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LUIGI CASTAGNA

(Università Cattolica di Milano)

La novella della Matrona di Efeso: meccanismi del riso.

La Novella della matrona di Efeso ha avuto, nella tradizione manoscritta


medievale, anche una circolazione separata dal resto degli estratti del romanzo
e probabilmente una parte della sua fortuna e delle sue riproduzioni latine nel
corso del medioevo e comunque nell’Italia pre-umanistica (ivi inclusi il
Novellino e il Decamerone di Boccaccio) può risalire a questa tradizione
indipendente. Rinvio su ciò a Michael D. Reeve in Leighton D. Reynolds,
Texts and Transmission, 1983, 297.
Ma a dire il vero la novella non si può pienamente gustare e criticamente
valutare trattandola come una creazione autonoma, priva del contesto nel quale
l’autore ha voluto ricercatamente incastonarla: è invece necessaria, da un lato,
la lettura dell’intero “romanzo” petroniano (nella misura almeno in cui ci è
pervenuto), e, dall’altro, non si può non prestare attenzione alla cornice
all’interno della quale la novella è narrata. Ci si deve infatti porre alcune
domande di questo genere: qual è lo sfondo e quale la situazione che ha
suggerito ad uno dei personaggi del romanzo, Eumolpo, di ripeterla, e chi è
questo narratore e chi sono gli spettatori ai quali egli si rivolge. Infatti
significa qualcosa il fatto che il narratore racconti una certa fabula come un
episodio di cui è stato protagonista in prima persona (come accade in quella
dell’efebo di Pergamo) oppure, invece, che la racconti come un episodio di cui
è stato solo spettatore e testimonio, come accade nella matrona di Efeso e, ad
esempio, nel Decamerone. L’aver messo in bocca la novella ad un
personaggio che ha una sua forma un po’ démodée di cultura libresca, appresa
nella scuola, ed ha determinate convinzioni non più aggiornate sull’estetica
classicistica, di eredità augustea, fa sì che la novella sia narrata in un latino
corretto e talora ricercato, e questo ha una rilevante influenza sul fascino di cui
la novella è dotata: il voluto contrasto tra la corporeità materiale ed un po’
volgare dell’intreccio (cibo, vino, sesso) e la forma seriosa del lessico, della
sintassi e dello stile aggiunge alla trica della novella un più di umoristico
contrasto. In quest’arte sarà inimitabile il Boccaccio con la sua sintassi che
diviene vieppiù elaborata e ciceroniana, quanto più la materia si fa pruriginosa.
Infatti di per sé la novella non si distingue per speciali qualità
umoristiche da altre fabulae Milesiae, altrettanto ben costruite quali il mondo
greco-latino ci ha lasciato sparse all’interno di altri generi letterari. E’ la forma
che la rende inimitabile. Il nucleo centrale è una delle tante variazioni sul tema
della misoginia: le donne sono volubili e fragili, pudore e castità sono puri tabù

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repressivi e quando esse si decidono ad infrangerli, non conoscono più remore
e la loro incastellatura morale crolla più improvvisamente e rovinosamente di
quanto accada agli uomini. Una comicità antifemminista, dunque, ma tanto
vieta da essere divenuta inoffensiva e da poter essere accettata senza ribellione
e con divertimento anche dalle donne. Che fosse tema condiviso in età
neroniana è visibile in un testo bucolico coevo, dove il concetto è riassunto
bene nell’emistichio di esametro mobilior ventis o femina: definizione tanto
fortunata che venne accolta in un famoso gruppo di florilegi medioevali
brillantemente studiati da Bernard L. Ullman, dove fu attribuita al pezzo della
regina nel gioco degli scacchi.
Ciò che si è detto per la trama, vale anche per la struttura interna del
racconto: essa non può essere valutata correttamente se viene avulsa dal suo
contesto. Solo se la novella è rapportata a quanto precede e a quanto segue, può
meritatamente suscitare ammirazione per la semplicità e l’efficacia del suo
meccanismo narrativo, dove tout se tient, dove nessun particolare inutile è
aggiunto e dove, per contro, nulla è dimenticato di ciò che giova a realizzare le
intenzioni dell’autore: riportare la quiete in un gruppo di ascoltatori in forte
tensione, facendo esplodere tra di essi un riso liberatorio, come un segno di
scampato pericolo.
Per capire quanto del successo della novella sia dovuto alla semplice trama e
quanto sia dovuta invece alla cornice ed allo stile, che sono dovuti a Petronio,
è sufficiente una rapida lettura sinottica alla piatta ed insipida versione
fedriana, o alla posteriore redazione di Romulus (che è dai più ritenuta
indipendente dal Satyricon).
In conclusione, intendo dire che un apprezzamento critico della novella
richiede innanzitutto un’analisi preliminare delle sue relazioni con la
macrostruttura del romanzo; in secondo luogo, è necessario un esame della
cornice nella quale è inserita la novella. Solo in terzo luogo si potrà esaminare
la struttura interna del racconto petroniano in sè e per sè. Questo sarà l’ordine
secondo il quale disporrò le mie poche osservazioni sul breve testo al quale
questo Colloquio parigino è dedicato.
Per quanto attiene al rapporto fra la novella e il senso generale del romanzo
(almeno per la parte conservata ) nel quale la novella è inserita non sarà inutile
un confronto tra la novella della Matrona e quella apuleiana di Amore e Psiche.
Fatte le dovute proporzioni, anche quantitative (e mi riferisco alla estensione
materiale del racconto) la funzione della novella petroniana rispetto al
Satyricon non è infatti diversa da quella della novella di Amore e Psiche, che
occupa i libri dal IV al VI delle Metamorfosi di Apuleio. Entrambe le novelle
offrono un distillato essenziale, una ripresa interna, in dimensione minore,
della macrostruttura a cui appartengono e nella quale sono incastonate, per
esprimerne il succo. Ad Apuleio questa inserzione riassuntiva serve per
accentuare la propria intenzionalità allegorica più spiccata, il proprio desiderio
di far capire qualcosa di serio, raccontando piacevolmente qualcos’altro. Se
così è, si può dire che Apuleio appare più filosofo, sebbene il suo dichiarato
intento resti sempre quello di intrattenere piacevolmente il lettore (“Lector
intende, laetaberis” Met. 1, 1).

