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§ 1.

Il Barocco e la soggettività moderna

Barocco inteso come disarmonico, estroso, bizzarro, irregolare.


Il punto interessante nella questione del Barocco è la sua origine nell’immaginazione
come attività produttiva. L’immaginazione, in questo contesto, diventa una facoltà spe-
cificamente artistica , proprio perché si presenta come mancante di una qualche guida
e regola d’uso, ovvero, opposta al carattere proprio della razione cartesiana. Il prodotto
artistico per eccellenza di quest’attività è allora l’ illusione o il mirabile artificio . Il
tratto significativo è qui l’assenza, da cui sorge in particolare l’illusione.

I dizionari artistici che si pubblicheranno in pieno ‘700 non faranno altro che rimar-
care questo tratto illusionista e anticartesiano del Barocco, inteso come ciò che con-
fonde il vero con il falso, cioè proprio il contrario della ragione cartesiana.

Tale confusione dipende proprio dall’abbandono delle proporzioni armoniche che


traducevano, in arte, l’ordine immutabile che la scienza e la metafisica cartesiana ave-
vano stabilito. Il rapporto con il fruitore dell’opera si basa quindi su una relazione
esclusivamente emozionale, fondata sulle passioni, che non a caso diventano centrali
nella filosofia cartesiana come spinoziana, con lo scopo di conoscerle per poterle, in
qualche modo, dominare.

In verità, l’illusione barocca affonda le sue radici proprio su quell’universo che la


scienza galileiana aveva allargato a dismisura, rendendolo privo di un centro prospet-
tico privilegiato (poliprospettivismo). Il poliprospettivismo che ne risulta è, nel con-
tempo, l’apertura all’attività creativa libera dell’artista, non più vincolato a un ordino
precostituito e imposto. La perdita di centralità dell’uomo nell’universo, espresso nella
metafora della terra che rotola via dal suo centro, liberano l’individuo dall’aderenza a
un qualsiasi ordine sovratemporale, esaltando così il radicale dualismo che Descartes
aveva necessariamente dovuto ammettere per salvaguardare la possibilità di una cono-
scenza certa.

Più che pensare ad un generico ribellismo, che pure – nell’orizzonte della costituzione
dello stato assoluto e accentrato e del conseguente disciplinamento sociale – è elemento
decisivo nella storia del XVII secolo, affermerei che siamo di fronte ad una prima re-
lativizzazione del punto di vista sul reale, che viene reso valido e fondato proprio
sull’attività artistica dell’autore. Leibniz ne trarrà, in campo metafisico -gnoseologico
le più chiare conseguenze. Monadologia come uni verso mentale chiuso.

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Il Barocco evidenzia questo radicale dualismo: da un lato, l’ingegnosità e l’inventiva,
l’agudeza, mostrano l’assoluta libertà del soggetto;
dall’altro lato, l’angoscia di questa perdita di ogni riferimento, e l’abbandono
dell’uomo all’incertezza della inesauribile molteplicità di rapporti con la realtà, e
quindi all’impossibilità di porsi con certezza nel mondo, espressa dalla persistente at-
tenzione alla morte (Bernini, Tomba di Alessandro VII).
In campo letterario, questo è ciò che viene chiamato “teatro della meraviglia”, in cui
realtà e finzione si confondono in chiave anticartesiana.

Anche qui, credo, la lettura può essere ambivalente. Se la metafora del teatro apre
innumerevoli spazi alla narratività artistica, poiché elimina – nella fondamentale ambi-
guità dei piani narrativi – un qualsiasi stabile riferimento al concreto, è però altrettanto
vero che depotenzia la possibilità di dare corpo a questa narratività. Il soggetto è sì
libero, ma nello stesso tempo passivo, a meno di non accettare pienamente la vacua
relatività delle cose e delle relazioni, ma con quale risultato? Il tema della morte ne
simboleggia l’impotenza e il ridimensionamento; la passività potrebbe trovare espres-
sione nell’Estati di S. Teresa, dove il vero soggetto chi è? L’angelo, Teresa, o i commit-
tenti che altro non sono se non spettatori di uno spettacolo che, posto al centro, ideal-
mente si trova su un piano metafisicamente inattingibile? Credo che ancora una volta
la risposta sia in Leibniz.

