblica voluta dalla Riforma, e giustifica la con-
centrazione dell'interesse sul destino del singolo uomo, a scapi-
to dell'orizzonte comunitario dell'alleanza, caratteristico della
concezione biblica. «Definiamo predestinazione il decreto eterno
di Dio, per mezzo del quale ha stabilito che cosa voleva fare
di ogni uomo. Infatti non li crea tutti nella medesima condizio-
ne, ma ordina gli uni a vita eterna, gli altri all'eterna condanna.
Cosi in base al fine per il quale l'uomo è creato, diciamo che
è predestinato alla vita o alla morte»21.
In questa concezione la predestinazione perde completamente
il carattere di buona novella e diventa un concetto speculativo,
al cui interno è possibile distinguere, come due species dello stesso
genus o strutture parallele di una medesima architettura, l'ele-
zione e la riprovazione. Un sistema simmetrico concettuale, in
cui giustizia e misericordia si equilibrano reciprocamente, prende
il posto dell'«eccesso» d'amore e di compromissione da parte

dinaverit hoc se facturum in tempore: quia sequeretur quod divinae menti aliquid acci-
deret de novo. Et oportet dicere quod ipsa unio naturarum in persona Christi cadat
sub aeterna Dei praedestinatione».
20
K. Bardi, La dottrina dell'elezione divina, o.c, 176.
21
Institutio Christianae Religionis, III, 21, 5: «Praedestinationem vocamus aeter-
num Dei decretum, quo apud se constitutum habuit quid de unoquoque homine fieri
vellet. Non enim pari conditione creantur omnes: sed aliis vita aeterna, aliis damnatio
aeterna praeordinatur. Itaque prout in alterutrum finem quisque conditus est, ita vel
ad vitam, vel ad mortem praedestinatum dicimus». Cf. l'edizione italiana. G. Calvino,
Istituzione della religione cristiana, a cura di G. Tourn, 2 voli., Torino 1971, II, 1101
(cf. l'intero capitolo 21 del libro III: «L'elezione eterna con cui Dio ha predestinato
gli uni alla salvezza e gli altri alla dannazione»: 1094ss). L'idea si trova analogamente
ad esempio nel De aeterna Dei praedestinatione, del 1552: cf. Corpus Reformatorum 8, 261s.

284
del Dio vivente, che costituisce il cuore e lo scandalo dell'evan-
gelo. Il decretum absolutum scalza la densa corposità storica del
mysterium: il Dio sovrano, indifferente all'uno o all'altro desti-
no della sua creatura, da Lui deciso in assoluta astrazione da
ogni progettualità o realizzazione storica, prende il posto del
Dio crocifisso per la salvezza del mondo. Il rapporto fra l'Asso-
luto e la storia viene ridotto a quello fra il Dio altro e sovrano
e il singolo individuo. «L'evoluzione che ha portato a questa
concezione si riflette nella dinamica del pensiero occidentale che,
a partire dall'antichità e attraverso il Rinascimento, ha condot-
to alla scoperta e alla valorizzazione dell'individuo, proprie dei
tempi moderni... Ma è precisamente in Calvino che appare il
cambiamento decisivo»22.
E perciò tanto più significativo che proprio dalla tradizione
riformata sia venuta la più vigorosa confutazione della conce-
zione della predestinazione come «decreto assoluto» e sistema
neutrale di destini paralleli: è, infatti, Karl Barth che ha ripen-
sato dalle fondamenta la dottrina della elezione divina per gra-
zia, riportandola alle sorgenti bibliche, in fecondo dialogo con
l'intera tradizione cristiana23. La critica decisiva che Barth
muove a Calvino riguarda appunto la separazione che il Rifor-
matore ha operato fra Dio e Gesù Cristo nell'elaborare la sua
dottrina della doppia predestinazione: «Per lui il Dio-che-elegge
è un "Dio nudo nascosto" (Deus nudus absconditus) e non il "Dio
rivelato" [Deus revelatus), il Dio eterno. Tutti gli altri difetti
della dottrina calviniana della predestinazione sono riconduci-
bili a questa deficienza capitale. Il Riformatore (contro le sue
intenzioni) ha finito per separare Dio da Gesù Cristo; ha cre-
duto di poter cercare altrove che in Gesù Cristo ciò che è all'i-
nizio con Dio; in una sola parola, pur proclamando con la vee-
menza di cui si sa l'elezione gratuita, alla fin fine è passato ac-
canto alla grazia di Dio manifestata in Gesù Cristo»24. La via
di superamento di questa «deficienza capitale» sta per Barth nel
ritorno al «cristocentrismo radicale», che egli vede testimonia-
to dalla Scrittura: «Per sapere che cosa sia l'elezione ed in che
cosa consista lo stato di eletto, dobbiamo innanzitutto, senza
sbirciare a destra o a sinistra, dirigere la nostra attenzione sul
22
K. Barth, La dottrina dell'elezione divina, o.c, 636s.
23
Cf. K. Barth, La dottrina dell'elezione divina, o.c, su cui cf. A. Moda, La dot-
trina dell'elezione divina in Karl Barth, o.c..
24
K. Barth, La dottrina dell'elezione divina, o.c, 332.

285
nome di Gesù Cristo, sull'esistenza e sulla storia del popolo di-
venute realtà in lui, e la cui origine e la cui fine sono contenute
e determinate nel mistero di questo nome. Lo vediamo chiara-
mente: tutte le affermazioni della Scrittura su Dio e sull'uomo
coincidono in un solo e medesimo punto; anche le proposizioni
relative all'elezione dell'uomo da parte di Dio devono essere con-
cepite ed elaborate in funzione di quanto accade in questo uni-
co punto; in effetti è qui che vi è elezione... È il nome di Gesù
Cristo ad essere, secondo F autorivelazione divina, il centro verso
cui convergono, come due raggi luminosi, le due linee della ve-
rità che deve essere riconosciuta a questo punto: il Dio-che-elegge
e l'uomo-eletto»25. Barth articolerà pertanto la sua dottrina
della elezione di grazia e della predestinazione partendo dall'e-
lezione di Gesù Cristo, cogliendo in essa l'elezione mediatrice
della comunità, per giungere così all'elezione dell'individuo, mai
separata o separabile da quella del Signore Gesù e della comu-
nità in lui.

e) Predestinati nella Trinità

Gesù Cristo è al tempo stesso il Dio-che-elegge e l'uomo-


eletto: Barth difende questa proposizione centrale — nella quale
è formulato «nella maniera più semplice e più completa il con-
tenuto del dogma della predestinazione»26 — su un duplice
fronte. Da una parte egli rifiuta attraverso di essa ogni conce-
zione del «decreto assoluto»; dall'altra egli si oppone ad ogni
possibile suggestione pelagiana di autoredenzione dell'uomo. Se
Cristo è il Dio che elegge, l'elezione è inseparabile dalla storia
della salvezza in cui si compie il mistero dell'incarnazione: non
c'è pertanto alcun proposito divino astratto, alcun decretum ab-
solutum, che preceda e superi il piano di redenzione attuato nel
tempo: «La motivazione e la natura dell'elezione divina non de-
vono essere ricercati in un qualche "proposito assoluto di Dio";
fin dal principio la volontà divina è una volontà finalizzata in
Gesù Cristo verso la salvezza di tutti gli uomini»27. La prede-
stinazione non si compie nell'eternità prescindendo dal tempo,
ma è opera dell'Eterno in vista del tempo, destinata ad attuarsi
25
Ib., 245s.
26
Ib., 319.
27
Iè.,268.

286
in esso: «La predestinazione non è semplicemente lo schema o
il programma di una storia. E realmente essa stessa una storia
precisa ed unica all'interno della volontà e della decisione di-
vina»28.
Questo forte legame fra l'eternità e il tempo, postulato dal-
la predestinazione, non significa però in nessun modo che il mon-
do storico sia protagonista assoluto del mistero dell'elezione:
a questa supposizione, che è l'anima profonda di ogni possibile
pelagianesimo, si oppone precisamente la tesi che Cristo, Dio-
che-elegge, è anche e inseparabilmente l'uomo-eletto, nel quale
ogni altra elezione viene a realizzarsi. Nessuna predestinazio-
ne, perciò, nessun conseguimento della salvezza avviene al di
fuori di Cristo o indipendentemente da lui: con Ef l,4s Barth
ripete che «Dio ci (la comunità) ha eletti in lui (Iv aÙTcjj) per-
noi potessimo essere santi ed irreprensibili davanti a lui e tutto
ciò ancora prima della fondazione del mondo»29.
Nella luce di questo rigoroso cristocentrismo viene reinter-
pretata anche la crudele dottrina della «doppia predestinazio-
ne»: Barth rifiuta senza appello l'idea di una simmetria, che ve-
da da una parte gli eletti, dall'altra i reprobi nel proposito divi-
no sulla storia. La predestinazione è unica, ed è quella che ci
è stata rivelata in Gesù Cristo: «L'elezione gratuita è l'origine
eterna di tutte le vie e di tutte le opere di Dio in Gesù Cristo,
in questo senso che, nella sua libera grazia, Dio si autodetermi-
na in favore dell'uomo peccatore, onde destinarlo alla sua ap-
partenenza»30. Nell'unità di questo disegno di grazia, però,
Gesù Cristo non solo ci dona la sua salvezza, ma prende anche
su di sé la nostra miseria, in modo tale che in lui si compie la
condanna e il rifiuto del peccato del mondo da parte di Dio:
«Dio prende dunque su di sé la riprovazione che pesa sull'uo-
mo, con tutte le sue conseguenze ed elegge quest'uomo, onde
dargli partecipazione a quella gloria che è la sua»31. Cristo è
perciò al tempo stesso l'uomo eletto e l'uomo rifiutato, l'eletto
che subisce la pena al posto dei reprobi ed assomma perciò in
sé il doppio destino dell'elezione e della riprovazione, a favore
della riconciliazione del peccatore: «Ecco in che cosa consiste
la libera grazia per tutti coloro che Dio ha eletto nell'uomo Ge-
28
Ib., 451.
29
Ib., 246.
30
Ib., 305.
51 Ib.

287
su: poiché in lui Dio, il giudice, prende ed occupa il loro posto,
il posto del condannato, essi sono completamente assolti, libe-
rati dal loro peccato, dalla loro colpa, dal loro castigo»32. «Nel-
l'elezione di Gesù Cristo, che è la volontà divina eterna, Dio
ha destinato il sì all'uomo (cioè l'elezione, la salvezza, la vita)
e si è riservato il no (cioè la riprovazione, la condanna, la mor-
te)» 33 . Dunque, il contenuto di verità dell'idea di una «doppia
predestinazione» si riconduce — attraverso la pericolosa equi-
vocità del termine — alla duplice volontà divina, di condanna-
re il peccato e di salvare il peccatore in Gesù Cristo: ma quello
che in essa resta del tutto inaccettabile è la presunta simmetria
di un disegno assoluto di vita per gli uni e di morte per gli altri.
«La volontà di Dio nell'elezione di Gesù Cristo è certamente
duplice, ma non simmetrica; non decide cioè nello stesso modo
ed al medesimo titolo della vita e della morte dell'uomo, della
sua salvezza e della sua perdizione»34.
L'elezione realizzatasi in Gesù Cristo raggiunge l'uomo at-
traverso la mediazione necessaria della comunità: «La predesti-
nazione come elezione di Gesù Cristo è contemporaneamente
l'elezione eterna del popolo di Dio la cui esistenza significa che
Gesù Cristo è attestato al mondo intero e che il mondo intero
è chiamato a credere in lui»35. Anche così risulta chiaro lo
spessore storico della predestinazione, che si compie attraverso
la socialità e la solidarietà proprie della condizione umana: «Es-
sere eletto o predestinato nel senso neotestamentario significa
essere destinato ad esistere nella comunità o chiesa di Gesù Cri-
sto, cioè tra persone che, in virtù della loro comunione con Ge-
sù Cristo operata dallo Spirito Santo attraverso la loro vocazio-
ne, si trovano anche legate tra di loro dalla realtà di una comu-
nione che permane»36. Pertanto «è nella e con l'elezione di Ge-
sù Cristo, con la mediazione della comunità, che gli eletti sono
eletti» 37 . Questa mediazione comunitaria ha due aspetti, al
tempo stesso temporali e ontologici: Israele e la Chiesa, l'attesa
e il compimento, l'attestazione del giudizio e quella della mise-
ricordia. «Questa comunità unica ha un duplice aspetto: in quan-

32 fó., 355.
»Ib., 419.
Mlb., 433.
"Ih., 469.
36
Ih., 831.
37
Ih., 694.

288
to Israele attesta il giudizio divino, in quanto chiesa attesta la
misericordia divina. In quanto Israele è destinata ad intendere
ed in quanto chiesa è destinata a credere la promessa fatta agli
uomini. Israele è la forma passeggera, la chiesa la forma futura
del popolo di Dio eletto» 38 . Proprio in quanto tali, i due aspet-
ti si coappartengono, e sono presenti l'uno nell'altro, fino al tem-
po in cui si compirà manifestamente la reintegrazione d'Israele
(cf. Rm 11).
All'interno di questa mediazione storico-comunitaria si po-
ne infine l'elezione dell'individuo: ultimamente essa è compiu-
ta in Gesù Cristo; storicamente si realizza attraverso la testi-
monianza e la fede della comunità. «Se il vero oggetto dell'a-
more di Dio non è costituito da nessun altro "individuo" al-
l'infuori di lui, ne deriva che nessuno, all'infuori di lui, può es-
sere divorato dal fuoco di quell'amore, cioè dalla collera divi-
na; tutti gli eletti e tutti i riprovati hanno la funzione di indica-
re questo amore divino nel suo duplice aspetto; e hanno la fun-
zione di vivere, nella loro diversità, del fatto che Dio ha ama-
to questo solo essere per amarli in lui ieri, oggi e domani» 39 .
«L'uomo isolato e separato da Dio è, come tale, ripudiato da
Dio. Ma solo l'uomo senza Dio può scegliere questo destino.
La comunità di Dio è presente per testimoniare ad ogni indivi-
duo particolare che una tale scelta è nulla e non avvenuta, poi-
ché ogni uomo appartiene dall'eternità a Gesù Cristo, nel qua-
le Dio l'ha scelto e non ripudiato. Essa gli offre testimonianza
che la riprovazione, meritata a causa di questa scelta insensata,
è subita e assunta da Gesù Cristo e che egli è destinato, in gra-
zia della giusta scelta divina, a vivere eternamente con Dio. La
promessa della sua elezione personale determinerà l'individuo
a trasmettere al mondo intero la testimonianza della comunità
di cui è membro. La rivelazione del suo ripudio non potrà che
condurlo a credere in Gesù Cristo come in colui che ha preso
su di sé e abolito questo ripudio» 40 .
La grandiosa costruzione barthiana rende ragione del moti-
vo per il quale la dottrina dell'elezione divina e della predesti-
nazione è la «somma dell'evangelo» 41 : essa fa risuonare la buo-
na novella al di là delle mediazioni teologiche, che nella storia
38
Ib., 469.
39
Ib., 712s.
40
tt.,635.
41
Ib., 155.