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In questo, Apuleio è in contrasto con la leggerezza e il geniale understatement
di Petronio. Nel Satyricon il divertissement ha funzioni di dissoluzione ironica
nel campo della lingua, dello stile, della descrizione della società, nonché
dell’umanità in generale. In Apuleio il punto di contatto più evidente tra la
vicenda di Psiche e quella del povero Lucio risiede nel fatto che entrambi
cedono alla curiositas: sacrilega curiositas quella di Lucio, in quanto legata
all’avidità di conoscere la magia; veniale invece, in quanto dovuta ad una sorta
di simplicitas e di naiveté, quella di Psiche. Ma comunque entrambi i
personaggi violano un tabù, nonostante gli avvertimenti ricevuti. La violazione
del tabù fa perdere loro, per sventatezza, la dignità del proprio status
precedente e devono superare prove e sofferenze per riconquistare, e questa
volta per proprio merito, quella che era la loro situazione di partenza:
ricuperano la loro natura umana in relazione con la divinità. Questa divinità è
Iside per Lucio, Cupido per Psiche. Poiché nel romanzo in generale questo
percorso di infrazione, perdita, prove, recupero si sperde in infiniti rivoli
narrativi, Apuleio sembra aver voluto richiamare l’essenziale del romanzo
nella struttura narrativa più breve della novella, secondo il procedimento
narratologico che gli studiosi, da Gide in poi chiamano, rubando un termine
all’araldica, “mise en abime”, un procedimento ben noto anche nell’arte
figurativa (nella pittura fiamminga ad esempio) e nella musica sinfonica
classica dove temi dominanti sono ripresi per accenno.
Il percorso apuleiano -non è inutile sottolinearlo, sebbene il nostro tema
non siano qui le Metamorfosi,- è un percorso ascendente dal profondo
dell’umiliazione nel quale l’infrazione ha gettato i protagonisti, fino alla
contemplazione di dio, in altre parole Lucio e Psiche salgono dal bathos, su
fino allo hypsos della riassimilazione con la divinità. Essere assimilati al dio è
il vero essere. Il nostro vero io, ci racconta Apuleio, con Platone ed i suoi tardi
discepoli, è trascendente la realtà dei sensi. Il nostro corpo e il mondo
materiale in cui esso è immerso sono i mondi dell’apparenza e del non essere.
Il vero mondo è la sublimazione implicita nel rapporto con la divinità. Apuleio
ha sicuramente, anche se non dogmaticamente, in mente quella visione del
platonismo tardo di cui fa esplicita professione, definendosi philosophus
Platonicus.
In Petronio invece l’intento allegorico-filosofico è meno didascalico e forse
meno intenzionale, ma non meno significativo. La visione della vita di
Petronio partecipa (e non può essere diversamente) del sincretismo stoico-
epicureo che fu corrente nell’età in cui visse. Da questa visione deriva
probabilmente la sua volontà di smascherare e demistificare le impalcature
moralistiche sovrastrutturali e rivalutare il principio di piacere come intrinseco
alla natura umana. Ma comunque il suo messaggio di nova simplicitas segue
un percorso esattamente contrario rispetto a quello di Apuleio: Encolpio,
Gitone, Eumolpo insieme con una catena di personaggi minori, tra i quali si
distingue Enotea con la sua oca sacra, spesso muovono da una lettura sublime
di se stessi e della propria situazione, vista come tragica, da un mondo cioè di
nobili imperativi categorici, o di sogni libreschi, nei quali tutti siamo grandi
tragici, oratori, moralisti, per scendere giù fino al proprio sperdimento
improvviso nella materialità corporea, e direi quasi alla propria irrefrenabile

