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Givone, Storia dell'estetica

(riassunto)
Filosofia
Università degli Studi di Firenze
26 pag.

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Sergio Givone
_____________________

Storia dell'estetica

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Introduzione
L'estetica è venuta configurandosi nella sua accezione moderna durante il romanticismo. Il termine
“estetica” riferito a una determinata disciplina filosofica è usato per la prima volta da Baumgarten
in Riflessioni sul testo poetico (1735), e compare nel titolo della sua opera più celebre, Aesthetica
(1750).
Tuttavia, la riflessione sul bello e sull'arte risale all'antichità classica, e attraversa medioevo e
rinascimento. Possiamo ricostruirne la storia secondo due prospettive, assai schematiche:
1) partire da una determinata concezione dell'arte, considerandola il punto culminante della
riflessione estetica, e vedere come questa concezione si è faticosamente fatta strada
storicamente (vedi Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale di Croce);
2) esporsi alla pluralità irriducibile delle teorie estetiche, negando che dell'arte si possa dare
una volta per tutte una definizione univoca (vedi Storia dell'estetica di Tatarkiewicz).

Nell'antichità classica, vi sono almeno due nozioni distinte di “arte”. Essa si traduce sia con téchne,
ossia disposizione a produrre manufatti che implica abilità, uso dello strumento e conoscenza dello
scopo, sia con mousiké, indicando le tre arti (distinte per noi ma non nella classicità) musica, danza,
poesia.
Alla classicità inoltre appartiene la distinzione, per noi impropria, tra arti che implicano manualità
(arti servili) e arti che non la implicano (arti liberali).
L'antichità classica, inoltre, almeno fino a Platone e Aristotele, ignora il nesso arte-bellezza: tutte le
attività artistiche, erano considerate dai greci per il fine da esse perseguito, e non per la bellezza che
in esse si poteva ritrovare.
Si possono individuare due correnti di riflessioni intorno al problema dell'arte: riflessioni di tipo
precettistico (che hanno il loro iniziatore in Aristotele), e riflessioni di tipo mistico (secondo la linea
che parte da Platone). Platone sembra tuttavia svalutare l'arte in quanto inganno, a favore di un più
autentico misticismo guidato dall'aspirazione alla bellezza come riflesso della verità. La condanna
platonica all'arte interessa due aspetti: la “irrealtà” dell'arte, che in quanto imitazione del reale (che
è imitazione dell'intellegibile), è copia di una copia; il pericoloso potere “psicagogico” dell'arte,
cioè il suo potere di commuovere e di persuadere, che porta a un'esposizione pericolosa ed equivoca
alle potenze irrazionali dell'anima.
Ma la concezione platonica dell'arte è più complessa. A fianco del concetto di imitazione come
copia, vi è anche l'idea di una nozione di imitazione intesa in termini di “fare come”. Inoltre,
psicagogia non significa soltanto soggezione alle passioni, ma anche liberazione di queste ai fini di
una conoscenza esatta e profonda, anche se inconsapevole.
Nella Repubblica, inoltre, Platone mette al bando non tanto l'arte in quanto tale, ma piuttosto l'arte
tragica, in quanto mendace e ingannatrice. Platone dunque non contrappone l'arte tout court, in
quanto imitazione e copia, alla realtà. Contrappone piuttosto due forme di sapere: da una parte il
sapere filosofica, che riconduce la realtà al suo unico e stabile fondamento (il Bene), e dunque la
distribuisce secondo un ordine armonioso che si riflette nella bellezza; dall'altra il “sapere tragico”,
che esibisce e mette in scena la realtà nella sua ambiguità irriducibile e inquietante, al punto che la
bellezza ha inevitabilmente un carattere doppio e sfingeo.

Per quanto riguarda la bellezza, sia i pensatori medievali che quelli rinascimentali si attengono al
principio greco per cui essa è coincidenza di essere e di apparire: si dice bella una cosa quando
appare quale realmente è. Quanto all'arte, sia i medievali che i rinascimentali attribuiscono all'opera
carattere iconico, e dunque vedono in essa il luogo di una teofania, il segno vivente di Dio.
Una differenza tra medioevo e rinascimento concerne il ruolo attribuito all'artista: umile artigiano
presso i medievali, diviene nel rinascimento l'espressione più alta della scintilla divina che è
nell'uomo. Ciò fa sì che nel rinascimento si abbia la proliferazione di una trattatistica in cui l'artista,
conscio dell'eccezionalità del suo ruolo, si interroga su di esso (vedi Sulla pittura, Sull'architettura
di Leon Battista Alberti).

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Ma aldilà di queste differenze, medioevo e rinascimento appaiono attraversati da correnti di
pensiero (neoplatonismo e aristotelismo) il cui sviluppo è unitario e la cui origine risale all'antichità.
Prendiamo ad esempio il neoplatonismo: già in Plotino si trovano i tratti caratterizzanti di questo
indirizzo nel medioevo e nel rinascimento, ossia l'interpretazione in chiave mistica di Platone. La
“caduta” dall'intellegibile al sensibile, che in Platone ha un significato metafisico, assume in Plotino
un senso teologico, nella misura in cui il luogo delle idee perfette e incorruttibili si identifica con
Dio, allontanandosi dal quale vi è perdita di essere. E il “ritorno” (all'intellegibile), che in Platone
ha un carattere etico e politico, in Plotino acquista un significato ascetico e religioso.
Inoltre, Plotino accentua gli aspetti estetici già presenti in Platone: infatti, mentre la caduta precipita
il mondo in uno stato di mancanza di valore, il ritorno è reso possibile da uno slancio d'amore, con
cui l'uomo cerca di colmare questa mancanza; e ciò che suscita l'amore è la visione della bellezza.
Ma il primo grado del ritorno, che in Platone era l'imitazione, in Plotino diventa la musica, cioè
l'arte nel senso greco del termine.
Presso il rinascimento, il coglimento della valenza estetizzante del neoplatonismo sfocerà nella
genesi di una vera e propria “religione platonica dell'arte”, una forma di religiosità estetica il cui
testo di inaugurazione è la Theologia platonica di Ficino (1482).
Questo tema ritorna anche nel De monade di Giordano Bruno (1591). L'espressione introdotta da
Bruno, l'“eroico furore”, non è altro che la traduzione della “divina follia” che Platone attribuiva
all'artista in quanto ispirato da Dio.
Altra opera in cui il neoplatonismo rinascimentale svela la tendenza a liberare la religione a una
dimensione estetica è la Poetica di Tommaso Campanella: la poesia, egli dice, è lode a Dio, ed è
mezzo per conoscerlo.

[ Le poetiche del barocco oltrepassano l'orizzonte caratterizzante medioevo e rinascimento,


operando nel senso di uno sradicamento dalla tradizione metafisica. L'arte viene riportata a una
dimensione di meraviglia e di invenzione, emancipandola da finalità mimetiche. L'universo
simbolico e mitologico viene liberato a se stesso, e gli viene riconosciuto lo stesso statuto della
realtà.

Vico svilupperà poi in modo più radicale quanto si era già affermato nel barocco. Secondo Vico, la
realtà poetica non deriva da un universale astratto che la precederebbe, ma è originaria, al punto che
la verità in quanto tale appare intrinsecamente poetica.
Secondo Baumgarten, l'arte è essenzialmente conoscenza, ma conoscenza in di tipo particolare.
Essa è conoscenza chiara ma confusa, e dunque non ancora distinta. Così Baumgarten si fa
promotore di un'idea di arte che la vede come fase intermedia di un processo volto a superarla. ]

Parte I
Cap. 1 – Da Kant a Hegel

1. Kant
Immanuel Kant si approccia all'arte e alla bellezza come problema filosofico. In primo luogo, la sua
riflessione porta a dimostrare che arte e bellezza non hanno a che fare con la verità, poiché la
bellezza riguarda l'apparenza, cioè non la costituzione degli oggetti, ma la nostra reazione
soggettiva all'atto di percepirli. L'arte poi è “gioco”, cioè esprime il libero e armonico uso delle
facoltà indipendentemente dal loro essere dirette a uno scopo. E' nella Critica del giudizio (1790)
che Kant sottolinea questi due punti.
La riflessione kantiana sull'arte ripropone il problema più generale della conoscenza, al di là della
dicotomia tra mondo sensibile e mondo intellegibile, fenomeno e noumeno, necessità e libertà, cui

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sembravano arrestarsi la Critica della ragione pura e la Critica della ragione pratica. La prima
presentava una concezione del sapere imperniata sul modello fisico-matematico; l'altra verteva sui
contenuti dell'esperienza morale.
La Critica del giudizio presenta, attraverso la messa in campo di una terza facoltà, distinta dalla
facoltà di conoscere e da quella di desiderare, la possibilità di un incontro (non conciliazione) tra i
due mondi, quello sensibile, meccanico, e quello della libertà. Tale facoltà è il sentimento (di
piacere e dispiacere). Questa facoltà non ha alcun potere conoscitivo in senso oggettivo; ma allora
come è possibile esprimersi in termini di gusto, riconoscendo nello stesso tempo che si tratta di
affermazioni soggettive, le quali però aspirano all'universalità, al comune riconoscimento di tutti?
Kant distingue tra giudizio determinante e giudizio riflettente. Il principio del giudizio riflettente è
soggettivo, eppure è a priori, ha carattere di necessità. Risponde a una finalità senza scopo, a
un'universalità senza concetto, a un piacere senza interesse, di cui la bellezza è espressione. Essa si
manifesta attraverso il “libero gioco delle facoltà”. È in questo senso che, nella contemplazione
della bellezza, il mondo naturale incontra il mondo della libertà. All'interno del giudizio riflettente,
Kant opera un'ulteriore distinzione tra giudizio estetico e giudizio teleologico. Il primo è quello il
cui principio della finalità è immediato: subito la forma dell'oggetto appare in sintonia con le
aspettative del soggetto. Il secondo è quello in cui il principio della finalità è mediato dal suo stesso
concetto, il concetto di fine.
La natura si schiude alla libertà e si manifesta come l'opera di uno spirito liberamente creatore. Di
questo polarismo tra natura e libertà, Kant rileva un punto di massima convergenza e uno di
massima divergenza. Il primo punto è rappresentato dalla teoria del genio: genio è per Kant la
disposizione innata secondo cui la natura dà la sua regola all'arte. In questo senso, la natura appare
dare a se stessa la sua legge, e dunque poggiare sopra un fondamento di libertà. Il secondo punto è
rappresentato dalla teoria del sublime: nel sublime, natura e libertà non appaiono in accordo, perché
la natura, provocando un sentimento non di piacere ma di pena, schiaccia l'autonomia del soggetto,
e dunque impedisce il libero gioco delle facoltà (vedi sublime matematico e sublime dinamico). Ma
così facendo, la natura suscita nell'uomo la consapevolezza che anche la realtà più grande è
compresa nell'idea di infinito, che egli possiede, e che anche la forza più invincibile non lo priva
della scelta di non commettere il male. Così, l'umiliazione del soggetto si tramuta in esaltazione
della sua superiorità e autonomia.

2. Fichte
Nel suo scritto del 1795, Sullo spirito e la lettera della filosofia, Johann Gottlieb Fichte sostiene che
(tanto in filosofia che in arte), è lo spirito che anima, in quanto immaginazione libera e creatrice, le
sue produzioni riportandole tutte alla loro fonte, che è estetica, e non pratica o teoretica. Nella
Missione del dotto (1811), Fichte accenna attribuisce all'arte una funzione profetica; il compito che
anticamente apparteneva ai fondatori delle religioni e ai maestri spirituali, ora tocca agli artisti e ai
poeti: tocca a loro farsi educatori dell'umanità.
Fichte presenta in sé tratti di romanticismo, pur dichiarandosi estraneo a questo movimento
culturale. L'io, per Fichte, è assoluto, è il principio di un movimento sia teoretico che etico. L'io è
l'assoluto che non lascia dogmaticamente fuori di sé il proprio limite, ma lo pone in sé, per
superarlo e affermarsi, costantemente. Luogo di questo porre è la coscienza. Si tratta di un
movimento infinito (in quanto tende al continuo superamento del limite), e che tuttavia resta
ancorato alla nozione di finito, in quanto suo luogo è la coscienza. Di qui l'ironia di un porre, di un
produrre, un qualcosa che non è prodotto se non per essere annientato e superato; un superamento
che non ritorna se non al punto di partenza. [L'ironia sarà alla base dell'atteggiamento dell'artista
romantico nei confronti della sua opera].
Fichte osserva che l'io pone se stesso. Dunque pone se stesso come proprio oggetto, e dunque come
non soggetto, come non-io. Questo comporta un'autoalienazione, una dissociazione dal cuore stesso
dell'io, come mettono in luce chiaramente i romanzi di Tieck, grande esponente del nichilismo
romantico di origine fichteana: per riconoscere se stesso in tutto ciò che non è, l'io esce da sé,
assume tutte le maschere, e in un delirio di onnipotenza, gioca tutti i giochi, vive tutte le vite, recita

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tutte le parti, cosa che comporta una disintegrazione dell'identità personale.
In realtà Fichte salvaguarda sempre il nesso tra io e non-io, tra io e natura, introducendo la nozione
di immaginazione produttiva, intesa come facoltà attraverso la quale l'io produce la natura. La
produce inconsciamente, dato che la natura ci è data come fuori di noi, ma la produce come se fosse
il proprio contenuto profondo, che attende di essere liberato e riportato al soggetto, alla libertà.