289
del pensiero cristiano avevano costretto la gratuità e la libertà
dell'iniziativa dell'Eterno nelle maglie di un astratto «decreto
assoluto» e nella conseguente crudele concezione della praede-
stinatio gemina. In tal senso, il merito di Barth è indiscutibile
e la presentazione dell'elezione divina è veramente il centro e
il cuore dell'intera sua riscoperta della «divinità» e della «uma-
nità» del Dio di Gesù Cristo 42 . Non mancano, tuttavia, i punti
deboli, su cui si è concentrata la discussione e la critica 43 : in
modo particolare, si insinua il sospetto che il rigoroso cristo-
centrismo della predestinazione si risolva in una generale asso-
luzione della colpa e, perciò, in una necessaria riconciliazione
totale, che verrebbe infine a consumarsi al di là delle possibili
resistenze e inadempienze dei singoli. In questa prospettiva, mol-
to vicina all'idea di una «apocatastasi» finale, la stessa serietà
e la dignità del divenire storico verrebbero compromesse 44 : se
tutto è comunque destinato alla ricapitolazione di un perdono
senza residui e di un irresistibile trionfo della grazia, non c'è
più spazio per il rischio della libertà umana, e conseguentemen-
te per la verità della prova e della lotta in cui si compiono i de-
stini degli uomini. L'ottimismo della grazia presta il fianco a
questo sospetto: «Tale è precisamente il contenuto, il duplice
contenuto della predestinazione divina ed eterna, dato che es-
sa è identica all'elezione di Gesù Cristo: Dio vuole essere per-
dente affinché l'uomo sia vincente. Salvezza sicura per l'uomo,
pericolo altrettanto sicuro per Dio» 4 '. «Legato a Gesù Cristo,
l'uomo può solamente essere stato, ma non più essere un ripro-
vato; tra lui e la sua personale esistenza di riprovato si pongono
la morte che Gesù Cristo ha subito per lui e la risurrezione at-
traverso cui Gesù Cristo gli ha concesso il suo posto di elet-
to» 46 . «Noi conosciamo in realtà soltanto un trionfo dell'infer-
no ed è l'abbandono di Gesù Cristo; e sappiamo che questo trion-

42
Cf. B. Forte, Cristologìa e polìtica. Su Karl Barth, in Id., Cristologìe del Nove-
cento, Brescia 1985 2 , 63-104.
45
Cf. la documentata analisi di A. Moda nell'Introduzione all'edizione italiana
di K. Barth, La dottrina dell'elezione divina, o.c, 45ss. Lo stesso fondamento biblico
dell'intera costruzione barthiana è stato contestato da alcuni, perché l'idea paolina cor-
rispondente alla sostituzione vicarìa è che Cristo è morto in nostro favore (ì>7rég), e non
— come continuamente sembra supporre Barth — al nostro posto (la preposizione sa-
rebbe allora àvii): cf. ad esempio H. Bouillard, Karl Barth, II, Paris 1957, 117.
44
E ad esempio la critica di E. Brunner, Die christliche Lehre von Gott, Zùrich
1946, 375-379.
45
K. Barth, La dottrina dell'elezione divina, oc, 419.
46
76., 878.

290
fo ha avuto luogo affinché non ce ne fossero mai più altri, af-
finché l'inferno non potesse più vincere nessuno... Gesù Cri-
sto è stato perduto (ma anche ritrovato) affinché nessuno, a parte
lui, lo fosse» 47 .
La forza di queste affermazioni è tale, che lo stesso Barth
sente il bisogno di prendere le distanze dalla possibile conse-
guenza di una «apocatastasi» in nome dell'assoluta libertà di Dio,
anche se lascia decisamente aperta la possibilità di essa, come
conseguenza del rigoroso cristocentrismo dell'elezione divina:
«E Dio a determinare senza appello l'ampiezza del cerchio del-
l'elezione; che tale cerchio poi debba coprire alla fine l'intera
umanità (secondo la dottrina dell'apocatastasi), è però una tesi
che non dobbiamo formulare, proprio per rispetto alla libertà
di Dio; la libertà di Dio non è infatti un codice da cui poter
trarre diritti ed obbligazioni... Ma bisogna anche dire subito:
la conoscenza della grazia che accompagna la libertà divina de-
ve impedirci di formulare la tesi contraria, di affermare cioè l'im-
possibilità di considerare l'allargamento totale e supremo del cer-
chio dell'elezione e della vocazione» 48 . Il rischio di cadere nel-
lo spregiudicato ottimismo dell'«apocatastasi» e nel conseguen-
te svuotamento della corposità della storia non è eliminato: il
trionfo della grazia minaccia col suo eccesso proprio la verità
dell'amore divino, che è tale solo se non annulla l'alterità della
creatura, chiamata a ricambiare l'amore e tuttavia capace di ri-
fiutarlo nel dramma, sempre possibile, del peccato.
L'obiezione, avanzata nei confronti del rigoroso cristocen-
trismo della dottrina barthiana dell'elezione divina e delle sue
possibili conseguenze, rimanda, tuttavia, ad un più radicale ri-
lievo critico: anche in questo campo, come in generale nella sua
teologia della rivelazione, Barth si mostra debole nello svilup-
po della riflessione sulla Trinità. Come la «strettoia cristologi-
ca» non elimina il sospetto di un certo «modalismo», che riduce
le Persone divine a semplici «modi di essere» dell'unica divini-
tà 49 , così il cristocentrismo della predestinazione sembra lascia-
re in ombra il ruolo proprio del Padre e dello Spirito Santo nel-
l'elezione di grazia 50 . Si potrebbe addirittura rivolgere a Barth
la domanda critica, che egli stesso pone ai grandi testimoni del-
47
lb., 947s.
48
lb., 817.
45
Cf. l'analisi critica in B. Forte, Teologia della storia, Milano 19912, 49ss.
50
Cf. ad esempio H. Bouillard, Karl Bartb, II, o.c, 154.

291
la teologia della predestinazione: «Possiamo riferirci ai rappre-
sentanti del nostro dogma con la certezza che essi hanno parla-
to della libertà, del mistero e della giustizia divina come teologi
cristiani, riferendoli cioè al Dio trinitario, al Padre rivelato in
Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo, così come lo attesta
la Scrittura?» 51 . Che Barth lo abbia fatto in rapporto a Cristo,
non c'è dubbio: quello che va invece integrato rispetto al suo
pensiero è l'approfondimento del ruolo del Padre e dello Spiri-
to nel mistero dell'elezione e della predestinazione.
È in realtà il Padre il soggetto originario e fondante di ogni
elezione divina: principio senza principio della vita eterna dei
Tre, risiede in Lui ogni inizio. Come nell'eternità, così in rap-
porto alla creazione e alla storia della salvezza è Lui la fonte
di ogni esistenza, energia e vita, la sorgente purissima e gratui-
ta di ogni dono perfetto. Il piano divino che viene a realizzarsi
nel tempo è perciò anzitutto originato e nascosto nel mistero
del Padre: è Lui il Dio, cui Gesù stesso rinvia come all'inizio
di ogni elezione che passa attraverso di Lui. «Tutto ciò che il
Padre mi dà, verrà a me... E questa è la volontà di colui che
mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha da-
to, ma lo risusciti nell'ultimo giorno... Nessuno può venire a
me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato» (Gv 6,37.39.
44). La teologia della missione del Figlio, continuamente pre-
sente nel vangelo giovanneo, sottolinea come sia nel Padre l'i-
nizio di tutte le vie e di tutte le opere divine per l'uomo, realiz-
zate in Gesù Cristo: «Mio cibo è fare la volontà di colui che
mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; cf. 5,30; 6,38;
ecc.). La stessa rilettura della storia alla luce del mistero pasquale
confessa nel Padre l'inizio e nel Figlio la mediazione eterna: «Egli
è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura;
poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle
nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili...
Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di
lui» (Col l,15s). La volontà salvifica universale, rivelata in Cri-
sto, è radicata nel mistero del Padre: «Dio, nostro salvatore,
vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscen-
za della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore
fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso
in riscatto per tutti» (lTm 2,4-6).

51
K. Barth, La dottrina dell'elezione divina, o.c, 190.

292
Certamente, in forza della perfetta comunione che c'è fra
il Padre e il Figlio, se Dio Padre è colui che elegge, non di me-
no lo è il Figlio: tuttavia, la distinzione nella relazione persona-
le evidenzia la profondità ed anche l'insondabilità del disegno
divino. Nella Parola fatta carne l'elezione è rivelata al mondo:
ma la sua origine ultima resta nascosta nel silenzio del Padre,
che comunicandosi nel Verbo resta tuttavia altro e più grande
rispetto alla presa della storia. In altri termini, evidenziare il
ruolo del Padre nel disegno della predestinazione significa an-
che rispettare maggiormente ed adorare più consapevolmente
l'insondabile sovranità divina, per affidarsi ad essa non nella
timorosa obbedienza che richiederebbe un oscuro «decreto as-
soluto» della divinità, ma nella confidenza filiale di chi — con
Cristo e per Cristo — si rimette completamente nelle mani del
Dio vivente: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tut-
tavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà... Padre, nelle tue
mani affido il mio spirito» (Le 22,42 e 23,46).
Insieme al ruolo proprio del Padre, è necessario richiamare
la specifica presenza dello Spirito nel mistero dell'elezione e della
predestinazione: come nell'eternità di Dio lo Spirito è vincolo
della carità eterna ed insieme apertura dell'amore dei due al-
l'altro da sé, estasi e dono divino nella libertà, così nel tempo
lo Spirito realizza la gratuita autocomunicazione divina conti-
nuamente unendo il mondo divino al mondo degli uomini ed
attuando nella novità del divenire gli eventi della grazia, com-
piutisi in Cristo. «Dio è provenienza, venuta e avvenire. Dio
è provenienza da se stesso nella misura in cui è l'origine di se
stesso. La provenienza di Dio è il suo passato che non passa.
Dio è la venuta di se stesso nella misura in cui è il fine di se
stesso. La venuta di Dio è il suo presente che non passa. Dio
è il futuro di se stesso nella misura in cui è la mediazione di
se stesso. Il futuro di Dio è il non passare del suo passato e del
suo presente, è l'andare tuttavia avanti di Dio: come origine
e fine di sé Dio va avanti, Dio precede. E così nella concordia
di origine e fine egli è colui che viene come Dio. Ma se Dio,
nella misura in cui proviene a sé dall'origine e dal fine, è colui
che viene come Dio, egli è in questo modo di essere lo Spirito
che proviene dal Padre e dal Figlio (Filioque!)» 52 . In quanto

52
E. Jiingel, Dio mistero del mondo, Brescia 1982, 503. Cf. pure su tutto questo
B. Forte, Trinità come storia, o.c, specie 114ss.

293
vincolo di unità ed avvenire della provenienza e della venuta
di Dio, lo Spirito al tempo stesso unisce il presente degli uomi-
ni all'Eterno e lo mantiene nella sua libera alterità rispetto a Dio.
Si comprende così come grazie allo Spirito Santo la creatu-
ra sia totalmente dipendente da Dio ed a Lui subordinata ed
insieme libera davanti a Dio e capace di scelte di accettazione
e di rifiuto. Lo Spirito Santo — condizione eterna di unità fra
il Padre e il Figlio e fra di loro e il mondo creato — è il luogo
eterno della libertà, colui che partecipa all'essere personale creato
la libertà nell'amore: «Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spiri-
to del Signore c'è libertà» (2Cor 3,17). Grazie allo Spirito San-
to la libertà dell'uomo non solo non si oppone all'assoluto pri-
mato di Dio, ma ne manifesta la gloria: nel vincolo e nel dono
del Paraclito l'essere libero della persona umana non fa concor-
renza a Dio, non ne nega la sovranità senza residui, ma rivela
la stessa gratuita libertà dell'amore divino, che ha voluto che
la creatura esistesse come altra da sé, capace di libertà davanti
a sé, e perciò capace di amare o rifiutare l'amore. Nello Spirito
la predestinazione divina non nega la libertà umana, ma l'affer-
ma: l'umiltà e la compassione di Dio rendono possibile come
dono e grazia l'esistenza della creatura libera di salvarsi o di
perdersi, fermo restando il mistero dell'elezione avvenuta in Cri-
sto per tutti e perciò gratuitamente offerta a ciascuno per le vie
misteriose dell'azione del Consolatore nella storia. La buona no-
vella dell'elezione divina è l'annuncio che Dio vuole tutti salvi
e a tutti dona la salvezza in Gesù Cristo, ma che egli vuole an-
che ed inseparabilmente tutti liberi di accogliere il dono o di
chiudersi ad esso, impegnandosi con sovrana umiltà a rispetta-
re il rifiuto della creatura, che pure è sofferenza per il suo cuo-
re di Padre (cf. Le 15,11 ss). La libertà divina si autolimita per
amore perché esista la libertà umana: colui che ci ha creato sen-
za di noi, non ci salverà senza di noi, anche se ha fatto e farà
di tutto in Cristo e nello Spirito, perché nessuno si perda. La
dottrina della predestinazione non è che un aspetto del vangelo
trinitario, offerto alla libertà del cuore umano per la sua salvez-
za. La luce risplende nelle tenebre: alle tenebre spetta però di
accoglierla, perché illumini e salvi...

