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WALTER BENJAMIN

L'OPERAD'ARTE NELL'EPOCA DELLASUA RIPRODUCIBILITÀ TECNICA


Con un saggio di Massimo Cacciari

Il produttore malinconico
di Massimo Cacciari
1. L’esposizione universale.
2.
L’importanza che Benjamin attribuiva a Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen
Reproduzierbarkeit risulta evidente dalla nota lettera a Kraft del dicembre del ’35: egli
afferma con enfasi di ritenere di avervi fissato la cifra dell’«ora del destino» che è scoccata
per l’arte. Non può trattarsi, quindi, di una semplice fenomenologia delle piú recenti
tendenze, né dell’apprezzamento del loro carattere rivoluzionario rispetto alla espressione
artistica tradizionale, e neppure di una teoria delle nuove Muse: fotografia e cinema.
L’ambizione è incomparabilmente maggiore: si tratta di comprendere la crisi del fatto
artistico, dell’arte in quanto tale, di una filosofia della crisi dell’arte, destinata, per ciò
stesso, ad assumere i toni di una vera e propria filosofia della storia.
Non è la nascita di fotografia e cinema a spiegare questa crisi; né fotografia e cinema si
fondano sul cambiamento delle condizioni di produzione. Ogni meccanicismo materialistico
banalizzerebbe irrimediabilmente le tesi benjaminiane. Non c’è dubbio che il timbro stesso
del saggio su L’opera d’arte, cosí perentorio e didascalico, facilita fraintendimenti di questo
genere; e tuttavia esso va inquadrato in quella “teoria della conoscenza e del progresso” che
innerva l’intero, grande progetto del Passagen-Werk: nessuna connessione causale tra
economia e cultura; la relazione è di tipo espressivo 1. La base produttiva (e si vedrà che
cosa debba intendersi per “produzione”) non determina la “sovrastruttura”, ma si esprime in
essa; allo stesso tempo, la cultura esprime, non rispecchia,

la “struttura” economico-sociale. Espressione significa, sí, connessione necessaria, ma


anche comprensione interpretante, dove rappresentante e rappresentato si condizionano
reciprocamente, scambiandosi spesso anche le parti. In questo senso, le due arti al centro del
saggio sono la cifra, nel campo della cultura, di una fase dello sviluppo capitalistico, ma non
sono affatto “al servizio” del suo rispecchiamento. E non solo perché Benjamin crede di
cogliere in esse potenzialità politiche rivoluzionarie rispetto al loro “sfruttamento
capitalistico”. Una tale disperata speranza si regge su una idea complessiva della storia
dell’arte: è la sua storia, o meglio il suo destino, che perviene a tali forme di
rappresentazione. Fotografia e cinema vanno riguardate da questa altezza, come l’esito di un
processo che si articola e vive immanente all’idea di artisticità, pur restando sempre in
connessione con il sistema produttivo. Queste nuove arti potrebbero essere pensate alla luce
dell’idea benjaminiana dell’Ora (Jetzt): la loro ora risveglia il già-fu, il “passato”, che cessa
allora di essere tale, e lo riaccende alla fiamma dell’interesse presente. Tutta l’arte della
tradizione entra cosí a far parte della “costellazione” di cui fotografia e cinema costituiscono
i confini.
Per chi legga frettolosamente il saggio di Benjamin, tali assunti sembreranno sovra-
dimensionati. Vi si trova un cenno di storia delle tecniche di riproducibilità e il loro sviluppo
sembra essere condotto in semplice contrapposizione alle forme tramandate. In realtà, le
tesi, entrate ormai anche troppo nel gergo della critica, intorno alla perdita di aura, al valore
espositivo dell’opera versus quello cultuale, sul rapporto tra atteggiamento valutativo,
distrazione e attenzione, presuppongono un ripensamento complessivo delle ore critiche
dell’arte occidentale. E tale ripensamento non potrebbe iniziare che dall’estetica di Hegel2.
Nessuna tecnica, nessun sistema di produzione, avrebbe “inventato” le nuove forme di
espressione artistica, se ad esse, al significato storico che esse rivestono, non si fosse già
indirizzata la tradizione precedente. Non è la tecnica che produce la rivoluzione, ma la
rivoluzione tecnica matura perché lo “spirituale nell’arte” finisce con l’esigerla. La perdita
di aura non è il prodotto dell’invenzione della fotografia, ma la fotografia mai avrebbe
assunto la funzione che ha assunto nel campo dell’espressione artistica, se questa non fosse
giunta all’ora del tramonto di quelle idee di «creatività e di genialità, di valore eterno e di
mistero», che ne contrassegnavano la storia.

Il valore cultuale dell’opera d’arte, il nesso tra arte e culto, stava al centro della riflessione
sulla religione in generale nella Fenomenologia dello Spirito. Il nesso, come Benjamin
sapeva, non può certo limitarsi alle manifestazioni artistiche “primitive”. Nell’allegoria
barocca esso risuona ancora in modo decisivo. L’arte non “serve” il culto, rendendolo
“attrattivo”, ma, in quanto rappresentazione, in quanto opera, che si eleva al di sopra di ogni
empiria e di ogni lavoro vòlto alla soddisfazione di bisogni naturali, manifesta la “discesa”
dell’essenza divina dal suo al di là al Sé dell’uomo. I momenti del culto, per Hegel, dal
sacrificio, alla festa, edificano la dimora del Dio-in-noi. L’opera del poeta: l’inno, l’opera
dello scultore: la statua, l’opera dell’architetto: il tempio, collegano, attraverso il fare
dell’arte, il popolo, in sé artista, «kunstreich», al Dio. E non attraverso l’anelito, la nostalgia
o la speranza, ma, appunto, la concretezza, la effettualità della rappresentazione.
Il problema consiste nel fatto, di straordinaria importanza per tutta la nostra civiltà, che,
come Hegel comprese una volta per tutte, questo valore cultuale è in crisi fin dal suo stesso
apparire. Costantemente prova a risorgere e costantemente si disgrega, per ragioni
immanenti alla sua stessa origine. L’“oggetto” del culto, infatti, che, attraverso l’operare
artistico, alla fine si impone, non può apparire che come l’autocoscienza stessa del
produttore-artista. Il fine del culto consiste nel fare entrare il Dio in noi come nella sua
ultima dimora, una dimora che ne abbraccia tutte le possibili manifestazioni. Ma non appena
si sveli l’arcano, non appena appaia il carattere artistico di questa religione, il valore
cultuale dell’arte stessa non può che venire “ironicamente” dissolto. Sta qui la funzione di
tragedia e commedia nel loro indistricabile connettersi. L’arte non può avanzare la pretesa di
conciliare in sé umano e divino; essa, piuttosto, ne rappresenta l’infinita distanza. Il culto è
tale se soddisfa la nostalgia dei «mortali oltre misura attivi (die übertätigen Menschen)»
(Hegel); cessa dall’assumere qualsiasi valore cultuale una rappresentazione che esalti,
invece, proprio questa loro natura, il loro essere solo potere-in-potenza.
Quando il valore cultuale si rifugia nell’aura è già, in quanto tale, tramontato 3. I due piani,
culto e aura, non possono essere confusi. Neppure è possibile affermare che il culto
“sottrae” l’opera all’Austellungswert, al valore espositivo. La festa, e il sacrificio che vi si
compie, segnano il culmine del rito. Alla statua del Dio custodita nella cella corrisponde
tutto il
mondo dei “segni” che si rivolge al “profano”. E, d’altra parte, la de- sacralizzazione del
culto è fermento immanente dell’Evo europeo-cristiano, e quindi delle forme artistiche che
Hegel comprende nella categoria di “Romantico”. Qui la dissoluzione del valore cultuale,
immanente al significato che il “sacro” assume per l’Annuncio cristiano, termina con la
perdita di aura. L’aura non ha riferimento, infatti, al culto propriamente inteso, ma ai valori
di genialità e creatività connessi al fare artistico, valori che vengono via via sempre piú
esaltati nel corso del “Romantico”. Geniale finisce col suonare equivalente a autenticità e
originalità. L’hic et nunc irripetibile dell’opera, la “singolarità” del suo apparire (che
richiede una interpretazione capace, quindi, di ri-collocarsi nel suo luogo, di una Er-
örterung), ne costituivano l’“aureola”. Non piú strutturalmente funzione del culto pubblico,
l’opera poteva cosí tuttavia avanzare la pretesa a un culto proprio. La tradizione si
strutturava attraverso quei gangli o snodi rappresentanti le singolarità eccelse, quelle opere
assolutamente irripetibili, la cui “aureola”, cioè, appariva inviolabile, ovvero irriproducibile.
Ma è la dialettica intrinseca al “Romantico” che dissolve anche l’aura connessa alla idea di
genialità creativa. Questa dialettica è perfettamente chiarita da Hegel attraverso il concetto
di ironia, la cui importanza per l’interpretazione dell’arte contemporanea non sarà mai a
sufficienza indagata. Genio non è vuota intuizione, ma l’affermarsi dell’autocoscienza, del
Sé, come dell’essenza assoluta, del fondamento di ogni rappresentazione. Il Sé è
incondizionato artista, che porta a fondo, al suo fondo, ogni sostanzialità esteriore. La
conseguenza di questa affermazione è duplice: da un lato, rispetto alla potenza del Genio
ogni “contenuto” risulta indifferente; essa può liberamente esprimersi in ogni genere, al di là
di ogni canone formale; dall’altro, non può che manifestare la propria stessa crisi: l’ironia
che investe ogni idea di fondamento non può che trasformarsi in critica della stessa
sostanzialità del Sé. L’aura della genialità si frantuma nella molteplicità equipollente delle
manifestazioni artistiche e si dissolve, insieme, nella perdita dell’Io creatore. Anche il
Soggetto non può sopravvivere che nella “comica” inessenzialità delle molteplici delle
maschere. E la maschera è per essenza il perfettamente riproducibile.
Benjamin insiste, e a ragione, sul fatto che l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
rivoluziona le forme stesse della sua comunicazione e percezione. Ma l’opera d’arte
tecnicamente concepita, che si

