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Letteratura tedesca II lezione 08\04\2020

Ricapitolazione della lezione scorsa. Intervento di Emanuela:


La scorsa lezione ci siamo occupati della figura di Lenz, che rappresenta una personalità
romantica che, come quella di Werther, esce dalla normalità borghese attraverso una follia,
che in qualche modo si riallaccia al suicidio di Werther. Infatti abbiamo letto una pagina
del racconto di Büchner, intitolato Lenz, il quale è protagonista. Lenz viene identificato
come Wanderer, trovandosi in un paesaggio invernale montuoso, muovendosi in uno
spazio esteso in cui si trovano molti elementi, in una dimensione quasi collettiva. Ad
esempio, un'insieme di montagne e un'insieme di pietre. C'è una sorta di attraversamento
del paesaggio e un movimento che va dall'alto verso il basso. Ciò ci è suggerito anche
dagli avverbi che vengono utilizzati, come ad esempio hinunter. C'è un'oscillazione del
camminare, andare su e giù, che rappresenta il movimento interiore di Lenz. Ci sono molte
immagini irrazionali, come ad esempio il fatto che non si senta stanco, e il suo dispiacersi
nel non poter camminare a testa in giù; questo rappresenta il suo disagio interiore e la sua
sofferenza. Vi è un ribaltamento delle proporzioni, in quanto ci troviamo di fronte ad un
capovolgimento. Il senso di inquietudine è sempre presente, e lo si può osservare anche nel
paesaggio stesso, per esempio la nebbia che ovviamente annebbia la vista. Si può dire
quindi che ci sia un passaggio di immagini, di momenti più stabili e alcuni più instabili. Il
paesaggio è dunque molto diverso da quello che viene descritto nel Werther, in cui c'è un
godimento della natura. In Lenz è presente una tempesta, qualcosa di quasi selvaggio.

Büchner privilegia dei sostantivi di tipo collettivo, in italiano non abbiamo una
corrispondenza adatta. È interessante individuare il paradigma della follia che Büchner, con
grandissima arte, riesce a ritrarre attraverso le immagini di un paesaggio così immobile,
così instabile che è sia interiore che esteriore. Nel confronto con la lettera del 10 maggio,
c'è uno stesso processo di avvolgimento, l'io si sente altrettanto avvolto e pienamente
compartecipe del cosmo, ma nel segno di questo gaudio, estasi e appagamento dei sensi che
è legata alla cifra della primavera. Qui abbiamo invece un paesaggio invernale, siamo a
gennaio, che è l'unica datazione cronologica vagamente oggettiva di questo percorso e in
questo paesaggio fatto di sostantivi vagamene generici che appunto si traducono sotto
forma di masse: masse di nuvole, masse di pietre. Ci restituiscono lo sguardo offuscato di
Lenz, che non si sofferma sui dettagli ma piuttosto coglie questi elementi del paesaggio in
una sorta di sintesi, che è indistinta, che è fatta di forme in movimento. Anche il suo
cammino, egli ripercorre questo saliscendi lungo le valli e
montagne; questi avverbi che non sono solo della discesa, ma anche della risalita. È un
continuo dinamico avvicendarsi, che riflette la sua interiorità scossa, lacerata dalla
sofferenza e dalla follia che però non c'è restituita direttamente sotto orma di malessere o
consapevolezza della follia. Büchner ci fa adottare direttamente la prospettiva soggettiva di
Lenz nel suo registrare. Il non camminare a testa in giù e un paradosso, ed è un espediente
per sorprendere i lettori. A conclusione dell'estratto analizzato, il gioco sottile a cui l'autore
ci sta pian piano iniziando è collegato ad una alterazione prospettica. In realtà questa
dilatazione della percezione, tutti i dettagli raccontati nella vita interiore di Lenz sono puri
attimi ed è invece al primo piano a cui è affidato tutto questa avventura, peripezia, che è in
fondo angosciosa. Il gioco delle proporzioni non è affatto armonico o logico, ma viene dato
estremo rilievo a questo tumulto interiore ed ogni tanto è come se ci fosse un riprendere la
prospettiva dell'io, questa sorta di momento sovraordinato in cui Lenz dice di sé, sono
soltanto degli attimi. C'è un contrasto tra questa dilatazione di momenti in cui il paesaggio
prende un dominante protagonismo e in un certo senso c'è un ribattere sul pronome Es, sorta
di energia che promana dalla natura ma che allo stesso tempo dalla psiche sconvolta di Lenz.
Solo a tratti l'autore riprende la prospettiva dell'io
di Lenz, parlando in terza persona con il pronome Er. Ci restituisce, nella provvisoria
conclusione dell'estratto letto, questo distanziamento in cui tutto quanto è avvenuto viene
virtualmente ridimensionato come di effimera durata di qualche istante. Sono proprio
questi istanti che hanno, in realtà, rilievo centrale perché sono questi istanti di
sconvolgimento della sua psiche che ce lo avvicinano molto. Büchner racconta quella che
oggi si direbbe patografia, diagramma di una malattia. Lo fa però, non con la distanza del
raziocino e tanto meno della prospettiva di un'analisi a distanza oggettiva, scientifica; al
contrario si immerge nella verità, nell'autenticità di queste percezioni trascinando così il
lettore, attraverso tutti gli espedienti formali osservati, dalla parte di Lenz. Esprime in
questo modo la nobiltà della sua sofferenza e l'intensità della sua anima.