294
8.2. L'ORIENTAMENTO

All'iniziativa libera e gratuita dell'elezione divina è chiamata


dunque a corrispondere nello Spirito la libera e consapevole ac-
cettazione dell'uomo: anche così il cristianesimo si manifesta
come la religione della libertà responsabile, fondata nel dono
di Dio. Avvolto nel mistero delle relazioni eterne del Dio trini-
tario, che liberamente e gratuitamente ha voluto comunicare la
propria vita agli uomini, l'essere personale è stimolato a vivere
nell'interiorità profonda e nello splendore dell'esteriorità il pro-
cesso, per cui si apre alla grazia dell'eternità e l'accoglie in sé.
Questo processo — chiamato nel linguaggio biblico neTavoia.
— si situa nella più generale capacità offerta alla creatura di
orientare la propria esistenza a Dio o contro di lui, accogliendo
il suo amore o rifiutandolo. Le condizioni di possibilità di que-
sto orientamento sono la coscienza e la libertà; l'atto in cui di
fatto esso si esercita è la decisione; e il dono per cui esso perma-
ne nella fedeltà all'Eterno nel tempo è la perseveranza.

a) La coscienza

La coscienza^, nella complessità delle sue dimensioni e del-


le sue espressioni psicologiche, intellettuali, volitive e pratiche,
è la conoscenza che il soggetto ha di sé e del proprio mondo
relazionale, stimolata ed alimentata dall'emergere ed affacciar-
si dell'alterità dell'oggetto all'interiorità dell'io, nella permanente
circolarità fra i due movimenti, che tende a far sintesi di essi
sul piano conoscitivo e su quello dell'agire. Pertanto, la coscienza
nasce e si sviluppa nel campo di tensione fra soggetto e ogget-
to, fra interiorità ed esteriorità dell'essere personale, in un pro-
cesso conoscitivo dove il soggetto si fa originariamente oggetto
55
Cf. sul tema della coscienza: F. Bòckle, Legge e coscienza. Problemi fondamen-
tali di etica teologica in prospettiva ecumenica, Brescia 1969; D. Capone, La teologia del-
la coscienza morale nel Concilio e dopo il Concilio, in Studia Marnila 24 (1986) 221 -249;
La coscienza morale oggi, Accademia Alfonsiana, Roma 1987; P. Delhaye, La coscienza
morale del cristiano, Roma 1968; Das Gewissen. Vorgegebene Nomi verantwortlìcben llan-
dels oder • Produkt gescllschaftlìchcr Zwange?', hrsg. v. J. Fuchs, Dusseldorf 1979; L. Giorda
- R. Cimmino, La coscienza nel pensiero moderno e contemporaneo, Roma 1978; K. Gol-
ser, Gewissen und objektive Sittenordnung, Wien 1975; G. Madinier, La coscienza mo-
rale, Torino-Leumann 1982; A. Molinaro - A. Valsecchi, La coscienza, Bologna 1979;
S. Privitera, La coscienza, Bologna 1986; A. Valsecchi - S. Privitera, Coscienza, in Nuovo
Dizionario di Teologia Morale, Milano 1990, 183-203.

295
a se stesso, autodistinguendosi e distinguendo da sé il proprio
universo relazionale, per poi autopossedersi nella riconduzione
a sé e al proprio mondo interiore dell'insieme di consapevolez-
za acquisita mediante il processo stesso. II campo dell'intenzio-
nalità della coscienza abbraccia dunque l'originario porsi del sog-
getto come oggetto a se stesso, il proporsi del mondo dell'og-
gettività all'interiorità dell'io, e il finale — e sempre rinnovato
— pro-porsi del soggetto nell'ambito delle relazioni così realiz-
zate. E proprio della coscienza il costruirsi muovendo dalla scis-
sione, per attraversarla e superarla in direzione dell'unità, in
cui consiste propriamente l'atto di conoscenza di sé nel mondo
e del mondo in sé. In questo senso, dove non c'è alterità, sia
pur tutta interiore al soggetto, non c'è coscienza, mentre dove
si risveglia o si affaccia l'esperienza dell'altro da sé, si risveglia
e si affaccia anche la consapevolezza del sé. Questa struttura
propriamente relazionale è evocata dalla stessa etimologia dei
termini usati nel mondo greco-latino per designare la coscienza
(conscientia - ovveiòr]oi.s,), che uniscono l'elemento della conoscen-
za {sdentici - elòrjois) a quello della relazionalità (cum - avv).
In ambito biblico l'espressione avveiòrjais si trova solo in
Paolo e in scritti a lui collegati: l'Antico Testamento, come i
Vangeli, indicano la realtà corrispondente con la metafora viva
del «cuore» (cf. ad esempio Dt 30,14; ISam 24,6; Ger 31,33;
Ez 36,26; Mt 22,37; Me 7,19.21; Le 3,15 e 9,47; Gv 16,6. 22;
ecc.). La «testimonianza della coscienza» (Rm 2,15) esprime la
presenza della legge divina nei cuori di tutti gli uomini: la av-
veiòyois paolina non è autonoma, ma teologale, rapportata sem-
pre al giudizio di Dio (cf. 2Cor 4,2; ma anche ICor 4,4). Per-
ciò soltanto la fede, radicata in Cristo, illumina la coscienza (cf.
ad esempio l T m 1,5.19; 3,9), mentre l'allontanarsi dalla fede
la bolla a fuoco (cf. l T m 4,ls). La coscienza della verità nel Si-
gnore Gesù e davanti al Padre si realizza nello Spirito Santo:
«Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me
ne dà testimonianza nello Spirito Santo» (Rm 9,1). Proprio per-
ché intessuta delle relazioni trinitarie, nei rapporti interperso-
nali la coscienza dà e chiede rispetto alla coscienza altrui, in vi-
sta della realizzazione della comunione ecclesiale nella carità (cf.
la questione delle carni scarificate agli idoli e l'invito di Paolo
ad usarne secondo la libertà della coscienza, ma nell'attenzione
e nel rispetto della coscienza dei deboli: Rm 14 e ICor 8). Que-
ste indicazioni mostrano come nella testimonianza biblica la re-

296
lazionalità della coscienza sia intesa originariamente nel rapporto
col Dio trinitario, e conseguentemente nei rapporti di solida-
rietà richiesti dall'alleanza. La coscienza è cioè la consapevo-
lezza da parte del soggetto morale dell'incontro che si compie
in lui e nella storia fra l'esodo umano e l'avvento divino, e per-
ciò corrisponde da una parte alla percezione del proprio io in
quanto visitato e rinnovato daU'autocomunicazione del Dio vi-
vente, dall'altra al riconoscimento dell'evento di grazia come
dono ed appello rivolto all'interiorità personale e destinato ad
esprimersi anche nello sfolgorio dell'esteriorità. La coscienza,
allora, non è solo la percezione che il soggetto ha dell'ingresso
dell'eternità nel tempo, ma anche l'appello al suo situarsi con-
sapevole nell'ambito delle relazioni di amore nella libertà, che
costituiscono la vita divina.
La concezione biblica della ovveiòrioLS, in quanto fonda la
coscienza nel suo rapporto alla Trinità del Dio vivente come
«dimora», di cui assume consapevolezza, e come sorgente di
«comportamento», che è chiamata a realizzare, ne motiva al tem-
po stesso il carattere propriamente etico: l'ethos della coscien-
za, la coscienza morale, vive cioè di un duplice piano, in conti-
nuo interscambio. Da una parte, la coscienza è struttura origi-
naria dell'agire morale, in quanto attinge al fondamento trini-
tario dell'esperienza di grazia, che caratterizza la vita dell'esi-
stenza redenta; dall'altra, la coscienza è funzione specifica del
discernimento e del giudizio morale, mediante la quale la per-
sona si situa consapevolmente nel mondo relazionale del pro-
prio agire e lo situa a sua volta in rapporto alle esigenze della
partecipazione gratuitamente donatale all'eternità divina. I due
aspetti sono colti dall'antichità cristiana in profonda unità: co-
si Agostino concepisce la coscienza come abisso in cui dimora
l'Eterno, sede divina in cui Dio irrompe come «testis, iudex,
approbator, adiutor, coronator» 54 . «Forse tu non trovi alcun-
ché nella tua coscienza, ma lo trova colui che vede meglio, il
cui acume divino penetra le vette» 5 5 . «Colui che nessun luogo
può contenere ha la sua sede nella coscienza dei pii» 56 . La per-
cezione della consistenza teologica della coscienza si andrà pe-

54
Enarrano in Psalmum CXXXIV: PL 37, 1476.
55
Sermo 9J: «Forte tu non invenis aliquid in conscientia tua, et invenit ille qui
melius videt, cuius acies divina penetrat altiora» (PL 38, 578).
56
Enarratici in Psalmum XLV: «Qui nullo capitur loco, cui sedes est conscientia
piorum» (PL 36, 520).

297
rò progressivamente oscurando, a favore di una interpretazio-
ne più funzionale di essa, meglio corrispondente all'interesse
antropologico emergente nel secondo millennio: più che sede
divina nell'uomo, la coscienza è percepita come attività e stru-
mento del protagonismo umano.
In Tommaso i due aspetti sono ancora presenti, anche se
con una rigorosa distinzione formale: la coscienza come strut-
tura morale originaria viene definita come «abito naturale dei
principi dell'operare» {habitus naturate principiorum opembilìum)
e chiamata synderesisTl'; la coscienza come funzione del giudi-
zio etico è descritta come «applicazione della conoscenza all'at-
to» {applicatìo notitìae ad actum) e definita conscientia58. Lo
sviluppo successivo porterà ad una assolutizzazione del secon-
do aspetto, fino a risolvere la coscienza morale nell'ambito pu-
ramente umano della psicologia o delle relazioni sociali. Anche
su questo punto il ritorno alla ricchezza della testimonianza bi-
blica si impone come compito di chi voglia tracciare le linee di
un'antropologia teologica, aperta all'ingresso dell'eternità nel
tempo e all'ethos, che ne consegue. Solo non separando l'esse-
re nuova creatura del credente dal suo agire, e perciò l'espe-
rienza della «dimora» trinitaria dal «comportamento» che la ma-
nifesta nella storia, la coscienza morale potrà essere colta nella
sua ricchezza relazionale, come processo di conoscenza dell'au-
totrascendenza umana, nel suo essere visitata ed abitata dal Dio
della grazia, e dell'evento della salvezza, nel suo compiersi uni-
tariamente nell'interiorità e nell'esteriorità del divenire temporale
della persona. In questa luce, la coscienza è veramente apertu-
ra trascendentale sul Mistero assoluto ed irruzione di esso nel
suo volgersi all'uomo, come eternità che liberamente e gratui-
tamente si fa presente e dimora nel tempo: «Nell'intimo della
coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla
quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre
ad amare e a fare il bene ed a fuggire il male, quando occorre
dice alle orecchie del cuore: fa' questo, fuggi quest'altro. L'uo-
mo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore:
obbedire ad essa è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa
egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sa-

57
De Ventate 16, 1; Summa Theologiae I q. 79 a. 12.
58
Summa Theologiae I q. 79 a. 13; I-II q. 94 a. 1.

298
erario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce
risuona nel suo intimo» 59 .

b) ha libertà

All'apertura trascendentale della coscienza viene a coniu-


garsi l'altra apertura trascendentale dell'essere personale, quel-
la della libertà60. In relazione al soggetto la libertà è anzitutto
sorgività: nella distanza che l'io percepisce nei confronti di tut-
to ciò che è oggetto per sé, la libertà è la spontaneità originaria,
per la quale il soggetto si autodetermina in rapporto all'altro
da sé ed in ciò stesso si definisce e si destina. La libertà è la
capacità che l'essere personale ha di disporre di sé, ponendosi
come inizio del proprio agire e conseguentemente della defini-
zione storica della propria identità radicale. Questa originaria
spontaneità, che al tempo stesso distanzia l'io da ciò che è altro
da sé e lo rende capace di determinarsi in questa relazione, è
propriamente la libertà trascendentale, la possibilità sorgiva, in
sé infinita, di volere l'una o l'altra cosa in vista del fine della
compiuta realizzazione di sé. In questo carattere di apertura in-
finita la libertà trascendentale corrisponde sul piano del volere
a quello che sul piano del conoscere è l'infinita autotrascenden-
za della coscienza.
L'esercizio concreto della libertà consiste precisamente nella
determinazione storica di questa apertura trascendentale del-
l'originaria sorgività: il soggetto si autodetermina nella libertà
in rapporto a se stesso e al mondo mediante un duplice movi-
mento, di esodo da sé e di ritorno in sé. Il movimento esodale
della libertà consiste nella scelta dell'oggetto verso cui orienta-
re il dinamismo della volontà e la sua realizzazione nel tempo:
in questo senso, la libertà come uscita da sé verso l'altro si at-
tua a differenti livelli, il cui intersecarsi costituisce la storia con-

59
Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gau-
àìum et spes, 16.
60
Cf. sul tema della libertà nell'ottica qui considerata: A. Bausola, La libertà, Bre-
scia 1985; K. Berger - M. Miiller - K. Rahner, Libertà, in Sacramentum Mundi IV, Bre-
scia 1975, 735-767; R. C. De Haro, Legge, coscienza e libertà, Milano 1984; G. Gu-
sdorf, Signification humaine de la liberté, Paris 1982; Libertà e responsabilità, Padova
1967; A. Molinaro, Libertà e coscienza, Roma 1977; K. Rahner, Dignità e libertà del-
l'uomo, in Id., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma 19692, 395-441; P. Valori,
// libero arbitrio. Dio, l'uomo, la libertà, Milano 1987.