In secondo luogo, sembra che qui il mondo e la sua realtà si stiano trasferendo all’in-
terno del soggetto e delle sue facoltà; soggetto che, se da una parte coglie il valore della
libera affermazione di sé (dal razionalismo cartesiano alla monade leibniziana, come
anche il significato dell’empirismo lockeano fino al soggetto portatore di diritti dello
stato contrattualista), dall’altra parte fatica ancora a trovare punti di riferimento al-
trettanto validi come quelli del passato. Nei secoli successivi questi punti di riferimen to
saranno cercati nella ragione illuminista – fino all’idealismo – e nella scienza positivi-
sta. La crisi delle certezze di fine Ottocento ha aperto un abisso che oggi mi sembra
sia ben lontano dall’essere colmato (es. economia).

Due degli artisti principali del Barocco, Rubens e Bernini, evidenziano chiaramente
quali sono le poetiche di fondo del periodo. Per Rubens il fine della pittura è illuminare
l’intelletto e ingannare gli occhi (es???). qui si comprende bene come il pittore si
muova nella stessa dimensione cartesiana della separazione tra sensi e intelletto; se è
l’intelletto che deve essere illuminato, è proprio perché, come in Descartes, è nell’in-
telletto che si costruisce la verità, che perciò non passa attraverso i sensi. Ad essi è
perciò riservata la prerogativa della percezione estetica, che si fonda appunto sull’illu-
sione.
Per Bernini il pregiudizio classicista della regola rigida deve cadere; l’opera d’arte è
un prodotto di ispirazione e non di ragione. La bellezza va cercata nella natura, ch e
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infonde nei suoi prodotti tale bellezza, che va cercata, ovvero va visto con l’opera ciò
che nella natura ci deve essere ma non si vede.

§ 2 . L’ e s t e t i c a b a r o c c a

Il Seicento vede dunque l’affermarsi definitivo di un nuovo modello cosmologico e


di una nuova funzione della ragione. Con il primo l’universo assume sempre più la
forma di un meccanismo privo di qualsiasi finalità e intelligenza (cfr. Spinoza); con la
seconda, la razionalità diventa il criterio di discernimento del vero dal falso (cfr. De-
scartes). Questa combinazione fa sì che il mondo non possa più essere compreso, come
in precedenza, quale suprema opera d’arte, e il bello – lungi dal costituire una sorta di
fondamento ontologico della natura – viene relegato ad una dimensione individuale e
personale, a un semplice gusto. L’estetica barocca tende proprio ad esaltare tale sog-
gettività del gusto, nella sua forma immaginativa, stupefacente e ineffabile, vale a dire
nell’esaltazione di quelle qualità che la scienza moderna galileiana aveva escluso dalla
conoscenza scientifica della natura.
Galilei e Descartes avevano infatti legato la conoscenza del mondo alla stabile cer-
tezza della matematica, garantita da un Dio che, al di là dell’artificio retorico, perdeva
lentamente i suoi caratteri personali per assum ere la veste di un ordine matematico-
geometrico garanzia ultima e inappellabile della certezza della conoscenza che l’uomo
costruisce nello spazio garantito della propria ragione e dei suoi strumenti, appunto
matematicamente fondati proprio su quell’ordine immutabile; Spinoza costituirà il ver-
tice speculativo di questa immagine. Per ottenere questo risultato, si era dovuto ab-
bandonare ogni funzione conoscitiva che i sensi potevano in qualche modo vantare,
nella convinzione di una loro affinità e apertura al piacere che l’ordine naturale mo-
strava (Rinascimento).
L’estetica barocca si propone di recuperare questa dimensione sensibile e soggettiva,
rivendicando il valore del piacere estetico della contemplazione non gravata e schiac-
ciata dal peso dell’intelletto.