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animalità. La caduta avviene quando insopprimibile si impone quello che
Leopardi chiamò “l’apparir del vero” al di sotto del sogno. In che cosa consiste
questo “vero” per Petronio? Come ha tra gli altri recentemente sottolineato
Gian Biagio Conte nel suo libro “L’autore nascosto”, il “vero” petroniano
consiste insomma in “sesso , cibo, denaro”. Questi sono i reali moventi del
nostro agire nel mondo. Ogni idealizzazione di noi stessi e della storia, ogni
eroismo sublime e prometeico è solo una collettiva maschera di ipocrisie che la
norma sociale e la cultura di scuola ci ha imposto, o che ci siamo noi stessi
autoimposti. Le peripezie di Eumolpo ed Encolpio mostrano nei fatti come una
cultura così mistificante non valga né ad interpretare il reale, né a permettere,
per così dire, una “consumazione” di esso. L’uomo “morale”, quando è
immerso nel mondo vero, non è diverso dallo studente di retorica di cui parla
Encolpio discutendo con Agamennone all’inizio del Satyricon, uno studente
sbalestrato dall’aula di scuola nella reale polvere del foro: un disadattato.
Rappresentando la cultura di un mondo al declino, una cultura senza potere, i
nostri anti-eroi non agiscono sul reale, non influiscono su di esso dominandolo,
ma lo subiscono con una stupefazione che npuò avere come riscatto solo il
senso dell’ironia. Essi sono piuttosto spettatori-voyeurs che attori. Sono invece
gli emergenti, i liberti, coloro che si sono fatti da soli, i Trimalcioni a
“consumare” l’esperienza del reale, a guidarlo attivamente, perché non hanno
alcuna culturale complicazione quando si tratta di identificare quale sia il vero
scopo della vita: acquisire denaro e potere, divertirsi quanto è possibile. La
cultura dei libri e del mito, fatta della materia dei sogni, ha un suo fascino
discreto, ma rende disadattati ad affrontare il mondo.
Quando, nell’ultima parte conservata del romanzo, l’autore, con un misto di
orgoglio e di modestia, allude al proprio opus come caratterizzato da una nova
simplicitas, egli intende probabilmente sottolineare l’intento demistificante
della narrazione, il disvelamento del vero, nella sua semplicità, sotto le
ipocrisie complicate dell’apparire. In un certo senso potremmo definire tutto
ciò come un vivere secundum naturam stoicheggiante. Parlare di stoicismo nel
Satyricon potrebbe far sorridere, ma in fondo anche Petronio, come Seneca,
interpreta la vita come un viaggio tortuoso e faticoso, tra avanzate e
retrocessioni, verso la saggezza e la verità. Alla fine del viaggio la meta di
Seneca, irraggiungibile, è la sapientia che ci rende eguali a Dio. Invece alla
fine del Satyricon, attraverso mille faticose prove e fallimenti, Encolpio
giungerà probabilmente a capire che l’uomo è ancora un po’ animale, ed è
fatto di materia e il suo telos non è nulla di più elevato del suo proprio piacere.
E ciò non si trovava scritto nei suoi libri di scuola.
Insomma, per riassumere, il Satyricon è un progressivo cervantesco
desengano, che significa ritorno alla voglia di vivere e di vivere bene, ad una
morale comprensiva che fa spazio generoso anche ai piaceri non necessari, né
naturali da cui Epicuro metteva in guardia.
Quello che ho sinora detto della trama generale del romanzo viene distillato
come una preziosa essenza, e mostrato in redazione breve al lettore, proprio
nella novella della matrona di Efeso. Se il lettore avesse perso di vista, nella
complessità e nella vasta estensione della narrazione, il significato centrale,
quello che appunto ora si è identificato, l’autore gliene offre una sorta di