autocomprende alla luce della Tecnica, è problema infinitamente piú complesso di quello di
un’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. È il problema di un’arte “senza soggetto”,
ovvero di un’arte che dovrebbe rappresentare la “dinastia” del Soggetto giunta al proprio
compimento. È questa l’ora in cui, per Hegel, l’arte trapassa in altro da sé. È l’arte stessa
che va oltre sé, nessuna potenza estranea la costringe a finire. L’arte si compie; il suo finire
è nomen agentis. L’arte romantica, l’arte dell’ironia e della critica di ogni sostanzialità,
l’arte che si distacca progressivamente da ogni funzione cultuale rivendicando la propria
autonomia, è arte della riflessione e dell’intelletto. Esige le forme del sapere. Esige di essere
saputa anche nella propria storia o destino. È un’arte che abbandona, paradossalmente nella
sua stessa idea di genialità, ogni immediatezza. Ma ciò comporta che essa esprima la crisi
immanente del valore della stessa rappresentazione sensibile, che è l’unica forma in cui a
essa è dato, per Hegel, portare a coscienza i contenuti universali dello spirito. La
rappresentazione sensibile è il passato della comprensione concettuale, passato portante, ma
che diviene del tutto superfluo ripetere. Non solo di fronte all’opera non sarà piú possibile
piegare le ginocchia (fine del suo valore cultuale), ma l’opera stessa, esigendo di essere
interrogata, in quanto prodotto di riflessione, finisce con l’essere compresa nel concetto,
sussunta, come momento particolare, nell’universalità del sistema dello Spirito, dal punto di
vista dell’Ora attuale. La rappresentazione estetico-sensibile diviene, letteralmente,
superflua, e solo la rappresentazione del suo superfluere sembrerebbe a questo punto
possibile.
La ragione epocale della perdita di aura della rappresentazione artistica non sta perciò nel
fatto della sua riproducibilità, ma nell’affermarsi di un sapere che esibisce una potenza
infinitamente superiore a quella immanente nella “cifra” della genialità. Per Hegel, tale è la
potenza del sapere assoluto, che si incarna nella figura che ancora, certo, può essere
chiamata Künstler, ma nel senso dell’operatore universale capace (Kunst = Können) di
superare nel suo produrre ogni esteriorità, di effettuare la liberazione da ogni datità. L’arte
tradizionale, nel costruire il mondo delle sue rappresentazioni, esige un tale compimento, e
cioè la trasformazione di ogni natura in fatto, in Gemachte; ma essa non sarà mai in grado di
rappresentarlo effettualmente. La volontà di potenza come arte è il passato della volontà di
potenza come Tecnica, autocosciente del proprio significato

o destino. E qui, in Hegel, le riflessioni benjaminiane avrebbero potuto e dovrebbero


incontrarsi con quelle di Heidegger su Nietzsche 4. La volontà di potenza tutt’uno col
progetto tecnico-scientifico costituisce l’effettuale dissolversi dell’aura della soggettività
creatrice, dell’individualità e singolarità che appartiene alla sua figura e alle sue
rappresentazioni. La Tecnica esige cervello sociale, una organizzazione universale del fare,
e prodotti perfettamente riproducibili, “espressi”, cioè, in un linguaggio di universale e
immediata comprensibilità. L’essenziale è comprendere come questi esiti non si impongano
“da fuori” all’aura dell’arte, e tantomeno al suo valore cultuale, ma rappresentino piuttosto
il compimento della sua storia nell’ambito della cultura europea.
Per Benjamin proprio l’innovazione tecnico-scientifica, invece, produce il contesto in cui le
forme artistiche possono riassumere pieno valore – a condizione che ne interiorizzino il
significato storico-sociale rivoluzionario. In questo senso, il saggio sull’Opera d’arte
rimanda esplicitamente a quello su L’autore come produttore. Il criterio dell’energia
innovativa, della capacità di trasformare il proprio linguaggio, cosí come la tecnica
trasforma il sistema di produzione, decide del valore dell’opera. L’avanguardia artistica non
si misura né sui contenuti, e neppure semplicemente sul metro delle novità formali
all’interno dei diversi generi, ma per la sua posizione nei rapporti di produzione. In che
misura un’opera abbatte le tradizionali barriere tra le arti? In che misura comprende in sé la
rivoluzione introdotta da fotografia e cinema? Opera o no per superare l’astratta separatezza
tra produzione e consumo, tra artista e pubblico? Potremmo dire: l’artigiano è chiamato a
farsi artista, nel senso etimologico piú pieno. Ma questo senso non potrebbe risuonare piú
compiutamente di quanto già risuonasse nel Künstler hegeliano – con la differenza
essenziale che in quest’ultima figura trapassava ogni possibile futuro della rappresentazione
artistica. Futuro passato.
Il disincanto benjaminiano è completo quando si tratta di denunciare ogni tentativo di
ripristino dei valori cultuali e dell’aura, anche nel campo della fotografia e del cinema. Ogni
via re-azionaria viene sbarrata. Per Benjamin il “pericolo” non consiste tanto in tentativi a
priori impotenti per ritornare a forme d’arte tradizionali, per “separare” nuovamente opera e
consumo, per ridurre il suo Austellungswert. Re-azionaria è essenzialmente la estetizzazione
della Tecnica, l’esibizione della Tecnica addirittura come

nuova “bellezza”. L’autore deve produrre innovazione tecnica, non rappresentarla


esteticamente; egli deve essere tecnicamente innovativo nel suo operare, e non spettatore
magari entusiasta della rivoluzione che ha luogo nel sistema di produzione. Re-azionaria
non è soltanto ogni nostalgia per l’autonomia della forma artistica, per l’art pour l’art, ma
anche e anzitutto, nell’epoca attuale, l’estetizzazione ipertrofica delle manifestazioni della
vita sociale e produttiva. Non solo perché questo processo conduce inevitabilmente ad
avvolgerle in una nuova forma di aura, a sacralizzarne i contenuti, come avviene appunto
nei regimi totalitari, ma soprattutto perché mistifica la conoscenza decisiva: che l’epoca
della riproducibilità tecnica dell’arte, nell’emanciparla da ogni rituale, la costringe, per
avere un senso, ad esprimere in sé e da sé, con i propri mezzi, il carattere innovativo-
rivoluzionario del movimento storico. La sua collocazione nella universale Mobilmachung
della Tecnica decide del valore dell’opera, non la sua fede politica, non la sua appartenenza
alla sfera dei Geistigen, non l’auto-proclamarsi esponente dei valori immortali dello Spirito
5, tantomeno la sua capacità di conferire aura ai prodotti della stessa Tecnica.
L’esigenza che muove l’intero discorso è chiara, e rappresenta il tratto fondamentale del
rapporto di Benjamin con la teoria marxiana: il movimento rivoluzionario o è immanente al
dispiegarsi delle forze produttive, esaltandone addirittura l’energia innovativa, o si rovescia
nel suo opposto. La teoria dell’arte che egli propone considera «completamente
inutilizzabili ai fini del fascismo» quelle dimensioni delle nuove forme di espressione che
contrastano essenzialmente ogni “valore di tradizione”, il “tramandato” in generale:
genialità, valore eterno, mistero, aura, distanza autore-pubblico, distinzione di generi. Ma
ciò non significa altro se non ritenere l’essenza della Tecnica “matrice” del «rinnovamento
dell’umanità», e operare una distinzione radicale tra l’essenza rivoluzionaria della Tecnica
in quanto tale e l’uso che di essa possono fare forze culturali-politiche re- azionarie. Si tratta
di una posizione assai piú impegnativa di quella che echeggia nel saggio motto brechtiano,
riportato da Benjamin: «non riallacciarsi al buon Antico, ma al cattivo Nuovo»; per il
Benjamin di L’autore come produttore, il Nuovo, quando è “cattivo” perché non prende
posizione «rispetto ai rapporti di produzione», perché “adulterato” dall’Antico, andrebbe
respinto con vigore anche maggiore del buon Antico.

Il Nuovo autentico è quello che si rivela nella essenza di fotografia e cinema, allorché essa
venga liberata dal suo uso capitalistico. Ciò equivale ad affermare, paradossalmente, che
questo “uso” è sovra-strutturale rispetto alla potenza intrinseca di quei mezzi. Come il
sistema capitalistico in generale funzionerebbe, ad un certo momento del suo sviluppo da
ostacolo alle forze produttive, cosí ora, nei confronti delle nuove forme espressive, esso ne
condizionerebbe, limiterebbe, mistificherebbe la radicale novitas.
Che però un simile schema non possa funzionare da criterio per giudizi di valore, risulta di
immediata evidenza anche soltanto riflettendo sulla posizione assunta da Benjamin nei
confronti di movimenti come il futurismo, da un lato, e Dada, dall’altro. Forse nessuna
corrente delle avanguardie storiche ha esaltato piú del futurismo i valori di esposizione, la
de-sacralizzazione dell’arte, la commistione tra i generi. E le trasformazioni che esso ha
prodotto nell’ambito della tradizione della rappresentazione artistica sono di portata non
certo inferiore a quelle apportate da Dada. L’opera d’arte venne «sparata contro
l’osservatore» e assunse qualità «tattile» per il futurismo ben prima che per Dada. È vero
che Dada, a differenza del futurismo, appare “inutilizzabile” a operazioni ideologico-
propagandistiche, ma anzitutto per la sua marcata impronta iniziatico- esoterica, anche di
matrice tradizionalista – ciò che avrebbe dovuto, in base ai propri stessi principî, indurre
Benjamin a una sua critica ben piú serrata. Lo aveva compreso il Gramsci degli anni
dell’«Ordine Nuovo»: il tratto piú innovativo del futurismo consisteva, appunto, nella
drastica “risoluzione” del fare artistico nell’ambito complessivo della Tecnica e del Lavoro
contemporanei, nella sua comprensione come fattore dello sviluppo delle forze produttive.
La critica di Benjamin non può reggersi, dunque, sul valore di innovazione che questi
movimenti esprimono, ma sulla loro collocazione politica. Dunque, alla fine, proprio sulla
loro “fede politica”, à la Lukács, e in completa difformità con i suoi principî teorici.
Questi principî sono tanto “inutilizzabili” per fondare giudizi di valore sull’opera d’arte, o
anche per distinguerne il carattere rivoluzionario (in base ad essi è, infatti, impossibile
definire qualsiasi tipo di “autenticità”, che non risulti ipso facto re-azionario), quanto ancora
essenziali, invece, per comprendere, secondo una prospettiva storica complessiva, il senso
dell’arte contemporanea, fino agli attuali post-modernismi. Occorre riandare al nocciolo
profondo del discorso sulla perdita dell’aura. L’aura

dell’opera assicurava distanza. Il suo significato essenziale non sta nel separare
astrattamente l’opera da chi deve “contemplarla” soltanto (o anelare alla sua visione, quando
essa appaia “segreta”, misteriosa), ma nel costringere ad una paziente attenzione. L’aura non
nega di per sé l’esposizione, ma impedisce che l’opera esposta venga im-mediatamente
fruita; obbliga ad un’osservazione lunga nel tempo – anzi, propriamente, ad un’attenzione
in-finita, poiché l’aura, che distacca il proprio dell’opera da chi la osserva, non viene mai
meno, per quanto compiuta possa apparire l’interpretazione. L’aura significa che l’opera
riserva sempre qualcosa che eccede ogni spiegazione, che la sua essenza non è mai
disvelabile, che dobbiamo avere sempre ancora tempo per ad-tendervi. Benjamin sa bene –
lo sa da tutti gli autori che ama – che l’aura significa anche e anzitutto questo. Ma vede, ad
un tempo, con uno sguardo di “eroica malinconia”, che mai riesce a nascondere, come il
marchio dell’epoca attuale sia quello della Abstandslosigkeit, della perdita della distanza 6.
Le masse lo esigono: tutto deve farsi vicino, il tempo che occorre per ad-prossimarsi è
vissuto come perduto. L’ubiquità non è anelito vuoto – è l’idea regolativa che muove i
desideri delle masse, cosí come il fine della stessa Tecnica. Di fronte a questa utopia
effettuale non vi è “riparo”, non vi è sentiero nel bosco che conduca ad una “radura” dove
ri-volgersi in sé, ri-appropriarsi del tempo della meditante attenzione. Questo linguaggio,
questo “gergo dell’autenticità”, suona, per il Benjamin di questi saggi, come ideologia da
Geistigen, una variante di quella “rivoluzione conservatrice” che si dimostrò del tutto
impotente a opporsi al fascismo. L’appello alla «concentrazione» è divenuto ormai semplice
segno di «comportamento asociale». La distruzione dell’aura va condotta fino in fondo; le
potenzialità della riproduzione tecnica sviluppate in tutti i sensi. L’eliminazione del valore
dell’unicità e l’esigenza di un contatto im-mediato con la rappresentazione, di una
valutazione che non abbisogni di durevole attenzione, sono tratti rivoluzionari dell’epoca
nei quali la “macchina” tecnico-produttiva e la «realtà delle masse» si accordano. E da tale
accordo soltanto può nascere, per Benjamin, non solo una forma nuova di percezione
dell’opera d’arte, ma rinascere il senso stesso del fare artistico.
Benjamin motiva le ragioni del suo parlare di “masse”. È con la massa che ha a che fare
oggi l’espressione artistica; ad essa si rivolge ed è da essa “controllata”. Anzi, tanto piú
questo controllo sarà im-mediato, tanto piú le

