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DECADENTISMO

Il 26 maggio 1883 sul periodico parigino "Le Chat Noir" Verlaine pubblicò il sonetto Langueur, in cui affermava di
identificarsi con l'atmosfera di stanchezza e di estenuazione spirituale dell’Impero Romano alla fine della
decadenza, ormai incapace di forti passioni e di azioni energiche, immerso nel vuoto e nella noia, intento solo a
raffinate e oziose esercitazioni letterarie. Il sonetto interpretava uno stato d'animo diffuso nella cultura del tempo:
il senso di disfacimento di una civiltà, l'idea di un imminente cataclisma epocale.
Queste idee erano proprie di circoli d'avanguardia, che si contrapponevano alla mentalità borghese e ostentavano
atteggiamenti bohémien e idee provocatorie. La critica ufficiale usò il termine "decadentismo" in accezione
negativa e spregiativa, ma quei gruppi intellettuali ne rovesciarono il senso, indicandolo come un privilegio
spirituale (elemento di superiorità).
Il termine "decadentismo" originariamente indicava un determinato movimento letterario, sorto in un dato
ambiente e ispirato da un preciso programma culturale, ma successivamente la critica ha assunto il termine come
etichetta di una corrente culturale europea negli ultimi due decenni dell'800. Il termine in questa seconda
accezione è diffuso prevalentemente nella storiografia letteraria italiana, mentre in altri paesi prende altre
denominazioni (simbolismo).
Il Decadentismo è una formula onnicomprensiva di una somma di manifestazioni artistiche e letterarie tra loro
differenti, che però presentano denominatori comuni.

LA VISIONE DEL MONDO DECADENTE si basa su un irrazionalismo misticheggiante, che riprende ed esaspera
posizioni già presenti nella cultura romantica. Viene rifiutata la visione positivistica che costituisce il sostrato
dell'opinione borghese, ormai diventata luogo comune: la realtà è un complesso di fenomeni materiali, regolati da
leggi ferree, meccaniche e deterministiche; la scienza, una volta individuate tali leggi, è in grado di garantire una
conoscenza oggettiva e totale della realtà e il dominio dell'uomo sul mondo: il progresso è un processo continuo
che sancisce il trionfo della civiltà sull'oscurantismo e la sconfitta di tutti i mali che affliggono l'umanità.
Il decadente ritiene che la ragione e la scienza non permettano la vera conoscenza del reale, perché l'essenza di
esso è al di là delle cose, misteriosa ed enigmatica, per cui solo rinunciando al razionale si può tentare di attingere
all'ignoto. Se nella visione razionale le cose possiedono una loro oggettiva individualità, che le isola le une dalle
altre, per questa visione mistica tutti gli aspetti dell'essere sono legati tra loro da arcane analogie e corrispondenze,
che sfuggono alla ragione e possono essere colte solo in un abbandono di empatia irrazionale.
La rete di corrispondenze coinvolge anche l'uomo: io e mondo, soggetto e oggetto, si confondono in una misteriosa
unità. Tale unione si realizza sul piano dell'inconscio, dove l'individualità scompare e si fonde con un Tutto
inconsapevole. La scoperta dell'inconscio è il nucleo della cultura decadente. Freud nel 1899 pubblica
l'Interpretazione dei sogni, che rappresenta il tentativo di comprendere i comportamenti inconsci con un approccio
positivista, mediante gli strumenti della scienza: il suo fine è portare alla luce della coscienza l'inconscio, sottoporlo
al dominio dell'io. I decadenti invece si lasciano assorbire da esso, convinti che solo l’abbandono totale possa
garantire un'esperienza ineffabile, la scoperta di una realtà più vera. Sono mossi dall’intento di conoscere la
complessità dell’uomo, che non può essere studiato con la scienza, in quanto i meccanismi dell’inconscio non
seguono regole razionali.
L'essenza segreta della realtà può essere colta attraverso strumenti privilegiati del conoscere, tra cui tutti gli stati
irrazionali dell'esistere: malattia, follia, nevrosi, delirio, sogno e incubo, allucinazione. Questi stati di alterazione
(che possono essere provocati artificialmente con alcol, assenzio o droghe), sottraendosi alla censura della ragione,
permettono di vedere il mistero che è al di là delle cose.
Altre forme di estasi che consentono questa esperienza dell'ignoto e dell'assoluto sono:
- panismo: se io e mondo non sono distinti, l'io individuale può annullarsi nella vita del Tutto e potenziare all'infinito
la propria vita, renderla come divina;
- epifanie: un particolare qualunque della realtà, apparentemente insignificante, si carica di misteriosi significati
ulteriori, come un messaggio proveniente da un'altra dimensione, come rivelazione momentanea di un assoluto (in
greco "manifestazione", nel linguaggio religioso si riferisce alle rivelazioni di Dio).

LA POETICA
Per i decadenti uno degli strumenti privilegiati della conoscenza è l'arte. L’artista non sono è solo abile artefice della
parola, ma sacerdote di un vero e proprio culto, un «veggente» capace di spingere lo sguardo dove l'uomo comune
non vede nulla l'arte è il valore più alto che assorbe tutti gli altri in sé.
Ciò ha dato origine all'estetismo: l'esteta è colui che assume come principio regolatore della vita non i valori morali,
ma solo il bello, in base al quale agisce e giudica la realtà. Egli si colloca così al di là della morale comune: arte e vita
si confondono, la seconda è assorbita interamente dalla prima, attraverso cui è filtrata tutta la realtà.
Va costantemente alla ricerca di sensazioni rare, si circonda degli oggetti più preziosi e raffinati, prova orrore per
la banalità e la volgarità della gente comune.
 Oscar Wilde e Gabriele d'Annunzio: non solo attraverso le opere scritte, ma anche attraverso la vita stessa, che
deve essere un'opera d'arte (L'arte per l'arte). Il poeta rifiuta di farsi banditore di idealità morali e civili: l'arte rifugge
dalla rappresentazione della realtà storica e sociale e si chiude in una celebrazione di sé, depurandosi di tutti gli
intenti pratici e utilitaristici; diviene cioè arte pura.

IL LINGUAGGIO
Se la poesia è veicolo di una rivelazione del mistero e dell'assoluto, la parola poetica non può più essere strumento
di una comunicazione logica, razionale, ma assume un valore suggestivo ed evocativo.
rivoluzione del linguaggio poetico: la parola perde la sua funzione di strumento comunicativo e recupera quella
ancestrale di formula magica, capace di rivelare l'ignoto, di mettere in contatto con un arcano al di là delle cose.
Essendo la poesia pura suggestione irrazionale, diviene oscura e incomprensibile. Il poeta comunica in forme
cifrate, allusive, enigmatiche, rivolte a coloro in grado di accedere al mistero e di comprendere il suo linguaggio. In
situazioni estreme la poesia diviene pura autocomunicazione, il poeta parla solo a se stesso.
Arte aristocratica: rifiuto di rivolgersi al pubblico borghese, ritenuto mediocre e volgare, e si chiude nella suprema
raffinatezza. Ciò è dovuto dall'imporsi della cultura di massa, con la produzione in serie destinata al mercato
borghese che sta distruggendo il concetto di unicità dell'opera d'arte. L'artista sente il bisogno di difendersi e si
rifugia nel linguaggio cifrato per salvare l'arte "vera”.
frattura radicale tra artista e pubblico, tra intellettuale e società.

LE TECNICHE ESPRESSIVE
Lo scrittore ottiene l’effetto suggestivo attraverso vari mezzi tecnici:
- musicalità: la parola vale non come significante logico, che richiama un preciso referente reale, ma come puro
suono, che si carica di valori evocativi. La musica è la suprema tra le arti, perché è la più indefinita, svincolata da
ogni significato logico e referenziale, dotata di facoltà suggestive, capace di agire sulle zone più oscure della psiche,
di creare la comunione mistica con l'assoluto.
 onomatopea: riproduzione di un suono presente in natura attraverso il linguaggio.
- sintassi: vaga, ambigua. Le singole parole assumono significati diversi da quelli comuni conoscenza intuitiva

IL LINGUAGGIO ANALOGICO
- metafora: presuppone una concezione irrazionalistica, è l'espressione di una visione simbolica del mondo, allude
alla rete di segrete relazioni che uniscono le cose in un sistema di analogie universali. La metafora decadente non
è regolata da un semplice rapporto di somiglianza tra due oggetti, ma lega due realtà tra loro remote.
- simbolo: il rapporto simbolico è diverso da quello allegorico (Medioevo); l'allegoria postula un rapporto codificato
tra significante e significato, il simbolo invece è misterioso, allusivo, polisemico (caricabile di vari sensi).
- sinestesia: accostamento di termini che appartengono a sfere sensoriali diverse. Provoca una fusione di sensazioni
che conservano tra loro un rapporto analogico; ciò presuppone una segreta unità del tutto.

TEMI E MITI
Dallo stato d'animo di stanchezza e di estenuazione, derivante dal senso di disfacimento di una civiltà, deriva
l'ammirazione per le epoche di decadenza (Grecia alessandrina, tarda Roma imperiale, età bizantina) in cui
l'esaurirsi delle forze si traduce in estrema raffinatezza. I prodotti culturali di queste epoche sono sentiti come più
affascinanti delle opere di età classica.
- vagheggiamento della lussuria, complicata da perversità e crudeltà: nelle fantasie perverse di lussuria e crudeltà
raffinata si esprime la stanchezza di una fantasia sazia dell’ideale e del sentimento romantico, alla ricerca del nuovo
e dell'inaudito per trovare stimoli che le impediscano di cadere nell'inerzia e nella noia; al contempo si manifesta
una sensibilità esasperata, al limite della nevrastenia.
- La nevrosi è una costante caratteristica dei protagonisti; costituisce l’atmosfera che avvolge la cultura di quest’età.
La malattia, da un lato, si pone come metafora di una condizione storica, momento di crisi profonda, smarrimento
delle certezze, angoscia per il crollo. Dall'altro, diviene condizione privilegiata, segno di nobiltà e distinzione
rispetto alla massa, lo strumento conoscitivo per eccellenza.
Alla malattia umana si associa la malattia delle cose: gusto per tutto ciò che è corrotto, impuro. Venezia, in cui si
associano disfacimento e raffinatezza, è la città decadente per eccellenza.
La malattia e la corruzione affasciano i decadenti anche perché sono immagini della morte  attrazione morbosa
verso l’annientamento e autodistruzione.
- a ciò si contrappone il vitalismo, cioè l'esaltazione della pienezza vitale al di là di ogni norma morale, ricerca del
godimento, celebrazione della forza barbarica, impone il suo dominio sui deboli e così rigenera un mondo esausto.
In realtà sono solo apparentemente contraddittori: il culto della forza e della vita è un modo per esorcizzare
l'attrazione morbosa della morte, per sconfiggere il senso di esaurimento; il vitalismo è l'altra faccia della malattia
interiore, è la maschera che cerca inutilmente di occultarla. L'estenuata morbosità e il vitalismo barbarico sono
entrambi il segno di un rifiuto aristocratico della normalità, di una ricerca esasperata del diverso.
L'artista decadente si isola dalla realtà contemporanea, orgoglioso della propria diversità, rovesciando in segni di
nobiltà anche i propri tratti negativi.

