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filosofia della musica moderna

La Filosofia della Musica nella contemporaneità

Introduzione: la musica come chiave ermeneutica della civiltà

1) La nuova Weltanschauung allo specchio della crisi: vitalismo e irrazionalismo

(Schopenhauer- Nietzsche- Bergson)

2) Adorno: teoria critica e filosofia della musica

3) Schönberg e Stravinskij come paradigmi di lettura della cultura

Conclusione: l’artiglio dell’apofasi e la seduzione dell’indicibile (Th. Mann)

§ 1: La nuova Weltanschauung allo specchio della crisi: vitalismo e irrazionalismo

Il termine crisi deriva da un termine greco che viene impiegato in due ambiti precisi, il primo concerne la
sfera esistenziale della coscienza, del discernimento (krino = giudico) e si collega direttamente all’ambito
della conoscenza, come ben insegna lo stesso pensiero kantiano; criticismo è in Kant l’istanza che si occupa
delle condizioni di possibilità della validità della conoscenza (il termine da lui impiegato è trascendentale),il
secondo attiene ad un ambito medico, laddove momento critico implica sempre un momento decisivo di
qualsivoglia patologia.

Che venga impiegato, altresì, per contrassegnare il pensiero del Novecento, mette in luce come questo
secolo sia caratterizzato da un cambio di prospettive, scientifiche (si pensi alla psicoanalisi o alla teoria della
relatività di Einstein), culturali (la rivoluzione letteraria nel romanzo, Pirandello, Kafka, Proust, Joyce),
filosofiche (il nichilismo attivo di Nietzsche, l’esistenzialismo sartiano, l’ermeneutica di Heidegger, il
vitalismo di Bergson). Su queste in particolare occorrerà soffermarsi per delineare il quadro teoretico di
riferimento. In ogni caso riassumiamo qui, per maggior agevolezza le istanze portanti.

Da un lato poniamo in parallelo Nietzsche e Bergson quanto al recupero della categoria della vita, donde
vitalismo, che implica una nuova consapevolezza della filosofia stessa,la quale deve uscire dagli schemi
contrassegnati da un lato dal sistema hegeliano, in cui emerge sia l’oggettivazione dello spirito, sia la
razionalizzazione di ogni processo storico condotto all’universale necessità della ragione che giustifica tutto,
dall’altro lato dall’idea di una metafisica come scienza dell’essere in quanto essere (vedi Aristotele), che
riconduce la stessa idea di essere alla forma oggettiva della conoscenza e della rappresentazione, ponendo
un criterio di leggibilità del mondo secondo il principio di non contraddizione (se A è A non può essere B).
Nel Novecento non risultano più adeguati i concetti di non contraddizione così come quello della dialettica
hegeliana. Il primo responsabile di correggere l’enigmaticità e la tragicità dell’essere, che invece Nietzsche
recupera, il secondo capace di rendere ragione del negativo, dell’individuale e del particolare, ma solo
come un momento necessario al superamento nello Spirito Assoluto. Nietzsche è il fautore della tragedia e
dello spirito della tragedia, che per altro, segna l’inizio pre-filosofico del filosofico, e si pone in termini di
rottura rispetto al modello socratico, colpevole di eccessivo intellettualismo, nonché colui che ravvisa nella
stessa umanità un’istanza di superamento verso una nuova fondazione di valori, così che egli parlerà di
Übermensch, Oltre-uomo, nonché di una tras-valutazione dei valori (Umwert aller Wertung).

Bergson recupererà il concetto di intuizione collegandolo al concetto di coscienza nonché a quello di


memoria, tanto da ridefinire l’idea di una temporalità interna intesa come slancio vitale e come
auscultazione spirituale inoggettivabile, tanto da figurare l’io in quanto sintesi di unità e molteplicità, così
che l’antica idea metafisica di sostanza viene fortemente messa in crisi.