299
creta della libertà. Quando il soggetto si autodestina ad una meta
ultima, unificante rispetto a tutte le possibili mete penultime
e parziali, l'atto della libertà si pone come opzione fondamen-
tale o intenzione radicale: si tratta della scelta globale, che dà
orientamento e valore a tutte le successive scelte settoriali. È
il senso della vita della persona, l'orizzonte su cui essa misura
il cammino, la prospettiva inglobante che raccoglie in unità i
molteplici e frammentari aspetti dell'esistenza e li riconduce alla
costruzione dell'io come soggetto libero e il più possibile ade-
guato rispetto alla propria originaria spontaneità. Mediante l'op-
zione fondamentale l'io esce da sé per riconoscersi in una più
vasta «dimora», che è la custodia e la patria del proprio sé, ed
in cui vengono a collocarsi e ad abitare i passi successivi della
libertà. Questi passi — consistenti nelle scelte che di volta in
volta il soggetto fa in situazioni concrete — costituiscono la li-
bertà concreta o situata: essa determina il divenire storico del
soggetto libero in rapporto all'orizzonte ultimo, offertogli dal-
l'opzione fondamentale, sia che questa sia esplicita o tematiz-
zata, sia che questa resti irriflessa o implicita. Mediante la li-
bertà situata l'io esce da sé per andare verso ciò che è «penulti-
mo», ma lo fa sempre in relazione di corrispondenza o di disar-
monia con ciò che è «ultimo» rispetto all'inclinazione radicale
del suo essere e della sua volontà. Fra questi due livelli della
libertà — l'opzione fondamentale e la libertà situata — si col-
loca lo stile di vita della persona, che è l'insieme dei rapporti
che il soggetto libero stabilisce abitualmente, in relazione al-
l'intenzione ultima della sua autodestinazione e alla maggiore
o minore costanza con cui la esprime nelle scelte concrete deli-
berate nelle diverse situazioni vitali.
Al movimento esodale della libertà, per il quale il soggetto
esce da sé per andare verso l'oggetto della propria scelta e vi
pone la propria «dimora», si congiunge inseparabilmente il mo-
vimento di ritorno, per il quale l'io fa sintesi fra la spontaneità
che ha dato inizio all'esercizio della libertà e la determinazione
del comportamento, conseguente all'elezione della meta ultima
e delle mete penultime e concrete. La complessità di questo gioco
di exitus e di reditus costituisce la dialettica della libertà, nella
quale la libertà si afferma o si nega, a seconda che si esprima
in un processo di liberazione o di alienazione di sé. Il ritorno
è liberante quando l'oggetto dell'opzione fondamentale è ade-
guato all'apertura infinita della libertà trascendentale e gli og-

300
getti delle scelte settoriali corrispondono al conseguimento del-
la meta radicale: il processo della libertà si traduce invece in
alienazione quando l'opzione fondamentale è falsificante rispetto
all' apertura assoluta della spontaneità originaria o quando la li-
bertà concreta compromette in maniera grave l'orientamento
della persona al fine ultimo realizzante. In termini teologici —
che risultano a questo punto i più espliciti per descrivere la dia-
lettica della libertà — si può dire che la storia dell'essere perso-
nale è liberante, quando la sua opzione fondamentale è aperta
a Dio come Mistero assoluto e le opzioni settoriali non la con-
traddicono, è invece alienante quando l'opzione per l'Assoluto
è tradita o negata, o a livello di scelta radicale, o a livello di
determinazioni parziali.
Si comprende così come la libertà di scelta fra diverse pos-
sibilità sia soltanto un aspetto del cammino della libertà: si è
veramente liberi non solo quando si può optare fra alternative
diverse, ma quando l'autodeterminazione e l'autodestinazione
della persona non contraddicono l'apertura trascendentale del
suo essere verso il Mistero assoluto e trascendente. Un libero
arbitrio esercitato nella negazione del destino ultimo del sog-
getto storico è strumento di alienazione e causa di non libertà:
l'autentica libertà della persona non sta tanto nella possibilità
di scegliere l'una o l'altra cosa, quanto nello scegliere ciò che
corrisponde alla realizzazione del suo essere, in conformità con
le sue potenzialità e la sua vocazione radicale. Perciò è sempre
decisivo il rapporto fra l'atto della coscienza e l'esercizio della
libertà, fra l'intelligenza che può conoscere il vero bene, e la
volontà che lo vuole: la prima dovrebbe fornire alla seconda la
chiarezza degli orizzonti possibili, anche se è solo la volontà li-
bera che elegge la meta verso cui il soggetto si autodestina. La
libertà in tal senso è un atto di «giudizio voluto», una «scelta
consapevole», e solo in quanto tale è forma ed espressione della
responsabilità morale: il movimento esodale per il quale la li-
bertà si fa «dimora» nel suo oggetto, e quello di ritorno, per
il quale l'oggetto voluto abita il soggetto, in quanto ne deter-
mina il comportamento e ne condiziona la realizzazione, costi-
tuiscono inscindibilmente il dinamismo della libertà come ethos,
e nella loro realizzazione autentica, che si manifesta nella sto-
ria della libertà come liberazione e compimento della persona,
fondano l'ethos della libertà.
La rivelazione biblica della libertà specifica i caratteri di que-

301
sto ethos: in quanto buona novella dell'eternità entrata nel tempo
per dimorarvi e per accoglierlo in sé, il vangelo è originariamente
«vangelo della libertà». La libertà che esso proclama è anzitut-
to quella del Dio che è così originariamente libero da sé, da es-
sere costitutivamente dono di sé all'altro, comunione di amore
dei Tre e loro apertura verso l'alterità creata, nell'atto della con-
tinua creazione e nella storia della redenzione e ricapitolazione
di tutte le cose in Cristo. Questa libertà divina viene partecipa-
ta agli uomini per la stessa gratuita autocomunicazione della vita
trinitaria: la grazia è libertà donata, sorgente di vita nuova nel-
l'alleanza con Dio, nella sequela del Signore Gesù, nell'espe-
rienza vivificante dello Spirito. «Cristo ci ha liberati perché re-
stassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di
nuovo il giogo della schiavitù... Voi infatti, fratelli, siete stati
chiamati a libertà» (Gal 5,1 e 13). In quanto liberati, i credenti
sono chiamati a libertà: la loro «dimora» nella libertà donata
si deve esprimere nell'esercizio della libertà continuamente ac-
colta e testimoniata.
Questo «ethos della libertà» è anzitutto libertà dal peccato,
dalla morte e dalla legge (cf. ad esempio Rm 6,18; Col l,13s
e 2,12-14; ICor 15,56; Gal 5,18); è il nuovo essere dell'uomo
in Cristo e nello Spirito, che diventa libertà per appartenere
incondizionatamente a Dio e servire la causa del Regno: «libe-
ro nel Signore» (cf. ICor 7,22), il credente è «servo della giu-
stizia» (cf. Rm 6,18), servo di Dio e del prossimo nell'esercizio
della carità. «Chiamati a libertà... mediante la carità siate a ser-
vizio gli uni degli altri» (Gal 5,13). «Libero da», «libero per»,
il cristiano è libero nella verità, che gli fa conoscere la sua vera
patria e gli dona di conseguirla nella pazienza del divenire: «Se
rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli;
conoscerete la verità e la verità vi farà liberi... se dunque il Fi-
glio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (Gv 8,32.36). L'ethos
evangelico della libertà è pertanto l'incondizionato appartene-
re a Dio per Cristo nello Spirito Santo, che si traduce nell'esi-
stenza dell'uomo liberato dalla schiavitù del peccato e dell'an-
goscia prodotta dalla morte e dalla Legge, e reso libero per ser-
vire gli altri nella giustizia e nella carità. La libertà del cittadi-
no del Regno (èXeu^egta: cf. ad esempio Gal 5,13) si congiun-
ge all'audacia del testimone (iraggrjata: cf. 2Cor 3,12; l T m
3,13): l'essere affrancato in Cristo, diviene la sorgente di una
vita vissuta nella libertà e nel coraggio dell'amore.

302
c) La decisione e la perseveranza

La libertà consapevole è condizione di possibilità dell'atto,


in cui storicamente viene a realizzarsi l'orientamento della per-
sona al dono dell'eternità entrata nel tempo: questo atto, in cui
si compie l'incontro salvifico dell'uomo con la grazia, è la deci-
sione morale M. La decisione nasce dall'impatto fra l'apertura
trascendentale della coscienza e della libertà e la concreta fini-
tudine propria della situazione storica, in cui si è posti: nella
tensione fra l'infinito, che è dentro di sé come chiamata ad uscire
da sé, ed il finito, che è fuori di sé come offerta ad entrare nel
mondo dell'interiorità, la persona agisce solo in quanto decide,
in quanto cioè delimita con un inevitabile taglio la vastità delle
possibilità astratte, e si orienta a realizzare una possibilità con-
creta. Lo stesso non decidere è in realtà un decidere, perché
tronca con la possibilità concreta a favore di una sospensione
nell'ambito delle possibilità astratte. Frutto dunque dell'incontro
della finitudine storica con l'auto trascendenza personale, ed in-
sieme della ineliminabile tensione dell'interiorità trascendentale
ad esprimersi e realizzarsi nell'esteriorità trascendente, la deci-
sione implica il coinvolgimento tanto della coscienza, quanto
della libertà, nella valutazione e deliberazione intorno alle pos-
sibilità di scelta e nell'esecuzione dell'orientamento prescelto.
E insomma la persona nella totalità delle sue componenti che
esprime e realizza se stessa nell'atto della decisione morale.
È a questo soggetto storico integrale che si rivolge, secondo
la fede ebraico-cristiana, l'Eterno che entra nel tempo chiamando
l'uomo alla decisione, che la grazia ha preparato in lui, e che
tuttavia nessuno potrà prendere al suo posto: «Vedi, io pongo
oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché
io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare
per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue
norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti
benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in posses-
so» (Dt 30,15s). «In verità Mosè fu fedele in tutta la sua casa
come servitore, per rendere testimonianza di ciò che doveva es-
sere annunziato più tardi; Cristo, invece, lo fu come figlio co-
61
Cf. J. Fuchs, Situation und Entscheidung, Freiburg 1952; K. Rahner, Il proble-
ma di un'etica formale, in Id., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma 1965, 467-495;
H. Reiners, Grundintention und sittliches Tun, Freiburg 1966; J. Splett, Der Memch
in seiner Vreibeit, Mainz 1967.

303
stituito sopra la sua propria casa. E la sua casa siamo noi, se
conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo. Per que-
sto, come dice lo Spirito Santo: Oggi, se udite la sua voce, non
indurite i vostri cuori come nel giorno della ribellione, il giorno
della tentazione nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri
mettendomi alla prova, pur avendo visto per quarant'anni le mie
opere» (Eb 3,5-9).
Il processo della decisione si compie dunque in risposta al-
l'iniziativa della grazia che chiama l'uomo ad accogliere e vive-
re il dono dell'avvento nella concretezza della sua condizione
esodale: esso si pone perciò non solo nel campo di tensione fra
l'illimitata apertura trascendentale dello spirito umano e la con-
creta determinatezza delle possibilità storicamente situate, ma
anche nella relazione fra l'eternità e il tempo, percepita dalla
coscienza e vissuta dalla libertà come rapporto fra ciò che è ul-
timo ed assoluto e ciò che è penultimo e relativo. L'esatta deci-
frazione delle esigenze dell'ultimo sul penultimo e dell'identi-
ficazione nella complessità della situazione concreta della scel-
ta più corrispondente all'azione ed alla chiamata della grazia è
il compito del discernimento etico, al servizio della coscienza
responsabile e libera nella decisione morale. Proprio in quanto
atto storico, situato nella complessità e nella sofferenza del di-
venire personale e sociale, il discernimento è spesso causa di tra-
vaglio ed incertezza sul piano etico: se, infatti, il riferimento
ultimo alla «dimora» ed alla «patria» nel Dio vivente può essere
sempre richiamato sulla base dell'oggettiva verità della rivela-
zione e della fede, l'interpretazione del «costume» ad esso cor-
rispondente nella prassi concreta può essere faticosa o oscura,
affidata com'è necessariamente alla valutazione soggettiva. Il
dibattito vissuto dall'etica teologica intorno ai vari possibili si-
stemi morali relativamente al giudizio di coscienza 62 , nasce ap-
punto dal conflitto fra la radicalità dell'esigenza etica, fondata
nell'ethos della libertà donata, e l'incertezza della sua realizza-
zione concreta nella mutevolezza e complessità delle situazioni
vitali. In questo conflitto la certezza morale è spesso non asso-
luta, ma relativa: «Negli atti umani, sui quali si fanno giudizi
e si esigono testimonianze, non si può avere una certezza dimo-
strativa, in quanto riguardano realtà contingenti e variabili. E

62
Cf. D. Capone, Sistemi morali, in Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Mila-
no 1990, 1246-1254, con bibliografia.

304
perciò sufficiente una certezza probabile (probabilis certi-
tudo)»".
Di fronte alla tensione implicata nell'elaborazione del giu-
dizio morale, l'etica della situazione risolve il conflitto abolen-
do semplicemente il riferimento al termine assoluto ed oggetti-
vo di essa: così facendo, però, essa si pone inevitabilmente co-
me il corrispondente morale delle antropologie dell'identità as-
soluta o del nichilismo radicale, che negano l'incontro, caratte-
ristico dell'antropologia ebraico-cristiana, dell'identità e della
differenza nel mistero di grazia dell'eternità entrata nel tempo.
Il problema della decisione sta proprio nel non evitare il salto
fra la verità morale teoricamente pratica e la verità morale pra-
ticamente pratica: e questo avviene solo lì dove nessuno dei due
poli è assolutizzato, ma, prendendo fino in fondo sul serio la
buona novella dell'ingresso dell'Eterno nella storia, ci si sforza
di cogliere nella verità la mediazione storica esigita dal dono
divino. Se il rigorismo dei sistemi che difendono l'ordine mo-
rale oggettivo, esigendo nel dubbio di optare sempre e solo per
la parte più sicura {tutior velprobabilior vel certa: tuziorismo e
probabiliorismo), sacrifica la necessaria mediazione della respon-
sabilità personale di fronte a Dio ed alla storia64, il forte ri-
chiamo all'istanza della soggettività ed alla conseguente libertà
del soggetto di determinare il giudizio di coscienza, proprio dei
sistemi cosiddetti probabilistici (qui probabiliter agit, pmdenter
agit), rischia di trasferire nell'ambito della decisione morale il
protagonismo antropologico delle varie forme di pelagianesi-
mo65. In realtà, il conflitto dei sistemi rivela la tensione più pro-
fonda fra l'oggettivismo classico e il soggettivismo emergente nella
modernità. Se si riconosce in questa tensione storica l'esaspera-
zione e la deviazione del rapporto soggetto-oggetto presente in
ogni comportamento etico, non si faticherà ad individuare nella
prospettiva personalistica la via di superamento della questione,
che è stata alla base dell'elaborazione dei «sistemi morali».
63
Cf. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II q. 70 a. 2 e: «In actibus enim
humanis, super quibus constituuntur iudicia et exiguntur testimonia, non potest habe-
ri certitudo demonstrativa: eo quod sunt circa contingentia et variabilia. Et ideo suffi-
cit probabilis certitudo».
64 Cf. la condanna del rigorismo da parte di Alessandro Vili: DS 2303.
65
Cf. ad esempio la formula classica del probabilismo, proposta da Bartolomeo
de Medina, In II-II, XIX, 6, Venezia 1590, 179a: «Si est opinio probabilis, licitum est
ea sequi, licet opposita probabìlior sit». E cf. la condanna del lassismo morale — che
facilmente può derivare da una concezione giuridistica della probabilità — da parte
di Innocenzo XI: DS 2103.