In questo senso ritroviamo il filo con quanto dicevamo all'inizio, cioè questa
contrapposizione
di intenti che separa la tradizione della cultura romantica dalla posizione di Goethe. È come
se Goethe rappresentasse in questa epoca il centro di gravità unanimemente riconosciuto
nella sua autorevolezza e tuttavia, in qualche modo, dalla prospettiva romantica, con la
necessità di relativizzare il suo punto di vista e di contrapporre una verità più alta che i
romantici sentono. La prospettiva che sta loro a cuore esplorare, nobilitare e soprattutto
affermare come progetto antagonista alla normalità borghese, a questo progressivo
adattamento alle regole del mondo
che Goethe pratica, una volta che divorzia simbolicamente dalla parabola di Werther,
contrapporre invece questo universo dettato dai parametri classicistici. Come il rapporto
viscerale con la natura che significa anche una disponibilità a travalicare l'orizzonte del
mondo, questa postazione del Wanderer è simbolica oltre che concretamente radicata
nell'universo naturale, proprio perché significa un rifiuto delle regole della realtà, della
società, del consorzio umano sentite come con grande insofferenza soprattutto perché
artificiose.

Il decennio della Weimar Klassik, coincide con il periodo in cui Goethe si trasferisce alla
corte di Weimar e insieme a Schiller, in questo connubio di gigantesche personalità di
artisti, si dedica non soltanto a scrivere delle opere che sono concepite in ossequio al canone
classico e quindi alle idee di ordine, metri e forme che discendono per una linea
virtualmente diretta dall'antichità greco-latina. Il classicismo weimariano, il progetto
culturale ed estetico di Goethe e di Schiller, celebrato come uno dei vertici dell'arte e della
cultura tedesca, si connota però
pregiudizialmente come una volontà di lasciare tra parentesi ila storia, il presente e le
sollecitazioni, inquietudini che appartengono alla modernità. La cultura romantica raccoglie
la sfida di rappresentare e esplorare questo stravolgimento delle coordinate spazio temporali
in cui la cultura moderna si trova catapultata dalla rivoluzione francese e dalla simultanea
trasformazione strutturale delle società europee che è conseguenza immediata della
rivoluzione industriale. La cultura romantica contrappone alla modernità la natura, nella
quale si immerge per cercare di salvare una serie di valori. La natura è
contemporaneamente paesaggio interiore ed esteriore. parlare di natura significa
sostanzialmente parlare di soggettività, di come l'io si rapporta ad una realtà esterna
radicalmente mutata e soprattutto di come questo viaggio, questa esplorazione diventa
progressivamente nel bene e nel male, nell'accezione della follia e nell'utopico slancio, in
qualche modo diventa conoscenza di un mondo interiore, di una coscienza che
progressivamente prende consapevolezza di sé e soprattutto afferma la legittimità del
proprio sguardo sul mondo in chiave di corrispondenza, di sintonia. La natura diventa un
sistema di riferimento alternativo a quello della realtà della concreta organizzazione sociale,
regno dell'artificio.
La cultura romantica imprime un segno indelebile nella coscienza non solo tedesca, ma
anche europea. La sua capacità di sporgersi con tanto ardire nel ribadire un sistema di
valori radicalmente alternativo a quello che la cultura borghese di quella fase sta
realizzando. Questo rovesciamento prospettico, questa contrapposizione di un mondo
utopico, ideale sicuramente
astratto ma non per questo meno carico di significato e degno di essere idealmente
vissuto. Il senso di appartenenza ad una scala di valori antitetica a quella miseramente,
prosaicamente reale. La poesia è universo sconfinato di valori nobili e spirituali e si
contrappone alla prosa, intesa come meschina e ottusa realtà del mondo.
Il percorso di Werther viene da Goethe abbandonato. Il suicidio finale simbolicamente
rappresenta la direzione che Goethe intende intraprendere da quel momento in poi. È
molto importante tenere presente come riferimento polemico la figura di Goethe, proprio
perché rappresenta il modello a partire dal quale la generazione romantica definisce la
propria postazione.
La borghesia è questa classe che si contrappone, in modo rivoluzionario al predominio
aristocratico e all'assetto generale del mondo. Questa nuova classe sta costruendo un'altra
realtà, che è formalmente, strutturalmente antitetico al sistema feudale; non è più il latifondo
l'epicentro dell'organizzazione economica, ma la fabbrica, la macchina, la meccanizzazione
della produzione. La borghesia si pone come classe imprenditoriale e la fabbrica diventa un
nuovo luogo di lavoro. L'aristocrazia è questa classe che per definizione si connota, si
autodefinisce attraverso una legge, anch'essa culturalmente simbolica, cioè quella del
sangue. L'ethos aristocratico è una maschera sociale di misura, contegno che è agli antipodi
della figura del romantico che vuole esprimere la propria anima.

Domanda: perché alcuni romantici apprezzano la Rivoluzione Francese nonostante sia


una rivoluzione borghese?
