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Introduzione

Cap. I

Le patologie nelle relazioni intrafamiliari

1.1. Le relazioni familiari: disfunzioni e conseguenze.


1.2. Lo stress familiare e le disfunzioni relazionali.
1.3. L’affettività: dalla genesi del concetto di affetto alla sua
valenza fondativa in ambito pedagogico.
1.4. Il passaggio dalla disfunzione alla patologia relazionale.
1.5. La natura della relazione.
1.6. Il doppio vincolo.
1.7. Le relazioni simmetriche e asimmetriche.

Cap. II

I conflitti familiari: analisi pedagogica per il recupero dei


legami

2.1. I conflitti familiari: cenni introduttivi.


2.2. I legami nella postmodernità.
2.3. La relazione di coppia e la rottura del legame.
2.4. La separazione: l’alta conflittualità e i pregiudizi inferti
ai minori.
2.5. Le patologie degli insiemi familiari da separazione: il
family chopping, il mobbing genitoriale, la sindrome di
alienazione parentale.
2.6. Il maltrattamento, l’abuso e la patologia delle cure.
2.7. La violenza domestica e i principi introdotti dalla Con-
venzione di Istanbul.

17
Cap. III

Il conflitto inconciliabile: analisi del femminicidio. Possibili


proposte pedagogiche.

3.1. Le donne, i femminismi e l’utopia di una trasformazio-


ne incompiuta.
3.2. Le donne e il loro ruolo nel mondo contemporaneo.
3.3. Le origini del termine femminicidio.
3.4. Il femminicidio e le ragioni oscure della violenza.
3.5. La relazione negativa tra vittima e carnefice.
3.6. La relazione negativa e il ciclo della violenza.
3.7. Lo Stalking e i rimedi educativi.

Cap. IV

Il fenomeno della violenza intrafamiliare: profili pedagogi-


ci, sociali, criminologici e letterari.

4.1. Le emozioni: moti irrazionali o elementi costitutivi del


ragionamento etico?
4.2. La compassione in chiave fenomenologica: Martha
Nussbaum, l’etica e il ruolo delle emozioni.
4.3. Amor, Livor e Furor: da topoi letterari a pulsioni omi-
cidiarie.
4.4. Pulsione e agito omicida in ambito familiare:
l’omicidio di prossimità.
4.4. La violenza domestica nella famiglia contemporanea.

Cap. V

Il disordine dell’istinto che sfocia nel delitto tra letteratura


e realtà.

18
5.1. Il mito: struttura permanente dell’umanità e strumento
di sublimazione delle tendenze antisociali.
5.2. Il narcisismo, lo strazio, la furia e la sete di vendetta in
Medea.
5.3. I legami familiari, il furor fratricida e il dolore di Anti-
gone.
5.4. Vista, cecità, conoscenza: Edipo e la tragedia di una pa-
ternità negata.
5.5. Lutti, vendette e spargimento di sangue nella saga degli
Atridi. L’Orestea e la vittoria del logos sull’istinto.
5.6. Prospettive pedagogiche per la repressione dei crimini
domestici.

Introduzione

Come ci ricorda Dostoevskij nella sua ricerca dolorosa e in-


cessante dell’abisso in cui l’uomo sprofonda, ogni essere, in

19
quanto originariamente libero, è chiamato a decidere se muover-
si verso il bene o verso il male, e in questa scelta si schiude il
suo senso ultimo, poiché da essa non dipende solo il suo destino
ma anche «qualcosa che lo riguarda e insieme lo travalica»1. La
decisione assunta dinanzi a tale bivio è l’attimo fatale in cui
l’essere umano stabilisce di fare della sua esistenza una vita de-
gna di essere vissuta oppure una spaventosa assurdità. Un abis-
so.
L’abisso è il luogo in cui l’uomo sprofonda quando non
controllando i suoi impulsi si trasforma nel carnefice dei suoi af-
fetti. Ed è nelle intricate trame dell’abisso che questo lavoro ten-
ta di muoversi per indagare il fenomeno delle relazioni familiari
disfunzionali e patologiche che esitano nel delitto.
Riflettere sugli aspetti più oscuri delle relazioni familiari è
come affondare il bisturi nell’uomo, senza arretrare di fronte al
nulla terrifico che a tratti si palesa e senza mai chiudere gli occhi
di fronte all’ambiguità della natura umana, la cui parte tetra ine-
vitabilmente spaventa, ma richiede al contempo di essere inda-
gata.
«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta»2 di-
ceva il Socrate platonico, perché il bisogno di sapere, di indivi-
duare l’origine e la fine dei fenomeni umani non può fermarsi
neppure di fronte al carattere abissale e disarmonico che taluni
di essi presentano, né di fronte alla loro sconcertante ambiguità.
Gli studi svolti hanno posato lo sguardo sull’homo abscon-
ditus, sull’uomo sotterraneo, sui suoi più segreti recessi e sui
suoi più sottili dinamismi, sulle mescolanze equivoche e sulle
compresenze contraddittorie, sulla consapevolezza che la natura
umana è imperfetta, difettosa, screpolata, una forma imprecisa
che alle volte sbocca in un vicolo cieco.

1
S. Givone, Introduzione, in N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij,
cit., p. XI.
2
Platone, Apologia di Socrate

20
Emblema assoluto della doppiezza che devasta l’animo
dell’homo absconditus è la pulsione, che trova nel vocabolo de-
siderio la sua trasposizione letteraria più immediata.
Inutile cimentarsi nel vano tentativo di dare una compiuta
definizione del desiderio, tale concetto è sconfinato quanto le
molteplici possibilità di analizzarlo: in prospettiva psicoanaliti-
ca, letteraria, o artistica esso si presenta come una forza incon-
scia che trascende l’essere. E’ il tratto più intimo dell’uomo, la
sua verità più profonda, che quando sfugge al controllo destabi-
lizza, disorienta e scuote l’animo tra ῎Ερως e Θάνατος.
Così dalla psicoanalisi al mito, dalla tragedia greca a quella
shakespeariana, desiderio, etica e comportamenti umani si in-
crociano risalendo alla radice dell’esperienza, alla forza deside-
rante che condiziona più o meno inconsciamente le vicende dei
mortali.
Di tali nessi i Greci erano ben consci, come si può arguire
dalla funzione catartica attribuita alla composizione tragica, de-
finita da Lacan come la «purgazione dei πατήµατα, delle passio-
ni, del timore e della pietà»3.
Lo stesso Aristotele nella Poetica, pone in rilievo4 che «la
tragedia è l’imitazione di un’azione seria e compiuta in se stessa,
di una certa estensione, in un linguaggio adorno di vari abbelli-
menti, applicati ciascuno a suo luogo nelle diverse parti, rappre-
sentata da personaggi che agiscono e non narrata; la quale me-
diante pietà e terrore, produce la purificazione di siffatte passio-
ni»5.

3
J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L'etica della psicoanalisi, 1959-
1960, a c. di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 314. Si tratta dello scopo
che Lacan fa corrispondere al meccanismo dell'abreazione, definita come “la
scarica di un'emozione rimasta in sospeso”. Ivi, p. 310.
4
Cfr. F. Nimpo, Lezione sul Teatro greco, tenuta in data 25 novembre
2019 nell’ambito del corso di Pedagogia sociale, presso l’Università degli
Studi di Reggio Calabria, in occasione della giornata mondiale contro la vio-
lenza di genere.
5
Aristotele, Poetica.

21
Il mondo classico ha cantato il buio dell’origine, «la natura
ama nascondersi» dice Eraclito6, secondo cui gli uomini vagano
cercando di orientarsi tra cose che appaiono familiari e al con-
tempo straniere.
La familiarità che tende la mano all’estraneità, unite
all’enigma della precarietà dell’umano, fanno da sfondo al tragi-
co, sia a quello rappresentato nel mondo dell’arte letteraria, sia a
quello reale, nella sua smisurata potenza, anche distruttrice.
Del resto, «nulla di più smisurato dell’uomo esiste» secondo
Hölderlin7, che con questo vocabolo traduce l’aggettivo δεινός
(δεινότερον) presente nel primo stasimo dell’Antigone, dai più
tradotto con “mirabile”, o “prodigioso”; mentre egli sceglie il
rimando all’illimitato, all’infinito, per poter racchiudere in un
singolo lemma l’essenza stessa dello sguardo dell’uomo: senza
misura, al di là del bene e del male.
La mancanza di misura definisce la natura dell’uomo e
quella del tragico, che come insegna Goethe si fonda altresì su
un conflitto inconciliabile, «se interviene o diventa possibile una
conciliazione, il tragico scompare»8.
Ed è esattamente questo il nodo centrale delle riflessioni
contenute in questo lavoro, la ricerca di una conciliazione che
faccia scomparire il tragico, la costruzione teorica di percorsi
che dall’analisi del conflitto giungano alla sua composizione
prima che lo stesso esiti nella morte.
Dalla dialettica hegeliana del contrasto tragico, così forte
nella Fenomenologia dello spirito9, può nascere la capacità di
dare al conflitto tra ῎Ερως e Θάνατος sviluppo e soluzione.
In questo labile equilibrio tra pulsione costruens e pulsione
destruens l’uomo muove i fili dell’esistere e quando si tenta di
6
Eraclito, DK 123, M 8.
7
F. Hölderlin, Frankfurter Hölderlin Ausgabe, a cura di D.E. Sattler,
Roter Stern, Frankfurt A.M. 1975, vol. XVI (traduzione dell’Antigone).
8
W. J. Goethe, Al cancelliere von Müller, 6 giugno 1824
9
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito (Ed. or 1807), trad. di V.
Cicero, Rusconi, Milano, 1995

22
comprendere l’incomprensibile, di capire come possa scagliarsi
la mano assassina contro una persona cara, bisogna partire dal
caos generato dalla dimensione pulsionale e dall’incapacità di
governare le emozioni.
Si tratta di emozioni smisurate, di desideri smisurati, infles-
sibili, che finiscono con l’essere oscuri, radicali, distruttivi e,
dunque, mortiferi.
Lo spiega bene Antigone, quando parla di luminoso deside-
rio in un canto di struggente commozione, in cui definisce Eros
invincibile in battaglia. L’eroina sofoclea, rivolgendosi al dio,
gli dice arresa: «Delira chi ti possiede. Tu anche il cuore dei
giusti a ingiustizia, a rovina travii; tu anche questa discordia fra
consanguinei hai acceso»10.
Questi versi chiariscono in modo inequivocabile la potenza
della dialettica tensiva tra ῎Ερως e Θάνατος. Il velo sottile che
separa l’uomo dall’abisso si strappa dinanzi alla resa al deside-
rio e il limite è irreparabilmente oltrepassato. Attimi in cui l’io
disintegrato e incapace di controllo è inflessibile nel portare a
compimento il tragico sconfinamento.
L’etica del desiderio, secondo la psicoanalisi, richiederebbe
all’uomo di imparare ad agire in modo conforme al desiderio
senza cedere ad esso. Ed è qui che la dimensione pedagogica en-
tra in scena e si impone come sapere capace di educare l’essere
umano alla consapevolezza dell’impossibilità connaturata al de-
siderio: una consapevolezza dal carattere salvifico nel conflitto
tra ῎Ερως e Θάνατος.
Come osserva Recalcati, l’esperienza del desiderio «sospin-
ge al di là di ogni possibile soddisfazione, […] è desiderio non

10
Sofocle, Antigone, trad. it. a cura di Franco Ferrari, Bur, Milano,
2000, pp. 115-117.

23
di 'questo', di ciò che ho, di ciò che è presente, ma sempre di 'al-
tra cosa', di una Cosa che non può mai essere presente».11
L'esperienza del desiderio è la misura dell’impossibile,
dell’inappagato, dell’assente.
Il desiderio nasce dalla sottrazione, dalla distanza e
l’educazione alla perdita è la strada da percorrere per costruire
relazioni umane e familiari capaci di funzionare, perché capaci
di umanizzare la vita senza idealizzarla, di attribuire agli affetti
un’appartenenza mai captativa, di riconoscersi nella cura
dell’Altro senza attesa di compenso e senza l’ansia di dominarlo
divorati da Amor, Livor e Furor.
Il discontrollo delle emozioni connesse ai tòpoi di Amor,
Livor e Furor è il demone che trasforma una madre in Medea,
un figlio in Edipo e una moglie in Clitemnestra. Ed è nel preciso
istante in cui l’uomo cede al desiderio di sconfinamento che la
famiglia da luogo simbolo della cura diventa teatro di violenza e
di sangue.
Si è posto l’accento sul tema della disfunzionalità delle re-
lazioni familiari, evidenziando che queste ultime, se non ade-
guatamente trattate, degenerano in patologie relazionali, nelle
quali la tendenza umana e insopprimibile all’irrazionale, alla li-
bertà folle e al dolore è preferita ai vantaggi di una vita dignitosa
che soccombe di fronte al piacere di far male, di offendere, di far
soffrire le persone più care.
Le riflessioni spiegate, dunque – attraverso un’analisi mul-
tidimensionale che contempla il profilo pedagogico, quello so-
cio-criminologico, quello letterario e quello giuridico – hanno
cercato di mettere in luce gli effetti delle possibili scelte
dell’uomo dinanzi al conflitto, scelte che danno al destino stesso
la sua forma.

11
M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore, Milano
2012, p. 76.

24
Il conflitto è un elemento cardine dell’analisi delle relazioni
disfunzionali, poiché l’incapacità di risolverlo è sempre alla base
della disfunzione.
Cinque sono secondo Steiner «le costanti principali del con-
flitto nella condizione umana»12 e sono: «l’opposizione uomo-
donna; vecchiaia-giovinezza; società-individuo; vivi-morti; uo-
mini-divinità»13.
I conflitti che derivano da queste cinque opposizioni – se-
condo Steiner – non sono negoziabili, ma si risolvono nel pro-
cesso conflittuale della definizione reciproca. È questa la strada
pedagogica che si tenta di perseguire: nel disordine del conflitto
bisogna cercare «la definizione della propria persona e il ricono-
scimento dell’altro al di là dei confini minacciati dell’io»14.
La relazione disfunzionale può recedere all’interno di un
percorso strutturato come viaggio primordiale per arrivare a se
stessi attraverso il riconoscimento dell’altro.
«Le condizioni che delimitano la persona umana vengono
poste dal sesso, dall’età, dalla comunità, dalla spaccatura tra vita
e morte e dal potenziale di incontri, accettati o rifiutati, tra
l’esistenziale e il trascendente. […] Uomini e donne, vecchi e
giovani, individuo e communitas, vivi e defunti, mortali e divini-
tà si incontrano e si mescolano nella contiguità dell’amore»15.

Capitolo primo

12
G. Steiner, Le Antigoni, Garzanti, Milano, 2011, pag. 260.
13
Ibidem.
14
Ibidem.
15
Ibidem.

25
Le patologie nelle relazioni intrafamiliari

Siamo nature vaste, karamazoviane


[…] capaci di unire tutte le possibili
contraddizioni e di contemplare in un
colpo solo i due abissi, l’abisso sopra
di noi, degli ideali più alti, e l’abisso
sotto di noi della caduta più vile e
fetida. […]

F. Dostoevskij, I
fratelli Karamazov.

1.1. Le relazioni familiari: disfunzioni e conseguenze.


Ogni famiglia, per via della sua capacità di contribuire allo
sviluppo globale e organico dell’uomo, può essere considerata
una “microcultura”16, cioè una vera e propria comunità pedago-
gica che si realizza attraverso un intenso scambio dialogico con
la società e con le sue culture17.
«Ognuno di noi è un intreccio in costante divenire tra passa-
to, presente e futuro: il passato è un bagaglio del quale a volte
avvertiamo la gravezza, o all’interno del quale custodiamo una
cassetta degli attrezzi per riparare ai danni del presente; il pre-
sente è la dimensione stanziale che attesta il nostro con-sistere,
il nostro esistere con l’altro e per mezzo dell’altro, fin dalla ve-
nuta, nella “gettatezza”; il futuro è il luogo dell’altrove, della
presenza non ancora presente, del bagaglio leggero, o della pau-
ra, mai del tutto sopita, di un eterno ritorno del passato. Ognuno
di noi è “stanziato” e al contempo, “passeggero”: ciascuno, di-
fatti, proviene e, per sentieri impervi, di-viene nel provenire. Tra

16
L. Formenti, Il genitore riflessivo: premesse a una pedagogia della
famiglia, «Studium Educationis», 1, (2001), pp. 102-103.
17
F. Cambi - E. Frauenfelder (a cura di), Introduzione, in La formazio-
ne. Studi di pedagogia critica, Unicopli, Milano 1994.

26
il fardello del passato e il carico del futuro, ognuno di noi per-
mane nonostante le mutate condizioni di vita: “stanzia”, per così
dire, quale forma-uomo nel divenire delle forme. Il presente,
pertanto, è l’essenza del pro-getto: il progettare prende forma in
un tempo presente, il quale, dando forma al progetto, è già, nella
sua essenza, futuro»18.
L’essere un intreccio in costante divenire tra passato, pre-
sente e futuro, ci rimanda alla fondamentalità dei vissuti familia-
ri nella costruzione dell’identità di ciascuno.
Gli studi sull’abuso e sul maltrattamento infantile, infatti,
confermano che l’esposizione a queste condotte sia molto peri-
colosa per la salute psico-fisica dei bambini coinvolti e di sicuro
pregiudizio nel loro processo di crescita, che inevitabilmente è
compromesso da traumi di tal fatta.
Clinici e ricercatori descrivono con assoluta unanimità un
ampio range di conseguenze psicologiche e comportamentali
connesse a quel tipo di esperienze, tra cui: bassa autostima, an-
sia, depressione, rabbia e aggressività, PTSD, dissociazione,
abuso di sostanze, difficoltà sessuali, comportamento autolesivo
e autodistruttivo.
Per meglio comprendere il concreto articolarsi delle disfun-
zioni nelle relazioni umane, in particolare in quella adulto-
bambino, bisogna partire dall’esame della dinamica relazionale,
poiché in essa si situa la difficoltà che degenera in maltrattamen-
to e abuso19.
Il filone dell’infant research spinge sempre più a indagare
nella direzione della qualità della relazione per comprendere
quale sia il meccanismo disfunzionale alla base delle condotte
maltrattanti. Gli esiti raggiunti dalle varie discipline che si occu-
18
M. Corsi - M. Stramaglia, Dentro la famiglia. Pedagogia delle rela-
zioni educative familiari, Armando, Roma 2009, p. 7.
19
J.E. Dumas - J. Nissley - A. Nordstrom - E. Phillips Smith - R.J. Prinz
- D.W. Levine, Home chaos: sociodemographic, parenting, interactional,
and child correlates, «Journal of clinical child and adolescent psychology»,
34, (2005), pp. 93-104.

27
pano dell’infanzia, infatti, concordano ormai nel ritenere che per
tutelare il benessere del bambino, bisogna conoscere le sue rela-
zioni, i suoi affetti e più in generale il microsistema familiare in
cui il piccolo cresce e si sviluppa20. Tale conoscenza consente a
chi osserva di comprendere il grado di esposizione del piccolo al
rischio di pregiudizi attuali o potenziali, che gli derivano dal tipo
di relazione che egli intrattiene con il suo contesto di riferimen-
to.
Gli elementi che fanno aumentare la probabilità di disagio
minorile corrispondono generalmente alle condizioni in cui le
funzioni di cura e protezione dei figli sono disturbate e quindi
incidono negativamente sulla qualità della relazione genitore-
bambino, producendo così potenziali conseguenze negative sul
processo di crescita di quest’ultimo21, nonché sui paradigmi re-
lazionali dallo stesso introiettati che tendono a replicarsi in un
vortice di violenza dagli esiti imprevedibili.
Le condizioni appena richiamate sono comunemente note
come fattori di rischio e molteplici sono quelli che potrebbero
influenzare l’interazione con il bambino, e dunque anche il suo
sviluppo, poiché si combinano tra loro in modo complesso22.
Scambi interattivi tra madre e bambino meno adattivi, carat-
terizzati da modalità di cura incoerenti, instabili o scarsamente
sensibili, possono avere conseguenze negative per lo sviluppo,
come accade ad esempio nel caso in cui il caregiver soffra di
depressione23, o se la famiglia vive in condizioni di povertà so-

20
Cfr. M. Malagoli Togliatti - A. Lubrano Lavadera, I figli che affronta-
no la separazione dei genitori, «Psicologia clinica dello sviluppo», (XIII), 1,
(2009), pp. 3-39.
21
Cfr. C. Riva Crugnola, La relazione genitore-bambino. Tra adegua-
tezza e rischio, Il Mulino, Bologna 2012.
22
M. Ammaniti et al., La prevenzione del maltrattamento: il sostegno ai
genitori, in La prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Istitu-
to degli Innocenti di Firenze, 2002, pp. 81-115.
23
T. Field, ( 1995), Psychologically depressed parents, in M.H. Born-
stein (a cura di), Handbook of parenting, Vol. 4, Mahwah, NJ, Erlbaum.

28
ciale24, oppure ha un livello socio-economico o di istruzione
basso. Madri che presentano elementi di fragilità psichica, madri
adolescenti, oppure che crescono il loro bambino senza l’aiuto
di un partner, possono avere difficoltà nel delicato compito di
essere genitore, aumentando così la probabilità che i loro bam-
bini sviluppino un certo grado di disagio25, in quanto le difficol-
tà generate dalla propria condizione personale aumentano il ri-
schio che il senso di inadeguatezza rispetto all’esercizio dei
compiti genitoriali sfoci in frustrazione, rabbia e risentimento
verso il piccolo.
Non è infrequente che tali sentimenti transitino dal piano
simbolico a quello dell’aggressione fisica vera e propria, che
esprime l’incapacità di gestire adeguatamente il rapporto col
bambino.
Naturalmente la mera sussistenza dei fattori di rischio nulla
rivela rispetto alla qualità della relazione adulto-bambino, che,
per contro, va osservata tenendo in considerazione anche la pre-
senza dei fattori di protezione, consistenti, per contro, nelle con-
dizioni che favoriscono uno sviluppo adattivo e una crescita sa-
na del bambino, come ad esempio la presenza di una rete sociale
supportiva, in grado di ridurre l’impatto negativo dei fattori di
rischio26.
Possono rientrare tra i fattori protettivi anche alcune pecu-
liarità temperamentali del bambino (umore positivo, elevata
consolabilità, ecc.), una buona sensibilità materna e una relazio-
ne di attaccamento di tipo sicuro fra genitore e minore.