nuove arti produrranno effetti rivoluzionari. L’attuale “controllo” capitalistico, invece, mira
a mantenere una distanza tra opera e pubblico, che contrasta l’essenza della “macchina” 7.
Le opere che ne nascono fingono valori morali, comportamenti, sentimenti “fuori corso”;
ma il loro rivolgersi all’individuo, quasi raccomandando ancora una percezione
singolarmente attenta, non svolge ora che una funzione politica di disgregazione della
potenza insita nella «riproduzione su grande scala di comportamenti e disposizioni umane».
Il cinema, in primis, appare chiamato a far esplodere la contraddizione: le sue immagini
colpiscono la massa, suscitano choc, che, in quanto tali, debbono essere còlti e valutati non
dal singolo individuo, ma dalla «massa distratta». È questa la forma storica attuale che la
“valutazione” ha assunto. E un’arte cosciente del suo essere forza produttiva deve farla
propria: essa deve colpire l’attenzione, saperla mobilitare; essa deve sapersi esporre ad una
valutazione ormai completamente dis-tratta dal “tempo” dell’attenzione e della
concentrazione. Tanto da divenire “paurosamente” arduo voler fissare i confini di questa
rappresentazione artistica con il “dominio” della réclame.
L’ossessione di questi saggi è collocare rigorosamente l’“angelo” della rivoluzione
all’altezza dello sviluppo delle forze produttive. Perciò anche si parla di massa e non di
classe. Non sono le classi a formare le masse, ma è in seno alle masse che una classe può
progressivamente definirsi. Partire dalla classe (Benjamin ha qui in mente Storia e coscienza
di classe di Lukács?) è ancora idealismo. Il sistema capitalistico genera un nuovo tipo di
massa, forza-lavoro astratta, manuale e intellettuale. Essa va conosciuta in quanto tale, nei
suoi movimenti, nel suo modo di percepire, nelle sue aspirazioni. Nessun’arte, e quindi
neppure un’ars politica, che non si fondi su tale conoscenza, potrà esserne espressione, far-
apparire il senso dell’epoca, essere davvero rappresentativa. In altri termini, non si conosce,
e perciò non si può organizzare né guidare, classe operaia ignorando la massa da cui
proviene, che ne è origine. Si potrebbe dire, ironizzando sulla battuta celebre di Engels, che
tra idealismo classico tedesco e classe operaia vi è la massa-merce della forza-lavoro nel
capitale. Qualsiasi forma del fare consapevolmente rivolta ad abbattere le funzioni cultuali-
rituali, le barriere tra teoria e prassi, la distanza tra l’opera e il suo consumo, le morali
individualistiche, nasce da istanze materialmente connesse alla genesi delle grandi masse
contemporanee.

Il luogo in cui questa massa si concentra e abita senza mai trovarvi “casa” è la metropoli. I
saggi benjaminiani che si è esaminato vanno collocati nel contesto della grande
“incompiuta” costituita dal Passagen- Werk, ovvero Parigi capitale del XIX secolo, e dai
saggi su Baudelaire e Parigi. Ma qui la prospettiva non solo si ampia straordinariamente, ma
altrettanto si approfondisce e complica. Alla luce de L’opera d’arte e L’autore come
produttore ci si poteva attendere che l’espressione (nel senso chiarito all’inizio) della vita
massificata e standardizzata della metropoli venisse indagata prioritariamente nella
letteratura di massa, combinando questa indagine con uno studio, di stampo sociologico
simmeliano, sulla relazione tra “vita nervosa” e “intellettualizzazione” o Vergeistigung.
Questi elementi non mancano certo; ma essi appaiono, alla fine, meno decisivi del geniale
utilizzo che Benjamin qui compie della teoria marxiana della merce, da un lato, e, dall’altro,
della presenza di un poeta la cui mimesis della vita metropolitana ha il timbro della costante,
violenta contradizione, Baudelaire appunto.
Fotografia e cinema rappresentano davvero la forma attuale dei rapporti di produzione in
quanto esprimono il processo di de-sostanzializzazione del mondo. Ogni cosa perde la sua
fissità («la cosa tangibile è divenuta un processo» dice Marx); nessun ente è, se non in
quanto valore d’uso e di scambio, se non nel ciclo perennemente rinnovantesi dello
scambio; nessun ente ha un suo volto proprio, avvolto in una propria aura (Benjamin parla
di un residuo di aura per i primi ritratti fotografici). Questa in-differenza è il presupposto
della riproducibilità tecnica: l’idea che ogni ente possa essere considerato scambiabile con
ogni altro rende possibile e, anzi, esige la sua riproducibilità. È sempre una visione del
mondo che “apre” all’innovazione tecnologica. Il valore di una cosa è esclusivamente
relativa a quello delle altre con le quali risulta scambiabile. Si tratta esattamente della
“valutazione”, di cui abbiamo parlato: valutazione distratta da ogni attenzione specifica alla
individualità della cosa. All’astrazione che nella merce si opera da ogni valore in sé,
corrisponde la valutazione distratta che ne viene data. Essa “non ha il tempo” di
concentrarsi su una merce che già viene, appunto, dis-tratta verso un’altra. Il denominatore
comune, o il metro unico di tale continuum di valutazioni, è il denaro. È nella sua «unità»
che avviene il montaggio delle diverse valutazioni, o che l’in-differenza dei

distinti si manifesta come universale relatività. Ma lo stesso denaro non è se non in quanto
movimento; esso non regola lo scambio tra gli enti in sé de- sostanzializzati come fosse la
loro sostanza, o indipendentemente rispetto al loro apparire. Il denaro non si sottrae in alcun
modo alla circolazione, ma, anzi, non esiste che per perdersi in essa. Il denaro non esiste,
cioè, che per produrre nuove merci, e diviene soltanto morendo in esse (per Marx, «stirb
und werde!» è il suo motto!) La legge della riproducibilità è la legge stessa del denaro nella
forma che questo assume nel sistema sociale capitalistico di produzione.
Il denaro esprime l’ubiquità delle cose e soddisfa, insieme, quella esigenza insopprimibile
delle grandi masse contemporanee ad essere ovunque «in tempo reale». Nel denaro ogni
cosa è nello stesso tempo a disposizione – non solo, cioè, l’ente viene considerato
esclusivamente come nostro positum, ma tutti insieme e ad un tempo vengono resi
disponibili. La loro individualità e il loro hic et nunc sono il passato. La merce soltanto è
l’attuale. Ma lo stesso passato può entrare nella circolazione generale ed essere riprodotto. I
“luoghi” rappresentati nel documentario fotografico o filmico, ad esempio, accompagnano
lo sviluppo dell’industria del turismo. Il denaro elimina la distanza; la sua semplice idea
evoca la possibilità di soddisfare il nostro “progetto” ubiquitario, ovvero la nostra pretesa di
potere a tutto, immediatamente, “partecipare”. Ma ciò può avvenire soltanto sulla base di
una pre-comprensione dell’ente come equi-valente. Il denaro può rendere omogeneo ciò che
per natura è differente, soltanto nella misura in cui il “volto” della cosa sia stato già risolto
nel termine di utilitas. Allora soltanto sarà possibile “credere” che il valore di una cosa
consista nel suo essere valutata – ovvero, paradossalmente, come Simmel vide sulla scia
tanto di Marx che di Nietzsche, che la sua essenza consista appunto nella sua inessenzialità.
Non potrebbe che definirsi inessenziale, infatti, il soddisfacimento di un’aspirazione
soggettiva, astratta da ogni sostanzialità e continuamente distratta – e tuttavia l’energia che
si esprime in questo processo di circolazione-riproduzione (riproduzione allargata in ogni
senso, poiché sempre piú cose e dimensioni dell’ente entrano a farvi parte, ne sono
fagocitate) appare universale e indistruttibile.
Il mondo dell’essenzialità dell’inessenziale è quello della moda – cioè del Moderno. Nelle
indagini benjaminiane il termine assume un significato pregnante, che va ben oltre quello di
distratta curiosità per la novitas. In

realtà, nella moda si esprime il permanente del mondo della circolazione denaro-merce-
denaro, l’essenziale della sua epoca. Moda non significa l’irrompere del nuovo, bensí
l’eterno ritorno del nuovo; non indica una rottura, tantomeno una “catastrofe”, ma,
all’opposto, la loro eliminazione. Sul suo specchio si riflette la catastrofe, come Benjamin la
intese: la catastrofe della sua attuale, “moderna”, impensabilità. È il movimento del denaro,
“costretto” ogni volta a incarnarsi in merci particolari, per poter rinascere nella sua forma
pura, astratta. Ma il fenomeno della moda, che diviene cifra della vita metropolitana, rivela
anche un altro aspetto fondamentale dell’intero sistema di produzione. La moda – la
profonda esigenza, che le masse esprimono, per il “rinnovarsi” dello spettacolo delle merci,
“bisogno” che fa tutt’uno con il processo di valorizzazione – permette di comprendere che
la produzione capitalistica è, prima ancora che produzione di oggetti, che diventano merci
actu solo al momento del loro consumo, produzione dello stesso consumo. La moda è
essenzialmente produzione del consumo – quel momento essenziale del processo in cui
l’oggetto che si era fissato nel valore d’uso si dis-trae da esso trapassando nel consumo e ri-
trasformandosi, grazie a tale essere-consumato, in denaro di nuovo. La moda accelera e
fluidifica il processo, investendo ogni settore. Nulla deve restare; nessun tempo concesso a
concentrazione e raccoglimento. Se un’aura ne avvolge, a volte, i prodotti specifici, essa è
solo in funzione dell’attrazione che essi debbono esercitare, della rapidità con cui debbono
“sedurre” – come l’aura dello star-system cinematografico, di cui Benjamin parla. Un’aura
che non vale per definire una distanza, bensí, all’opposto, per segnare il confine da
“trasgredire”, per invitare al piú immediato acquisto.
L’arresto è il pericolo mortale della “macchina”; gli enti non sono sostanze afferrate nella
corrente, ma corrente essi stessi. Gli oggetti destinati ad essere merci “nascono” de-
sostanzializzati; la loro origine è davvero il loro stesso fine. Il loro prodursi è già la loro
riproduzione tecnica. Potremmo dire che non rompono alcun involucro di aura, poiché
nessun’aura può essere assegnata al denaro che li genera. Nel denaro le masse riflettono
l’istanza della prossimità completa – della prossimità che esige la eliminazione, alla fine,
della prossimità stessa, divenendo identità. L’idea di sacralità che nel denaro si conserva è
soltanto quella della sacra prostituzione. Nella metropoli della produzione e della
produzione del