La rivoluzione francese, storicamente borghese, contiene strutturalmente una tradizione per
cui da una parte, intende essere emancipazione e quindi furia distruttiva dell'oppressione del
mondo di ieri, di questi vincoli rappresentati dal sistema feudale e dall'altra, però,
rappresenta una degenerazione simultanea in un sistema di terrore, di repressione delle
libertà. C'è quindi anche simultaneamente nello stesso svolgimento storico una spinta
all'emancipazione, alla imposizione di nuove regole nel segno ideale della libertà, fratellanza
e eguaglianza ma contemporaneamente c'è una spinta regressiva che porterà concretamente
al potere dapprima il Terrore, bagno di sangue traumatico nella coscienza europea. È una
sorta di prototipo delle rivoluzioni che avverranno nel 1800-1900, che avranno una
simultanea compresenza di liberazione e violenza che naturalmente provoca bilanci di
conseguenza complessi e contraddittori. A questa rivoluzione succede l'impero napoleonico,
quindi un assetto politico tutt'altro che libertario. È per questo che la rivoluzione francese
viene tutt'ora molto studiata, in quanto rappresenta la Geburtstunde, il momento germinale
della cultura contemporanea, l'Europa contemporanea nasce da quella cesura così decisiva.

Quello che viene dibattuto in questo snodo storico è il tentativo di affermare un altro sistema
di valori e di porre al centro l'individuo nella piena effusione di tutta la totalità della singola
persona che è fatta di tante contraddittorie caratteristiche; c'è la ragione, ci sono i sensi, c'è
l'anima. Effettivamente questa esplorazione dell'Io, implica un'enorme gamma di
percorsi e quindi anche di esiti, sia sul piano estetico, sia sul piano più generale morale
e politico.
C'è bisogno di sottolineare sin dal principio che la narrazione contemporanea, dal punto di
vista dell'educazione scolastica, della storiografia letteraria, della prospettiva culturale che ci
viene suggerita dagli studi scolastici e universitari, è che in fondo viviamo in un mondo
molto diverso ormai. Però ancora oggi viviamo le influenze dell'illuminismo e del
romanticismo, anche se adesso ci troviamo in un mondo migliore. Invece la prospettiva che
io vi invito ad adottare è quella di osservare nella loro genesi i conflitti che ancora oggi
attraversano la cultura borghese di cui noi stessi siamo esponenti, abitanti di una tarda-
modernità, che in qualche modo continua a vivere le stesse contraddizioni con, in alcuni
casi, ulteriori aggravanti che sono all'ordine del
giorno. Libertà, uguaglianza e fratellanza sono un traino utopico che ancora oggi
sommuove e inquieta la nostra società, ma la realizzazione è molto più complessa. Ecco che
la cultura è un ingrediente fondamentale dello scenario perché si pone come possibilità di
scavare dentro le contraddizioni e affermare dei valori. La cultura è un sistema
profondamente antitetico, per sua stessa vocazione, al mondo reale della politica, alla
concretezza. Dobbiamo vedere la borghesia stessa, innanzitutto come una classe, ma anche
come un sistema di valori a sua volta inquietamente mosso da spinte diverse. All'interno
della classe borghese esiste un'anima conservatrice, un'anima rivoluzionaria, un'anima
utopica e un'anima convenzionale.
Il romanticismo e l'illuminismo sono così spinte concomitanti che partono dalla stessa
vocazione emancipatoria che è il traino politico di questa classe borghese che vuole
affermare se stessa, in contrapposizione con la nobiltà.
C'è un libro molto bello che si chiama Il Borghese, uscito nel 2017, scritto da un grande
teorico della letteratura, Franco Moretti. Moretti ha insegnato nelle grandi università
americane,
come Harvard, infatti la prima versione del suo testo è in inglese. È un interessantissimo
affresco della figura del borghese. Il borghese è tutti e nessuno, è un individuo
metamorfico, è difficile compendiare in modo statico e definitivo i suoi vizi e le sue virtù.
È un'interessante ricognizione, fatta attraverso la letteratura.
La nascente borghesia tedesca non può, non riesce storicamente ad affermarsi come classe
dominante, percepisce però, qualcuno ha detto con un po' di retorica profetica veggenza,
sicuramente tutta una serie di elementi che fanno parte della identità borghese. È come se si
trattasse di una capacità di proiezione, intuitiva immedesimazione in questa costellazione
storica che rende i tedeschi particolarmente lucidi rispetto a questa rivoluzionaria
coesistenza di conflittualità, di contraddizioni. Quello che è il traino storico-culturale di
questa emancipazione da parte della cultura borghese è questa affermazione rivoluzionaria
dell'Io. L'Io però non è un'entità data; la cultura aristocratica si definisce per essere, non nel
senso del divenire, ma nell'essere immobile. La struttura aristocratica dipende dai beni
immobili, dal latifondo.
