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Decadentismo (1)

Il 26 maggio 1883 sul periodico parigino Le chat noir Paul Verlaine pubblicava un sonetto
dal titolo Langueur, in cui afferma di identificarsi come l’atmosfera di stanchezza e di
estenuazione (iscrpljenost) spirituale all’Impero romano alla fine della decadenza, ormai
incapace di forti passioni e di azioni energiche, immerso nel vuoto e nella noia, inteso solo a
raffinatissime (vrlo profinjena) quanto oziose esercitazioni letterarie.
Il sonetto interpretava uno stato d’animo diffuso nella cultura del tempo, il senso di
disfacimento (propadanje) e di fine di tutta una civiltà assaporata con un voluttuoso
compiacimento (zadovoljstvo) autodistruttivo, di un prossimo crollo (kolaps) di un imminente
cataclisma epocale, per cui effettivamente si avvertiva un’affinità con il periodo del tardo
Impero romano e si esaltava la suprema raffinatezza ed eleganza di simili momenti in cui una
civiltà allo stremo può esprimersi in forme quintessenziate e squisite.
Il termine Decadentismo designa un’intera corrente culturale, di dimensioni europee, che si
colloca negli ultimi due decenni dell’Ottocento con propaggini nel primo Novecento. Inteso
nell’accezione più vasta, il Decadentismo appare come una somma di manifestazioni tre loro
anche assai differenti. Al suo interno tuttavia si possano individuare dei denominatori comuni
che ci permettono di tracciare un quadro descrittivo del fenomeno nel suo insieme.
La base della visione del mondo decadente è un irrazionalismo misticheggiante, che
riprende ed esaspera posizioni già largamente presenti nella cultura romantica della prima
metà del secolo. Viene radicalmente rifiutata la convinzione che la realtà sia un complesso di
fenomeni materiali regolati da leggi ferree, meccaniche e deterministiche.
Il decadente ritiene che la ragione e la scienza non possano dare la vera conoscenza del reale,
perché l’essenza di esso è al di là delle cose, misteriosa ed enigmatica, per cui solo
rinunciando all’abito razionale si può tentare di attingere all’ignoto. (?) decadente è perciò
sempre protesa verso il mistero che è dietro la realtà visibile, verso l’inconoscibile, in cerca di
quegli stati di grazia in cui l’assoluto e l’ineffabile possano rivelarsi.
Se per la visione comune le cose possiedono una loro oggettiva, solida individualità, che le
isola le une dalle altre, per questa visione mistica tutti gli aspetti dell’essere sono legati tra
loro da arcane analogie e corrispondenze, che sfuggono alla ragione e possono essere colte
solo in un abbandono di empatia irrazionale. Ogni forma visibile perciò non è che un simbolo
di qualcosa di più profondo che sta al di là di essa, e si collega con infinite altre realtà in una
rete segreta, chi solo la percezione dell’iniziato può individuare.
La scoperta dell’inconscio è il dato fondamente della cultura decadente, il suo nucleo più
autentico. Era un continente che i romantici avevano avvisato, costeggiato ed esplorato in
parte, ma l’anima decadente che ora osa avventurarsi sino in fondo in questa zona tenebrosa,
attratta da un fascino profondo, irresistibile. Senza la scoperta di questa dimensione non si
capirebbe nulla delle concezioni del Decadentismo e dei suoi prodotti letterari, artistici,
musicali.
Freud, a fine secolo, comincerà a dare una sistemazione scientifica a questa conoscenza, ma
secondo un impianto ancora positivistico, razionalistico: il suo fine è portare alla luce della
coscienza l’inconscio, lasciano voluttuosamente inghiottire dal vortice tenebroso,
distruggendo ogni legame razionale, convinti che solo questo abbandono totale possa
garantire un’esperienza ineffabile, la scoperta di una realtà più vera.
Se il mistero, l’essenza segreta della realtà, non può essere colto attraverso la ragione e la
scienza, altri sono i mezzi mediante cui il decadente cerca di attingere ad esso. Innanzitutto,
come strumenti privilegiati del conoscere vengono indicati tutti gli stati abnormi e
irrazionali dell’esistere: la malattia, la follia, la nervosi, il delirio, il sogno e l’incubo,
l’allucinazione.
Questi stati di alterazione, sottraendosi al controllo limitante e paralizzante della ragione,
aprono al nostro sguardo interiore prospettive ignote, permettono di vedere, magari
confusamente, il mistero che è al di là delle cose. Gli stati d’allitterazione possono anche
essere provocati artificialmente, attraverso l’uso dell’alcol, delle droghe, l’oppio, la morfina...