24
R. Halpern, (1993), Poverty and infant development, in C.H. Zeanah,
Handbook of Infant Mental Health, Guilford, New York.
25
G. Cederna - A. Inverno - M. Rebesani, Dossier: Il Paese di Pollicino.
L’Italia ha dimenticato i bambini, Save the Children Italia Onlus, Roma
2012.
26
P. Di Blasio, Tra rischio e Prevenzione, Unicopli, Milano 2005; Si
veda anche H.R. Schaffer, (2004), Introducing Child Psychology, Oxford,
Blackwell.

29
Il diverso combinarsi dei fattori di rischio e dei fattori di
protezione determina la qualità della relazione adulto-bambino,
la quale dipende dalla costante e dinamica interazione tra il pic-
colo e il contesto familiare e sociale.
Così come è vero che la sussistenza di fattori di rischio non
è un sicuro indice di incapacità del genitore, è altrettanto vero
però – come confermano studi recenti – che l’associazione tra la
condizione di disagio familiare con altri fattori di rischio aumen-
ta l’incidenza dell’attaccamento insicuro infantile con conse-
guenti ripercussioni sullo sviluppo del bambino27; ciò consegue
alla compresenza di condizioni idonee a generare un quadro
complessivo di stress familiare che sfocia in numerosi casi in
forme di maltrattamento, abuso ai danni di minori e strutturazio-
ne di relazioni intrafamiliari disfunzionali o patologiche.

1.2. Lo stress familiare e le disfunzioni relazionali.


Il “modello dello stress familiare”, secondo cui le condizio-
ni di vita interferiscono con lo sviluppo del bambino attraverso i
loro effetti diretti sulla genitorialità e sulle cure parentali28, di-
mostrerebbe che i genitori che vivono in condizioni socio-
culturali svantaggiate, costretti a fronteggiare quotidianamente
numerose insidie, possono – senza una rete supportava adeguata
– pregiudicare la qualità delle interazioni con i propri figli, met-
tendo a rischio la loro crescita e il loro sviluppo, perché purtrop-
po in diversi casi osservati lo stress quotidiano esita in forme di
maltrattamento anche grave ai danni della prole.
Lo stress quotidiano finisce cioè con l’inibire in maniera
quasi totale ogni capacità responsiva dell’adulto verso il bambi-

27
E. Costantino - R. Cassibba - G. Liso - S. Gatto - S. Godelli, Sviluppo
socio-emotivo e rischio psicosociale in età scolare: il ruolo
dell’attaccamento, «Maltrattamento e abuso all’infanzia», 9, (2007), pp. 5-
26.
28
J. Belsky - R.M. Pasco Fearon, Infant-mother attachment security,
contextual risk, and early development: A moderational analysis, «Develop-
ment and Psychopathology», 14, (2002), pp. 293-310.

30
no. La qual cosa non è priva di conseguenze, perché, tra le va-
riabili che influenzano lo sviluppo infantile, la responsività geni-
toriale è uno dei concetti di base, come dimostra la ricerca evo-
lutiva degli ultimi quarant’anni.
Già sul finire degli anni ’70 del Novecento la Ainsworth va-
lorizzava la responsività nella relazione genitore-bambino, defi-
nendola come la capacità di leggere e di rispondere adeguata-
mente ai segnali del piccolo. E – sulla scia tracciata dall’allieva
di Bowlby – le ricerche recenti hanno sottolineato che la respon-
sività, in particolare quella materna, è strettamente collegata ad
alcuni aspetti della competenza emotiva, corrispondente alla ca-
pacità di regolare le emozioni negative e la sensazione di ango-
scia provata dal bambino29, nonché al livello di condivisione
delle emozioni positive30.
Tale specifico profilo della competenza emotiva è chiamato
da alcuni studiosi riflessività31 e non v’è dubbio che le relazioni
in cui essa sussista presentino un maggiore livello di qualità, an-
che con riferimento ai processi cognitivi del piccolo.
Altra componente fondamentale in grado di influenzare lo
sviluppo infantile è l’abilità comunicativa nella relazione genito-
re-bambino, perché essa, fin dai primi mesi di vita, favorisce la
strutturazione di legami di attaccamento sicuri, idonei a regolare
le emozioni32 e a stabilire connessioni intersoggettive atte alla
condivisione degli stati emotivi e delle informazioni provenienti

29
N.L. McElwain - C. Booth LaForce, Maternal sensitivity to infant dis-
tress and nondistress as predictors of infant-mother attachment security,
«Journal of Family Psychology», 20 (2), (2006), pp. 247-255.
30
Cfr. C. Riva Crugnola, La relazione genitore-bambino. Tra adegua-
tezza e rischio, cit.
31
Cfr. P. Fonagy - M . Target, Attachment and reflective function: Their
role in self-organization, «Development and Psychopathology», vol. 9, Issue
4, (1997), pp. 679-700.
32
C. Trevarthen, Communication and cooperation in early infancy. A
description of primary intersubjectivity, in M. Bullowa (a cura di) Before
speech: The beginnings of human communication, London, Cambridge Uni-
versity Press, 1979, pp. 321-347.

31
dall’ambiente circostante, in modo tale che il genitore operi
un’adeguata funzione di scaffolding.
Per comprendere adeguatamente il ruolo chiave giocato dal-
la comunicazione e dalla metacomunicazione nelle relazioni
umane, nello sviluppo infantile e nella possibile insorgenza di
comportamenti disfunzionali, bisogna partire dai contributi
scientifici offerti in questa direzione dal filone dell’Infant re-
search, secondo cui i bambini possiedono sin dalla nascita un
cervello intrinsecamente emotivo e comunicativo: i neonati han-
no una mente dialogica.
Esponente di spicco di questa scuola di pensiero è Trevar-
then che durante i suoi studi ha ipotizzato che nel cervello del
neonato ci sia la presenza di un’immagine neurale del proprio
corpo in grado di riflettere la forma e l’attività del corpo di
un’altra persona: «per poter imitare, il neonato deve avere una
rappresentazione cerebrale delle persone, un’immagine motoria,
sensibile sia alla forma del corpo in movimento, sia alle caratte-
ristiche temperamentali del movimento imitato»33
L’intersoggettività è scandita da una forma di sviluppo sta-
diale e si snoda in un arco temporale compreso tra zero e due
anni. Nei passaggi tra una fase e un’altra risultano cruciali le
principali riorganizzazioni del sistema nervoso del bambino e i
relativi cambiamenti nel suo rapporto con il mondo, il quale è
filtrato in modo determinante dall’interazione con la madre.
La prima fase, definita da Trevarthen34 intersoggettività
primaria, si riferisce alla coordinazione tra il proprio sé e l’altro
attraverso il rispecchiamento empatico. Si tratta della c.d. rela-
zione nucleare in cui si inseriscono le proto-conversazioni face-

33
C. Trevarthen, The concept and foundations of infant intersubjectivi-
ty. In S. Bråten (Ed.), Intersubjective Communication and Emotion in Early
Ontogeny, Cambridge University Press, 1998, pp. 15-46.
34
C. Trevarthen, Communication and Cooperation in Early Infancy: A
descriprion of primary Intersubjectivity, Before Speech: The Beginning of In-
terpersonal Communication, 1979, pp. 321-348.

32
to-face, l’imitazione neonatale, la ricerca attiva del contatto vi-
sivo da parte del bambino e la comparsa del sorriso sociale35.
L’intersoggettività primaria corrisponde, dunque, a un pecu-
liare tipo di interazione caratterizzata da un forte tratto sociale e
da un intenso livello di emotività, da cui trae origine la motiva-
zione della comunicazione e lo sviluppo della capacità di realiz-
zarla.
Tale fase è seguita dall’intersoggettività secondaria36, che
inizia approssimativamente verso i nove mesi ed è caratterizzata
dall’inclusione di un tema o di un oggetto separato
nell’esperienza di condivisione diadica madre-bambino37.
L’intersoggettività secondaria continua il suo percorso di
sviluppo fino ai due anni di età e si conclude con l’acquisizione
della consapevolezza delle intenzioni rispetto agli oggetti, non-
ché con la condivisione dei significati che è alla base
dell’apprendimento culturale, poiché nello snodarsi fisiologico
dello sviluppo – in questa fase – il bambino impara a relazionar-
si con l’ambiente, a comprendere l’esperienza del mondo com-
piuta da altre persone e a collegare l’esperienza del mondo altrui
con la propria.
Sulla scorta di questi postulati Trevarthen è giunto ad af-
fermare che l’esperienza intersoggettiva nell’infanzia rappresen-
ta la base su cui si costruiscono le forme di intersoggettività
adulte.

35
B.E. Sheese, M.K. Rothbart, M.I. Posner, L.K. White, S.H. Fraun-
dorf, Executive attention and self-regulation in infancy. Infant Behavior and
Development, 2008, 31, pp. 501-510.
36
C. Trevarthen, Communication and Cooperation in Early Infancy: A
descriprion of primary Intersubjectivity, Before Speech: The Beginning of In-
terpersonal Communication, già cit.
37
M. Legerstee, A. Pomerleau, G. Malcuit, H. Feide, The Development
of infants’s response to people and doll: implications for research in commu-
nication. Infant Behavior and Development, 10, 1987, pp. 81-95.

33
Ciò trova conferma nelle successive ricerche di psicologia
evolutiva, di neuropsicologia e neonatologia secondo le quali il
bambino è biologicamente predisposto per la relazione38.
A ben vedere, già Piaget aveva intuito che i processi biolo-
gici, cognitivi e socio-emotivi sono bidirezionali e si influenza-
no a vicenda, ponendo in rilievo che nello sviluppo cognitivo
mente e corpo sono interdipendenti39.
Lo studioso ginevrino aveva osservato che i bambini co-
struiscono la loro visione del mondo secondo quattro fasi di svi-
luppo cognitivo, in cui l’evoluzione è qualitativamente differen-
te in ogni stadio: quest’ultimo è messo a confronto con lo stadio
che lo precede oppure con quello che lo segue in una sorta di
processo di unificazione delle influenze tra biologia ed esperien-
za.
Piaget infatti aveva messo in rilievo che il bambino pensa
tramite schemi, secondo un modello di pensiero usato per orga-

38
In tal senso si vedano: Tronick E. Z., Als H., Adamson L., (1979)
Structure of early face-to-face communicative interactions. Before Speech:
the Beginning of Interpersonal Communication, 349-370; Tronick E., Als H.,
Adamson L., Wise S., Brazelton T.B., (1978) Infants response to entrapment
between contradictory messages in face-to-face interaction. Journal of the
American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 17: 1-13 164; Tro-
nick E.Z., (1982) Social interchange in infancy: Affect, cognition and com-
munication. Baltimore: University Park Press; Tronik E., (2008) Regolazione
emotiva. Raffaello Cortina Editore, Milano; Fogel A., (1995) Relational nar-
ratives of the pre-linguistic self. The self in infancy: Theory and research,
117-139; Beebe B., Knoblauch S., Rustin J, Sorter D., (2003) An Expanded
View of Intersubjectivity in Infancy and its Application to Psychoanalysis.
Psychoanalytic Dialogues, 13(6): 837-873; Beebe B., Sorter D., Judith Rustin
M.S.W., Knoblauch S. (2003) Comparison of Meltzoff, Trevarthen, and
Stern. Psychoanalytic Dialogues The International Journal of Relational
Perspectives 13(6): 777-804; Stern D. (1985) The Interpersonal World of the
Infant: A view from Psychoanalysis and Developmental Psychology New
York, Basic Books; Stern D. (1987) Il mondo interpersonale del bambino,
Bollati Boringhieri, Torino; Stern, D. (1985) Affect attunement. Frontiers of
infant psychiatry, pp. 3-14. New York, Basic Books.
39
J. Piaget J. The costruction of reality in the child, New York, Basic
Books, 1954, (ed. or. 1937) tr. it. La costruzione del reale nel bambino, Fi-
renze, La Nuova Italia, 1973.

34
nizzare, rappresentare e interpretare la realtà, ciò implica che
egli si adatti all’ambiente circostante mediante quelle medesime
strutture mentali.
Sul solco tracciato da tali approdi scientifici, autori come
Vygotskij40 e Bruner41 hanno aggiunto un’ulteriore consapevo-
lezza: la partecipazione del bambino alle interazioni sociali è un
fattore cruciale per lo sviluppo cognitivo e per quello del lin-
guaggio, poiché ogni processo mentale ha un’origine sociale e la
cognizione è influenzata dalla cultura.
Così come per Trevarthen, anche secondo Bruner42, il bam-
bino partecipa attivamente fin dai primi mesi di vita agli schemi
interattivi che sono stabiliti dalla necessità biologica e sociale,
quali ad esempio gli orari di sonno, di veglia e di nutrizione e
questi fanno in modo che l’interazione si strutturi secondo para-
digmi fissi, in cui adulto e bambino cooperano per uno scopo
comune. Ed è nel corso delle interazioni sociali e comunicative
che si formano le basi per lo sviluppo di quello che Bruner defi-
nisce pensiero narrativo.
Si possono ipotizzare «almeno due tipi distinti di modelli
del mondo costruito dagli esseri umani – uno che rappresenta il
mondo della natura e l’altro quello della cultura o dell’esistenza
umana. Data la nostra passione ideologica per la comprensione
scientifica, abbiamo sempre avuto la tendenza a sottovalutare la
profonda differenza tra queste due sfere, di conseguenza, a tra-
scurare l’incommensurabilità tra questi due ambiti e la difficoltà
che comporta il tentativo di ridurli l’uno all’altro»43.

40
L. Vygotsky, Thought and Language, Cambridge, MA, MIT Press,
1962, (ed. or. 1934), tr. it. Pensiero e linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 1990.
41
J.S. Bruner, Prime interazioni sociali e acquisizione del linguaggio.
L’interazione madre-bambino: oltre la teoria dell’attaccamento, Franco An-
geli, Milano, 1977, p. 327-347.
42
J.S. Bruner, Actual Minds, Possible Worlds, Cambridge, MA, Har-
vard University Press, 1986.
43
J.S. Bruner, Lo sviluppo cognitivo, trad. it. E. Riverso, Armando Edi-
tore, Roma, 1994, p. 67.

35
Con queste parole Bruner traccia la linea di confine tra pen-
siero razionale e pensiero narrativo: mentre il primo è finalizzato
all’adattamento dell’uomo al suo ambiente fisico, il secondo so-
stiene l’interazione con gli altri esseri umani e aiuta a dare un
senso all’esperienza.
Da questo punto di vista, sia nella filogenesi sia
nell’ontogenesi, il pensiero narrativo deve considerarsi preesi-
stente al pensiero scientifico. Nella filogenesi ciò è dimostrato
dalla presenza di storie, miti e leggende con cui gli uomini han-
no cercato di dar conto a se stessi delle origini della vita; mentre
nell’ontogenesi dal fatto che i bambini comprendono precoce-
mente tutto ciò che è narrato sotto forma di fiaba o di storia,
mentre solo in un momento successivo del loro sviluppo posso-
no avere accesso alla cognizione di testi a carattere scientifico o
saggistico.
Nei suoi ultimi scritti Bruner ha posto in evidenza due
aspetti fondamentali del pensiero narrativo. Il primo è dato dalla
dimensione interpretativa: in essa si contrappongono la canoni-
cità della narrazione e la sua apertura alla possibilità. Si può os-
servare come la prevedibilità rassicurante del canone culturale
venga sfidata continuamente da una infinita serie di possibilità
alternative che si danno nel prodursi storico delle narrazioni,
nell’affrontare un problema e nel trovare la soluzione.
Ciò suggerisce che il pensiero narrativo non segue un mo-
dello già stabilito e condiviso dalla comunità cui si appartiene, al
contrario di quanto accade con il pensiero scientifico, il quale
deve seguire un andamento idoneo a riconnettersi con conoscen-
ze già date, condivise e accettate.
Come vedremo nelle pagine seguenti, il rapporto tra identità
e linguaggio, tra comunicazione e interazioni umane, tra mes-
saggi distorti e patologie relazionali è profondo e indissolubile e

36
la teoria di Bruner sul pensiero narrativo ne è un’importante te-
stimonianza, poiché esso è costituito dalla creazione narrativa
del sé, dimensione essenziale di costruzione della identità sog-
gettiva e insieme di apertura costante all’Altro.
La costruzione dell’identità è intimamente legata alla narra-
zione, perché l’identità si costruisce all’interno della comunica-
zione con gli altri, e quest’ultima è il frutto della cultura in cui si
vive immersi.
La scoperta della dimensione narrativa del pensiero chiari-
sce definitivamente quale sia la funzione del raccontare nello
sviluppo della mente e dell’identità infantile, così come disvela
anche il ruolo che essa gioca nel processo di trasformazione
adulta. Si rivela narrativa (e non logico-analitica) la modalità
con cui la mente racconta di sé a se stessa, e perciò costruisce e
ricostruisce incessantemente il disegno della propria storia di vi-
ta e, interpretandosi, si orienta e si auto-dirige: fuori dalla narra-
zione non possiamo rendere coscienti i bisogni, i desideri e le
paure, con tutto ciò che ne consegue in termini di dissoluzione
dell’identità e costruzione di relazioni suscettibili di essere di-
sfunzionali o addirittura patologiche.
Le evidenze scientifiche ci consegnano un dato incontrover-
tibile: la vita affettiva, quella cognitiva e quella relazionale sono
avvinte da un nesso indissolubile.
Cognizione, affetti e relazioni, dunque, devono essere inda-
gati in una prospettiva sistemica, nella quale l’uomo, sin dalle
prime fasi della vita, deve ritenersi un essere-in-relazione, coin-
volto in scambi affettivi, sociali e comunicativi capaci di scrive-
re la sua storia, nel bene e nel male.

1.3. L’affettività: dalla genesi del concetto di affetto alla


sua valenza fondativa in ambito pedagogico.
E’ assai difficile individuare una definizione che compiuta-
mente chiarisca il significato dell’affetto, inteso come categoria
concettuale. Rossi lo definisce come quella «vasta regione della

37
via psichica costituita dalle molteplici forme di reazione e rispo-
sta globale dell'essere umano agli stimoli, ai fatti, alle esperienze
che lo riguardano da vicino»44.
Il rimando all’ambito psicoanalitico è di tutta evidenza: in
questa definizione viene evocata immediatamente la dimensione
soggettiva interiore, correlata allo specifico vissuto personale.
Il nesso tra affetto e dimensione intima dell’essere umano è
tutt’altro che estraneo alle riflessioni che da sempre attraversano
la storia del pensiero, come ci ricorda il richiamo all’affettività
racchiuso nel termine greco pathos. Dal greco πάσχειν, letteral-
mente “soffrire” o “emozionarsi”, il pathos greco-antico è come
uno scroscio d’acqua che s’insinua, scorre, scava, si scinde, per
seguire i mille rivoli dell’animo umano e il suo fluire è un per-
corso che involge tutto, sia la dimensione affettiva che quella
cognitiva. Il pathos è, dunque, esperienza che attraversa l’uomo
e lo forma, nella perenne interazione tra sentire ed esperire.
Questo ritiene il sofista Gorgia da Lentini, già prima di Pla-
tone e Aristotele, quando nell’Encomio di Elena, pur ammetten-
do la resa della bella regina alle seduzioni esercitate da Paride,
dichiara: «Gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di
gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti alla disposizione
(hexis) dell’anima, la potenza dell’incanto, questa la blandisce e
persuade e trascina col suo fascino […]. C’è fra la potenza della
parola e la disposizione (hexis) dell’anima lo stesso rapporto che
tra l’ufficio dei farmachi e la natura del corpo. Come infatti certi
farmachi eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni
troncano la malattia, altri la vita; così anche dei discorsi, alcuni
producon dolore, altri diletto, altri paura, altri ispiran coraggio

44
B. Rossi, Pedagogia degli affetti, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 29; F.
Montuschi, Competenza affettiva e apprendimento. Dalla alfabetizzazione af-
fettiva alla pedagogia speciale, La Scuola, Brescia 1993, p. 19.

38
agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avve-
lenano l’anima e la stregano45.»
Nel sottolineare lo stretto rapporto tra la potenza della paro-
la e la disposizione dell’anima – in quanto il logos può condi-
zionare lo spirito al punto da essere apportatore di gioia e con-
solatore di pena – il sofista suggella il legame tra sentire ed
esperire.
Specchio degli imperscrutabili meandri dell’io, contrasto tra
libero arbitrio e fatalità, tra conscio ed inconscio, tra passione e
ragione, il pathos antico si lega all’etica attraverso la παιδεία, se
è vero che, come sostiene Aristotele, nessuno – neppure
l’adultera Elena – è lodato o riprovato per le passioni che sente,
ma semmai per il modo col quale poi le gestisce o le governa46.
È l’educazione lo strumento che consente all’uomo di gesti-
re il pathos. E chi ha sperimentato i benefici dell’essere amato
ed educato alla cura troverà dentro di sé i codici per il governo
di sentimenti ed emozioni, il cui articolarsi scolpisce, nel bene o
nel male, l’animo umano.
Il pathos greco nella traduzione latina diventa affectum.
Questo participio passato apre il sipario sul significato
dell’affetto nel senso dell’essere modificato da cause esterne. E’
pacifico d’altronde che esso generi processi trasformativi solle-
citati dall’interazione dell’uomo con se stesso e con l’altro; in
questi termini – e senza dubbio – l’affetto è un autentico e im-
portante fenomeno pedagogico47, per la sua capacità di imprime-
re una traccia, una direzione precisa alle relazioni umane.
Sulla scorta di tale consapevolezza, la dimensione affettivo-
emozionale ha sempre destato un profondo interesse in diversi

45
Gorgia, Encomio di Elena, DK 82 B 11, §§ 10 e 14, tr. it. di G. Pa-
duano, Liguori, Napoli 2007.
46
Aristotele, Etica Nicomachea, 1105b 30 - 1106a 14, tr. it. di C. Natali,
Laterza, Roma-Bari 1999.
47
Cfr. A. Fabris - F. Botturi - C. Vigna (a cura di), Il coinvolgimento degli
affetti, in Affetti e legami, Vita e pensiero, Milano 2004, pp. 24-27.

