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I dizionari artistici che si pubblicheranno in pieno ‘700 non faranno altro che rimar-
care questo tratto illusionista e anticartesiano del Barocco, inteso come ciò che con-
fonde il vero con il falso, cioè proprio il contrario della ragione cartesiana.
Più che pensare ad un generico ribellismo, che pure – nell’orizzonte della costituzione
dello stato assoluto e accentrato e del conseguente disciplinamento sociale – è elemento
decisivo nella storia del XVII secolo, affermerei che siamo di fronte ad una prima re-
lativizzazione del punto di vista sul reale, che viene reso valido e fondato proprio
sull’attività artistica dell’autore. Leibniz ne trarrà, in campo metafisico -gnoseologico
le più chiare conseguenze. Monadologia come uni verso mentale chiuso.
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Il Barocco evidenzia questo radicale dualismo: da un lato, l’ingegnosità e l’inventiva,
l’agudeza, mostrano l’assoluta libertà del soggetto;
dall’altro lato, l’angoscia di questa perdita di ogni riferimento, e l’abbandono
dell’uomo all’incertezza della inesauribile molteplicità di rapporti con la realtà, e
quindi all’impossibilità di porsi con certezza nel mondo, espressa dalla persistente at-
tenzione alla morte (Bernini, Tomba di Alessandro VII).
In campo letterario, questo è ciò che viene chiamato “teatro della meraviglia”, in cui
realtà e finzione si confondono in chiave anticartesiana.
Anche qui, credo, la lettura può essere ambivalente. Se la metafora del teatro apre
innumerevoli spazi alla narratività artistica, poiché elimina – nella fondamentale ambi-
guità dei piani narrativi – un qualsiasi stabile riferimento al concreto, è però altrettanto
vero che depotenzia la possibilità di dare corpo a questa narratività. Il soggetto è sì
libero, ma nello stesso tempo passivo, a meno di non accettare pienamente la vacua
relatività delle cose e delle relazioni, ma con quale risultato? Il tema della morte ne
simboleggia l’impotenza e il ridimensionamento; la passività potrebbe trovare espres-
sione nell’Estati di S. Teresa, dove il vero soggetto chi è? L’angelo, Teresa, o i commit-
tenti che altro non sono se non spettatori di uno spettacolo che, posto al centro, ideal-
mente si trova su un piano metafisicamente inattingibile? Credo che ancora una volta
la risposta sia in Leibniz.
In secondo luogo, sembra che qui il mondo e la sua realtà si stiano trasferendo all’in-
terno del soggetto e delle sue facoltà; soggetto che, se da una parte coglie il valore della
libera affermazione di sé (dal razionalismo cartesiano alla monade leibniziana, come
anche il significato dell’empirismo lockeano fino al soggetto portatore di diritti dello
stato contrattualista), dall’altra parte fatica ancora a trovare punti di riferimento al-
trettanto validi come quelli del passato. Nei secoli successivi questi punti di riferimen to
saranno cercati nella ragione illuminista – fino all’idealismo – e nella scienza positivi-
sta. La crisi delle certezze di fine Ottocento ha aperto un abisso che oggi mi sembra
sia ben lontano dall’essere colmato (es. economia).
Due degli artisti principali del Barocco, Rubens e Bernini, evidenziano chiaramente
quali sono le poetiche di fondo del periodo. Per Rubens il fine della pittura è illuminare
l’intelletto e ingannare gli occhi (es???). qui si comprende bene come il pittore si
muova nella stessa dimensione cartesiana della separazione tra sensi e intelletto; se è
l’intelletto che deve essere illuminato, è proprio perché, come in Descartes, è nell’in-
telletto che si costruisce la verità, che perciò non passa attraverso i sensi. Ad essi è
perciò riservata la prerogativa della percezione estetica, che si fonda appunto sull’illu-
sione.
Per Bernini il pregiudizio classicista della regola rigida deve cadere; l’opera d’arte è
un prodotto di ispirazione e non di ragione. La bellezza va cercata nella natura, ch e
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infonde nei suoi prodotti tale bellezza, che va cercata, ovvero va visto con l’opera ciò
che nella natura ci deve essere ma non si vede.