Dipende dunque dalla conservazione e dalla possibilità di tramandare, attraverso
l'ereditarietà
del sangue. L'io (borghese) è un'entità che deve conoscere se stessa, deve provare le
proprie potenzialità, deve diventare qualche cosa. Perché di suo, non è nulla, non ha una
tradizione come quella aristocratica. Il borghese è per definizione un nuovo arrivato,
socialmente e culturalmente, perché deve inventarsi. L'aggettivo immobile, che anche
oggi, non a caso, è
sinonimo di proprietà, è contrapposto all'universo borghese che, invece, si costituisce su
un'idea di dinamismo, di divenire. Dal punto di vista di una lettura più vasta, che non
trascenda soltanto l'orizzonte tedesco e inglobi la costellazione più vasta del mondo europeo,
ad esempio Moretti individua il primo grande borghese, cioè Robinson Crusoe. Egli, che si
trova in un'isola deserta, in qualche modo sfrutta le risorse di questa realtà piuttosto ostile e
crea dal nulla, grazie alla sua intelligenza e capacità di ottimizzare il contesto nel quale si
trova. Riesce così ad affermare il suo Io, la sua capacità imprenditoriale che diventa
strumento di affermazione positiva del suo essere. Si tratta dell'individualismo di un uomo
comune che è stato capace di sopravvivere a varie peripezie, perché ha il coraggio di non
obbedire al padre e quindi anche questo ci riporta a tutta una serie di caratteristiche che
appartengono a Prometeus, o anche in Werther. Cioè la volontà di fuoriuscire da un
tracciato già segnato.
Domanda: In Inghilterra, il concetto di self made man è collegato al puritanesimo. In
Ger mania si avvertiva questo tipo di influenza religiosa?
C'è una componente religiosa, nel caso tedesco si parla di protestantesimo. Il protestantesimo
è
anche quella una rivoluzione; la volontà di contrapporsi all'autorità indiscussa della
Chiesa ufficiale, soprattutto nei suoi aspetti di corruzione e, ancora una volta la volontà
di porre al centro della fede il rapporto dell'individuo, della singola anima, senza il filtro
della gerarchia ecclesiastica, con Dio. Il modo in cui la religione si sposa con questo
disegno di
autoaffermazione, nell'ambito della cultura tedesca passa per due elementi (n.b non ha mai
detto il secondo elemento :\ ): il protestantesimo; questo protagonismo in qualche modo
coraggioso del singolo; prima di tutto di Lutero che afferma altri valori e fa piazza pulita
dall'ingombrante ipoteca del clero in questo momento di emancipazione, che passa anche
per la sua personale traduzione della Bibbia in tedesco.
A fine 1700 si assiste alla presenza dell'Empfindsamkeit e del pietismo. Certamente la
rivoluzione romantica è stata preparata dalla rivoluzione pietista. L'aspetto religioso ha una
incidenza importante nella misura in cui anche il protestantesimo, a fine 1700, viene sentito
come una sorta di Chiesa di pietra, viene sentita come uno svilimento dell'aspetto
sentimentale, della partecipazione individuale; del sentimento profondo di tutto ciò che è
fede, nel rapporto con Dio. La cultura pietista, che è una cultura che parte anche dall'idea del
triangolo filadelfico, cioè dal fatto che l'amicizia, i rapporti umani, questa coesione delle
anime sia la vera cellula germinale della fede, che non deve essere imprigionata, violata o in
qualche modo sopraffatta dall'ingerenza dell'autorità della chiesa protestante. Volontà di
rigenerare il sentimento religioso come compartecipazione di anime, come rinascita del
sentimento. Ecco che vediamo l'analogia con quanto la cultura romantica farà sia dentro che
fuori dell'orizzonte religioso e laico. Ad esempio l'universo di Novalis è profondamente
cristiano e intriso di questa intensità che viene dal mondo religioso, inteso però non come
rapporto gerarchico con una divinità lontana, autorevole, ma al contrario come
compartecipazione, circolarità rigenerante che fa del divino un elemento che impregna. La
prospettiva è dal basso, profondamente umana.
Empfindsamkeit vuol dire sensibilità, tecnicamente quetso sostantivo ha questo significato, e
diventa il vettore della rivoluzione pietista; la rivendicazione di questa interiore e
individuale modalità di vivere e di avere fede, cioè di nutritla dei propri individuali
sentimenti. Questi sentimenti sono legati, anche, all'idea dell'amicizia che è in qualche
modo il paradigma del Werther. Wetrher vive l'ambiguità del sentimento verso Lotte che è
prorpio il fatto di possedere tutta la nobiltà di un sentimento spirituale, che però è in qualche
modo anche profondamente erotico; il desiderio di Werther poi travalica i limiti imposti
dalla morale borghese e tenta questa seduzione che poi, in questa ambivalenza che Goethe
riversa nel personaggio di Lotte, sembra apparentemente venire corrisposto, anche se si
rivelerà un'illusione. Qui vi è il trionfo della ragione del mondo che contrasta con la legge
del cuore. Il cuore è l'epicentro della sensibilità pietista, di questa Empfindamskeit, la
religione del cuore è quasi il manifesto della ensibilità e della spiritualità pietista,
contrapposta al cuore di pietra, che sarebbe questa autorevolezza lontana della Chiesa,
intesa come istituzione.