GLI EROI DECADENTI figure ricorrenti nella letteratura decadente:


- artista maledetto: profana tutti i valori e le convenzioni della società, sceglie il male e si compiace di una vita
misera, sregolata, condotta sino all'estremo limite dell'autoannientamento (vizio della carne, alcol e droghe);
- esteta: vuol trasformare la sua vita in opera d'arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello, andando
costantemente alla ricerca di sensazioni squisite e piaceri raffinati; ha orrore della vita comune, della mediocrità
borghese e si isola in solitudine, circondato solo dalla bellezza e dall'arte;
- inetto a vivere: si sente escluso dalla società, a cui non sa partecipare per mancanza di energie vitali, per una
malattia che corrode la sua volontà; si rifugia nelle sue fantasie, vagheggiando in sogni l'azione a cui aspira; vorrebbe
provare forti passioni, ma si sente inaridito; più che vivere, si osserva vivere. Il senso di impotenza è causato da un
eccesso di pensiero, dal continuo osservarsi e studiarsi che raggela i suoi sentimenti e blocca l'azione;
- donna fatale: dominatrice del maschio fragile e sottomesso, lussuriosa e perversa, crudele torturatrice, maga
ammaliatrice al cui fascino non si può sfuggire, che consuma le energie vitali dell'uomo, lo porta alla follia e alla
distruzione. Donna come incarnazione della lussuria.

Il «fanciullino» di Pascoli è una variante dell’inetto a vivere: il rifiuto della condizione adulta, della vita di relazione
al di fuori del «nido» familiare, il regredire a forme di emotività e sensibilità infantili. Esprime l'esigenza di una
regressione a forme di coscienza primitiva, anteriori alla vita logica, quindi esprime irrazionalismo e misticismo.

Il superuomo di d'Annunzio deriva dal vitalismo, ispirato alle teorie di Nietzsche: è l'individuo superiore alla
massa mediocre, forte e dominatore, che si muove alla conquista di mete eroiche senza essere ostacolato da dubbi
e incertezze. Il mito si carica anche di valenze politiche, poiché il superuomo ha il compito di riportare l'Italia alla
grandezza passata e ai suoi destini imperiali.

BAUDELAIRE – L’ALBATRO
È l'enunciazione più compiuta della concezione romantica del poeta.
Conflitto tra intellettuale e mondo borghese: L'albatro, con le sue ampie ali, signoreggia l'aria; ma, quando si posa
sul suolo, proprio a causa di esse non riesce a camminare ed appare goffo e ridicolo.
Così il poeta ha le grandi ali della sua nobiltà spirituale (capacità intellettuali, sensibilità, fantasia) che gli
permettono di spaziare nei cieli della poesia e dell'ideale; una volta mescolatosi agli uomini comuni, il suo privilegio
spirituale lo rende inadatto alla vita pratica e prosaica e diventa oggetto di scherno da parte della gente "normale".
In una società borghese che ha come valori fondamentali l'utile, l'interesse, la produttività, la razionalità
calcolatrice, il senso pratico, e che trasforma l'opera d'arte in merce, l'artista, teso verso l'ideale e creatore di un
valore disinteressato come la bellezza, appare inadatto alla vita comune e inutile per la società. È emarginato e
privato del prestigio e dei privilegi materiali di cui godeva in età precedenti.
L'artista avverte un senso di colpa, si sente un reietto e un maledetto. Egli reagisce assumendo la propria diversità
come segno di superiorità e nobiltà, rifiuta quel mondo che non lo comprende e, rivendicando orgogliosamente il
proprio privilegio spirituale, si isola dalla vita normale, disprezzando la mediocrità borghese.
Stile: riproduce l'antitesi fra il volo libero dell'albatro nel cielo e la sua ridicola degradazione sulla nave: tensione
interna tra immagini liriche, «abissi amari», «re dell'azzurro», «principe dei nembi», «ride degli arcieri» che si
contrappongono a immagini basse e comiche, il marinaio che stuzzica il becco con la pipa, quello che lo imita
zoppicando.
Il verso è invece fluido e musicale.
GIOVANNI PASCOLI
Nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna, da una famiglia agiata della piccola borghesia rurale: il padre Ruggero
era fattore della tenuta La Torre, di proprietà dei principi Torlonia. Era una tipica famiglia patriarcale numerosa:
Giovanni era il quarto di dieci figli.
La vita serena di questo nucleo familiare venne però sconvolta da una tragedia: il 10 agosto 1867, mentre tornava
a casa dal mercato di Cesena, il padre fu ucciso a fucilate, probabilmente da un rivale che aspirava a prendere il
suo posto di amministratore. Sicari e mandanti non furono mai individuati, sia per l'omertà della gente sia per
l'inerzia delle indagini, e ciò diede al giovane Pascoli il senso di un'ingiustizia bruciante.
La morte del padre creò difficoltà economiche alla famiglia, che dovette lasciare la tenuta, trasferirsi a San Mauro
e poi a Rimini, dove il figlio maggiore Giacomo aveva trovato lavoro, assumendo il ruolo paterno. Al primo lutto ne
seguirono altri in successione: morirono la madre, la sorella maggiore, il fratello Luigi e Giacomo.
Giovanni entrò nel collegio degli Scolopi ad Urbino, dove ricevette una formazione classica, che costituì la base
essenziale della sua cultura. Per le ristrettezze della famiglia, dovette lasciare il collegio, ma, grazie alla generosità
di un suo professore, poté proseguire gli studi a Firenze, sempre presso gli Scolopi, dove terminò il liceo.
1873 ottenne una borsa di studio presso l'Università di Bologna, dove frequentò la Facoltà di Lettere. Qui Pascoli
subì il fascino dell'ideologia socialista, diffusa negli ambienti studenteschi bolognesi. Partecipò a manifestazioni
contro il governo, ma fu arrestato nel 1879 e trascorse alcuni mesi in carcere. L'esperienza fu traumatica e
determinò il suo definitivo distacco dalla politica militante. Restò fedele all'ideale socialista, ma di un socialismo
umanitario, che propugnava bontà e fraternità fra gli uomini.
Ripresi gli studi, si laureò nel 1882. Iniziò la carriera di insegnante liceale a Matera, poi a Massa. Qui convisse con
le due sorelle, Ida e Mariù, ricostituendo idealmente quel «nido» familiare che i lutti avevano distrutto. 1887, con
le sorelle, passò ad insegnare a Livorno, dove rimase sino al 1895.
La chiusura gelosa nel «nido» familiare e l'attaccamento morboso alle sorelle rivelano la fragilità psicologica del
poeta, che, segnato dai traumi infantili, cerca nel «nido» la protezione da un mondo esterno, che gli appare
minaccioso e insidioso. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano
continuamente nel nido, riproponendo il passato di lutti e di dolori, inibendo al poeta ogni rapporto con la realtà
esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita come un tradimento nei confronti dei legami viscerali del nido.
Non ebbe relazioni amorose, ma condusse una vita forzatamente casta. C'è in lui lo struggente desiderio di un vero
«nido», in cui esercitare la funzione di padre, reso impossibile dal legame ossessivo con il «nido» infantile. Per lui,
la vita amorosa è qualcosa di proibito e di misterioso, da contemplare da lontano.
Le esigenze affettive del poeta sono, a livello conscio, interamente soddisfatte dal rapporto con le sorelle, che
rivestono una funzione materna (e viceversa lui aveva una funzione paterna per le sorelle). Per questo, il
matrimonio di Ida fu sentito come un tradimento verso il «nido», e determinò in lui una reazione patologica con
manifestazioni depressive (quando si profilò un suo matrimonio con una cugina, rinunciò per gelosia di Mariù).
La complessa situazione affettiva del poeta costituisce il punto d'avvio della sua poesia, il materiale su cui egli lavora.
Il carattere turbato della poesia di Pascoli si cela dietro l'apparenza dell'innocenza e del candore fanciulleschi, della
celebrazione delle piccole cose, delle realtà più semplici e umili.
Dopo il matrimonio di Ida, Pascoli prese in affitto una casa a Castelvecchio di Barga, nella campagna lucchese. Qui
trascorse lunghi periodi, lontano dalla vita cittadina che detestava, a contatto con il mondo della campagna, per
lui un Eden di serenità e pace. La sua vita era quella appartata del professore, chiusa nella cerchia dei suoi studi,
poesia e affetti familiari. Una vita esteriormente serena, ma in realtà turbata nell'intimo da oscure angosce e paure,
per l'addensarsi di incombenti cataclismi storici, minacciati dalla violenza latente nella società del tempo, e per la
presenza ossessiva della morte.
1895 Pascoli ottenne la cattedra di Grammatica greca e latina all'Università di Bologna, poi di Letteratura latina
all'Università di Messina, dove insegnò sino al 1903. Passò a Pisa ed infine dal 1905 subentrò al suo maestro
Carducci nella cattedra di Letteratura italiana a Bologna.
All'inizio degli anni 90 pubblicò la prima raccolta di liriche Myricae, poi negli anni seguenti diverse poesie in varie e
importanti riviste. La sua fama si allargava e consolidava. Dal 1892 per 12 anni vinse il concorso di poesia latina di
Amsterdam, consacrandosi poeta latino, capace di dare forza espressiva originale e moderna alla lingua antica.
Negli ultimi anni volle gareggiare col maestro Carducci e col «fratello minore e maggiore» d'Annunzio nella funzione
di poeta civile, "vate" dei destini della patria e celebratore delle sue glorie. Al poeta schivo, chiuso nel suo limitato
ambito domestico e provinciale, inteso a celebrare il valore delle realtà più umili, si affiancò il letterato ufficiale,
che si assunse il compito di diffondere ideologie e miti. Oltre le sue poesie, Pascoli espletò questo suo compito con
una serie di discorsi pubblici (La grande proletaria si è mossa).
Il poeta si ammalò di cancro allo stomaco, si trasferì a Bologna per le cure, dove morì nel 1912.
LA VISIONE DEL MONDO
La formazione di Pascoli fu positivistica, dato il clima culturale dominante degli anni 70 dell’800. Ciò emerge
nell'ossessiva precisione con cui usa la nomenclatura ornitologica e botanica, le fonti da cui trae le osservazioni
sulla vita degli uccelli, protagonisti dei suoi componimenti poetici; da letture di testi di astronomia, ispirati alle
cognizioni scientifiche del tempo, scaturiscono i temi astrali che occupano un posto rilevante nella sua poesia.
Ma in Pascoli si riflette la crisi del positivismo e l'affermarsi di tendenze spiritualistiche e idealistiche: sfiducia nella
scienza come strumento di conoscenza e di ordinamento del mondo; oltre i confini limitati raggiunti dall'indagine
scientifica, si trova l'ignoto, verso cui l'anima si protende ansiosa, tesa a captare i messaggi enigmatici che ne
provengono, non traducibili in nessun sistema logicamente codificato. La tensione verso ciò che trascende il dato
sensibile non si concreta nella fede religiosa positiva; il fascino del cristianesimo non attinge la sfera teologica, ma
resta nei limiti del messaggio morale di fraternità e benevolenza evangelica.
Il Positivismo dava ordine razionale al mondo, mentre nella visione pascoliana esso appare frantumato: le sue
componenti si allineano casualmente, non c’è un disegno unitario e coerente e gerarchie d'ordine fra gli oggetti.
Tutto ciò influenza la costruzione formale dei testi, le strutture logico-sintattiche e ritmiche e il lessico.
I simboli: i particolari fisici, sensibili sono filtrati attraverso la peculiare visione soggettiva del poeta e in tal modo si
caricano di valenze allusive e simboliche, rimandano a messaggi misteriosi soggettivazione del reale.
La precisione botanica e ornitologica con cui Pascoli designa fiori, piante, uccelli, pur avendo le sue radici nel rigore
classificatorio della scienza positivistica, assume il valore di formula magica che permette di attingere all'essenza
segreta delle cose e arrivare a un'immedesimazione profonda con esse. Dare il nome alle cose è come scoprirle per
la prima volta, con occhi vergini e stupiti, come accadde ad Adamo.
percezione visionaria, onirica: il mondo è visto attraverso il velo del sogno e perde ogni consistenza oggettiva,
le cose sfumano le une nelle altre, in un gioco di metamorfosi tra apparenze labili e illusorie. Si instaurano così
legami segreti fra le cose, colti solo abbandonando le convenzioni della visione corrente, logica e positiva. La
conoscenza del mondo avviene attraverso strumenti interpretativi non razionali, che trasportano direttamente nel
cuore profondo della realtà.
Per Pascoli non c’è distinzione tra io-mondo esterno, soggetto-oggetto: la sfera dell'io si confonde con quella della
realtà oggettiva, le cose acquistano una fisionomia antropomorfizzata, si caricano di significati umani.