3. Schelling
Rispetto a Fichte, F. W. J. Schelling opera uno spostamento dell'asse tematico dall'etica all'estetica,
con l'intento di superare i limiti e le contraddizioni del pensiero fichteano. Di cui critica la tensione
tra natura e spirito, in quanto astratta e rigida, se si considera la natura come opposto privo di vita e
puramente strumentale dello spirito, e se si considera quest'ultimo come il principio che supera la
natura destinandola alla negatività. Shelling sottolinea invece la sostanziale unità di natura e spirito,
la quale è attestata dall'arte, che dunque deve diventare “organo della filosofia”. Questa tesi giunge
alla sua formulazione più compiuta nel Sistema dell'idealismo trascendentale (1800). Qui Shelling
distingue due vie al riconoscimento dell'originaria indistinzione di soggetto-oggetto: quella della
filosofia trascendentale, e quella della filosofia della natura. Le due vie procedono, rispettivamente,
dal soggetto all'oggetto e dall'oggetto al soggetto; entrambe però convergono nell'affermare che il
sapere produce da sé il suo contenuto. Il sapere è fondato sopra l'“intuizione intellettuale”, cioè
sopra una facoltà che crea ciò che conosce. Le tre fasi del processo conoscitivo-produttivo
dell'intuizione intellettuale sono: (1) l'oggetto della conoscenza è come fuori di essa; (2) la
coscienza riconosce se stessa come coscienza dell'oggetto, e dunque costitutiva dell'oggetto stesso;
(3) la coscienza è oggetto, in quanto oggetto di sé, e soggetto, in quanto coscienza di sé: diviene
autocoscienza, soggetto e oggetto insieme.
Spirito e natura, dunque, sono tutt'uno, anzi, sono l'uno-tutto. Questo è l'assoluto, in quanto in esso
non c'è determinazione che non sia esso stesso a darsi.
Il problema diviene: come cogliere l'assoluto in quanto tale, nella sua realtà concreta ed effettiva?
Attraverso l'arte. Questo perché l'arte, nell'atto stesso di essere dà a sé, liberamente, la propria legge,
fa coincidere il sensibile con l'idea, materia e forma. Essa opera per mezzo della stessa intuizione
intellettuale: questo perché l'arte, intuendo l'oggetto, fa sì che esso sia quale è. L'arte è attività
intuitiva, nel senso che intuendo produce da sé il proprio prodotto, che è oggetto, cosa, ma ha in sé
la propria ragion d'essere, il proprio principio vivificatore.
Schelling distingue tra arte (intesa come tecnica, lucida consapevolezza , capacità di padroneggiare
la propria materia) e poesia (intesa come impulso più specificamente creativo, trascendente e
inconsapevole). L'arte senza poesia dà luogo solo a opere prive di vita, mentre la poesia senza l'arte
esplode per mancanza di disciplina in un caotico e incomunicabile niente.
L'antitesi tra arte e poesia è conciliata dal “genio”, cioè dalla disposizione che riunisce
perfettamente in sé sia l'una che l'altra.
Dio stesso, l'Assoluto, opera artisticamente, è il grande artista del mondo, il quale è la Sua opera. In
essa Dio si nasconde e insieme si manifesta. Ciò accade specialmente nella mitologia, che per
Shelling costituisce la inesauribile risorsa dell'arte in ogni epoca. Qui il sistema entra in crisi:
essendosi arrischiato su una posizione panteistica, Shelling si trova di fronte al problema di render
ragione della negatività e del male.

4. Hegel
G. W. F. Hegel dedicò ripetutamente, tra il 1817 e il 1829, i suoi corsi universitari all'estetica. Nella
prefazione alla Fenomenologia dello Spirito (1807), Hegel critica il principio fondamentale della
filosofia del romanticismo, e cioè l'intuizione artistica, l'ispirazione che annulla tutte le differenze;
egli usa il termine “colpo di pistola”, con il quale si pretenderebbe di raggiungere l'assoluto senza la
mediazione (faticosa) del concetto. Nelle Lezioni di estetica si sofferma sull'ironia, mostrando che
quest'idea deriva da una lettura unilaterale della soggettività fichteana, alla quale qualsiasi oggetto
appare privo di sostanza, nient'altro che un'occasione per il proprio affermarsi. Espediente
dell'“anima bella”, l'ironia, mostrando la vanità di tutto ciò che è esterno al soggetto, finisce per

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rendere il soggetto vuoto e vano esso stesso.
D'altra parte, Hegel usa anche il termine romanticismo in senso non critico, e parla dell'arte
romantica come di una forma in cui si esprime il destino del tempo, e cioè come quella che, insieme
con l'arte simbolica e l'arte classica, permette allo spirito assoluto di rivelarsi compiutamente, sia
pure ancora solo nella sua manifestazione sensibile. In questa accezione, l'arte romantica è per
Hegel una categoria dello spirito.
L'arte romantica, in quanto arte cristiana, libera l'elemento spirituale dalla materialità, non
sopprimendo la materialità, ma rappresentando questa liberazione. Ne deriva una spiritualizzazione
della bellezza artistica, e una svalutazione della bellezza naturale (la natura, col cristianesimo, non è
più manifestazione immediata del divino). Dunque per Hegel, l'arte romantica è espressione
dell'emancipazione dello spirito dalla natura, piuttosto che della loro identità.
Hegel è fortemente critico nei confronti di una “falsa posizione” che per lungo tempo ha impedito
all'estetica di configurarsi come teoria filosofica, ossia la posizione secondo la quale l'arte dovrebbe
essere null'altro che il mezzo per fini morali, posizione che pone il fine sostanziale dell'arte in
qualcosa d'altro, e non in se stessa. L'arte è invece rivelazione della verità, e ha dunque in sé il suo
scopo ultimo.
Il compito dell'estetica è, per Hegel, mostrare come l'ideale, o bello artistico sia, simultaneamente,
soggetto e oggetto; mostrare come esso si autodetermini in quanto manifestazione sensibile
dell'idea, e dia luogo storicamente a varie forme artistiche che corrispondono a gradi di sviluppo
categoriali.
Hegel ricostruisce in tre atti l'intera storia dell'arte. (1) arte simbolica: l'idea appare ancora
soverchiata dall'elemento sensibile, prigioniera; essa tende a fuoriuscire, ma i suoi ricettacoli,
forzati, tendono faticosamente all'ideale producendo per lo più il mostruoso o il sublime; (2) l'idea
trova nel corpo dell'uomo la sua forma perfettamente adeguata; (3) nell'arte romantica, l'ideale si
ritira in se stesso e opera una frattura tra l'idea e la sua manifestazione; si emancipa dall'elemento
sensibile in modo assolutamente libero.

Cap. 2 – La rivoluzione romantica

1. Il romanticismo
C'è chi nel romanticismo ha visto il compiersi del processo di dissoluzione della metafisica e di
ogni forma di sapere fondativo, e dunque ha visto nel romanticismo l'orizzonte dal quale ha preso le
mosse il nichilismo contemporaneo. Il romanticismo riconosce l'infondatezza della realtà, e mette in
chiaro che la produzione di senso, l'interpretazione e l'invenzione poetica coincidono.
C'è chi ha accolto questa tesi per svolgerla in senso religioso, sostenendo che i romantici
risolvessero sì la realtà nel mito, nella parola, ma per identificarla con la parola di Dio.
In ogni caso, si può dire che il romanticismo rappresenta il punto di non ritorno della modernità. A
partire da esso, infatti, viene a mancare la separazione tra il dominio dell'apparenza (proprio
dell'arte), e quello della verità (proprio della scienza). Inoltre, con il romanticismo, arte e verità
tendono ad apparire come originariamente solidali. Talvolta, questo ha portato a una vera e propria
estetizzazione della realtà da parte dei romantici, nel senso che l'arte è divenuta l'unico strumento in
grado di penetrare la realtà e di conoscerla, o addirittura di agire su di essa.
L'artista diviene di volta in volta l'asceta capace di risvegliare con la sua arte il senso religioso
riposto in tutte le cose (Wackenroder), eroe prometeico, demiurgo, mediatore tra umano e divino
(Schlegel), mago iniziato ai segreti della natura (Novalis), ecc...
Il modello di vita dedicata all'arte viene a delinearsi come l'unico veramente degno di essere
praticato, fino a fare della propria vita un'opera d'arte. L'esperienza estetica non solo viene a
riassumere in sé tutte le altre, ma ne è la radice.
Per i romantici l'opera d'arte attesta che l'infinito, cioè la verità, è nel finito, e lo è immediatamente
e assolutamente, ma nello stesso tempo ne differisce e lo trascende infinitamente, cosicché le forme
si generano continuamente dalle forme, in una vertiginosa produzione volta all'autodistruzione.

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Questo spiega il rapido e progressivo inclinare del pensiero romantico verso la religione e la
mitologia. Il linguaggio religioso, infatti, per la sua natura simbolica, implica la presenza dell'eterno
nella realtà effimera e contingente, lieve, della parola. L'ironia del mito è la sua perfetta
identificazione con la propria parola. Dio è quel che è, è la parola che lo identifica, che non deve
rendere ragione di sé, perché infondata, ma la stessa parola, lo sottrae a qualsiasi identificazione.

2. Novalis e Schlegel
Alla rivista “Athenaum” parteciparono pensatori del calibro di Novalis, Tieck, Schelling,
Schleirmacher, Friedrich e Schelgel. Figura di spicco fu Novalis. Egli per primo intuì la possibilità
di portare il pensiero di Fichte sul piano dell'estetica. La critica suddivide l'opera letteraria di
Novalis in tre fasi: una prima fase (più propriamente fichteana), in cui la natura e il finito sono
pensati come ostacoli al ricongiungimento con l'assoluto; una seconda in cui la natura appare invece
come linguaggio cifrato e rivelativo da interpretare nella sua simbologia; infine una terza,
all'insegna dell'armonia e della riconciliazione.
Novalis approda a una forma di “idealismo magico” che consiste nello scoprire un aspetto
misterioso nel quotidiano, un profondo significato nascosto nelle cose comuni, l'apparire
dell'infinito nel finito. Questo significa “romantizzare” il mondo, coglierne il senso originario, e
questo compito è dell'artista. Ciò è il risultato dello spostamento al piano estetico del principio
morale per cui la volontà dà a sé la propria legge.

Centrale nella riflessione di Schlegel è il concetto di “ironia”. Esso è identificato, da Schlegel, nel
movimento descritto da Fichte come l'essenza dell'attività spirituale, cioè come il gioco attraverso il
quale l'io pone se stesso nell'altro per riappropriarsene a un livello più alto. I prodotti dell'io,
tuttavia, appartengono all'io ma non sono l'io, che si cala in essi ma ne prende le distanze, e li
guarda come occasioni del suo affermarsi. Inoltre, Schlegel interpreta la libertà fichteana come
arbitrio, prefigurando l'immagine nietzscheana del “fanciullo cosmico che si trastulla con i mondi”.
Secondo Schlegel, il poeta moderno, ironista per eccellenza, opera criticamente sui materiali che la
tradizione gli offre, fino a trasformarli completamente, al punto che la sua operazione appare
un'elaborazione dal nulla. Poesia non è altro che critica nell'atto di trar fuori un nuovo (e sempre
provvisorio) ordine dalla dissoluzione del precedente, in base all'inarrestabile alternanza di caos e
forma.

3. Wackenroder e Hoffmann
Le due anime del romanticismo, religiosa e nichilista, si ritrovano espresse in modo esemplare,
rispettivamente in Wackenroder e in Tieck. E c'è anche chi le ha comprese entrambe in sé, come
Hoffmann.
Negli Sfoghi di un monaco amante dell'arte, W. H. Wackenroder afferma che l'arte e la natura sono
linguaggio: linguaggio cifrato di Dio, geroglifici e segni che esprimono l'inesauribile senso della
creazione secondo l'apparenza esterna. La natura è forma di linguaggio più ricca dell'arte, la quale
nondimeno “apre i tesori del petto umano”. Nelle Fantasie dell'arte, tuttavia, Wackenroder apre a
una dimensione estetica che sembra rovesciare la precedente, nella quale il finito non è più il luogo
dove presenze divine si svelano all'anima devota dell'artista, bensì quello di un'esperienza ambigua
e terribile, dove ogni cosa è in opposizione e contraddizione e rinvia al proprio contrario. Le
passioni dell'uomo cambiano continuamente di forma, sfuggono alla presa del giudizio morale, che
vorrebbe fissarle in un ordine dato, e si abbandonano alla corrente del tempo, a una “sfrenata
licenza”. Questa “folle libertà” è espressa dalla musica, che nel suo intreccio ripete l'alternanza di
“gioia e dolore, natura e artificio, scherzo e brivido di terrore”, e evoca l'incessante scambio degli
opposti. Inoltre, la musica esprime il carattere di eterna mobilità dell'assoluto, il suo scorrere come
“misteriosa corrente”. Al di là del bene e del male, al di là delle figure in cui di volta in volta
l'originario disordine si lascia temporaneamente organizzare, risuona il “tragico canto del mondo”, e
questo canto è il sì alla vita che sale dal profondo e vaga attraverso tutte le specie di dolore e,
amandola, perfeziona la sua stessa sofferenza. Interessante è l'attenzione che, in uno degli ultimi

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saggi sulla pittura, Wackenroder dedica alla nozione di “mostruoso”, che si trova presso alcuni
pittori come attrazione per gli aborti della natura, per le immagini ripugnanti, che talvolta
esprimono attraverso l'artista una “forza esondante”, un “eterno e inquieto travaglio”, portando la
creazione artistica al paradosso di possedere un'essenza caotica.
[Tieck accentuerà questa svolta nichilistica di Wackenroder].