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compendio, tramite l’inserzione della novella, dove un nuovo personaggio, la
matrona, compie in breve il medesimo percorso di Encolpio tra la falsità del
dover essere e la verità del principio di piacere. Vediamo come, ed iniziamo
contestualmente a trattare anche il secondo tema che avevo sopra annunciato,
cioè quello della stretta interdipendenza tra la novella e la sua cornice.
All’inizio del capitolo 111 la matrona ci viene presentata, per così dire,
come in una scena tragica: il coro è rappresentato da tutti i cittadini (e dai
confinanti) di ogni censo e ceto; la scena è la città di Efeso. La teatralità del
racconto è sottolineata dall’espressione secondo cui tutti vengono come in un
teatro ad assistere al di lei pudore. Fa spettacolo il pudore? Nelle Metamorfosi
di Apuleio, all’inizio della favola di Amore e Psiche, si ripete il tema
favolistico e novellistico, secondo cui l’eroina era tanto bella che le genti
accorrevano ad ammirarla. Ma la semplice idea che sia possibile lo “spettacolo
del pudore” è un paradosso tale da far quasi pensare che Petronio abbia voluto
intenzionalmente rovesciare lo “spectaculum pulchrae puellae” apuleiano in
“spectaculum pudicitiae”. Naturalmente è solo un’illusione, poiché la
cronologia relativa, oggi pressochè indubitata, di Petronio nei confronti di
Apuleio rende impossibile il sospetto di polemica interna tra l’uno e l’altro
romanzo. Ma lo spettacolo della bellezza era un’espressione già tradizionale
ben prima di Apuleio e l’ironia paradossale di Petronio-Eumolpo si rivolge qui
verosimilmente contro una tradizione novellistica antica e non certo contro
Apuleio. Il racconto di Eumolpo è narrato sulla scena, che raffigura il ponte di
una nave che, in alto mare, segue la propria rotta verso Sud, lungo le coste
della Magna Grecia. In questo ambiente marino la novella apre una finestra
sulla città, anch’essa marina, di Efeso, posta ad anfiteatro intorno al suo porto.
Il mare potrebbe forse essere il primo dei numerosi altri fili rossi, ora visibili
ora meno, disseminati qua e là, che accomunano cornice e novella. Per più
versi la cornice e la novella si giustificano l’una con l’altra. Sul ponte della
nave il narratore Eumolpo racconta la novella per stemperare i residui di una
forte tensione ostile fra due gruppi di suoi ascoltatori. Egli ha qui, ed ha avuto
nella scena di rissa precedente, quella funzione che gli studiosi della fiaba
chiamano ruolo dell’“aiutante magico”. Eumolpo infatti aveva fatto sì che
l’azione uscisse dallo stallo dell’odio vendicativo e della rissa, salvando i suoi
compagni di viaggio, Encolpio e Gitone, nonché se stesso, dalla presumibile
vendetta di Lica, nocchiero della nave, e della sua passeggera privilegiata
Trifena. Il personaggio dell’aiutante viene spesso definito “magico” perché il
suo intervento risolutivo si realizza per mezzo di uno strumento magico. Qui
lo strumento “magico” con cui Eumolpo salva i protagonisti consiste in una
accalorata arringa avvocatesca, tenuta sulle corde dello stile sublime, che non
può che far sorridere per il contrasto tra la serietà dell’orazione e l’ambiguità
morale e sociale del difensore, degli accusati e della parte lesa stessa. L’arringa
crea un comico contrasto quando si rivolge a Lica e Trifena, personaggi ai
margini della morale e della legge, come fossero probi giudici di Atene o del
foro romano. Anche la sordidezza del reato e dei suoi precedenti è
incompatibile con la serietà dello stile sublime. E’ legge nota che nella
letteratura antica si può parlare dell’umanità bassa e delle imprese sordide solo
nell’ambito del genere comico. Tutto ciò avviene nella cornice ma ha una