D’altro canto Heidegger e Sartre, pur assolutamente non riconducibili l’uno all’altro dati gli esiti
assolutamente diversi del loro pensiero cercano però di ripensare radicalmente il concetto di essere ed
esistenza, riconducendo il pensiero stesso alla concretezza ed alla fatticità, l’uno ravvisando nell’esser
gettati e pro-gettati nell’orizzonte del mondo, il criterio fondamentale per porre, lasciandosi porre in
questione, la domanda sull’essere, anche se tale autentica prospettiva, risulta poi in un für das Tode sein,
un essere per la morte; l’altro mettendo in evidenza la precedenza dell’ ek-sistenza (tale è la radice del
termine esistenza, cioè sporgersi fuori) sull’essere in quanto collegata all’agire libero dell’uomo. Ma questo
implica che non si può dare un fondamento, dunque viene meno l’idea metafisica che ha sostenuto la
stessa filosofia moderna dell’essere in quanto fondamento assoluto. La libertà dell’uomo è un inizio che ha
sé come termine e non coincide che con sé. Tuttavia, se questo è vero, il Nulla e non l’essere sostiene
l’uomo nel suo progettarsi. Da ambo le parti viene recuperato il concetto di storicità; in Heidegger in quanto
destino ed invio dell’esser-ci (ovvero dell’esistenza umana) da parte dell’Essere di cui ascolta la voce come
quella di un amico. in Sartre quanto alla categoria marxiana e marxista di una dialettica storica che dà senso
all’umana libertà nell’azione comune, p. es la figura dell’intellettuale in fusione

Tali istanze da un lato mistiche, dall’altro crepuscolari, non è un caso che cifra ermeneutica di questa
epoca, sia per una certa misura l’opera di Oswald Spengler sul tramonto dell’Occidente, non possono non
condurre ad un’idea chiave, quella del dionisiaco nietzschiano entro cui leggere l’enigma dell’esistenza, il
carattere dissonante e assolutamente irrazionale dell’essere, declinato nel senso di un’esistenza tragica. Per
questo la musica stessa, ben lungi dal contrassegnare un divertissement estetizzante assurge invece a
Weltanschauung di un’epoca, sancendo una vera e propria fase della storia della cultura. Riteniamo che
partire da Nietzsche a dalla sua attenzione quasi parossistica per la forza vitale che si esprime nella musica
sia molto importante per rendere ragione dell’imporsi di un nuovo paradigma della ragione, destinato a
percorrere come fiume dai differenti rivoli tutto il Novecento, che- denunciando la deriva di una ragione
strumentale, proprio per bocca dello stesso Adorno, filosofo della Scuola di Francoforte ed autore della
celeberrima teoria critica, esige un differente paradigma della razionalità che recuperi la passione per il
possibile e ravvisi nell’estetica una chiave di lettura della Bildung di un’epoca.

Osserva a tal proposito Remo Bodei:

«Si è a lungo dibattuto (e si discute ancora, specie in ambito anglo-sassone) per stabilire se l'esperienza
estetica dipenda da fattori emotivi o cognitivi. Certo che la poesia e l'arte in genere costituiscono la lingua
degli affetti, ma esse - come mostra la musica in maniera eminente - possono anche congiungere il massimo
di rigore formale, addirittura matematico, con il massimo di pathos»[1]

Posto così che la musica, tolta da un contesto di separatezza, e riconiugata in una dimensione filosofica,
atta a ridisegnare il profilo stesso della razionalità mentre conduceva quest’ultima alla confluenza con il
totalmente altro, con l’accadere di un mistero per cui ogni conoscenza che davvero ha senso è quella che
promana dalla luce della redenzione sul mondo[2], essa non può non rappresentare uno specchio della crisi
ed uno strumento diagnostico per l’analisi del mondo sociale capace di gettare una luce affatto nuova sul
carattere irrisolto del reale proprio del Novecento, sulla sua instabilità e contraddittorietà, sulla vocazione
tensiva della ragione ferita dall’indicibile.