IL FANCIULLINO 1897
Pascoli sostiene che ci sia un fanciullino in ogni uomo che prevale fino al raggiungimento dell’età della ragione,
quando si addormenta e ogni tanto fa sentire la sua presenza (sogni, situazioni estreme, davanti a una
rappresentazione teatrale, ascoltando una composizione musicale).
Dall’ampio saggio risaltano i punti essenziali della poetica pascoliana:
-verginità primigenia della parola poetica: il poeta coincide col fanciullo che sopravvive in ogni uomo; vede tutte
le cose «come per la prima volta», con ingenuo stupore e meraviglia, come dovette vederle il primo uomo all'alba
della creazione. Il poeta-fanciullino è il novello Adamo: dà il nome alle cose poiché in presenza di un «mondo
novello», deve usare una «novella parola», un linguaggio che si sottragga ai meccanismi della comunicazione
abituale e sappia andare nel profondo delle cose.
- la poesia come conoscenza prerazionale e immaginosa: proposta già dal Romanticismo che stabilì l'equivalenza
tra fanciulli e primitivi e esaltò il loro modo ingenuo e fantasioso di rapportarsi al mondo, ma che Pascoli piega in
direzione decadente. Il poeta-fanciullo, senza seguire le tappe del ragionamento logico e il metodo sperimentale,
ci fa sprofondare immediatamente nell'«abisso della verità». L'atteggiamento irrazionale e intuitivo permette di
cogliere direttamente l'essenza segreta delle cose.
- Il fanciullino scopre anche la trama di corrispondenze misteriose tra le presenze del reale, che le unisce come in
una rete di simboli e che sfugge alla percezione abituale.
- poeta come un "veggente", dotato di una vista più acuta di quella degli uomini comuni, colui che per un arcano
privilegio può spingere lo sguardo oltre i limiti della realtà sensibile e attingere all'ignoto.
- poesia “pura”: per Pascoli la poesia non deve proporsi finalità estrinseche e pratiche; il poeta non si propone
obiettivi civili, morali, pedagogici, propagandistici. Tuttavia, proprio in quanto poesia "pura", spontanea e
disinteressata, può ottenere «effetti di suprema utilità morale e sociale».
 Virgilio «fece poesia senza pensare ad altro, cantò per cantare», ma, proprio attraverso questa effusione
immediata del canto, insegnava ad amare la vita in cui non fosse lo spettacolo né doloroso della miseria né invidioso
della ricchezza: egli voleva abolire la lotta tra le classi e la guerra tra i popoli.
Il sentimento poetico, dando voce al fanciullino che è in noi, placa gli odi e gli impulsi violenti che sono propri degli
uomini, induce alla bontà, amore e fratellanza; placa il desiderio di accrescere i propri possessi che spinge gli uomini
a sopraffarsi a vicenda.
La poesia "pura" contiene quindi un implicito messaggio sociale, un'utopia umanitaria che invita all'affratellamento
di tutti gli uomini, al di là delle barriere di classe e di nazione che li separano e li contrappongono gli uni agli altri.
- rifiuto del principio aristocratico del classicismo, che esige una rigorosa separazione tra ciò che è alto e ciò che è
basso, ed accetta solo la prima categoria di oggetti nel campo selezionatissimo della poesia. Per Pascoli, invece, la
poesia è anche nelle piccole cose, che hanno una dignità non minore di quelle auliche.
In tal modo il poeta estende il «diritto di cittadinanza a tutti gli elementi della realtà»: tra oggetti aulici e umili, e
tra le parole che li esprimono, non vi è più conflitto ed esclusione, ma vi può essere pacifica convivenza. Pascoli si
propone sia come cantore delle realtà umili e dimesse (mondo contadino), sia come celebratore delle glorie
nazionali ed evocatore dei miti e degli eroi classici.
questo concetto è espresso da Pascoli attraverso metafore floreali: belli e degni di essere cantati sono non solo
gli esotici e rari fiori delle «agavi americane» ma anche i piccoli fiori della «pimpinella».

IDEOLOGIA POLITICA
SOCIALISMO: Durante gli anni universitari, Pascoli subì l'influenza delle ideologie anarco-socialiste, diffuse tra gli
intellettuali piccolo borghesi, soprattutto per il fascino esercitato da Costa, agitatore e tribuno attivo in Emilia-
Romagna. L'insofferenza ribelle nei confronti delle convenzioni e la protesta contro le ingiustizie risalivano ad un
clima ancora romantico, ma avevano concrete motivazioni sociali: inquietudine di un gruppo minacciato nella sua
identità dall'avanzata della civiltà industriale moderna, che toglieva prestigio alla tradizionale cultura umanistica,
privilegiando nuove competenze e nuovi saperi, scientifici e tecnologici; risentimento e frustrazione per i processi
di declassazione a cui il ceto medio tradizionale era sottoposto.
Il giovane Pascoli, proveniente dalla piccola borghesia rurale, declassato e impoverito, trasforma l’emarginazione
in rabbia e impulsi ribelli contro la società. Pascoli sentiva su di sé il peso di un'ingiustizia immedicabile, l'uccisione
del padre, lo smembramento della famiglia, i lutti, la povertà: ciò gli sembrava l'effetto di un meccanismo sociale
perverso, contro cui era necessario lottare. Aderì quindi all'Internazionale socialista.
La militanza attiva di Pascoli si scontrò con la repressione poliziesca: a causa di una manifestazione antigovernativa,
arrestato e processato. Quando fu assolto, abbandonò ogni forma di militanza attiva.

FEDE UMANITARIA: Questo distacco non è dovuto solo a motivazioni private, intime e psicologiche, ma anche a una
generale crisi della sinistra. Il 1879, l'anno del processo subito da Pascoli, fu anche l'anno di una svolta del
socialismo romagnolo al marxismo, basato sulla concezione della lotta di classe: rivoluzione proletaria per
sovvertire il sistema capitalistico.
Pascoli, nella sua prospettiva utopica, non poteva accettava conflitti violenti, ma sognava un affratellamento di
tutti gli uomini, di tutte le classi sociali. Il poeta rifiutò la dottrina marxista, trasformando gli ideali socialisti in una
fede umanitaria: il socialismo era un appello alla bontà, all'amore, alla fraternità, alla solidarietà fra gli uomini, cioè
impegno ad alleviare le sofferenze degli infelici e le miserie dei poveri, a diffondere la pace.
Alla base vi era un radicale pessimismo: la convinzione che la vita umana è dolore e sofferenza, sulla terra domina
solo il male. Gli uomini, vittime della loro infelice condizione, devono cessare di farsi del male fra loro, ma amarsi e
soccorrersi a vicenda dinanzi alle dure prove dell'esistenza.
Dal cristianesimo primitivo, ridotto a semplice codice etico, Pascoli trae la concezione del valore morale della
sofferenza, che purifica ed eleva. Dinanzi alle ingiustizie, non bisogna abbandonarsi agli odi, ai rancori e al desiderio
di vendetta, ma bisogna perdonare.

MITIZZAZIONE DEL PICCOLO PROPRIETARIO RURALE: Tali princìpi dovevano valere sia tra gli individui sia tra le classi.
Ogni classe doveva conservare la sua fisionomia, la sua collocazione nella scala sociale, ma doveva collaborare con
tutte le altre, con spirito di solidarietà. È necessario evitare la brama di ascesa sociale, che poteva generare scontri
e sopraffazioni, frustrazione e infelicità, ma per ottenere un'armonia sociale bisogna accontentarsi di ciò che si ha.
Il suo ideale di vita è il piccolo proprietario rurale, che coltiva personalmente la terra e guida con saggezza la sua
famiglia. La proprietà è un valore sacro, la base indispensabile della dignità e della libertà dell'individuo, ma la
felicità è possibile solo nella dimensione del piccolo podere. Pascoli mitizza il mondo dei piccoli proprietari agricoli
come mondo sereno e saggio, che difende i valori fondamentali, la famiglia, la solidarietà, la laboriosità; un mondo
che ormai stava scomparendo a causa dei processi moderni di sviluppo capitalistico.
NAZIONALISMO: La celebrazione del nucleo familiare è cementata dai legami di sangue, dagli affetti, dai dolori e
dai lutti sopportati senso geloso della proprietà del «nido» chiuso ed esclusivo. Si sente partecipe al dramma
dell'emigrazione: l'italiano costretto a lasciare il suolo della patria è come colui che viene strappato dal «nido».
Esistono nazioni capitaliste, ricche e potenti, e nazioni proletarie, povere, deboli, oppresse; come l’Italia, costretta
ad esportare la manodopera, destinata, nei paesi stranieri, ad essere schiavizzata e disprezzata. Le "proletarie”
hanno il diritto di soddisfare i loro bisogni, anche con la forza: Pascoli ammette la legittimità delle guerre condotte
dalle nazioni proletarie per le conquiste coloniali. Non sono guerre di offesa, ma guerre di difesa, sacrosante.
La grande proletaria si è mossa 1911: discorso celebrativo della guerra di Libia come un momento di riscatto
della nazione italiana, che trova in essa la sua coesione spirituale, dando una coscienza nazionale alle sue plebi e
attribuendo loro dignità civile attraverso il possesso della terra.
Pascoli fonde socialismo umanitario e nazionalismo colonialistico.

I TEMI
Pascoli è l'esatto contrario del poeta "maledetto", che rifiuta radicalmente la borghesia e i suoi valori.
Nel suo vissuto, Pascoli incarna l'immagine dell'uomo comune, appagato della sua vita modesta, all'interno della
sfera protettiva degli affetti domestici, degli studi, del lavoro di insegnante, nella pace del «nido» ricostruito entro
le mura della sua casa nella campagna lucchese.
Anche dal punto di vista letterario, Pascoli si presenta come il cantore della realtà comune e dei suoi valori. La sua
poesia è finalizzata alla celebrazione del piccolo proprietario rurale, in nome di intenti pedagogici, morali, sociali.
Poesia pedagogica: invito ad accontentarsi del poco, in nome dell'ideale utopistico di una società in cui ogni ceto
viva entro i propri confini, senza conflitti tra classi sociali, in un clima di cooperazione e di concordia fraterna.
predicazione sociale e umanitaria: il sogno di un'umanità affratellata, che nella solidarietà trovi una consolazione
al male di vivere connaturato con la condizione esistenziale stessa dell'uomo e aggravato dalle situazioni sociali.
Questa predicazione si avvale di miti, impiegati per il loro valore suggestivo:
- il «fanciullino» che è al fondo di ognuno di noi, che rappresenta la nostra parte naturalmente ingenua e buona,
può garantire la fraternità degli uomini, al di là degli odi e dei conflitti violenti di interessi;
- il «nido» familiare caldo e protettivo, in cui i componenti si possono stringere per trovare conforto e riparo
dall'urto di una realtà esterna paurosa e minacciosa.
La tragedia familiare scaturita dall'assassinio del padre è trasformata da Pascoli in una vicenda esemplare, da cui
si può ricavare l'idea del male che serpeggia tra gli uomini, la necessità del perdono e della concordia.