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precisa corrispondenza, in scala minore, nella situazione e nei personaggi che
si muovono nella novella. Mi riferisco alla seconda parte di essa, quella che si
svolge entro la scena di un sacello sotterraneo, all’interno del cimitero di
Efeso. Il ruolo di “aiutante” è sostenuto qui da un personaggio privo, come
Eumolpo, di ogni autorevolezza: è la giovane psicolabile ancella, che corre
confusamente prima ad asciugare le lacrime della matrona e poi a ravvivare la
fiamma, colei che sostiene presso la dolente vedova le ragioni del proprio
improvvisato assistito. Nella cornice erano assistiti gli squattrinati studenti
vagabondi, mentre qui si tratta del soldatino messo di guardia alle tre croci, che
offre alla matrona la propria “cenula”, il proprio vino e forse, egli spera,
qualcosa di più. Il piccolo miles, che non deve essere un membro di grande
livello nell’esercito, se è stato destinato ad un compito così ingrato, forse è
anche da vedersi come socialmente sproporzionato al rango sociale della
vedova. Nella prima parte della novella, infatti, vari particolari forniti dal
narratore sulla notorietà della vedova, incluso l’appellativo di “matrona”,
l’interessamento dei magistrati, la partecipazione di gente di ogni ceto al
funerale, possono far pensare a noi lettori ciò che in realtà il narratore lascia
implicito, e cioè che la matrona fosse di alto rango sociale. Così il dislivello di
ceto aggiungerebbe un tocco in più alla comicità della caduta della nobile
matrona. Comunque il miles, per persuadere la matrona, già in proprio aveva
fatto uno sfoggio oratorio, ricorrendo a topoi appartenenti alle “consolationes”
antiche e non assenti in quelle di Seneca. Le sue ragionevoli voglie
corrispondono ai pasticci sessuali in cui sono coinvolti, nella cornice, Encolpio
e Gitone. Ma il tono della “peroratio” nel chiuso dell’ipogeo si innalza anche al
di sopra della sapienza diatribica del soldato: l’ancella aiutante dà fiato al
sublime epico, introducendo un tocco di alto melodramma, nella suasoria che
indirizza alla vedova piangente, la cui resistenza è ancora esibita in lacrime e
gemiti, ma è già scossa dall’aver annusato il profumo del vino che il soldatino
le offre. Il principio di realtà è qui costituito, come ha sottolineato Conte, da
cibo, vino e sesso, ai quali in altri passi del romanzo (episodio di Enotea e
dell’oca sacra) si aggiunge il denaro. Il piacere funge da potente catalizzatore
che fa precipitare improvvisamente il sublime tragico giù giù fino al fondo.
Hypsos si trasforma in bathos, il sublime in materiale, l’ideale del sogno in
brusco richiamo alla nostra naturale fisicità. Poichè ogni allusione dotta
comporta una qualche forma di variazione rispetto al modello così la suasoria
dell’ancella nell’ambito della novella milesia è diversa rispetto a quella
analoga di Eumolpo nella cornice. Infatti il poeta squattrinato si atteggiava ad
oratore sublime, mentre l’ancella addirittura fa proprio il genere epico. Mi
riferisco, come è palese, ai versi che l’incauta sorella Anna, anch’essa
strumento di un fato superiore, pronuncia nel IV libro dell’Eneide per
persuadere l’amata Didone a riconoscere i sintomi dell’amore e ad
acconsentire alle profferte di Enea, accentando un nuovo amore che nulla rende
illecito ed anzi tutto raccomanda. Il meccanismo del comico nasce dalla
sproporzione, contro ogni criterio di paneziano prepon, tra il rango umile
dell’ancella e la elevatezza del passo richiamato, uno dei più alti nell’ambito
dell’epica virgiliana, un episodio drammatico. Ma la citazione virgiliana è
incastonata in una tirata altamente oratoria, pronunciata in proprio dall’ancella,

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che, dunque, sovverte in comico due diverse specie del sublime: il genus
grande dell’oratoria e il genere epico. Si ricordi, nelle parole dell’ancella,
l’incalzare della “percontatio”, con una serie di interrogative stringenti che
non attendono alcuna risposta, sapientemente sottolineate dalla triplice anafora
della congiunzione condizionale “si” e poi ancora dall’iterazione “vis tu”? Il
tutto poi rinsaldato da solenni giuochi di suono, come le allitterazioni in
sibilante fricativa “s”; o quelle della “u” semivocalica; gli omeoteleuti
insistititi dei futuri anteriori. La struttura sintattica è nobilmente inarcata in un
periodo ipotetico complesso. Tutto questo trova una precisa rispondenza in
quanto si è detto della cornice: la novella e la cornice non solo si giustificano
l’una l’altra, come ho detto sopra, ma gettano un fascio di luce l’una sull’altra.
I fili rossi che legano qui testo e contesto, servono, se riconosciuti, a dare
ragione obiettiva dell’impressione di sovrana onnisciente abilità che il lettore
divertito ed ammirato già per istinto volentieri attribuisce all’autore. Un altro
segnale unificante è la ripresa interna della terminologia militare che, nella
cornice, è usata in senso appropriato e nella novella in senso figurato: sul ponte
della nave le armi sono armi reali e non sono metafora di qualcos’altro, come
nella novella. Ma questo lessico relativo all’arte della guerra, quando viene
inserito nell’episodio della cornice, è quanto meno esagerato in quanto non si
tratta qui di una campagna bellica dell’esercito imperiale ma di una rissa da
angiporto sulla tolda di una nave dal carico sospetto. Terminologia militare ed
in particolare poliorcetica è adottata invece a livello allegorico (cioè insistendo
sulla metafora ripetuta) anche nella novella della matrona: qui la città assediata
è la “pudicitia”, tanto spettacolare quanto fragile in realtà, della vedova;
l’assediante è il soldato: “adgredi, frangi pertinaciam, expugnare” sono alcune
delle scelte lessicali; le “armi” sono la retorica, l’alta poesia, ma soprattutto il
cibo, il vino e la tentazione del sesso. Ovviamente questo rapporto figurato tra
la battaglia sanguinaria e la battaglia per amore non è qui in Petronio una
novità ed è una eco elegiaca. La novità consiste non nell’invenzione di una
metafora, ma nello spiazzamento del topos al di fuori dei suoi confini
legittimi. Mi avvio a concludere queste osservazioni relative agli stringenti
legami narratologici tra la cornice del racconto ed il racconto stesso,
osservando che vi è una sorta di legame antifrastico anche tra i due diversi
scenari: la nave sul mare circondata solo dal lontano orizzonte e dalla vastità
delle onde è quanto di più aperto si possa immaginare; per contro, dopo la
prima scena tragica della novella con la matrona disperata, la novella ci
trasporta in uno scenario che è quanto di più chiuso e claustrofobico si possa
immaginare: un cimitero notturno, un ipogeo, cioè una tomba seminterrata, tre
crocifissi sullo sfondo lunare. Il narratore non infierisce contro di noi
descrivendo apertamente particolari orrorifici, come quello della presenza
incombente nello spazio chiuso del cadavere del legittimo sposo, ma certo il
lettore non può dimenticare che alla cenula e poi alla scena di sesso partecipa,
immobile ma onnipresente, un ospite e testimone veramente imbarazzante, un
convitato di pietra come lo ha chiamato Renato Raffaelli, richiamandosi al
finale del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte. Sia la tolda della nave sia
l’ipogeo sono indicati dall’autore al lettore-spettatore come scene di teatro, con
gli attori illuminati da un fascio di luce sotto gli occhi degli invisibili