305
Questa via — proposta dal realismo sapienziale e prudente
di sant'Alfonso de Liguori66 — riconosce nella decisione mo-
rale un atto della persona, che come tale vi è implicata in tutta
la ricchezza delle sue componenti di interiorità e di esteriorità,
oltre che come partner libero e consapevole dell'alleanza con
Dio, prodotta dalla grazia. Se nel giudizio di coscienza è in gio-
co la persona, la gloria dell'Eterno non si celebrerà in esso con
la semplice esecuzione della legge oggettiva, che rischia di re-
stare esterna alla coscienza personale, né con la frammentarie-
tà degli atti, lasciati all'arbitrio della soggettività, ma con la pie-
nezza di una vita personale, in cui il dono divino è accolto nella
fede e nell'ascolto orante, ed ogni scelta è vissuta nella relazio-
ne dialogica ed amorosa col Dio vivente e col prossimo ed è aperta
nella speranza alla continua trascendenza del cuore verso la per-
fezione della carità eterna. Ciò che emerge in primo piano è l'e-
sigenza che la decisione morale favorisca la crescita della perso-
na intera nella comunione con l'Altro, e si situi non come pa-
rentesi, ma come tappa nella storia unitaria dello sviluppo inte-
grale del suo essere umano e della sua condizione di nuova crea-
tura. Agire secondo la legge o autodeterminarsi in situazioni di
dubbio non si misurano allora come atti isolati, ma come espres-
sioni dell'esistenza redenta della persona, impegnata a vivere
la totalità del proprio cammino come sequela del Cristo, espe-
rienza sempre più profonda dell'accoglienza dell'eternità della
grazia entrata nel tempo.
È in questa prospettiva che l'atto della decisione morale si
collega alla continuità della storia personale e la libera e consa-
pevole accoglienza del dono di Dio viene ad esprimersi nel do-
no della perseveranza: in quanto la grazia è il processo eterno
della vita divina entrato nel processo temporale della condizio-
ne umana, l'esistenza redenta non è la somma dei singoli istan-
ti di decisione, ma l'evolversi continuo e sempre nuovo dell'op-
zione fondamentale per Dio, Mistero del mondo, rivelato a noi
nel suo Cristo. Questa evoluzione si attua nella successione delle
opere e dei giorni, in cui si esprime nello splendore dell'esterio-
rità l'identità profonda ed unitaria dell'essere personale. Ecco
perché al dono della grazia, inizio della fede e dell'ethos della
libertà redenta, la tradizione teologica e spirituale ha sempre
66
Cf. L. Vereecke, Da Guglielmo d'Ockham a sant'Alfonso de Liguori. Saggi di
storia della teologia morale moderna, Milano 1990; M. Vidal, Frente al rigorismo moral,
benignidad pastora!. Alfonso de Liguori, Madrid 1987.

306
associato il dono della perseveranza: «Chi persevererà sino alla
fine sarà salvato» (Mt 10,22 = 24,13; cf. Lc 21,19; Rm 2,7;
Gal 6,9; Gc 5,11). Frutto dell'azione divina, operante nel cuo-
re dell'uomo che liberamente l'accoglie (cf. lCor 1,8; lTs 5,23),
la perseveranza irradia nel tempo la radicalità, con cui il Dio
dell'evangelo si è fatto compagno fedele dell'uomo nella sua sto-
ria, e mostra come gli umili giorni di un'esistenza umana ordi-
naria possano divenire anticipo d'eterno: «Colui che ha inizia-
to in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al
giorno di Cristo Gesù» (Fil 1,6). Se la gra2Ìa non tocca solo l'atto,
ma il cuore da cui esso proviene, l'ultima profondità cioè della
coscienza e della libertà dell'essere personale, la sua azione è
sì «evento», «istante» ed «oggi» sempre di nuovo qualificati dal-
l'opera divina, ma è anche e radicalmente «durata», che dà ra-
gione dell'umanità e della solidarietà del Dio vivente con la sua
creatura nell'unità di tutti i tempi della sua storia67. Nella per-
severanza l'orientamento della persona a Dio diventa stabilità
nell'alleanza, fedeltà dell'uomo edificata sul fondamento della
fedeltà divina, storia della salvezza, che continua ad attuarsi nelle
umili e quotidiane storie del mondo...

8.3. L'ANTICIPAZIONE

a) La vita eterna

Il dono dell'eternità nel tempo, accolto dalla libera e consa-


pevole decisione dell'uomo, suscitata e sostenuta dalla grazia
del Dio vivo, si esprime nella fedeltà dei giorni vissuti nella per-
severanza, vera anticipazione della gloria promessa, inizio del-
la vita eterna^ nella fragilità della vita mortale. La vita eterna
nella concezione del Nuovo Testamento non è solo la vita futu-
ra del tempo in cui, al di là della condizione mortale, l'uomo
sarà pienamente in Dio e Dio sarà tutto in tutti (cf. lCor 15,28):
essa è già l'anticipazione di questo futuro nel presente raggiun-
67
Circa il valore della redenzione dell'istante e della durata rispettivamente nel-
la teologia della storia di Agostino e Gioacchino da Fiore cf. B. Forte, Teologia della
storia, o.c, 19ss.
68
Sulla concezione biblica della vita eterna, come vita nel tempo e nell'eternità,
cf. ad esempio I. de la Potterie - S. Lyonnet, La vita secondo lo Spirito, condizione del
cristiano, Roma 1967.

307
to e trasformato dalla grazia, anche se la fatica del divenire sto-
rico riserva al domani della promessa quello che oggi è solo in-
coativamente presente. Si può dire che la visione biblica della
vita è caratterizzata dalla tensione fra il «già» e il «non anco-
ra», che deriva dal fatto che l'eternità è già entrata nel tempo
in forza della gratuita autocomunicazione di Dio alla creatura,
ma il tempo non è ancora pienamente entrato nell'eternità, co-
me sarà secondo la promessa dischiusa dalla resurrezione di Cristo
e che si va compiendo nella storia per l'azione dello Spirito Santo.
Già nel Gesù prepasquale il duplice atteggiamento nei con-
fronti della vita è presente: da una parte, il Nazareno mostra
una straordinaria sollecitudine verso la vita, che è dunque rive-
lata come un bene offerto all'uomo, da custodire e promuove-
re. Guarigioni di ammalati, resurrezioni di morti, compassione
per la folla stanca ed affamata (cf. ad esempio Mc 1,33; 3,4;
Mt 8,16) mostrano con evidenza questo amore del Profeta gali-
leo per la vita, che culmina nella sua stessa angoscia e tristezza
davanti all'approssimarsi della morte (cf. Mc 14,33). Ai disce-
poli Gesù affida il mandato di servire e promuovere la vita (cf.
ad esempio Mt 10,8). D'altra parte, però, l'avvento del Regno
è per il Nazareno richiamo imperioso a relativizzare il valore
assoluto della vita presente, misurandone la reale dignità e con-
sistenza sul futuro di Dio, che entra nell'oggi degli uomini: «Se
qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda
la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita,
la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del
vangelo, la salverà. Che giova infatti all'uomo guadagnare il mon-
do intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe
mai dare un uomo in cambio della propria anima?» (Mc 8,34-37).
Il valore della vita che già si possiede in quanto dono di Dio
è dunque fino in fondo misurato solo sulla promessa della vita
non ancora pienamente partecipata all'uomo, e tuttavia a lui pro-
messa nella sequela di Cristo e nell'accoglienza del veniente Re-
gno di Dio.
La tensione fra già e non ancora per la comprensione dell'e-
sistenza personale è approfondita nella luce pasquale dalla Chiesa
nascente: la vita dei redenti, salvati per grazia, è già vita nuova
in Cristo, ed è insieme escatologicamente determinata, in quanto
aperta ed orientata al futuro del pieno compimento delle pro-
messe di Dio. La tensione escatologica dell'esistenza redenta è
evidenziata sin dalle prime testimonianze della comunità cri-

308
stiana: «Vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per
servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che
egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall'ira ventu-
ra» (lTs l,9s). Anche il quarto Vangelo, che usa frequentemente
il termine vita (f WT): trentasei volte), di preferenza per indicare
la novità della vita eterna partecipata agli uomini nel tempo dalla
grazia, sottolinea la tensione escatologica del vivere cristiano:
«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio uni-
genito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la
vita eterna» (Gv 3,16). «In verità, in verità vi dico: è venuto
il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Fi-
glio di Dio, e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno» (Gv 5,25).
La vita eterna comincia tuttavia già nel tempo presente per chi
accoglie il dono dell'avvento: essa è la vita divina, già oggi par-
tecipata al credente in Cristo: «Chi crede nel Figlio ha la vita
eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira
di Dio incombe su di lui» (Gv 3,36). «Come il Padre risuscita
i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole...
In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a
colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro
al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,21.24).
È dunque l'incontro sacramentale con Cristo che fa entrare già
ora nella vita eterna: «Io sono il pane della vita; chi viene a me
non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete... Io sono
il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane
vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita
del mondo» (Gv 6,35.51).
Che il presente vissuto nella signoria di Cristo sia vita nuo-
va in Dio, partecipazione al mistero della vita trinitaria, risulta
anche dalla testimonianza di Paolo: «Io piego le ginocchia da-
vanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra
prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua
gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell'uomo
interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così,
radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con
tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la pro-
fondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni cono-
scenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio. A colui
che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo do-
mandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi,
a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le genera-

309
zioni, nei secoli dei secoli! Amen» (Ef 3,14-21). In rapporto a
Dio Padre e per mezzo del Figlio Gesù Cristo la vita nuova del
cristiano, attuata nello Spirito Santo, datore di vita, è vita se-
condo lo Spirito: «È lo Spirito che dà la vita» (Gv 6,63). «La
legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dal-
la legge del peccato e della morte... Quelli infatti che vivono
secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece
che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito... Voi non
siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momen-
to che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spi-
rito di Cristo, non gli appartiene... Tutti quelli infatti che sono
guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8,2.
5.9.14).
Anche sul piano direttamente personale Paolo dà testimo-
nianza della nuova vita, nutrita dalla partecipazione al mistero
divino: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla subli-
mità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale
ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spaz-
zatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui,
non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella
che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva
da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere
lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue
sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speran-
za di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,8-11). Colui
in cui si incontrano personalmente il già e il non ancora della
vita e dal quale la tensione fra di essi si comunica all'uomo co-
me vita nuova in Dio, è il Cristo, Verbo della vita: «In lui era
la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4). Perciò è cre-
dendo in lui che la persona accoglie l'eternità nel tempo ed en-
tra nella vita, oggi nel tempo del pellegrinaggio, domani nella
piena realizzazione del Regno: «Io sono la risurrezione e la vi-
ta; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e cre-
de in me, non morrà in eterno» (Gv ll,25s). «Io sono la via,
la verità, la vita» (Gv 14,6).
La vita nel tempo è dunque per il credente già esperienza
di eternità, anche se sotto il segno opaco e doloroso della croce
del divenire: ed è questo essere con Dio nel dialogo dell'allean-
za e negli eventi della grazia, che fa sperare nella vita eterna
al di là della morte come futuro e definitivo essere con il Signo-
re (cf. ad esempio l T s 4,17). La fede nell'immortalità persona-

310
le si fonda sulla certezza della fedeltà del Dio vivente al patto
di vita da lui stretto con l'uomo: se l'eternità è entrata nel tem-
po, non è certo perché il tempo precipiti nel nulla, ma perché
la storia entri alla fine nella gloria della vita senza tramonto é9.
E la totalità dell'essere personale che è chiamata a partecipare
della gloria divina, come è la totalità dell'essere personale che
entra nella grazia dell'alleanza: in tal senso, se è legittimo par-
lare di «anima» per designare la permanenza dell'identità per-
sonale anche nello stato dell'«escatologia intermedia» fra mor-
te e compimento finale, non bisogna mai oscurare l'annuncio
decisivo per la fede cristiana della resurrezione della carne. Che
i corpi risorgano nella gloria futura è garantito dalla stessa re-
surrezione corporea del Signore Gesù, primizia e pegno per tutti,
e dimostra la dignità e il valore che l'antropologia teologica at-
tribuisce alla condizione fisica della persona umana: non meno
che l'interiorità del soggetto libero e consapevole, la sua este-
riorità — in cui risplende nella corporeità il mistero del suo es-
sere ed in cui si stabiliscono le relazioni di comunione e di co-
municazione vitale — è destinata a partecipare della vita eter-
na. Nessun disprezzo del corpo è ammissibile in nome della fe-
de cristiana, come nessuna alienazione consolatoria, che proietti
dualisticamente nel futuro le gioie negate nel presente. Il già
della vita eterna non elimina il non ancora, ma d'altra parte il
non ancora della speranza non nega la dignità e la consistenza
del già.

b) Il lavoro
Nella prospettiva della piena valorizzazione cristiana della
vita si può tentare un'interpretazione teologica di quell'attivi-
tà umana, rivolta alla trasformazione del presente in rapporto
alla progettualità prossima e remota della persona ed alla cre-
scita della comunità, che è il lavoro70. La rivelazione biblica,
65
Cf. sui temi dell'escatologia individuale e collettiva B. Forte, Teologia della sto-
ria, o.c, 310ss.
70
Cf. A. M. Baggio, Lavoro e cristianesimo. Profilo storico e problemi, Roma 1988;
G. Campanini, Cristianesimo e lavoro, Bologna 1976; M.-D. Chenu, Ver una teologìa
del lavoro, Roma 1964; Il lavoro, 3 voli., a cura di A. Caprioli - L. Vaccaro, Brescia
1983-1987; Lavoro e riposo nella Bibbia, Napoli 1987; M. Riber, Il lavoro nella Bibbia,
Roma 1969; Per una teologia del lavoro nell'epoca attuale, Bologna 1985; K. V. Trafi-
lar, // lavoro cristiano. Per una teologia del lavoro, Roma 1966. Cf. pure l'enciclica di
Giovanni Paolo II Laborem exercens, del 14 settembre 1981.