È evidente che si assiste ad una affermazione del valore dell’individuo, al riconosci-


mento delle sue prerogative, sia in campo politico-sociale come portatore di diritti, sia
in ambito estetico, nella valorizzazione delle sue percezioni, delle emozioni suscitate
dai sensi, e in ultimo della sua particolare prospettiva sul reale.

Da questo complesso di riflessioni e di contrapposizioni si va affermando nel Sei-


cento l’idea del poliprospettivismo , attraverso cui si va formando una nuova immagine
del mondo, che vuole mettere in luce i limiti della visione meccanicistica cartesiana. Si
esalta così, contro l’idea di un universo meccanico e di un animale -macchina, la varietà
delle forme viventi che popolano questo universo. L’inizio delle ricerche microscopiche
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(Leeuwenhoek, 1632-1723 – perfezionatore del microscopio, condusse fondamentali
osservazioni sugli insetti e sulla circolazione sanguigna Malpighi, 1628-1694 – fonda-
tore dell’anatomia microscopica) condusse alla scoperta delle forme di vita microbio-
logiche, e quindi alla moltiplicazione dei piani del reale, che non sempre la rigidità
matematica era in grado di spiegare. La stessa infinità dell’universo, che le osservazioni
di galilei avevano evidenziato, era intesa come fonte di una meraviglia che l’estetica
barocca interpretava come una specie di limite del meccanicismo, incapace con gli stru-
menti della matematica di comprendere l’universo nella sua interezza, lasciava campo
libero all’immaginazione, che dimostrava l’adeguatezza della nostra immaginazione alla
natura infinita (anche qui Leibniz evidenzierà questo aspetto, che arriverà fino al su-
blime kantiano-romantico).

a) Il classicismo seicentesco e la subordinazione del bello al vero


L’accento così deciso sulla valorizzazione del meraviglioso provocò anche una rea-
zione di raffermazione del classicismo, che voleva evitare una ceduta in un eccessivo
relativismo del gusto. Questo relativismo doveva essere mitigato legando il bello al
vero; ma il vero è oramai espressione e appannaggio della scienza matematizzata, che
quindi costituiva una struttura di legami e relazioni fondata sulla necessità . Con il ri-
sultato che il bello (sempre relegato in una dimensione soggettiva) diventava piena-
mente strumentale e subordinato al vero scientifico, senza una sua propria autonomia
(la teoria della libertà in Descartes, legata alla chiarezza della ragione, è un esempio di
come la dimensione soggettiva veniva ridotta ad una semplice accessorietà rispetto alla
funzione determinante della ragione matematica). Sarà proprio in questo spazio aperto
tra verità scientifica e dimensione soggettiva (e quindi bellezza) che si inserirà la sintesi
leibniziana.

§ 3. Gli sviluppi del razionalismo: Malebranche

Se seguiamo gli sviluppi del razionalismo cartesiano, vediamo come il problema este-
tico subisca l’impostazione rigorosamente matematizzante del pensiero di Descartes.
Per il filosofo francese, il mondo è conosciuto attraverso la ragione, per mezzo delle
idee matematiche. Ora, che ne è del bello, in un mondo definito solo da una struttura
rigorosamente geometrica? Se, come si deve accettare, la percezione del bello è pura-
mente sensibile, allora il bello rimane una percezione fonte di inganno e quindi inca-
pace di fornire conoscenze che si possano ricondurre a una qualche certezza. Di fronte
alle percezioni sensibili, infatti, la mente rischia in ogni momento di trovarsi confusa,
come si vede anche, in riferimento al tema estetico, dall’analisi delle passioni. Si vedano
Le passioni dell’anima , art. 85. Qui Descartes esamina le passioni del gradimento e
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dell’orrore:

chiamiamo bello o brutto ciò che ci è rappresentato così dai nostri sensi esterni, soprattutto da
quello della vista, che da solo è apprezzato più di tutti gli altri.