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spettatori, silenziosi nel buio. Nella novella c’è un cambio di scena, dalla città
al chiuso della tomba e con il cambio di scena e la scomparsa dei testimoni (la
collettività degli efesini) gli imperativi morali della matrona si sgretolano. Ma
non tutti gli spettatori in realtà se ne sono andati: resta uno spettatore nascosto,
che è il lettore.
Che il Satyricon sia in larga misura buon teatro comico è cosa evidente e non
è un’osservazione nuova da parte mia: in un certo senso il primo a intravvedere
l’affinità tra romanzo e commedia fu Macrobio. Che il lettore del Satyricon sia
anche in larga misura uno spettatore è conseguente da quanto si è notato e forse
ovvio. Anzi potrei dire di più: la definizione di voyeur escogitata da lettori di
formazione psicoanalitica freudiana (come in qualche capitolo del suo volume
J. P. Sullivan) per definire la sessualità di Petronio, è ridicola anche perché è
cosa estranea al lavoro critico letterario lo stendere sul divano del dottor Freud
un autore pagano di età neroniana, per il quale le nevrosi sessuali delle signore
borghesi nella Vienna di fine secolo sarebbero state totalmente
incomprensibili. Ma nella realtà del testo (e non nel subconscio di Petronio) è
vero che il “mostrare” da parte di Petronio ed il “vedere” da parte del lettore
costituiscono la chiave della comunicazione nel Satyricon.
Il teatro permea di sé ed invade nell’età di Nerone un po’ tutti i generi
letterari: teatrale e drammatico è lo stile del filosofo Seneca, strutture tragiche
(e secondo la sensibilità musicale di von Albrecht anche melodrammatiche) si
riconoscono nell’epica lucanea, aspetti drammatici di dialogo si trovano nella
poesia pastorale e nella satira di Persio (ma qui la teatralità era tradizionale in
una certa misura). Quanto al Satyricon, in generale, un indizio obiettivo della
sua teatralità è il ricorrere di termini tecnici del teatro: tragoedia e tragicus,
mimus e mimicus, drama e symphonia, canti e danze, applausi e battiti di mani,
il verbo spectare; e ancora le didascalie relative alla gestualità dei protagonisti
mentre proninciano le loro battute e così via. Encolpio non tanto sembra dare
un resoconto del suo reale vissuto, quanto illustrare ciò che si svolge su una
scena. Questa scena è lontana dagli occhi dello spettatore tanto che la
recitazione degli attori, per riuscire visibile, deve essere eccessiva e caricata,
come in un film del periodo del cinema muto; la gestualità è espressionistica e
caricata; le espressioni del volto sembrano esprimere anche più di quanto il
personaggio pensi e senta: minacce di violenza fisica, presunte e sempre vane
minacce di suicidio, porte alle quali battono sgraditi visitatori, il ritmo in certe
scene è quello di una “pochade”.
Passiamo infine al terzo punto di questa relazione. Quasi tutto quello che
avevo da dire su di esso, cioè sulla struttura interna della novella è già emerso
trattando i primi due punti, cioè i rapporti tra la novella ed il romanzo come
macrostruttura, e i rapporti tra la novella e la sua cornice. Aggiungo qui solo
poche osservazioni aggiuntive.
Come ripeto anche la novella è strutturata come un piccolo dramma, un
“atto unico” ridotto all’essenziale. Qui la parola chiave è “spectaculum”:
abitanti di Efeso e delle città vicine della Ionia venivano e si accomodavano a
godersi lo spettacolo della pudicizia della matrona. Questa è una sorta di “uxor
dolorosa”, fatta della stessa tempra delle Alcesti, delle Andromache, delle
Evadni. Ella vuole che l’espressione del suo lutto di fronte all’intera città, anzi