39
ambiti, a cominciare da quello letterario, sino a quello psicoana-
litico e a quello educativo.
Si pensi alle teorie psicoevoluzionistiche di Darwin in cui le
emozioni e gli affetti espressi dagli animali e dagli uomini svol-
gono un compito importante, sia ai fini della sopravvivenza del-
la specie, sia ai fini dell’adattamento all’ambiente.
Si pensi inoltre alla riflessione freudiana, che ha attribuito
un ruolo fondamentale agli affetti in ordine alla genesi delle ne-
vrosi48, sostenendo che a ogni rappresentazione psichica è con-
nessa una parte affettiva, fondante la sua base energetica.
Nonostante le evoluzioni successive delle teorie freudiane49,
gli studi e le ricerche ad esse ispirati50 recuperano ed avvalorano
la complessa e articolata fenomenologia dei vissuti e delle espe-
rienze affettive individuali e, al contempo, lumeggiano la natura,
la funzione e il significato degli affetti nei contesti interazionali,
comunicativi, relazionali e clinici51.
Il valore dell’esperienza affettiva nelle primissime fasi della
vita è stato, infatti, riconosciuto e posto alla base degli studi di
Spitz, secondo cui la dimensione affettiva non solo condiziona
lo sviluppo emotivo del bambino, ma anche la sua maturazione
psichica.
«Raramente ci si rende conto della grande importanza della
madre nei processi di apprendimento e di presa di coscienza del

48
J. Breuer - S. Freud, Studi sull'isteria, in Opere, vol. 1, Bollati Borin-
ghieri, Torino 1967.
49
In una prima fase Freud attribuisce un ruolo f ondamentale
agli affetti in ordine alla genesi delle nevrosi, sostenendo che ad ogni
rappresentazione psichica è connessa una parte affettiva, f ondante la
sua base energetica. Successivamente perviene, mediante i suoi scritti
metapsicologici, ad un modello pulsionale della mente in cui l'affetto,
essendo l'aspetto energetico delle rappresentazioni psichiche delle pul-
sioni, diventa un derivato pulsionale, mentre le dinamiche relazionali sono
il risultato delle vicissitudini pulsionali stesse.
50
Il riferimento è a H. Kohut, M. Mahler, D. Stern, J. Bowlby, C.
Winnicott e M. Klein.
51
Cfr. M. Ammaniti - N. Dazzi (a cura di), Affetti. Natura e sviluppo delle
relazioni interpersonali, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 3-23.

40
bambino. Ancor più raramente ci si rende conto dell’importanza
primordiale che in questo processo hanno i sentimenti della ma-
dre, cioè quello che noi chiamiamo atteggiamento affettivo. La
tenerezza della madre le permette di offrire al bambino una ricca
gamma di esperienze vitali; il suo atteggiamento affettivo de-
termina la qualità delle esperienze stesse. Ognuno di noi perce-
pisce affettivamente e reagisce alle manifestazioni affettive.
Questo vale ancor più per il bambino, il quale percepisce affetti-
vamente in modo assai più pronunciato dell’adulto. Nei primi tre
mesi le esperienze del bambino sono esclusivamente di ordine
affettivo; il sensorio, la capacità di discriminazione, l’apparato
percettivo non sono ancora sviluppati dal punto di vista psicolo-
gico e forse neppure dal punto di vista fisico. Quindi è
l’atteggiamento affettivo della madre che serve di orientamento
per il lattante52.»
Ad analoghi esiti sono pervenute le note ricerche di John
Bowlby e di Mary Ainsworth.
Come accennato, infatti, già nella seconda metà del secolo
scorso Bowlby teorizzava l’importanza del legame di attacca-
mento, il cui corretto instaurarsi è garantito unicamente dalla
capacità dell’adulto di prendersi cura del proprio piccolo; di tal-
ché, anche sotto il profilo squisitamente psicologico, la cura si
manifesta in tutta la sua forza dirompente.
Il legame di attaccamento53 viene definito come un legame
duraturo e non transitorio, che si stabilisce con una persona spe-
cifica non intercambiabile con qualsiasi altra. Così come la per-
dita di una persona a cui si è particolarmente affezionati causa
tristezza indipendentemente dal fatto di essere circondati da altri
soggetti significativi, allo stesso modo, per il bambino, l’assenza

52
R.A. Spitz, (1965), Il primo anno di vita del bambino. Genesi delle
prime relazioni oggettuali (Prefazione di Anna Freud), trad it. di G. Galli
e A. Arfelli Galli, Giunti-Barbera Editore, Firenze 1972, p.29.
53
M. Ainsworth - J. Bowlby (1965), Child Care and the Growth of
Love, London, Penguin Books.

41
della figura di attaccamento non è compensabile dalla presenza
di un’altra qualsiasi persona.
Il legame, che ha quale postulato ineludibile la cura riserva-
ta al piccolo, inoltre, è emotivamente significativo e mette
l’individuo nella condizione di desiderare il contatto e la vici-
nanza con la persona verso la quale esso è stato stabilito.
Tale desiderio, pur variando in funzione dell’età, delle con-
dizioni fisiche e psicologiche dell’individuo, si tramuta in uno
stato d’ansia quando egli si separa dalla persona alla quale è le-
gato; questo malessere, provato anche quando egli sceglie vo-
lontariamente (o è consapevole della necessità) di separarsi dalla
persona con la quale ha costruito un legame di attaccamento, è
generato dal desiderio non soddisfatto di stare accanto alla per-
sona amata.
I legami di attaccamento, oltre a presentare tutte le suddette
caratteristiche che accomunano le relazioni affettive, sono con-
traddistinti dalla ricerca di sicurezza e di conforto da parte del
caregiver. Di fronte ad una situazione di disagio, l’individuo
sente il bisogno di utilizzare la figura di attaccamento come una
“base sicura” in cui rifugiarsi per sentirsi protetto, confortato e
aiutato, e dalla quale allontanarsi rassicurato dalla sua presenza,
per poter esplorare il mondo fisico e sociale che lo circonda.
L’attaccamento viene definito sicuro se l’individuo riesce a
trovare, nella relazione, il conforto desiderato; in caso contrario,
il legame viene definito insicuro.
Lo studio dell’attaccamento nel ciclo vitale si basa princi-
palmente su due modelli di valutazione: la Strange Situation per
la prima infanzia e l’Adult Attachment Interview per l’età adul-
ta.
La Strange Situation, sviluppata originariamente da Mary
Ainsworth54 è una procedura standardizzata videoregistrata in

54
M.D.S. Ainsworth, B.A. Witting, Attachment and exploratory behav-
ior of one-year olds in a Strange Situation, in Foss B.M. (a cura di) Determi-
nants of infant behaviour, Methuen, London, vol.4, 1969, pp.11-136.

42
cui un bambino di uno-due anni viene esposto a una serie di
brevi separazioni dalla propria madre (o da un’altra figura di at-
taccamento) in un ambiente sconosciuto e in presenza di un
estraneo.
Utilizzando questo strumento la celebre allieva di Bowlby
ha descritto per la prima volta la differenze di attaccamento nel
bambino classificandole in tre tipi di pattern: 1) Sicuro (B); 2)
Insicuro-Evitante (A) ; 3) Insicuro-Ambivalente (C).
Successivamente Mary Main e Judith Solomon55 hanno
identificato un quarto pattern: Insicuro-Organizzato/Disorientato
(D) e Patricia Crittenden56 ne ha delineato un quinto, denomina-
to Evitante/Ambivalente (A/C).
Gli esiti delle ricerche condotte da John Bowlby e dalla sua
allieva Mary Ainsworth ci appaiono illuminanti, perché il valore
della cura nelle relazioni umane – di cui la relazione madre-
bambino è il simbolo assoluto – travalica spesso i limiti del rap-
porto, diventando un habitus mentale, una cultura, un modo di
vivere.
Così le cure ricevute, che sono espressione dell’impegno
profuso nell’accudimento, trasferiscono codici di comportamen-
to e diventano educazione all’altro, alla realtà che ci circonda, al
rispetto, all’affettività, così come alla narrazione.
Quest’ultima, come posto in rilievo nelle pagine preceden-
57
ti , è il più importante strumento di trasmissione culturale, in
quanto consente di costruire e trasferire significati, di dare forma
all’esperienza.

55
M. Main, J. Solomon, Procedur for idenitfyng infants as disor-
ganized/disoriented during the Ainsworth Strange Situation, in Attachment
in the preschool years, a cura di M.T. Greenberg. D. Cicchetti - E.M. Cum-
mings, Universiry of Chicago Press, Chicago, 1990.
56
P.M. Crittenden, Pericolo, sviluppo e adattamento, A. Landini (a cura
di), Masson, Milano, 1997.
57
J.S. Bruner (1986), La mente a più dimensioni, tr. it. di R. Rini, Later-
za, Roma-Bari 2003.

43
L’individuo può venir fuori solo dall’introspezione che
conduce all’essenza dell’uomo e la via verso questo guardarsi
dentro può essere tracciata solo dalla cura.
È così che la cura si fa pedagogia: essa consente al piccolo
di comprendere rapidamente che per esistere bisogna oltrepassa-
re sé stessi, trascendere e prendersi cura della propria persona,
degli altri come anche del mondo circostante, fatto di assonanze
e differenze, fatto di molteplicità che coesistono e talvolta si in-
crociano, fatto di pluralità all’interno delle quali riconoscersi o
riconoscere i propri consimili nell’assoluta consapevolezza della
propria identità.
Ne consegue che affetto, comunicazione, esperienza e rela-
zione sono le parole chiave. Questi dunque sono i significati at-
torno ai quali si schiude la capacità di essere adulti responsabili
e consapevoli del valore della cura58.
L’assenza di cura, come l’assenza di un’affettività sana, il
perdurare di situazioni conflittuali, per contro, rendono le rela-
zioni disfunzionali, col rischio che tale tratto, in mancanza di in-
terventi tempestivi e adeguati, degeneri in patologia relazionale.

1.4. Il passaggio dalla disfunzione alla patologia relazio-


nale.
A questo punto della disamina è di tutta evidenza che il cen-
tro delle riflessioni sulla funzionalità o disfunzionalità dei lega-
mi umani, in particolare quelli che si sviluppano in famiglia, è
rappresentato dalla relazione. E la relazione si definisce in uno
spazio ben preciso: quello della comunicazione.
Gli studi sulla pratica della comunicazione umana, sui suoi
aspetti concreti e sugli effetti che la stessa genera nella costru-
zione delle relazioni tra individui sono iniziati negli anni ’50 con
Paul Watzlawick e i suoi collaboratori della scuola di Palo Alto.

58
Cfr. A. Fabris, Il coinvolgimento degli affetti, cit., pp. 24-27.

44
Nel celebre testo Pragmatica della comunicazione59 essi
hanno analizzato le disfunzioni relazionali giungendo ad affer-
mare che alcuni distorti meccanismi delle interazioni umane af-
fondano le loro radici nell’abitudine a comunicare in modo di-
sfunzionale.
Lo scopo della pragmatica della comunicazione è quello di
evidenziare come ogni processo comunicativo tra esseri umani
sia sempre composto da due dimensioni diverse ma inseparabili:
da un lato il contenuto esplicito, ossia ciò che le parole dicono in
base ai significati convenzionali; dall’altro la relazione interper-
sonale, che corrisponde a ciò che i parlanti non dicono ma la-
sciano intendere – a livello verbale e più spesso non verbale –
sulla qualità della relazione che intercorre tra loro e sulle aspet-
tative reciproche.
Il grande contributo offerto dalla Scuola di Palo Alto allo
studio delle disfunzioni relazionali in famiglia è rappresentato
principalmente dalle evidenze scientifiche sul ruolo del discorso
nei comportamenti umani: il discorso, infatti, è il prodotto
dell’interazione dei parlanti che contribuiscono a co-costruirlo e
il suo significato muta anche in relazione al contesto.
Il concetto di contesto si allarga e assume un’altra veste, da
elemento di sfondo, che pone restrizioni e vincoli alla realizza-
zione dei significati, diviene elemento prodotto e costruito dagli
interlocutori stessi nel corso dell’interazione. Seguendo questa
prospettiva, l’interazione comunicativa può essere analizzata
come «il risultato di un complesso intreccio di attività svolte da
due o più soggetti che, interagendo, costruiscono congiuntamen-
te il senso delle proprie azioni, sulla base di una disponibilità al-
la comunicazione e di un bagaglio di conoscenze comuni o co-
munque oggetto di negoziazione»60.

59
P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson, Pragmatica della comuni-
cazione umana (Ed. or. 1967), Astrolabio, Roma, 1971.
60
Galimberti C., La conversazione. Prospettive sull’interazione psico-
sociale, Milano, Guerini & C.,1992, p.57

45
L’oggetto di indagine del gruppo di ricerca di Palo Alto si è
concentrato sulle dimensioni materiali e sui processi della co-
municazione, partendo dal principio alla base della teoria di
Watzlawick, che è rappresentato dal primo assioma della Prag-
matica della comunicazione: «non si può non comunicare»61.
Il dialogo è ineludibile e ogni tentativo in tal senso si risolve
solo in una modifica dei codici comunicativi, poiché anche la
postura, lo sguardo, l’atteggiamento, i gesti e i comportamenti
altro non sono che trasmissione di messaggi.
Si tratta del complesso fenomeno della comunicazione non
verbale, altrettanto idoneo a generare interazioni dialogiche, le
quali non sono mai descrivibili in termini lineari, ma rispondono
ad attività di scambio, più simili a modelli circolari, all’interno
dei quali non si rintracciano un inizio e una fine, una causa e una
conseguenza, ma piuttosto continui processi di definizione, ne-
goziazione e ri-definizione delle relazioni tra individui.
D’altronde che l’uso del linguaggio possa produrre delle
conseguenze nella vita quotidiana e nelle relazioni umane era
già stato intuito e teorizzato da Francesco Bacone, che analiz-
zando gli idoli del foro, prodotti dall’uso dei nostri strumenti
linguistici, osservava che «le parole fanno gran violenza
all’intelletto e turbano i ragionamenti trascinando gli uomini a
innumerevoli controversie e considerazioni vane. […] Gli idoli
del foro sono i più molesti di tutti, perché si sono insinuati
nell’intelletto per l’accordo delle parole e dei nomi. Gli uomini
credono che la loro ragione domini le parole; ma accade anche
che le parole ritorcano e riflettano la loro forza sull’intelletto, e
questo rende sofistiche e inattive la filosofia e le scienze62».
La Scuola di Palo Alto, che ha confermato anche sotto il
profilo scientifico le intuizioni del filosofo inglese, ha dato vita

61
P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson, Pragmatica della comuni-
cazione umana (Ed. or. 1967), Astrolabio, Roma, 1971, pag. 44.
62
F. Bacone, (Ed. or. 1620), Novum organum, Nuovo organo in Opere
filosofiche, vol. I, Laterza, Bari 1965,pag.266-274.

46
all’approccio secondo cui la comunicazione umana produce ef-
fetti specifici sul comportamento, tant’è che i difetti di comuni-
cazione possono ritenersi una delle principali cause alla base dei
conflitti nelle relazioni interpersonali, in particolare di quelle in-
trafamiliari, per via della loro intrinseca capacità di indurre rea-
zioni specifiche e determinare così il contenuto della relazione.
Ciò trova conforto nel secondo assioma della Pragmatica
della comunicazione, secondo cui «ogni comunicazione ha un
aspetto di contenuto e uno di relazione di modo che il secondo
classifica il primo, ed è quindi metacomunicazione»63.
In altre parole, in ogni trasmissione di informazioni sono
implicati due livelli comunicativi: quello del contenuto e quello
della relazione, per cui «una comunicazione non soltanto tra-
smette informazioni, ma al tempo stesso impone un comporta-
mento».64
L’informazione sul contenuto è data dagli aspetti semantici,
mentre ciò che codifica la relazione è il modo in cui viene dato il
messaggio: tono, gesti, postura, delineano il significato del con-
tenuto, che cambia di valore in funzione della modalità in cui
viene espresso.
A mero titolo esemplificativo si pensi al tenore della se-
guente domanda formulata da un collega ad un altro sul luogo di
lavoro: «perché non ti accerti che l’indirizzo mail a cui inviare i
documenti sia corretto? Così sarai sicuro che il tuo lavoro andrà
a buon fine». Tale domanda non presenta alcuna differenza nel
contenuto rispetto alla seguente: «cerca l’indirizzo corretto pri-
ma di mandare la mail». Emerge in maniera chiara che ciò che
cambia non è il messaggio ma il tipo di relazione tra i parlanti;
nel primo caso ci si trova di fronte a una relazione strutturata
sulla pariteticità degli interlocutori e sulla collaboratività, men-

63
P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson, Pragmatica della comuni-
cazione umana (Ed. or. 1967), già cit., p. 46.
64
Ivi, p. 43.

47
tre nel secondo caso la relazione che viene proposta è di domi-
nio-sottomissione.
Le risonanze emotive e le risposte comportamentali che
provocano questi due messaggi sono molto diverse: perciò è
l’aspetto della relazione che chiarisce il significato del contenu-
to.
Come nell’esempio proposto, quando qualcuno non accetta
una peculiare tipologia di messaggio, il rifiuto potrebbe non es-
sere rivolto al contenuto, ma alla relazione proposta, al “come”
si comunica piuttosto che al “cosa” si veicola nel processo co-
municativo.
Se, a seguito dell’ingiunzione proposta con toni autoritari, il
destinatario del messaggio opponesse una reazione di rifiuto ri-
spetto al suggerimento ricevuto, potrebbe – attraverso la meta-
comunicazione – voler dire all’altro interlocutore che non accet-
ta una relazione improntata sul dominio, lasciando sullo sfondo
il contenuto dell’ingiunzione.
È ormai pacifico, d’altronde, che molti dei conflitti della
comunicazione nascono proprio perché i parlanti non sono
d’accordo su come impostare la loro relazione comunicativa.
Spesso si crede di scontrarsi per ragioni di contenuto, mentre in
realtà lo si sta facendo con riferimento alla relazione.
Quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più è
fluido il passaggio dell’informazione da un interlocutore
all’altro. Viceversa le relazioni patologiche sono caratterizzate
«da una lotta costante per ridefinire la natura delle relazioni,
mentre l’aspetto del contenuto della comunicazione diventa
sempre meno importante»,65 perciò «la capacità di metacomuni-
care in modo adeguato non solo è la conditio sine qua non della
comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata al
grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri».66

65
Ivi, p. 44.
66
Ivi, p. 45.

48
1.5. La natura della relazione.
L’importanza della corretta decodifica della relazione è sot-
tolineata nel III assioma della Pragmatica della comunicazione,
secondo cui «la natura di una relazione dipende dalla punteggia-
tura, dalle sequenze di comunicazione tra i partecipanti»67.
Per tale ragione, secondo Paul Watzlawick e i suoi collabo-
ratori, i meccanismi psicologici della comunicazione devono es-
sere suddivisi in tre sottosettori: sintassi, semantica e pragmati-
ca.
Il primo comprende le problematiche legate alla codifica e
alla decodifica dell’informazione, ai canali e alla ridondanza
della stessa, affrontando così le questioni connesse ai problemi
sintattici di ordine e sequenza delle informazioni; il secondo si
occupa del significato degli elementi della comunicazione per i
comunicanti: le parole; e infine il terzo sottosettore, quello
pragmatico, si occupa degli effetti della comunicazione sui par-
lanti, ossia dell’influenza che questa esercita sul loro comporta-
mento.
Nella visione costruttivista di Watzlawick, infatti, ogni sin-
golo evento dialogico partecipa alla realizzazione di schemi di
comunicazione e di azione ripetitivi tra i soggetti, di copioni che
nel tempo diventano sempre più statici e che definiscono in mo-
do non esplicito – ma concreto nella sua manifestazione fattuale
– le regole, le credenze, i ruoli interni alla relazione che finisco-
no con l’attribuire identità precise alle persone coinvolte, identi-
tà rigidamente percepite dagli interlocutori come immutabili e
dunque portatrici di un significato che spesso oltrepassa anche il
contenuto reale delle informazioni oggetto della conversazione.
Un esempio significativo di quanto appena osservato è rap-
presentato dall’uso frequente di stereotipi nel linguaggio scritto
e parlato. Si pensi alle piattaforme social o alle pagine di alcuni
giornali in cui spesso si fa ricorso a formule linguistiche stan-

67
Ivi, p. 51.

49
dardizzate quali: «gli immigrati sono criminali», «i musulmani
sono tutti intolleranti», «i giovani sono superficiali», «le donne
sono irrazionali» e così via. Si tratta, a ben vedere, di indebite
generalizzazioni, che nascono dalla confusione tra ciò che è sta-
to accertato solo per alcuni individui e ciò che, senza il conforto
di alcun dato, si attribuisce per contro a un intero gruppo di per-
sone.
La fattispecie appena richiamata corrisponde a un errore in-
terpretativo determinato dalla confusione tra i diversi livelli lin-
guistici, tra linguaggio oggetto e metalinguaggio, tra definizioni
concettuali e descrizioni empiriche.
Ne consegue che la confusione tra i diversi livelli linguistici
genera l’ulteriore confusione tra l’individuo e la classe a cui ap-
partiene68.
Questa sovrapposizione, che presenta un’intrinseca perico-
losità anche rispetto alla capacità di generare conflitti, è molto
diffusa nel mondo contemporaneo e nel linguaggio generalista
dei mass-media, tant’è che la si considera uno dei fattori alla ba-
se di emergenze sociali molto gravi quali sono le nuove ondate
di intolleranza e razzismo.
Gli studiosi appartenenti al movimento filosofico della Se-
mantica Generale69 affermano che il linguaggio presenta un ca-

68
P. Watzlawick, J. H. Weakland, R. Fish (ed. or. 1973), Change; Prin-
ciples of Problem Formation and Problem Resolution, W.W. Norton &
Company, New York-London, trad it. M. Ferretti (a cura di) La formazione e
la soluzione dei problemi, Astrolabio, Roma, 1974, pp. 24-26, 41-42.
69
Movimento filosofico fondato da Alfred Korzybski che ha avuto ad
oggetto lo studio delle esperienze comunicative presenti nella vita quotidiana.
Nel suo lavoro più importante, Science and Sanity (1933), Korzybski afferma
che il progresso umano è dovuto in gran parte a un sistema nervoso più fles-
sibile, che è capace di formare e usare rappresentazioni simboliche o mappe.
Il linguaggio, per esempio, è un tipo di mappa o modello del mondo che ci
consente di riassumere o generalizzare le nostre esperienze e di trasmetterle
ad altri, evitando che ripetano gli stessi errori o che inventino nuovamente
qualcosa che è già stato scoperto.
Korzybski sosteneva che questo tipo di abilità linguistica di generalizza-
re, caratteristica degli esseri umani, giustifica il nostro formidabile progresso

50
rattere complesso ed è suscettibile di esercitare una forte in-
fluenza sulla vita delle persone, di conseguenza – secondo i fau-
tori di questa corrente di pensiero – bisognerebbe promuovere
un processo di coscientizzazione su tali postulati al fine di evita-
re le trappole linguistiche prodotte dall’uso errato degli strumen-
ti di comunicazione, poiché è da tali trappole che sono generati i
più importanti problemi di incomunicabilità alla base delle rela-
zioni sociali disfunzionali.
Il contributo della Semantica generale sembra incontrare
una conferma nel IV assioma della Pragmatica della comunica-
zione, a mente del quale «gli esseri umani comunicano sia con il
modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio nume-
rico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia
ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione,
mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha nes-

rispetto agli animali, ma il fraintendimento e l’uso scorretto di questo mecca-


nismo simbolico è anche responsabile di molti dei nostri problemi. Egli rite-
neva che gli esseri umani avessero bisogno di essere opportunamente istruiti
nell’uso del linguaggio, per prevenire la confusione e gli inutili conflitti che
sorgono quando si scambia la mappa per il territorio. Korzybski riteneva che
fosse importante insegnare alle persone come riconoscere e superare le loro
abitudini linguistiche, allo scopo di comunicare più efficacemente e per ap-
prezzare meglio le caratteristiche uniche delle loro esperienze quotidiane.
Cercò di sviluppare degli strumenti che avrebbero indotto le persone a valuta-
re le loro esperienze attraverso gli aspetti peculiari di una determinata situa-
zione, piuttosto che attraverso le implicazioni generate dal loro linguaggio
abituale. Il suo obiettivo era incoraggiarle a ritardare le loro reazioni imme-
diate, per cercare di individuare gli aspetti peculiari della situazione e di for-
mulare interpretazioni alternative. Le idee e i metodi di Korzybski sono stati
fondamentali per la “neurolinguistica”, definita nel 1941 dallo studioso stesso
un importante campo di studio collegato alla semantica generale. La neuro-
linguistica sostiene che tutti gli esseri umani hanno la propria visione del
mondo e che essa è basata sulle mappe interne costruite attraverso il linguag-
gio e i sistemi rappresentazionali sensoriali, come risultato delle esperienze
della vita di ciascuno. Sono le mappe “neurolinguistiche” che determinano il
modo in cui l’essere interpreta il mondo circostante e reagisce ad esso, come
insegna l’Amleto di Shakespeare «nessuna cosa è buona o cattiva, è il pensie-
ro che la rende tale».