consumo, «la comune bagascia del genere umano» (Shakespeare, citato da Marx) esprime
la propria originaria appartenenza allo spazio de-sacralizzato attraverso non la professione,
ma il simbolo della prostituta. Lo sguardo metropolitano è quello dell’universalmente
acquisibile e scambiabile; l’intera rete dei rapporti si costruisce intorno alla forma del
contratto; in essa ogni merce è collocata, a partire dalla forza-lavoro. La merce esprime la
propria natura esponendovisi. La metropoli è essenzialmente esposizione, e diviene capitale
soltanto se assurge al ruolo di esposizione universale. Sottrarsi alla scena equivale ad
arrestare il ciclo, che torna su se stesso rinnovandosi, ri-modernandosi sempre. La cosa vale
tanto piú, quanto piú il suo esporsi segna la moda, ovvero produce consumo, ovvero homo
consumans.
Benjamin cita Marx: «ogni cosa sacra viene sconsacrata». Questo processo investe la storia
del fare artistico secondo due correnti complementari: l’intellettualizzazione dell’arte stessa,
alla fine del “Romantico” – l’universalizzazione della forma-merce. Il primato dell’intelletto
calcolante, astratto da ogni “volto” di luogo o linguaggio, e quello del valore di scambio,
fuggevolmente incarnato nel valore d’uso, si affermano compiutamente soltanto nella
metropoli-capitale. Qui occorre prendere risolutamente congedo da ogni idillio, da ogni
nostalgia. È il mondo dei produttori, dei produttori di consumo e dei produttori di nuove
merci grazie al proprio consumo. È il mondo del trapassare perenne, dove il trapasso appare
produttivo: “inveramento” della dialettica hegeliana. Lo stesso “cervello” è continuamente
al lavoro per sviluppare nuove merci e per consumare ciò che ha prodotto, creando cosí le
condizioni perché il ciclo rinasca. Cosí funziona il “cervello sociale” metropolitano.
Nel saggio su L’opera d’arte e piú ancora in quello L’autore come produttore (che però nei
parerga al primo Benjamin considera già auto- criticamente) interveniva a questo punto
l’idea che il produttore, proprio in quanto perfettamente collocato nel sistema di produzione,
“padrone” del funzionamento e delle potenzialità della “macchina”, potesse opporsi al suo
“uso” capitalistico. Il fondamento di tale idea è certamente riferibile a Marx. Per Marx,
infatti, il capitale deve sottomettere alla legge del suo profitto ciò che l’intelletto generale
produce. L’intelletto è, sí, dentro il processo di valorizzazione, ma in quanto agente
decisivo, sempre piú decisivo, anzi, man mano che il plus-lavoro cessa di essere la misura
della

ricchezza generale. Il lavoro tecnico-scientifico è la forma per eccellenza del lavoro vivo,
che entra in contraddizione sempre piú violenta con la “macchina”, che vorrebbe
costringerne l’energia produttiva in prodotti determinati, in merci atte ad essere consumate,
garantendo un profitto a chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione. Viene un tempo, o
un kairòs, in cui il lavoro vivo, nella forma del cervello sociale, muovendo dall’interno della
sua collocazione nel sistema di produzione, ne sconvolge le capacità di controllo, eccede la
propria calcolabilità in termini economici, non si presenta piú come lavoro dipendente dal
processo di valorizzazione. Questa per Marx è la contraddizione ultima e legge dello
sviluppo storico. Per Benjamin possibilità reale o “principio speranza”. E tuttavia, come si è
cercato di mostrare, le modalità con cui l’opera del produttore “libero” viene esposta e
percepita, le forme del suo consumo, non possono mutare da un’epoca all’altra. Esse
sembrano destinate a rimanere quelle stesse della metropoli capitalistica. La nuova
espressione artistica, nel liberarle da ogni superfetazione, da ogni “ornamento”, da ogni
residuo di aura, non fa che ribadirne il carattere essenziale. Il che significa che la forma
universale del fare – anche nella sua manifestazione ultima, che è quella della innovazione-
rivoluzione permanente operata dal cervello sociale – non riesce a rappresentarsi che come
produttiva di merci. Il Künstler si immagina soltanto incondizionato; per disporre dell’intera
potenza della “macchina”, non può che dipenderne. Se le sue “idee” non debbono restare
senza valore, se debbono avere comunque pubblico o mercato, i suoi prodotti non possono
che apparire nella forma della merce. La trasformazione dello stesso prodotto artistico, del
prodotto dell’ars, nel senso piú ampio e proprio del termine, in merce si anuncia perciò
come destino.
2. Melancholia metropolitana.
Il disincanto malinconico, che soltanto traspariva in L’opera d’arte, si fa esplicito nei grandi
saggi su Parigi e Baudelaire. La sua tonalità diviene qui assolutamente dominante; in essa è
rivissuta l’intera storia che ha condotto all’autore come produttore. E questa storia è quella
della metropoli-capitale che ne ha generato la figura. Ma ora, sulla possibilità di poter
cogliere

proprio nella perdita di aura la fondata speranza di una “liberazione” del produttore, cala il
silenzio. Ogni intento “programmatico”, ogni “messaggio”, vengono “ritirati”.
La costellazione dei saggi e delle note che si riferiscono all’idea del Passagen-Werk
costituiscono, nell’essenza, un interminabile lavoro intorno al valore profetico della poesia.
«La storia dell’arte è una storia di profezie», che solo dal punto di vista del presente
risultano comprensibili, quando sono giunte a maturazione «quelle circostanze che l’opera
d’arte ha precorso spesso di secoli». Nella Parigi di Baudelaire Benjamin vede una di queste
profezie, forse la piú straordinaria, che soltanto ora, dal punto di vista del dominio della
Tecnica, della figura del produttore, dell’affermarsi dei comportamenti di massa, delle
nuove forme di espressione e di percezione, si rivela in tutta la sua forza. Profezia non è,
però, predizione; somiglia, per Benjamin, piú al notturno uccello di Minerva che all’oracolo.
Il profeta rappresenta la contraddizione presente, il drama attuale, non semplicemente
proiettandolo sul futuro, ma sub specie aeternitatis. Egli può pre-dire solo nella misura in
cui avverte la sofferenza presente come anche, e ancora sempre, adveniens, come un
possibile eterno. Quando si sappia elevare a tale syn-patheia con il proprio presente, da
“raccoglierlo” in un dire che nulla abbia piú di fugace, di effimero, allora egli dirà “oltre”
l’attuale, oltre il modus. Il dire del poeta custodisce, per Benjamin, questa forza profetica.
Ma questa parola non esprime con disincantata coscienza soltanto il destino dell’epoca,
l’inarrestabile senso del suo “progredire”. Vi si colloca all’interno, certo; la conosce nella
sua essenza piú profondamente dello storico, del sociologo, del politico. Ma la vive, ad un
tempo, dal punto di vista di ciò che essa consuma, lacera, offende; la vive per le sue
insanabili contraddizioni e ferite, che nessuna Ragione può a posteriori sanare; la vive,
infine, secondo il suo essere-per-la-morte: l’epoca, ogni epoca trapassa, ma mai nel
trapassare tutto il passato si salva. Anche le epoche, alla fine, muoiono; l’orgoglio della
memoria è vuoto.
Se l’operari del produttore non riconosce il valore della distanza, se il suo lavoro è
intrinsecamente guidato dal fine della ubiquità, se il Nervenleben metropolitano è il solo
humus da cui possa svilupparsi il cervello sociale, comprendere questa storia dal punto di
vista della profezia poetica significa dover riacquistare distanza, concentrazione, attenzione.
Ma in una forma nuova, di paradossale intensità: il poeta esiste soltanto

nella metropoli e per la metropoli; ne beve la frenesia, convive con il suo tumultuoso
mutare, troppo rapido per «le cœur d’un mortel» (Le Cygne); rinasce per un istante alla vista
delle sue passanti – egli, insomma, appartiene per intero a questa scena, fratello di tutte le
sue stoltezze, errori, invidie, partecipe della razza cainita che vi abita («Il mio cuore è un
palazzo profanato dalla folla», Causerie), ma tuttavia, ad un tempo, è «contre la ville
entière», cosí come è contro se stesso, poiché vuole conoscerla, e per conoscerla deve
ricordare, e il ricordo proietta la sua ombra sul non-piú della stessa metropoli. Contra perché
conoscendola ne vede il «peccato», da cui si genera la sua stessa formicolante attività, e
anela allora di partire, di partire per partire, verso l’alto, a piene vele, con la Morte come
vecchio capitano. L’autore come “solo” produttore sembrava ignorare questo passato
immanente al proprio operare; il Benjamin davvero metropolitano lo costringe a riguardarlo,
contra le certezze, ma soprattutto contra le speranze, che quello nutriva. È un grande
pericolo: la produttività del produttore potrebbe restare impietrita di fronte allo spettacolo
tremendo di questa sua portante origine. Il passato divora chi vi si rivolge senza adempiere i
riti prescritti. Ma è con una tale pietas che Benjamin evoca Baudelaire.
È il poeta stesso che profetizza la perdita di aura con lucida spietatezza; ma questa perdita,
di per sé, nulla potrebbe generare. Chi raccatta aure «dans la fange du macadam» (Perte
d’auréole, in Le spleen de Paris) può essere solo qualche cattivo poeta, un poeta «qui me
fera rire», ma la sola consapevolezza della «perte irrémédiable» dell’anima, se discaccia la
«vecchia beghina... la musa accademica» non diviene di per sé nuova espressione. La «musa
cittadina, la vivante» (Les bons chiens, in Le spleen, c.n.) non proviene semplicemente dallo
spettacolo della metropoli, fotografandone i passages. La prosa capace di essere davvero
espressione del dis-correre metropolitano non è il frutto necessario del tramonto dell’aura
poetica, tantomeno di nuove tecniche di rappresentazione. Questa prosa non si limita al
montaggio dei tableaux che provocano choc nello spettatore distratto. Essa, nel suo
procedere diritta, non solo rammemora sempre il passato, non dimentica la rovina («Ruines!
ma famille!» Les petites vieilles), ma deve procedere, pro-fetizzando, oltre questa stessa
città. Il suo amore – proprio nel senso dell’appartenenza ontologica, della philia – per la
città è sempre anche, in uno, conoscenza del passato e profezia. E