Questo è il contesto nel quale si colloca un’opera decisiva come quella di Adorno dal titolo Filosofia della
musica moderna, la quale contribuisce invero a rileggere la maggior parte della produzione adorniana,
gettando una luce affatto nuova su quella connessione di filosofia-cultura società che tanto fu cara ai
francofortesi.
§2: Adorno: teoria critica e filosofia della musica

Per ripercorrere le tappe del pensiero di Theodor Wiesengrund Adorno si dovrà in definitiva, tenere
conto di due idee fondamentali che ricorrono in una delle opere più rappresentative del noto esponente
della Scuola di Francoforte: quella di ragione strumentale e quella di una mitologia dell’illuminismo che,
sconfinando nella socializzazione della natura quanto nella naturalizzazione della società definisce il senso
di una cultura occidentale massificata sui ritmi della produzione, in modo tale da mostrare il suo bieco
aspetto di mondo amministrato (verwaltete Welt) dove sia la libertà che l’emancipazione umane sono
pagate con il prezzo della coazione e dell’estraniazione.

Strumentale è quella ragione che, infinitamente tornando su se stessa, secondo il paradigma di Odisseo,
da Adorno analizzato nella sua fondamentale opera Dialettica dell’illuminismo, riduce ogni cosa alla propria
capacità di oggettivazione, obliterando ogni distanza. Così scrive Adorno:

«Il mito trapassa nell’illuminismo e la natura in pura oggettività. Gli uomini pagano l’accrescimento del loro
potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore
agli uomini che conosce in quanto è in grado di manipolarli. Lo scienziato conosce le cose in quanto è in
grado di farle. Così il loro in sé diventa per lui»[3]

Per questo motivo l’illuminismo che ha preteso la liberazione dai miti in nome dell’emancipazione ha
mutato il giorno dell’uomo in un bieco apparato burocratico, grigio e minaccioso, che riecheggi ala
Stimmung kafkiana. Dovremo però soffermarci sul concetto di illuminismo che i francofortesi esprimono
nella loro opera e dal quale, naturalmente, prendono le distanze elaborando quella teoria critica
imprescindibile per leggere le istanze culturali del Novecento. Riportiamo un passo emblematico, che certo
fornisce un’idea di lettura filosofica della cultura occidentale, ove l’illuminismo funge da leit-motiv e da
climax di quella mathesis universalis ove non viene contemplato nessun differente, nessun ignoto, ove anzi,
tutto è ricondotto alla manipolazione della natura ed ad una massificante eguaglianza che esclude ogni
individualità
«L’illuminismo è totalitario più di qualsiasi sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi
amici romantici, metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente -è la sua falsità, ma in ciò
che per esso il processo è deciso in anticipo. Quando, nell’operare matematico,, l’ignoto diventa l’incognita
di un’equazione, è già bollato come arcinoto prima ancora che ne vanga determinato il valore. La natura è
prima e dopo la teoria dei quanti ciò che bisogna concepire in termini matematici;anche ciò che non torna
perfettamente, l’irrisolvibile, l’irrazionale è stretto davvicino in termini matematici. Identificando in anticipo
il mondo matematizzato fino in fondo con la verità, l’illuminismo si crede al sicuro dal ritorno del mito. Esso
identifica il pensiero con la matematica (…). Il pensiero si deifica in un processo automatico che si svolge
per contro proprio gareggiando con la macchina che esso stesso produce perché lo possa finalmente
sostituire»[4]

Adorno coglie, a ben vedere, il germe della cultura massificata, che si sviluppa come istanza di industria
culturale e che contrassegna, a suo avviso, la patologia della razionalità avvinta nelle spirali del mondo
amministrato ove verità e manipolabilità coincidono in maniera perfetta, senza spazio per la possibilità,
soprattutto senza spazio per un’ontologia della singolarità irriducibile al sistema. Ed è proprio la sezione
consacrata all’industria culturale ad avere come lunga appendice la Filosofia della musica moderna. Per
questo motivo essa è una sorta di pendant musicale della cultura occidentale, ove per altro è coglibile
come tema ricorrente il capovolgimento della pretesa razionalizzazione dell’illuminismo in impulsi
assolutamente opposti. La musica, dunque, rappresenta un codice ermeneutico per leggere le
contraddizioni di questo secolo che si presenta già contrassegnato da diverse fratture, pronto ad
interpretare in ogni istanza culturale il senso di inquietudine e spaesamento.

Ci pare opportuno leggere in maniera comparativa alcuni passaggi delle due opere al fine di cogliere
l’opposizione che, all’avviso di Adorno, la musica può offrire al domino dell’industria culturale.