51
suna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia am-
biguo la natura delle relazioni».70
Gli esseri umani quindi comunicano sia con il linguaggio
numerico (verbale) sia con quello analogico (non verbale). Il fat-
to che la specie umana, grazie alle sue caratteristiche biologiche,
abbia saputo sviluppare un linguaggio inteso come sistema di
segni e simboli altamente complessi, non vuol dire però che essi
utilizzino solo il linguaggio verbale per comunicare, ben poten-
do trasferire messaggi attraverso la combinazione di parole e ge-
sti, suoni ed espressioni del viso, intonazioni e prossemica, il cui
intreccio può produrre informazioni coerenti oppure paradossali
o contraddittorie, ove non del tutto distorte.
La suddivisione del linguaggio in due diversi tipi: digitale e
analogico, è presente anche negli studi di Gregory Bateson, pa-
dre della teoria familiare di orientamento sistemico, secondo il
quale la famiglia è un sistema che dipende dalle interazioni co-
municative tra i suoi membri. Il celebre studioso, partendo da un
approccio multidisciplinare – frutto dei contributi dell’etologia,
della biologia, dell’antropologia, della psichiatria,
dell’epistemologia, della logica – ha elaborato nelle sue opere
una visione olistica dei diversi fenomeni presi in considerazione
e, in questa direzione, ha sviluppato i suoi studi sulle funzioni
del linguaggio e su come esse incidano nelle relazioni umane.
Dividendo il linguaggio in digitale e analogico, Bateson ha
attributo al primo la funzione di soddisfare le sole esigenze co-
municative e al secondo quella più articolata di definire la rela-
zione che si intende stabilire con colui che riceve il messaggio.
Le comunicazioni quotidiane sono spesso l’esito
dell’ambiguo combinarsi del linguaggio digitale e di quello ana-
logico, la qual cosa rende incerte e complicate le relazioni che si
instaurano tra i diversi interlocutori. I problemi sorgono perché
il linguaggio verbale è di solito inadeguato per esprimere il tipo
70
P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson, Pragmatica della comuni-
cazione umana (Ed. or. 1967), già cit., p. 57.

52
di relazione che si vuole instaurare con chi è in ascolto, mentre il
linguaggio analogico non possiede una sintassi logica capace di
eliminare le ambiguità dei messaggi.
Le nostre esperienze comunicative possono perciò risultare
spesso oscure perché è necessario tradurre i messaggi da un tipo
di linguaggio all’altro; operazione che può rivelarsi particolar-
mente difficoltosa, oltre che idonea a produrre rilevanti perdite
di informazioni, o anche equivoci, data l’eterogeneità dei diversi
linguaggi.

1.6. Il doppio vincolo.


Il difetto di comunicazione così descritto è il postulato teo-
rico di quello che Bateson ha definito «doppio vincolo, o doppio
legame».
Il doppio vincolo caratterizza una particolare relazione, la
quale lega una persona ad alcuni membri della sua famiglia, di
solito i suoi genitori, ma anche ad altri soggetti – come ad esem-
pio il proprio insegnante o il proprio superiore gerarchico – che
svolgono una funzione di guida nella sua vita. In questa relazio-
ne sono presenti ingiunzioni primarie negative, che vietano al-
cuni particolari comportamenti, e ingiunzioni secondarie, di soli-
to comunicate attraverso il linguaggio analogico, che contraddi-
cono le prime. Queste ingiunzioni contraddittorie possono essere
imposte sia da un singolo soggetto, genitore, insegnante, datore
di lavoro o superiore gerarchico, sia da più soggetti, i quali pos-
sono negare l’uno l’ingiunzione dell’altro.
Il soggetto che vive l’esperienza del doppio vincolo spesso
non è consapevole della contraddizione esistente e non è in gra-
do di metterla in discussione e, per dirla con Bateson, «è punito
se discrimina correttamente i messaggi della madre, ed è punito
se li discrimina erroneamente: è preso in un doppio vincolo»71.

71
G. Bateson, (ed. or. 1972), Steps to an ecology of mind, University of
Chicago Press, Chicago and London, trad it. G. Longo (a cura di) Verso
un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976, p. 250.

53
Egli, quindi, vive delle comunicazioni distorte nel suo ambiente
familiare e/o sociale e chiunque si trovi a vivere per lunghi pe-
riodi l’esperienza del doppio vincolo, soprattutto durante la sua
infanzia, è esposto al rischio di incontrare importanti difficoltà
nell’interpretazione dei messaggi, determinata dall’incapacità di
distinguere tra i diversi livelli linguistici, tra comunicazione e
metacomunicazione, con la conseguenza che potrà sviluppare
forti insicurezze comportamentali dovute ai continui dubbi nutri-
ti sulla coerenza logica del proprio universo esistenziale.
Il doppio legame corrisponde dunque all’esperienza della
ricezione di messaggi contrastanti, la quale genera una forte sof-
ferenza per via dell’incapacità di elaborare correttamente i con-
tenuti della comunicazione interna e di quella esterna.
Le vittime del doppio legame spesso si sentono intrappolate
in una situazione che richiede il completamento di un compito
specifico che può portare ad un risultato positivo da una parte e
ad un risultato negativo dall'altra. Si pensi ad esempio a una per-
sona che subisce forme di maltrattamento: se quest’ultima viene
informata di essere amata e apprezzata e contestualmente riceve
il messaggio che la rivelazione dell’abuso avrebbe come conse-
guenza la cessazione di tali sentimenti, si trova in una situazione
di disorientamento generato dal contrasto tra i messaggi, qualifi-
cabile come doppio legame.
Gli studi di Bateson hanno evidenziato altresì che nei conte-
sti familiari caratterizzati dal doppio vincolo spesso la patologia
relazionale che si sviluppa all’interno del nucleo diviene para-
dossalmente funzionale alla conservazione dell’equilibrio siste-
mico dello stesso72; tali approdi sono stati approfonditi dal grup-
po di lavoro del Mental Research Institute dell’Università di Pa-
72
Ivi, p. 267: «La situazione di comunicazione descritta è fondamentale
per la sicurezza della madre, e, quindi, per via d’inferenza, per l’omeostasi
familiare. […] se il contatto tra il paziente e la famiglia viene mantenuto
(specialmente se il paziente durante la terapia vive con i familiari), ciò può
causare disturbi (spesso gravi) alla madre e talvolta alla madre, al padre e agli
altri fratelli».

54
lo Alto in California, al quale lo stesso Bateson aveva collabora-
to e che ha continuato in modo proficuo le sue ricerche, ricono-
scendo in più occasioni tale debito nei confronti dello studioso73.
Tant’è vero che Watzlawick, per descrivere il processo della
definizione dei ruoli nella relazione e gli effetti da essa prodotti
– anche quando essi corrispondano al paradosso appena richia-
mato – è partito dal concetto di scismogenesi elaborato proprio
da Gregory Bateson.
Il concetto di scismogenesi (o schismogenesi), nato negli
anni ’30 nel corso di studi antropologici sulle popolazioni Iatmul
della Nuova Guinea, ha iniziato a delinearsi nella mente dello
studioso durante l’osservazione del rituale chiamato Naven, che
è una particolare celebrazione mediante la quale le popolazioni
Iatmul festeggiano momenti ritenuti importanti per la vita di un
individuo e per farlo si travestono con abiti del sesso opposto.
L'antropologo ha interpretato quest'usanza alla luce di due
categorie tipicamente occidentali: quella dell’ethos e quella
dell’eidos, deducendo dagli elementi osservati che l'ideale ma-
schile Iatmul è intriso di una profonda fierezza e crudeltà
(ethos), che non contempla la possibilità di esprimere sentimenti
(eidos), attitudine che è considerata invece esclusivamente
femminile. Durante il rituale del Naven, grazie al travestimento,
gli uomini hanno modo di esternare sensazioni emotive e le
donne possono ostentare fierezza, ossia possono sperimentare
ruoli e sentimenti negati nel quotidiano.
Bateson ha posto in luce che l'accentuarsi dell'adesione al
modello maschile, rappresentato dalla forza, dal coraggio e an-
che dall’aggressività, è idoneo a ingenerare nelle mogli delle
popolazioni Iatmul un crescente atteggiamento di sottomissione.

73
P. Watzlawick, J. H. Weakland, R. Fish (ed. or. 1973), Change; Prin-
ciples of Problem Formation and Problem Resolution, W.W. Norton &
Company, New York-London, trad it. M. Ferretti (a cura di) La formazione e
la soluzione dei problemi, già cit., pp. 14, 41-42.

55
Questo fenomeno se non interrotto dall'esterno, come accade in
occasione del Naven, può portare ad estreme conseguenze.
Gli studiosi della Scuola di Palo Alto, a partire da tali pre-
messe, hanno dimostrato che il comportamento individuale è
l’esito dell’interazione cumulativa tra individui74.
Infatti – per tale scuola di pensiero – il fenomeno della sci-
smogenesi, costituito dalla coesistenza di modelli inconsape-
volmente accettati, produce come effetto quello di mantenere
l’equilibrio nell’interazione tra le persone in una forma di stasi
che può impedire il cambiamento.
In questo scenario la relazione rimane ferma e si muove so-
lo nello spazio tracciato dal modello precostituito perché le re-
gole non dichiarate del rapporto non possono essere poste in di-
scussione, data anche la mancanza di consapevolezza degli indi-
vidui coinvolti rispetto alla loro vigenza.
La patologia della relazione si colloca, secondo Watzla-
wick, proprio all’interno della rigidità di alcune forme di intera-
zione che perdurano nel tempo nonostante siano disfunzionali al
benessere delle persone che le vivono. E sul carattere rigido di
tali rapporti patologici egli costruisce la distinzione tra relazioni
simmetriche e asimmetriche.

1.7. Relazioni simmetriche e asimmetriche.


Per dare una compiuta definizione delle relazioni simmetri-
che e asimmetriche, bisogna partire dal quinto assioma della
Pragmatica della comunicazione, secondo il quale «tutti gli
scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a
seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza»75.
Il tratto patologico della relazione simmetrica è rappresenta-
to dalla dinamica dell’uguaglianza, in cui il comportamento dei
soggetti coinvolti nella relazione negativa si struttura sul conti-

74
P. Watzlawick, B. J. Helmick, D. Jackson, Pragmatica della comuni-
cazione umana, già cit., p.58.
75
Ivi, p. 60.

56
nuo procedere imitavo di condotte uguali e contrapposte, che
esita in un’escalation di forte competizione oppure di rifiuto
dell’altro.
Per converso, la relazione complementare o asimmetrica si
fonda sullo schema della differenza, nel quale i due individui si
collocano in posizioni opposte e tendono a diversificare progres-
sivamente i propri comportamenti, rispettivamente di suprema-
zia (one-up) e di sottomissione (one-down).
Nella relazione complementare i due partner danno vita ad
una sorta di completamento a valenza negativa, fossilizzandosi
sull’asimmetria che genera inevitabilmente, e secondo uno
schema rigido, atteggiamenti di disconferma del sé per la perso-
na in posizione one-down.
Il paradigma delle relazioni simmetriche e complementari
richiama quello sotteso alla teoria del doppio legame di Bateson,
in cui l’interazione si cristallizza sull’incoerenza, tanto da spin-
gere i soggetti coinvolti al paradosso di non riuscire né ad indi-
viduare una modalità relazionale adeguata, né ad eludere la co-
municazione disfunzionale.
Watzlawick ha osservato che il doppio legame – trovandosi
all’interno di un rapporto affettivamente connotato, duraturo e
quotidiano – è riscontrato e riscontrabile proprio nello studio dei
casi clinici familiari.
È all’interno della relazione affettiva primaria, infatti, che il
doppio legame può realizzarsi come modello comunicativo
d’elezione, determinando così una situazione patologica in cui la
condizione di disagio nella quale versa apertamente uno dei
membri del nucleo è il sintomo più evidente di una modalità in-
terattiva globalmente disturbata.
La disfunzione va considerata nella sua totalità perché, in
ossequio agli assiomi della pragmatica della comunicazione già

57
esaminati, il comportamento si può studiare soltanto nel conte-
sto in cui si attua76.
Ne consegue che l’intervento terapeutico rivolto al singolo
non produce alcun miglioramento nella qualità relazione che si
snoda in un contesto di difficoltà, poiché il comportamento che
si presenta inadeguato potrebbe essere in realtà la sola reazione
attivabile in uno scenario di interazioni distorte.77
L’uscita dal circolo vizioso che si autoperpetua non può es-
sere rimessa ai protagonisti dell’agire dissonante, verosimilmen-
te indotti a ritenere normale o inevitabile il comportamento che
alimenta la relazione negativa, ma deve avvenire fuori da questo
schema.
Watzlawick, infatti, osserva che «nessuna asserzione fatta
dentro un dato schema di riferimento può nello stesso tempo
uscir fuori dallo schema, per così dire, e negare se stessa. È il di-
lemma di chi è preso da un incubo mentre sogna; non servirà a
niente tutto quello che cerca di fare nel sogno. Può sfuggire
all’incubo soltanto se si sveglia, il che significa uscir fuori dal
sogno. Ma il risveglio non fa parte del sogno, è uno schema
completamente diverso; è un non-sogno [...].»78
La spinta trasformativa può arrivare solo dall’esterno, attra-
verso un esperto che sappia individuare le dinamiche patologi-
che ormai cristallizzate in un quadro statico e ripetitivo delle
medesime sequenze. La figura professionale deputata
all’intervento deve saper decodificare le ridondanze comunicati-
ve, il linguaggio verbale e quello non verbale per poter leggere
l’esatto contenuto dei messaggi e dunque il contenuto della rela-
zione che tradisce la ragione per cui essa non funziona.
Gli approdi scientifici di Watzlawick e della Scuola di Pao-
lo Alto rappresentano una pietra miliare non solo per il lavoro

76
Ivi, p.39.
77
Ivi, p.68.
78
Ivi, pp.194–195.

58
terapeutico sulle famiglie disfunzionali, ma anche per la rifles-
sione pedagogica.
La Pragmatica della comunicazione ha squarciato un velo
sulla famiglia, presentandola non solo come nucleo che si com-
pone di individualità differenti, ma anche come gruppo che
struttura le proprie relazioni interne su regole autoprodotte e
spesso accettate in modo inconsapevole.
La mancanza di consapevolezza inevitabilmente richiama la
questione dell’educazione: se la funzione di quest’ultima è quel-
la di fornire strumenti utili a formare persone coscienti di sé,
delle proprie risorse e del proprio percorso esistenziale, se ne
deduce che essa è anche potente strumento di comprensione dei
vincoli che l’esperienza familiare porta con sé e comprenderli
significa elaborarli e correggerli prima che la sequenza comuni-
cativa distorta si radicalizzi e si riproduca anche nelle relazioni
successive.

59
Capitolo secondo

I conflitti familiari e le patologie relazionali: analisi di singole


fattispecie.

Perché i figli salvano e


tengono vivo il nome dei morti,
come i sugheri, reggendo la rete,
preservano il filo di lino dal fondo del mare.

Eschilo, Coefore.

2.1. I conflitti familiari: cenni introduttivi.


Cosa si nasconde dietro ai conflitti familiari? Cosa si cela
dietro la contesa di un figlio che diviene res tra le res in un’aula
giudiziaria? Cosa trasforma la casa da luogo simbolo della cura
a teatro della discordia e talora di morte? Cosa spinge un genito-
re a espungere l’altro dalla vita del figlio? Cosa c’è dietro
l’eterogenesi dei fini delle procedure separative divenute ormai
strumento di vendetta e non di giustizia?
Interrogativi complessi che richiamano le riflessioni di Mar-
tha Nussbaum sulla fragilità del bene79, sulla vulnerabilità
dell’uomo e sul suo rapporto con l’errore e con la sorte (τύχη).
Secondo la studiosa i sentimenti e le emozioni rendono fragile
l’essere umano perché lo lasciano nudo, disarmato di fronte a se
stesso e di fronte agli eventi, la cui imprevedibilità apre le porte
alla difficoltà di scegliere, di agire per il meglio mentre si è vinti
da una sofferenza sentita come insopportabile.

79
M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e
nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna, 2011.

60
«Chiunque ami un bambino si fa vulnerabile»80, dice la
Nussbaum, perché generare mette a rischio la persona, la espo-
ne, la rivela nell’inatteso.
La fragilità, quindi – intesa anche come consapevole fini-
tezza di tutto ciò che è umano e ad esso appartiene – è data dal
pericoloso combinarsi della sorte e delle passioni che travolgono
la vita di ciascuno.
A partire dalla brama di denaro e di potere, sino alla paura
dell’abbandono e della perdita degli affetti, l’uomo è tragica-
mente esposto al rischio che tali impeti si facciano incontrollabi-
li e – quali figli della ὕβϱις – forieri di conflitti nelle cui pieghe
si cela la tracotanza e il desiderio narcisistico di dominare la vita
degli altri, siano essi figli, genitori o compagni di una vita.
Si diventa fragili nella cieca convinzione di amare i propri
cari al punto da doverli proteggere da mali incombenti, sino ad
assumere la condizione di preda delle proprie paure ancestrali,
come quella dello smarrimento, del lutto, della separazione
dall’altro. Tali moti dell’anima, come un fiume che straripa,
rompono gli argini degli istinti più bassi, del senso di sopraffa-
zione sull’altro, che si fa sete di vendetta, rabbia e rancore, fa-
cendo affiorare le emozioni negative come epigoni del bene.
Il rapporto tra sorte, bene e sentieri imperscrutabili dell’io
era ben noto anche al mondo classico, che attraverso la lente in-
trospettiva delle tragedie ha affrontato i temi del male, del dolo-
re e della paura, sotto i cui colpi gli uomini soccombono, specie
quelli più pervicaci nell’opporsi al volere del Fato.
La tragedia è quindi qualcosa di più dell’ordinario dolore
dato dalla consumazione dell’esistenza e dall’esperienza della
morte: è l’esito del conflitto con l’ineluttabile, nasce
dall’opposizione ad esso, dal fargli resistenza, talvolta cedendo
al desiderio di vendetta.
Questo ci insegna Eschilo nell’Orestea.

80
Ivi, p. 30.

61
La trilogia si snoda infatti nel fil rouge dolente della vendet-
ta, che pervade la scena sin dall’inizio. Quest’ombra sembra sot-
tolineare che lo spargimento di sangue voluto per render ragione
ai torti e ai dolori subiti preluda a un vortice potenzialmente in-
finito di lutti, perdite, sofferenze, come è testimoniato dalla saga
degli Atridi.
Nella morsa della rabbia, della colpa e della pena, tutti i
protagonisti della trilogia di Eschilo agiscono e patiscono in una
disperata affermazione del proprio “io” a costo della vita. Vivo-
no la dimensione della coscienza dimidiata, del conflitto che op-
pone l’uomo all’altro uomo, o al dio, o al fato, anteponendo il
diritto ancestrale e privato dei γένη, delle stirpi, alle leggi della
πόλις, figlie di ∆ίκη.
Solo la ragione – che entra in scena con le Eumenidi – ri-
corda all’uomo di ogni tempo che il dolore non si annienta con
la rabbia, ma va posto al vaglio dell’Aeropago, va consegnato
alla collettività che saprà come rendere Giustizia senza cedere al
rancore.
Quando è privo della luce della ragione «l’uomo è catturato
con levità dal dolore»81, osserva Natoli, perché le difficoltà ob-
nubilano la mente e non rendono vigili contro l’errore; la levità è
il veleno che si insinua leggero e silente nell’anima, trasforman-
dosi in mortifera illusione di attenuare la sofferenza mediante la
ferinitas, una trappola macabra tra pulsione vitale e mancanza.
Cedere al desiderio di vendicare il torto subito è un perico-
loso inganno teso dalla Discordia, perchè – come dice Eschilo in
un Coro de I Persiani – «Ate con volto benigno e carezze adesca
dapprima l’uomo nelle sue reti, né poi rimane mortale che sap-
pia spiccarsi e sgusciare di là.»82
La Discordia è oscuramento e tracotanza che stordisce gli
esseri umani, i quali confondono un moto dell’anima dal caratte-

81
S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura
occidentale, Feltrinelli, Milano, 2002, pag.111
82
Eschilo, I Persiani, vv. 98-101.