Wackenroderiano e tieckiano al contempo può essere definito E. T. A. Hoffmann, il quale incarna


entrambe le anime del romanticismo. I suoi racconti sono disseminati di riferimenti a Wackenroder;
tuttavia, nelle sue riflessioni l'arte viene continuamente spinta in una zona di confine, dove il senso
è sempre sul punto di rovesciarsi nell'assurdo, e dove la realtà sconfina nel sogno, e spesso nel
delirio, con una ripresa talvolta esplicita di tematiche tieckiane. Nell'opera di Hoffmann, la
condizione dell'artista è caratterizzata da alienazione e lacerazione: alienazione rispetto al mondo
dell'esperienza quotidiana, che rispetto al mondo sublime e armonioso cui aspira l'artista è pura
negatività; lacerazione nel cuore dell'io, in quanto esso è il luogo dell'ipotetica, ma in definitiva
impossibile unità di questo e di quel mondo. Qualsiasi tentativo di ricomposizione non porta che a
una riproposizione del conflitto su un piano più alto, finché non intervengono, liberatrici, morte o
follia. L'arte, secondo Hoffmann, appare costitutivamente legata alla follia, e a essa destinata; è una
specie di alchimia di dolore e disperazione, un'opera di straniamento catartico che talvolta può
strappare alla brutale insensatezza della materia una liberante “risata di piacere”, di un piacere nato
dal dolore e dalla disperazione. Vale anche il principio contrario: può accadere che dal riso
scaturisca improvvisamente un sentimento che raggela. Questo perché, per Hoffmann, comico e
tragico hanno un unico punto focale, e l'essenza dell'uno e dell'altro è l'ironia.

4. Schiller e Goethe
Schiller e Goethe sono figure che la critica stenta a collocare: c'è chi li descrive come classicisti in
polemica col romanticismo; c'è chi riconosce in essi una prima fase classicheggiante, seguita da una
fase romantica; infine, c'è chi li considera “romantici loro malgrado”, in quanto romanticamente
ispirato sarebbe lo stesso sogno di una classicità perduta.

Friedrich Schiller esordisce con il saggio del 1784 intitolato Il teatro come istituzione morale. Al
teatro affida il compito di farsi coscienza critica della sua epoca, e riconosce nella drammaturgia la
più alta forma di espressione artistica, e la manifestazione più esplicita dell'essenza mediatrice
dell'arte. Da Kant, Schiller riprende la nozione di “libero gioco delle facoltà”; e tuttavia la estende,
fino a portare a contatto i due ambiti di esperienza che Kant aveva tenuto separati, quello della
bellezza e quello della moralità. Per Schiller, contrariamente a quanto sosteneva Kant, il gioco non è
legato soltanto all'ambito della bellezza, e dunque dell'apparenza, ma ha una profonda connessione
con il reale: il gioco artistico “dice la verità”. Esiste una dimensione in cui l'esperienza estetica e
quella morale coincidono: ciò accade quando la risposta all'imperativo etico non deriva da un
contrasto o da una lotta, ma sorge spontaneamente, al punto che il dovere è tutt'uno con il piacere, e
il soggetto non conosce scissione o lacerazione, ma solo armonia. Questa è ciò che Schiller chiama
“anima bella”, quella che compie con grazia il suo destino morale. Benché questa personalità
armonica appaia come un frutto spontaneo della natura, tuttavia l'accordo della volontà morale con
la sensibilità balena, a livello di possibilità, nell'anima di ogni uomo. Dunque, questa condizione
felice può essere conquistata per mezzo di un affinamento dello spirito realizzabile attraverso
l'educazione estetica. Nelle Lettere sull'educazione estetica del genere umano (1795), Schiller si
dedica a questo tema: il superamento del conflitto tra libertà e impulso viene dall'educazione
estetica, come educazione della sensibilità alla libertà. L'educazione estetica diviene il presupposto
ad una emancipazione dell'umanità.
Schiller si trova però a confrontarsi con il seguente problema: sembra che questa emancipazione
dell'umanità, piuttosto che situarsi nel futuro dell'umanità, sia collocata nel suo passatto. L'ideale di
un'esistenza non scissa e non lacerata, armoniosa, sembra essere piuttosto alla base del mondo
greco, dal quale la modernità sembra irrimediabilmente esclusa. Nel saggio La poesia ingenua e

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sentimentale, Schiller ammette che la poesia “ingenua”, quella propria degli antichi, è il prodotto di
un mondo che ignora la scissione di sensibilità e razionalità, libertà e impulso; ed ammette anche
che la poesia “sentimentale” dei moderni appartiene a un orizzonte dominato dalla consapevolezza
che ingenuità e immediatezza sono irrimediabilmente perdute. Tuttavia, queste considerazioni non
devono portare a un atteggiamento di tipo regressivo; anche dopo la scissione, vi è un momento di
ricomposizione, di mediazione, di cui l'“anima bella” è una figura esemplare. Figura alla quale si
deve guardare non più come a un miracolo della vita, bensì come a un possibile prodotto
consapevole dell'educazione estetica.

Wolfang Goethe sembra, almeno in un primo momento, restare ancorato a una posizione di
classicismo, che egli dichiara e motiva nei suoi scritti di teoria dell'arte pubblicati tra il 1788 e il
1789. Qui Goethe delinea l'idea di un'arte che non sia vincolata da regole canoniche che la
tradizione tenderebbe a imporle, ma neppure totalmente abbandonata all'arbitrio soggettivo
dell'artista. In questi scritti appare anche fondamentale il concetto di natura, presentato in un duplice
significato: da una parte essa è intesa come fondamento dell'arte, dall'altra come fondamento
produttivo e inesauribile in quanto tale. L'arte non si limita a imitare la natura, nel senso di esibire
copie di prodotti naturali già dati una volta per tutte; essa piuttosto, consapevole del carattere
artificiale e fittizio delle sue produzioni, lascia agire in essa l'universale formatività. Il fenomeno,
per Goethe, non si contrappone alla realtà, ma ne è la manifestazione. Goethe parlerà della bellezza
come fenomeno originario, sia in quanto la bellezza è costitutivamente fenomenica, sia perché essa
non è che l'apparire dell'inesauribile produttività della natura. Nel saggio Della verità e
verosimiglianza dell'opera artistica, Goethe ribadisce che l'arte coglie la verità profonda della natura
al di là della natura stessa: non nella pretesa che le sue produzioni somiglino illusionisticamente alle
produzioni naturali, bensì nel riconoscimento che essa ritrova la natura estendendosi nell'artificio e
nella finzione. Dunque anche Goethe si trova, con i romantici, a difendere la portata di verità del
fenomeno ludico, artificiale e fittizio nel quale consiste l'arte.

5. Hölderlin
Anche Friedrich Hölderlin stenta a farsi incasellare in una categoria come “classicismo” o
“romanticismo”. Nella sua opera celebrò l'etere, una sorta di luminosità divina nella quale gli
uomini e le cose si stagliano assumendo caratteri sacrali, e tuttavia fu consapevole del fatto che gli
dei hanno abbandonato il mondo moderno, e che dunque il poeta può cercarne le tracce solo
facendosi testimone di quest'abbandono. Per gran parte della sua vita fu preda della follia. E forse fu
proprio questa a fargli intuire prima di Nietzsche, dietro a una Grecia idealizzata dai classicisti,
anche una classicità sotterranea e lacerata. Di qui, probabilmente, la sua tensione a cogliere
l'armonia di tutto ciò che è nel cuore stesso del caos. Nell'Iperione, Holderlin traccia la sancisce
l'impossibilità di ritornare all'antico, e insieme l'impossibilità di vivere nel moderno. Ma in questa
doppia impossibilità aveva indicato la “contraddizione che salva”, e cioè il sacrificio, l'accettazione
gioiosa del negativo, il sì alla vita. Analogamente, nell'Empedocle, aveva visto nella morte
volontaria la via per l'unificazione dionisiaca con la natura, non per negare, ma per affermare la
molteplicità di cui la natura consiste.
Nello scritto Sul metodo dello spirito poetico, Holderlin tenta di indicare nella nozione
contraddittoria di “ciò che è armonicamente contrapposto” la vivente unità dell'universo. Solo la
poesia è in grado di rivelarne e coglierne il fondamento, che è la realtà non superabile della
contraddizione. Non può riuscirvi la logica, per la quale la contraddizione è irreale, né la dialettica,
per la quale la contraddizione è reale, ma solo provvisoriamente e in riferimento ad altro, perché
viene poi superata. Invece la poesia intuisce nella contraddizione il ritmo per cui tutto è “processo e
scambio”, ed è tale ritmo a costituire l'armonia del contrapposto. Nella contraddizione, la poesia
sente l'infinito e il divino, e ne dice il tramontare, lo sparire, come costitutivi del loro essere.
Il compito della poesia è quello di mantenere un filo e una memoria all'interno dello scambio
armonico, affinché lo spirito rimanga sempre presente a se stesso. Il “filo” e la “memoria” di cui la
poesia dispone sono il canto che lo spirito intona con se stesso. Nei Frammenti sui generi poetici,

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questo canto appare modulato su registri stilistici diversi, e dà luogo a una commista espressione di
tutti, tanto che lo sviluppo cronologico dei generi rappresenta l'evolversi ideale della poesia e
mostra nel tragico la perfezione dell'epico, nel lirico la perfezione del tragico, nell'epico la
perfezione del lirico.
Dire cosa sia il tragico per Holderlin è assai difficile, poiché egli ricorre a categorie non tradizionali,
anticipando in modo criptico il tentativo, che poi sarà compiuto da Nietzsche, di superare la
tradizione interpretativa e uscire dal suo orizzonte.
Holderlin usa le nozioni di “aorgico” e “organico”: da una parte la realtà informe e caotica,
distruttiva e dispersiva, sotterranea; dall'altra la realtà solare, figurale, produttiva e creativa. Tra
l'una e l'altra c'è contraddizione inconciliabile. Il tragico, dunque, è in primo luogo l'intuire l'ultimità
della contraddizione. Il soccombere al destino di sofferenza e morte cui soggiace il vivente assume
valore sacrificale, e riconsegna alla “beata unità”, alla pace, all'essere.

Cap. 3 – La crisi del razionalismo metafisico

1. Rosenkranz, Solger, Vischer


Nell'Estetica del brutto (1853), Karl Rosenkranz tenta di ricondurre allo hegelismo l'esplorazione
della negatività compiuta dai romantici. Ma nello stesso tempo, quest'opera è l'istantanea di un
punto di non ritorno, evidenziando la fragilità del concetto di armonia in opposizione alle crescenti
disarmonie e dissonanze, difficilmente controllabili esteticamente. La soluzione proposta da
Rosenkranz è tipica del razionalismo metafisico: Rosenkranz afferma che l'armonia si manifesta
tanto più potente quanto più grande è la disarmonia su cui trionfa. Questo significa che la
disarmonia non ha vita propria, e quindi non sarà mai bella di per sé, ma solo in rapporto
all'armonia. La bellezza, in questo contesto, è l'apparire, nella stessa negatività, della potenza
connettiva, salvifica, rinnovatrice dell'armonia. La fenomenologia di Rosenkranz descrive il
processo attraverso il quale il negativo estetico si supera dall'interno: il bello, come il bene, è
assoluto, mentre il brutto, come il male, è relativo. Anzi, il brutto non è altro che autodistruzione del
bello, e dunque può esso stesso autodistruggersi, tornando in unità con il bello. Questo accade
quando il brutto riconosce se stesso come separato dal bello, tanto da mostrarsi comico e suscitare il
riso.
Tuttavia, in un successivo confronto con Hegel, Rosenkranz si renderà conto dei limiti della sua
impostazione, primo fra tutti l'impossibilità di ridurre la negatività al momento conciliante della
dialettica.

Theodor Vischer pubblicò, tra il 1846 e il 1857, Estetica o scienza del bello. Qui, riprende da Hegel
la nozione di “ideale” come manifestazione sensibile dell'idea, per mostrare l'inevitabile frattura tra
l'idea e la sua manifestazione: questo perché l'ideale è negazione dell'idea, che solo così si manifesta
sensibilmente in qualcosa. L'arte, secondo Vischer, opera per mezzo della negazione, la esibisce e si
mantiene in rapporto con essa.

Che l'arte sia costitutivamente segnata dalla negatività è una tesi che era stata già avanzata negli
anni Dieci e Venti dell'Ottocento da Karl Wilhelm Ferdinand Solger. Egli individua, nell'esperienza
estetica, il luogo della crisi del razionalismo metafisico, e in questo è molto vicino ai romantici e a
Holderlin. Solger anticipa l'idea, che sarà poi di Kierkegaard e di Schopenhauer, per cui l'esperienza
dell'arte e del bello, lungi dal rinviare alla riconciliazione metafisica di finito e infinito, ne
rappresenta piuttosto l'impossibilità e il fallimento.