Per quanto riguarda Schiller; l'importante germanista Arata Takeda, ha scritto un libro
molto interessante che legge, alla luce dell'oggi, il gesto di Karl Moor come una sorta di
ribellione terrorista. Il termine terrorismo dobbiamo leggerlo attraverso la lente del terrore
della rivoluzione francese e cioè, questa sorta di volontà di rovesciamento dell'ordine
costituito che non arretra di fronte all'evenienza della violenza. I Räuber sono convinti di
affermare una scala di valori superiore; Schiller, nella sua fase stürmeriana, è dalla loro
parte. Lo Stürm è un impeto rivoluzionario, di sovvertimento, di rovesciamento, che tiene
dentro di sé tutte e due le valenze: da una parte questa emancipazione edificante e dall'altra
questa possibilità, anche storicamente reale, di bagno di sangue, di soppressione della vita
umana in nome di un valore superiore.

Cosa simboleggia il cuore? È la sede del sentire, il centro propulsore della vita. Il fulcro dei
sentimenti. Cuore non è un organe casuale, è l'organo per eccellenza più importante,
accanto ai polmoni, è associato da sempre al sentimento, sin dall'antichità greco-latina. Nel
bene e nel male, essendo il cuore sia la sede della gioia che del dolore. Dal punto di vista
concreto, come materia organica, è una metafora non casuale. La poesia poggia tutta sulla
nostra sostanza
antropologica; il cuore è certamente una delle metafore più archetipiche, cioè fa parte
dell'alfabeto culturale con cui noi parliamo di noi stessi. È concretamente l'organo in cui
l'emozione ha sede, dentro cui l'emozione diventa fisicità. Il cuore pulsa e il suo stesso ritmo
è modificato dai sentimenti. Se batte più veloce, vuol dire che siamo emozionati; se si
''ferma'', significa che siamo spaventati etc. Diventano letteratura perchè sono inanzitutto
concretamente umane. Goethe parla letteralmente della sistole e della diastole.
L'origine della poesia sta nel canto, l'origine del canto confina con la musica, cioè con tutte
quelle attività che hanno a che fare con il ritmo e il cuore è anche profondamente la sede
del ritmo della vita. L'alito diventa emanazione di vita; è molto importante questa
simbologia perchè è sia religiosa nel cristianesimo, sia più estesamente in questa cultura
romantica.

La borghesia ha tante anime e dentro queste anime si profilano diverse declinazioni; il


cuore non è la legge con cui la borghesia costruisce il suo spirito imprenditoriale, perchè
anzi, lo spirito imprenditoriale prevede che si metta tra parentesi tutto ciò che è emozione e
in qualche modo non consente prevedibilità, funzionalità, raziocinio, dominio della natura
circostante, piegata ai fini di questa soggettività dominante.
La rima tra cuore e dolore è una sorta di controprova della sensibilità. In tal senso è
un'esperienza che il romantico non ripudia, non allontana da sé, anzi; nell'alfabeto del
romanticismo una delle parole più importanti è proprio Weltschmerz, cioè il farsi carico di
questa sensibilità dolorosa del mondo, cosmisca. Il romantico si sente esattamente come
Lenz in questa sua dolorosa esperienza del cosmo, c'è anche un'incredibile accentuazione
della sua sensibilità. Lenz si lascia completamente travolgere dalla natura circostante e
certamente c'è un'attribuizione di valore. Il romantico si sente molto più proiettato verso
questa intensità
anche lacerante, perchè sente in quella la riprova della propria vitalità che non verso
l'altra sponda, nella quale vede la gabbia borghese che postula invece il controllo dei
sentimenti e soprattutto il governo di questi sentimenti in nome di valori, dalla
prospettiva romantica, disumai che sono appunto il funzionamento, la norma. Il
rapporto con la natura esterna è estranea, aliena e viene piegata ai propri fini. Per i
romantici, invece, la natura è parte di sé. Non c'è separazione, non c'è gerarchia.
Secondo la prospettiva del classicismo goethiano bisogna governare le passioni, di
fuoriuscire da quel vicolo cieco in cui si era cacciato Werther, che appunto non a caso viene
definito da Mittner, il campione del cuore; cioè colui che professa la superiorità di questa
scala di valori concentrata sul cuore, che vive in questa continua oscillazione data dal suo
instabile cuore. Anche Werther non arretra di fronte alla prospettiva del dolore cosmico che
si impadronisce di lui. In questo c'è una parentela tra Werther e Lenz, cioè che in questo
assolutismo del sentimento è anche contenuta la rovina. Ma i romantici di fronte a questo
non arretrano. Quello che viene rifiutato è l'esperienza del limite; l'esagerazione di Werther
è la prospettiva del Goethe maturo, o dei borghesi che Werther sta rifiutando. Ecco perchè
anche nel nostro lessico ordinario, dopo quasi due secoli, continua a significare qualcuno
che sta in un altro mondo, si figura una logica, un'idea del mondo che è completamente
diversa da quella degli altri ma la ritiene idealmente superiore. Ecco il germe anche della
nobiltà di questa proiezione, sia di Werther, sia dei suoi compagni di strada come ad
esempio quelli che inventa il poeta Novalis. Cioè l'idea che si tratta di un rispondere ad un
comandamento sentito come superiore alla meschina logica del mondo borghese, la schiera
di persone che stanno costruendo, allestendo
un paesaggio completamente diverso e che stanno affermando il valore superiore del denaro
rispetto a quello dell'anima. Anche questo è un conflitto che non ha cessato di
attraversare il nostro mondo.