62
re transitorio con la pericolosa convinzione di essere onnipotenti
e dunque capaci di modificare gli eventi secondo il proprio vole-
re.
Conflitti, discordia e dolore hanno attraversato nei secoli la
storia dell’uomo, presentando tratti immutabili e tratti inediti. Il
mondo contemporaneo ci consegna, ad esempio, una visione del
tutto nuova del dolore che appare ormai come un illustre scono-
sciuto messo al bando dal progresso inarrestabile.
La sofferenza oggi è un sentimento negato, a volte mercifi-
cato, quantificato in scale numeriche, classificato in esatte tipo-
logie, inquadrato in tabelle statistiche e calcolato come fattore di
rischio corrispondente a un possibile costo nei bilanci economi-
ci, ma quasi mai umanamente accolto.
Del dolore ci si vergogna perché non è compatibile con i
modelli di perfezione ostentati dal mondo contemporaneo.
L’uomo moderno è sempre più estraneo a se stesso e agli al-
tri, è una monade, è sfuggevole, perché si affanna a inseguire
miti, icone di questo tempo senza tempo, e si muove privo
dell’esatta consapevolezza di ciò che realmente vuole.
Circondato da immagini, egli ne diventa dipendente, vuole
corrispondere a ciò che esse ritraggono, e rimane intrappolato
come Narciso nelle sue stesse estensioni, fatte di una ricerca
spasmodica di perfezione che finisce con l’essere autodistrutti-
va.
Non c’è posto per il dolore in un mondo in cui le immagini
ritraggono solo persone o famiglie felici e belle, collocate in
contesti di vacanza o di lavoro che trasudano benessere e soddi-
sfazione richiedendo alla sofferenza di farsi da parte, di sparire.
Cosicché, a tale richiesta, essa risponde facendosi muta, nascon-
dendosi come una colpa, e finendo col nutrire come un concime
il groviglio di difficoltà che l’hanno generata.
Il dolore non si rivela, i problemi personali e familiari si ne-
gano, i maltrattamenti nella mura domestiche si tacciono per la
vergogna, per la paura e la sfiducia negli altri, perdendosi così la

63
possibilità di restituire alla vita chi resta intrappolato in simili
meccanismi.
La negazione della sofferenza da parte della società con-
temporanea trova una paradossale conferma nella sua spettacola-
rizzazione attraverso gli show televisivi, che hanno definitiva-
mente collocato a riposo il nobile πάθει µάθος di Eschilo, se-
condo cui il dolore è la via che permette all’uomo di riconoscere
i propri errori e arrivare così alla conoscenza (µάθος).
Il patire non è più la strada maestra per conoscere e superare
i propri limiti, ma un prodotto da commercializzare e su cui spe-
culare, tant’è che viene scientemente presentato come qualcosa
di estraneo a chi ne è temporaneamente preservato.
I format televisivi sul dolore scelgono una narrazione che
richiama la curiosità perversa del pubblico e tiene lontana la
possibilità di immedesimazione, la compassione è sostituita dal
voyeurismo e così il dolore si fa intrattenimento senza che lo
spettatore lo percepisca come una delle tante possibilità
dell’esistere.
Lo spettacolo allontana il dolore perché nell’«era analgesi-
83
ca» lo racconta come qualcosa di distante da chi ascolta, esso è
sempre di altri e in questo vortice che usa e consuma ogni cosa
la sofferenza viene venduta come qualcosa di godibile proprio
perché a carico di altri.
Si tratta a ben vedere di un macabro gioco di prestigio, per-
ché in realtà «l’uomo contemporaneo […] percepisce il rumore
di fondo della sofferenza anche se essa è tolta dalla scena ed è
occultata. La sofferenza trapela e forza la congiura del silenzio
che le molteplici, civili, e costruttive attività del giorno coprono
con il loro rumore fecondo […] L’eco sorda del dolore l’uomo

83
Cfr. A. L. Tirabassi (a cura di), Compendio di semantica del Dolore.
7: Filosofia del dolore, Istituto per lo studio e la terapia del dolore, Firenze,
1998, pp. 13-15.

64
contemporaneo se la porta dentro, la vive nella forma
dell’inquietudine, se la tiene nel cuore come ansia»84.
L’eco sorda del dolore, l’inquietudine, l’ansia non lasciano
indenne la famiglia, schiacciata dal peso di dover essere perfetta
e di voler rincorrere affannosamente modelli che non incontrano
alcuna possibilità di realizzazione.
Nell’angoscia generata dalle frustrazioni di un ménage fa-
miliare che non funziona – alimentata dalla mancata corrispon-
denza della propria vita a quella che sembra venir fuori dalle
immagini che affollano i social – si moltiplicano i non detti, i di-
fetti di comunicazione, i vuoti, le negazioni della sofferenza,
che, uniti all’ormai endemica indifferenza sociale e ai rischi di
vittimizzazione secondaria, contribuiscono ad accrescere conflit-
ti, violenze e dolore. Ed è così che questa umanità inespressa e
taciuta smette di marciare nell’oscurità per poi emergere strari-
pante nelle separazioni ad alto tasso di conflittualità, nelle alie-
nazioni parentali, nei maltrattamenti e negli abusi, attraverso i
quali diventa improvvisamente visibile.
All’umanità non narrata e sommersa sono dedicate le rifles-
sioni contenute in queste pagine, perché – come osserva Edda
Ducci – «il terreno dell’umano va soggetto al rapido formarsi di
croste: cessa l’ossigenazione e gli elementi vitali diventano pri-
ma inattivi poi muoiono. C’è bisogno dunque di chi ara e ara
profondo»85.

2.2. I legami nella postmodernità


L’analisi che ci si appresta a svolgere prende in esame il
complesso fenomeno della natura e della morfologia dei legami
nel mondo contemporaneo. La disamina postula una preliminare
distinzione tra situazioni conflittuali che portano alla rottura del

84
S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura
occidentale, già cit., pag. 270.
85
E. Ducci, Approdi dell'umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma, (I
ed. 1992), 2007, p. 69.

65
legame e situazioni patologiche che, per contro, necessitano di
una rottura per poter essere risolte.
La questione della fragilità dei legami, del rapido approdo
alla conflittualità e, poi, alla rottura, prende in considerazione
tutte quelle ipotesi in cui i condizionamenti derivanti dalla cultu-
ra della postmodernità erodono la capacità e il desiderio
dell’uomo di progettare e investire nei sentimenti. Si tratta di
ipotesi del tutto differenti da quelle che caratterizzano le patolo-
gie relazionali capaci di sfociare nel delitto; le prime potrebbero
costituire l’antecedente storico delle seconde in un processo de-
generativo, ma le due fattispecie devono comunque essere tenute
distinte, specie sul piano degli interventi. Mentre nel caso del
conflitto bisognerebbe costruire percorsi a carattere riparativo
finalizzati al recupero del legame; nel caso della relazione pato-
logica la scelta separativa spesso, ove non sempre, si presenta
come la via d’elezione.
Fatta tale doverosa premessa, si può tornare alla questione
illustrata in apertura.
Il postmoderno, facendo emergere ciò che di inconciliato e
frammentario vi è nell’esistere, tende ad attribuire una connota-
zione di provvisorietà all’esperienza in generale e, quindi, anche
ai legami, che divengono un luogo di minor investimento86.
«Una condizione, quella postmoderna, ancora determinante.
Perché è la questione del soggetto a essere in discussione oggi,
in sé e nel suo rapporto con gli altri, nella sua aspirazione alla
libertà, al riconoscimento, al suo divenire ‘noi’, politico e socia-
le, ma anche eco-antropologico, e ciò a partire dalla sua dipen-
denza, frammentarietà, dalla sua strutturale relazionalità. Il

86
Zygmunt Bauman descrive il passaggio dalla modernità alla post-
modernità come una transizione della società da uno stato solido a uno stato
liquido della società. Metafora che simboleggia il tramonto della tensione
verso valori universali e certezze scientifiche, tale passaggio riflette la consa-
pevolezza dell’uomo contemporaneo di non poter aspirare alla stabilità. Cfr.
Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma, 2003; Z. Bauman, Amore li-
quido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma, 2006.

66
postmoderno, infatti, è presa d’atto della dispersione e del de-
centramento del soggetto contemporaneo, dopo la caduta delle
illusioni del moderno, perciò spinge a mettere in discussione tut-
to un ordine del sapere che investe ancora in profondità tale
soggetto, e ciò sul piano proprio di quei rapporti tra l’io e la sua
esperienza – individuale, comunitaria, politica e così via – un io
dislocato, frammentato, rimosso per troppo tempo come io-
mente-corpo-natura, allontanato dal proprio sè»87.
Lo scenario appena delineato fa dire a Bauman che l’uomo
della postmodernità è «l’uomo senza legami»88; così come il
tratto tipico della modernità faceva dire a Musil che il simbolo
di quel tempo era l’Urlich de L’uomo senza qualità, cioè privo
di un’identità. Il passaggio dall’uomo senza identità all’uomo
senza legami altro non è che il passaggio dal moderno al post-
moderno e in questa transizione la riflessione si è spostata dal
singolo alla relazione, alla sua natura sempre più fragile; tant’è
che ciò genera nel sociologo polacco il grande interrogativo su
quale possa essere la sorte dei legami in un mondo in cui «gli
uomini e le donne, disperati perché abbandonati a se stessi, che
si sentono degli oggetti a perdere, che anelano la sicurezza
dell’aggregazione e una mano su cui poter contare nel momento
del bisogno, e quindi ansiosi di “instaurare relazioni”, [sono] al
contempo timorosi di restare impigliati in relazioni “stabili”, per
non dire definitive, poiché paventano che tale relazione possa
comportare oneri e tensioni che non vogliono né pensano di po-
ter sopportare»89.
L’instabilità che caratterizza il mondo esterno sembra abita-
re anche all’interno dell’uomo, intaccando così la solidità dei le-
gami, vissuti in guisa di accordi commerciali, e, dunque, scindi-
bili alla comparsa della frustrante sensazione che ciò che si vive
87
F. Cambi, P. Federighi, A. Mariani (a cura di), La pedagogia critica e
laica a Firenze: 1950-2015. Modelli. Metamorfosi. Figure, Firenze Universi-
ty Press, 2016, p. 155.
88
Z. Bauman, Amore Liquido, Prefazione, op. cit.
89
Ivi, p. VI.

67
appare profondamente diverso dalle proprie aspettative. Secondo
Bauman «in una cultura consumistica come la nostra, che predi-
lige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione
immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicu-
razione contro tutti i rischi e garanzie del tipo “soddisfatto o
rimborsato”, quella di imparare ad amare è la promessa (falsa,
ingannevole, ma che si spera ardentemente essere vera) di rende-
re l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e se-
duce sbandierando tutte queste qualità e promettendo soddisfa-
zioni immediate e risultati senza sforzi»90.
Ma l’amore non è questo. Come dice Levinas, esso è innan-
zitutto «una relazione con l’alterità, con il mistero, cioè con
l’avvenire, con ciò che, all’interno di un mondo, dove tutto è
presente, non è mai presente, con ciò che può non essere presen-
te quando tutto è presente. Non con un essere che non è presen-
te, ma con la dimensione stessa dell’alterità. Là dove tutte le
possibilità sono impossibili, là dove non si può più potere, il
soggetto è ancora soggetto grazie all’eros. L’amore non è una
possibilità, non è dovuto alla nostra iniziativa, è senza ragione,
c’invade e ci ferisce e tuttavia l’io sopravvive in esso»91.
Partendo dal concetto di Levinas secondo cui l’amore è re-
lazione con l’alterità e con la differenza, Bauman ci rende avver-
titi di quanto questo assioma sia distante dalla fenomenologia
dell’amore nel mondo contemporaneo. L’eternità delle relazioni
affettive è stata sostituita, infatti, dall’idea di un investimento
remunerativo, perciò se essa non dà più ciò che promette viene
conclusa perché giudicata insoddisfacente, secondo la cifra del
nostro tempo.
Un tempo nel quale la relazione umana è passata al setaccio
per verificare che corrisponda a quella concordata con il partner,
controllata attraverso le piattaforme social che sono diventate un

90
Ivi, p. 11.
91
E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, F. P. Ciglia (a cura di), Il Nuovo Me-
langolo, Genova, 2005, p. 36.

68
opprimente Panopticon, attraverso il quale nessuno può più
sfuggire all’ansia dell’accertamento, né da una parte né
dall’altra.
Già Deleuze e Lyotard, a partire dalla frattura socio-
economica dei primi anni ‘60, si erano resi conto che si stava
passando dalle foucaultiane società disciplinari alle società del
controllo: il postmoderno si qualifica infatti per la possibilità di
esercitare un controllo capillare e reticolare, di cui internet è
l’emblema assoluto.
A cavallo tra l’onnipresenza della telecamera e la moltipli-
cazione delle possibilità espressive, l’uomo è stordito da un vor-
tice che a ritmi tumultuosi schiude nuovi scenari e nuove oppor-
tunità.
Ciò genera l’angoscia provocata dalla paralisi della scelta,
come accade ai personaggi di Svevo e di Joyce, che vivono una
condizione esistenziale di «malattia dolente»92, che si insinua
dall’esterno, come un’imposizione che il mondo fa nei loro con-
fronti e che resta il più delle volte incomprensibile tanto da ren-
derli incapaci di scegliere.
Nei racconti dei Dubliners93 di Joyce la paralisi è la vera
protagonista, simboleggiata da una Dublino che lo stesso autore
descrive come «[…] the city seemed to me the centre of paraly-
sis». Nell’opera questo tema viene declinato in diversi modi: è la
paralisi fisica che ha colpito il vecchio prete protagonista del
primo racconto, ma è soprattutto la paralisi del giovane poeta ir-
landese di provincia di A little cloud, incapace di seguire i propri
sogni e incapace al contempo di separarsene continuando a illu-
dersi; o ancora la paralisi che coglie Eveline, nell’omonimo rac-
conto, alla banchina del porto, quando le basterebbe un passo
per raggiungere il suo compagno e cambiare finalmente vita.

92
I. Svevo, La coscienza di Zeno (ed. or. 1923), Feltrinelli, 2014.
93
J. Joyce, Gente di Dublino (Dubliners – ed. or.
1914), tr. it. D. Benati, Milano, Feltrinelli, 1994

69
L’uomo di oggi, sospeso e fluttuante, subisce la paralisi di
fronte al moltiplicarsi di opportunità che la vita sembra offrire,
così la scelta si trasforma rapidamente in una rinuncia incapace
di soddisfare la bulimia dell’esistere contemporaneo, non a caso
definito da Benasayag e Schmit «epoca delle passioni tristi»94.
Mutuando da Spinoza il sintagma «passioni tristi», gli stu-
diosi hanno posto in rilievo l’attuale diffusione del senso di im-
potenza e di disgregazione generati dalla progressiva perdita di
significati e dal dilagare del sentimento di insicurezza e di pre-
carietà.
Ciò dimostra – come dice Galimberti – che la crisi non è del
singolo ma della società tutta e dunque anche delle famiglie, di-
sarmate e angosciate all'idea di non essere in grado di provvede-
re al problema che affligge uno dei loro componenti, quindi di
non essere una "buona famiglia".
Inevitabile il prodursi di un dannoso e dolente senso di ina-
deguatezza, che finisce con l’inficiare la relazione con l’altro,
compromessa dalla paura di sbagliare, di non essere all’altezza
del proprio ruolo di genitore o di partner, di diventare una pro-
messa mancata.
La confusione emotiva cambia così la linea del tempo e il
futuro smettere di essere una promessa per diventare una minac-
cia, con la conseguenza che il presente diventa l’unica dimen-
sione del possibile. Il tempo declinato nel senso della sua rapida
consumazione finisce col condizionare il quotidiano, ne ridefini-
sce confini e possibilità, compromettendo il desiderio di investi-
re nella costruzione del legame e nel progetto familiare.
Ciò colpisce la relazione nel profondo, perché, come ben
sottolinea Vanna Iori, «l’orizzonte di ogni educazione familiare
è progettuale poiché pro-getta, getta davanti a sé, un futuro. Il

94
M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, trad. it. E.
Missana, Feltrinelli, Milano, 2013.

70
passato è presente nel progetto e costituisce uno stile familiare
in cui sono già impliciti i modi del futuro.»95
Il valore del progetto, sia nella coppia che nella genitoriali-
tà, è fondante, perché è nella volontà di edificare, nel «movi-
mento verso»96, nella continua trasformazione, che si segna il
discrimen tra percorsi compiuti da soli e percorsi condivisi, i
quali ultimi soltanto possono sfociare nella cultura della corre-
sponsabilità.
Il recupero della progettualità come valore culturale do-
vrebbe essere uno degli obiettivi della pedagogia, perché nelle
nuove generazioni non è di certo in crisi il naturale desiderio di
essere coppia, quanto il valore del legame al quale si connette
quello dell’identità di coppia, in sintesi il valore della progettua-
lità.
La scarsa cultura del progetto probabilmente è generata
dall’assenza delle consapevolezze necessarie sugli aspetti fonda-
tivi e identitari della relazione di coppia, cioè da quelle consape-
volezze che costituiscono la dimensione etica, che dà senso e di-
rezione alla relazione, basata sull'impegno e sulla dedizione al
legame.
L'amore di coppia se non è orientato da un ethos diventa un
amore fragile.
La diffusa convinzione che si debba rimanere una coppia fi-
no a quando sussistano le condizioni per esserlo prende in con-
siderazione esclusivamente l’aspetto più adolescenziale e giova-
nilistico dell’essere coppia: quello legato alla gratificazione e
all’appagamento, escludendo tout court quello non meno impor-
tante e non meno affascinante della fatica, dell’impegno, che
ciascuno dei due partners deve profondere in un progetto che
non può vacillare al primo segnale di difficoltà.

95
V. Iori, Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari, La Scuola,
Brescia, 2001, p. 116.
96
Ibidem.

71
Questo passaggio culturale non è di poco momento, perché
inserire nel processo educativo delle giovani generazioni
l’elemento della difficoltà, ed anche quello della naturale imper-
fezione che connota la condizione umana e le sue molteplici
possibilità di estrinsecazione, significa donare loro quelle strut-
ture del pensiero che consentono di non aver paura della fragili-
tà, di non vedere la relazione come un giocattolo rotto quando,
per le più svariate ragioni, uno dei due o entrambi i partners at-
traversino un momento di crisi e, forse, soprattutto di recuperare
il valore del tempo per superare la loro condizione di «giovani
incerti»97.
Incerti perché «essi si percepiscono innanzitutto immersi
nel presente, quasi si trattasse dell’unica estasi del tempo e se-
condo una modalità coscienziale che definirei puntuativa. Ciò è
connesso, per un verso, al rapporto negativo con il futuro che –
come già osservato – è percepito per lo più come una minaccia;
per un altro verso, a una presa di distanza dal passato, forse a un
vero e proprio oblio. Questo atteggiamento puntuativo è segnato
pertanto da una tendenziale caduta della speranza e dalla perdita
progressiva della memoria, sorta di anestesia del tempo e “di-
spercezione della storia”: per tale ragione la preoccupazione dei
giovani diviene piuttosto quella di procedere con espedienti,
“sopravvivere avanzando con una navigazione a vista”98.
La risposta pedagogica all’incertezza deve essere la messa
al centro del progetto esistenziale e del progetto di coppia, ove
due persone desiderino essere una coppia. Il recupero di questo
valore richiama gli adulti al loro ruolo di educatori, capaci di ac-
compagnare i giovani a compiere scelte impegnative, troppo
spesso precarizzate dagli adulti medesimi, incerti nel loro ruolo,
non istituzionalizzati e arresi di fronte al crollo del codice pater-

97
A. Bellingreri, La sfida dell’educativo nella società liquida, in Le sfi-
de sociali dell’educazione (a cura di G. Elia), 2014, Milano, FrancoAngeli,
pag. 16.
98
Ibidem.

72
no e di quello materno, che si sgretolano dinanzi alle paure e
agli smarrimenti che affliggono le società postmoderne.
L’assenza di riferimenti e di educazione al valore del tempo
ha prodotto quella metamorfosi della condizione umana, così
ben tratteggiata da Bauman e nella quale si legge una preoccu-
pante prevalenza delle figure della dissolvenza e della decostru-
zione99. Se così è, la contemporaneità finisce col consegnare ai
giovani, prima d’ogni altra cosa, la paura dei legami e forse an-
che la paura di impegnarsi a fondo, anche nei sentimenti. Tutto è
labile, temporaneo e fragile, perciò sta ormai nell’ordine delle
cose che le coppie siano tali finchè lo desiderano, finchè non sia
richiesto ai due partners di faticare per rimanere insieme, per ri-
manere fedeli a un progetto che meriti di permanere nel tempo.
E’ senz’altro vero che il legame può contenere aspetti di fa-
tica e di rischio ma «poiché bello è il premio e grande è la spe-
ranza … allora bello è il rischio»100. Il premio bello è quello ge-
nerato dalla cura della relazione, capace di resistere al tempo e
alle fisiologiche difficoltà che la vita presenta.
«La nozione di cura come elemento originario e costitutivo
dell’esistenza risale a Martin Heidegger e alla sua analitica del-
l’esser-ci»101. In questo senso la cura consente al mondo di di-
ventare l'ambito dei progetti e delle azioni dell'uomo, il luogo in
cui ci si prende cura delle cose – utilizzandole, comprendendole,
interpretandole – e si ha cura degli altri.
Sempre in questo senso la relazione non può essere intesa
come un mero spazio di autorealizzazione personale, ma come
una realtà nuova ed eccedente rispetto alle persone che la for-
mano. Con ciò beneficiando dell’aspetto fondamentale

99
Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi. Tr. S.
Minucci, Laterza, Roma-Bari 2004 (ed. or. 2003), pag. 33 e ss.
100
Platone, Fedone, «καλόν γάρ τό άθλον καί ή ελπίς µεγάλη … καλός
γάρ ο κίνδυνος» (114,c 9; d 6).
101
V. Burza, La relazione educativa. Una prospettiva critica per
l’emancipazione, cit. p. 98.