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di fronte a tutti i ceti di essa, non sia “vulgari more”: vuole essere un
exemplum come le eroine del mito e della tragedia. Immobile come una Niobe
impietrita essa vede scorrere davanti a sé una processione di consolatori
socialmente autorizzati e che si susseguono secondo un climax ascendente di
importanza: i parentes, i propinqui, i magistratus. Sembra una sacra
rappresentazione medievale come la Mater dolorosa di Jacopone da Todi o, se
si vuole guardare agli esempi del passato essa è una reincarnazione del
Prometeo incatenato alla rupe del Caucaso (chi non voglia pensare al libro di
Giobbe nella Bibbia). Petronio non avrà verosimilmente avuto in mente questi
testi, ma la sua apparente serietà nel descrivere un lutto esemplare è tale da
richiamare alla mente del lettore modelli di tale fatta.
Se così alto è il punto di partenza al quale la matrona si è spinta, se il suo
lutto è così sovrumanamente eroico, tanto più rovinosa apparirà la caduta
finale: una vera catastrophè comica, un rovesciamento, un’inversione. La scena
è cambiata e dall’esterno della città siamo passati all’interno della tomba
ipogea. La luce non è più quella assolata di una città del Mediterraneo, ma è
quella fioca di una lampada ad olio, che trema e proietta lunghe ombre. Gli
spettatori, i cittadini di Efeso, se ne sono andati ma c’è uno spettatore nascosto,
della cui presenza gli attori sono all’oscuro, che se la ride ed è il lettore, noi
lettori-spettatori. Apparentemente la disgregazione morale della matrona si
presenta come inattesa, come un buffo aprosdoketon, ma in realtà il lettore-
spettatore è stato preparato ad essa, conscio o meno che ne sia, fin dalle prime
parole del racconto. Già la scelta di definire romanamente Matrona la
sofferente vedova greco-ionica è in voluta e palese posizione di ossimoro con il
nome della città di lei, Efeso. Tutte le città della costa ionica avevano fama di
essere gaudenti e moralmente assai permissive, ma Efeso in particolare era
una città di gente di mare e di commerci, un crocevia aperto a tutte le lingue e
alle diverse culture e certo gli Efesini non dovevano essere così ossessionati da
pregiudizi moralistici, come pare sia la Matrona. Una Matrona pudica ad Efeso
è come un Sibarita sobrio o un Sodomita casto. Ma torniamo al
rovesciamento. Il “rovesciamento”, il “pervertere” si rivelano una chiave
interpretativa importante della letteratura di età neroniana. Per ogni autore, da
Seneca a Lucano, da Persio a Calpurnio, in modi e misure sempre diversi, si
può parlare di rovesciamento dell’estetica classicistica, talora come una
intensificata ricerca del sublime (la tragedia di Seneca e l’epica storica
lucanea); talora invece il “pervertere” si rivela come infrazione della rigidità
dei confini del genere letterario (come per la bucolica di Calpurnio e dei
Carmina Einsiedlensia); nel caso di Persio non si può parlare di rovesciamento
del modello oraziano: Persio, Seneca filosofo e Petronio lavorano
intensamente sul lessico, sulla sintassi, sullo stile ,“drammatizzandolo”, perché
mirano piuttosto a mostrare “la cosa” pensata nella sua nudità ed autenticità e
verità, piuttosto che la parola. Anche Seneca nelle “Lettere a Lucilio” vorrebbe
(dice) aprirsi il petto per “mostrare” la nuda verità del pensiero piuttosto che
filtrarla attraverso la parola, sempre in qualche modo ingannevole. E ricerca di
verità è il Satyricon, nel senso, che ho più volte ormai ripetuto, di
demistificazione comica dell’ipocrisia corrente. Il rovesciamento, poi, nel caso
del Satyricon fa parte della norma del genere menippeo cui appartiene, alle