Quest’ultima fa in modo che nei luoghi più disparati gli stessi bisogni siano soddisfatti da beni prodotti in
serie[5] riducendo ad oggetto manipolabile ed utilizzabile anche l’arte, in modo tale che anch’essa sia
persuasa alla razionalità del dominio mediante la standardizzazione e la produzione in serie. Per contro la
musica, scrive Adorno, reagisce in origine contro la depravazione commerciale dell’idioma tradizionale.
Ostacolò, cioè l’espansione dell’industria culturale nel suo dominio[6]. Tale opposizione ha fatto sì che la
musica costituisse una riserva critica contro l’alienante società borghese, visto che, sottolinea Adorno,
«A partire dalla metà del secolo XIX la musica d’arte si è del tutto distaccata dal consumo. La coerenza della
sua evoluzione è entrata in contraddizione con i bisogni manipolabili e nello stesso tempo compiaciuti del
pubblico borghese»[7]

La riflessione adorniana vi coglie quindi un vero e proprio progetto di emancipazione che avrebbe
condotto alla formazione di una coscienza intellettuale. Per ben comprendere questo, tuttavia, è
necessario soffermarci nuovamente sulla cifra della crisi, la quale investe la stessa musica.

Ben oltre le vicende delle avanguardie musicali, il termine crisi stava a sancire un orizzonte etico-politico
che caratterizzava lo stesso lavoro intellettuale inteso come analisi dell’irresolubilità della realtà. Se,
dunque, Adorno declina come paradigmi di questa crisi della coscienza culturale Schönberg da un lato e
Strawinskij dall’altro, la parabola intellettuale che egli traccia non si limita di certo solo alla musicologia ma
non v’è dubbio che la musica esprima assolutamente il dissidio fra le dinamiche sociali del dominio, gli
irretimenti ideologici, l’illibertà che contro cui solo l’arte potrebbe esprimere una solitaria opposizione
intellettuale.

Una lettura che risulta dunque impegnativa, tanto ai filosofo quanto al musicologo ed al professionista
della musica, dato che Adorno richiede che si colga l’impegno etico soggiacente dietro alla
rappresentazione del disagio dell’intellettuale dinanzi al regredire della libertà, di cui la musica assurge a
testimonianza indignata o rassegnata. Così potrà forse risultare più comprensibile il tentativo adorniano di
leggere il dittico Schönberg- Strawinskij con chiavi filosofiche e sociologiche sulla base della crisi dell’arte
contemporanea, che traguarda inevitabilmente su di una lettura filosofica della storia.

§3: Schönberg e Stravinskij come paradigmi di lettura della cultura

Schönberg e Stravinskij costituiscono il distico su cui Adorno vuol leggere addirittura la filosofia del
Novecento imperniata sulla tensione fra alienazione e solitudine fino ad aprire un orizzonte di tragedia e di
inconciliabilità. All’avviso di Adorno:
«Schönberg ha cozzato contro il carattere sociale della solitudine avendola accettata fino all’estremo.
Musicalmente il dramma con musica Die glückliche Hand è forse la cosa più significativa che gli sia riuscita.
E’ la visione di una totalità tanto più valida in quanto non si realizzò mai come sinfonia compiuta»[8]

Vorremmo fissare l’attenzione sul paradosso di una totalità incompiuta, dato che la filosofia del
Novecento si pone espressamente in contrasto con l’idea della totalità come sistema chiuso, memore delle
conseguenze che una teoresi contrassegnata in questo modo ha avuto nel contesto storico. D’altro canto
l’incompiutezza della musica denota la cifra della crisi dell’esistenza contemporanea oscillante fra il
dramma della spersonalizzazione e l’angoscia di una singolarità irriducibile destinata alla continua
decifrazione della sua più autentica possibilità. Schönberg è più che mai l’interprete di questa disperante
solitudine mentre cerca nel dramma con musica una sorta di istanza catartica rispetto al contrasto
perenne, comunicato attraverso l’angoscia, fra società industriale e soggetti umani.