Il poeta ufficiale: Poiché crede nel valore pedagogico della poesia, Pascoli allarga la sua predicazione a temi che
investono l’umanità intera, diventando poeta “vate”, che canta le glorie della patria, che indica gli obiettivi del suo
riscatto nelle guerre coloniali, destinate ad assicurare uno sfogo all'emigrazione ed esalta il compito dell’esercito di
assicurare la coesione nazionale.
Affrontando questi temi, Pascoli interpretava la visione della vita e i sentimenti di larghi strati della popolazione
italiana, instaurando una sintonia con il suo pubblico. È anche il poeta prediletto dalla scuola elementare per la
tenuità dei suoi temi, insistenza su situazioni infantili e il linguaggio semplice. Egli stesso indicava esplicitamente i
fanciulli come suo uditorio ideale.

Le trasformazioni del clima culturale e del gusto hanno portato alla luce un Pascoli inquieto, tormentato, morboso,
che si inserisce nel panorama del contemporaneo Decadentismo europeo.
- rende l’inquietante dimensione del reale caricando gli oggetti più comuni di sensi allusivi e simbolici
- proietta nella poesia le sue ossessioni profonde, portando alla luce le zone oscure della psiche;
- traduce nel simbolo della pianta parassita, il vischio, la consapevolezza della duplicità della psiche, dell'urgere di
forze profonde che possono stravolgere la ragione;
- esprime le sconfitte esistenziali dell'anima moderna, il senso di inadeguatezza della realtà rispetto al sogno, il
fascino dell'irrazionale;
- sente in tutto ciò che lo circonda la presenza della morte e trasfigura il reale in un clima visionario, sospeso tra la
realtà e il sogno;
- trasforma i dati oggettivi, offerti dalle sensazioni, in un gioco di parvenze illusorie;
- disgrega l'ordine del reale, dilatando smisuratamente il minimo particolare, con una fissità allucinata, ma può
egualmente miniaturizzare ciò che è grande.
Il poeta «fanciullino» può essere ritenuto lo scrittore più autenticamente decadente, che dà voce agli smarrimenti
e alle angosce di un periodo di terribili tensioni, che sa scoprire aspetti inediti del reale e un modo nuovo di vederlo
e rappresentarlo.
I due Pascoli sono connessi da legami profondi e necessari: la celebrazione del «nido», delle piccole cose, della
modestia appagante della vita comune, della fraternità umana, è volta a rassicurare dall'urgere di forze minacciose,
che avverte con inquietudine, sgomento e paura.
Il poeta conosce i processi contemporanei della concentrazione monopolistica, i conflitti imperialistici tra le
potenze che minacciano apocalisse bellica, il pericolo dell'instaurarsi di regimi totalitari che renderanno schiava
tutta l'umanità, e ne prova orrore. Chiudersi entro i confini ristretti del «nido», assume il valore di un esorcismo, al
fine di neutralizzare ciò che il poeta avverte oscuramente muoversi al fondo della sua anima. Non sempre la poesia
funge da rimozione: Pascoli scandaglia l’inconscio e lo lascia affiorare con tutta la sua forza dirompente.

LE SOLUZIONI FORMALI
Il modo nuovo di percepire il reale si traduce in soluzioni formali innovative, che aprono la strada alla poesia 900.
SINTASSI: la coordinazione prevale sulla subordinazione, la struttura sintattica si frantuma in serie paratattiche di
brevi frasi allineate senza rapporti gerarchici tra di loro, collegate per asindeto. Le frasi sono ellittiche, mancano
del soggetto o del verbo, o assumono la forma dello stile nominale (successione di semplici sostantivi e aggettivi).
La frantumazione rivela il rifiuto di una sistemazione logica dell'esperienza, il prevalere della sensazione
immediata, dell'intuizione, dei rapporti analogici, allusivi, suggestivi, che indicano una trama di segrete
corrispondenze tra le cose. Svaluta e scompone i rapporti gerarchici abituali, importante e meno importante,
centrale e periferico; per questo, gli oggetti comuni appaiono come immersi in un'atmosfera visionaria
relativismo: no punti di riferimento oggettivi.
LESSICO: non è fissato entro un unico codice (monolinguismo), ma mescola codici diversi, allinea termini tratti dai
settori più disparati. Non nascono tuttavia conflitti di registri: il poeta, come vuole abolire la lotta fra le classi sociali,
così vuole abolire la lotta fra le classi di oggetti e di parole.
>termini aulici, della lingua dotta, ricavati dai modelli classici >termini gergali e dialettali, del linguaggio contadino
>termini botanici ed ornitologici >termini quotidiani del parlato colloquiale >parole provenienti da lingue straniere.
ASPETTI FONICI: espressioni «pregrammaticali» o «cislinguistiche», situate al di sotto del livello strutturato della
lingua e non rimandano ad un significato concettuale, ma imitano direttamente l'oggetto.
Onomatopee, assonanze, allitterazioni: i suoni si caricano di valore simbolico e comunicano arcani messaggi. Le
onomatopee non mirano ad una riproduzione neutra del dato oggettivo, ma mirano a penetrare nella sua essenza
segreta evitando le mediazioni logiche del pensiero e della parola codificata.
Tutti i suoni possiedono un valore fonosimbolico, tendono ad assumere un significato di per sé senza rimandare al
significato della parola. Si crea così una trama di echi e rimandi, che costituisce l’architettura interna del testo in
assenza di quella logico-sintattica.
METRICA: apparentemente tradizionale, impiega versi, rime e strofe più consueti della poesia italiana.
Gioco degli accenti sperimentando cadenze ritmiche inedite. Il verso è frantumato, interrotto da pause; ciò è
accentuato dagli enjambements, che spezzano sintagmi strettamente uniti.
FIGURE RETORICHE: prevalenza del linguaggio analogico, reso da:
- metafora (sostituzione del termine proprio con uno figurato, che ha col primo un rapporto di somiglianza):
l'analogia non presenta somiglianze riconoscibili, ma accosta due realtà tra loro remote, eliminando tutti i passaggi
logici intermedi e identificando immediatamente gli estremi.
- sinestesia: fusione di un tutto indistinto, di diversi ordini di sensazioni; ha un’intensa carica allusiva e suggestiva.
- espressioni in cui avviene uno spostamento tra concreto e astratto: la qualità diviene un sostantivo e il concreto
si trasforma in un aggettivo. Ciò crea un effetto di indefinitezza («nero di nubi»).

MYRICAE è la prima raccolta di poesie, uscita nel 1891 in edizione fuori commercio e contenente 22 poesie dedicate
alle nozze di amici. Si ampliò fino alla quinta edizione del 1900 con un totale di 156 componimenti.
Il titolo è una citazione virgiliana, tratta dall'inizio della IV Bucolica, in cui il poeta latino proclama l'intenzione di
innalzare il tono del suo canto, poiché «non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici». Al contrario, Pascoli
assume le umili piante come simbolo delle piccole cose che pone al centro della poesia, secondo la sua poetica.
Sono componimenti molto brevi, all'apparenza si presentano come quadretti di vita campestre, ritratti con un
gusto impressionistico, con rapide notazioni che colgono un particolare (colore, suono). In realtà i particolari non
sono dati oggettivi, ma si caricano di sensi misteriosi e suggestivi, alludono ad una realtà ignota e inafferrabile che
si colloca al di là di esse.
Spesso queste realtà evocano l'idea della morte: uno dei temi principali è il ritorno dei morti familiari, che
riallacciano i legami spezzati dall'uccisione del padre  visione del reale influenzata dalla tragedia familiare.
X AGOSTO
Pascoli rievoca la propria tragedia personale, l’uccisione del padre avvenuta il 10 agosto del 1867, il giorno di San
Lorenzo, il giorno delle stelle cadenti (le lacrime del cielo), il cielo piange per la morte di suo padre.
La poesia è un discorso ideologicamente strutturato, in cui il poeta, prendendo le mosse dalla propria tragedia
familiare, affronta i temi metafisici del male e del dolore, del rapporto tra la dimensione terrena e il trascendente.
La struttura è data da geometriche simmetrie: la prima strofa corrisponde all'ultima, proponendo il motivo del
pianto del cielo che guarda da un'infinita lontananza il male della terra; il gruppo delle strofe 2 e 3 risponde al
gruppo della 4 e 5. Evidenti sono anche le rispondenze a livello microstrutturale (ritornava una rondine-anche un
uomo tornava, ora è là…).
Gli spini tra cui cade la rondine ricordano la corona di spine della passione di Cristo, ed è confermato dall'immagine
della croce: la rondine uccisa diviene il simbolo di tutti gli innocenti perseguitati dalla malvagità degli uomini e
allude alla figura della vittima per eccellenza, Cristo. Anche il padre che, morendo, perdona i suoi uccisori ricorda
Cristo in croce che perdona i suoi persecutori.
Non si tratta però di una segreta trama di rispondenze simboliche, ma è una trama costruita tutta dall'esterno con
scopi predicatori, di ammonimento, di edificazione, di persuasione.
In obbedienza al vago spiritualismo proprio dell'anima decadente, delusa dal fallimento della scienza positivistica,
che è incapace di risolvere i problemi dell'esistenza, Pascoli imposta il problema del male in chiave metafisica e
religiosa: ogni vittima innocente che soffre è immagine di Cristo, e il cielo piange sull' «atomo opaco del Male».
Il poeta non approda a una religione positiva, ma decadente: il sacrificio delle vittime innocenti non ha il significato
del sacrificio di Cristo, che annuncia la salvezza. Così il pianto del cielo non implica una prospettiva di riscatto, di
purificazione: il cielo appare impotente a riscattare tanto male e si limita ad uno sterile compianto. Il cielo è
inaccessibile; tra la dimensione terrena e quella trascendente non vi è comunicazione.
Tema del nido: l'analogia tra rondine e uomo non è solo nel loro sacrificio, ma anche nel fatto che essi vengono
esclusi dal nido. Esso coincide con la famiglia, che protegge l’individuo dal mondo esterno pieno di insidie,
escludendolo dalla vita sociale e vincolandolo solo ad una fedeltà ossessiva ai morti.

NOVEMBRE
Apparentemente sembra un quadretto di natura, impressionistico e naturalistico, colto con notazioni sensuali,
visive e olfattive, e con immagini nitide e vivide. Ma in realtà il paesaggio primaverile si colloca in un’altra
dimensione rispetto a quella effettuale: il reale non è ciò che appare, è labile e sfuggente, la primavera è illusoria;
gli albicocchi in fiore, il profumo dei biancospini non sono percepiti coi sensi, ma creati dall'immaginazione.
Apparentemente in contrasto con il carattere illusionistico è la precisione della nomenclatura botanica: il poeta
non parla genericamente di alberi, ma di «albicocchi» e di «prunalbo». Il nome preciso è la formula magica che
permette di andare oltre la superficie degli oggetti, di cogliere l'essenza primigenia e intatta delle cose.
 poesia come illuminazione e rivelazione.
Nella 2^strofa all'illusoria primavera subentra la reale stagione autunnale. I particolari visivi corrispondono a quelli
creati dall'immaginazione, ma sono rovesciati: il pruno non emana profumo ma è secco, le piante sono spoglie.
Tornano immagini fortemente visive: questo quadro di natura, che dovrebbe restituire il vero volto della realtà
contro l'illusione, non è realistico; anche qui si sovrappone un'altra dimensione: l'immagine simbolica della morte.
Alla morte alludono i rami stecchiti come scheletri e il nero delle loro trame, che nega l'azzurro del cielo sereno,
simbolo di vita, il cielo vuoto di uccelli, il terreno sterile, il silenzio, il rumore delle foglie secche che cadono.