riconoscimento della sua infamia: «Je t’aime, ô capitale infâme» (Epilogue, in Le spleen).
Si sale la montagna per comprehendere la città «en son ampleur». Bisogna, cioè,
distaccarsene per esprimerla, e non solo rifletterla. Per conoscere il suo essere «ospedale,
bordello, purgatorio, inferno, galera», per inebriarsi «de l’énorme catin» (Epilogue cit.)
occorrerà attenzione non distratta.
Se è, insomma, nel poeta che andrà ascoltata l’autentica profezia sulla vita metropolitana, le
nuove forme espressive adeguate al trauma che essa rappresenta non potranno limitarsi a
provocare quella valutazione quasi im- mediata, che sembra propria delle masse, e che nel
saggio L’opera d’arte viene positivamente interpretata come coerente alla stessa
organizzazione della produzione (la catena di montaggio) e del consumo. Certo, la “prosa”
di questa nuova poesia si origina dal colpo che il linguaggio tradizionale subisce all’epoca
dell’irreparabile “incontro” con lo spazio, che nulla piú protegge, le cui mura sono state
“hausmannianamente” divelte, della metropoli. È la carogna, sono i passanti, gli
«chiffoniers» che si ubriacano con cattivo vino, «i mostri sgangherati, che furono un tempo
donne», il Lavoro che all’alba si sveglia (non piú artigiani, ma le Travail, lavoro astratto
generale, indifferente alla qualità del suo prodotto), “mostri” che l’occhio coglie insieme
alla figura del cigno che si trascina sul rigagnolo prosciugato. E sono anche i sogni, gli
incubi che in questo spazio si generano; e le sue memorie, e le sue cieche speranze. Ma tutto
questo deve essere realisticamente espresso, di tutto questo occorre reale mimesis. Il trauma,
lo choc va allegorizzato, va trasformato, per la forza dell’allegoria, in storia-e-destino. È
necessario che la metamorfosi avvenga senza tradire in alcun modo la potenza di quel colpo,
è necessario, anzi, che l’allegoria lo renda ancora piú indimenticabile. Ecco la difficoltà
estrema di questa “bellezza”: “salvare” integralmente l’immediatezza dello choc, non
occultare in nulla la violenza rivoluzionaria della vita metropolitana, e insieme esprimerla in
una “prosa” che dia ad essa forma, che sia comprensione dei suoi opposti, proprio nel
momento che li avverte al culmine del loro lacerante contraddirsi. Il pathos originario deve
trasformarsi in mania poietikè, nel vino della Musa, non per dimenticarsi, ma per giungere
alla sua rappresentazione piú realistica e spietata.
L’espressione artistica “all’altezza” dell’epoca dovrebbe dunque saper combinare in sé
senza confusione il massimo dello choc con il massimo

della riflessione, o, in altri termini, moltiplicare la forza di quello choc con la forza
dell’intelletto che ne comprende genesi e storia. L’epoca rimane quella della completa de-
sacralizzazione, ovvero intellettualizzazione del fare artistico, l’epoca “profetizzata”
dall’estetica hegeliana, ma l’intelletto, se vuole esserne comprensione effettuale, dovrà
mostrarsi cosciente che questo tempo non è quello risolto nel concetto, bensí è il tempo
della vita nervosa, della appercezione distratta, della mobilitazione universale, del lavoro
generale senza qualità. Ciò che nell’eterno ritorno delle novità e delle mode, nel continuum
del “progresso”, appare soltanto come incontro passeggero, choc che si dissolve in una
configurazione per ripresentarsi immediatamente in un’altra, si fa prò-blema, nel senso piú
proprio, per il poeta: qualcosa che si impone al pensiero e che esige la ossessiva ricerca
dell’espressione compiuta, di quella prosa poetica, appunto, capace di adattarsi «aux
soubresauts de la conscience» (A Arsène Houssaye, in Le spleen), alle scosse che essa
subisce frequentando le «villes énormes», con tutta la precisione che l’intelletto esige.
Potrebbero fotografia e cinema diventare una tale prosa? Forse da questa domanda nasceva
l’interesse vero di Benjamin per le nuove arti. È comunque alla luce di una tale domanda
che risulta impossibile ridurre i due saggi strettamente connessi, come si è visto, sulla
riproducibilità tecnica e sull’autore-produttore, ad un tentativo di analisi marxista intorno al
«rivolgimento della sovrastruttura», che si conclude con l’idea che l’innovazione continua
del sistema di produzione capitalistico abbia in sé una dynamis, un’energia potenzialmente
rivoluzionaria, anche sotto il profilo politico. Nessun “mezzo”, e tantomeno la semplice
distruzione dell’aura, possono esprimere lo choc metropolitano in tutta la sua profondità –
poiché trauma è anche sogno, visione, metafora, e, prima ancora, memoria, quella memoria
che si vorrebbe cancellare nella forma della città, cosí come il sistema di produzione
abbandona le sue precedenti configurazioni, cosí come al progetto tecnico-scientifico appare
superfluo conoscere il proprio passato. Nessuna valutazione im-mediata può perciò
comprendere la storia che nello choc, nel suo manifestarsi violento, tuttavia si cela. E
nessuna politica rivoluzionaria può esservi se si rappresenta esclusivamente lo choc nel suo
im-mediato manifestarsi, e si dimenticano tutte le memorie, le catastrofi, le rovine che in
esso si custodiscono e reclamano d’essere ascoltate. Se il problema consistesse nel
collocarsi

all’interno del sistema di produzione, nell’esprimerne l’altezza e la potenza nel proprio


linguaggio, la distruzione dell’aura e la polemica contro gli “esponenti dello Spirito”
sfocerebbero semplicemente in un disincantato progressismo. Il quadro, come si è visto,
muta radicalmente quando le stesse nuove arti, fotografia e cinema, siano viste, invece, nella
luce livida, cruda e chiara di quella Parigi capitale che le ha viste nascere – come l’esito di
una profezia poetica che ha in Baudelaire il suo autore.
Lo sguardo distratto, curioso dell’istante – disincantato sulla possibilità di trattenerlo,
quanto, a volte, nostalgico di quell’illusione –, appartiene al flâneur, prima di diventare
quello dell’obbiettivo fotografico. Non è, la sua, vana curiositas. Egli elabora una forma
nuova di appercezione ed un modo nuovo di “girare” la città. Egli la “aggira”; la città per lui
non ha piú centri sacrali, o non ha piú centro tout-court. Ancora, certo, vi sono simulacri di
centralità (i simboli della Giustizia, della Cultura, del Potere...), ma il flâneur ironizza su tali
maschere, ne dissolve l’aura semplicemente passandovi accanto e oltre. Da bohémien, o
zingaro della metropoli, il suo peregrinare non ha mèta. Egli rifiuta di dichiarare una
destinazione. Non finirà né all’Opera, né al Parlamento, ancor piú eviterà i non-luoghi del
Lavoro. Semmai lo sedurranno i grembi delle antiche Chiese, custodi di quell’arte di fronte
alle cui opere è ormai impossibile inginocchiarsi, ma che per ciò stesso non ci fanno correre
il pericolo di restare imprigionati. Il godimento che offrono si è fatto puramente estetico, de-
sacralizzato, innocuo. Ma il suo non è mero nomadismo; egli ha nella metropoli le proprie
“radici”, e ciò che il suo andare errando esprime è il proprio della metropoli: trasformazione
continua, rete di eventi, che solo la istantanea può cogliere, esigenza di ubiquità, che muove
le sue moltitudini, e che egli vede rappresentata anzitutto nel tumulto del suo traffico.
Che cosa percepisce, allora, il flâneur nel suo vagabondare, che anela alla libertà del viaggio
senza mèta per mare, ma che è invece radicato destinalmente nel nomos della metropoli?
Egli vede ogni cosa come merce, in via di rinnovo, di trasformazione, priva di ogni fissità o
sostanzialità. Egli percepisce il dissolversi del valore d’uso; tutto ciò che vede, e vede come
attraversandolo, evapora nella in-differenza formicolante dello scambio. Il “luogo” del
flâneur è precisamente quello del mutarsi della cosa in astratto valore, ovvero del suo
trapassare nella valutazione che ne dà il consumo – è quello della radicale Umwertung, della
trasfigurazione di tutti i valori in

null’altro che valutati. Il suo “luogo” è questo passage. Il suo futuro, che già Benjamin
profetizza, il grande magazzino.
Tuttavia il flâneur ha ancora aura – forse equivalente a quella che Benjamin coglie nelle
prime foto, a quella, ad esempio, che promana dal ritratto dello stesso Baudelaire “scattato”
da Nadar. Vive in lui ancora, mescolato alla novitas dello choc metropolitano, il ricordo del
passato rivoluzionario, delle rivoluzioni che si immaginavano prodotto della libera
soggettività. Pretende ancora di essere autore e protagonista del suo errare; disdegna i
“mezzi pubblici”. Vede la fugacità della cosa-merce, il suo eterno andare e venire come dal
nulla, ma crede di avere ancora il tempo per esserne curioso – e cioè, in qualche modo, per
averne cura. Ha un volto – se ne può fare un ritratto. La sua solitudine non sarebbe
concepibile che all’interno della folla, e tuttavia il suo è ancora un andare solitario. La folla
lo irrita. Il suo pensiero non potrebbe essere se non co-agitandosi nella folla; ma questo
agitarsi è tuttavia anche segno di quella “singolare” irritazione. Trascorre l’esistenza lungo i
passages, perché è lui stesso figura del passaggio, passante. O un ponte – tra il sogno e la
speranza dell’antica libertà e la “macchina”, la weberiana “gabbia di acciaio”, che
sembrerebbe necessario riconoscere proprio e anzitutto da parte di chi innova e rivoluziona?
Ma questo ponte, se mai esiste, se mai può reggere, ha altre arcate. La prima già si fonda sul
farsi auto-cosciente della figura del flâneur. La sua curiositas gli trasmette alla fine soltanto
l’immagine del sempre-uguale. Si scopre costretto ad ammettere di essere “uscito di casa”
alla ricerca del regno della sorpresa, di un thauma autentico, di un paradossale choc
duraturo, per ritrovarsi in mano null’altro che la stessa cosa eternamente modi-ficata.
Clonazioni della forma-merce, potremmo dire. Allora anche lo “splendore” dei passages si
offusca; tutta la loro polifonia diviene monotona, uggiosa. La passeggiata infinita del
flâneur denuncia tutta la sua piattezza: puro procedere orizzontale e terraneo – mentre forse
era nostalgia delle ali quella che lo aveva spinto ad andare. Novello Creso, ciò che incontra
e che tocca gli si trasforma in... polvere! Non può godere di alcuna cosa, nemmeno per
quell’attimo in cui essa conta realmente in quanto valore d’uso – poiché egli la considera
sempre dal punto di vista del suo scomparire. Nel momento stesso che vede il mondo delle
merci allegoricamente, vede la merce stessa sotto la specie della rovina. Allora