Se così stanno le cose il dramma di Schönberg si esplica nel senso che la società dello scambio si riproduce
ciecamente sopra le teste degli uomini includendo in sé l’accrescimento del potere dei forti sugli altri
uomini[9]. Il vero dramma, però, sta nel fatto che esso è avvertito soltanto dal singolo che vede soffocarsi
senza pietà dal principio che regge questo mondo, secondo quella ragione strumentale il cui
capovolgimento nell’irrazionalismo serve alla riorganizzazione del caos, che pure solo il singolo, preda
dell’inesorabile reificazione riesce a cogliere. Dunque la musica schönberghiana è pregna di questa
atmosfera nella quale si avverte lo sradicamento del soggetto dalla stessa origine della sua libertà e la sua
rivolta che troppo spesso resta soggetta dell’impotenza. In tal senso si può comprendere perché anche il
dispositivo estetico è finalizzato a tale esigenza di verità, in modo tale che in Schönberg predomina la
dissonanza. Essa sembra per altro distruggere i rapporti razionali e logici all’interno della tonalità.

Così scrive Adorno:

«La dissonanza è la necessità ad essa strettamente imparentata di formare le melodie con intervalli
“dissonanti” sono però i veri veicoli del carattere protocollare dell’espressione: così lo s timolo soggettivo e
l’aspirazione ad una sincera e diretta affermazione di sé diviene organon tecnico dell’opera oggettiva»[10]
Si può comprendere perché sia stata proprio l’analisi di Schönberg ad ispirare un capolavoro letterario
come il Doktor Fausuts di Thomas Mann, ove la dissonanza assurge ad una vera e propria ipotesi
ermeneutica di un secolo ferito come il Novecento. Essa è dunque musica infinitesimale, dello spazio
cosmico illimitato come nostalgia profonda come ben scrive Oswald Spengler ne Il tramonto
dell’occidente. Noi aggiungeremmo che essa è anche la musica che forse funge da momento critico rispetto
all’idea del progresso lineare, tipico dell’illuminismo, che, come Adorno scrive nella Dialettica conduce ad
una massificazione industriale dell’uomo.

L’importanza di Schönberg è proprio questo dar voce all’inquietudine, all’angoscia e alla colpa del mondo,
per questo motivo egli deve inventare un sistema che si opponga alla saturazione di quello tonale,
nonostante il fatto che il recupero nostalgico del passato siano per Adorno indice di un’insana
esasperazione di modalità orami volte al tramonto.

Se Schönberg rappresenta la resistenza alla manipolazione ed alla mercificazione dell’uomo, Adorno


ravvisa invece in Stravinskij l’autore della Restaurazione, in quanto egli cerca nella musica

«il popolo, come comunanza di uomini imparentati per stirpe, che vive collettivamente, è il grembo
primigenio di tutti i simboli, di tutti i miti,, delle forze metafisiche che costituiscono la religione»[11]

Non solo, ma recuperando la tradizione, quasi facendo della musica una sorta di linguaggio aconcettuale
che preesiste all’io, Stravinskij, è quasi il testimone rassegnato della situazione storica a lui contemporanea
e ben analizzata in Dialettica dell’illuminismo.

Scrive Adorno:

«In Stravinskij le opere non vogliono essere intese come organo di una funzione interiore, proprio per
questo la legge immanente della musica in sé è quasi impotente: la struttura viene imposta dall’esterno, dal
desiderio dell’autore che determina sia la costituzione delle sue opere, che ciò a cui esse devono
rinunciare»[12]
La categoria del tramonto assurge in Stravinskij quasi ad una sorta di malia dell’anamnesi, che riflette la
malattia storica nietzschiana: l’ipotesi antiquaria è esangue ed impotente.

Riportiamo un altro passaggio di Adorno che ben evidenzia i tratti pregnanti della musica di entrambi i
personaggi presi in esame:

«Mentre i borghesi accusano la scuola di Schönberg di pazzia per il fatto che non fa loro alcuna
concessione, e trovano Strawinskij spiritoso e normale, la costituzione della sua musica è stata modellata
sulla nevrosi ossessiva, e ancor più sullo sconfinamento psicotico di questa,la schizofrenia. Essa appare
come un sistema severo, intangibile, come un cerimoniale, senza che la sua pretesa metodicità sia
trasparente in se stessa, razionale, in forza della logica della cosa»

E ancora.