Le scelte linguistiche giocano su segrete suggestioni:


- il «cader fragile» delle foglie: ipallage e sinestesia (sensazione tattile si fonde con una sensazione uditiva).
- «È l'estate, fredda, dei morti»: ossimoro, allude al nucleo profondo della poesia, l'apparenza di vita della natura
che cela la presenza della morte. Per questo è posta in chiusura, in contrapposizione alle immagini vitali all’inizio.
Novembre dimostra che la poesia apparentemente semplice cela un sistema complesso di significati e rivela una
visione del mondo angosciata. L’«oscuro tumulto della nostra anima» prende il sopravvento sulla visione fresca e
ingenua del «fanciullino».
La sintassi è frantumata da continue ellissi dei verbi copulativi e l'uso dello stile nominale. Il ritmo è continuamente
spezzato da pause, segnate da una fitta interpunzione. Questa frantumazione, impedendo la facile scorrevolezza
del discorso, dà un senso di fatica angosciata e rende la tormentata anima pascoliana.
L'ASSIUOLO
L'assiuolo è un piccolo uccello rapace notturno, simile al gufo. Emette un verso monotono e malinconico, che
sembra un lamento e che Pascoli rende con l'onomatopeico chiù.
La poesia esteriormente è la descrizione di un notturno lunare, reso attraverso una serie di sensazioni visive e
uditive, ma il quadro apparentemente impressionistico rivela significati suggestivi, legati da una trama segreta.
Le 3 strofe si strutturano secondo un analogo schema: la prima quartina propone immagini quiete, serene e di
pace, mentre la seconda immagini inquietanti: un'atmosfera iniziale incantata si converte in un motivo di angoscia,
dolore e morte, che si materializza nel verso lugubre dell'assiuolo.
1^ strofa: All'inizio viene colto il momento fuggevole in cui sta per sorgere la luna: il cielo è invaso da un chiarore
perlaceo, ma l'astro non è ancora apparso da dietro l'orizzonte. La natura è protesa nell'attesa della sua comparsa
(il mandorlo e il melo si ergono per meglio vederla), come dinanzi ad un'apparizione divina, che sembra possedere
una magica funzione rasserenante e purificatrice, a cui allude sia la nota di bianco sia l'idea di nascita, che è
implicita nella metafora dell'alba.
In contrasto, nella seconda parte si delinea un'immagine inquietante, di vaga minaccia: il «nero» delle nubi, che si
profilano in una lontananza remota e indeterminata, si contrappone al biancore perlaceo dell'alba lunare; da esse
scaturiscono silenziosi lampi di calore, evocati con la sinestesia «soffi di lampi», per cui l'impressione visiva di luce
è assimilata a quella tattile del soffio.
Il negativo implicito nelle notazioni visive si precisa nel verso dell'assiuolo che viene da uno spazio indefinito nella
notte. La voce degli uccelli ha valore di un messaggio oracolare, pieno di sensi simbolici: il canto dell'assiuolo, col
suo tono malinconico e misterioso, ha qualcosa di lugubre e funebre.
2^ strofa: all'inizio si ripresentano immagini quiete e serene, le stelle che brillano nel chiarore diffuso e lattiginoso
(ribadita la nota di bianco, con lo stesso valore simbolico), il rumore del mare che si associa a immagini consolanti
(la metafora del «cullare» rievoca sensazioni di abbandono infantile alla dolcezza materna). Il rumore indistinto che
proviene dalle fratte segna il passaggio al clima della seconda quartina: al guizzo dell'imprecisato essere tra la
vegetazione risponde il «sussulto» nel cuore del poeta al sorgere di un'eco di dolore, ridestato dai rumori notturni.
Il «grido» che risuona nell'interiorità dell'io lirico è ripreso dal verso dell'assiuolo: quella che era semplicemente la
«voce» dell'uccello suona come un «singulto».
3^strofa: all'inizio ritorna l'immagine della luce lunare, che colpisce le cime degli alberi, ma subito si inseriscono
notazioni più negative: il «sospiro» del vento che trema, il suono finissimo delle cavallette. Il suono ambiguo delle
«invisibili porte» allude simbolicamente a quelle della morte.
I «sistri» erano strumenti sacri alla dea egiziana Iside, il cui culto prometteva la risurrezione dopo la morte. Ma se
per il poeta le porte della morte non si aprono più, si comprende l’angoscia della morte che non consente la
rinascita della vita, non permette il ritorno dei cari scomparsi. In chiusura appare il verso dell'assiuolo che si
concreta in un «pianto di morte».
L'atmosfera inquietante che pervade tutto il componimento assume nella conclusione una fisionomia più precisa:
evocato dai rumori misteriosi della notte e dal grido lontano dell'assiuolo, riaffiora alla memoria del poeta la sua
tragedia personale, l'idea dei cari morti che non possono più tornare, della morte che incombe anche su di lui.

L'atmosfera indefinita e magica si riflette in espressioni analogiche: la cancellazione dei passaggi logico-discorsivi
accresce la forza suggestiva, che sembra alludere a segreti legami tra le cose, inattingibili attraverso la ragione.
Il sintagma «nero di nubi»: l'uso del sostantivo astratto accresce l’indefinitezza, l’inquietudine dell’immagine
rispetto al concreto «nubi nere», così anche l'indicazione di indeterminata lontananza spaziale «laggiù».
Simbolismo fonico: allitterazione «fru fru tra le fratte» con valore onomatopeico, accresce il carattere misterioso
e inquietante dell'immagine indeterminata. L’insistenza sulle vocali i rende fonicamente l'impressione del verso
delle cavallette (finissimi sistri – tintinni – invisibili).
La poesia è un affollarsi di sensazioni, è resa attraverso una struttura verbale anaforica (verbi collocati all’inizio del
verso) e dalla paratassi. Il reale si frantuma in impressioni isolate, e il legame che le unisce è analogico.
I CANTI DI CASTELVECCHIO (1903) sono definiti dal poeta stesso nella prefazione «myricae», quindi si propongono
intenzionalmente di continuare la linea della prima raccolta. Ritornano immagini della vita di campagna e
ricompare la lirica.
I componimenti si susseguono secondo un disegno segreto, che allude al succedersi delle stagioni: l'immutabile
ciclo naturale si presenta come un rifugio rassicurante e consolante dal dolore e dall'angoscia dell'esistenza storica
e sociale. Infatti, ricorre con frequenza ossessiva il motivo della tragedia familiare e dei cari morti, che si stringono
intorno al poeta a rinsaldare quel vincolo di sangue e d'affetti che la brutale violenza degli uomini ha spezzato. Vi è
anche il rimando continuo del nuovo paesaggio di Castelvecchio a quello antico dell'infanzia in Romagna, quasi ad
istituire un legame ideale tra il nuovo «nido» costruito dal poeta e quello spazzato via dalla tragedia.
Emergono temi inquieti e morbosi, che danno corpo alle segrete ossessioni del poeta:
- l'eros, per il fanciullino il rapporto adulto è qualcosa di ignoto, affascinante e ripugnante insieme;
- la morte, un rifugio in cui sprofondare, come in una regressione nel grembo materno.
Dalle piccole cose della realtà umile lo sguardo si allarga poi agli infiniti spazi cosmici, ad immaginare apocalissi
future che distruggeranno la vita dell'universo.