311
col presentare l'idea del lavoro e del riposo del Dio creatore (cf.
Gen 1), mette in luce il valore e la dignità specifica dell'attività
lavorativa degli uomini, immagine di quella divina: «Dio creò
l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e
femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi
e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui
pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra"» (Gen l,27s). Al compito di governare
la terra, si congiunge quello di custodirla come un giardino: «Il
Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, per-
ché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). Il rapporto fra l'uo-
mo e l'universo è caratterizzato dal fatto che è lui a dare il no-
me alle creature, inserendole cosi nel suo mondo personale e
in certo modo entrando in comunione con esse: «Allora il Si-
gnore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tut-
ti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come
li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiama-
to ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo no-
me» (Gen 2,19).
Con il dramma della colpa uno squilibrio si inserisce in tut-
ti i rapporti, anche in quello fra l'uomo e il cosmo (cf. Gen
3,17-19): il lavoro assume gli aspetti di fatica e precarietà, che
lo caratterizzano nella storia, e diviene l'oggetto di un precet-
to, da assolvere come dovere morale. Questo lavoro faticoso è
però fatto proprio dal Figlio di Dio incarnato, che dona così
nuova dignità al lavoro umano: pur richiamando il profondo
orientamento e la necessaria subordinazione a Dio e al suo fu-
turo di ogni attività umana (cf. Mt 6,25.31s.33; Gv 6,27), il
Nuovo Testamento evidenzia il lavoro come esigenza etica, da
vivere come valore con piena responsabilità: «Quando erava-
mo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavora-
re neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di vói vivono
disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A
questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di
mangiare il proprio pane lavorando in pace» (2Ts 3,10-12; cf.
lTs 2,9; ICor 9,1-12). Dal momento che l'eternità è entrata
nel tempo, il tempo va vissuto in pienezza, con vigile impegno
e saggezza: «Vigilate dunque attentamente sulla vostra condot-
ta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; profit-
tando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi» (Ef 5,15s).
Secondo la testimonianza biblica, dunque, il lavoro è radicato

312
nel mistero stesso del Dio vivente ed è stato partecipato all'uo-
mo perché in esso si esprimesse e portasse a compimento la rea-
lizzazione di sé nel mondo secondo il comando divino. Anche
dopo il peccato, pur assumendo aspetti di fatica e di resistenza
spesso tragica ed alienante, il lavoro conserva la sua dignità ori-
ginaria, che viene riproposta e resa possibile in modo nuovo dal
lavoro del Figlio di Dio e dal dono della sua grazia.
In questa luce, è possibile cogliere nel lavoro un triplice aspet-
to: anzitutto, in rapporto al protagonismo del soggetto storico,
il lavoro è l'attività con la quale la persona interviene sulla tra-
sformazione della realtà, per conformarla al suo progetto di au-
torealizzazione, in costante relazione e dialogo con la colletti-
vità umana. In quanto tale, il lavoro è il processo mediante cui
la natura è trasformata in storia, perché è raccordata alla co-
scienza ed alla libertà dell'essere personale, che, situandosi nel
divenire, produce nuovi rapporti e modifica il mondo degli og-
getti. In quanto produzione, il lavoro è originariamente via di
affermazione ed edificazione dell'io, e perciò componente in-
dispensabile della storia della persona e della vita della comuni-
tà. In tal senso, anche nei cieli nuovi e nella terra nuova della
promessa non mancherà il lavoro: «Ecco infatti io creo nuovi
cieli e nuova terra... Fabbricheranno case e le abiteranno, pian-
teranno vigne e ne mangeranno il frutto. Non fabbricheranno
perché un altro vi abiti, né pianteranno perché un altro mangi,
poiché quali i giorni dell'albero, tali i giorni del mio popolo.
I miei eletti useranno a lungo quanto è prodotto dalle loro ma-
ni» (Is 66,17.21s).
In quanto implica il rapporto del soggetto all'altro da sé,
con tutto lo spessore della diversità e della resistenza che ne
consegue, il lavoro presenta un secondo aspetto: esso è fatica,
lotta, superamento della resistenza, e, nel mondo dei rapporti
interpersonali, possibilità di dipendenza e di sfruttamento, ri-
schio permanente di alienazione. Di fatto, la possibilità di iden-
tificazione della persona col proprio lavoro è praticamente ine-
sistente per un numero enorme di esseri umani, che, nelle varie
forme del lavoro dipendente, esercitando ruoli subalterni, spesso
solo esecutivi, disarticolati e monotoni, si sentono e sono og-
getto, più che soggetto del proprio lavoro. Il lavoro pianificato
in vista del solo profitto dei pochi aggrava il rischio di aliena-
zione, producendo situazioni di frustrazione eticamente inso-
stenibili.

313
Ecco perché il rapporto soggetto-oggetto nell'ambito del la-
voro va collocato nella più ampia rete delle relazioni umane, che
fanno la comunità, e va situato nella storia integrale dello svi-
luppo della persona in comunione: secondo questo terzo aspet-
to, propriamente personalistico-sociale, il lavoro esige un ethos,
che da una parte impegni la responsabilità personale e colletti-
va in vista di una partecipazione attiva e consapevole di tutti
alla costruzione della casa comune, dall'altra stimoli la solida-
rietà verso i più deboli e l'attenzione ad essa connessa agli aspetti
della qualità della vita per tutti, sul piano dei rapporti interna-
zionali come su quello delle relazioni fra classi sociali71. Que-
sto «ethos della responsabilità e della solidarietà» nel campo del
lavoro supera la semplice etica dell'intenzione, che fonda la mo-
ralità degli atti unicamente dalla parte della rettitudine della
coscienza soggettiva, senza adeguatamente considerare gli ef-
fetti che essi producono nella storia e nella società o le situazio-
ni di dipendenza che essi contribuiscono a mantenere o ad ag-
gravare. La solidarietà in gioco non è solo quella del lavoro, che
lega fra loro quanti vivono il medesimo tipo di attività lavorati-
va, ma anche quella con il lavoro, cioè con ogni uomo che lavo-
ra in ogni possibile situazione al di là di ogni corporativismo
e classismo, e quella nel lavoro, che fa dei lavoratori nel loro
insieme l'interlocutore responsabile, costruttivo e senza fron-
tiere, di quel datore di lavoro indiretto, che è l'insieme delle
persone, delle istituzioni, delle agenzie di potere politico ed eco-
nomico, dei meccanismi di dipendenza, che condizionano di fatto
il sistema socio-economico e rendono in certa misura seconda-
rio il datore di lavoro diretto 72 .
Il fondamento ultimo di questo «ethos del lavoro» è ricono-
sciuto dalla fede cristiana nel rapporto stabilito fra il Dio trini-
tario e la storia dall'ingresso dell'eternità nel tempo: misuran-
dosi sulla «dimora» e sulla «patria», che è l'orizzonte divino par-
tecipato agli uomini, l'attività trasformatrice del lavoro umano
acquista i criteri che le sono necessari per mettere al centro tut-
to l'uomo ed ogni uomo, nello sviluppo integrale della persona
e della collettività. «L'attesa di una terra nuova non deve inde-
bolire, ma piuttosto stimolare la sollecitudine relativa alla tra-
sformazione della terra presente, dove cresce quel corpo della
71
Cf. la Laborem exercens, cit., n. 8 e le encicliche Sollicitudo rei socialis, del 30
dicembre 1987, e Centesimus annus, del 1° maggio 1991, sempre di Giovanni Paolo II.
72
Cf. Laborem exercens, n. 17.

314
nuova famiglia umana, che già riesce ad offrire una certa prefi-
gurazione del secolo futuro. Pertanto, benché si debba accura-
tamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del re-
gno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a
meglio ordinare la società degli uomini, questo progresso è di
grande importanza per il regno di Dio»73. Umanizzare il mon-
do è servire la causa del Signore, che vi è entrato e vi opera
in vista della finale ricapitolazione di tutte le cose in Dio: il la-
voro, vissuto con l'ethos della solidarietà responsabile, è cresci-
ta del tempo in direzione dell'eternità, che il cristiano può vi-
vere come esperienza, liberamente donatagli dalla grazia, di cre-
scita del dono dell'eternità nel tempo.

e) La gioia

L'anticipazione della vita eterna non coinvolge però solo la


dimensione dell'attività produttiva, espressa nel lavoro e signi-
ficata dall'opera, ma anche quella della fruizione, al tempo stesso
attiva e passiva, dell'amore con cui Dio ci ama. Questa espe-
rienza, frutto della grazia e trasparenza dell'incontro dell'eter-
nità col tempo, è la gioia dell'esistenza redenta 74 . Secondo la
testimonianza biblica la gioia nasce dal riconoscimento dei do-
ni divini, che abbracciano i beni della vita terrena, le meravi-
glie della salvezza e l'attesa gioiosa suscitata dalla promessa mes-
sianica. «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioi-
scono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si
gioisce quando si spartisce la preda» (Is 9,2; cf. 16,10). «Non
c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersela nelle
sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle
mani di Dio» (Qo 2,24).
Per la fede d'Israele queste gioie terrene sono conseguenza
della fedeltà all'alleanza: «Se tu obbedirai fedelmente alla voce
del Signore tuo Dio... verranno su di te e ti raggiungeranno tutte
queste benedizioni: Sarai benedetto nella città e benedetto nella

73
Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contem-
poraneo Gaudium et Spes, 39. Cf. pure l'intero capitolo III della Costituzione, dedica-
to all'attività umana nell'universo.
74
Cf. N. Beaupère, Saint Paul et la jote, Paris 1973; W. G. Morrice, «Joy» in
the New Testament, Exeter 1984. Cf. pure l'esortazione apostolica di Paolo VI, Gaude-
te in Domino, del 9 maggio 1975.

315
campagna. Benedetto sarà il frutto del tuo seno, il frutto del
tuo suolo e il frutto del tuo bestiame; benedetti i parti delle tue
vacche e i nati delle tue pecore. Benedette saranno la tua cesta
e la tua madia. Sarai benedetto quando entri e benedetto quan-
do esci» (Dt 28,1-6). Ancor più la gioia nasce davanti alle me-
raviglie che l'amore fedele del Dio salvatore opera nella storia
del suo popolo (cf. ad esempio Sai 78; 103; 105; 126), e davan-
ti alla grazia del perdono, che riconcilia il peccatore con l'Eter-
no: «Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai
spezzato. Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le
mie colpe. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me
uno spirito saldo... Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni
in me un animo generoso» (Sai 51,10-14). L'esperienza storica
della gioia, suscitata dal sapersi amati da Dio, si estende al-
la speranza della gioia messianica: l'annunzio della futura re-
denzione è un invito alla gioia (cf. Sof 3,14; GÌ 2,21.23; Lam
4,21), ed essa sarà «letizia e gioia, per sempre» (Bar 4,23). La
stessa città santa sarà gioia per i suoi figli (cf. Is 65,18s;
66,10.14).
Questa gioia è proclamata in maniera nuova e definitiva dalla
buona novella dell'avvento del Dio con noi: «Non temete, ecco
vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi
vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Si-
gnore» (Le 2,10s: cf. il costante ritorno del tema della gioia in
Le 1-2). È la gioia del perdono e della vita nuova (cf. ad esem-
pio Le 15,6s.9s.22-24 e 32), è la gioia che si può vivere perfino
nella sofferenza, se si è uniti a Colui che ne è la sorgente e la
causa: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e,
mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa
mia. Rallegratevi ed esultate^ perché grande è la vostra ricom-
pensa nei cieli» (Mt 5 , l l s ) . È la gioia connessa con l'«ora» di
Cristo, il suo mistero pasquale: «Così anche voi, ora, siete nella
tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà
e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22s). È la
gioia del sapere di dimorare nell'amore del Padre e del Figlio:
«Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amo-
re, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e ri-
mango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia
sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,10s). E la gioia
da chiedere ed invocare nella preghiera: «Se chiederete qualche
cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete

316
chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vo-
stra gioia sia piena» (Gv 16,23s).
L'incontro col Risorto comunica questa gioia (cf. Gv 20,20),
che accompagna la vita e la missione del cristiano (cf. Le 24,52):
anche nella prova e nella persecuzione i discepoli restano «pie-
ni di gioia e di Spirito Santo» (At 13,52). In modo particolare,
la gioia di sapersi amati da Dio si fa presente grazie all'azione
del Consolatore in coloro che accolgono la parola e si fanno imi-
tatori dell'Apostolo nella sequela di Cristo: «Voi siete diventa-
ti imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con
la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazio-
ne» (lTs 1,6). La gioia è un frutto dello Spirito (cf. Gal 5,22),
che consegue all'essere immersi nel mistero dell'amore trinita-
rio, sperimentato nella fede e sorgente di speranza: «Il Dio del-
la speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché
abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm
15,13). La «dimora» nella Trinità motiva il costante «costume»
della gioia, nutrito di preghiera e di azione di grazie: «State sem-
pre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie;
questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi»
(lTs 5,16-18). E a suscitare ed alimentare questo «ethos della
gioia» è destinato l'annuncio del vangelo trinitario: «Quello che
abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, per-
ché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunio-
ne è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scri-
viamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (lGv l,3s).
Frutto del dono libero e gratuito dell'autocomunicazione di-
vina75, esperienza del sapersi amati dalla Trinità e nella Trini-
tà, la gioia cristiana — tutt'altro che evasione consolatoria —
si coniuga alla carità nel portare con Cristo il peso della soffe-
renza, propria ed altrui: «Perciò siete ricolmi di gioia, anche se
ora dovete essere un po' afflitti da varie prove, perché il valore
della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destina-
to a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, glo-
ria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate,
pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Per-
ciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la
meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime» (lPt 1,6-9).

75
Cf. le belle riflessioni in tal senso di san Tommaso, Summa Theologiae II-II
q. 28 a. 1.

317
«E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul
sacrificio e sull'offerta della vostra fede, sono contento, e ne
godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e ral-
legratevi con me» (Fil 2,17s). L'antropologia cristiana, fondata
sulla piena rivelazione del mistero dell'eternità divina entrata
nel tempo fino all'abisso doloroso della Croce, è segnata costi-
tutivamente dalla gioia, che, nell'incontro con il Risorto attua-
to nelle diverse situazioni storiche dallo Spirito Santo, anticipa
e pregusta la gioia finale dell'ingresso del tempo nell'eternità:
«Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato
fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del
tuo Signore» (Mt 25,21 e 23). Dove la differenza del Trascen-
dente visita l'identità per pura gratuità d'amore, la noia della
presunzione totalizzante della ragione, senza futuro e senza sor-
presa, e la tristezza disperante del nichilismo, sono vinte nel
miracolo dell'alleanza. Perciò, la prima e l'ultima parola della
fede cristiana, su Dio come sull'uomo, resta «buona novella»,
annuncio che testimonia e trasmette nell'offerta della grazia la
gioia di sapersi amati dall'eternità e per l'eternità, e la libertà
di amare senza riserve, fino alla morte ed oltre la morte, nella
festa senza fine del Regno...