73
dell’appartenenza alla relazione stessa e dell'arricchimento che
ogni legame genera.
In un'ottica culturale marcatamente orientata all'autorefe-
renzialità, viene valorizzato l'aspetto affettivo ed espressivo del-
la relazione coniugale, concepita come mezzo, rispetto al quale
l'individuo è il fine.
In realtà questa è un'ottica antropologicamente miope, in
quanto la realizzazione personale non è mai autofondativa. La
realizzazione personale più profonda avviene sempre in una re-
lazione, grazie alla presenza di un'altra persona e mai in modo
automatico ma attraverso un processo di cura e di responsabilità
nei confronti del legame. Solo così il legame diventa generativo.
E può diventare generativo solo se lo si colloca all’interno
di un progetto, un progetto esistenziale che non può non com-
prendere anche momenti di fragilità, cadute, fallimenti, che se-
gnano sempre il tratto dell’umano, in qualsiasi via d’espressione
esso si incanali.
E’ affidato ad una nuova cultura della progettualità l’arduo
compito di sfatare il mito della coppia che resta tale finchè du-
ra, cioè fino a quando i due partners riescano a vivere la relazio-
ne senza sforzi, in una utopistica armonia senza incrinature, la
cui comparsa implica automaticamente la sua rottura.
Questa pericolosa rappresentazione rende i giovani contem-
poranei sempre più fragili e vulnerabili di fronte alla delusione,
perché carichi di irreali aspettative di felicità e dunque pericolo-
samente esposti allo smarrimento, al disorientamento, sempre
più incapaci di leggere nella difficoltà solo una fisiologica pos-
sibilità dell’esistere.
Le giovani generazioni avrebbero bisogno di essere educate
alla Responsabilità progettuale102. Ciò aiuterebbe le coppie a
comprendere adeguatamente anche il senso profondo delle
istanze educative cui prima o poi dovranno rispondere.
102
L. Pati, Genitorialità e responsabilità educative, in in Le sfide sociali
dell’educazione, già cit., pag. 64.

74
«La progettualità coniugale mal si concilia con la tempora-
neità, specialmente quando essa colloca nel proprio orizzonte
l’apertura alla vita e il desiderio inedito all’andamento della
realtà circostante.»103
Il progetto di coppia diventa così parte della nuova identità
che ciascuno dei due acquisisce in questa dimensione,
un’identità in cui confluiscono modi di essere, esperienze e vis-
suti che entrano a far parte di una nuova storia familiare alla cui
scrittura contribuiscono tutti i membri del gruppo, ricreando riti,
liturgie, codici che sono un patrimonio da tutelare, non da espor-
re al rischio di dissipazioni nelle quali si cancellano le vite e le
identità di tutti.
La famiglia infatti sceglie fini e mezzi attraverso cui attua-
lizzare il progetto educativo, che «va pensato tenendo conto del-
le metamorfosi sociali in atto, dei bisogni educativi dei genitori
e dei figli, tendendo a produrre una consapevolezza delle possi-
bilità umane, culturali ed educative (e quindi politiche) a reperi-
re le motivazioni necessarie per le trasformazioni dell’età adul-
ta.»104

2.3. La relazione di coppia e la rottura del legame.


Come già posto in rilievo da Paul Watzlawick, la famiglia
intesa come realtà esistenziale, dotata di caratteristiche specifi-
che capaci di incidere nel bene e nel male sui suoi componenti, è
frutto di una consapevolezza relativamente recente e ancora in
gran parte incompiuta, sia sotto il profilo degli interventi da rea-
lizzare, sia sotto il profilo della riflessione scientifica.
Certamente, un passo importante verso una più chiara foca-
lizzazione delle problematiche che investono la famiglia, e verso
una loro possibile definizione in senso epistemologico, è stato
compiuto proprio dalla Scuola di Palo Alto, che ha individuato

103
Ibidem
104
V. Iori, Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari, già cit., p.
117.

75
nella comunicazione povera un fattore che determina una bassa
qualità della stessa105.
Partendo dall’assioma base della teoria di Watzlawick, se-
condo cui è impossibile non comunicare, se ne deduce agevol-
mente che ogni tentativo di eludere il dialogo si rivela esclusi-
vamente un cambiamento di codice, poiché ogni postura, ogni
sguardo, ogni atteggiamento o gesto, altro non è che la trasmis-
sione di un messaggio.
Ciò implica che la struttura della relazione, che passa attra-
verso la comunicazione, sia essa verbale o non verbale, è onto-
logicamente complessa e necessita della lettura combinata dei
vari elementi dell’interazione, senza possibilità che essi vengano
scissi.
Oggi sappiamo, quindi, anche ai fini dell’analisi del conflit-
to e della rottura dei legami, che il dialogo non può essere de-
scritto in termini lineari (affermazione – risposta), ma risponde
invece a un modello circolare, all’interno del quale non esistono
un inizio e una fine, una causa e una conseguenza, poiché si trat-
ta di un continuo processo di definizione, negoziazione e ridefi-
nizione della relazione tra gli individui.
Nella visione costruttivista di Watzlawick, infatti, ogni sin-
golo evento dialogico partecipa alla realizzazione di schemi di
comunicazione e di azione ripetitivi tra i soggetti, di copioni che
nel tempo diventano sempre più statici e che definiscono in mo-
do non esplicito – ma concreto nella sua manifestazione fattuale
– le regole, le credenze, i ruoli interni alla relazione instaurantesi
tra le persone coinvolte.
Analoga interazione è rintracciabile nel conflitto, il quale
può essere costruttivo, quando c’è ascolto, impegno e negozia-
zione, conducendo così alla riconciliazione emotiva; distruttivo,
quando vi è coercizione, manipolazione, volontà di dominio e
violenza, conducendo per converso all’amplificazione del con-
105
Watzlawick Paul, Helmick Beavin Janet, Jackson Don, Pragmatica
della comunicazione umana (1967), Astrolabio, Roma, 1971, p.58.

76
flitto, ovvero alla sua eterna rimozione, suscettibile di generare
solo questioni irrisolte, risentimento e rabbia.
Il funzionamento della relazione di coppia è certamente in-
fluenzato da una serie di fattori, che vanno dallo stile di attac-
camento sviluppato durante l’infanzia con le figure di riferimen-
to, alle abilità personali dell’individuo, alla capacità o meno di
adattarsi all’altro mettendo in discussione parti di sé.
Partendo da questi presupposti, Vittorio Cigoli106 ha osser-
vato che la relazione coniugale si fonda sull’interconnessione tra
due patti che i partner suggellano: un patto dichiarato e un patto
segreto.
Il patto dichiarato è la manifestazione d’impegno formulata
in modo esplicito, che richiama l’importanza della promessa di
fedeltà e di obbligo reciproco. Tale patto è assunto quando è
profondamente voluto e interiorizzato da un punto di vista co-
gnitivo e affettivo e si traduce nella formulazione di un progetto
di vita condiviso e nella dedizione all’altro.
Se invece il progetto di vita ha poca consistenza e la scelta
reciproca è povera d’impegno ci si trova di fronte a un patto fra-
gile, spesso frutto di scelte emotive poco calibrate e facilmente
destinato a decadere.
Il patto segreto non è comunicato e si trova nella linea di
confine tra conscio e inconscio. Il patto segreto rappresenta i bi-
sogni affettivi e psicologici, i desideri, le paure, le speranze che i
coniugi ripongono nella relazione e che si aspettano di ottenere
dall’altro.
Questo sistema di aspettative si struttura a partire dalle
esperienze vissute nella famiglia d’origine e da altre esperienze
maturate nel corso della vita. Il patto segreto è praticabile quan-
do i partner, attraverso il loro incontro, soddisfano i bisogni af-
fettivi reciproci e quando è flessibile, cioè quando può essere ri-
lanciato e riformulato a seconda del mutamento dei bisogni e
106
Scabini E., Cigoli V., Il famigliare. Legami, simboli, transizioni,
Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.

77
delle attese, riuscendo in tal guisa a fronteggiare e superare le
crisi e i compiti di sviluppo che la coppia può incontrare.
Questo patto inconscio è vulnerato quando i bisogni
dell’altro vengono disattesi, non vi è intesa né scambio tra i
partner, col rischio che uno dei due diventi dominante rispetto
all’altro.
Affinché la relazione si sviluppi è necessario che ogni part-
ner sappia prendersi cura dell’altro, uscendo da una prospettiva
autoreferenziale. Cigoli, inoltre, afferma che la presenza di
aspetti di collusione è caratteristica di tutte le coppie e non va
intesa necessariamente in senso patologico.
Non è infatti la presenza della collusione a fungere da di-
scrimen tra funzionalità e disfunzionalità della relazione, ma è la
sussistenza di elementi come la capacità di costruire l’identità di
coppia, la reciprocità e la dimensione progettuale a rappresenta-
re un fattore protettivo per il legame. La coppia acquista identità
differenziandosi dalle famiglie d’origine e costruendo con que-
ste un nuovo tipo di legame: essa, cioè, deve saper costruire au-
tonomamente un proprio stile relazionale, a partire dalle modali-
tà apprese, ma evitando la ripetizione di modelli operativi interni
distorti.
Perché ciò avvenga è necessario avviare un processo di re-
golazione delle distanze, tracciando nuovi confini, tramite pro-
cessi di negoziazione.
Vittorio Cigoli ha individuato, attraverso uno schema che
incrocia le variabili del patto dichiarato con quelle del patto se-
greto, i possibili scenari disfunzionali del patto coniugale: di-
scordia, crollo del patto, deprezzamento del patto e povertà del
patto.
La discordia si crea quando il patto dichiarato è solo un
formale strumento di attribuzione di ruoli e il patto segreto è – di
conseguenza – impossibile da realizzare.
Gli elementi che connotano la relazione sono la mistifica-
zione, la manipolazione, l’attacco all’altrui debolezza per preva-

78
lere sull’altro, con possibili concessioni all’altro solo tempora-
nee.
I codici praticati divengono l’abuso e l’invasione, che tal-
volta si presentano ai partner come gli unici modi per sopravvi-
vere al costante senso di disperazione, alla sfiducia nella rela-
zione e alla conseguente frustrazione.
Il crollo del patto si verifica quando il patto dichiarato ha,
come nel caso precedente, solo un vestimentum formale e il pat-
to segreto si presenta rigido, impossibile da ridefinire e rinego-
ziare.
In questo caso i partner sentono di avere solo due possibili-
tà: decidere di mantenere un patto formale svuotato di compiti
affettivi e di impegno reciproco; o decidere di rompere il patto
attraverso la separazione.
Accade frequentemente che dinanzi al crollo del patto la
coppia, pur consapevole della fine del legame, ha difficoltà ad
accettarlo, con possibile innalzamento del conflitto che passa at-
traverso l’attribuzione reciproca della responsabilità per la fine
del legame.
Il deprezzamento del patto si ha quando il patto dichiarato è
fragile e quello segreto presenta una concreta difficoltà di realiz-
zazione.
Ciò genera precocemente un sentimento di scarsa fiducia
nella relazione, minacciata dalla paura che il patto possa essere
disatteso, e una scarsa resilienza di fronte le difficoltà.
I partner tendono, così, a difendersi dal dolore che proviene
dal legame, quasi divenendone indifferenti e riducendo progres-
sivamente l’impegno nella relazione.
Il crollo del patto evoca immediatamente le considerazioni
già spiegate sul montante sentimento di resa di fronte alle diffi-
coltà, tratto tipico dell’uomo contemporaneo, che in simili casi è
più incline ad abbandonare il campo e rivendicare altrove il di-
ritto alla felicità e a nuove emozioni, piuttosto che a coltivare
con fatica il progetto sentimentale in crisi.

79
La povertà del patto, da ultimo, implica che il patto dichia-
rato sia fragile, senza corpo, privo di solidità e fondamento di fi-
ducia, e il patto segreto sia rigido.
Ciò provoca nei partner la tendenza a espungere da sé il do-
lore della crisi, delegandone all’altro o a terzi il peso e consu-
mandosi nell’insoddisfazione crescente e nel senso di delusione.
La rottura del patto e la scelta separativa della coppia – se-
condo Cigoli – possono aprire diversi scenari.
Il primo corrisponde a quello che lo studioso definisce “Il
fallimento dell’incastro” e ha origine dall’abuso del patto dichia-
rato che viene dato per scontato, generando uno squilibrio nella
relazione in cui un partner finisce con l’essere dominante
sull’altro, lo assimila a sé e lo trasforma in uno strumento per la
soddisfazione dei propri bisogni.
Ciò può determinare la strutturazione di situazioni di abuso,
oppure scatenare la lotta per imporsi sull’altro, attraverso accuse
reciproche e rivendicazioni.
In questi contesti, spesso, si genera una doppia e inconcilia-
bile dimensione: quella del percepire come intollerabile la con-
vivenza in attesa che l’altro cambi e quella opposta
dell’incapacità di al legame: «non si dà vita al legame di coppia,
ma non si può fare a meno di inseguire pervicacemente il lega-
me107», si odia il legame, ma si vive nell’inferno della sua man-
canza.
Nelle separazioni in cui ci sono figli – in ipotesi di tal fatta
– gli ex partner non esitano a ignorare il loro senso di desolazio-
ne, li espongono alla spietatezza del loro conflitto e li strumenta-
lizzano presentandolo come vittime dell’altro da esibire.
Il secondo scenario viene definito “esaurimento del compi-
to” e si ha quando in principio l’interconnessione tra patto di-
chiarato e patto segreto è riuscita, ma nel tempo la coppia non
riesce a rilanciarla e a rinegoziarla. Ciò apre a due possibilità di
107
Ivi, p. 207.

80
reazione: l’accettazione dolorosa della fine o l’intollerabilità del-
la fine. Quando la fine è sentita come intollerabile avviene una
perversione del legame che diventa legame disperante. Esistono
due forme di legame disperante: nella prima qualcuno nella cop-
pia non può smettere di sperare in quel legame, nonostante la
sua fine, e continua a tenere vivo il legame con la guerra contro
l’ex coniuge; la seconda è una forma di difesa rispetto al dolore
della fine, dovendo attribuire a tutti costi a se stesso la capacità
di mantenere il legame, in un vortice insano di ostinazione per-
versa.
Tratto comune del legame disperante è l’incombenza
dell’altro, che è sempre presente e rappresenta il male, creando
un dolore da dipendenza.
Il terzo scenario è etichettato come “debolezza di pattuizio-
ne”, e si ha quando vi è uno scarso investimento nella relazione,
resa perciò molto fragile. I partner provano angoscia per il le-
game, sentito come costrizione e gabbia e possono attivare
un’azione difensiva di fuga. Dunque cambia la forma del danno
che non è la furia ma il distacco e il disimpegno, il legame con
l‘altro è impossibile, perciò lo si annulla. «Non a caso è facile
che i padri abbandonino letteralmente i figli e siano indifferenti
al loro destino: scindendo il rapporto con la donna-madre essi
tagliano via anche il frutto, cioè i figli. Non cambia così, pur-
troppo, la sostanza dannosa dello scambio generazionale108».
L’ultimo scenario è quello che va sotto il nome di “avveni-
mento sconcertante”. In alcune situazioni la coppia può trovarsi
di fronte a un evento sconcertante che mette in crisi la relazione;
ad esempio quando un membro della coppia manifesta all’altro
aspetti di sé totalmente sconosciuti. Si pensi – a mero titolo
esemplificativo – al caso in cui uno dei due partner riveli
all’altro di non voler avere figli mettendo così in discussione il
patto. In tale ipotesi la nascita del figlio può configurarsi come
108
Cigoli V. (2003), Contro l’enfasi della mediazione familiare, Terapia
Familiare, (72), p. 5.

81
evento sconcertante, infatti, la trasformazione della relazione
che il figlio comporta è tale che può incrinare gravemente il le-
game.
Altro evento sconcertante può essere l’incontro inatteso con
un’altra persona, che sollecita un nuovo legame sentimentale.
Anche in questo caso la coppia è di fronte a un bivio con due
strade: quella del riconoscimento dell’inatteso, cercando di
comprenderne le motivazioni, o quella della negazione
dell’analisi e dell’autoanalisi, indulgendo verso l’esclusiva attri-
buzione delle colpe all’altro, senza voler indagare in alcun modo
su eventuali responsabilità proprie.
Il rischio per le situazioni separative che si concludono con
conflitti pesanti è quello di perdere la rotta; si finisce con
l’impegnarsi in una battaglia ossessiva che troppo spesso si tra-
duce nella perdita della capacità di tutelare i figli, trasformati in
strumento dolente nella guerra personale o giudiziaria tra ex
partner.

2.4. La separazione: l’alta conflittualità e i pregiudizi in-


ferti ai minori.
La separazione, anche nelle ipotesi in cui si snodi su base
non conflittuale, crea comunque un grave vulnus nella vita di un
individuo e nella sua storia familiare, perché genera uno spazio
vuoto nella sfera dell’identità di ciascun partner, costruitasi nel
tempo all’interno della relazione.
Separarsi non significa solo doversi allontanare dalla perso-
na con cui si è condivisa parte della propria vita, ma è anche
«occasione di separazione-smembramento di se stesso rispetto la
propria storia e appartenenza familiare»109.
Ciò è fonte di frustrazione, di angoscia per la perdita di le-
gami importanti, a seguito della quale si impone una ridefinizio-

109
V. Cigoli, Intrecci familiari. Realtà interiore e scenario relazionale,
Raffaello Cortina, Milano, 1997 p. 103.

82
ne del proprio sé, messo in crisi dal disconoscimento di ruoli e
identità connessi alla vita coniugale e familiare.
Si tratta di un processo di ridefinizione simile a quello spe-
rimentato nell'adolescenza, in cui, come fa notare Erickson, ci si
pone la domanda «chi sono io adesso?».
Nella separazione di coppia, così come nell'adolescenza, si
è attraversati da un senso di perdita e disorientamento simili, che
vengono superati solo quando si è in grado di elaborarli e reinte-
grarli nella nuova identità.
L'esperienza separativa è dunque un'esperienza di crisi, an-
che nel senso etimologico che il vocabolo esprime. Derivando
dal greco κρίσις (separazione, cernita e in senso lato giudizio), la
crisi rimanda a un momento di scelta, di decisione forte che ine-
vitabilmente innesca un processo di disorganizzazione e senso di
smarrimento.
«C'è un grande, misconosciuto senso di morte nell'esperien-
za della separazione. Morte di una parte essenziale di sé che cia-
scuno, con serietà a volte insospettata, aveva proiettato non tanto
o solo nel partner e nei figli ma nel progetto complessivo di vita
che essi incarnano. Metter su famiglia, checché se ne dica, è an-
cora una cosa terribilmente seria»110.
Secondo la teoria ciclica del lutto111 il processo di elabora-
zione della perdita, più che essere attraversato da fasi che si sus-
seguono ordinatamente l’una dopo l’altra, si manifesta attraver-
so oscillazioni emotive, che si presentano in maniera ripetuta e
si rinnovano a intervalli di tempo costanti.
Secondo questo approccio, i principali sentimenti che cicli-
camente compaiono sono: l’amore, inteso come la speranza di
tornare insieme, le preoccupazioni verso l’altro e la nostalgia; la
collera, manifestata mediante il risentimento, la frustrazione e
110
I. Bernardini, Finché vita non ci separi. Quando il matrimonio fini-
sce: genitori e figli alla ricerca di una serenità possibile, Rizzoli, Milano,
1996, p. 11-12.
111
R. Emery, Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, Franco An-
geli, Milano, 1998.

83
l’ira verso l’altro; e infine il senso di solitudine e tristezza, che si
estrinseca attraverso la depressione e il senso di disperazione.
La letteratura scientifica112 osserva che, nel periodo di tem-
po necessario per rielaborare la separazione dall’altro (ma so-
prattutto da sé), si snodano una serie di processi rielaborativi che
possono richiedere tempi molto differenti per il loro completa-
mento. Ciascuno di essi è introdotto dal lemma «divorzio», il
quale non va inteso in senso tecnico-giuridico, cioè come istituto
che permette lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili
del matrimonio quando tra i coniugi sia venuta meno la comu-
nione spirituale e materiale di vita, ma come allontanamento tra
due individui che stanno attraversando la fatica della rottura di
un legame dai molteplici risvolti.
Paul Bohannan, già negli anni ’70 del ‘900, ha iniziato a
considerare il momento separativo nella sua complessità sociale
e psicologica, identificando sei dimensioni dello stesso (emo-
zionale, legale, economico, comunitario, genitoriale e psicologi-
co) e ha sostenuto che una coppia che decide di rompere il le-
game è esposta all’attraversamento di tutte queste dimensioni,
oppure solo ad alcune di esse.
Lo studioso americano, nell’analisi cui si è appena fatto
cenno, ha posto in cima la dimensione emozionale della vicenda
separativa. Quello che egli chiama «divorzio emozionale»113
può avvenire a prescindere da quello legale, prima o dopo di es-
so, poiché è connesso al profilo della disaffezione dall’altro e al-
la volontà di sciogliere il rapporto. Accade frequentemente che
ciò non avvenga in modo reciproco, la qual cosa comporta che
mentre un partner cerca di porre fine alla relazione l’altro tenti
di tenerla in piedi, ad esempio negando la fine del matrimonio o
protraendo il conflitto per mantenere vivo il legame.