La “cultura della droga”, destinata purtroppo ai noti sviluppi della nostra età, ha le sue radici
in area decadente, in cui si ritiene che l’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope potenzi
all’infinito le facoltà umane, sottraendole allo squallido meccanismo delle abitudini
quotidiane e ai vincoli mortificanti della ragione, spalanchi orizzonti ignoti e affascinanti,
accresca a dismisura le facoltà conoscitive e fantastiche, provochi stati di estasi e premetta di
entrare in contatto con l’assoluto, fornendo così stimoli inauditi alla creazione artistica.
Allora, l’atmosfera dominante nell’età del Decadentismo è uno stato d’animo di stanchezza
e di estenuazione derivante dal senso di disfacimento di una civiltà, che si avverte prossima
al crollo. Di qui, nella letteratura decadente europea, deriva l’ammirazione per le epoche di
decadenza come la grecità alessandrina, la tarda latinità imperiale, l’età bizantina, in cui
l’esaurirsi delle forze si traduce in estrema, squisita raffinatezza.
Al altro per la raffinatezza estenuata di tali epoche si unisce il vagheggiamento del lusso raro
e prezioso e della lussuria, complicata da perversità e crudeltà. Giustamente è stato scritto che
buona parte della letteratura decadente è segnata dal sadismo, con il suo complemento
immancabile, il masochismo.
In queste fantasie perverse di lussuria e crudeltà raffinata si esprime la stanchezza di una
fantasia sazia. Al tempo stesso si manifesta una sensibilità acutissima, esasperata al limite
della nevrastenia. Le nervosi è una costante che segna tutta la letteratura decadente, e spesso
viene tematizzata direttamente in personaggi di romanzi, drammi, poesie, ma al di là di
questo, costituisce una vera e propria atmosfera che avvolge l’intera cultura di questa età, il
punto da cui sembra che tutto il reale sia osservato.
Accanto alla malattia nervosa, la malattia in genere è un altro gran tema decadente. Da un
lato essa si pone come metafora di una condizione storica, di un momento di crisi profonda,
di smarrimento delle certezze, di angoscia per il crollo, avvertito prossimo, di tutto un
mondo: la letteratura decadente è malata quasi ad esprimere la malattia che corrode dalle
fondamenta le civiltà e sembra spingerla verso una prossima fine.
Dall'altro lato la malattia diviene condizione privilegiata, sogno di nobiltà e di distinzione, di
quella separatezza sprezzante verso la massa che contrassegna l’aristocraticismo degli
intellettuali di questa età, appare come uno stato di grazia, come lo strumento conoscitivo per
eccellenza.
Alla malattia umana si associa la malattia delle cose: il gusto decadente ama tutto ciò che è
corrotto, impuro, putrescente. Per questi Venezia in cui si associano sfacelo e raffinatezza,
putredine e bellezza aristocratica, è la città decadente per eccellenza, che esercita sugli
scrittori un fascino inquietante.
La malattia e la corruzione i decadenti anche perché sono immagini della morte. La morte è
in questo periodo un tema dominante, ossessivo. Percorre le pagine della letteratura
decadente una voluttà morbosa di annientamento, un’attrazione irresistibile per il nulla.
Sempre all’interno della stessa cultura, al fascino esercitato dalla malattia, dalla decadenza e
dalla morte si contrappongono però tendenze opposte: il vitalismo, cioè l’esaltazione della
pienezza vitale senza limiti e senza freni, che afferma sé stessa al di là di ogni norma morale,
la ricerca del godimento ebbro, la celebrazione della forza barbarica, ferina, che impone il
suo dominio sui deboli e può così rigenerare un mondo esausto.
Filosoficamente, se la voluttà di annientamento si pone sotto il segno delle teorie di
Schopenhauer, il vitalismo vede il suo teorico Nietzsche. Le due componenti opposte si
delineano chiaramente sull’arco della produzione dannunziana: se fino al 1894 lo scrittore si
proietta in personaggi deboli, perplessi, malati, da quel momento in avanti si fa celebrare
della forza vitale e dominatrice del superuomo.
In realtà sono atteggiamenti solo apparentemente in contraddizione. Il vitalismo
superomistico non è che l’altra faccia della malattia interiore, del disfacimento e degli impulsi
autodistruttivi o meglio la maschera che cerca inutilmente di occultarli.
Accarezzare le perversioni del gusto e ricercare il corrotto e l’impuro, la malattia e il
disfacimento, o per contro vagheggiare gli impulsi più barbarici e ferini, il gesto violento e
crudele del dominatore che calpesta i deboli. Sono due modi equivalenti per rifiutare i
principi etici e i comportamenti dominanti nell’odiata società borghese, due forme di
esasperato aristocraticismo intellettuale.

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