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regole della farsa del carnevale cui pure appartiene in una complessa
“Gattungsmischung”.
Gian Biagio Conte ha riconosciuto nella novella un processo di
degradazione, di cui indica con precisione quattro tappe. 1) La matrona come
paradigma di pudicitia. 2) All’interno dell’ipogeo con il cadavere, l’ancella e
il soldato la matrona riscopre il “principio di piacere”. Questo è ciò che Conte
chiama “realismo”, in un senso evidentemente diverso da quello attribuito al
medesimo termine da Erich Auerbach o da Georgy Lukacs. 3) Intensificazione
del degrado morale: dal cibo al sesso. 4) L’inconveniente della sparizione del
ladrone crocifisso e il conseguente recupero di una rinnovata misericordia e
prudentia da parte della Matrona che sostituisce i cadaveri. Il topos narrativo
della “sostituzione” ricorre in un vasto repertorio favolistico e fa parte del
nocciolo strutturale del racconto petroniano. A questo punto, se la struttura
della novella fosse disegnata nella curva di un grafico cartesiano saremo giunti
al livello zero: il narratore qui ha già conseguito il proprio scopo: suscitare il
riso. Il venerato cadavere dello sposo si è trasformato in crocefisso per la
ragionevole prudentia della vedova, che non intende a nessun costo piangere
due amati nello stesso giorno. Il cerchio del rovesciamento appare concluso.
Ma Conte tace che la novella non è ancora finita veramente. Eumolpo protrae e
tenta di intensificare l’effetto del riso con un’osservazione finale che non è
veramente indispensabile, mi pare, e che forse è inverosimile: il giorno dopo
gli Efesini si chiesero stupefatti come fosse andata che un morto era salito in
croce. In realtà se la “sostituzione” dei morti fosse stata così palese il trucco
escogitato dalla matrona sarebbe stato inutile. Non è procedimento insolito
nella narrativa che un autore, giunto all’akmè di una narrazione non si
interrompa ma la protragga al di là dell’akmè, accompagnando il lettore sino al
ristabilimento del ritmo consueto e un po’ noioso della vita. L’Iliade non
termina con la morte di Ettore ed il romanzo di Alessandro Manzoni “I
promessi sposi” non si interrompe quando finisce la Spannung con il sospirato
matrimonio tra i fidanzati, ma li segue per un po’ nella vita quotidiana non
facile e un po’ banale di una famiglia operaia emigrata in una città non
amichevole. Forse è così che vanno le cose della vita e la protrazione
narrativa è una forma di realismo, volontaria o meno. Tra gli imitatori italiani
di Petronio che ripresero la novella della matrona fece qualcosa di simile, in
chiusura anche l’anonimo autore del Novellino, che aggiunse un particolare un
po’ macabro, proprio di umorismo “nero”. Prima di appendere il defunto
marito in croce il miles, nella versione del Novellino, fece notare disperato alla
vedova, che i loro wsforzi sarebbero stati vani, che la sostituzione sarebbe
fallita, perchè al vero brigante crocefisso, quello involato dai parenti, mancava
con ogni evidenza un dente incisivo anteriore che invece il defunto sposo
visibilmente possedeva. Ma la dolente vedova provvide eliminando con un più
di cinismo brutale lo stesso dente al cadavere di quel marito per il quale poco
prima voleva morire di inedia.
Un’ultima osservazione sulla struttura interna della novella in rapporto alla
modalità topica, al tipo di narrazione al quale appartiene. La struttura
discendente della novella per cui una rispettabile Matrona, che incarna
esemplarmente la formazione morale e comportamentale delle ragazze che

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sono destinate a divenire “matres familias”, finisce per comportarsi secondo
un modello di vita “naturale” ed anti-culturale, liberandosi dalle pastoie
repressive di un ruolo imposto, permette forse di inserire questa novella tra i
racconti tardo-ottocenteschi e novecenteschi, che espongono la spettacolare
decostruzione di alcune personalità adulte. Il rigido professor Unrat
dell’”Angelo azzurro” di Heinrich Mann, che si riduce ad imitare il canto del
gallo, umiliandosi per divertire l’amata. Oppure anche il dignitoso e colto
professor Aschenbach che a Venezia si trucca ridicolmente per non riuscire
fisicamente sgradevole al fanciullo amato. Oppure ancora per fare un esempio
un po’ diverso, gli adolescenti del romanzo “Il Signore delle mosche” di
Golding, che naufragati su un’isola disabitata regrediscono rapidamente ad uno
stadio primitivo. Queste e certamente molte altre narrazioni di degradazione, se
le confrontiamo con la nostra novella, che può rientrare nello stesso tipo
narrativo, ci ricordano che esistono imprevedibili legami tra il riso farsesco e
l’orrore.
Concludo osservando che l’interpretazione di un testo come il Satyricon è
un opus infinito come la fatica di Sisifo. Ogni generazione di critici vi ha
ritrovato la propria visione del mondo, dalla sociologia al formalismo, dalla
psicoanalisi alla narratologia. E’ istruttivo che chi ha ritenuto la propria lettura
come quella risolutiva e totalizzante, sia divenuto obsoleto più presto degli
altri. Chiudo con la citazione di un passo noto di Raymond Queneau, Segni,
cifre, lettere ed altri saggi, apparso in Italia nel 1981:”Autore dall’incerta
identità di un’opera di dimensioni ignote, Petronio è, come Villon, uno di
quegli autori meravigliosi che non si possono spiegare. Più lo si ancora nel
tempo e nello spazio e più diventa libero” .

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