2. Kierkegaard
La riflessione estetica segnerà soprattutto la prima fase della produzione di Sòren Kierkegaard. In
Aut-aut, egli considera l'esperienza estetica come una scelta esclusiva di vita. E già emerge una
contraddizione: come può darsi la scelta all'interno della dimensione estetica, che è al di qua della

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morale e ne ignora perfino il concetto? Altra contraddizione: tanto più l'esistenza estetica è perfetta,
chiusa in sé come un'opera d'arte, tanto più è malinconica, disperata e autodistruttiva. E da essa
l'esteta non può uscire se non attraverso una consapevolezza che il suo tipo di vita tende di fatto a
impedire.
L'esteta vive sempre e solo nel momento, e ha una coscienza di se stesso relativa e limitata. D'altro
canto, nel suo punto più alto la vita estetica accoglie in sé la coscienza della nullità di se stessa. Il
fatto è che questo modello di vita è teatro di un'ambiguità profonda: per un verso si tratta di un
lasciarsi andare, un disporsi a raccogliere qualsiasi occasione, perché anche la più insignificante può
racchiudere tesori di piacere; per altro verso, questa perdita di centro ha effetti disgreganti sulla
personalità: ne deriva un perdersi negli stati d'animo, un disfarsi nella molteplicità, che getta l'esteta
in balia di cose che non controlla. In definitiva, ciò che soltanto soddisfa l'esteta è l'assoluta
insoddisfazione.
Se in ogni cosa può trovare quanto di meglio possa desiderare, grazie alla sua capacità di percepire
le minime sfumature nell'apparente banalità quotidiana, tutto però finisce col divenire uguale,
perché ogni cosa vale l'altra, e non c'è niente che non possa venir sostituito.
Per l'esteta non esiste che l'istante, ma ogni istante è per sé; dal punto di vista estetico, il tempo
appare in ogni suo istante perfettamente in sé concluso. Di qui il nulla del desiderio e dell'attesa, e il
nulla della memoria. Dunque, per l'esteta non vi è nessuna continuità, e quindi nessuna
responsabilità, ma egli si ritrova soggetto a una casualità da cui non ci si libera se non offrendosi a
essa. La disperazione è dunque la forma a priori della vita estetica, e insieme ne è l'esito
catastrofico; questo in quanto la vita estetica è basata sulla pura esteriorità, sul nulla di un'esistenza
senza valore intrinseco.
Il livello più alto e più sofisticato della vita estetica, che supera la vita di superficie e di apparenza
per aprirsi sul suo fondo inquietante e lacerato, è la malinconia. Il malinconico è colui il quale tutti i
tesori del mondo non basterebbero a divertire, ma gli basta talvolta un qualcosa di insignificante per
provare una gioia straordinaria. La fatica della ricerca di emozioni sempre più sottili e complesse lo
lascia esausto; il suo spirito vorrebbe erompere, ma non trova via d'uscita. Subentra così uno sterile
e disperato ripiegamento in se stesso, la malinconia, che altro non è che disperazione vissuta
esteticamente. Può accadere anche che, a partire da questo stato, vi sia il salto per cui l'esteta giunge
a identificare nella propria autodistruzione il senso dell'esistenza stessa.

3. Schopenhauer
Nell'opera del 1819, Il mondo come volontà e rappresentazione, Arthur Schopenhauer identifica
nella volontà l'unico, irrazionale principio che muove il tutto, e lo condanna a un'esistenza effimera
e insensata. Che la volontà sia il principio cui soggiace, in tutte le sue forme, l'esistente, è attestato
dal sentimento che ciascun vivente ha della propria volontà di vivere. Essa è sempre identica a sé
come volere i cui contenuti sono indifferenti e pretestuosi, e dunque produce conflitto e aggressività
senza ragione, solo per affermare se stessa. È a partire dal mondo come rappresentazione, cioè non
come è, ma come gli appare attraverso le forme a priori di spazio, tempo e causalità, che l'uomo
crede di trovare un fondamento, o almeno una serie di leggi costanti in ciò che, in realtà, è
perfettamente irrazionale.
La volontà non ha altro oggetto che se stessa, e dunque oggettiva se stessa prendendo se stessa a
contenuto del suo volere. E questo “sé” è un'idea, in senso platonico. Si tratta infatti della forma
eterna dei fenomeni, l'archetipo che sta alla base della serie infinita di essi. E in quanto forma
eterna, essa è al di là dello spazio, del tempo e della casualità. Per coglierla, occorre travalicare i
confini dell'individualità, e diventare “puro occhio del mondo”.
Ciò accade per mezzo dell'arte. Non vi è alcuna differenza qualitativa tra l'artista e l'uomo comune,
ma solo quantitativa: l'artista ha solo la capacità di memorizzare più a lungo, e dunque di fissare in
una determinata materia quel che ha intuito (se così non fosse l'uomo comune non sarebbe neppure
in grado di contemplare le opere dell'artista, e riprodurre nella sua anima l'intuizione che le ha
suscitate). L'esperienza artistica è dunque identica, per l'artista e per l'uomo comune: entrambi
conoscono nelle cose l'essenziale, e raggiungendo l'“in sé” della volontà, si sottraggono al suo

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dominio. Nell'esperienza estetica, la volontà è colta come oggettivata nei contenuti dell'intuizione,
che stanno al di là del mondo come rappresentazione. Perciò, chi si innalza alla loro
contemplazione, “strappa il velo di Maya”. Nulla può la volontà su chi, contemplandola, ha cessato
di volere.
Schopenhauer nega la distinzione dell'arte in forme storiche, in quanto il piacere estetico appare
sempre uno e identico; pure, vi sono vari gradi di generi artistici, che corrispondono a vari gradi di
oggettivazione della volontà.
Il livello più basso è l'architettura. Se considerata indipendentemente dai suoi fini pratici, essa rende
intuibili le idee che rappresentano “il grado infimo di oggettività”, ossia la gravità, la solidità, la
coesione, ecc... Scopo dell'architettura è dunque quello di mostrare l'oggettivazione della volontà
come “oscuro, incosciente, meccanico impulso della massa”.
Lo scopo della tragedia, che raggiunge il grado più alto dell'oggettivazione della volontà, è quello di
disvelare l'interno dissidio nella sua verità ultima, e quindi di liberare rassegnazione, accettazione
della morte, rinuncia non alla vita soltanto, ma alla stessa volontà di vivere.
La musica è invece al di là di questa gerarchia, poiché esprime direttamente l'oggettivazione della
volontà, senza la mediazione di figure o di eventi del mondo fenomenico.
Il senso del mondo, che si cogli attraverso l'arte, è la volontà come dissidio, e dunque come
lacerazione e sofferenza infinite. Ma il coglimento di questo senso è pace, quiete, poiché è in fondo
il ritrovamento della volontà nella sua innocenza, al di là del bene e del male.

4. Nietzsche
Con Friedrich Nietzsche, l'esperienza estetica diviene il luogo più proprio della crisi dei valori,
degli ideali e delle ideologie, la crisi della morale e della stessa idea di verità. Questa crisi, questa
demistificazione dei presupposti della morale, della religione e della metafisica, è resa possibile dal
fatto che l'uomo è esposto alla libera trasformazione di ogni cosa che l'arte, e l'esperienza estetica,
lasciano venire in luce.
L'esperienza estetica è in primo luogo esperienza del tragico, mentre mostra come fittizie e illusorie
le consolazioni ultraterrene e cancella le norme e i fondamenti che rassicurano, restituisce l'uomo
alla possibilità di vivere la vita, nella gioia e nel dolore, per quella che è, tolto il filtro deformante
delle giustificazioni religiose e scientifiche.
Quella di Nietzsche è soprattutto una riflessione sull'essenza e sul significato storico della tragedia.
È alla tragedia greca che egli guarda nei suoi primi scritti (vedi L'origine della tragedia dallo spirito
della musica, 1872). Ed è ancora la tragedia che Nietzsche, nei suoi ultimi frammenti, propone
come estremo approdo della modernità liberata dai suoi fantasmi e dai suoi miti.
Ne La nascita della tragedia, il tragico appare come il risultato di due impulsi estetici fondamentali:
l'impulso, tipicamente musicale, alla perdita dell'identità e alla riunione con la natura (dionisiaco); e
l'impulso, tipicamente plastico, alla raffigurazione dell'esistenza in forme solari e come sottratte alla
dissipazione (apollineo). Il primo ha la sua origine in Asia, il secondo è tipico del genio dei greci.
Questo consiste nel guardare alla crudeltà della natura e alla distruzione della storia universale,
senza lasciarsi vincere dal panico o dalla negazione della volontà di vivere, poiché l'arte viene in
soccorso e svolge i pensieri di disgusto per l'assurdità dell'esistenza in rappresentazioni “con cui si
possa vivere”. Accade poi che il culto asiatico di Dioniso approdi in Grecia, e si uniformi allo
spirito religioso apollineo, ingentilendosi. Dal coro dionisiaco dei satiri, un coreuta si stacca e
anziché danzare con gli altri, rappresenta di fronte a essi la propria danza. È così, dalla musica
venuta in contatto con la plasticità, con la rappresentazione, che nasce la tragedia. La tragedia mette
in scena l'eterna vicenda di colui che soffre, e al contempo esulta nella sofferenza, in quanto sa che,
in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, potente e gioiosa. Dunque, la
tragedia fornisce una sorta di consolazione metafisica.
Ma se la tragedia nasce nello spirito della musica, muore nello spirito della forma, del logos.
“L'abbraccio di Apollo e di Dioniso è produttivo della più alta esperienza estetica di cui l'Occidente
sia stato capace, ma è mortale”. Infatti, la forma implica il ricorso al logos, e dunque la tragedia non
può esprimere e rivelare la sua verità raccapricciante, l'assurdità dell'essere, senza contraddirsi.

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La tragedia giunge così a morire per necessità interna, e finisce per volgersi in commedia. In effetti,
in alcuni dei suoi successivi scritti (vedi Il crepuscolo degli idoli), Nietzsche osserva che “il mondo
diventa favola”, il che può essere interpretato come un alleggerimento e di una vanificazione del
pathos della tragedia. Ma in realtà, per usare le sue stesse parole, egli “si allontana dal tragico per
approdare al tragico”, e dunque guarda al tragico come nucleo dell'esperienza estetica quale è
possibile riscoprire dopo quella critica.
Dunque Nietzsche, alla fine della sua vita, guarda al tragico al di là della tradizione, che l'ha sempre
definito in termini di catarsi e ascesi, e lo pensa identificandone l'essenza con l'essenza
dell'esperienza estetica. L'arte così dà voce al negativo senza la mediazione di un qualche senso
superiore, ma abbraccia il terribile, il male, il problematico. Il tragico nietzscheano è dunque pura,
gioiosa trasparenza del negativo.

Parte II

Cap. 1 – Dal positivismo alle avanguardie

1. Taine, Guyau (la sociologia dell'arte)


Nella seconda metà dell'Ottocento il romanticismo tramonta, illanguidendosi in una sorta di
“accademia dei sentimenti” e delle vaghe aspirazioni. Ne seguì un movimento di profonda reazione,
il quale tuttavia fu denso di contenuti romantici, pur dichiarandosi in opposizione al romanticismo.
La tesi fondamentale del romanticismo, per cui l'arte è luogo di un'esperienza di verità, è alla base
di tutto il percorso dal realismo al naturalismo, fino al simbolismo. È significativo il comune
riferimento alla poetica di Baudelaire, e in generale al principio secondo cui l'arte coglie qualcosa di
altrimenti intellegibile.
Dall'orizzonte del positivismo emerge una disciplina filosofica, la sociologia dell'arte, che si oppone
dichiaratamente al romanticismo, e al contempo ne riprende l'idea secondo cui l'arte riflette e svela
quel che per i romantici era lo “spirito del tempo”, e che i positivisti chiamano il “contesto storico”.

In questo quadro si inserisce la riflessione di Hippolyte Taine. Nella sua Filosofia dell'arte (1881),
egli appare ancora ancorato al positivismo, eppure vi si trovano tracce di elementi mediati da
Herder, Hegel e dal romanticismo. Il suo metodo consiste nel considerare le opere e i prodotti
umani, come fatti di cui si deve semplicemente ricercare la causa. Dunque, questa analisi, deve
accettare tutte le forme d'arte come manifestazioni dello spirito umano. La scienza dell'arte deve
dunque comportarsi al pari della botanica, che studia con pari interesse le molteplici specie vegetali.
Anzi, in un certo senso l'estetica non deve essere altro che scienza naturale applicata, anziché a
minerali o vegetali, alle opere dell'uomo.
Assume particolare rilievo la nozione di milieu (“contesto”, ma anche “ambiente”, “zona”). Tale
contesto, relativamente all'arte, è l'insieme che mostra il legame tra le varie opere di uno stesso
artista, sia tra l'opera e il mondo che la circonda. Ne stanno alla base tutti gli elementi che
concorrono alla formazione di un'epoca storica, e dunque si tratta di una specie di totalità infinita,
un fitto gioco di corrispondenze e di rimandi, che nessuno sguardo può abbracciare, ma che si
ritrova presente nella singolarità dell'opera. Si tratta quindi di ricostruire tutto ciò che porta alla
genesi dell'opera. Ciò è possibile in quanto la connessione tra il prodotto e le cause è sottoposta a
leggi costanti, le quali l'estetica deve cercare sia per via induttiva, che per via deduttiva.
L'estetica, dunque, deve abbandonare ogni pretesa normativa e farsi storica, descrittiva, esplicativa:
non imporre precetti, ma costatare leggi. E tuttavia, essa può individuare dei modelli cogenti, i quali
devono guidare la fantasia dell'artista, pena il suo esporsi alla malinconia sterile e distruttiva di cui
cade inevitabilmente vittima quando la sua arte non è più alimentata dallo spirito del tempo. Si
tratta di una sorta di “selezione naturale” tra modelli, la quale è sul piano estetico non meno

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stringente che sul piano biologico.