318
CUSTODIA

L'itinerario percorso ha voluto render ragione della speran-


za che il credente ha riguardo alla condizione ed al destino del-
l'uomo nel tempo (cf. lPt 3,15). In dialogo con le opposte visio-
ni del trionfo ideologico dell'identità e del nichilismo dell'asso-
luta differenza, la riflessione si è concentrata sul rapporto fra l'e-
ternità e la storia, rivelato nel mistero dell'avvento divino nel-
l'esodo umano, lì dove l'Eterno ha avuto tempo per l'uomo, per-
ché questi potesse a sua volta pregustare la vita divina ed entrare
sempre più pienamente nella gloria promessa. Questo incontro del-
l'eternità e del tempo è salvezza per l'uomo ed ha il nome, nel
quale si concentrano tutte le vie e tutte le opere del Dio vivente:
Gesù Cristo, grazia per il mondo, somma e cuore dell'evangelo.
Pensare il miracolo di questa grazia, che lo Spirito attualiz-
za in ogni ora del tempo, e riproporlo come messaggio piena-
mente significativo di vita e di speranza agli uomini, spesso de-
motivati, del nostro presente, è stato il compito e il desiderio
che ha animato il cammino. A conclusione di esso resta forte
la consapevolezza di non aver detto tutto, e soprattutto è più
chiara la coscienza dell'infinita trascendenza dell'oggetto, mi-
stero affidato alla libertà di Dio e dell'uomo ed avvolto nelle
profondità divine come nella sua ultima e vera custodia.
A questa divina custodia è però possibile rivolgersi nella for-
ma dell'invocazione: la parola cede il posto al canto, il ragiona-
mento alla confessione di fede e di speranza. Insieme al popolo
dei pellegrini di Dio è possibile far propria, con rinnovata con-
sapevolezza, la preghiera con cui la Chiesa invoca Colui che è
da sempre prima di lei, perché, Spirito creatore, venga come
grazia della nuova creazione ed effonda nel tempo la gioia e la
forza della libertà donata:
Veni Creator Spiritus,
mentes tuorum visita:

319
imple superna gratta
quae Tu creasti pectora.
Vieni, Spirito Creatore,
visita le menti dei tuoi:
colma di grazia dall'alto
i cuori che hai creato.
Venendo, lo Spirito di Dio entra fino in fondo nella pazien-
za del divenire e visita l'uomo nella totalità del suo essere per-
sonale, facendosi compagno e protagonista con lui dell'agonia,
che è la lotta della vita e il cammino della storia fino al compi-
mento del tempo:
Accende lumen sensibus,
infunde amorem cordibus,
infirma nostri corporìs
virtute firmans perpeti.
Illumina i nostri sensi,
infondi l'amore nei cuori,
i nostri corpi deboli
sostieni rafforzandoli.
Hostem repellas longius,
pacemque dones protinus;
ductore sic te praevio,
vìtemus omne noxium.
Scaccia lontano il nemico,
donaci sempre la pace:
così, con Te che guidi,
eviteremo il male.
E sarà lo Spirito, per la cui azione l'eternità sempre di nuo-
vo si fa presente ed operante nel tempo, che compirà anche il
dono supremo di introdurre il tempo nell'eternità divina, dove
i Tre sono Uno nell'eterno evento dell'Amore:
Per te sciamus da Patrem,
noscamus atque Filium,
teque utriusque Spirìtum
credamus omni tempore.
Tu ci dai di conoscere il Padre,

320
di riconoscere il Figlio
e di credere Te in ogni tempo
Spirito dell'uno e dell'altro. Amen! 1.

1
I I Veni Creatore attribuito a Rabano Mauro (t 856). La melodia gregoriana ri-
sale al secolo IX.

321
INDICE DEI NOMI

Acerbi A. 258. 212. 215. 260. 279. 280. 284.


Adnès P. 241. 285-292.
Adorno Th.W. 7. 16. Bartolomeo de Medina 305.
Agnoletto A. 163. Bastianel S. 135.
Agostino 55-59. 60. 63. 74. 89. 101. Baumgartner Ch. 88. 146.
102. 115. 116. 118.123. 128. 146. BaurJ. 160.
147. 150. 151. 152.155. 170. 171. Bausola A. 299.
177. 180. 190. 200. 207. 219. 228. Beaupère N. 315.
258. 271. 281. 282. 283. 297. Beauvoir S. de 18.
307. Beckmann J. 215.
Aland K. 215. Beek M.A. 44.
Alessandro di Hales 123. Belinskij V.G. 106.
Alessandro Vili 305. Beni A. 146.
Alfaro J. 112. 115. 120. 123. 255. Beraudy R. 210.
Allmen J.-J. von 223. 225. 237. Berdjaev N. 105. 106. 111.
Alszeghy Z. 26. 88. 96. 98. 104. 146. Berger K. 299.
231. Bernadot M.-V. 223.
Althaus P. 180. Bernard Ch.A. 26.
Ambrogio 137. 195. 213. Bernardo 167.
Ancilli E. 267. Bernasconi O. 135.
Angelini G. 248. Beschin G. 57.
Ardusso F. 112. Bethge E. 43. 139.
Aristotele 44. 69. 101. 116. 120. 121. Betz J. 223.
132. 134. 137. 138. 151. Biffi G. 146.
Askol'dov S. 105. Bizer E. 163.
Aubert R. 253. Blanchette C. 231.
Auer A. 135. Bloch E. 9. 11. 12. 14. 15. 256.
Auer J. 146. 197. 223. Blondel M. 115. 116.
Autiero A. 241. Bocassino R. 267.
Bòckle F. 248. 295.
Bodei R. 9.
Babolin A. 44.
Boelaars H. 198.
Baccarini E. 50.
Boezio 72. 73. 74.
Bacht H. 72.
Boff L. 26. 112. 146. 258.
Baggio A.M. 311.
Bogdahn M. 161.
Baio 99. 116.
Bonaventura 118. 123. 209.
Balthasar H.U. von 26. 258. 267. Bonhoeffer D. 43. 139. 258.
Banez D. 156. 185. Bonola G. 48.
Barauna G. 193. Bori P.C. 258.
Barth K. 17. 34. 35. 145. 154. 198.

323
Borobio D. 231. Croce V. 187.
Boros L. 255. 267.
Boublik VI. 281. Dacquino P. 88. 241.
Bouhot B. 220. De Gennaro G. 26.
Bouillard H. 290. 291. De Haro R.C. 299.
Bourgeois H. 210. 255. De Negri E. 10.
Bouyer L. 223. 258. De Vogel C.J. 69.
Breuning W. 221. Decio 219.
Brunner E. 112. 290. Del Bo G. 19.
Buber M. 17. 44-48. 51. Delhaye P. 295.
Buzzi F. 164. Dell'Oro F. 241.
Delling G. 215.
Cacciari M. 48. Delorme J. 237.
Cajetano 116. 117. 122. Demmer K. 249.
Calvino G. 284. 285. Denifle H. 162.
Camelot Th. 212. Denis H. 197.
Campanini G. 311. Descartes R. 14. 56. 70.
Cantalamessa R. 72. Dianich S. 237. 258.
Capone D. 248. 295. 304. Didier J.C. 215.
Caporale V. 248. Dix G. 266.
Caprioli A. 311. Dostoevskij F. 105-111.
Carabellese P. 78. Drachmann A.B. 60.
Carlini A. 132. Driver T.F. 146.
Carmichael C. 246. Du Roy O. 249.
Caruso P. 17. 25. Dubarle A.-M. 88. 101. 102.
Casel O. 203. 266. Durwell F.-X. 223.
CastilloJ.M. 187. 197.
Celestio 94. Eckermann W. 197.
Chancel A. de 103. Eid V. 198.
Chapelle A. 248. Eliade M. 28.
Chauvet L.-M. 187. 188. 189. Empereur S.J. 235.
198. 199. 209. Endres J. 75.
Chenu M.-D. 311. Eutiche 72.
Chiavacci E. 249. Evdokimov P. 241.
Cimmino R. 295.
Cipriano 219. 257. Fabris A. 48.
Cirillo di Gerusalemme 222. Fabro C. 60. 61. 83.
Citrini T. 187. Fallico A. 224. 267.
Claudel P. 114. Falsini R. 210. 220. 224.'
Clément O. 26. Famedi G. 237.
Clerck P. de 212. Favale A. 237.
Codina V. 210. Fedrizzi P. 235.
Colson J. 237. Feuerbach L. 44.
Colzani G. 26. Finance J. de 249.
Comblin J. 26. Finkenzeller J. 197.
Congar Y. 237. 258. 262. Flick M. 26. 88. 96. 98. 104. 146. 231.
Coppens J. 203. Forte B. 30. 31. 71. 99. 126. 149.
Coreth E. 40. 161. 191. 193. 200. 224. 230. 237.
Cottiaux J. 241. 248. 252. 254. 257. 258. 271. 280.
Croce B. 11. 290. 291. 293. 307. 311.

324
Fraine J. de 91. 92. 276. 277. Haag H. 88. 91.
Fransen P. 146. 150. Hamman A. 124. 211. 220. 267.
Friedman M. 44. Hammer F. 40.
Fries H. 197. Haring B. 248. 249. 267.
FuchsJ. 249. 295. 303. Hegel G.W.F. 8. 9-17. 18. 19. 20.
21.44.45.56.61.62.63.65.70.
Gaboriau F. 220. 71.
Gallo L. 258. Heiberg J.L. 60.
GalotJ. 237. Heidegger M. 21. 39. 45. 46. 51. 52.
Ganoczy A. 147. 154. 179. 65.69.
Garaudy R. 10. Heiser L. 210.
Gehlen A. 40. Heschel AJ. 26. 31. 55.
Gentile G. 77. Horkheimer M. 7. 16.
Gerardi R. 237. Hossfeld F.L. 246.
Gerken A. 224. Houssiau A. 212.
Gevaert J. 40. 47. Hubert H. 215.
Giblet J. 203. 212. Husserl E. 18. 52.
Gigante G. 105.
Gioacchino da Fiore 307. Ignazio d'Antiochia 230. 239.
Giorda L. 295. Innocenzo XI 305.
Giovanni della Croce 270. Ippolit 109.
Giovanni Paolo II 236. 311. 314. Irarrazaval D. 210.
Giraudo C. 224. Ireneo 118.
Giuliano 89. 94. Iserloh E. 161. 162.
Givone S. 106. 109.
Goffi T. 249. Jaspers K. 39.
Gogarten F. 7. 26. Jaubert A. 224.
Golser K. 295. Jedin H. 161. 241.
Gonzàlez Dorado A. 197. Jeremias J. 215. 224.
Gonzàlez Faus J.I. 26. Johanny R. 224.
Gonzàlez Fuente A. 198. Jiingel E. 293.
Gottschalk di Orbais 282. Jungmann J.A. 267.
Gozzelino G. 26.
Gramaglia P.A. 215. Kaiser O. 252.
Grant A. 132. Kant I. 70. 78. 85.
Grasso D. 215. Karamazov A. 108.
Gregorio di Nissa 131. Karamazov D. 110.
Grelot P. 88. Karamazov I. 107. 108.
Greshake G. 147. 151. 157. Kasper W. 215. 241.
237. Kern W. 26.
Grillmeier A. 68. 72. Kierkegaard S. 17. 45. 60-63. 82. 83.
Grimm R. 241. 84. 92.
Gross H. 147. 148. Kohn H. 44.
Gross J. 89. 124. 150. Kòster H. 89.
Grossi V. 26. 68. Kuhn U. 198.
Guardini R. 266. 267. Kiing H. 154. 160. 258.
Guglielmo d'Ockham 306.
Guilluy P. 88. Laberthonnière L. 75.
Gunthòr A. 249. Lacroix J. 75.
Gusdorf G. 299. Ladaria L.F. 26.

325
Lange H.O. 60. Martimort A.G. 198. 210. 266.
Langevin G. 124. Martin-Palma J. 153.
Lawler M.G. 198. Marx K. 12.
Lécuyer J. 237. Mathieu V. 41.
Lehmann K. 161. Me Grath A.E. 160.
Lengsfeld P. 88. Medusa L. 26.
Leone Magno 195. Melchiorre V. 77.
Lercaro G. 211. Mersch E. 26.
Lessing G.E. 62. Metz J.B. 26. 64.
Lévinas E. 40. 48. 50-55. 58. Meyer H.-B. 224.
Lienemann-Perrin C. 212. Miccoli P. 26.
Lies L. 187. 189. 198. Milano A. 68. 74.
Ligier L. 220. Mirri E. 10. 13.
Liguori A. de 306. Misrahi R. 44.
Lo Gatto E. 107. 108. Mitchell N. 237.
Lodi E. 187. 198. Moda A. 145. 280. 285. 290.
Loewenich W. von 150. 162. Mòhler J.A. 258.
Lohfink N. 93. Molina L. de 156. 185.
Lòhrer M. 280. Molinaro A. 295. 299.
Lorenzetti L. 249. Moltmann J. 7. 26. 255. 256. 258.
LortzJ. 162. 280.
Lossky V. 124. 131. 260. Mondin B. 26.
Lot-Borodine M. 150. Mondolfo R. 69.
Lubac H. de 101. 112. 114. 115-118. Montale E. 42. 141.
120. 122. 123. 131. 193. 258. Moravia S. 17.
Lukàcs G. 12. Moretto G. 267.
Luporini M.B. 108. Motrice W.G. 315.
Lutero M. 6. 152. 153. 160-177. 179. Mounier E. 40. 75-81.
180. 183. 185. 196. Mouroux J. 224. 254. 280.
Lyonnet S. 89. 224. 252. 307. Mùller G. 160.
Muller M. 299.
Madinier G. 295. Mura G. 50.
Maggiolini S. 231. Muschalek G. 112.
Magrassi M. 212. 220. Mussner F. 147. 148.
Malka S. 50. Myskin 109.
Malnati E. 26.
Manaranche A. 249. Nédoncelle M. 75.
Manno A.G. 124. Neher A. 43.
Maragall J.141. Nestorio 72.
Marcel G. 39. 76. Neufeld K.H. 198.
Marchel W. 267. Neunheuser B. 203. 212. 220.
Marck W.H.M. van der 249. Neusch M. 26.
Margerie B. de 198. 232. Newman J.H. 209.
Marinelli F. 198. 212. 237. Nicola Cabasilas 222.
Maritain J. 75. Nicolas H J . 193.
Marliangeas B.-D. 237. Nicolau M. 198. 235.
Marranzini A. 26. Nietzsche F.W. 17.
Marsili S. 198. 224. Nocke F.-J. 198.
Martelet G. 88. 237. Nohl H. 13.
Martensen H.L. 212. Novato 219.