§ 2 . L’ e s t e t i c a b a r o c c a
Se seguiamo gli sviluppi del razionalismo cartesiano, vediamo come il problema este-
tico subisca l’impostazione rigorosamente matematizzante del pensiero di Descartes.
Per il filosofo francese, il mondo è conosciuto attraverso la ragione, per mezzo delle
idee matematiche. Ora, che ne è del bello, in un mondo definito solo da una struttura
rigorosamente geometrica? Se, come si deve accettare, la percezione del bello è pura-
mente sensibile, allora il bello rimane una percezione fonte di inganno e quindi inca-
pace di fornire conoscenze che si possano ricondurre a una qualche certezza. Di fronte
alle percezioni sensibili, infatti, la mente rischia in ogni momento di trovarsi confusa,
come si vede anche, in riferimento al tema estetico, dall’analisi delle passioni. Si vedano
Le passioni dell’anima , art. 85. Qui Descartes esamina le passioni del gradimento e
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dell’orrore:
chiamiamo bello o brutto ciò che ci è rappresentato così dai nostri sensi esterni, soprattutto da
quello della vista, che da solo è apprezzato più di tutti gli altri.
Dalle passioni suscitate dai sensi esterni, e giudicate in relazione all’amore e all’odio,
passioni principali, seguono due specie di amore, direi innervate dal giudizio della ra-
gione. Una specie è l’amore per le cose belle, definita gradimento , e un’altra è l’odio
per le brutte, definito orrore . Il commento di Descartes è assolutamente inequivoca-
bile:
queste passioni del gradimento e dell’orrore sono di solito molto più violente delle altre specie
di amore o di odio, perché ciò che giunge all’anima per mezzo dei sens i, la tocca più in profon-
dità di ciò che le è rappresentato dalla sua ragione; e tuttavia esse hanno solitamente minore
verità: di modo che tra tutte le passioni, sono queste che ingannano di più, e da cui ci dobbiamo
difendere più accuratamente.
Mi sembra quindi che per Descartes il bello, e le passioni che sono ad esso connesse,
non sono in alcun modo portatrici di alcuna verità, sebbene la forza con cui queste
passioni si presentano ce lo faccia apparire – e giudicare – del tutto reale. Lasciando
poi da parte la questione se il bello sia in sé reale o meno, vale a dire se sia effettiva-
mente presente nelle cose, oppure sia soltanto un effetto messo in moto dalla forza
delle passioni. Emerge, comunque, da queste righe, una chiara condanna gnoseologica
sulla valenza conoscitiva delle percezioni estetiche; condanna che in Malebranche di-
venta di tipo etico-religioso.
Legata a questa impostazione fortemente razionalista vi è poi la condanna di ogni
finalismo e antropomorfizzazione del mondo, messa in atto in par ticolare da Spinoza.
Dunque, l’impostazione razionalista sembra operare una netta svalutazione del mo-
mento estetico nell’orizzonte dell’attività conoscitiva del soggetto. Se consideriamo la
sottovalutazione della morale cartesiana, definita per l’appunto “ provvisoria”, e in ef-
fetti mai sviluppata in una versione definitiva, e la riduzione dell’agire dell’uomo nel
suo rapporto con il mondo ad una pratica prudenziale per garantire la propria semplice
sopravvivenza fisica, si può ben capire come tutta la temat ica dell’errore dei sensi ac-
quisti un grado di svalutazione che si manifesta chiaramente ne La ricerca della verità
di Malebranche.
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queste percezioni agisce da impulso e ci fa giudicare buono ciò che suscita in noi mag-
gior piacere. Ed è proprio nel giudizio che, come in Descartes, si annida l’errore. Que-
sto è infatti il pervertimento di un ordine voluto da Dio; prima del peccato originale
l’ordine andava dall’intelletto ai sensi, e quindi ciò che percepivamo con essi er a su-
bordinato a ciò che percepivamo con l’intelletto. In questo senso, si acuisce in Male-
branche l’opposizione tra mente e corpo presente in Descartes, dal momento che in
questo ordine rigoroso e divino la mente è molto più vicina a Dio, e perciò molto più
separata dai sensi. Ma con la caduta dell’uomo questo rapporto si rovescia, e
l’anima/mente si separa da Dio per avvicinarsi ai sensi. Questo incide anche sull’ordine
delle percezioni, e come visto prima in Descartes, quelle originate dai sensi diventano
più forti di quelle della ragione, con la conseguenza che il giudizio viene influenzato
dai sensi e non più dall’intelletto.