nasce in lui il desiderio di casa, di distaccarsi dalla vita metropolitana, di ritrovare un


interiore. Ma ciò gli è assolutamente negato, per ragioni psicologiche e storiche oggettive.
Per un verso, infatti, egli è precisamente colui che, fin dalle sue origini borghesi-
rivoluzionarie, si è liberato dal feticcio della casa, anzi: di ogni forma di appartenenza
“naturale”, colui che ha spezzato tutti i vecchi cerchi sociali; per l’altro, la forma della
metropoli, dominata dall’idea del progresso inarrestabile delle forze di produzione, ha
eliminato ogni interno, tende per propria logica a dissolvere l’aura di mistero che avevano
non solo le antiche, nobili dimore, ma l’edilizia comune delle città antiche, custodi di
“proprietà” non scambiabili. Continuamente nelle città antiche si incontra questo segreto,
questo non- detto, questo gesto di “ritiro” dal Comune, proprio nel manifestarsi della piú
intensa vita comunitaria. Nella metropoli la perdita inesorabile della vita comunitaria
coincide, invece, con la perdita di ogni luogo, in cui “ritirarsi” abbia un senso.
Al “termine” del peregrinare metropolitano del flâneur (“termine” che segna tutt’altro che
un semplice naufragio: in esso si manifesta la forma della percezione dominante nel
contemporaneo, e di fronte alla quale è “proibito” ogni atteggiamento re-azionario) non può
trovarsi, allora, che l’Ennui. La sua curiosità si rovescia in incuriosité – ma è indifferenza
generata dall’aver visto e compreso. Non è stanchezza, ma matura coscienza che lo choc
metropolitano si sistema, si “addomestica” nell’universale esposizione delle merci, che ogni
novità è in realtà già-fatta: un ready made. Rispetto al flâneur, colui che esprime lo spleen di
Parigi considera la storia della metropoli come già compiuta. Ne vede il trionfo – e lo
illumina con la taeda, la torcia del funerale. Come il flâneur, anche chi prova lo spleen pensa
soltanto di poter vivere altrove (Any where out of the world. N’importe où hors du monde,
in Le spleen); ma egli realmente vive nella metropoli senza piú in alcun modo abitarvi (il
flâneur ne era ancora, invece, abitante; nelle sue strade, nei suoi passages egli poteva ancora
immaginarsi “di casa”). Di piú: egli manifesta nella sua vita e nella sua opera l’inabitabilità
della metropoli. Cade ogni differenza per lui tra Heim e Un-heimliches; quest’ultimo
termine, però, non assume il senso dell’inquietante o perturbante, di ciò che ti strappa
altrove, ma, all’opposto, della luce nera e greve che abbraccia lo spleen, lo splen, del poeta,
e cielo e terra della grande città.
Il temperamento splenetico non “insegue” piú gli eventi della metropoli, non ne prova piú
alcun stupore. Essi si esprimono in lui rovesciati, o per negativo. Non vengono negati, né si
accendono speranze di oltrepassamento, ma si rappresentano secondo la loro facies luttuosa.
Benjamin comprendeva bene il legame inscindibile tra il suo lavoro sul Trauerspiel e quelli
su Baudelaire e Parigi. In questo nesso sta, anzi, a mio avviso, la cifra intera del suo lavoro.
Come il simbolo giace a terra spezzato nell’allegoria barocca, cosí nell’arresto dello spleen
sembra morire per asfissia il tempo della metropoli. Il flâneur vi partecipava ancora, per
certi versi, anzi, ne costituiva l’espressione piú propria. Nel taedium vitae subentra la noia
per tutto ciò che si è visto e si è fatto. Non si dà spleen se non come consumazione degli
itinerari del flâneur. Ma perciò anche lo spleen è di Parigi. Non è neppure immaginabile uno
spleen idillico, o all’ombra di un sole romantico. Esso nasce dalla lunga esperienza delle
“infamie” della grande città, dalla conoscenza delle sue contraddizioni e rivoluzioni.
Dunque, il “distacco” che in esso si opera è critica e crisi, nulla di re-azionario. Nessuna
restaurazione dell’aura, come avviene nelle teorizzazioni art-pour-l’art. È quello dello
spleen il vero linguaggio della prosa metropolitana, poiché esso si mostra capace di dis-
correre lungo tutto il tempo del flâneur fino a conoscerne l’arresto. Lo spleen percepisce il
tempo della metropoli escatologicamente, dal punto di vista della sua fine.
È proprio Benjamin a comprenderlo magistralmente: «Ciò che si ode, in Baudelaire, ogni
volta che nei suoi versi evoca Parigi, è la caducità e fragilità di questa grande città». La sua
vita «impudente et criarde» è sempre anche presagio di morte; è l’«amer savoir» (Le
voyage) del poeta, che al fondo di ogni curiosità, novità, scoperta non solo avverte e
profetizza l’ultimo viaggio verso non-dove, ma riconosce la vanità stessa dell’esperienza
compiuta. Poiché, appunto, ciò che costituisce l’essenza dell’esperienza metropolitana è la
morte dell’esperienza stessa. Di questo tema della perdita di esperienza, che già aveva
affrontato qualche anno prima nel fondamentale Erfahrung und Armut, Benjamin fa il centro
del suo saggio Di alcuni motivi in Baudelaire: l’esperienza, la possibilità di incontrare ciò
che davvero sorprende e inquieta oltre il cerchio dell’eterno ritorno dell’uguale, si è ritirata
nella memoria («Ho piú ricordi che avessi mille anni», Spleen). Tra queste memorie-rovine
si trova anche la figura del flâneur. Ma, allora, se il telos della metropoli deve essere
riconosciuto nella

dimensione dello spleen, se è la conoscenza che in questa si realizza a fornire lo sguardo


preciso sulla vita metropolitana, se l’autore davvero all’altezza dell’epoca è colui che ne sa
esprimere in tutti i sensi il fine, come ammettere che l’arte che marca il contemporaneo sia
proprio quella dello sguardo distratto, che programmaticamente esclude ogni reciprocità,
l’arte che semplicemente riflette la forma dei rapporti di produzione, e che, anzi, per le vie
piú diverse, cerca di riattingere all’aura, ad “aureolare” questi stessi rapporti? Le
conclusioni che sembravano potersi trarre da L’opera d’arte debbono essere problematizzate
e ridiscusse. L’autore-produttore, se davvero produttivo nel suo pensiero-linguaggio, non è
pensabile che all’interno della storia che ri-corda lo spleen di Parigi. Abel Gance, citato da
Benjamin, esclamava trionfalisticamente «Shakespeare, Rembrandt, Beethoven faranno
cinema...» Quale cinema ha fatto Baudelaire?
Ma vi è un passaggio ulteriore da compiere, che è forse quello decisivo, anche per la
interpretazione complessiva del pensiero benjaminiano. Il cuore di colui che vive lo spleen
della grande città, «ha fatto già la sua vendemmia» (Semper eadem), ha smesso di cercare.
Ma non è pace a sopraggiungere, e neppure, im-mediatamente, la morte. Sopraggiunge la
tristezza dell’ennui, la noia del sempre uguale, che rende un male la vita. La noia del tempo
che non conosce l’Ora-Jetzt, che ignora decisioni, scandito dal «sinistro, spaventoso,
impassibile dio» (L’horloge), che per seicento volte ogni ora ripete semper eadem: «la
clessidra si svuota», è tardi, tutto è passato, tutto già fatto. Ma, ecco, nel cuore della noia
stessa accade l’“imprevisto”. Il flâneur cercava la sorpresa, l’inaudito fuori di sé; colui che
ha l’umore dello spleen li trova senza averli cercati, all’improvviso, in se stesso. Al colmo
della noia, quando in quell’umore sembra tutto affogare, nell’ora terribile in cui «la sombre
Nuit» prende alla gola, proprio in quell’istante è data la possibilità, pura possibilità, del
“salto”. È fondamentale leggere questo Baudelaire, con Benjamin, per comprendere la
natura del tema del “salto”, in tutte le sue declinazioni – da quella storico- politica
marxiana, al pensiero meridiano di Nietzsche, alla de-cisione tra etico e religioso in
Kierkegaard8, alla Über-windung della tradizione metafisica in Heidegger. Ignorando il
Baudelaire di Benjamin si dimentica come il “salto” appartenga comunque al tempo della
metropoli, ne costituisca un possibile vissuto, ma un possibile che solo per ultimo può
apparire, quando il peregrinare del flâneur è esausto, quando tutti i passages

nel non-luogo del Magazzino universale si sono serrati, quando anche la possibilità di
sopravvivere in quella noia, che nasce dal disincantato riconoscimento della storia come
destino, è allo stremo.
Può accadere un istante in cui la noia prende alla gola, soffoca. Può accadere che la noia non
si risolva in infinita durata, immobile di fronte alla vanità del ripetersi del nuovo che
succede sempre a se stesso (moderno, post-moderno, ecc.). La noia cui manca il respiro si
muta, allora, in angustia, angoisse, Angst, diviene esperienza dell’angoscia. La noia,
dunque, non immobilizza, non determina uno stato. Da essa, in essa si aprono due abissi: il
baratro della morte o quello dell’angoscia. Dopo aver fatto ogni esperienza della perdita di
esperienza, dopo essere passati da cosa a cosa, da desiderio a desiderio, da possesso a
possesso, e aver toccato il fondo della noia, non resta che o invocare la morte, come la sola
dimensione ancora ignota in cui si possa trovare «du nouveau», o esprimere l’angoscia,
interrogarne il significato. La noia è un confine che è possibile trasgredire, un termine che
apre – ma apre a un bivio. La via per la quale Baudelaire sembra decidersi è quella
dell’angoisse, ed è su questa che Benjamin lo segue, infinitamente prima e piú
profondamente di quanto “segua” le nuove Muse o il teatro epico di Brecht.
La taeda del lutto sfila lentamente a illuminare quei tableaux, che si erano andati
“esponendo” allo sguardo del flâneur. Nessuna musica piú, nessuna speranza. L’angoscia
«atroce, dispotica sul mio cranio piegato pianta il suo vessillo nero» (Spleen). Ma proprio
qui si interrompe la durata, proprio qui il regno della clessidra vacilla. Nel soffoco che
afferra, nel respiro che si interrompe, il tempo si contrae nell’istante. E l’espressione proprio
di un tale in-stante diviene, allora, il punto piú alto cui possa tendere la rappresentazione
dell’Erlebnis metropolitano. Nel suo vissuto non sussistono astratte separazioni; nel
“sistema” di un solo discorso occorre procedere: dall’analisi delle nuove forme di
percezione, che la forma dei rapporti di produzione inevitabilmente genera a livello di
massa (massa cui tutti apparteniamo, come tutti siamo dello stesso genere dei “prigioni”
della caverna platonica), alla figura che esprime la contraddittorietà insita nella figura
dell’homo consumans, nella cui sete del nuovo si rivela proprio l’impotenza a scoprirlo e a
goderne, fino al manifestarsi delle dimensioni problematicamente connesse della noia e