112
P. Bohannan, (a cura di), Divorce and after: an analysis of the emo-
tional and social problems of divorce, New York 1970.
113
Ibidem

84
La seconda dimensione tratteggiata da Bohannan è quella
che va sotto il nome di divorzio legale, ossia quello che si svolge
nelle aule del Tribunale secondo le procedure previste dalla leg-
ge.
Sul punto si impone un chiarimento, dovuto al fatto che nel
nostro ordinamento gli istituti della separazione e del divorzio
sono differenti e non possono essere confusi o sovrapposti.
Per la legge italiana, con la separazione legale i coniugi non
pongono fine al rapporto matrimoniale, ma ne sospendono gli
effetti nell'attesa di una riconciliazione o di un provvedimento di
divorzio.
La separazione può essere legale (in tal caso può biforcarsi
nelle due distinte fattispecie della separazione consensuale o se-
parazione giudiziale) o di fatto, cioè conseguente all'allontana-
mento di uno dei coniugi per volontà unilaterale, o per accordo
di entrambi, ma senza l'intervento di un Giudice e senza alcun
valore sul piano legale.
La separazione legale (consensuale o giudiziale) rappresenta
una delle condizioni (la più frequente) per poter addivenire al
divorzio.
Con l’istituto del divorzio (introdotto e disciplinato dalla
legge 01.12.1970 n. 898 e ss.mm.ii.) si perviene invece a una
pronuncia da parte del Tribunale che determina lo scioglimento
del matrimonio o la cessazione degli effetti civili dello stesso
nell’ipotesi in cui sia stato celebrato matrimonio concordatario
con rito religioso, cattolico o di altra religione riconosciuta dalla
Stato italiano.
Nel caso di matrimonio concordatario, ove la coppia non
voglia solo la cessazione degli effetti civili pronunciata dal Tri-
bunale, ma desideri anche l’annullamento del matrimonio reli-
gioso, deve ricorre ad una ulteriore e distinta procedura da atti-
vare presso la Sacra Rota, che è il Tribunale della Santa Sede.

85
Col divorzio, dunque, vengono a cessare definitivamente gli
effetti del matrimonio, sia sul piano personale, sia sul piano pa-
trimoniale.
La cessazione del matrimonio produce effetti dal momento
della sentenza di divorzio, senza che essa determini il venir me-
no dei rapporti stabiliti in costanza del vincolo matrimoniale e
solo a seguito di divorzio il coniuge può pervenire a nuove noz-
ze.
Nella suddivisione di Bohannan, la terza dimensione inda-
gata è quella del «divorzio economico», che riguarda la divisio-
ne dei redditi e delle proprietà che fanno capo ai due ex partner.
Sotto questo profilo, il divorzio acuisce i problemi derivanti
dall’appartenenza a classi sociali più agiate e meno agiate già
esistenti nella società, poiché può rappresentare un motivo di
impoverimento per le famiglie che vivono in condizioni di ri-
strettezza economica.
Si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle cosiddette fami-
glie monoreddito, che a seguito della separazione si imbattono
in duplicazioni delle spese per l’alloggio del partner che lascia
l’abitazione familiare, spese per il mantenimento e altre voci
prima non presenti nel menage. Ciò genera nuove difficoltà
economiche che impongono un forte ridimensionamento dello
stile di vita precedente per tutti i membri del nucleo familiare,
rappresentando una delle fonti di maggiore conflitto post-
separazione.
Numerosi sono ancora i casi delle madri che non lavorava-
no, o avevano un’occupazione part-time, che dopo la separazio-
ne incontrano difficoltà ad arrivare alla fine del mese, o i casi
dei padri che spendono buona parte del loro stipendio tra affitto
e assegni di mantenimento per i figli. È per questo motivo che
spesso la lotta per la proprietà o per definire l’entità del mante-
nimento diventa oggetto di conflitto, alle volte non si tratta di
pervicace ostinazione nel voler mantenere inalterata la propria
posizione di fronte all’altro, ma di vera e propria sopravvivenza,

86
con tutto ciò che questo comporta sul piano della proliferazione
dei sentimenti negativi verso l’altro.
Al quarto posto si trova il «divorzio genitoriale», che – a
ben vedere – non dovrebbe trovare alcuno spazio in questa ana-
lisi, posto che la separazione dei coniugi non mette fine alla ge-
nitura. Tuttavia, molte coppie, specie in ipotesi di conflitti eleva-
ti e perduranti attuano anche una sorta di divorzio dal ruolo ge-
nitoriale.
Il fenomeno può essere determinato dall’atteggiamento osti-
le e oppositivo di un genitore verso l’altro, in ragione del quale
si giunge a proibire al figlio di vedere l’altro genitore, che viene
rappresentato in maniera negativa e squalificato agli occhi della
prole. Non è infrequente che ciò generi la c.d. ritirata da parte di
chi viene osteggiato nel rapporto con il figlio. Il genitore escluso
dalla vita del figlio per mano dell’ex coniuge, molto spesso, in-
dulge alla resa, forte dell’alibi del rifiuto, preferendo non pro-
fondere più alcuno sforzo per mantenere vivo il rapporto con la
prole, nonostante e a prescindere dal partner ostile, come l’etica
e la responsabilità genitoriale imporrebbero.
La quinta dimensione indagata da Bohannan è quella del
«divorzio comunitario», che rimanda alla necessità di ristruttura-
re e ridefinire i rapporti sociali dopo la separazione.
Accade in numerosi casi, infatti, che la nuova condizione di
coppia separata imponga agli ex partner una riduzione delle re-
lazioni amicali, dovuta alla difficoltà di continuare a coltivare
rapporti con una rete comune ad entrambi. Come accade anche
che, dopo aver lasciato la casa coniugale, ci si trasferisca in altri
quartieri o addirittura in altre città, con ciò rinunciando ai rap-
porti con i vicini e con tutto l’ambiente sociale di riferimento.
Ciò implica che ci si debba sottoporre a una faticosa e graduale
ricostruzione della rete dei rapporti sociali dopo la separazione,
che crea uno strappo non solo nella coppia, ma in tutti gli aspetti
esistenziali della stessa.

87
Infine, l’ultima sfera esaminata è quella del «divorzio psi-
chico», il quale postula la capacità di elaborazione e compren-
sione del fallimento del legame e l’assunzione delle proprie re-
sponsabilità, senza attribuirne il peso esclusivo al partner.
Raggiungere il divorzio psicologico significa riuscire a se-
pararsi dalla personalità e dall’influenza dell’ex coniuge, ritro-
vare la propria progettualità individuale avendo fiducia nelle
proprie capacità. Naturalmente questo costituisce il processo più
difficile da raggiungere, e - perché si realizzi - necessita della
cooperazione di entrambi i partner. Separarsi dall’immagine di
se stessi costruita nel tempo, dai propri progetti di vita e dalla si-
curezza di una condizione stabile, richiede un grosso impiego di
energie e la pazienza di attendere il tempo necessario.
Gli studi svolti sulla separazione hanno evidenziato che nei
primi anni il conflitto tra gli ex coniugi è in media abbastanza
elevato, tanto che più di due terzi delle coppie che si separano ha
bisogno del supporto di esperti per attenuare la conflittualità e
ritrovare un’organizzazione di vita adeguata114.
Dopo i primi due anni, però, si registra un abbassamento
della percentuale dei conflitti, infatti i dati dimostrano che solo il
10-25% delle coppie persiste nella contrapposizione legata alla
separazione115.
La persistenza e l’entità del conflitto dopo la separazione
sono correlate alle caratteristiche che la conflittualità aveva du-
rante il matrimonio: le coppie che durante il matrimonio hanno

114
Cfr. Johnston, J.R., Campbell, L.E., Tall, M. (1985), Impasses to the
resolution of custody and visitation disputes, American Journal of Orthopsy-
chiatry, 55, pp. 112-129; Furstenberg, F.F, Cherlin, A.J. (1991), Divided fa-
milies: what happens to children when parents part, Cambridge, MA. Har-
vard University Press; Cummings, E.M., Davies, P.T. (1994), Children and
marital conflict. New York. Guilford; Cummings, E.M., Davies, P.T. (2002),
Effects of marital conflict on children: recent advances and emerging themes
in process-oriented research, Journal of Child Psychology and Psychiatry, 43
(1), pp. 31-63.
115
Cfr. Maccoby, E.E., Mnookin, R.H. (1992), Dividing the child,
Cambridge, MA. Harvard University Press.

88
sperimentato i livelli di conflittualità più elevati sono quelle che
più frequentemente continuano a mettere in atto le medesime di-
namiche conflittuali anche dopo la separazione e anche a distan-
za di molti anni dalla scelta separativa, rendendo altamente pre-
vedibili le sequenze di comportamento116, poiché le stesse sono
dominate da una serie di atteggiamenti, ormai radicati e introiet-
tati, che ne rendono contemporaneamente difficile l’interruzione
e semplice la previsione nel loro modo di manifestarsi.
Un pattern di comportamento tipico è quello per cui un
partner esercita pressione sull’altro muovendogli costantemente
delle critiche, mentre l’altro partner assume un atteggiamento di-
fensivo e passivo, secondo un paradigma che preesisteva alla
separazione e che nella stessa va a confluire.
Perciò il conflitto preesistente prosegue anche dopo
l’allontanamento dei due partner, pur potendosi presentare delle
differenze rispetto ai contenuti, all’intensità e alla frequenza117.
I dati relativi al profilo dei contenuti delle discussioni mo-
strano che dopo la separazione, i motivi di scontro più frequenti
riguardano questioni economiche (assegno di mantenimento, di-
visione delle spese straordinarie) e patrimoniali (assegnazione
della casa coniugale e di eventuali altri beni, divisione delle ere-
dità, ecc.), questioni relative al regime di affidamento e visita
dei minori e alla vita affettiva e relazionale dell’ex-partner118.
Quanto alla differenze registrate in relazione all’intensità,
pur essendo le ricerche empiriche sull’argomento ancora limita-
te, si può ipotizzare in base ai primi dati che la conflittualità tra
gli ex coniugi presenti un’intensità e una carica emotiva-
116
Fincham, F. D. (2003), Marital conflict: correlates, structure and
context, Current Direction in Psychological Science, 12, pp. 23-27.
117
Buchanan, C.M., Heiges, K.L. (2001), When conflict continues after
the marriage ends: effects of post-divorce conflict on children, in J. Grych e
F. Fincham (Eds.), Interparental conflict and child development: theory, re-
search and application, Cambridge, England, Cambridge Univerisity Press,
pp. 337-362.
118
Cfr. Hetherington, E.M., Cox, M., Cox. R. (1976), Divorced fathers,
Family Coordinator, 25, pp. 417-428.

89
aggressiva maggiori dopo la separazione, verosimilmente perché
le ragioni mai sopite del conflitto sorto durante il matrimonio
hanno trovato nella separazione un fattore di amplificazione che
agisce incrementando l’intensità della contrapposizione.
Dopo la separazione, anche la modalità di estrinsecazione
del conflitto è diversa. Accade spesso che i genitori separati uti-
lizzino forme di comunicazione più provocatorie che si incana-
lano in una escalation di accuse simmetriche e reciproche. In
questi casi è più difficile addivenire a soluzioni di compromesso
condivisibili, in quanto gli ex-coniugi utilizzano tecniche di-
struttive ed inefficaci per risolvere il conflitto.
Se ne deduce che, subito dopo la separazione, i figli potreb-
bero essere esposti a livelli di conflittualità molto elevata tra i
genitori, con ripercussioni sul loro benessere psico-fisico deci-
samente significative.
Alcuni autori hanno evidenziato che il conflitto post-
separativo ha sui figli effetti peggiori rispetto a quello che pre-
cede la separazione 119, poiché il primo si presenta come conflit-
to di tipo distruttivo, caratterizzato da ostilità, aggressività e sen-
timenti negativi ed è risolto meno frequentemente, mettendo
maggiormente a rischio la capacità adattiva dei minori alla loro
nuova condizione di figli di genitori separati.
V’è da osservare inoltre, che il conflitto coniugale dopo la
separazione ha una durata maggiore, è più intenso, gli argomenti
di discussione sono legati prevalentemente ai figli ed è forte-
mente radicato negli ex partner. Queste caratteristiche inevita-
bilmente rappresentano un più elevato fattore di rischio per
l’adattamento dei figli, i quali possono diventare più sensibili al
conflitto come sistema di relazione con l’altro, avendo speri-
mentato una conflittualità mai o quasi mai sfociata in soluzioni
pacifiche.

119
Papp, L.M., Cummings, E.M., Goeke-Morey, M.C. (2002), Marital
conflicts in the home when children are present versus absent, Developmen-
tal Psychology, 38, pp. 774-783.

90
Gli scenari post-separazione possono anche presentarsi me-
no complessi e gestiti da adulti responsabili e capaci di filtrare la
scelta della dissoluzione del nucleo in maniera meno traumatica
per la prole, tuttavia è assai frequente che il conflitto diventi la
chiave per mantenere in vita il legame o un’arma di difesa o una
vendetta per il male subito e che, dunque, si protragga.
Quando i coniugi non riescono ad elaborare la separazione,
accade che questi continuino a mantenere, tramite il conflitto, un
«legame disperante»120, il quale compromette drammaticamente
le funzioni genitoriali, rendendo, di fatto, la genitorialità uno
degli ambiti in cui più spesso si manifesta il conflitto di coppia,
con conseguente aumento di stress per i figli121.
La persistenza del conflitto e la strutturazione di relazioni
disfunzionali tra genitori e tra questi e i figli, infatti, influenza
enormemente la qualità della vita e l’adattamento a lungo termi-
ne dei minori, coinvolti in dinamiche dolorose e invischianti in
cui essi sono costretti a prendere parte attiva al conflitto genito-
riale aderendo a ruoli che, nella loro assoluta disfunzionalità, fi-
niscono col rappresentare per loro un tentativo idoneo a risolve-
re i problemi in famiglia122.
La separazione della coppia non deve e non può compro-
mettere la funzione genitoriale che resta inalterata se i confini tra
i ruoli coniugali e i ruoli genitoriali sono ben delineati. Alcuni
studiosi123 hanno posto in evidenza che quando tali confini si
120
V. Cigoli, C. Galimberti, M. Mombelli, Il legame disperante. Il di-
vorzio come dramma di genitori e figli, Raffaello Cortina editore, Milano,
1988.
121
A. Lubrano Lavadera, Ascoltare il minore: comprendere le dinami-
che relazionali e familiari (in) Malagoli Togliatti M., Lubrano Lavadera A,
Bambini in tribunale. L’ascolto dei figli “contesi”, Milano, Raffaello Cortina
Editore, 2011.
122
Cfr. A. Cavedon, T. Magro, Dalla separazione all’alienazione pa-
rentale. Come giungere a una valutazione peritale, Franco Angeli, Milano,
2010.
123
M. Malagoli Togliatti, A. Lubrano Lavadera, G. Modesti, Fattori di
rischio e di protezione per i figli dei separati, in Cittadini in crescita, 2000, n.
1/2000

91
confondono e si perdono, si possono sviluppare alleanze patolo-
giche, terribilmente dannose per i minori, già provati dalla sepa-
razione quale evento traumatico in sé.
Tra le alleanze patologiche si colloca, ad esempio, la c.d.
triangolazione, che si verifica quando un bambino è costretto a
scegliere tra i due genitori contendenti. Oppure si assiste alla
deviazione, che vede il bambino impegnato a richiamare su di sé
l’attenzione dei genitori attraverso manifestazioni sintomatolo-
giche. Ovvero, può verificarsi anche la coalizione, che sia attua
mediante l’alleanza del minore con un solo genitore contro
l’altro.
Nelle separazioni altamente conflittuali è possibile riscon-
trare un’altra dinamica relazionale disfunzionale in grado di mi-
nare il sano adattamento dei minori, la genitorializzazione124,
oppure l’inversione di ruolo con l’uno o l’altro genitore125. Que-
sta implica una distorsione soggettiva del rapporto, per cui chi la
agisce si relaziona con il proprio figlio come se costui fosse, a
livello fantasmatico, il proprio genitore.
L’inversione di ruolo diventa così strumentale per il genito-
re che intende soddisfare desideri di possesso, sopprimere la
sensazione di perdita del partner e attenuare la conseguente soli-
tudine legata alla separazione.
Non meno importanti in questa dinamica risultano essere e i
relativi sensi di colpa e di fallimento dati dalla non realizzabile
idealità delle premesse iniziali: premesse e promesse non man-
tenute da parte dell’altro, spesso accusato di aver fatto morire
l’amore iniziale con i suoi comportamenti inappropriati e male-
voli126. Quando la genitorializzazione persiste nel tempo, rischia

124
Johnston J.R., Gonzalez R., Campbell L.E., (1987), Ongoing post-
divorce conflict and child disturbance, Journal of Abnormal Child Psycholo-
gy, 15, pp. 493-509.
125
Cfr. Cfr. A. Cavedon, T. Magro, Dalla separazione all’alienazione
parentale. Come giungere a una valutazione peritale, già cit.
126
M. Malagoli Togliatti, A. Lubrano Lavadera, La sindrome di aliena-
zione genitoriale (PAS): epigenesi relazionale, Focus monotematico, Mal-

92
di diventare una forma di ‘sfruttamento’ affettivo del figlio, che
viene posto in una condizione di “doppio legame”.
Naturalmente, nell’ipotesi in cui i bambini vengano esposti
a rischi di tal fatta (e il fenomeno è purtroppo in preoccupante
aumento) l’intervento degli organi competenti deve invocarsi
senza dubbio, altrimenti la possibilità che il piccolo alteri in ma-
niera addirittura irreversibile il suo equilibrio psichico è eleva-
tissima.
Il minore coinvolto in coalizioni o triangolazioni,
d’altronde, sperimenta forti conflitti di lealtà dovuti alla sensa-
zione di essere conteso e, secondo molti ricercatori, sarebbe
proprio questa condizione a mediare l’effetto del conflitto
sull’adattamento del minore stesso127 .
Accade sovente che il figlio accetti di allearsi con un genito-
re perché lo vede più potente, o perché si sente rifiutato
dall’altro, oppure ancora perché teme di essere abbandonato.
L’impatto di tali condotte sul piano psichico è devastante.
Si assiste alla comparsa di sensi di colpa o angoscia da abban-
dono per la perdita del genitore “rifiutato”, si innescano processi
di adultizzazione precoce, vissuti depressivi e difficoltà di svin-
colo durante l’adolescenza.
In definitiva, la persistenza del conflitto tra gli ex-coniugi
espone il minore ad un elevato rischio di disadattamento sul pia-
no emotivo e comportamentale, in quanto è più probabile che
venga coinvolto o si coinvolga (più o meno consapevolmente),
in processi relazionali disfunzionali per il suo sviluppo psichico.

trattamento e abuso all’infanzia, 3, 2005, pp. 7-12; Cfr. anche A. Lubrano


Lavadera, Ascoltare il minore: comprendere le dinamiche relazionali e fami-
liari (in) Malagoli Togliatti M., Lubrano Lavadera A, Bambini in tribunale.
L’ascolto dei figli “contesi”, già cit.
127
Buchanan, C.M., Maccoby, E.E., Dornbusch, S.M. (1996). Adole-
scents after divorce. Cambridge, M.A., Harvard University Press.

93
2.5. Le patologie degli insiemi familiari da separazione:
il family chopping, il mobbing genitoriale, la sindrome di
alienazione parentale.
Come si è posto in rilievo nei paragrafi che precedono, il ca-
rattere conflittuale della separazione innesca un meccanismo di
accuse reciproche fra gli ex-partner, che nella gran parte dei casi
sfocia nell’avvio di un iter giudiziario in cui è prassi esibire le
prove della responsabilità e dell’inadeguatezza genitoriale
dell’ex coniuge verso l’altro.
La relazione affettiva, così, perde il suo carattere di intimità
e viene resa pubblica, le conversazioni spesso vengono registra-
te, viene misconosciuta o negata la reale radice del malessere fi-
sico e psicologico dei figli che, contro ogni principio di tutela
minorile e in una sorta di perversa eterogenesi dei fini, si tra-
sforma in un pretesto per contattare i servizi territoriali, la poli-
zia, il pronto soccorso degli ospedali ai quali non si richiedono
diagnosi e cure, ma referti128.
Le coppie conflittuali possono rimanere avvinghiate in un
odio implacabile per un tempo indefinito, anche per tutta la vita,
sino a vanificare del tutto l’originario intento liberatorio
dall’altro che la separazione avrebbe dovuto realizzare.
Gli ex partner intrappolati in questo legame tossico restano
patologicamente stretti in un «abbraccio mortale»129, che – come
sostiene Salluzzo - «impedisce loro di ritrovare l’apertura psico-
logica per mentalizzare il passato e il presente, finendo col per-
dere la fiducia e l’entusiasmo per prospettare pienamente una vi-
ta futura»130.

128
W. Monaco, S. Viola, S. Marinucci, Conflittualità genitoriale e ri-
schio di abuso psicologico, in Riv. Maltrattamento e abuso all’infanzia, Fasc.
1, FrancoAngeli, Milano, 2000, pp. 37-47.
129
T. Main., Una teoria sul matrimonio e le sue applicazioni pratiche,
Interazioni, 1, 1966, pag. 81.
130
M. A Salluzzo, Psicopatologia della separazione. L’acting out giudi-
ziario, 2010, in www.adiantum.it

94
Per descrivere il fenomeno allarmante e in crescente aumen-
to delle vendette giudiziarie agite da ex coniugi si ricorre al sin-
tagma family chopping, all’interno del quale vengono ricondotte
le varie fattispecie distruttive delle relazioni tra genitori e figli
che scaturiscono dalla gestione giudiziaria sempre più aggressi-
va delle separazioni coniugali.
L'utilizzo del conflitto legale come soluzione alla conflittua-
lità familiare va affermandosi in modo preoccupante, e – para-
dossalmente – non solo si manifesta inidoneo a realizzare il fine
della ricomposizione dei conflitti, ma al contrario, genera una ri-
corsività della conflittualità familiare sino a peggiorare la già
compromessa situazione.
Il sistema giudiziario della gestione dei conflitti, di fatto,
non è strutturato per la presa in carico del nucleo in dissoluzio-
ne, né supportato da una rete di servizi territoriali per il sostegno
alla genitorialità e ai minori provati dalle condotte genitoriali
inadeguate e pregiudizievoli, finendo con l’alimentare la con-
trapposizione anziché sedarla.
Ne consegue che le problematiche della coppia in separa-
zione si alimentano e si autoalimentano all’interno del sistema a
cui sarebbe affidato, per contro, il compito istituzionale di gesti-
re i conflitti. I dati relativi alla persistenza del conflitto anche
dopo aver avviato e concluso l’iter giudiziario dimostrano la
grave inadeguatezza del sistema chiamato a prendere in carico la
famiglia che si dissolve. Le aule di giustizia spesso diventano il
teatro in cui il livore delle parti va in scena prendendo il soprav-
vento su tutto, anziché essere la sede d’elezione per ricomporre
le liti.
A tal proposito alcuni autori131 parlano di acting out giudi-
ziario, recuperando un concetto derivante dalla teoria delle psi-
coterapie dinamiche di Freud, che ricomprende tutti i compor-
tamenti impulsivi o quelli caratterizzati da rimozione o scarsa
131
M.A. Salluzzo, Psicopatologia nella separazione, divorzio e affida-
mento, Attualità in Psicologia, 2004, 19, 221.