Il ricorso a presupposti evoluzionistici è anche più massiccio nella riflessione di Jean-Marie Guyau
(vedi L'arte dal punto di vista sociologico). Più che dal positivismo, egli parte dal vitalismo. Nella
sua raccolta di saggi intitolata I problemi dell'estetica contemporanea (1884), Guyau definisce l'arte
come l'esito più alto dell'eccesso e dell'irradiazione di forze vitali che è alla base dell'esistenza. La
bellezza, per Guyau, è espressione del senso morale. Il principio dell'arte, egli sostiene, è nella vita,
e anzi, non è che la vita stessa in quanto essa ha di più serio e di più vero. Se l'arte ricorre alla
finzione è soltanto perché, muovendosi su una linea di confine dell'esperienza, deve ricorrere ad
apparati esplorativi che impediscano la caduta dell'artista nel vuoto.
L'arte comporta sempre un doppio movimento: esposizione e stimolazione. Esponendo la vita al
continuo oltrepassamento delle sue forme, stimola reazioni che chiamano in causa l'assetto della
società. La legge interna dell'arte è di produrre un'emozione estetica a carattere sociale. L'arte
trasforma il sentimento del piacere, che è qualcosa di soggettivo e incomunicabile, in qualcosa che
aspira all'universalità, che esige la partecipazione degli altri, e agisce come produttore di socialità.
Afferma Guyau che: “il piacevole diventa bello nella misura in cui implica un di più di solidarietà, e
nella misura in cui è attribuibile a quel noi che è nell'io”.

2. Fechner e Lipps, Freud e Jung (la psicologia dell'arte)


Anche la psicologia dell'arte è figlia del positivismo. Tra i fondatori di questa disciplina, vi è
Theodor Gustav Fechner, che con Wundt fu tra i primi a introdurre il metodo sperimentale in
psicologia. Nella sua opera del 1871-1876, Estetica sperimentale, pur mantenendo una prospettiva
decisamente scientifica volta a riconoscere le leggi generali e le costanti dell'esperienza artistica,
mostra una tendenza a dimostrare l'assunto platonico che “tutto è uno” (principio che secondo
Fechner deve essere posto al vertice dell'estetica). Tra le leggi e i principi che evidenzia vi sono:
– la legge della “soglia estetica”, al di sopra della quale soltanto qualcosa di piacevole o
spiacevole può veramente dirsi tale;
– il principio della “connessione unitaria del molteplice”;
– il principio della “verità” (è piacevole prendere coscienza dell'accordo e non
contraddittorietà di rappresentazioni relative allo stesso oggetto);
– il principio della “chiarezza”.
A questi principi, Fechner aggiunge la costatazione che sempre, in specie nel caso dell'arte, il nostro
incontro con i segni esterni (immagini, parole, suoni) dà luogo a riconoscimento, perché noi li
investiamo sempre di ricordi e di impressioni personali.

Da questi presupposti sembra prendere spunto Theodor Lipps, nell'elaborazione della sua teoria
dell'empatia estetica. L'empatia è, per Lipps, l'atto per mezzo del quale il soggetto si trasferisce
nell'oggetto per ritrovarsi in esso, e trovare così quanto di se stesso ignorava. Lipps distingue tra
due forme di empatia:
– empatia positiva, quando l'oggetto, che si rivolge al soggetto avanzando richieste e
sollecitando risposte, lo fa in armonia col modo spontaneo del soggetto di rivolgersi a esso;
– empatia negativa, quando l'oggetto attira e nello stesso tempo ripugna, dando luogo a una
situazione conflittuale;
Nell'esperienza l'empatia funziona come nell'esperienza in generale, con la differenza che l'arte
trasferisce il soggetto in una dimensione nella quale l'intenzione è già da sempre riconciliata con la
rappresentazione. Anche quando quest'ultima ha per argomento qualcosa di doloroso o di repellente,
suscita una gioia commossa e partecipe, poiché non soccombe al suo contenuto, ma ne svela la
verità, nel suo sottrarre l'oggetto alla verità, consegnandolo all'apparenza, alla finzione.
Indipendentemente dal contenuto della rappresentazione, indipendentemente dalla sua possibilità di
giovare o nuocere, nell'esperienza estetica ciò che esperiamo è noi stessi, il che rappresenta la forma
più profonda di comunione tra soggetto e oggetto. Scrive Lipps: “ovunque, anche in ciò che è
orribile, l'opera d'arte mi fa sentire e sperimentare l'umano”.

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Sigmund Freud è intervenuto ripetutamente su questioni estetiche (vedi Saggi sull'arte, la letteratura
e il linguaggio). Il suo intento era dichiaratamente quello di verificare il funzionamento di
determinati meccanismi psicologici nell'esperienza estetica, e non quello di giudicare in merito al
valore di questa o quell'opera. Di qui, la scelta privilegiata di opere minori, marginali, in quanto più
immediatamente e ingenuamente espressive della psicologia dell'artista. Una sua conclusione di
carattere generale è quella di attribuire all'arte una funzione di liberazione catartica.
Nel saggio Il poeta e la fantasia (1907), Freud si domanda da dove viene il fascino suscitato in noi
dall'arte, che con rappresentazioni fittizie e fantastiche è in grado di liberare in noi emozioni di cui
non ci saremmo neppure creduti capaci.
Secondo Freud, in ogni uomo è nascosto un poeta, così come è nascosto il bambino che eravamo, e
che non possiamo più tornare a essere. L'attività fondamentale del bambino, il gioco, ci permette di
penetrare, per analogia, il segreto dell'attività poetica. Tale attività consiste nella creazione di un
mondo a sé, fantastico, o meglio una sistemazione del proprio mondo a piacere. Come il bambino,
anche il poeta prende sul serio questo mondo di invenzione. Non che confonda reale immaginario;
anzi, l'investimento affettivo ricchissimo e intenso sul mondo di fantasia è reso possibile proprio
sulla base della netta distinzione tra questo e il mondo reale.
Vi è poi chi, pur non essendo più bambino, in un certo qual modo continua a esserlo: il sognatore a
occhi aperti. Egli non è più bambino, e infatti tiene le sue fantasticherie nascoste per timore della
censura sociale, eppure continua a fantasticare e a sognare. Sognare a occhi aperti è evidentemente
un'attività che risponde a un bisogno psichico essenziale. Poiché tuttavia l'estrinsecazione di questo
bisogno produrrebbe ripugnanza, freddezza, o vergogna, ecco che interviene l'arte, fungendo da
mediatrice, a sedurci con la promessa di un godimento puramente formale. Dunque l'arte rende
possibile la liberazione di tensioni nella nostra psiche.

Carl Gustav Jung si spinge oltre Freud nel riconoscere all'arte la funzione di metterci in rapporto
con il fondo originario del nostro essere. Nel saggio La psicologia analitica nei suoi rapporti con
l'arte poetica (1922), egli distingue tra:
– inconscio personale, cioè la sfera dei residui fenomenici che si sottraggono alla coscienza
dell'individuo, ma appartengono solo a lui;
– inconscio collettivo, cioè la sfera dei miti e delle figure archetipiche che dominano
l'individuo come trasmissione ereditaria dell'esperienza storica dell'umanità.
Se il primo può essere oggetto di psicanalisi, il secondo non è neppure veramente subcosciente, in
quanto è piuttosto un orizzonte trascendentale di figure in cui l'esperienza millenaria dell'umanità si
è sedimentata. Questi grandi miti, questi archetipi irrompono come da una trascendenza, ci
appaiono come già da sempre dati, ci vengono incontro per una necessità intrinseca, e allo stesso
tempo liberamente, gratuitamente. L'arte è essenzialmente il tramite di questa esperienza, di questa
rivelazione.
L'arte che pesca nella sfera del subcosciente personale ne trarrà fuori qualcosa di inevitabilmente
oscuro, morboso, troppo legato alla nevrosi dell'individuo; Jung parla in questo caso di arte
“sintomatica”, piuttosto che simbolica. Invece, quando l'arte attinge alle immagini primordiali e
universali, “è come se parlasse con mille voci”. In questi momenti, non siamo più degli esseri
particolari, “siamo la specie”. Il destino personale viene innalzato a destino dell'umanità. Questa è
l'azione dell'arte: azione nel senso più alto, a carattere sociale. Essa consiste non solo nel tradurre
nella “lingua di oggi” la verità immemoriale che è il nostro destino, e quindi di rendere possibile
“l'accesso alle fonti più profonde della vita”, ma anche di trarre conclusioni sul carattere della
nostra epoca.

3. Ruskin, Morris, Pater (religione artistica e decadentismo)


Quella di “religione artistica” è una categoria hegeliana. Hegel vi ricorre per indicare quella
particolare forma di religiosità (il paganesimo classico) in cui la realtà del divino e la sua
manifestazione artistica sono tutt'uno.

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Questa categoria è alla base del movimento noto come decadentismo, sebbene sia impossibile
guardare a esso hegelianamente. In ambito decadente è piuttosto l'arte che si eleva alla religione, si
mette al suo servizio, ne traduce gli ideali e i contenuti, insomma, si fa religione, laddove nel
concetto originario avveniva più che altro il contrario.

L'intreccio di arte e religione è il tratto dominante della riflessione di John Ruskin (vedi, ad
esempio, La Bibbia di Amiens). Ruskin troverà nella pittura di Turner e nell'architettura di Venezia
e di Firenze il fondamentale principio della sua estetica: la verità è nella forma, e la forma è
rivelazione del vivente infinito (cioè Dio), all'uomo. Cercare la verità altrove (ad esempio nella
scienza), significa produrre morte astrazioni. L'arte scopre l'eterno non nel generale, ma in quanto vi
è di più individuo e transeunte.
Ruskin è anche critico severo del positivismo, e dell'estetica che ne era derivata. La sua critica si
snoda attraverso la considerazione di alcuni paradossi: ad esempio, egli osserva come il lavoro di
tutta la società geologica non sarebbe in grado di dire nulla circa la verità della montagna dipinta da
Turner con quattro tratti di pennello.
Egli fa riferimento alla nozione aristotelica di “theoria” come contemplazione attenta e appassionata
del bello. È un'attività disinteressata, che mette in gioco la persona tutta intera coi suoi ideali, le sue
credenze, le sue aspirazioni, e la dispone a una sintonia col mondo in grado di strappare a questo gli
infiniti significati che racchiude.
Naturalmente, ciò si traduce in avversione, da parte di Ruskin, della dottrina allora assai praticata
dell'“arte per l'arte”. Secondo Ruskin l'arte non è per l'arte, ma è al servizio di tutti i valori morali e
religiosi che trascendono il dominio puramente estetico.
L'arte deve riportare l'artificio alla natura, e operare come la natura. Così il prodotto dell'arte
apparirà come la trama stessa di tutto ciò che vive. Come ciò sia possibile, lo dimostra l'artigianato,
che prolunga senza far violenza il modo naturale di produzione. Di qui l'innalzamento
dell'artigianato a modello di ogni arte.

Questa indicazione sarà messa in pratica da William Morris, discepolo di Ruskin. Egli, con
Marshall e Faulkner, fonda, nei primi anni Sessanta, un laboratorio per la produzione di mobili e
arredi con tecniche artigianali. Negli anni Ottanta promuove il movimento Arts and Crafts, con lo
scopo di far servire l'arte a bisogni concreti, quotidiani, e non soltanto spirituali.
Con Ruskin, Morris condivide l'avversione dell'“arte per l'arte”, e la concezione vagamente
rousseauiana della sostanziale bontà della natura, ma riporta tutto ciò non nel quadro di una mistica
della comunione con le fonti della vita, bensì sul piano di un intervento politico che liberi il lavoro
dalla struttura produttiva che lo rende servile e strumentale. Di qui il richiamo a un socialismo
ispirato più al corporativismo medievale che non alla critica dell'economia svolta dagli utilitaristi e
da Marx.

Diversamente da Morris e Ruskin, Walter Pater fa dell'“arte per l'arte” la sua bandiera. Docente
universitario a Oxford, egli si occupò di varie questioni, tra cui l'arte rinascimentale e il platonismo.
Tutte queste problematiche, Pater le riconduce a una “metafisica della bellezza”. L'arte è, per Pater,
il “cerchio magico dell'esistenza”. È un mondo chiuso e totalmente autonomo, in esso non vale
nient'altro che il principio del piacere. In quanto non fondata su altro, ma capace di lasciarsi guidare
solo dallo stimolo della piacevolezza, quest'esperienza mostra l'orientamento profondo e originario
di tutto ciò che vive, e lo eleva al piano della contemplazione disinteressata, pura.
Dove la forma sensibile è tutt'uno con l'idea, e dove il simbolo unisce il reale e l'immaginario, la
vita appare concentrata in un unico fuoco, lo stile. In definitiva, la bellezza è la verità della vita, o
quantomeno il riflesso di qualcosa che esige il nostro assenso senza la pregiudiziale mediazione del
concetto.