Dalle passioni suscitate dai sensi esterni, e giudicate in relazione all’amore e all’odio,
passioni principali, seguono due specie di amore, direi innervate dal giudizio della ra-
gione. Una specie è l’amore per le cose belle, definita gradimento , e un’altra è l’odio
per le brutte, definito orrore . Il commento di Descartes è assolutamente inequivoca-
bile:

queste passioni del gradimento e dell’orrore sono di solito molto più violente delle altre specie
di amore o di odio, perché ciò che giunge all’anima per mezzo dei sens i, la tocca più in profon-
dità di ciò che le è rappresentato dalla sua ragione; e tuttavia esse hanno solitamente minore
verità: di modo che tra tutte le passioni, sono queste che ingannano di più, e da cui ci dobbiamo
difendere più accuratamente.

Mi sembra quindi che per Descartes il bello, e le passioni che sono ad esso connesse,
non sono in alcun modo portatrici di alcuna verità, sebbene la forza con cui queste
passioni si presentano ce lo faccia apparire – e giudicare – del tutto reale. Lasciando
poi da parte la questione se il bello sia in sé reale o meno, vale a dire se sia effettiva-
mente presente nelle cose, oppure sia soltanto un effetto messo in moto dalla forza
delle passioni. Emerge, comunque, da queste righe, una chiara condanna gnoseologica
sulla valenza conoscitiva delle percezioni estetiche; condanna che in Malebranche di-
venta di tipo etico-religioso.
Legata a questa impostazione fortemente razionalista vi è poi la condanna di ogni
finalismo e antropomorfizzazione del mondo, messa in atto in par ticolare da Spinoza.
Dunque, l’impostazione razionalista sembra operare una netta svalutazione del mo-
mento estetico nell’orizzonte dell’attività conoscitiva del soggetto. Se consideriamo la
sottovalutazione della morale cartesiana, definita per l’appunto “ provvisoria”, e in ef-
fetti mai sviluppata in una versione definitiva, e la riduzione dell’agire dell’uomo nel
suo rapporto con il mondo ad una pratica prudenziale per garantire la propria semplice
sopravvivenza fisica, si può ben capire come tutta la temat ica dell’errore dei sensi ac-
quisti un grado di svalutazione che si manifesta chiaramente ne La ricerca della verità
di Malebranche.

a) La creazione e l’ordine delle percezioni


La creazione, per Malebranche, è la posizione di un ordine determinato nella natura.
La percezione dell’anima/mente deve perciò essere commisurata a questo ordine, se-
guendo in esso la grandezza dei beni che percepisce e di cui gode. Il piacere legato a

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queste percezioni agisce da impulso e ci fa giudicare buono ciò che suscita in noi mag-
gior piacere. Ed è proprio nel giudizio che, come in Descartes, si annida l’errore. Que-
sto è infatti il pervertimento di un ordine voluto da Dio; prima del peccato originale
l’ordine andava dall’intelletto ai sensi, e quindi ciò che percepivamo con essi er a su-
bordinato a ciò che percepivamo con l’intelletto. In questo senso, si acuisce in Male-
branche l’opposizione tra mente e corpo presente in Descartes, dal momento che in
questo ordine rigoroso e divino la mente è molto più vicina a Dio, e perciò molto più
separata dai sensi. Ma con la caduta dell’uomo questo rapporto si rovescia, e
l’anima/mente si separa da Dio per avvicinarsi ai sensi. Questo incide anche sull’ordine
delle percezioni, e come visto prima in Descartes, quelle originate dai sensi diventano
più forti di quelle della ragione, con la conseguenza che il giudizio viene influenzato
dai sensi e non più dall’intelletto.

Dobbiamo allora pensare che, al momento della creazione, l’uomo non esistesse, in
termini sostanziali, come lo constatiamo dall’esp erienza, ovvero una stretta unione di
anima e corpo. L’intelletto dovrebbe avere una sua specifica sostanzialità, in qualche
modo distinta da quella corporea, proprio perché non influenzabile dai sensi, o meglio
ancora perché capace di dominarli e subordin arli a sé. Si rifà avanti la relazione anima-
corpo di matrice platonica, che permetteva appunto la possibilità di una conoscenza
puramente intellettuale, una volta che si fosse, almeno virtualmente, operata la distin-
zione dai sensi (caverna).