«L’impulso fondamentale di Stravinsky a far propria la regressione come metodo ben disciplinato, è
soprattutto determinante per la fase infantilistica. E’ nella natura stessa della musica da balletto prescrivere
gesti fisici e di conseguenza comportamenti: e a questo resta fedele l’infantilismo di Stravinsky»[13]

All’avviso di Adorno, si dà in Stravinsky una sorta di dissociazione dell’unità organico- estetica che
comporta, altresì, il nascondimento del soggetto dietro una sorta di mutismo alienante per cui la musica
diventa appiglio ontologico. Perciò Stravinsky è il testimone impotente dell’alienazione che assume aspetti
psicotici. La sua musica esprime lo stato estraniato di coscienza del soggetto, e questo, all’avviso di Adorno
si ravvisa in una sorta di tonalità manomessa.
Tuttavia egli vive il fascino ossessivo del mito, quasi una parossistica salvezza dalla dissoluzione e dalla
morte, il che assume ancora di più un aspetto paradossale.

Conclusione:

l’artiglio dell’apofasi e la seduzione dell’indicibile ( Suggestioni daTh. Mann)

Si diceva dianzi che il Doctoro Fausuts di Thomas Mann costituisce il controcanto letterario dell’opera di
Adorno Filosofia della musica moderna. Adrian Leverkühn rappresenta in effetti il desiderio di un’arte
razionale, dove l’abolizione dello stesso ordine tonale sancisce una nuova possibilità della musica intesa
come manifesto estetico. Mentre Thomas Mann incarna nel suo personaggio la crisi della civiltà e dell’arte
che rasenta la sterilità e la disperazione, egli recupera l’esposizione adorniana sulla dodecafonia che
sancisce l’anelito di una nuova razionalità e rigore della musica mentre su di essa incombe la minaccia della
dissolvenza soggettiva.

Come Schönberg per Adorno, Leverkühn rappresenta per Mann un’idea incarnata, quasi una sorta di
apocalisse dell’anima tedesca, per parafrasare un’opera del teologo Von Balthasar, in cui essa sperimenta
l’abisso della nientificazione, quasi stregata e distrutta dal totalitarismo nazista, ma anche, attraverso lo
slancio religioso di Leverkühn, che cerca, sedotto dall’artiglio dell’apofasi di rendere il suono dell’indicibile.

Per questo si può quasi avvertire una congruenza fra i due personaggi, dato che lo stesso Schönberg
recupera nella sua produzione musicale il retaggio salmistico e biblico, concentrandosi sul Mosè
balbuziente, ferito dall’indicibile che pure urge nella sua fragile gola, e quindi costretto nella dissonanza,
pur mentre varca il limite del dicibile, come per donare un suono al silenzio della sua inesprimibilità.
Sembra quasi di cogliere l’immagine dell’urlo espressionistico di Muco, voce silente di una ferita cosmica, di
un dramma che, mentre compie un’epoca al tramonto risorge come grido della rivolta dell’uomo, presente
alla sua fragilità (G. Ungaretti)

[1] Lezione tenuta all’Istituto per gli Studi filosofici di Napoli in ricordo di Matte Blanco e la sua estetica

[2] T. W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, trad. It L. Ceppa, Minma
Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino 1979, p 304

[3] M. Horkheimer, T. W. Adorno, ,Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, trad. it di R. Solmi,
Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997 4° ed.,p. 17

[4] Ivi,pp. 32-33.

[5] Ivi,p. 127

[6] T. W. Adorno, Philosophie der neuen Musik, trad. It. Di G. Manzoni, Filosofia della musica moderna,
Einaudi, Torino 1959-2002 2° ed,p. 11 corsivo nostro.

[7] Ivi, p. 13

[8] Ivi,p. 48

[9] Ivi, p. 49, con corsivi nostri

[10] Ivi,p.62

[11] Ivi, p. 159


[12] Ivi,p 161.

[13] Ivi, p. 162

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