326
Novaziano 219. 100. 112. 118. 119. 120. 121.
Nygren A. 252. 147. 157. 158. 161. 185. 186. 187.
Nygren G. 281. 198. 212. 231.237. 252. 257. 299.
303.
O'Meara T.F. 237. Ramos-Regidor J. 232.
O'Neffl C. 224. Raskol'nikov 109.
Ochetto F. 18. Ratzinger J. 125. 198. 258.
Osborne K.B. 198. Raurell F. 26.
Ottato di Milevi 219. Reiners H. 303.
Reinhardt K. 241.
Paci E. 18. Reiter J. 249.
Pani G. 164. Renouvier Ch. 75.
Pannenberg W. 26. 40. 47. 161. Riber M. 311.
Pansera M.T. 40. Ricoeur P. 82-88. 93. 101.
Panteghini G. 26. Ries J. 212.
Paolo V 185. 315. Rigobello A. 75.
Parent R. 26. Rizzi A. 26. 112. 147.
Pareyson L. 75. 107. Rocchetta C. 53. 77. 187. 198. 207.
Parmeniano 219. 208.
Parmenide 50. 54. 55. 69. Rolfes E. 132.
Pascal B. 82. 83. 84. Rondet H. 89. 147. 150. 185. 198.
Panaro G. 241. Rosenzweig F. 17. 48-49. 50.
Pavan A. 68. Rosmini A. 258.
Pelagio 94. 97. 150. 151. 152. 181. Rouillard P. 237.
185. 196. 205. 282. 286. 287. 305. Rousselot P. 254.
PeschO.H. 26. 147. 148. 161. 180. Rozanov V. 111.
246. Ruffini E. 187. 198.
Peters A. 26. 147. 161. Ruiz de la Pena J.L. 26. 34.
Petrosino S. 50. Russo A. 116.
Philips G. 147.
Piana G. 249. Sainte-Marie J. de 224.
Pieper J. 252. 254. 255. Salvatani B. 224.
Pietro Lombardo 188. 201. Sanna I. 26. 68. 75.
Pio XII 266. Sartori L. 237.
Pio V 99. Sartre J.-P. 8. 17-25. 77.
Piolanti A. 224. Scanzillo C. 124. 258.
Platone 69. 82. 83. 84. 137. Scheeben M.J. 112.
Plebe A. 132. 134. Scheffczyk L. 89.
Plessner H. 40. Scheler M. 40.
Plotino 69. Schelling F.WJ. 17.
Pòhlmann H.G. 161. Schillebeeckx E. 187. 188. 190. 191.
Poma A. 44. 193. 198. 199. 201. 205. 206. 224.
Porro C. 224. 241.
Potterie I. de la 307. Schilpp P.A. 44.
Powers J. 224. Schilson A. 203.
Privitera S. 295. Schmaus M. 157.
Przywara E. 41. 125. Schneider Th. 198. 202. 205. 227.
Scholem G. 48.
Rabano Mauro 321. Schoonenberg P. 88. 227.
Rahner K. 6. 26. 63-68. 72. 88. 93. Schiiller B. 249.

327
Schulte R. 187. 198. Tourn G. 280. 284.
Schultz H.J. 64. 224. Tourneux A. 224.
Schùngel-Straumann H. 246. Trapé A. 57.
Schwarzwaller K. 280. Tremblay R. 198.
Sciacca M.F. 57. Triacca A.M. 220.
Scordato C. 198. 199. Truhlar K.V. 311.
Segundo J.L. 147. Tura R. 198.
Seibel W. 124.
Semeraro M. 198. Ubbiali S. 235.
Semmelroth O. 187. 193. 198. 208.
Sempliciano 282. Vaccaro L. 311.
Sepe C. 207. Vaccaro N. 13.
Serini P. 82. Vagaggini C. 266. 267.
Sestov L. 105. Valori P. 299.
Smulders P. 193. Valsecchi A. 248. 295.
Socrate 55. Vandervelde G. 88.
Sorrentino S. 116. Vanhoye A. 237.
Spera S. 60. Vanneste A. 88.
Sperna Weiland J. 44. Vanzan P. 64.
Spicq C. 250. 252. Vereecke L. 306.
Splett J. 303. Vidal M. 249. 306.
Stefanini L. 75. Villette L. 198.
Stepun F. 105. Vinay V. 162.
Stoeckle B. 125. Vischer L. 237.
Suarez F. 116. Vitalini S. 210.
Subilia V. 161. Vizin M. von 107.
Vogel C. 232.
Taborda F. 198. Vorgrimler H. 198. 232. 235.
Tavard G.H. 161.
Tertulliano 210. 213. WahlJ. 17. 18.
Tettamanzi D. 241. 249. Walsh L.G. 210.
Thaler A. 224. Wattiaux H. 249.
Thielicke H. 26. Weger K.H. 89.
Thonissen W. 34. Wekel P. 220.
Thulstrup N. 60. Wheeler Robinson H. 91.
Thurian M. 203. 224. 237. Wolf J.-C. 132.
Tillard J.-M. R. 187. 198. 211. 224. Wolff H.W. 26. 42. 43. 54.
225. 258.
Tinland F. 26. Yannaras C. 198.
Toinet P. 232.
Tommaso d'Aquino 44. 74. 101. 102. Zadra D. 198.
116.117. 118. 121.122. 123.125. Zenone di Verona 131.
136. 137. 151. 152. 155. 156. 161. Zerndl J. 220.
188. 198. 199. 204. 205. 206. 222. Zitnick M. 187. 198.
250. 251. 283. 298. 305. 317. Zosima 110.

328
INDICE GENERALE

Introduzione pag.

L'uomo «fra i tempi»


1.1. L'antropologia del dominio dell'identità » y
a) Un'antropologia totale » 9
b) La «coscienza infelice» » 13
e) L'assenza dell'alterità » 15
1.2. L'antropologia alla prova della differenza » 17
a) Il ritorno al concreto » 17
b) L'essere e il nulla » 19
e) L'uomo, «una passione inutile» » 23
1.3. L'antropologia fra identità e differenza: l'e-
ternità nel tempo » 25
a) «Fra i tempi» » 25
b) Esodo e avvento » 28
e) L'eternità nel tempo » 33

PARTE PRIMA
IL TEMPO E L'ETERNO

2. Strutture dell'antropologia » 39
2.1. L'esteriorità » 42
a) Il principio dialogico » 44
b) Il linguaggio » 48
e) La corporeità » 50
2.2. L'interiorità » 55
a) La memoria e l'identità » 56
b) La singolarità » 60
e) L'autotrascendenza » 63

329
2.3. La persona pag. 68
a) Gli orizzonti storico-culturali » 69
b) Verso il concetto di persona » 71
e) L'essere relazionale » 75

3. Antropologia negativa » 82
3.1. L'uomo «fallibile» » 82
a) Fra il tutto e il nulla » 82
b) La fallibilità del conoscere e dell'agire » 84
e) La fragilità affettiva » 86
3.2. Il peccato originale » 88
a) Adamo e Cristo » 89
b) Gli opposti estremismi » 94
e) I livelli del peccato » 97
3.3. L'esistenza tragica » 105
a) L'abisso dei «doppi pensieri» » 105
b) Il dramma del male » 107
e) «La bellezza salverà il mondo» » 109

4. Antropologia aperta » 112


4.1. Natura e grazia » 112
a) La questione del «soprannaturale» » 112
b) Al di là degli «ordini separati» » 115
e) L'unità del «mistero» » 119
4.2. L'uomo «immagine di Dio» » 124
a) «Homo capax Dei» » 124
b) Nello spazio della libertà » 127
e) La dialettica del compimento » 128
4.3. L'ethos della storicità » 131
a) Le virtù morali » 131
b) La «morale autonoma» » 135
e) L'ethos e il tempo » 136

330
PARTE SECONDA
L'ETERNITÀ NEL TEMPO

5. Il mistero iella grazia pag. 145


5.1. La grazia » 146
a) La testimonianza fontale » 146
b) Lo sviluppo della dottrina della grazia » 150
e) La storia di Dio nella storia dell'uomo » 154
5.2. La giustificazione » 160
a) La domanda della salvezza » 160
b) Il processo della giustificazione » 163
e) Il divino e l'umano nella giustificazione » 177
5.3. L'economia sacramentale » 186
a) Il «mistero»-«sacramento» » 187
b) Il sacramento originario » 189
e) La Chiesa sacramento » 192

6. L'ethos sacramentale 197


6.1. I sacramenti e l'ethos » 197
a) Sacramenti ed esistenza redenta » 197
b) Ethos cristologico » 202
e) Ethos dialogico-relazionale » 207
6.2. I sacramenti dell'iniziazione » 210
a) L'iniziazione cristiana » 210
b) Battesimo e confermazione » 212
e) L'eucaristia » 223
6.3. I sacramenti della storicità » 230
a) Penitenza e unzione degli infermi » 231
b) L'ordine sacro » 237
e) Il matrimonio » 241

7. L'ethos trinitario » 245


7.1. La Trinità e l'ethos » 245
a) Dogma ed ethos » 245
b) La Trinità come «dimora» e come «patria» » 248
e) Agire nella Trinità: le virtù teologali » 250
7.2. L'ethos ecclesiale » 257

331
a) La memoria dell'Origine: «Ecclesia de
Trinitate» pag. 257
b) La coscienza del frattempo: «Ecclesia in ter
tempora» » 26U
e) L'anticipazione della Patria: «Ecclesia
viatorum» » 263
7.3. L'ethos liturgico » 265
a) La preghiera nella Trinità » 265
b) Dal Padre al Padre » 268
e) Per Cristo, nello Spirito » 269

PARTE TERZA
IL TEMPO NELL'ETERNITÀ

8. Il mistero dell'elezione divina » 275


8.1. La predestinazione » 275
a) La «somma dell'e vangelo» » 275
b) La «doppia predestinazione» » 279
e) Predestinati nella Trinità » 286
8.2. L'orientamento » 295
a) La coscienza » 295
b) La libertà » 299
e) La decisione e la perseveranza » 303
8.3. L'anticipazione » 307
a) La vita eterna » 307
b) Il lavoro » 311
e) La gioia » 315

Custodia » 319

Indice dei nomi » 323

332
OPERE DI BRUNO FORTE

La distinzione fra i tre gruppi, la Simbolica della fede, la Dialogica dell'a-


more e la Poetica della speranza, oltre che corrispondere al pensiero delle tre
virtù teologali, evoca le tre diverse forme del pensare: l'argomentare narran-
do della simbolica, il dialogare argomentando della dialogica e il narrare dia-
logando della poetica.

SIMBOLICA DELLA FEDE

Simbolica Ecclesiale (Edizioni San Paolo):


1. La Parola della fede.
Introduzione alla Simbolica Ecclesiale (1996)
2. La teologia come compagnia, memoria e profezia.
Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia
(1987, 19962)
3. Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia.
Saggio di una cristologia come storia (1981, 19978)
4. Trinità come storia.
Saggio sul Dio cristiano (1985, 19976)
5. La Chiesa della Trinità.
Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione (1995,
19952)
6. L'eternità nel tempo.
Saggio di antropologia ed etica sacramentale (1993, 19992)
7. Teologia della storia.
Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento (1991, 19912)
8. Maria, la donna icona del Mistero.
Saggio di mariologia simbolico-narrativa (1989, 19963)

DIALOGICA DELL'AMORE

La Chiesa nell'Eucaristia, D'Auria, Napoli 1975, 19882

333
La Chiesa icona della Trinità, Queriniana, Brescia 1984, 19906
Laicato e laicità, Marietti, Genova 1986, 19884
Cristologie del Novecento, Queriniana, Brescia 1983, 19852
Sui sentieri dell'Uno. Saggi di storia della teologia, Edizioni San
Paolo, Cinisello B. 1992

POETICA DELLA SPERANZA


Corpus Christi, D'Auria, Napoli 1982, 19832
Preghiere, D'Auria, Napoli 1984, 19893
Sull'amore, D'Auria, Napoli 1988
Camminando nel presepe, con fotografie di Pepi Merisio, D'Au-
ria, Napoli 1989
Sul sacerdozio ministeriale. Due meditazioni teologiche, Edizioni
San Paolo, Cinisello B. 1989, 19902
Nella memoria del Salvatore. Esercizi spirituali, Edizioni San Paolo,
Cinisello B. 1992, 19942
Piccola introduzione alla fede, Edizioni San Paolo, Cinisello B.
1992, 19984
Piccola introduzione ai sacramenti, Edizioni San Paolo, Cinisel-
lo B. 1994
Piccola introduzione alla vita cristiana, Edizioni San Paolo, Ci-
nisello B. 1995

334
Stampa: 1999
Società San Paolo, Alba (Cuneo)
Printed in Italy
SIMBOLICA ECCLESIALE

Sulla scia di modelli illustri quali la Kirchliche Dogmatik di Karl Barth


e la Gloria di Hans Urs von Balthasar, ma assolutamente senza preceden-
ti nella comunità teologica italiana, la Simbolica ecclesiale di Bruno Forte
presenta un'esposizione globale e organica dell'intero messaggio cristia-
no. «Articolata nei suoi otto volumi, essa si fa ammirare al tempo stesso
per la profondità e l'ampiezza del pensiero e per la bellezza del linguaggio
perfino poetico, come pure per l'organica costruzione filosofica e teologi-
ca, mai disgiunta dalla ricchezza sul piano della spiritualità» (Walter Ka-
sper).
Questo volume — sesto dell'intera opera — presenta Vantropologia teo-
logica e la teologia sacramentaria nella loro indisgiungibile connessione.
In esso «inseparabili, mai unite, procedono teologia e filosofia, presup-
posto luminoso del mistero di fede e appassionata ricerca... Al centro il
destino stesso dell'uomo occidentale: la relazione d'umano e divino nel-
l'unità del Verbo come questione del rapporto tra natura e grazia, tra tempo
ed eterno» (Massimo Cacciari). «Un tutto compatto, dove le parti sono
connesse dal filo rosso della "humanitas" da vivere secondo il disegno
del Creatore, slanciato a somiglianza di una cattedrale gotica, quasi grido
profetico in un tempo in cui il volto dell'uomo appare tanto sfigurato, ep-
pure tanto nostalgico di bellezza» (Paolo Pifano).

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