dell’angoscia. Tutti questi passaggi e la stessa possibilità del “salto” sono la metropoli.
L’angoscia è l’espressione ultima dell’eterno ritorno del nuovo. In essa soffoca l’ennui. La
noia, in quanto tale, non può durare oltre, dopo che si è spalancato l’abisso dell’angoscia. Il
linguaggio dello spleen deve trasformarsi, poiché necessariamente si trasformano
l’immagine, il fenomeno della metropoli allo sguardo dello spleen. Per il flâneur la grande
città poteva ancora apparire nell’aura del seducente labirinto; ma la mèta del suo girovagare
era il disincanto del passage ridotto a esposizione e magazzino. La mèta della noia era
l’immobilità della solitudine costretta nello spazio metropolitano, nel tempo spazializzato
del suo sempreuguale. Questo tempo collassa nello spleen; l’angoscia ne rappresenta
l’infarto. Oltre, o il crepare, o una idea nuova del tempo, capace di contraddire quello
metropolitano, ma scevra da ogni nostalgia regressiva, da ogni utopismo re- azionario. Un
tempo oltre la metropoli, che può giungere a intuire soltanto chi ne ha attraversato ogni
dimensione, ne ha provato ogni grandezza e ogni infamia. Il flâneur cercava ancora
“novità”. L’ennui era il segno della disperazione di poterle trovare. Lo spleen sta sul suo
limite, ma proprio per questo concepisce anche la dimensione che lo supera: al culmine
dello spleen si intuisce che unica novitas nel respiro febbrile della metropoli è il suo arresto
nell’esperienza dell’angoscia. Qui è l’evento della rottura, il manifestarsi del discontinuo nel
continuum del traffico e dello scambio, la catastrofe che “riscatta” quella “minaccia”
d’assenza di catastrofi, che sembrava costituire l’essenza del tempo metropolitano.
Ma verso dove si apre lo spleen? Come può l’angoscia, che conclude lo sprofondare in se
stessi, unico “movimento” di cui lo spleen pare capace, eccedere il consummatum est della
storia della grande città, giunta alla sua “destinazione”? In che cosa consiste, insomma,
l’evento dell’angoscia? Allo sguardo, ai nervi e al cuore di chi è giunto ad avere come unica
amica, «vecchia e terribile», la boccetta del laudano, appare il Tempo (Le hideux viellard).
Esso riappare dopo ogni sogno, dopo ogni volo della immaginazione, col «suo diabolico
corteo di ricordi, di rimpianti, di spasimi, di paure, di angosce, di incubi, di collere e di
nevrosi» (La chambre double, in Le spleen). È il Tempo del cosí fu, che pietrifica in sé ogni
cosí sarà o cosí deve essere. Esso regna sovrano sulla grande città. Proprio l’universale
Mobilmachung ne è lo spazio. Esso segna il suo

invisibile e tuttavia inoltrepassabile confine. Di tale spazio flâneur, noia, malinconia,


angoscia sono, tutti insieme, gli abitanti. Ma nell’istante in cui lo spleen “catastrofizza” in
pura angoscia balena un altro sogno, non piú semplicemente quello in cui l’anima affondava
in «un bagno di pigrizia», nella contemplazione di una beatitudine impossibile. L’angoscia,
anzi, non sogna. Quel tempo, che era l’esserci stesso della vita metropolitana, essa vuole
soffocarlo nel proprio stesso soffocare. «Non ci sono piú minuti, non ci sono piú secondi! Il
tempo è scomparso» ci illudeva il sogno. Ma nella veglia dell’angoscia si esprime la volontà
di «uccidere quel mostro». Il senso dell’angoscia consiste nell’aprire a questa idea, all’idea
di un possibile estremo: che si possa dire, oltre l’orrore della noia e il suo soffocare, la fine
stessa della sovranità del cosí-fu, la morte del tempo.
Il testamento di Benjamin rappresentato da Über den Begriff der Geschichte non può perciò
essere disgiunto dai saggi che andiamo commentando. Soltanto nel loro contesto esso
assume il suo timbro storico effettuale, direi il suo fondamento materialistico. Solo chi ha
vissuto la vita della metropoli fino all’angoscia può dettarlo. “Trattenersi” dalla corrente
dello sviluppo delle forze produttive, «destare i morti e ricomporre l’infranto» è la forma del
ricordare opposta a quella memoria pietrificata in rimpianti e nevrosi, che è l’essenza dello
spleen, ma che desta, alla fine, nel poeta, la suprema esigenza di poterla uccidere. «Far
saltare il continuum» è il senso stesso del suo linguaggio; il suo linguaggio, confitto
inesorabilmente nella prosa della grande città, è chiamato a diventare forte abbastanza per
esprimere l’angoscia che ne conclude la storia e, ad un tempo, l’immagine, né fantastica né
consolatoria, di una temporalità che spezza la catena del “montaggio” metropolitano.
L’autore dovrà cercare di pro-durre fino a questo esito, perché il suo linguaggio possa dirsi
all’altezza dei rapporti sociali e di produzione. Per esserne davvero espressione, egli deve,
paradossalmente, giungere all’immagine dell’istante in cui la loro «brutale dittatura», che
mi trascina sempre in avanti «come fossi un bue» (La chambre double), sembra collassare.
L’istante dell’angoscia, che “toglie l’aria”, al continuum della noia e dello spleen, deve
trasformarsi nell’istante di una parola, di un verbum, che ci “redima” dal cosífu e da un
futuro già passato.
Ma dove ascoltare questa parola? dove risuona questo in-audito? È possibile trovarne un
baleno nello spleen del poeta? Ne è forse il vino

l’immagine? Il vino ha un’anima che canta «piena di luce e di fraternità», sgorgando fuori
dalla sua «prigione di vetro» (L’âme du vin). Non affoga soltanto i rancori, le indolenze, non
consola soltanto col sonno. Il vino versa anche «la speranza, la gioventú, la vita» (Le vin du
solitaire). Il timbro di questo eccesso deve suonare nella poetica prosa espressione della
metropoli. Se si è davvero pervenuti al limen della grande città, de-lirare, far segno a ciò che
ne eccede il “cerchio”, è necessario. L’eccesso non è né consolazione, né fuga, ma
conoscenza dei limiti raggiunti, in uno con l’idea, che a questo punto si impone inevitabile,
del loro oltrepassamento. Perciò «il faut être toujours ivre» (Enivrez-vous, in Le spleen). È
nell’ebbrezza che si fa luce la possibilità di trovare parole capaci di sopportare «l’orribile
fardello del Tempo», che ci piega a terra. Un culto secolare, profano, che prefigura, al tempo
dell’insopportabile “immortalità” del progresso (che è, insieme, noia immortale: «Nulla
eguaglia in lentezza i giorni zoppicanti | quando sotto il peso del pesante fioccare delle
annate nevose | la Noia, frutto della triste indifferenza | prende le proporzioni
dell’immortalità» Spleen), il “non piú tempo” apocalittico, ecco il culto che col vino si
celebra – con ogni vino che susciti desiderio di eccedere il tempo che opprime, per diventare
sovrani del proprio – con ogni vino che “salvi” dall’essere- occupati dal tempo come da un
sovrano nemico – che liberi dall’universale esposizione dell’equivalente e indifferente, e
cioè che apra, dal fondo dell’angoscia, ad un’idea di eternità opposta all’infinita durata, cosí
come alla nausea dell’eterno ritorno.
Nella foresta di simboli che è per l’uomo la natura, il vino è forse la correspondance che
trova nel suo animo l’eco piú profonda. E sulla sua traccia s’era mosso Benjamin da tempo,
con enfasi particolare: nell’ebbrezza egli scorge il modo privilegiato con cui il mondo
classico immaginava il rapporto tra il mortale e l’indistruttibile cosmo. L’ebbrezza
rappresenta per lui «l’esperienza che sola ci assicura dell’infinitamente vicino e
dell’infinitamente lontano, e mai dell’uno senza l’altro» (Strada a senso unico). È una
«aberrazione che minaccia i moderni» ritenere irrilevante tale esperienza, qualcosa di
meramente individuale; «no, essa tornerà senza fine ad imporsi». E Baudelaire ne è
impressionante testimonianza. La grande città, il suo potente complesso, non sono tutto;
comunque si viva nel suo Unheimliches, questa vita non è la vita del tutto. Nell’ebbrezza il
mortale avverte la possibilità di fuoriuscire dalla soffocante

prossimità delle sue figure e “simbolizzarsi” all’infinita lontananza della vita degli astri. Le
visioni dell’ebbrezza sono allegoria della mania dono degli dèi, nostalgia, sí, dell’«ala
vigorosa» che possa elevarci «derrière les ennuis et les vastes chagrins» (Elévation), ma
nostalgia non “malata”, che si manifesta nella potenza della parola e dell’immaginazione.
Tra le diverse forme della mania questa va aggiunta: mania metropolitana, sorella di quella
solitudine che si dà solo nella folla, partecipando al suo tempus edax. L’ala della mania batte
insieme alla «rude ala» del tempo. Non può liberarsene – ma neppure quest’ultima può
metterla a tacere. Insieme segnano gli estremi, gli eschata, della metropoli, tra i quali dis-
corre la prosa poetica. Quella del poeta è, anzi, la sola voce che nella grande città riesca a
toccare entrambi, a farli in sé contra-dire.
Nel segno della mania è l’erotismo dei Fleurs, sia che provenga «dal cielo profondo» o che
sorga dall’abisso (Hymne à la Beauté). Nel segno della mania è l’ars poetica. Si vede
l’eternità nel fondo degli occhi della bella Féline, come la si ascolta nella musica di Liszt.
Sono entrambe esperienze dell’Ora, «vasta, solenne, immensa come lo spazio, senza
divisioni né in minuti né in secondi» (L’horloge, in Le spleen). L’angoscia spinge oltre se
stessa, anela ad oltrepassarsi nell’ebbrezza che è mania, dove il tempo non giunga a
inghiottirci «come la neve immensa un corpo irrigidito» (Le goût du néant), dove la sua
parola “assassina” non possa trionfare (Le portrait). Nell’angoscia che conclude l’itinerario
metropolitano si schiude la porta della mania, e l’occhio può intuire «un Infinito che amo e
che mai ho conosciuto» (Hymne à la Beauté). Andava cercando questo vino il flâneur? e lo
ha trovato chi ha fatto esperienza dell’ennui fino a “bucare” la cadaverica in-curiosité e,
nell’angoscia, avvertire l’esigenza suprema di uccidere il tempo?
La traccia è chiara. La mania, con qualsiasi mezzo ottenuta, risveglia al senso
dell’indistruttibile. L’indistruttibile è ciò che non si rin-nova, ciò che ignora il “valore” che
la metropoli assegna alla novitas, e che, essendo in sé e per sé, non può essere scambiato. La
infinita durata della esposizione di valori, d’uso-e-di-scambio, fa invece della grande città
qualcosa di intrinsecamente fragile, caduco. Alla metropoli distruttibile la mania – che pure
si genera dal suo grembo – oppone lo stare, l’in-stante, del Valore indistruttibile. Alter
mundus? Ciò che vale, proprio perché vale, non può appartenere al mondo o essere detto nei
suoi idiomi? La risposta di