Werther può essere visto semplicemente come un giovane ragazzo innamorato. Che essere
innamorato confligge con le regole del mondo e questo lo rende semplicemente infelice. La
sua infelicità per lui è da difendere, non è da abbandonare; non è giusto per lui abbracciare
la logica del mondo che lo circonda e che in fondo pretende da lui stesso. Perchè non è
soltato
rinunciare ad un amore, ma è rinunciare alle fibre più intime del suo cuore, di tutto ciò che ha
significato e valore per lui. La cosa complessa è relazionare questa esperienza che, tutti noi
più o meno possiamo aver fatto (l'essere innamorati), con la fase storica (di inizio 1800), in
cui i valori del nostro sistema attuale vengono elaborati e che vengono elaborati non in
modo armonico,
ma sottoforma di conflitto tra valori diversi. Bisogna funzionare, bisogna rinunciare a se
stessi
per uniformarsi senza farsi domande e quindi obbedire a norme che sono costituite da altri,
che ci richiedono di essere degli individui che funzionano, che si integrano. Il successo, il
prestigio si misura con il denaro posseduto. Abbiamo per fortuna sempre un redisuo vitale
romantico che
si contrappone a questa logica che rivendica la leggittimità di un altro sistema di valori, più
nobile, più vicino alle esigenze più profonde delle nostre anime.
Una studentessa fa riferimento all’Amica Geniale; si tratta della storia dell’emancipazione
di
una donna, peraltro nata non nella società borghese, ma nella variegata, frastagliata
compagine sociale dell’universo meridionale, dove la povertà, dove condizioni tutt’altro
che borghesi nel senso del benessere e solidità economica, sono ancora profondamente
presenti. Sono due amiche che nascono in un ambiente sottoproletario nei sobborghi
napoletani da condizioni di vita estremamente misere degli anni ’50, per le quali addirittura
l’accesso all’istruzione non è garantito, ma è in qualche modo una conquista estremamente
ardua, estremamente sofferta e triplamente milioni di volte ancor più difficile perché da
conquistare da parte di due donne. Quindi ancora con l’aggravante esponenziale del peso
patriarcale di questa società dal punto di vista dei ruoli, gender, ma che al di là della
modernizzazione del termine di fatto risiedono in una ancestrale, complicatissima,
difficlissima, sofferta e anche conflittuale dinamica. Questa amica che va a studiare alla
Normale di Pisa, quindi si emancipa dalla propria origine e in un certo senso trova
cittadinanza nell’universo intellettuale addiritura elitario in un’università così prestigiosa
come la Normale di Pisa, vive costantemente il disagio, il complesso di inferiorità di
trovarsi tra pari, di trovarsi spiazzata in una compagine culturale che prevede in fondo
un’altra origine.
In qualche modo potremmo dire che il disagio di classe che vive la protagonista dell’Amica
Geniale è simmetrico a quello che vive la borghesia agli albori della sua parabola storica
nei confronti della nobiltà. Ancora oggi esiste, tuttavia, nonostante il mondo sia
governato da borghesi, la soggezione nei confronti della nobiltà è tutt’ora qualcosa che
l’identità borghese subisce, la superiorità dal punto di vista della nascita di questa
disinvolta identità aristocratica non è affatto intrinseca ai connotati dell’identità
borghese.
Di cos'è fatta l'identità borghese? Della capacità di fare qualcosa del proprio destino, di
questa
capacità imprenditoriale che non va intesa solo come termine tecnico (mettere su una
fabbrica, metter su un’impresa) ma in generale in quest’attivismo; anche Prometheus è un
imprenditore di se stesso, cioè qualcuno che del suo destino vuole fare qualcosa
ribellandosi alla autorità paterna, ovvero fuoriuscendo dal tracciato segnato dall’origine, e
questa stessa capacità di
fuoriuscita contiene l’istanza di emancipazione, di ribellione, talora anche cruenta - se
pensiamo ai Räuber - e più in generale il paradigma di questa volontà di liberarsi dai vincoli
imposti
ancora una volta dall’origine. L’individuo borghese è qualcuno che vuole rispondere solo
a se stesso, vuol essere l’arbitro del proprio destino, vuole essere self-made man, vuole
farsi con le proprie mani, ma anche in questa vocazione in qualche modo risiede la
contraddizione di cui stiamo parlando, e cioè l’idea che io sono si arbitro del mio destino,
ma in qualche modo sono anche uno spiantato, cioè sono costantemente esposto alla
necessità di autolegittimare le mie scelte, in queste soggettività titaniche.
Quello di Schiller, quello di Prometheus che si ribella simbolicamente a Giove, c’è la
volontà di mettere tra parentesi i propri padri, cioè coloro che in qualche modo, per
definizione, in quanto depositari della tradizione, hanno già scritto il nostro destino; per
questo la generazione romantica in qualche modo investita da questa idea di
imprenditorialità, che significa semplicemente dinamismo, attivismo, volontà di auto-
determinazione, libertà dai vincoli e proprio questo contro cui si ribellano, l’idea che il
destino sia già segnato: il destino degli aristocratici è già segnato nella misura in cui
l’aristocratico è, non ha bisogno di fare nulla, è e non fa.