Ecco allora che, per Malebranche, l’intelletto diventa sottomesso alle passioni origi-
nate dalle percezioni sensibili, pur potendo – per sua natura – volgere la propria attività
conoscitiva solo a ciò che è in sé spirituale, e quindi possedendo una visione che, orien-
tata appunto solo allo spirituale, è sempre chiara e distinta (visione in Dio). ma da
questo consegue ancora che non serve applicare l’intelletto alla conoscenza di ciò che
è semplicemente materiale, per la cui conoscenza basta l’istinto, ovvero l’inclinazion e
sensibile.
Nel rivolgimento del peccato, ciò che viene rovesciato è, come detto, la posizione
dello spirito, sotto i sensi, i quali però operano come sempre, cioè come prima del
peccato (è chiaro allora che mente e corpo, prima del peccato, sono assolutamente
irrelati), e la loro funzione, come in Descartes, è rivolta alla conservazione del corpo.
In questa condizione, la conoscenza dell’intelligibile procede da un atto di libertà, cifra
della conoscenza chiara e distinta, proprio perché ottenuta indipendentemente dai
sensi e dall’istinto, e perciò anche dal gradevole e dal bello. In pratica, la conoscenza
chiara e distinta, cartesianamente, è il risultato di una liberazione , in un duplice senso.
Non solo perché ci permette di essere liberi non solo come semplice indifferenza, ma
anche perché ci permette di riconquistare quella condizione originaria nella quale il
potere della mente sopravanzava quello dei sensi, e quindi ci libera dalla loro schiavitù
(agostino).

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b) La radicalità della critica dell’errore
Con l’esempio degli animali osservati al microscopio, Malebranche avvia una critica
radicale alla nostra possibilità di errare. Non solo i sensi ci ingannano, addirittura Ma-
lebranche afferma che essi non sono dedicati alla ricerca e all’acquisizione della ve rità.
Ed è qui che, per dare forza a questa critica – che si pone in chiaro contrasto con lo
sviluppo del razionalismo nel suo filone empirista – Malebranche fa intervenire una
riflessione di carattere teologico, sviluppata proprio a partire dal microscopio e dalla
divisibilità della materia.
Il microscopio, qui, funge da metafora dell’immaginazione e dei suoi limiti, entrando
in questo modo dentro la questione della sua rivalutazione in ambiente estetico ba-
rocco. Il microscopio, infatti, mostra un’estensio ne della materia ben più lontana dalle
possibilità dei nostri sensi, e una sua virtualmente infinita divisibilità, che da essi non
può in alcun modo essere afferrata. Ma a questa deficienza non sovviene neanche l’au-
silio dell’immaginazione, proprio perché – come anche Descartes aveva mostrato – essa
deve essere considerata parte integrante della nostra conoscenza sensibile, inferiore a
quella dell’intelletto nell’ordine della creazione divina. I sensi, quindi, e qui mi sembra
la radicalità anche rispetto Descartes, non ci fanno conoscere l’estensione come essa è
in sé.

È interessante il richiamo futuro a Kant. L’estensione rappresenta in pratica il mondo


esterno, che qui appare svalutato nella sua relazione conoscitiva con la mente attraverso
i sensi. Non perché il mondo sensibile non possa essere in alcun modo conosciuto, ma
perché la sua conoscenza, di qualunque genere sia, non potrà mai rispettare un ordine
teologicamente fondato in altra maniera. Conosciamo in maniera chiara e distinta at-
traverso le idee, ma non perché esse siano costituite attraverso una sorta di depurazione
della materia sensibile offuscante l’essere delle cose, ma perché l’idea è toto genere
distinta dalle immagini sensibili, appartiene ad altro ordine, che solo contingentemente
è subordinato ai sensi, ma in sé è superiore. Credo che sia proprio da qui che si generi
quel filone idealistico che, attraverso Berkeley, conduce a Kant.