Dobbiamo allora pensare che, al momento della creazione, l’uomo non esistesse, in
termini sostanziali, come lo constatiamo dall’esp erienza, ovvero una stretta unione di
anima e corpo. L’intelletto dovrebbe avere una sua specifica sostanzialità, in qualche
modo distinta da quella corporea, proprio perché non influenzabile dai sensi, o meglio
ancora perché capace di dominarli e subordin arli a sé. Si rifà avanti la relazione anima-
corpo di matrice platonica, che permetteva appunto la possibilità di una conoscenza
puramente intellettuale, una volta che si fosse, almeno virtualmente, operata la distin-
zione dai sensi (caverna).
Ecco allora che, per Malebranche, l’intelletto diventa sottomesso alle passioni origi-
nate dalle percezioni sensibili, pur potendo – per sua natura – volgere la propria attività
conoscitiva solo a ciò che è in sé spirituale, e quindi possedendo una visione che, orien-
tata appunto solo allo spirituale, è sempre chiara e distinta (visione in Dio). ma da
questo consegue ancora che non serve applicare l’intelletto alla conoscenza di ciò che
è semplicemente materiale, per la cui conoscenza basta l’istinto, ovvero l’inclinazion e
sensibile.
Nel rivolgimento del peccato, ciò che viene rovesciato è, come detto, la posizione
dello spirito, sotto i sensi, i quali però operano come sempre, cioè come prima del
peccato (è chiaro allora che mente e corpo, prima del peccato, sono assolutamente
irrelati), e la loro funzione, come in Descartes, è rivolta alla conservazione del corpo.
In questa condizione, la conoscenza dell’intelligibile procede da un atto di libertà, cifra
della conoscenza chiara e distinta, proprio perché ottenuta indipendentemente dai
sensi e dall’istinto, e perciò anche dal gradevole e dal bello. In pratica, la conoscenza
chiara e distinta, cartesianamente, è il risultato di una liberazione , in un duplice senso.
Non solo perché ci permette di essere liberi non solo come semplice indifferenza, ma
anche perché ci permette di riconquistare quella condizione originaria nella quale il
potere della mente sopravanzava quello dei sensi, e quindi ci libera dalla loro schiavitù
(agostino).
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b) La radicalità della critica dell’errore
Con l’esempio degli animali osservati al microscopio, Malebranche avvia una critica
radicale alla nostra possibilità di errare. Non solo i sensi ci ingannano, addirittura Ma-
lebranche afferma che essi non sono dedicati alla ricerca e all’acquisizione della ve rità.
Ed è qui che, per dare forza a questa critica – che si pone in chiaro contrasto con lo
sviluppo del razionalismo nel suo filone empirista – Malebranche fa intervenire una
riflessione di carattere teologico, sviluppata proprio a partire dal microscopio e dalla
divisibilità della materia.
Il microscopio, qui, funge da metafora dell’immaginazione e dei suoi limiti, entrando
in questo modo dentro la questione della sua rivalutazione in ambiente estetico ba-
rocco. Il microscopio, infatti, mostra un’estensio ne della materia ben più lontana dalle
possibilità dei nostri sensi, e una sua virtualmente infinita divisibilità, che da essi non
può in alcun modo essere afferrata. Ma a questa deficienza non sovviene neanche l’au-
silio dell’immaginazione, proprio perché – come anche Descartes aveva mostrato – essa
deve essere considerata parte integrante della nostra conoscenza sensibile, inferiore a
quella dell’intelletto nell’ordine della creazione divina. I sensi, quindi, e qui mi sembra
la radicalità anche rispetto Descartes, non ci fanno conoscere l’estensione come essa è
in sé.