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Cap. 2 – Neo-marxismo e pensiero utopico-critico

1. Bloch
L'opera di Ernst Bloch può essere considerata un commento filosofico alle poetiche
dell'avanguardia (vedi Spirito dell'utopia, 1918-1923).
Assai legato all'espressionismo, Bloch difende appassionatamente il diritto dell'arte a liberarsi dalle
strettoie della figuratività. Questo tema è inserito nella concezione più generale del destino
dell'umanità come utopia sempre di là da venire, mai svelata e tuttavia in parte già presente in modo
oscuro e critptico nelle opere d'arte, ricettacoli delle nostre attese più profonde e più vere. Le quali
non contengono ancora l'“ultima parola” sull'umanità, cosa che dubitabilmente esiste, essendo forse
la verità dell'umanità il suo essere sempre in movimento, in trasformazione, in tensione verso
l'ulteriore.
Le opere d'arte sono dunque una sorta di “specchio della terra”, nel quale è possibile intravedere il
futuro, poiché è nell'opera d'arte che affiora la “dimenticata essenza divina” dell'uomo. Perciò l'arte
suscita nostalgia: nostalgia di vedere, infine, il volto dell'uomo. Essendo il normale lessico
filosofico inadeguato a esprimere quest'esperienza, Bloch ricorre a linguaggi mediati dalla
tradizione esoterica e religiosa.
Successivamente, Bloch affrontò il problema del senso della storia con strumenti concettuali più
aderenti allo hegelo-marxismo, anche se finì con l'invertire il percorso marxiano (dal socialismo
scientifico all'utopismo, anziché il contrario), e col leggere romanticamente Hegel.
Il senso della storia, però, continuerà ad apparirgli sempre come l'“innominata mitologia” che
balena nelle opere d'arte. Non solo: il fine ultimo sempre di là da compiersi, avrà
inequivocabilmente carattere estetico.

2. Lukàs
Anche Gyorgy Lukàs si era formato nel clima della “rivoluzione espressionista”, e molte delle sue
opere giovanili (vedi L'anima e le forme, Teoria del romanzo, anni Dieci del '900) sono dedicate al
problema estetico sollevato dall'azione della nascente avanguardia. Diversamente da Bloch, però,
egli prenderà presto le distanze da questa, giudicandola come “la punta estrema dell'irrazionalismo
borghese”. Per un periodo ebbe un sodalizio con Bloch, poi incrinatosi negli anni della prima guerra
mondiale.
L'opera giovanile di Lukàs è segnata dalla distinzione tra “scienze della natura” e “scienze dello
spirito”. Egli fa valere questa distinzione per chiarire la sua posizione circa lo statuto ontologico
dell'arte. La scienza ha a che fare con i fatti e le loro connessioni, mentre l'arte “ci offre anime e
destini”. Dunque, l'arte è ontologicamente legata alla verità; non alla “verità comune”, che resta
sulla superficie delle cose, ma alla “verità del mito”, che dura attraverso i millenni. Ciò appare con
particolare evidenza nell'arte tragica, cioè l'arte cui la nostra epoca è chiamata dopo la presa di
congedo da tutte le mitologie provvidenzialistiche e consolatorie. La tragedia toglie l'uomo al
“chiaroscuro dell'esistenza”, per costringerlo al faccia a faccia con sé stesso e col suo destino.
Questa tesi viene in seguito ripudiata da Lukàs, in una serie di scritti nei quali la forma appare
piuttosto come un ideale regolativo, un'aspirazione utopica che sottolinea ironicamente il tentativo
continuamente frustrato di realizzarla: tale è la condizione tipica della modernità, di cui figura
chiave è don Chisciotte.
Nel 1923, Lukàs pubblica la sua opera più importante, Storia e coscienza di classe. In essa vi è una
netta svolta marxista. Il progetto di Lukàs è anche quello di rifondare lo stesso marxismo
sottolineando la sua anima dialettica, contro le impostazioni economicistiche. Il quest'opera, Lukàs
traspone sul piano della filosofia della storia il principio gnoseologico, già fatto valere sul piano
estetico nelle opere giovanili, per cui il mondo fenomenico non è che la manifestazione di strutture
profonde, ricorrenti, di lunga durata.
Questo principio sarà definito nelle opere della maturità come “rispecchiamento”, per spiegare
come l'arte, riproducendo mimeticamente i fenomeni nella loro singolarità, colga in essi quanto c'è
di essenziale e di universale. In quanto tradizione e riorganizzazione del reale, l'imitazione ha

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carattere non meramente ripetitivo, ma produttivo e inventivo. L'opera d'arte rispecchia l'intera
realtà che ne sta alla base, e rispecchiandola la organizza, la traduce, la prospetta come sguardo
sulla storia. Perciò è inevitabile che l'arte abbia carattere prospettico, in quanto giudicando il mondo
da un determinato punto di vista, prende posizione nei confronti di esso.

3. Benjamin
Completamente diverso è il giudizio espresso da Walter Benjamin sull'avanguardia.
Nell'avanguardia, Benjamin vede il compimento della dialettica della modernità, e dunque la crisi
della pretesa della letteratura e dell'arte di risistemare il mondo, di scoprirne il senso latente e
immanente, di ripensarlo in termini di totalità. A partire dal saggio L'origine del dramma barocco
tedesco, passando per Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini e Il compito del
traduttore, Benjamin affronta il problema del ruolo e del significato dell'arte nel mondo moderno.
La condizione umana è definita in termini ermeneutici, perché è quella di chi vive in un mondo di
segni e va alla ricerca del significato attraverso costruzioni ipotetiche mai soddisfacenti, essendo
andata perduta, pur continuando a valere come ideale regolativo, l'originaria trasparenza delle cose
alla parola divina. Secondo Benjamin, la modernità è anzitutto coscienza della frattura linguistica,
che precipita l'uomo nella confusione, e nello stesso tempo lo spinge a ricercare la verità ultima nel
testo, come se ciò fosse veramente possibile ma nella consapevolezza che non lo è. Perciò la
modernità nasce come critica del tentativo di dare per conciliato ciò che non è conciliabile.
L'arte produce una falsa riconciliazione, perché ricompone il caos e lo presenta come cosmo, come
mondo. Quest'esibizione vale solo sul piano dell'apparenza, e risulta da una specie di incanto, che
infonde una vita falsa e surrogata (la bellezza) ai fantasmi dell'arte. Ma l'arte può far ciò solo a
partire dalla costatazione che il mondo è caos, e dunque dalla propria lacerazione interna. La quale
non può mai esser tolta, e dunque continua ad agire nell'arte come forza di rottura, l'“inespresso”.
L'arte riconcilia apparentemente col reale, sovrapponendo al suo tragico disordine un ordine fittizio.
Tuttavia contiene in sé il presupposto per il rovesciamento di questa operazione seducente e
falsificante. È quanto accade con l'allegoria barocca, ma anche con Baudelaire e con l'avanguardia.
Nel saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Benjamin osserva che,
laddove l'arte tradizionalmente ha avuto carattere auratico, data la unicità e irripetibilità dei suoi
prodotti, con la riproducibilità messa a disposizione dalla tecnica apre a un'esperienza del tutto
diversa e che ancora non è possibile misurare nelle sue conseguenze.

4. Adorno
Theodor W. Adorno accentua l'importanza dell'arte nel mondo moderno, perché la considera come
l'estrema chance di rivelare la logica apparentemente tollerante e aperta della società
tecnologicamente avanzata per ciò che davvero è, ossia oppressione e dominio.
Adorno si pone in netto contrasto con Lukàs: è la forma che conta, non i contenuti, in quanto è nella
forma che i contenuti ideologici sono espressi e negati, data la fondamentale disomogeneità dell'arte
e della totalità storica, che in essa si riflette, ma al contempo si incrina e si scompone. L'arte è sì
specchio del mondo, ma specchio incrinato. La verità dell'arte è quella che mostra nella materia
formata il lavoro di scomposizione del negativo, non quella che sancisce l'esistente. E se l'esistente
fagocita gli stessi prodotti artistici che si erano levati a negarlo, trasformandoli in oggetti di
consumo, l'arte diviene negazione di se stessa, ma non nel senso che scompare o muore, col che la
razionalità strumentale imporrebbe definitivamente il suo dominio, ma nel senso che tiene aperto
uno sguardo controluce sul mondo e, nel suo stesso ammutolire, dà voce alla “vita offesa”.
Nella Teoria estetica (incompiuta, e pubblicata postuma nel 1970), Adorno sostiene che l'arte non è
espressione delle tendenze fondamentali ed emergenti di una determinata società, bensì, piuttosto,
essa rappresenta ciò che quella società non è. L'arte è rappresentazione dell'inesistente, dell'irreale,
o meglio, dell'esistente in rapporto al suo poter essere altro. Nell'epoca in cui l'emancipazione
garantita dalla tecnica si volge nelle forme più subdole di totalitarismo e conformismo, il compito
dell'arte è quello, se non di smontare il “grande ingranaggio”, almeno di incepparlo, o di mostrare la
possibilità di farlo.

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Di conseguenza, l'arte è legata alla negatività: l'arte è legata alla trascendenza, in quanto mostra quel
“di più” che non è nella cosa che rappresenta, anzi, è negazione della cosa. L'arte promette ciò che
non c'è, annuncia la pretesa che tale non esistente, poiché si mostra, deve essere anche possibile.
Fondamentale è perciò il momento dell'“apparire”, e il concetto di “apparizione”. L'arte è
menzogna, se con questo si intende il fatto di presentare come esistente l'inesistente. Ma non c'è
nulla di più vero di questa menzogna, se questo significa annientare e negare l'esistente
nell'inesistente. Più che menzogna, l'arte è negazione, è negatività irriducibile.
Quando accade che la ragione dominante riconduce a sé, offrendoli al mercato, i prodotti artistici
che ne avevano rappresentato la confutazione, l'opera d'arte scade a merce, mentre l'attività artistica,
volgendo la sua forza contro il suo essersi “omogeneizzata”, diviene parodia di sé, distruzione del
suo codice, autosmascheramento.

Cap. 3 – Pragmatismo, semiotica e linguistica, fenomenologia

1. Dewey
Il pensiero di John Dewey, si può ascrivere a una sorta di pragmatismo naturalistico e organicistico
(vedi Arte come esperienza, 1934). Centrale è per lui l'idea che l'attività produttiva dell'uomo non
sia che il prolungamento di quella naturale, come quella naturale, sia organizzata a partire da
sollecitazioni dell'ambiente. Dewey è consapevole che nella società industriale questo modello di
esperienza è sostituito da un surrogato ben diverso: la meccanizzazione e la tecnicizzazione del
lavoro, la sua divisione, tendono sempre più a relegare il lavoro dell'uomo in sfere dove egli perde
la nozione del senso del suo operare. Ma per quanto degradata, l'esperienza che sta alla base
dell'attività umana implica comunque iniziativa, creatività e interazione tra soggetto e oggetto, tra
prodotto e mondo circostante.
L'arte, per Dewey, appare non come qualcosa di diverso dall'esperienza, ma come l'esperienza
stessa nel suo compiersi finalistico e nel suo concentrarsi su questo compimento. È soltanto una
differenza quantitativa, e non qualitativa, quella che distingue ciò che è arte da ciò che non lo è.
L'arte è un evento non necessariamente intenzionale, e non necessariamente fine a se stesso, perché
spesso sopraggiunge a insaputa del soggetto, a coronamento di un processo da lui iniziato con
finalità extra-estetiche. È la soddisfazione estetica a indicare che una determinata esperienza si è
conclusa, riposa su di sé, ha raggiunto l'unità del suo senso.
La qualità estetica dell'esperienza è la sua finalità, il suo apparire finalisticamente orientata, il suo
liberarsi dell'incompiutezza che caratterizza l'esperienza in generale.
Ciò che fa sì che l'arte sia cosa propriamente umana è la consapevolezza del suo rapporto con la
natura. Naturalmente la natura prelude all'arte, ma quando le forze vengono dirette in vista di un
piano, e usate come strumenti di comunicazione e di espressione, allora si verifica un “salto”, che
tuttavia non è ancora arte. Perché vi sia arte occorre che l'esperienza si compia e mostri se stessa in
questo suo compiersi. L'esperienza artistica trasforma il tumulto disordinato in una compiuta, e
valida per se stessa, unità di senso.
Questa esperienza è ciò che, secondo Dewey, oggi non facciamo. Non la facciamo in generale, data
la divisione del lavoro. Ma non la facciamo neppure in campo strettamente artisitico, poiché
strappiamo le opere d'arte all'esperienza, e le confiniamo in luoghi (i musei) deputati alla fruizione
della loro astratta separatezza.
Tuttavia, l'arte resta la più concreta testimonianza di ciò che l'esperienza dovrebbe essere, e deve
tornare a essere; allo stesso modo, l'esperienza una volta rifondata, può restituirci alla piena e
corretta fruizione dell'arte.