Malebranche ne ricava una precisa conseguenza teoretica, basata su un’osservazione


di natura teologica. Dio può creare ciò che vuole a partire da qualsiasi parte della
materia, per quanto piccola sia; questo significa che non si possono porre limiti
all’azione di Dio, limiti che siano in q ualche modo misurati sulla nostra immaginazione
finita. Ancor più in generale, l’uomo come essere spirituale non può dipendere da ciò
che proviene dai sensi, i quali costituiscono piuttosto il limite, l’opposizione al suo
retaggio spirituale. In pratica, esaltare l’immaginazione significa esaltare i limiti della
capacità (spirituale) della nostra ragione.
Credo vi sia anche un’altra considerazione, che richiama la scolastica aristotelica, e
che prelude in qualche modo al recupero del pensiero dello Stagirit a messo in pratica
da Leibniz. Quando guardiamo un bulbo di tulipano, afferma Malebranche, possiamo
notare che esso contiene tutto intero il tulipano; il che però equivale a dire che la
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forma/natura del tulipano è già presente sostanzialmente nel bulbo, e che la materia è
solo la disposizione a ricevere e sviluppare tale forma. Sicuramente, la maggiore capa-
cità osservativa dei sensi potenziati dagli strumenti permette di vedere meglio ciò che,
tuttavia, la ragione aveva già colto da sé, aveva cioè intuito in idea prima che in re .
Riaffermazione del principio cartesiano che la ragione non può dipendere dai sensi per
conoscere ciò che, per Malebranche, costituisce il campo proprio del pensiero, deter-
minato – tale campo – dall’ordine della creazione che solo co ntingentemente viene
stravolto dal peccato e dalla caduta, ma che, opportunamente emendato, può essere
recuperato nella sua interezza. L’errore è qui pretendere di invadere con i sensi ciò che
è proprio solo della ragione. La conclusione di Malebranche è o ra chiara: affidarsi ai
sensi e all’immaginazione significa sminuire l’opera della creazione e precipitare
nell’errore. Si potrebbe aggiungere che qui viene messo in luce ancor più il carattere
distorcente della libertà dell’immaginazione, non solo perché – come in Descartes – la
volontà che giudica sulla base dei sensi sopravanza la capacità dell’intelletto di rendere
le idee chiare e distinte, ma molto più perché l’immaginazione o i sensi rovesciano
l’ordine che è garanzia – in Malebranche come in Descartes – di certezza e verità. Pre-
tendere quindi, in relazione ai principi dell’estetica barocca, di affidarsi all’immagina-
zione nella creazione artistica significa persistere nel pervertimento dell’ordine divino,
allontanandosi sempre più dal ripristino del vero percorso verso la verità.
Questo discorso si chiarisce ulteriormente facendo un breve cenno alla teoria
dell’immaginazione. Essa è legata ai sensi, e capace di mostrare – a differenza di questi
– cose che sono attualmente assenti (il che ci permette di richiamare proprio le idee di
Rubens e Bernini sul compito dell’arte). L’immaginazione è quindi la facoltà dell’anima
di imprimere immagini delle cose sul cervello, a prescindere dalla loro presenza attuale
o meno. Anzi, per meglio dire, la forza dell’imm aginazione si dispiega proprio con
l’assenza dell’oggetto, che altrimenti questo imprimerebbe la sua forza direttamente
sui sensi, molto più forti dell’immaginazione e capaci di spegnere questa sua facoltà.
Ben si vede come il discorso ruoti su una conside razione puramente meccanica, un
gioco tra forze capaci di sopravanzarsi a vicenda in relazione alla misura della loro
potenza effettiva. Ne consegue che l’immagine che ci formiamo di un oggetto non di-
pende dalla verità in sé dell’oggetto, ma solo dalla for za che l’oggetto è in grado di
operare rispetto a forze a lui contrarie; quindi, il risultato non sarebbe altro che la
composizione di queste forze, cioè un risultato basato solo sui sensi e sulla corporeità,
che riceve tali forze, e non sulla ragione, che è l’unica facoltà che è in grado di cogliere
la verità in sé.

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