IL GELSOMINO NOTTURNO
A una prima lettura la poesia appare costituita da una serie di notazioni impressionistiche prive di alcun legame,
ma che imprimono solo una suggestiva atmosfera notturna.
Dedicata alle nozze dell’amico Gabriele Briganti, la poesia evoca la prima notte di nozze, in cui è stato concepito il
piccolo Dante (poeta) Gabriele (angelo) Giovanni (santo). Emergono immagini suggestive del rito di fecondazione
che si svolge nella casa nuziale e da cui deve nascere la nuova vita.
Immagine del fiore: per tutta la notte esala il suo profumo penetrante ed inebriante; il fiore si schiude per il
processo di fecondazione, quindi l'immagine vegetale allude a un rito umano.
invito all'amore, la forte carica sensuale è data dall'insistere sulle sensazioni olfattive e cromatiche: il rosso allude
alla sensualità, si fonde per sinestesia con il profumo delle fragole.
Il vagheggiamento del rito amoroso è però turbato: Pascoli concepisce il rapporto sessuale come violenza inferta
alla carne. La contemplazione del rito avviene da parte di chi ne è escluso. Il punto di osservazione si colloca
all'esterno della casa, una distanza incolmabile separa l'osservatore dall'oggetto (ripetizione insistita di «là»).
Il poeta vuole celebrare la fecondazione, ma sa che non può personalmente avere il suo «nido», cioè non può
essere il sereno e appagato padre di famiglia. L’«ape tardiva», rimasta esclusa dall'alveare, si aggira nella solitudine.
Immagine della morte: la tragedia familiare che ha distrutto il «nido» ha bloccato il poeta alla condizione
psicologica infantile, lo ha tenuto prigioniero. Il legame adulto e maturo col mondo esterno si contrappone con il
legame ossessivo con i morti, che continuano a vivere come fantasmi coi superstiti nel «nido».
La fedeltà ai morti, all'impegno di ricreare il «nido» originario andato distrutto, gli impedisce di uscire da quel
cerchio chiuso, geloso, protettivo ma anche soffocante, e di rispondere al richiamo dell'amore: quando i «fiori
notturni» si aprono in un invito sensuale, egli pensa ai suoi «cari».
Immagini del nido: riproducono l'immagine chiusa, gelosa, rassicurante del «nido» originario, andato perduto e che
deve essere ricostituito dai superstiti, in cui vi sono solo i rapporti affettivi tra genitori e figli.
contrapposizione tra il «nido» e la casa in cui avviene il rito d'amore.
Sistema delle opposizioni strutturali che legano i quattro nuclei tematici della poesia:
> fiori: si aprono in un'offerta d'amore VS la presenza inibitrice dei morti;
> casa: rito della fecondazione VS nido: esclude dalla vita adulta di relazione, regressione infantile.
GABRIELE D’ANNUNZIO
Secondo i principi dell'estetismo bisognava fare della vita un'«opera d'arte», e d'Annunzio fu costantemente teso al
conseguimento di questo obiettivo.
Nato nel 1863 a Pescara da famiglia borghese, studia in una scuola aristocratica, il collegio Cicognini di Prato. Nel 1879
esordisce con un libretto di versi, Primo vere, ottenendo successo e l’attenzione di letterati di fama. Finito il liceo, si
trasferisce a Roma per frequentare l’università, ma abbandona gli studi, preferendo vivere tra salotti mondani e
redazioni di giornali. Per alcuni anni fa il giornalista, collaborando a vari giornali, soprattutto "La Tribuna" di Roma,
con articoli di cronaca, letteratura, arte, costume. Si trasferisce a Napoli per sfuggire ai creditori, e scrive sul "Mattino".
Acquisisce notorietà in campo letterario, sia attraverso la produzione di opere che suscitavano scandalo per i
contenuti erotici, sia attraverso una vita altrettanto scandalosa, secondo i principi dell’estetismo: D'Annunzio si crea
la maschera dell'esteta, dell'individuo superiore, che rifiuta inorridito la mediocrità borghese, rifugiandosi in un
mondo di pura arte, e che disprezza la morale corrente.
Questa fase estetizzante giunge ad una crisi negli anni 90, riflettendosi anche nella produzione letteraria: lo scrittore
cerca nuove soluzioni e le trova in un nuovo mito, quello del superuomo, ispirato alle teorie del filosofo tedesco
Nietzsche, un mito non più soltanto di bellezza, ma di energia eroica, attivistica. Il superuomo resta un
vagheggiamento fantastico, di cui si nutre la sua produzione poetica e narrativa.
D'Annunzio punta a creare l'immagine di una vita eccezionale sottratta alle norme del vivere comune. Colpisce la sua
villa della Capponeina, a Settignano sui colli di Fiesole, dove conduce una vita da principe rinascimentale, tra oggetti
d'arte, stoffe preziose, cavalli e levrieri di razza. A rafforzare l’idea di mito contribuiscono anche i suoi amori, specie
quello tormentato con l’attrice Eleonora Duse.
Il disprezzo per la vita comune e la ricerca di una vita d'eccezione è legato alle esigenze del sistema economico del
tempo: con le sue esibizioni clamorose ed i suoi scandali lo scrittore vuole mettersi in primo piano nell'attenzione
pubblica, per vendere meglio la sua immagine e i suoi prodotti letterari. Gli editori lo pagano, ma non a sufficienza per
la sua vita lussuosa. Quindi, paradossalmente, il culto della bellezza e del superuomo risultano finalizzati al loro
contrario, a ciò che d'Annunzio disprezza, il denaro e le esigenze del mercato, nonché le leggi del mondo borghese;
nonostante spregia la massa, è costretto a lusingarla.
In obbedienza all’immagine mitica che voleva creare di sé, d'Annunzio non si accontenta dell'eccezionalità di un vivere
puramente estetico, ma vagheggia anche sogni di attivismo politico. Nel 1897, entra in parlamento come deputato
dell'estrema destra, in coerenza con le idee antidemocratiche, antiugualitarie e antiparlamentari: il suo sogno è la
restaurazione della grandezza dell’Impero Romano, del dominio dell’aristocrazia che ripristini il valore della bellezza
contaminato dal dominio borghese. Nel 1900 passa allo schieramento di sinistra con le sue manifestazioni di forza ed
energia vitale, secondo le sue posizioni irrazionalistiche, estetizzanti e vitalistiche.
Cerca uno strumento con cui agire direttamente sulle folle per imporre il suo verbo vate: d'Annunzio rappresenta la
Città morta in teatro, raggiungendo un pubblico più vasto che con i libri. Compie azioni dimostrative per acquisire
fama, per promuovere la propria immagine utilizza anche la pubblicità.
Nel 1910 d'Annunzio, a causa dei creditori inferociti, è costretto a fuggire dall'Italia e andare in esilio in Francia, dove
si adatta al nuovo ambiente letterario, scrivendo opere teatrali in francese, senza interrompere i legami con la patria
"ingrata" che lo aveva respinto.
L'occasione per l'azione eroica è offerta dalla Prima guerra mondiale: allo scoppio del conflitto d'Annunzio torna in
Italia ed inizia una campagna interventista, che contribuisce a spingere l'Italia in guerra, stimolando l'opinione
pubblica. Arruolatosi volontario, attira su di sé l'attenzione con imprese clamorose: la "beffa di Buccari"
(un'incursione nel golfo del Carnaro con una flotta di motosiluranti), il volo su Vienna (lancia sulla città volantini
tricolore, in cui elogia l’Italia ed esorta gli Austriaci, alleati con i tedeschi, ad entrare nell’Intesa).
Nel dopoguerra d'Annunzio si fa portavoce dei rancori per la «vittoria mutilata», capeggiando una marcia di volontari
su Fiume, dove instaura un dominio personale sfidando lo Stato italiano. Cacciato con le armi nel 1920, spera di porsi
come «duce» di una rivoluzione reazionaria, che riporti ordine nel caos sociale del dopoguerra, ma viene scalzato da
Mussolini. Per le posizioni dovrebbe andare d’accordo con Mussolini, ma poiché esercitano la stessa forza e
persuasione nei confronti delle masse, sono in contrasto.
Il fascismo lo esalta come padre della patria, ma lo guarda anche con sospetto, e per far sì che non offuschi la sua
figura, Mussolini lo confina in una villa di Gardone, che d'Annunzio trasforma in un mausoleo eretto a se stesso ancora
vivente, il «Vittoriale degli Italiani». Quando invita il duce nella sua villa, lo fa passare attraverso una porta bassa,
costringendolo a inchinarsi dinanzi all’arte. Qui trascorre lunghi anni, ossessionato dalla decadenza fisica, pubblicando
alcune opere di memoria, e muore nel 1938.
D'Annunzio influenzò profondamente la cultura italiana: sulla politica, poiché elaborò ideologie, atteggiamenti, slogan
che divennero parte del fascismo; sul costume, dando vita al dannunzianesimo, il modello di comportamento di intere
generazioni borghesi; sulla cultura di massa, le opere di consumo traducevano le atmosfere estetizzanti e rarefatte
ad uso di lettori di mediocre cultura; sul cinema, che ai suoi esordi fu dannunziano.
FASE DELL’ESTETISMO
La produzione in versi degli anni 80 rivela l'influenza profonda dei poeti decadenti francesi ed inglesi.
L'estetismo dannunziano si esprime nella formula «il Verso è tutto». L'arte è il valore supremo, e ad essa devono
essere subordinati tutti gli altri valori. La vita si sottrae alle leggi del bene e del male e si sottopone solo alla legge
del bello, trasformandosi in opera d'arte.
Sul piano letterario, tutto ciò dà origine al culto religioso dell'arte e della bellezza, ad una ricerca di eleganza e
artifici formali. La poesia non nasce dall'esperienza vissuta, ma da altra letteratura. Infatti, i versi dannunziani sono
fitti di echi letterari, che provengono dai poeti classici, da quelli della tradizione italiana, dai contemporanei francesi
ed inglesi. Come lo scrittore afferma dell'eroe del Piacere, anch'egli ha bisogno «d'una intonazione musicale datagli
da un altro poeta» per incominciare a comporre.
La figura dell'esteta, che si isola dalla realtà meschina della società borghese contemporanea in un mondo di pura
arte e bellezza, e la cui maschera d'Annunzio indossa nella vita e nella produzione letteraria, è connessa ai processi
sociali nell'Italia postunitaria, che in conseguenza dello sviluppo capitalistico, tendevano a declassare e ad
emarginare l'artista, togliendogli quella posizione privilegiata e di grande prestigio di cui godeva, oppure lo
costringevano a subordinarsi alle esigenze della produzione e del mercato.
Il giovane d'Annunzio, proveniente dal ceto medio della provincia abruzzese, inserendosi negli ambienti intellettuali
della metropoli non si rassegna ad essere schiacciato da quei processi: vuole il successo e la fama, vuole condurre
la vita di lusso aristocratico dei ceti privilegiati. Il personaggio dell'esteta nell'opera letteraria è una forma di
risarcimento immaginario da una condizione reale di degradazione dell'artista.
Però d'Annunzio non si accontenta di sognare, rifugiandosi nella letteratura, ma vuole vivere quel personaggio
anche nella realtà. Perciò produce libri di successo e utilizza economicamente la pubblicità che gli deriva dalle sue
pose, scandali, amori eleganti, duelli, lusso sfrenato. Sfruttando abilmente i meccanismi della produzione
capitalistica, propone un'immagine nuova di intellettuale, che si pone fuori della società borghese, e fa rivivere la
condizione di privilegio dell'artista nelle epoche passate.

LA CRISI DELL’ESTETISMO
D'Annunzio si rende conto della debolezza dell’esteta: non ha la forza di opporsi alla borghesia in ascesa, che si
avvia all’industrialismo, capitalismo monopolistico, imperialismo colonialista e militarista. L’isolamento dell’esteta
diviene sterilità ed impotenza, il culto della bellezza si trasforma in menzogna, ritirandosi dalla società non può
avere influenza su di essa. La fase dell'estetismo entra in crisi.
Il suo primo romanzo, Il piacere (1889), in cui vi confluisce tutta l'esperienza mondana e letteraria da lui vissuta
sino a quel momento, ne è la testimonianza più esplicita. Al centro del romanzo si pone la figura di un esteta, Andrea
Sperelli, alter ego di d'Annunzio stesso, su cui l'autore proietta la sua crisi e insoddisfazione.
Andrea è un giovane aristocratico, artista proveniente da una famiglia di artisti, «tutto impregnato di arte». Il
principio «fare la propria vita un'opera d'arte», in un uomo dalla debole volontà, diviene una forza distruttrice, che
lo priva di ogni energia morale e creativa.
La crisi emerge nel rapporto con la donna. L'eroe è diviso tra due immagini femminili: Elena Muti, la donna fatale,
che incarna l'erotismo lussurioso, e Maria Ferres, la donna pura, che rappresenta l'occasione di un riscatto e di una
elevazione spirituale. Andrea mente a se stesso: sceglie la donna angelo, oggetto di un gioco erotico più sottile e
perverso, che funge da sostituta a Elena, che lui continua a desiderare invano. Andrea finisce per tradire la sua
menzogna con Maria (chiamandola per sbaglio Elena) e viene abbandonato, restando solo.
Il romanzo è caratterizzato da ambiguità: Elena ritorna da lui e gli chiede di rivederlo, anche se lei ormai è sposata.
L’impianto narrativo riprende il realismo ottocentesco e il Verismo: emergono le ambizioni a costruire un quadro
sociale popolato di figure tipiche di aristocratici oziosi e corrotti.
Influenzato dal Naturalismo francese, d'Annunzio mira soprattutto a creare un romanzo psicologico, in cui, più che
gli eventi esteriori dell'intreccio, contano i processi interiori del personaggio.
Compare anche la tendenza decadentista di costruire al di sotto dei fatti concreti una sottile trama di allusioni
simboliche.
Un ritratto allo specchio
Elena, la donna amata dall'eroe tronca all'improvviso la relazione e scompare. Quando ritorna, Andrea apprende
che, per evitare il disastro economico, ha dovuto sposare un ricco inglese, Lord Heathfield, individuo vizioso e
ripugnante. Andrea è disgustato nello scoprire che «una passione altissima veniva interrotta da un affar di denaro»,
ed è assalito dall'orrore al pensiero che Elena sia toccata dalle mani immonde del marito.
Tenta di comprendere il comportamento della donna attraverso le sue facoltà analitiche; nel tracciare un ritratto
crudele di Elena, ne costruisce uno altrettanto impietoso di se stesso.
I primi paragrafi presentano un discorso interiore del personaggio, in forma indiretta libera. Poi interviene il
narratore che pronuncia espliciti giudizi sul personaggio. Il narratore non lascia interamente la parola ad Andrea
Sperelli, ma introduce la sua prospettiva per prendere da lui le distanze. Si manifesta l'atteggiamento critico
dell'autore verso il suo eroe che è la struttura portante di tutto il romanzo. Anche Andrea è critico verso se stesso
e vede con spietata lucidità dentro il proprio animo, attraverso un’analisi corrosiva.
Nei primi due libri del romanzo l'eroe è costantemente presentato nell'atto di sovrapporre alla vita le sue
costruzioni estetiche: ogni cosa, passando attraverso i suoi occhi, richiama particolari di opere d'arte famose.
Andrea mette a nudo la menzogna che si cela dietro alla sua maschera esteta: anche in lui, come in Elena, le
«fiamme eteree» mascherano «bisogni erotici» della carne, gli impulsi sensuali momento di massima
consapevolezza dell'eroe (e dell’autore stesso).
L'immagine dell'esteta entri in crisi, e d'Annunzio, inquieto e insoddisfatto, ne vuole prendere le distanze,
denunciandone gli inganni e le intime debolezze. L'estetismo però esercita ancora un forte fascino sullo scrittore,
per cui alla durezza della critica si mescola un ambiguo vagheggiamento dell'eroe.