Il borghese non è niente finché non fa, e questa è una differenza strutturale in termini
d’identità
culturale che non si è affatto trasformata nel nostro presente, sicuramente i borghesi ormai
hanno tanti secoli di storia, quindi esiste anche il patrimonio borghese che può essere
tramandato più o meno come quello aristocratico, però il borghese è ben lontano dall’avere
tutta la distillata raffinatezza che viene all’aristocrazia da secoli e secoli e secoli di
dominio che la borghesia non può affatto vantare.Vale a dire che bisogna tenere anche
molto bene presente questa sorta di complesso originario che è iscritto nell’identità
borghese: il non essere dotato della stessa raffinata, distillata nobiltà in ogni senso, non
soltanto nell’accezione di classe che caratterizza la disinvoltura dell’aristocratico, che non
ha alcun bisogno di legittimarsi, di definirsi, perché è la nascita stessa che lo colloca in una
dimensione di autorevolezza, dignità, potere, sovranità, e quant’altro. In questa ribellione,
c’è una energia che si travasa naturalmente anche nella efferatezza del lessico,
nell’estremismo; nel caso di Schiller è la violenza che ha
il primo piano, cioè l’evenienza stessa di sovvertire l’ordine costituito attraverso l’azione
violenta che in qualche modo è speculare a quella sorta di estremismo del cuore di cui
Werther è paradigma. Vediamo che sono poi molto intimamente collegate queste questioni,
abbattere un mondo di valori che pre-esiste a noi, è un’impresa, non soltanto nel lessico di
Prometheus, letteralmente titanica; qualche volta siamo anche sconfitti, non riusciamo a
sovvertire tutte le regole che ci governano, che siano i nostri avi -non soltanto i nostri
genitori naturali - più in generale del mondo che ci precede. Non a caso tutto questo
conflitto di valori si concentra nella giovinezza, non soltanto perché le energie vitali sono
ben più intense di quanto non accada in stagioni successive della vita, ma anche perché la
vita è davvero davanti e quindi ci si pone davanti la domanda: cosa voglio fare della mia
vita? Perché non è prescritta questa vita,
bensì va costruita. Va costruita e quindi quali sono i valori che faremo prevalere? In base a
quali
criteri orienterò le mie scelte? Seguirò la strada dei miei genitori? Andrò per la mia
strada? Mi porrò di qua o di là rispetto a tremila ipotesi di auto-realizzazione che oggi
sono, almeno sulla carta, alla portata di ogni esistenza individuale?
Esistono tuttavia tutta una serie di condizionamenti che sono in parte oggettivi e materiali, in
parte soggettivi e appunto culturali, e quindi questa nitida scansione, quasi questo
chiaroscuro che l’età romantica ci restituisce, ci fa vedere con una sorta di evidenza
drammatica, in tutti i sensi drammatica, anche per le conseguenze che la fedeltà, gli ideali,
comportano di fronte a un mondo che contrasta questi slanci; di per sé essere fedele ai
propri valori può significare il martirio e questo non è un portato soltanto dell’età romantica
ma si concretizza specificamente nei connotati di un’epoca che è anche profondamente la
nostra, nel senso che i valori che sono in conflitto nel nostro mondo sono gli stessi, a
gradazioni diverse, con declinazioni in parte più complesse, ma nella struttura sono i
medesimi che questa generazione si trova a confrontare sostanzialmente con le armi della
propria anima, perché nessuno di loro scende
a patti con le regole del mondo.
Goethe invece è il paradigma delle scelte opposte, non soltanto divorzia dai sogni di
Werther, scrivendo a partire da quella cesura delle opere che, anche dal punto di vista dei
contenuti e dei valori, affermano l’esigenza di una Bildung , di un processo di formazione
che consenta alla soggettività dell’Io, in un certo senso di abbandonare le intemperanze
giovanili e di diventare
parte costruttivamente integrata di un sistema, di quello appunto borghese. E quindi gli
consenta, a questo Io, un adattamento che ha a che fare, e anche questo è un termine
chiave, con la rinuncia, Entsagung; per Goethe il valore della rinuncia è fondamentale
perché solo la rinuncia dischiude la possibilità di sopravvivere nel mondo borghese.