Baudelaire è dialettica, avrebbe risposto Benjamin. Certo, l’“assassinio” del tempo può
essere pensato-immaginato soltanto, ma non per questo il pensiero è irreale. La sua
immagine esiste, la parola del poeta la esprime. La mania vive e si manifesta nel medesimo
spazio in cui naufraga il flâneur, in cui lo spleen genera angoscia. In questo spazio, reali
come le sue carogne, i suoi vecchi, i suoi operai, le passanti irraggiungibili, irrompono le
parole che il tempo non consuma ed esse fanno sentire-sapere l’indistruttibile. Sono le
parole che custodiscono in sé, gelosamente, «la forma e l’essenza divina | dei miei
decomposti amori» (Une charogne). Alla fragilità della metropoli esse oppongono la
potenza immaginativa, che, lungi dall’essere sparita nella grande città, proprio in essa il
Nervenleben può condurre allo spasimo. La vita nervosa e dell’intelletto, che ne è l’essenza,
può tendersi fino alla lotta contro quel tempo, che è il suo stesso sovrano. Può tendersi, cioè,
fino alla rivolta. E non è lo spirito della rivolta proprio quello della metropoli? non è proprio
Parigi la capitale delle rivoluzioni? Ma l’idea stessa di rivolta non si può esprimere, al
limite, che come rivolta contro l’idea stessa di sovranità. Non vi è in realtà rivoluzione che
non sia contro il dominio della marcia trionfale, del “progredire” sovrano del tempo, col suo
corteo di paure, di incubi, di nevrosi e di cieche speranze.
Rivolta non è di per sé un “andare oltre”, ma «passare a contrappelo la storia». È anche dal
dèmone di Baudelaire che Benjamin, giunto al termine del suo peregrinare, lo apprende.
“Ri-volgere” il fuso della storia è necessario, o qualsiasi rivoluzione darà ragione all’impero
del cosí-fu, dell’irrimediabile e irredimibile, al comando della universale mercificazione,
che tutto scambia e consuma affinché tutto ugualmente si ripeta. Se temporale è l’essenza
stessa dell’esserci, tuttavia questa essenza si dà in forme opposte. Alla forma che trascina e
consuma, per cui l’esserci si trascina e consuma, può opporsi quella maniaca, per cui
l’esserci ha cura del proprio indistruttibile, ha cura di esprimerlo con parole che
custodiscono «l’essenza divina» della cosa stessa, il suo lato assolutamente proprio e
singolare, irriducibile ad altro da sé, che non tramonta in altro. La parola poetica proprio per
questo sta – poiché essa non appare piú convenzione al servizio del mero comunicare, ma il
proprio della cosa stessa. Sia questa cosa carogna o bellezza, vizze ombre decrepite,
tremendi

paesaggi o le «scintille magiche» dell’occhio del gatto, è nella parola che essa si incarna.
Ma può la parola ravvivare l’infranto? è realizzabile nella metropoli ciò che nella parola si
incarna? La mania apre realmente all’indistruttibile – ma si manifesta la sua idea altrimenti
che nell’immagine, che nell’allegoria? Esiste, certo, la sua idea, come esistono le parole che
il poeta pronuncia – ed esse realmente contraddicono l’assordante e insaziabile consumarsi
del linguaggio nella vita della grande città. Ma possono esistere altrove da se stesse? Non
importa dove, altrove, invoca il poeta – ma l’altrove coincide con la sua stessa parola, e cioè
con l’essenza del suo esserci. All’interno della vita metropolitana esiste questo altrove, o la
sua reale possibilità. Ma essa esiste inseparabile da tale vita; se coltivasse arcadiche
nostalgie, neppure sarebbe definibile come “altro”, e immediatamente si trasformerebbe in
uno dei qualsiasi gradevoli, consolatori beni di consumo esposti in un qualsiasi passage.
Questa esistenza altrove segna il confine della metropoli. La sua mania sa della metropoli
fragilità e miseria, e tuttavia non può eccederla se non nella parola. È nella parola che quella
«divina essenza» è salva; è nella parola che è possibile quel syn-pathein col passato, che lo
“trattiene” dall’essere travolto nel consummatum est. È nella memoria che il «nero
assassino» non può giungere fino ad invidiarmi «chi fu mio piacere e mia gloria» (Le
portrait); è come ricordo che il volto della dea, «essere lucido e puro», «sempre vittorioso»
resiste – ma resiste come fantasma (L’aube spirituelle). Ek-statica è la mania, capace di
comprendere e sentire l’immortale, l’indistruttibile – «ma la Venere implacabile guarda
lontano, non so che, con i suoi occhi di marmo» (Le fou et la vénus, in Le spleen). Le Veneri
“custodite” nei musei delle metropoli hanno questo sguardo. Il loro essere infranto solo
nella memoria si salva, e solo nella voce del poeta ancora si esprime.
È quella della memoria, della memoria immaginativa di cui Bergson parlava (e Bergson è
presente ovunque nei saggi benjaminiani su Parigi e Baudelaire), l’ala di una melancholia
che contraddice l’abbandono e l’ignavia, capace di allegoria e metafora – e cioè di trasporre
le immagini dello spazio metropolitano fuori e oltre il loro tempo “assassino”, di esprimerle
ek-staticamente. Ma è ek-stasis della parola soltanto o è anche il baleno di un in-audito
possibile reale? È l’altrove della poesia, o anche profezia? È il ri-volgersi rammemorante-
accogliente di chi conosce

l’irreparabile, o anche rivolta? Benjamin resta sulla soglia di questo domandare. Ad esso,
certo, non risponde la “politicizzazione dell’arte” del saggio dedicato alle nuove muse;
nessuna “tecnica” è in grado di rispondervi, per quanto rimanga fermo che alla parola
poetica è sbarrata la strada della nostalgia, dei soli romantici, della finzione di aura, che il
suo linguaggio deve comunque corrispondere all’energia innovante dei rapporti sociali. Ma
corrispondervi è l’opposto del mero rifletterli, significa comprenderne la volontà di
determinarsi come totalità intrascendibile e rispondere ad essa, cioè esserne critica e crisi. E
tuttavia, di nuovo: tale crisi segna il culmine dell’itinerario concessoci nella metropoli o fa
segno di una via che effettualmente possa trascenderla? Zarathustra, in un “passaggio”
famoso, passa oltre la grande città, non ne vede soltanto, dall’alto, la caducità – passa oltre
verso quella enigmatica figura dell’Oltre-uomo, che Benjamin rifiuta come immagine di una
morale ormai “fuori corso”. Ma neppure l’ala della melancholia baudelairiana potrebbe
condurvi.
Quid tunc? Ciò che a questo punto sembra lecito affermare è che l’autore autenticamente
produttore deve sapersi collocare alla fine della malinconica theoria che Benjamin ha
elaborato attraversando la Parigi di Baudelaire. Il percorso di questa theoria si svolge per
quattro, indisgiungibili momenti. Alla Melancholia I corrisponde la triste “scienza” che il
flâneur acquisisce al termine del suo viaggio, “scienza” della vanità della ricerca del nuovo
nel mondo dell’universalmente scambiabile. Melancholia II è lo stadio della tristitia in cui
sembra esaurirsi lo spleen; il flâneur esausto si irrigidisce in essa, proprio come quel corpo
sepolto nelle nevi del tempo. Melancholia III segna il risveglio dell’angoscia nel cuore dello
spleen. Sono le ali dell’angoscia che invocano il “salto”, che costringono a ri-volgere lo
sguardo all’indistruttibile, all’infinito, all’ek-stasi dal tempo della grande città. Ma questo
sguardo è soffocato; la pura angoscia non ha parola, ne reca in sé solo la possibilità.
Melancholia IV è quella del poeta, che dalla prosa della metropoli riesce a strappare la voce
che ne dice l’angoscia. È la malinconia immanente all’ebbrezza. La malinconia che conosce
le proprie ali, ma dalla loro mania non è condotta che alla parola della memoria. Essa vede
l’indistruttibile – ma lo vede in sé, nella propria stessa parola, come l’infinitamente distante.
Lo ama e ne soffre per questa sua distanza. Al tempo che ci perde e consuma della metropoli
essa sa opporre il tempo che in sé ricorda e ritrova, ma la forza di questo tempo ritrovato
appare troppo

debole per farsi traccia dell’adveniens, per essere simbolo di un futuro. Tutta l’energia
dell’espressione, tutta l’arte dell’autore è indirizzata a questo simbolo, che sempre manca.
L’Angelo nuovo di Benjamin vorrebbe «verweilen, die Toten wecken und das Zerschlagene
zusammenfügen» (Über den Begriff der Geschichte), vorrebbe poter indugiare presso ciò
che a noi pare una catena di eventi, mentre a lui si presenta come una sola, continua
catastrofe «che accumula senza tregua rovine a rovine», per raccoglierlo ricomponendolo
nella sua parola e nel suo volo. Ma egli è l’Angelo della storia, deve obbedire alla tempesta
«che lo spinge inarrestabilmente al futuro», e questa tempesta ha nome Progresso,
Fortschritt. Melancholia IV: lo sguardo comprende in sé l’infranto, la mente è in lotta col
tempo del cosí-fu, ma non possono che ricordarlo, trascinati dalla tempesta che li agita e che
costituisce, tuttavia, l’unica dimensione in cui possono anche vivere e pensare. L’Angelo
vola in questa tempesta, ed è lo spirito di questa tempesta a sostenerne il volo. Ma
dell’infranto in essa non si dà che la parola rammemorante (di cui la mania del
“collezionista”, su cui tanto Benjamin ha meditato, è la pallida immagine); la «geheime
Verabredung», il colloquio, sacro per Hölderlin, tra l’ininterrotta rovina del passato e la
nostra ora, non può giungere, nella parola, alla redenzione dell’infranto. La sua «forza
messianica» è davvero troppo debole per questo. «Il materialista storico lo sa» – ma piú
ancora lo sa il poeta, che fino a questa stazione della Melancholia ha spinto la propria
parola.
Questa parola può sopraggiungere dopo ogni chiacchiera, dopo ogni “esposizione”, dopo la
nausea della novitas sempre-uguale; nulla e nessuno può decretare che essa sia trapassata
per sempre. La possibilità della sua profana attenzione, del suo «Verweilen» rimane sempre
aperta, nonostante tutte le smentite che possono provenire dal campo dei vincitori. La sua
Ora può sempre battere contro il modus. La malinconia ultima può, forse, giungere a
intuirlo. Ed è questo, forse, il dono che ci reca, a bassa voce, l’Angelo di Baudelaire in La
mort des amants. Egli «fidèle et joyeux» dischiude le nostre porte, ravviva «gli specchi
appannati», risveglia «le fiamme morte». Povera resurrezione – e tuttavia, prima di aprire a
questo possibile, prima di toccare l’im-possibile di questa immagine, la parola non deve
tacere. Nella tempesta che la trascina e nel cui “spirito” è necessario procedere, questa
immagine essa ha il compito di ricordare ed esprimere.

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