LE VERGINI DELLE ROCCE è un romanzo che segna una svolta ideologica radicale: D'Annunzio non vuole più
proporre un personaggio debole, tormentato, incerto, ma un eroe forte e sicuro, che va senza esitazioni verso la
sua meta. È stato definito «il manifesto politico del Superuomo», contiene l'esposizione più compiuta delle nuove
sue teorie aristocratiche, reazionarie e imperialistiche.
L'eroe, Claudio Cantelmo, sdegnoso della realtà borghese contemporanea, del liberalismo politico e dell'affarismo
dell'Italia postunitaria, vuole portare a compimento in sé «l'ideal tipo latino» e generare il superuomo, il futuro re
di Roma che guiderà l'Italia a destini imperiali.
Nonostante l'affermata sicurezza, si colgono nell'eroe segrete perplessità e ambiguità: le tematiche angosciose (la
decadenza, la «putredine», la morte) sono rovesciate in positivo, assumendo la funzione opposta, ovvero di
stimolare l’affermazione della vita e l’azione eroica. Cantelmo ha raggiunto tale maturità e pienezza che non deve
più temere le forze disgregatrici; anzi, esse possono alimentare i suoi grandi disegni.
Per questo l'eroe va a cercare la donna con cui generare il futuro superuomo in una famiglia della nobiltà
borbonica, in piena decadenza, che vive isolata in una antica villa, nel culto ossessivo del passato, devastata dalla
malattia e dalla follia. L'eroe deve scegliere fra le tre figlie del principe Montaga; ma questa scelta è ambigua: dietro
i propositi vitalistici, eroici, trionfali pare celare una segreta attrazione per la «putredine», la decadenza e la
morte. Il vitalismo esasperato, l'attivismo eroico sembrano essere tentativi per esorcizzare l'immagine della morte
che ossessiona e affascina lo scrittore. L'eroe scende in questo inferno della decadenza, spirituale e fisica, sicuro di
trarne vigore per la sua impresa, e invece finisce per restarne prigioniero. Ciò è rivelato dall'allusiva conclusione
del romanzo. L'eroe sceglie come compagna Anatolia, colei che ha la maestà e la forza interiore di una regina; ma
lei non può seguire l'eroe nel suo cammino di gloria, perché è legata alla famiglia, deve accudire la madre demente,
i fratelli deboli e malati e il vecchio padre. L'eroe soggiace quindi al fascino della bellezza di Violante, colei che si
sta uccidendo lentamente coi profumi, incarnazione della cupa donna fatale, immagine di un Eros perverso,
distruttivo, un'immagine di morte.

Nonostante le loro velleità attivistiche ed eroiche, i protagonisti dannunziani restano sempre deboli e sconfitti,
incapaci di tradurre le loro aspirazioni in azione. La decadenza, il disfacimento, la morte esercitano sempre su di
essi un'irresistibile attrazione.
Le vergini delle rocce doveva essere il primo romanzo di un ciclo «del giglio» e nei due romanzi successivi l'eroe
avrebbe dovuto raggiungere le sue mete, ma non furono mai scritti.
SOLUZIONI FORMALI
I romanzi, nelle loro forme narrative, si allontanano sempre più dal modello naturalistico, ancora presente nel
Piacere, e si avvicinano al romanzo psicologico, incentrandosi sulla visione soggettiva del protagonista,
sull'esplorazione della sua coscienza travagliata. L'intreccio dei fatti si fa scarno, sostituito dalla dinamica dei
processi interiori.
Tale impostazione narrativa è imposta dalla fisionomia dell'eroe dannunziano (inetto, malato, intimamente
corroso nelle sue forze vitali), che rifiuta il mondo sociale e si chiude gelosamente nel suo io: è inevitabile che la
vicenda si svolga tutta nella sua mente e che la realtà esterna non sia più oggetto di rappresentazione diretta.
Il racconto è percorso da una fitta trama di immagini simboliche: nelle vergini delle rocce si alternano parti oratorie
a parti giocate sul simbolismo, attraverso cui la narrazione si sfuma in un clima mitico e favoloso, lontano da ogni
riferimento realistico.

Il programma politico del superuomo


Nelle Vergini delle rocce la voce narrante è quella del protagonista stesso, Claudio Cantelmo. Il libro I ha un taglio
oratorio, che rivela l’intenzione di modellare con la parola la realtà oggettiva. Il linguaggio è aulico, pieno di
riferimenti eruditi, di allusioni ardue, ricco di metafore e paragoni, sarcasmo, interrogazioni retoriche, esclamazioni,
apostrofi dirette. Questa "orazione" del protagonista-narratore mira a proporre un programma politico.
Cantelmo è un esteta, ma anche un uomo d'azione (la figura del superuomo ingloba quella dell’esteta): l'artista
non deve più isolarsi dal mondo nel culto dell'arte e nella contemplazione, ma deve gettarsi nella lotta, finalizzando
la sua elevazione spirituale alla trasformazione della realtà, modellandola sul suo ideale di bellezza e di forza.
Nell’orazione è delineato il quadro entro cui dovrà esercitarsi la nuova azione dell'intellettuale-superuomo.
La proposizione del programma è preceduta da una parte polemica, in cui Cantelmo dipinge, con violento sarcasmo,
la realtà sociale a cui intende opporsi con la sua azione: la realtà borghese contemporanea caratterizzata dallo
spirito affaristico e speculativo, dall'ossessione del denaro. Cantelmo vagheggia una società gerarchica e
autoritaria, che sappia stroncare anche con la violenza l'«arroganza delle plebi», instaurando un ferreo dominio di
classe. Respinge i principi egualitari che avevano guidato la borghesia dalla Rivoluzione francese in poi, in quanto
minacciano di appiattire l'umanità in una meccanica uniformità, quindi rivendica il privilegio dei pochi eletti:
proclama che l'aristocrazia deve riconquistare il suo antico predominio sulla società intera; ne ha diritto per virtù
di sangue, ha ereditato dagli avi ciò che la borghesia non potrà mai avere, il gusto della bellezza e la forza feroce.
Lo Stato deve favorire l'elevazione di una classe privilegiata verso una superiore forma di esistenza e, quindi,
degradare i «plebei» nella loro naturale condizione di schiavi. Il dominio dell'élite privilegiata è finalizzato ad una
politica aggressiva verso l'esterno: bisogna ridare a Roma una potenza imperiale, che la porti a dominare il mondo
(imperialismo coloniale).
Il compito degli intellettuali: devono contribuire all'instaurarsi di questo nuovo quadro politico. I poeti non devono
limitarsi al rimpianto sterile del passato, come regno di una bellezza definitivamente tramontata, ma devono agire
in difesa della bellezza contro la meschinità del mondo moderno: la parola poetica deve essere usata come un'arma
per distruggere la società borghese, per creare un mondo in cui la bellezza possa di nuovo vivere nella realtà.
Cantelmo si rende conto del fatto che il giorno del riscatto è ancora lontano. Nell'attesa, si propone un triplice
compito: perfezionare in sé i caratteri della stirpe latina; incarnare la sua visione del mondo in una perfetta opera
d'arte; trasmettere le ricchezze ideali della stirpe in un figlio. Questi sarà il superuomo, in cui la stirpe latina
toccherà il culmine della sua elevazione, e il nuovo «Re di Roma».
Questo progetto è il prodotto sia dell'immaginazione malata di un paranoide, sia del contesto sociale e culturale:
in Italia esplosero conflitti sociali che trovavano un'espressione nel Partito Socialista, repressi con violenza dal
governo; così gli ambienti più reazionari maturavano l'idea di un colpo di Stato per eliminare le libertà politiche e
civili ed imporre un governo autoritario.
Erano gli anni dell'imperialismo trionfante, le grandi potenze conducevano una politica colonialista aggressiva
(anche l'Italia, pur essendo uno Stato di recente formazione, arretrato, povero e debole). Il sogno imperiale
compensava le frustrazioni di un ceto medio deluso dall'Unità, stanco di una realtà chiusa, immobile, non segnata
dalla dinamicità del capitalismo dei paesi stranieri, che offriva immense possibilità all'iniziativa individuale e alla
promozione sociale. D'Annunzio si rivolge a questo pubblico, fornendo non solo evasioni estetizzanti, ma anche
sogni politici imperiali, eroici, aristocratici.
LE LAUDI
L'approdo all'ideologia superomistica coincide con la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni letterarie, che
siano commisurate al compito di diffondere il verbo del "vate". D'Annunzio disegna cicli di romanzi (della «rosa»,
del «giglio», del «melograno»), che spesso non porta a termine; affronta la produzione drammatica; nel campo
della lirica vuole affidare la summa della sua visione a 7 libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: un
progetto di celebrazione totale del reale. 1903 pubblicati i primi 3: Maia, Elettra, Alcyone. Il quarto libro, Merope,
viene messo insieme nel 1912, raccogliendo le Canzoni delle gesta d'oltremare, dedicate all'impresa coloniale in
Libia. Il quinto libro, Asterope, comprende le poesie ispirate alla Prima guerra mondiale. Gli ultimi due libri, pur
annunciati, non vennero mai scritti.