2. Ch. Morris e Jakobson


Anche per Charles Morris, l'arte racchiude in sé la struttura generale dell'esperienza, ma in modo
del tutto peculiare. Nella sua opera L'estetica e la teoria dei segni (1939), Morris distingue tre forme
primarie di discorso, la “scientifica”, la “tecnologia” e l'“estetica”, a partire dalle tre funzioni

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basilari del linguaggio quotidiano: informativa, performativa, valutativa. L'estetica ha dunque a che
fare con la presentazione all'esperienza diretta dell'intero dominio dei valori, sia positivi che
negativi. Perché ciò avvenga bisogna che i valori siano incorporati nel segno che li comunica,
apparendo non come indipendenti rispetto ad esso, ma come suoi caratteri costitutivi. Il segno
dell'arte, il “segno estetico”, è un'icone, in quanto incorpora le proprietà di ciò che designa, ma lo è
in modo particolare, in quanto è un'icone in cui la valutazione delle proprietà del designato avviene
direttamente nel mezzo, nel segno stesso. L'opera d'arte è un segno che designa la struttura
assiologica di un'esperienza significante, ma è un segno tale che quella struttura è percepita
direttamente nell'opera. L'arte è dunque il linguaggio per la comunicazione dei valori, e non mera
esressione delle emozioni.

Anche Roman Jackobson (linguista russo) concepisce la riflessione sull'arte come la definizione
della struttura del messaggio artistico, e di quanto esso ha di proprio. Nei suoi Saggi di linguistica
generale (1963) egli afferma che la struttura di un messaggio dipende dalla funzione predominante.
Per essere operante, un messaggio richiede anzitutto il riferimento a un contesto (“referente”), in
secondo luogo un “codice” comune a mittente e destinatario, e infine, un “contatto”, un canale
fisico e una connessione psicologica tra mittente e destinatario.
Ciacuno di questi fattori dà luogo a una funzione linguistica diversa: la funzione referenziale è
quella che mette in risalto il contesto, la funzione emotiva è quella che mette in risalto il mittente;
quella conativa si concentra invece sul destinatario, mentre la funzione fàtica accentua il contatto; la
funzione metalinguistica richiama il codice, e infine, la funzione in cui predomina il messaggio è
quella poetica.
Il messaggio poetico è dunque autoreferenziale: mentre presenta un determinato contenuto
comunicativo, ricade su se stesso. Inoltre, il linguaggio poetico è tale che il significato deve spesso
essere ricercato nel segno stesso, il che conferisce alla poesia il carattere simbolico e polisemico che
la contraddistingue.

3. N. Hartmann, Ingarden, Dufrenne


Nicolai Hartmann si era formato a Marburgo, alla scuola neokantiana di Cohen e Natorp, ma presto
aderì alla fenomenologia husserliana, prendendone le distanze su un punto importante: egli ritiene
che la fenomenologia debba in ultima analisi riconvertirsi in una ontologia critica, in grado di
interrogare lo sfondo metafisico della realtà (vedi La fondazione dell'ontologia, 1935, Estetica,
1953, ecc..). Hartmann ritiene che l'esperienza artistica dimostri la possibilità di innalzare l'empirico
oltre se stesso, così che esso penetri nell'ideale e nel simbolico. L'artista ha sì a che fare con la vita
nelle sue espressioni visibili, e tuttavia oltrepassa il dato della vita.
L'arte è capace di istruire e di rendere sensibili ai valori e ai significati della vita. Quando questo
avviene programmaticamente, come nell'arte di regime, si ottiene l'effetto contrario. Invece, un
effetto realmente liberatorio e moralmente produttivo si ha quando l'arte è pura, priva di tendenza e
non falsata da intenti pedagogici; quest'arte è in grado di sconcertare, stupire, aprire a moti
profondi. Quasto accade perché l'artista è in grado di portare ad apparizione anche ciò che sta al di
fuori dell'essente dato.
Il richiamo di Hartmann alla portata ontologica dell'arte, è incentrato sulla nozione di “portare-ad-
apparire”, “fare-apparire”. Questa nozione implica che tra il materiale impiegato e la
rappresentazione ci sia una radicale eterogeneità: il materiale (pietra, suono, colore, ecc...) è come
caricato di una intenzione significante che lo trascende, ma esprime questa trascendenza
inflettendosi su di sé, poiché è il materiale, e non il significato, a dar luogo al trascendere. L'essenza
dell'oggetto bello non sta in ciò che appare, ma nell'apparire stesso, e quest'apparire innalza la
materia stessa al di sopra del regno dell'apparenza, e mostra a colui che contempla “ciò che nella
vita non trova”.

Roman Ingarden afferma che nell'opera d'arte, la realtà appare al più alto grado di complessità e
stratificazione, e simultaneamente ricondotta a un principio di armonia. L'arte non è il doppio

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metafisico della realtà, ma la sua compiuta espressione “polifonica”.
Indegarden si riferisce al concetto di “epochè” fenomenologica per spiegare il passaggio da una
connsiderazione puramente fattuale dell'oggetto, a una considerazione estetica. Come è possibile, si
domanda, che un “pezzo di marmo scheggiato”, dia luogo a un'emozione profonda, e rivelandone la
qualità, ne cancelli l'aspetto puramente fisico per liberare e offrire alla percezione la sua struttura
armonica? Si tratta di una sorta di choc che l'oggetto artistico provoca e tiene vivo. A questo punto
inizia l'analisi propriamente estetica dell'oggetto, con lo scopo di far emergere da esso l'armonia,
l'accento fondamentale, ciò che nell'opera veramente conta.

Mikel Dufrenne adotta la nozione di fenomenologia in senso husserliano, ma anche hegeliano.


Nella sua opera Fenomenologia dell'esperienza estetica (1953), egli mostra come l'oggetto non
abbia valore se non nell'atto soggettivo che lo coglie, eppure sia colto come oggettivo, come altro
rispetto al soggetto, come trascendente rispetto ad esso.
Centrale nella riflessione di Dufrenne è il rapporto arte-natura. Quest'ultima, appare come una forza
generatrice. L'arte è il luogo di questo apparire. L'opera d'arte rappresenta, “mima” l'apparire
originario. L'opera è certamente opera dell'artista, ma l'artista, per quanto sia parte attiva, non può
che lasciare che l'opera si produca, appaia, irrompa nell'evento dell'apparire. E questo ha di mira
l'artista: l'apparire dell'opera. L'appello dell'opera viene dalla natura, che dunque non è solo dato,
materiale disponibile e “ribelle” col quale l'artista deve misurarsi, ma è anche ciò che dà, il dono
che suscita il fare.
L'arte ha per oggetto il reale nella sua verità: non il reale così com'è, ma come è chiamato a essere
dalla sua forza interna, dalla sua interna potenza e necessità.

Cap. 4 – L'estetica italiana

1. Croce
Il problema che Benedetto Croce si pone, è una “restaurazione” della classicità, contro il
romanticismo, che ritiene un'idea “distruttiva e anti-artistica”, e ad esso contrappone l'idea che
identifica l'arte con la bellezza e con la verità riconciliata, trasfigurata, armonizzata.
Egli completa questo progetto restaurativo in due fasi, l'una delle quali culmina con la
pubblicazione di Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902), mentre
all'altra sono ascrivibili opere come il Breviario di estetica (1912), La poesia (1936), Problemi di
estetica (1910), Aesthetica in nuce (1902).
L'estetica è, secondo Croce, una scienza che ha per oggetto un'attività non solo specifica, ma anche
separata, distinta da tutte le altre. Questa è l'“attività intuitiva”, la quale si distingue dalla logica
(perché è conoscenza del particolare e non dell'universale) pur appartenendo allo stesso dominio
teoretico, dall'economia e dalla morale, che appartengono al dominio pratico.
L'attività estetica “tanto intuisce quanto esprime”. Il significato di “esprimere” non deve essere
ristretto al solo ambito verbale, con esclusione arbitraria di altri significati (gestuale, musicale,
pittorico, ecc...). Non appena si consideri il termine nel suo significato più vasto, questo apparirà
tutt'uno con l'intuizione, e se ne potrà cogliere la fondamentale valenza estetica. Nulla può essere
espresso che non sia simultaneamente intuito. Ordinariamente vi è uno scarto tra ciò che siamo in
grado di intuire e ciò che siamo in grado di esprimere, osserva Croce. Solo attraverso una grande
concentrazione spirituale, e in casi straordinari, “l'espressione si fa più intensa, padroneggia il
proprio contenuto e lo offre alla contemplazione”. Il perfezionamento di questo processo (che in
forma “embrionale” è dato a ciascuno di sperimentare) è l'arte. La quale non implica un salto da un
ordine di esperienza a un altro, bensì un'intensificazione del comportamento espressivo fino alla
coincidenza di espressione e intuizione. L'intuizione che coincide perfettamente con l'espressione è
intuizione pura, ossia scevra di ogni astrazione e di ogni elemento concettuale, e perciò distinta sia
dalla scienza che dalla filosofia.
L'arte ha carattere personale, e insieme valore conoscitivo, universalizzante. Ciò chiama tutto ciò

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“liricità”. In quanto fondata sul “sentimento” (sentimento concretamente intuito ed espresso), la
poesia, l'arte, ha carattere lirico, personale. “Fondamento di ogni poesia è la razionalità umana”.
L'arte è già tutta nell'intuizione, ma questa non è, se non espressa e oggettivata in una fisicità che
precede la sua esecuzione. Il momento esecutivo è totalmente secondario e inessenziale, non avendo
altro scopo di fissare il contenuto di un'intuizione, che la memoria non riuscirebbe a conservare;
tuttavia, un'immagine non espressa in alcun modo è cosa inesistente.
Croce prende posizione anche contro alcune concezioni dominanti al suo tempo. In primo luogo,
rifiuta la distinzione delle forme d'arte e dei generi letterari: l'arte, sostiene Croce, è una sola, e
sempre identica nella sua idea, tanto che in un singolo verso di un poeta si possono reperire tutte
insieme musicalità, pittoricità, struttura architettonica. Distinguere le forme d'arte significa solo
distinguere i mezzi di cui l'intuizione si serve, mentre distinguere i generi artistici significa
distinguere le configurazioni che storicamente l'arte si è data. Quanto alla “teoria degli stili”, la
pretesa di imporre all'arte determinazioni che altro non sono che etichette significa dar luogo a
astrattezze retoriche del giudizio. L'arte deve essere invece colta alla fonte, dove essa appare come
disciplina e purificazione del sentimento, come armonia, come bellezza.

2. Della Volpe, Banfi, Anceschi (tra marxismo e fenomenologia)


L'estetica di Galvano Della Volpe controbatte punto per punto la restaurazione crociana. Egli critica
la pretesa di considerare l'arte in modo aconcettuale e astorico, e ad essa contrappone una
concezione dell'arte come una forma di razionalità che penetra cognitivamente il reale nella sua
costitutività storica. Inoltre, si ha da parte di Della Volpe una rivalutazione del significato
dell'avanguardia e delle esperienze artistiche anche più anomale rispetto alla tradizione.
Secondo Della Volpe l'arte è conoscenza, ma non nel senso blando di croce, che la sottrae al
“tumulto della vita” per concepirla come qualcosa di metastorico, oltre che di puramente intuitivo e
prelogico. L'arte è invece conoscenza della realtà storica, in quanto il materiale di cui essa dispone
non è inerte, ma costituito dai significati che storicamente vanno sedimentandosi in esso. Questo
rende tale materiale non solo adatto a riflettere la storia, ma anche a interrogarla, a coglierne la
dinamica interna. Il che non vale solo per il linguaggio verbale, ma anche per quello musicale,
pittorico, ecc..., poiché la tradizione consegna questi linguaggi all'arte carichi di un valore simbolico
e metaforico che si rinnova continuamente. Adottandoli, l'arte si trova a disporre di uno
straordinario strumento di indagine del reale; o meglio, l'arte è questo strumento.
Il linguaggio poetico non è che lo stesso linguaggio comune, però con funzione autoreferenziale, in
quanto i contenuti della comunicazione non denotano, cioè non rinviano a un mondo che li
trascende e li verifica, ma connotano, valgono per se stessi e sono essi stessi mondo.
L'arte, spesso in modo indipendente dalla consapevolezza dell'artista, ha la capacità di disvelare un
mondo (e di produrlo), non per quel che dice, ma per come lo dice.
La separazione crociana dell'attività artistica dalle altre attività teoretiche perde di senso, in quanto
queste ultime sono la sostanza stessa dell'arte, e lo sono a misura del loro costituire la realtà su cui
l'arte lavora. Di qui la rivalutazione di quelle forme artistiche (o antiartistiche) che l'idealismo
crociano (ma anche il marxismo di Lukàs) vorrebbero meramente espressive di decadenza o peggio.
Altro aspetto che segnala la distanza di Della Volpe da Croce è la nozione di linguistica come
scienza sperimentale del linguaggio dell'estetica, ininfluente per Croce e fondamentale per Della
Volpe.

Anticrociana è anche l'estetica di Antonio Banfi. Egli si era formato nel panorama tedesco della
fenomenologia. Banfi descrive il suo modo di concepire la fenomenologia in termini di
“razionalismo critico”. E' la ragione, infatti, che mentre scopre il carattere surrettizio della riduzione
di tutto ciò che è a unità o sistema, tuttavia avanza la possibilità di individuare prospettive
metodologiche, strutture settoriali di senso entro cui segmenti di realtà di volta in volta si
ricompongono. Il rispetto fenomenologico della plurivocità del reale, dimensione aperta e non
predeterminata, corre parallelo alla possibilità di intervenire razionalmente su di esso e prendere
posizione.