Goethe non è soltanto l’autore di opere che professano la necessità della Entsagung, ma è
anche il consigliere di corte
a Weimar che, oltre ad essere un grande artista, è anche letteralmente un politico di carriera,
che giunge a, e per questo che è anche un grande modello, a conciliare nella sua persona
l’ossequio dei valori estetici in nome del classicismo e della rinuncia e della Bildung, con
una sorta di vera
e propria professione che è addirittura non solo borghese, dal punto di vista dell’essere
funzionario dello stato, ma addirittura gli dischiude la accoglienza, la nobilitazione nella
casta aristocratica. Alla fine della sua vita Goethe morirà non più da borghese ma da
aristocratico perché verrà inserito il titolo nobiliare: Johann Wolfgang von Goethe; è per
questo che Goethe si è perso nell’immaginario tedesco in particolare, ma più in generale
europeo, ma specificamente tedesco, come non soltanto un grandissimo artista ma anche
come l’incarnazione di un modello di felicità realizzata. Goethe è in qualche modo non
soltanto il fortunato autore di una serie di capolavori, ma è anche un individuo felice che è
riuscito mirabilmente, nell’economia della sua vita, a conciliare, non a vivere lo strazio
della contraddizione, ma a vivere la pienezza del compimento dei suoi desideri, che è
un’arte quasi superiore talora alla capacità di scrivere dei capolavori che talora costano
invece sofferenza.
Che cosa significa per Goethe rinuncia? Per Goethe significa il prezzo adulto e maturo da
pagare per fuoriuscire dalla strettoia unidirezionale esasperata, a senso unico,
concretamente della passione di Werther, più in generale dall’individualismo estremista
che è contenuto nella parabola di Werther e potremmo dire si tratta di metter la capa a
far bene, non è una battuta soltanto, è l’idea che per uscire borghesemente nella vita
bisogna operare delle rinunce.
Il Goethe maturo, post-wertheriano sta tutto dalla parte di questa condizione profonda per il
principio costruttivo della rinuncia. Esiste altrettanta saggezza nella prospettiva del Goethe
maturo, l’idea che per crescere bisogna costruirsi anche un principio di realtà; il problema è
che ciascuno è in un certo senso che ciascuno dentro di noi conosca l’estremismo del
Werther e in un certo senso la saggezza posata del signor Wolfgang, più tardi appunto
anche von Goethe. Nel senso che convivono dentro di noi la modernità della cultura
romantica e classico-romantica; questo snodo è interessante perché ci fa vedere un po’ tutte
le diverse sfaccettature di cui noi come individui moderni siamo fatti: siamo fatti della
contraddizione di volere rispondere ai nostri slanci romantici, dell’esigenza di venire a patti
con la realtà, fatta con certi schemi di valori che non sono cambiati dall’età di Goethe fino
ad oggi; l’esigenza di funzionare in un sistema, in qualche modo anche contemperare le
nostre esigenze con quelle altrui e quindi
trovare una forma, se non armonica, almeno compatibile di convivenza con il consorzio
umano che ci circonda; dunque abbiamo il coesistere di diverse possibili prospettive che la
letteratura di quest’età drammatizza sottoforma appunto di parabole, non solo letterarie, ma
anche più in generale da intendersi come ciascuna depositaria di un sistema di valori. Ho
voluto chiamare in causa il signor Goethe perché Novalis progetta la sua opera come una
sorta di programma anti- goethiano.
Questa questione della Bildung è importante proprio perché per tutti gli individui borghesi,
siano essi romantici di quell’età specifica storico-culturale che stiamo analizzando, o più in
generale, è la chiave di volta imprescindibile del destino borghese, cioè questo divenire,
questo soggetto borghese, questo Io che viene al mondo privo di una prescrizione che non
sia la continuità in qualche modo puramente organica della specie e in assenza di una
propria cultura, perché l’unica cultura che esiste, finché la borghesia non si afferma, è
quella aristocratica. Esiste anche naturalmente la cultura dei vinti, la cultura dei servi della
gleba che però è una cultura sostanzialmente materiale, che non si è depositata nella
scrittura a causa appunto del non
accesso alla alfabetizzazione; questo individuo borghese che sto disegnando e ritraendo
come una astrazione, questa fisionomia culturale è priva di ogni contenuto che non sia
quello che lui stesso o lei stessa - molto più minoritaria ovviamente la componente
femminile -sia in grado di fabbricare da solo. Ecco la cruciale importanza della formazione,
Bildung, che non va intesa solo come formazione nel senso di una education, di una
istruzione progressiva, ma in senso ben più vasto come formazione del carattere, come
formazione dell’identità, come costruzione di una personalità, di una fisionomia.
Ora della fattispecie del signor Johann Wolfgang ancora soltanto privo del von nobiliare,
quel signor Goethe dopo il Werther viene un progetto che appunto la costruzione di un
cosiddetto Bildungsroman, e cioè potremmo dire simbolicamente la sfida ad un tempo
esistenziale e letterario di scrivere, e quindi immaginare, un percorso di un personaggio
che a differenza di Werther non precipiti nell’autodistruzione, ma sia in grado di maturare,
e quindi anche non solo simbolicamente, di diventare adulto e di affrontare la vita sulla
base di altro sistema di valori. Non unilaterale come quello di Werther, sostanzialmente
concentrato sulla soggettività del suo cuore, della sua appunto passione per Lotte, che ne è
espressione, ma invece che si parte da una iniziale vocazione artistica, ma poi appunto in
nome della rinuncia, in nome della Bildung, si separa da queste intemperanze giovanili, le
guarda a distanza criticamente, divorzia da queste passioni, e si integra, in nome della
rinuncia, nella società borghese di cui
sostanzialmente sposa anche i valori nel nome di una sorta di saggezza e imperturbabilità
che lo
fa somigliare paradossalmente ad un aristocratico.

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