MAIA è un lungo poema unitario di oltre 8mila versi. L'opera presenta una novità formale: d'Annunzio non segue
più gli schemi della metrica tradizionale, ma adotta il verso libero: si susseguono senza ordine preciso vari tipi di
versi con rime ricorrenti senza schema fisso. Il fluire libero e concitato del verso risponde al carattere intrinseco del
poema, che si presenta come carme profetico, pervaso di slancio dionisiaco e vitalistico (il sottotitolo è "Lode della
vita"). L'intento è quello del poema totale, che soddisfi la sua ambizione panica a raccogliere tutte le infinite forme
della vita e del mondo (pân in greco significa "tutto"', nome di una divinità agreste, in cui si incarnava la potenza
della natura).
Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da d'Annunzio nel 1895. L'io
protagonista si presenta come eroe «ulisside», proteso verso tutte le esperienze, pronto a sprezzare ogni limite e
divieto pur di raggiungere le sue mete (ulissismo). Il viaggio nell'Ellade è l'immersione in un passato mitico, alla
ricerca di un vivere sublime, divino, all'insegna della forza e bellezza. Dopo questa iniziazione, il protagonista si
reimmerge nella realtà moderna, nelle metropoli industriali orrende ma brulicanti di nuove potenzialità vitali.
Il mito classico vale a trasfigurare il presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da
costruire. Per questo l'orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza, equivalente a quella
dell'Ellade, ed i "'mostri" del presente divengono entità mitiche. Il poeta arriva così ad inneggiare ad aspetti tipici
della modernità (capitale, finanza internazionale, capitani d'industria, macchine) poiché racchiudono in sé possenti
energie, che possono essere indirizzate a fini eroici ed imperiali. Lo scrittore, che nelle Vergini aveva rovesciato il
suo aristocratico disprezzo sulla moltitudine schiava, ora inneggia alle nuove masse operaie, che possono essere
docile strumento nelle mani del superuomo.
Questa è l'ultima tappa della ricerca di un ruolo dell'intellettuale all'interno della civiltà borghese moderna,
iniziata con la crisi dell'esteta e la scoperta del mito superomistico. Dopo la fuga estetizzante nella bellezza del
passato, d'Annunzio aveva affidato all'intellettuale-superuomo il compito di intervenire attivamente nella realtà,
aprendo la strada a una nuova élite aristocratica, facendo rivivere la bellezza e l'eroismo del passato in un nuovo
Rinascimento. Ma la contrapposizione alla realtà moderna era ancora violenta.
Con Maia, si ha una svolta radicale: nel mondo moderno d'Annunzio scopre una segreta bellezza, l'epica delle
grandi imprese industriali e finanziarie, l’immensità degli apparati tecnologici e delle masse, la forza travolgente ma
grandiosa del capitalismo. Il poeta non si contrappone più alla realtà borghese moderna, ma si propone cantore
dei suoi fasti, guida delle sue imprese e "vate" dei suoi destini gloriosi, trasfigurandola in un'aura di mito.
Come dietro al vitalismo del superuomo si scorge l'attrazione morbosa per il disfacimento e la morte, così dietro
alla celebrazione dell'epica eroica della modernità si intravede la paura dell’intellettuale dinanzi alla realtà
industriale che tende ad emarginarlo o a farlo scomparire del tutto. La realtà moderna può essere inserita
nell'ambito poetico solo se esorcizzata mediante la sovrapposizione di qualcosa di noto e rassicurante per
l'intellettuale, le immagini del mito e della storia classica.
L'originalità di d'Annunzio consiste nel fatto che egli non si chiude a contemplare vittimisticamente la propria
impotenza, ma reagisce costruendosi sogni di onnipotenza. Invece di fuggire dinanzi a ciò che lo aggredisce
esorcizza la paura e l'orrore autoinvestendosi di un ruolo nuovo: cantare e celebrare quella realtà che lo minaccia.
Il prezzo pagato da d'Annunzio per questo impegno apologetico e propagandistico è però alto: egli assume la figura
pubblica del propagatore dei miti più reazionari (il dominio della pura stirpe latina sul mondo, il bellicismo
imperialista e colonialista), una funzione storica gravida di nefaste conseguenze per l'Italia successiva; nelle opere
volte alla diffusione dell'ideologia superomistica, l'arte gonfia, retorica appare illeggibile e insopportabile, perché
falsa. Nello scegliere questa strada, d'Annunzio tradisce le proprie tendenze decadenti.

ELETTRA Il secondo libro è di argomento politico, è pura propaganda. Il presente deve riscattarsi per un futuro di
gloria e bellezza, che caratterizzavano il suo passato. Elogia i grandi eventi della storia italiana.
ALCYONE Il terzo libro è apparentemente molto lontano dagli altri due. Al discorso politico, celebrativo, polemico,
si sostituisce il tema lirico della fusione panica con la natura; al motivo dell'azione energica, un atteggiamento di
evasione e contemplazione. Comprende 88 componimenti, è il diario ideale di una vacanza estiva, dai colli fiesolani
alle coste tirreniche tra la Marina di Pisa e la Versilia, in compagnia dell’amata Eleonora Duse (chiamata “Ermione”).
Le liriche, scritte fra il 1899 e il 1903, sono ordinate in un disegno organico, che segue la parabola della stagione,
dal commiato piovoso della primavera al lento declino di settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia
a consentire la pienezza vitalistica: l'io del poeta si fonde col fluire della vita del Tutto, si identifica con le varie
presenze naturali, animali, trasfigurandosi fino ad attingere ad una condizione divina.
Ricerca di musicalità, che tende a dissolvere la parola in sostanza fonica e melodica, con l'impiego di un linguaggio
analogico, che si fonda su un gioco continuo di immagini tra loro connesse. È una poesia "pura", libera dall'ideologia
superomistica e dalle sue finalità pratiche, immune dalla retorica e dall'artificio, riguardante il rapporto sensuale
con la natura.
In realtà l'esperienza panica cantata dal poeta è che una manifestazione del superomismo: solo al superuomo,
creatura d'eccezione, è concesso di «transumanare», di «indiarsi» al contatto con la natura, attingendo ad una vita
superiore, al di là di ogni limite umano; solo la parola magica del poeta-superuomo può cogliere ed esprimere
l'armonia segreta della natura, raggiungere e rivelare l'essenza misteriosa delle cose.
Ripresa dei motivi ideologici degli altri due libri (l'esaltazione di una violenta vitalità «dionisiaca», la prefigurazione
di un futuro di rinata romanità imperiale, I'ulissismo) attraverso il mito di Icaro, il primo che osò volare.
Alla musicalità del linguaggio subentra la tensione retorica data da interrogazioni, esclamazioni, enumerazioni
ridondanti. Ma l’intensità suggestiva mette in secondo piano l'ideologia superomistica.

LA SERA FIESOLANA da Alcyone


Ogni strofa è autonoma dalle altre e forma quasi una lirica a sé; tanto che, nella prima pubblicazione ciascuna aveva
un titolo particolare.
1^ strofa “La natività della luna”: l'immagine centrale è il sorgere della luna che assume il valore arcano di una
teofania, cioè di un'apparizione della divinità. Se la luna che nasce ha qualcosa di divino, solo la parola del poeta
può evocarla: le sue parole sono come la formula magico-liturgica che propizia l'apparizione della divinità.
Non viene descritto il sorgere effettivo della luna, un evento troppo concreto e preciso che dissiperebbe l'aura di
sospensione arcana, ma il poeta evoca, con sottili suggestioni, l'attimo inafferrabile che lo precede.
sinestesia: la freschezza delle parole del poeta, l’udito si fonde con il tatto.
La luna, non ancora comparsa, distende dinanzi a sé un velo luminoso, e la campagna si sente già come sommersa
dal gelo notturno. sinestesia: il tenue velo argenteo irradiato dalla luna (vista) è assimilato al gelo notturno (tatto)
Al gelo si associa anche un'idea di liquidità: la campagna «beva» la pace, la luce argentea è un liquido fresco che dà
refrigerio alla campagna, riarsa dal sole e assetata.
La rete di immagini luce lunare-gelo-liquidità-pace allude all'azione miracolosa della luna-divinità: la luna, così
come la freschezza delle parole, riporta la vita dove era l'aridità.
La sera è personificata in una divinità femminile. Il «viso di perla» della sera riprende metaforicamente il motivo
della luce lunare e si armonizza con la tonalità cromatica che ne scaturiva, il colore argenteo. Come la luna porta il
refrigerio della sua fredda luce, la sera porta il refrigerio della pioggia.
Il carattere religioso della figura femminile rimanda ad una religiosità francescana, riprendendo il Cantico delle
creature (Laudata sii). Il «viso di perla» della sera evoca la Vergine nella pittura duecentescaD’Annunzio
conferisce un senso tutto estetizzante della religiosità cattolica.
2^ strofa prevale la partitura musicale: la parola tende a divenire puro suono, grazie alla modulazione degli accenti
e delle rime, alla qualità timbrica dei suoni. Si ripropone la metafora dell'acqua (la pioggia tiepida di giugno) che
indica il commiato della primavera. La strofa si chiude con un'immagine religiosa, gli olivi francescanamente
chiamati «fratelli», che costituiscono un’analogia: il loro "pallore” da un lato è un dato materiale, riferito al colore,
dall'altro si collega metaforicamente all'idea di santità.
3^ strofa: il nucleo centrale è il profumo della sera (vesti aulenti, il fien che odora), un’immagine di sensualità
panica. Al motivo amoroso si inserisce un’immagine mitico-religiosa (le fonti «eterne» dei fiumi parlano nel
«mistero sacro» dei monti, all'ombra degli «antichi» rami): ripresa del culto antico per le fonti e i boschi, abitati
dalle divinità. Ciò allude a «reami d'amor», quindi ad una forza erotica che pervade la natura ed in cui l'uomo si
immedesima. Sensuale è la trasfigurazione delle colline in labbra, chiuse da un divieto ma ansiose di rivelare il loro
segreto: vita piena e gioiosa, esperienze amorose sublimi, bellezza ineffabile.
› Metro: tre lunghe strofe di quattordici versi liberi; le strofe sono inframmezzate da "riprese" di tre versi.
LA PIOGGIA NEL PINETO da Alcyone
Il tema centrale è il panismo: la poesia narra di un uomo e una donna colti da un temporale mentre si trovano in
una pineta, avvenimento che porta i due protagonisti a vivere l’esperienza panica, cioè del loro fondersi con la
natura trasformandosi in elementi vegetali.
1^ strofa: Il poeta si rivolge a Ermione invitandola al silenzio, per percepire con estrema attenzione i suoni della
natura. La pioggia da inizio alla metamorfosi che porta il poeta e la donna a perdere le sembianze umane per
assimilarsi alla vita vegetale, rigenerando e purificando il loro amore e i loro pensieri.
2^ strofa: il rumore costante della pioggia diventa come una musica che cambia di intensità in base al fatto che le
gocce d’acqua vanno a colpire un fogliame più o meno rado. Si uniscono il canto delle rane e delle cicale come se
tutta la natura fosse un’orchestra in cui ogni elemento naturale rappresenta uno strumento. Il volto e i capelli di
Ermione, bagnati dalla pioggia non si distinguono più dagli altri elementi del bosco.
3^ strofa: la pioggia aumenta e copre il canto delle cicale e delle rane, che progressivamente si indebolisce fino ad
estinguersi del tutto. La pioggia pulisce le piante del bosco e rigenera l’anima del poeta e della donna.
4^ strofa: La pioggia scende sul volto di Ermione e sembra che stia piangendo, ma non è un pianto di dolore ma di
gioia. Si sta per compiere la metamorfosi vegetale e l’aspetto della donna ora ha perso ogni sembianza umana: il
viso non è più bianco ma è verdeggiante ed ella, come una ninfea della mitologia greca, sembra uscire dalla
corteccia di un albero. Le varie parti del corpo si trasformano in forme della natura: il cuore è come una pesca non
ancora colta, gli occhi sono come fonti d’acqua ed i denti sono come mandorle acerbe.

La fusione panica è resa attraverso la valorizzazione dell’aspetto sensoriale: in particolare dell’udito (suoni prodotti
dai vari elementi della natura, che creano una sinfonia boschiva), ma anche l’olfatto, sollecitato dall’emergere di
profumi ed umori dalla vegetazione umida di pioggia, il tatto e la vista, con la descrizione particolareggiata
dell’ambiente in cui il poeta distingue le diverse specie di piante e arbusti, specificandone i nomi.
Tema dell’amore: è una bella favola che illude e inganna, in modo alternato i componenti della coppia, ed il poeta
lo illustra attraverso la figura retorica del chiasmo (t’illuse, m’illude).

La metrica è libera: 4 strofe da 32 versi liberi con ricorrere di rime e assonanze, altrettanto libere.
La frammentazione dei versi tende a riprodurre la pluralità innumerevole di presenze e di voci che si affollano nella
pineta sotto la pioggia.
Modulazione fonica: variazione di timbri chiari delle /a/ e di quelli cupi delle /o/. Il canto limpido delle cicale è reso
con la predominanza della vocale aperta /a/; mentre il canto cupo e roco delle rane è reso con il predominio delle
vocali chiuse /o/ e /u/. Il tremolio del canto delle cicale in diminuendo è reso con la frequenza della vibrante /r/.

L'ideologia dannunziana si manifesta:


> nella volontà di cogliere il messaggio di una vita oltreumana mediante le parole «più nuove» della pioggia
> nella convinzione che la propria parola sia lo strumento privilegiato per cogliere e restituire tale linguaggio arcano
>nell'invito ad una trasfigurazione attraverso la fusione con la natura.

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