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Questa dialettica è riscontrabile nell'esperienza artistica, e anzi, è la premessa fondamentale alla
corretta indagine di quel complesso di fenomeni che è l'arte. Infatti, la natura dell'arte è quella di
non averne nessuna, perché l'arte semmai apre la propria (supposta) natura all'infinita varietà delle
sue manifestazioni. Ciascuna delle quali chiede di essere giudicata anche sul piano assiologico. Le
opere d'arte infatti, in quanto frammenti di storia, sono sempre portatrici di istanze etiche e sociali.
La domanda “che cos'è l'arte” è ormai relegata alla metafisica, in quanto inutilmente rivolta a
definire l'indefinibile. Tuttavia, in estetica vale il principio secondo cui gli stili, le scuole, le singole
opere d'arte, sebbene non possano essere comprese se non in base ai propri criteri interni, per essere
adeguatamente valutate devono essere messe in relazione col più vasto orizzonte che esprime il loro
significato epocale.

Luciano Anceschi, nella sua opera Autonomia ed eteronomia dell'arte (1936), sostiene che l'arte
possiede una sua legalità interna, che la distingue dalle altre attività umane, eppure è inserita
nell'esistenza storica dell'uomo, e dunque ne riflette i bisogni pratici e teoretici. Questa dialettica di
autonomia ed eteronomia è mediata dalla nozione di “istituzione”. Istituzioni sono tutte quelle
forme che, pur essendo il prodotto di una secolare tradizione storica, appaiono sul piano
fenomenologico come un vero e proprio a priori dell'opera artistica. Istituzione è, per esempio, la
concezione stilistica che ha lasciato la sua impronta su un'epoca fino ad apparire come indipendente
dall'epoca stessa, e a proporsi come modello ideale. Istituzione è anche il plesso delle figure
retoriche, ecc...
Se teniamo fermo tutto ciò, l'arte non appare più come un'attività chiusa nel cerchio arbitrariamente
tracciato dal genio dell'artista, bensì come il gioco, come il dialogo che l'artista instaura con la
tradizione, accettandone o rifiutandone le forme, lottando con esse per trasformarle, ecc...
Insomma, tra l'arte e la vita c'è scambio organico (vedi Istituzioni della poesia, 1968).

3. Pareyson e la scuola di Torino (Eco, Vattimo)


La riflessione di Luigi Pareyson prende le mosse dal terreno dell'ermeneutica, ma successivamente,
a partire dall'opera Verità e interpretazione (1971), egli si apre a una concezione in cui l'arte (e più
in generale il mito religioso) appaiono come il luogo dell'interpretazione della verità.
Pareyson definisce “formativo” quel fare che, nel corso stesso dell'opera, inventa da sé il suo modus
operandi, e definisce la regola dell'opera mentre la fa, e progetta nell'atto stesso che realizza.
Carattersitica della formatività è perciò il fatto che l'opera che ne deriva, più che un risultato è una
riuscita, cioè qualcosa che ha trovato la propria regola, riconoscendola come tale, piuttosto che
applicarne una prefissata. Essa ha carattere produttivo, realizzativo, esecutivo, ma anche inventivo e
figurativo: produzione e invenzione procedono simultaneamente nella formatività. Nell'arte, la
formatività diviene prevalente, intenzionale, specifica: il fare, facendo, inventa anche il da farsi.
Perciò l'opera d'arte non ha altra regola se non la propria, e non ha altro criterio al di fuori della
riuscita. Nell'arte, tutto ciò che riguarda l'opera deve essere inventato, ed essa non ha altro fine che
di riuscire, di riuscire adeguata a sé. Nell'arte non v'è altra normatività che quella della riuscita, né
altra regola che quella instaurata dalla singola opera da fare. Questo naturalmente non vuol dire che
l'arte non abbia anche esiti che la trascendono, sia quanto all'uso dei suoi prodotti (che possono
essere anche strumenti d'uso della vita quotidiana), sia quanto al suo significato (in gioco vi sono i
sentimenti e i valori dell'artista, la realtà umana).
Qui l'arte svela di essere un fatto essenzialmente interpretativo, perché i suoi prodotti, generati
dall'interpretazione che l'artista dà della propria materia, non vivono se non nell'interpretazione cui
si offrono. Ma l'arte ha anche portata ontologica, sia perché lo stile è sempre personale, e dunque è
rapporto con l'essere; sia perché la trasformazione della materia e dei contenuti spirituali, che
avviene sul piano stilistico, chiama in causa, mettendola in gioco, la verità.

Nel 1962 Umberto Eco pubblica Opera aperta. Quel che tiene l'opera aperta, secondo Eco, ciò che
ne fa una continua apertura di significati, e dunque un'apertura sul mondo, è la sua interpretatività, il
suo non esistere se non nell'interpretazione.

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Nei saggi del 1968 Poesia e ontologia, Vattimo vede il legame tra poesia e ontologia, e più in
generale la portata ontologica dell'arte, nel fatto che l'arte è in rapporto con l'essere, e quindi con la
verità, poiché è nell'arte che la verità si fa evento e schiude i diversi orizzonti della nostra
esperienza intramondana.

Cap. 5 – L'esistenzialismo e i suoi sviluppi

1. Heidegger
Martin Heidegger accusa l'estetica di astrattezza. La domanda “cos'è l'arte?” è, per Heidegger, mal
posta, in quanto posta metafisicamente, e dunque, come la metafisica, deve essere oltrepassata. La
metafisica si domanda cosa sia l'essere, e dunque lo concepisce come un oggetto del pensiero,
riducendolo in tal modo a nulla, a non essere, a qualcosa che l'essere non è. Allo stesso modo,
l'estetica si domanda che cosa sia l'arte, e con ciò pensa l'arte come il contenuto che il concetto
afferra e definisce, mentre l'arte è semmai apertura e messa in discussione dell'orizzonte concettuale
dato. Occorre cogliere quel che per l'arte è essenziale: l'opera d'arte non come prodotto, come cosa
tra le cose, bensì come evento che irrompe nel mondo riformandolo, come originaria possibilità di
comunicare, come origine, appunto.
Nella sua opera Essere e tempo (1927) gli era parso decisivo il riconoscimento del primato
dell'essere rispetto alla stessa esistenza. E nell'arte vi è la conferma di questo riconoscimento.
Heidegger afferma che “la verità come illuminazione e nascondimento dell'ente si storicizza se
viene poetata”. Poesia è ciò che lascia che si storicizzi l'avvento della verità dell'ente come tale.
Essenza dell'arte è il porsi in opera della verità.
La verità è, secondo Heidegger, rivelazione e nascondimento. È il mostrarsi di qualcosa nella luce
dell'essere, ma a misura che l'essere si ritrae, lasciando essere la cosa non come suo prodotto, ma
per quella che è. Perciò la verità comporta sia rivelazione che nascondimento. Ma poiché rivelare
significa, in prima istanza, togliere dal nascondimento, è accaduto che il nascondimento in quanto
tale fosse tolto, e il vero fosse pensato come ciò che non è nascosto, come ciò che è presente e a
disposizione, come ciò su cui il soggetto può intervenire arbitrariamente; insomma, come oggetto di
manipolazione e dominio. Di qui il passaggio dalla metafisica (che pensa l'ente come disvelato) alla
scienza e alla tecnica, che dell'essere fanno a meno, e intervengono sul mondo come se fosse una
grande miniera da sfruttare, tecnicizzando il mondo e riducendo ogni ente a strumento.
Poiché “la verità come illuminazione e nascondimento dell'ente si storicizza se viene poetata”, la
poesia (a differenza della metafisica e della scienza) tiene fermo il nesso che lega illuminazione e
nascondimento. La poesia illumina l'ente, fa sì che ci venga incontro nel suo non essere nascosto,
ma nello stesso tempo lo nasconde, e lo mette in rapporto col nascondimento da cui emerge,
ricordandoci che l'ente non è riducibile agli usi quotidiani cui solitamente è fatto servire.
La poesia rappresenta l'estrema possibilità di guardare all'ente da un punto di vista altro rispetto a
quello che lo identifica con la sua utilizzabilità, e quindi di mantenerlo nell'“Aperto”. L'Aperto è il
luogo in cui la verità, storicizzandosi nell'opera, custodisce l'ente nel suo rapporto con l'essere;
l'essere è innanzitutto negazione della pura e semplice disponibilità dell'ente a funzionare
unicamente come strumento.

2. Gadamer
Anche in Hans Georg Gadamer troviamo la tesi heideggeriana secondo cui l'opera d'arte è il luogo
del nostro incontro con la verità, intesa in questo caso come verità dell'opera, verità che non ha altro
modo di essere che di essere opera, la verità generata dall'opera.
Gadamer parla dell'opera d'arte e della sua verità come di un “aumento di essere”, a indicare che
l'opera fa essere, conduce all'essere ciò che altrimenti non sarebbe.
Rappresentazione non significa dunque imitazione nel senso di copia. La copia, la riproduzione di
qualcosa, in quantp serve all'identificazione dell'originale, non ha ragion d'essere che per questa
funzione, e dunque è destinata a scomparire appena l'originale viene identificato. La copia dunque,

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esiste soltanto per sopprimersi. Tutto il contrario avviene nel caso dell'opera d'arte, della
riproduzione artistica: un quadro non è un mezzo, e qualora rinvii a ciò che rappresenta, questo non
significa che si annulli nel rappresentato, perché piuttosto è il rappresentato a essere annullato, a
essere negato nella sua apparenza immediata e portato nella rappresentazione, che dice su di esso
più di quanto normalmente appare. Ciò che nell'arte si rivela, è l'inseparabilità ontologica
dell'immagine da ciò che essa rappresenta. Il suo scopo è quello di liberare virtualità latenti
dell'originale, e dire dell'originale più di quanto esso possa dire di sé. In questo senso, l'immagine è
reale e non meramente strumentale. Nella rappresentazione, il rappresentato subisce così una
crescita nell'essere.
Il paradosso dell'arte è questo: solo in virtù dell'immagine, dell'opera, l'originale diviene veramente
tale, e l'immagine non è se non il manifestarsi dell'originale. Sul piano religioso, questo paradosso
trova la sua espressione esemplare nella manifestazione divina come manifestazione in cui
l'immagine è ontologicamente legata al suo oggetto, al punto da apparire, essa stessa, qualcosa di
sacro.
Quello compiuto dall'arte, dunque, è un lavoro sulla realtà, che la fa lievitare, crescere, pienamente
essere. Ma la fa anche essere come prima non era, e dunque la trasforma, la disloca, la dispone
secondo prospettive sempre nuove. Al punto che produzione artistica e interpretazione delle forme
storiche finiscono col coincidere, e il gioco ermeneutico diviene dialogo con il passato, che l'uomo
interroga, conosce, riplasma a misura del suo prendere le distanze da esso.
Dunque, per Gadamer, la verità dell'essere si manifesta nell'opera e tuttavia, manifestandosi, mette
l'essere tra parentesi, lo rimuove, lo consegna alla memoria.

3. Derrida
Jacques Derrida era giunto a posizioni simili a quelle gadameriane per una via del tutto
indipendente (vedi La scrittura e la differenza, 1967). A essere portata in primo piano dall'ingresso
dello strutturalismo nella critica lettaria, è la “coscienza” (da parte della critica letteraria), che il
proprio oggetto è il passato in quanto tale, ossia qualcosa la cui verità risiede unicamente nella
forma. La critica letteraria, in un certo senso, assume in ogni tempo il carattere di un'indagine
strutturale. Ma l'ossessione per lo strutturalismo nella critica letteraria contemporanea, il modo di
guardare ai testi come opere in sé concluse, interamente appartenenti al passato, ha come risultato di
produrre sul linguaggio un “contraccolpo di inquietudine”. È come se dallo stupore che da sempre
ci viene dal linguaggio come origine della storia, emergesse un sentimento ancor più radicale, un
sentimento di impotenza e di insieme di emancipazione, che da metodo proprio della critica
letteraria si estende a caratterizzare il nostro atteggiamento conoscitivo in generale. L'impotenza
creatrice, che per la critica letteraria è una necessaria presa di distanza metodologica, per la
contemporaneità è una dimensione globale. Essa “separa”, poiché impedisce qualsiasi
immedesimazione, e tuttavia emancipa. Disimpegnandoci dal passato, ci permette di coglierlo quale
è veramente, cioè come passato, e quindi nel segno ontologico che gli è propro: quello della
negazione e del non essere, ma nello stesso tempo della liberazione dal valore cogente e impositivo
dell'essere.
L'intervento sul corpo vivente della tradizione lo svuota e lo mortifica, perché ce lo restituisce come
privo di vita, ma nello stesso tempo lo invade di cultura e riscostruisce una nuova unità di senso in
base al libero muoversi nello spazio reso possibile dal “pensiero rammemorante”, dal “commento
storico”.
Perciò, per Derrida, coscienza strutturalista è coscienza catastrofica, distrutta e insieme distruttrice,
destrutturante. La struttura è veramente visibile al momento della minaccia, quando lo sguardo è
concentrato sulla chiave di volta e sulle nervature di una figura storica; è allora che questa figura
mostra la sua fragilità, ed è allora che la coscienza strutturalista procede a minacciare
metodicamente la struttura per percepirla meglio.
Strutturalismo, per Derrida, significa individuazione delle nervature nascoste del reale, le quali sono
messe a nudo nei punti in cui appaiono possibili strappi, fratture, ma anche nuove aperture.
Strutturalismo significa sollecitazione, e anzi rivolgimento della realtà data fino a disfarla e a

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ricomporla in una forma irriconoscibile, stupefacente, e perciò rivelativa. Là dove le cose lasciano
trasparire la loro orditura, come nell'arte, esse appaiono in continuo movimento, inafferrabili,
enigmatiche.

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