95
mentalizzazione, tesi a risolvere in modo improprio un disagio
di natura psicologica.
«Il soggetto crede genuinamente di adottare le strategie più
adeguate ad affrontare il disagio mentre, in realtà, sta solo per-
petuando all’infinito comportamenti distruttivi e cronicizzanti il
proprio e l’altrui malessere. In questo caso, l’agire diventa un
impedimento alla comprensione della natura psicologica del
problema. Così facendo, gli ex-coniugi possono avviare irrifles-
sivamente – gli psicoanalisti lo definirebbero un “agito” (acting)
– la separazione e continuare a confliggere per anni (a volte vita
natural durante) utilizzando il sistema giudiziario in modo per-
verso, come palcoscenico dove rappresentare il loro disagio,
nell’illusoria speranza di una riparazione delle proprie sofferen-
ze».132
La violenza del rapporto, dopo la separazione, può assumere
forme subdole e maligne e si trasferisce nei disagi, spesso non
diagnosticati, dei figli, che possono esplodere sia a breve termi-
ne che a distanza di tempo.
Dal III Rapporto Nazionale sulla Condizione dell'Infanzia e
dell'Adolescenza133, a cura di Eurispes e Telefono Azzurro, si
evince in maniera chiara che il comportamento conflittuale della
famiglia in separazione emerge come tale in un contesto ben
preciso, che è quello delle aule dei tribunali, in cui proliferano
ogni giorno distorsioni dei conflitti: dalle false accuse di abusi
sessuali, all’alienazione parentale, dalla richiesta non necessaria
di aiuto ai servizi alle denunce di maltrattamento mai verificate-
si, sino alla sottoposizione continua dei figli a visite mediche fi-
nalizzate ad ottenere referti utili ad affermare le proprie ragioni
sull’altro in sede giudiziaria.
Il sistema delle separazioni e la gestione delle relazioni fa-
miliari disfunzionali e patologiche affidata ad avvocati non spe-

132
Ibidem
133
3° Rapporto Nazionale sulla Condizione dell'Infanzia e dell'Adole-
scenza, in www.eurispes.eu.

96
cializzati e alle sezioni civili dei tribunali ordinari finisce col di-
sumanizzare la giustizia, prestata all’odio cieco delle parti e
all’implacabile desiderio di vendetta.
I dati dimostrano, infatti, che alcuni comportamenti distorti
hanno trovato terreno di coltura proprio nelle aule giudiziarie,
sono emersi gradualmente nel fluire dell’interazione sul piano
legale, dunque di essa sono frutto, appartengono a quel preciso
spazio di interazione.
Di questi dati bisogna prendere coscienza e capire che il si-
stema attuale non solo non funziona, ma fa crescere il tasso della
conflittualità e, con essa, i suoi epigoni degenerativi. La conflit-
tualità familiare avrebbe tutt'altra espressione se fosse manife-
stata in organismi dello Stato deputati a prendere in carico, in
un’ottica sistemica, tutto il nucleo familiare disfunzionale.
I minori e la famiglia non possono essere trattati come qual-
siasi fascicolo, né rappresentare fonte di lucro per avvocati che
per sopravvivere hanno bisogno di alimentare il contenzioso e
non di comporlo.
Una possibile soluzione sarebbe quella di far confluire tutta
la materia della famiglia e dei minori in un unico organo giuri-
sdizionale a sé stante, con strutture di mediazione ed esperti al
suo interno e una rete di servizi supportiva ed efficace
all’esterno. Solo così si potrebbe sottrarre alla spietatezza del
mercato la gestione delle controversie familiari, dei complessi
grovigli al cui interno i legami si sfaldano erodendo dentro gli
individui a volte anche in modo irreversibile.
Si pensi ad esempio al fenomeno dilagante del mobbing ge-
nitoriale e ai danni che esso produce, la cui riparazione potrebbe
richiedere tempi lunghissimi nella vita dei bambini e degli ado-
lescenti che ne sono vittime.
Il termine mobbing, mutuato dall'etologia134 (e adoperato in
questa branca della scienza per indicare il comportamento di al-
134
Konrad, Das sogenante boese. Zur naturgeschichte der Aggression,
Wien, 1963, 41

97
cune specie animali consistente nel circondare minacciosamente
un membro del gruppo al fine di allontanarlo), è stato preso in
prestito dal ricercatore tedesco-svedese Heinz Leymann135, che
per primo ha teorizzato la sussistenza del medesimo fenomeno
negli ambienti di lavoro.
Il termine deriva dal verbo inglese to mob, che significa
“assalire, prendere d'assalto”; infatti per Leyman, il mobbing
corrisponde a una comunicazione non etica e ostile rivolta da
uno o più individui, in maniera sistematica, a un’unica vittima,
la quale, a causa di tali comportamenti, è spinta in una posizione
disperata e senza difese.
Tale condizione di subalternità si cristallizza nel tempo per
via delle continue azioni mobbizzanti che persistono e sono agi-
te in un lasso temporale prolungato, provocando nella vittima
danni psicologici molto importanti.
Sulla scorta del modello di mobbing indagato in ambito la-
vorativo, studi recenti136 hanno iniziato ad esportare tale para-
digma anche nell’analisi delle relazioni familiari disfunzionali,
introducendo così il concetto di mobbing genitoriale.
Secondo la definizione di Giordano137 tale fenomeno «con-
sta dell’adozione da parte di un genitore, separato o in via di se-
parazione, di comportamenti aggressivi preordinati o, comun-
que, finalizzati ad impedire all’altro genitore, attraverso il terro-
re psicologico, l’umiliazione e il discredito familiare, sociale e
legale, l’esercizio della propria genitorialità, svilendo e distrug-
gendo la sua relazione con il figlio, impedendogli di esprimerla
socialmente e legalmente ed intromettendosi nella sua vita pri-
vata».

135
Leymann H., Mobbing and psychological terror at work place. Vio-
lence and Victims,1990.
136
G. Giordano, Verso uno studio delle "transazioni mobbizanti": il
mobbing genitoriale e la sua classificazione, 2005, in ww.psychomedia.it
137
Ibidem

98
Il mobbing genitoriale emerge quindi dall’interazione fra la
profonda conflittualità della coppia che si separa e il sistema
delle Istituzioni dello Stato deputato a gestirla.
Sulla scorta delle indicazioni contenute nella “Griglia degli
Indicatori di Contesto Parentale Mobbizzante” (Parental Mob-
bing Inventory)138, strumento empirico di valutazione della pre-
senza di un contesto separativo a transazione mobbizzante, è
possibile suddividere i comportamenti mobbizzanti in tre ma-
crocategorie:
1) i comportamenti mobbizzanti che incidono sulla relazio-
ne genitore-figlio;
2) i comportamenti mobbizzanti che incidono
sull’esprimersi sociale e legale della genitorialità;
3) il mobbing personale.
Le condotte rientranti nella prima macroarea mirano a di-
struggere la relazione tra il genitore mobbizzato e il figlio attra-
verso condotte che gli esperti definiscono “sabotaggi delle fre-
quentazioni”, oppure mediante una campagna di denigrazione.
I sabotaggi delle frequentazioni trovano radice nella pervi-
cace azione del genitore affidatario che – con sistematicità e di
proposito – impedisce le frequentazioni tra il figlio e l’altro ge-
nitore, incurante sia dei bisogni del figlio, sia delle statuizioni
sugli incontri provenienti dall’Autorità giudiziaria.
Nei casi di media o grave conflittualità il minore, soprattutto
se in tenera età, non viene consegnato al genitore non affidatario
con scuse banali o semplicemente senza spiegazioni; oppure, nei
casi di conflittualità più accesa, il rifiuto di lasciare il bimbo con
l’altro genitore viene manifestato con urla e accuse anche gravi
che demoliscono all’interno della coscienza del bambino la figu-
ra del genitore con cui non convive.
In altri casi, il genitore deve incontrare i figli in situazioni
degradanti o umilianti: alla presenza di parenti dell’altro genito-
138
G. Giordano, R. Patrocchi, G. Dimitri, La Sindrome di Alienazione
Genitoriale, 2006, in www.psychomedia.it

99
re o di persone illecitamente incaricate di sorvegliarlo, o con
modalità che lo spogliano di qualunque ruolo genitoriale.
Altra forma di sabotaggio delle frequentazioni che si riscon-
tra frequentemente nella prassi è quella della gestione unilaterale
delle attività extrascolastiche da parte del genitore affidatario,
che sceglie deliberatamente – e all’insaputa dell’ex partner – di
fissare tali attività proprio nei giorni in cui sarebbero previsti gli
incontri con l’altro genitore.
Una tipologia particolarmente grave di ostacolo alle fre-
quentazioni genitore-figlio è rappresentata dalla relocation, vale
a dire il trasferimento del minore con il genitore affidatario in
una città o nazione la cui distanza dal domicilio dell’altro geni-
tore tende a compromettere gravemente o a impedire del tutto le
frequentazioni.
La campagna di denigrazione, che è l’altra modalità attra-
verso la quale il mobbing genitoriale incide negativamente sulla
relazione tra il figlio e il genitore mobbizzato, è spesso accom-
pagnata da minacce e prevede il ricorso ad una vasta gamma di
accuse presentate a tutto campo: al figlio, a tutta la rete amicale
e familiare dell’ex-coppia, agli ambienti scolastici ed extrascola-
stici frequentati dal figlio e in sede giudiziaria (tipiche le denun-
ce di abuso sessuale o maltrattamenti ai danni del minore, che
comportano quasi automaticamente la sospensione delle fre-
quentazioni, che possono riprendere solo in ambiente cosiddetto
“protetto”, comportando un’umiliante svalutazione della figura
genitoriale).
Lo scopo principale perseguito dal genitore mobbizzante è
distruggere la figura dell’altro genitore agli occhi del figlio: si
parla male di lui/lei al bambino, gli si fa notare la sua inadegua-
tezza e la sua cattiva condotta; ogni aspetto del comportamento
e della quotidianità del genitore mobbizzato e della sua relazione
con il figlio è connotato negativamente mediante allusioni e
commenti verbali e non verbali; i regali acquistati dal genitore
mobbizzato vengono nascosti, persi, disprezzati; si convince il

100
bambino che sta male se incontra l’altro genitore; si esalta la fi-
gura del nuovo partner e si invita il figlio a chiamarlo “papà” o
“mamma”.
La seconda macroarea, che ricomprende i comportamenti
mobbizzanti che incidono sull’esprimersi sociale e legale della
genitorialità, fa riferimento a quelle condotte che mirano ad im-
pedire al genitore mobbizzato l’esercizio della propria genitoria-
lità a livello sociale e legale.
Ciò può avvenire o mediante l’emarginazione dai processi
decisionali, o attraverso una campagna di aggressione e delegit-
timazione sociale e legale.
Nel primo caso al genitore non affidatario viene impedito di
partecipare a scelte fondamentali per la vita del figlio (istruzio-
ne, salute, viaggi, ecc.). Egli sa, ad esempio, solo una volta as-
sunte le decisioni e svolti gli adempimenti consequenziali, a
quale scuola è stato iscritto il figlio, non gli viene comunicato
chi sono i docenti, né quali sono gli orari della scuola, né sa nul-
la in merito ai risultati scolastici del bimbo. L’affidatario oppo-
sitivo giunge persino a intimare al personale scolastico di non
far avvicinare l’altro genitore al bambino e i contatti con gli in-
segnanti sono preceduti da campagne di denigrazione. In caso di
malattia il genitore vittima del mobbing ad opera dell’altro non
viene avvertito e ne viene a conoscenza solo una volta che
l’evento morboso si è già verificato e – talvolta – dopo che lo
stesso si sia già risolto, con tutto ciò che comporta sul piano psi-
cologico per il bambino che non sente al suo fianco l’altro geni-
tore in un suo momento di difficoltà.
In questi casi, l’esautorazione del genitore non affidatario
viene spiegata con un suo presunto “difetto”, che lederebbe
l’equilibrio psichico e fisico del minore: è un genitore “disatten-
to” o, al contrario, “morbosamente” attento alle sue condizioni
di salute.
Nel caso invece della campagna di aggressione e delegitti-
mazione sociale e legale, le condotte mobbizzanti sono finaliz-

101
zate a distruggere la credibilità sociale del genitore mobbizzato
e ad impedirgli legalmente l’esercizio della genitorialità.
Quest’ultimo viene ingiustamente accusato di essere un genitore
inaffidabile e di non contribuire al mantenimento del minore;
diviene oggetto di denunce e aggressioni legali (abusi sul mino-
re, inadeguatezza genitoriale, violenza e maltrattamenti in fami-
glia) prive di reale fondamento; vengono prefabbricate prove
contro di lui/lei; viene messo in cattiva luce agli occhi degli ope-
ratori pubblici incaricati di seguire il suo caso.
Infine, la terza macroarea del mobbing genitoriale è quella
che viene denominata “mobbing personale”. Si tratta di modalità
mobbizzanti basate sull’intrusione distruttiva nella vita privata
del genitore mobbizzato e realizzate col preciso intento di ledere
pesantemente le sue relazioni e la sua credibilità sociale e pro-
fessionale.
Ciò crea un clima di continua tensione139, definito dagli
esperti stato di “terrore psicologico”140, che costituisce il nucleo
dell’esperienza mobbizzante: si è terrorizzati dall’idea che, sen-
za alcun preavviso, siano resi impossibili tutti i contatti (anche
telefonici) con i propri figli; ogni squillo di telefono o di campa-
nello incute la paura di un nuovo fax, una nuova raccomandata,
una telefonata dell’avvocato o una visita dei Carabinieri che an-
nunciano nuove aggressioni, nuovi problemi, nuovi impedimen-
ti, con la conseguenza di patire una condizione di stress perma-
nente, tale da incidere negativamente sulla qualità della vita e
sul normale svolgimento delle attività quotidiane.
In definitiva, il fine cui tende il genitore mobber è
l’espropriazione della genitorialità dell’altro genitore e nei qua-
dri estremi sono possibili due esiti: la contrazione di quella che
viene definita Sindrome di Alienazione Genitoriale oppure

139
G. Giordano, Verso uno studio delle "transazioni mobbizanti": il
mobbing genitoriale e la sua classificazione, già cit.
140
H. Ege H., Mobbing, Che cos'è il terrore psicologico sul posto di la-
voro, Pitagora, Bologna, 1996.

102
l’esautorazione quasi spontanea del genitore non affidatario da
ogni aspetto della vita del figlio, che, vinto dalla prepotenza del
mobber, commette l’errore più grande che un genitore possa
commettere: si arrende e abbandona la prole.
In linea col pensiero di Giordano141, si ritiene «improcasti-
nabile riconoscere che il mobbing genitoriale in conflittualità di
separazione è un gravissimo problema sociale, in grado di pro-
vocare alti costi umani e sociali, e che è assolutamente necessa-
rio dotarsi di strumenti di prevenzione e tutela adeguati, modifi-
cando tutti quei dispositivi legislativi e giudiziari che ne legitti-
mano l’espandersi ad ogni coppia incapace di gestire la propria
conflittualità».
Come già anticipato nelle considerazioni già espresse, il
coinvolgimento del minore che si protrae nel conflitto tra i due
adulti più significativi della sua vita può esitare nella c.d. P.A.S.
(Parental Alienation Syindrome), derivante da uno stress trau-
matico molto grave che si manifesta nel rifiuto della relazione e
degli incontri con il genitore non affidatario.
La PAS, Sindrome di Alienazione Genitoriale, ampiamente
descritta e analizzata da Gardner142 già dai primi anni Ottanta,
solo recentemente è divenuta oggetto di indagine scientifica per
la psicologia e per la pedagogia. Essa sembra manifestarsi, nella
maggior parte dei casi, proprio nell’ambito dei conflitti che de-
rivano dalle separazioni e consiste nel rifiuto da parte del bam-
bino nei confronti del genitore alienato.
Gardner nel 1985 ha definito la Sindrome come «un distur-
bo che insorge quasi principalmente nel contesto delle contro-
versie per la custodia dei figli. La sua manifestazione principale
è la campagna di denigrazione rivolta contro un genitore, una
campagna che non ha giustificazioni: essa è il risultato della
141
G. Giordano, Conflittualità nella separazione genitoriale: il mobbing
genitoriale, AIGP Newsletter Associazione Italiana di Psicologia Giuridica,
17, 3, 2004.
142
R. A. Gardner, Recent trends in divorce and custody litigation, The
Academy Forum, 29, 3, 1985.

103
programmazione effettuata dal genitore indottrinante e del con-
tributo personale offerto dal bambino alla denigrazione del geni-
tore bersaglio»143.
Com’è noto, la questione della Sindrome di alienazione pa-
rentale è molto dibattuta, tant’è che nella letteratura scientifica,
si sono formati due fronti contrapposti, quello che ne proclama
la sussistenza e quello che la nega.
I negazionisti partono dal presupposto che nel DSM-5 (cioè
il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) la locu-
zione "alienazione parentale" con riferimento alla PAS (Parental
Alienation Syndrome) o al PAD (Parental Alienation Disorder)
non viene esplicitamente riportata, sicché il fenomeno non sa-
rebbe né una sindrome, né un disturbo psichico definito.
Ma alcuni studiosi, come William Bernet144 e Guglielmo
Gulotta, hanno chiarito, dopo la pubblicazione della nuova ver-
sione del Manuale, che in realtà gli autori del DSM-5 hanno de-
scritto il problema relazionale genitore-figlio, pur evitando l'uso
del termine esatto "alienazione parentale".
Nella sua formulazione originaria145 la PAS riguarderebbe
un figlio coinvolto nel conflitto genitoriale, generalmente in un
contesto di separazione e/o di disputa per l'affidamento, che ma-
nifesti un'avversione nei confronti del genitore c.d. "alienato" o
"escluso", indotta dall'altro genitore, definito "alienante"o "pro-
grammatore".
Non v’è dubbio che tale modello distorto di relazione confi-
guri un legame patologico, che crea di conseguenza un circuito
relazionale disfunzionale.

143
Ibidem.
144
W. Bernet, N. Gregory, K.M. Reay, R.P. Rohner, An Objective
Measure of Splitting in Parental Alienation: The Parental Acceptance–
Rejection Questionnaire, in Journal of Forensic Science, 2017 August 17,
disponibile anche online sul seguente sito: onlinelibrary.wiley.com.
145
Cfr. R. A. Gardner, The Empowerment of Children in the Develop-
ment of Parental Alienation Syndrome, The American Journal of Forensic
Psychology 20(2):5-29, 2002.

104
Perciò, al di là dell'inserimento o dell'esclusione di tale fe-
nomeno nelle classificazioni più accreditate, esiste un problema
relazionale idoneo ad incidere sull'assetto psichico di tutti i
membri coinvolti nella rete di corrispondenze affettive qualifi-
cabile come "famiglia", tale rimanendo anche dopo la sua di-
sgregazione.
La questione della grave compromissione della relazione tra
il genitore alienato e il figlio, inoltre, apre l’ulteriore questione
della lesione del diritto alla bigenitorialità, che è un diritto dei
bambini, non degli adulti.
L'importanza del diritto alla bi genitorialità – proclamato
dall’art. 24 della Carta di Nizza e dall’art. 9 della Convenzione
di New York sui diritti del fanciullo – è confermata anche dalla
Corte EDU,146 che, in una pronuncia relativa alla lamentata le-
sione del predetto diritto da parte di un padre, ha ascritto allo
Stato italiano la responsabilità di aver violato l'art. 8 della con-
venzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del-
le libertà fondamentali, in quanto l’autorità giudiziaria proce-
dente, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria e
dalla stessa figlia minorenne a che il padre esercitasse effettiva-
mente e con continuità il diritto di visita, non si era impegnata a
mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legame
familiare tra padre e figlia minore, attraverso un concreto ed ef-
fettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separa-
zione legale tra i genitori.
In particolare – secondo i giudici europei – le autorità italia-
ne si erano limitate reiteratamente e con formule stereotipate a
confermare i propri provvedimenti, nonché a prescrivere l'inter-
vento dei servizi sociali, cui erano richieste di volta in volta in-
formazioni e delegata una generica funzione di controllo, così
determinandosi il consolidamento di una situazione di fatto pre-
giudizievole per il padre, mentre avrebbero dovuto rapidamente

146
CEDU sent. 9 gennaio 2013 n. 25704 (L. c. Rep. Italiana)

105
adottare misure specifiche per il ripristino della collaborazione
tra i genitori e dei rapporti tra il padre e la figlia, anche avvalen-
dosi della mediazione dei servizi sociali.
In caso di separazione personale conflittuale tra coniugi –
ammonisce la Corte EDU – l’affidamento del figlio minorenne
implica un diritto effettivo e concreto di visita del genitore non
collocatario.
L'assenza di collaborazione tra i genitori in conflitto e, talo-
ra, l'atteggiamento ostile che il genitore collocatario oppone
all’altro genitore, il quale si traduce in un reale ostacolo alla fre-
quentazione tra questi e il figlio, comporta una grave violazione
del diritto di quest’ultimo al rispetto della vita familiare e non
dispensa le autorità nazionali dall'obbligo di ricercare ogni mez-
zo efficace al fine di garantire il diritto del minore di frequentare
adeguatamente e tempestivamente entrambi i genitori.
V’è da dirsi, poi, che in ipotesi di alta conflittualità tra ex
partner, accade anche che la giurisprudenza ancori alla violazio-
ne del diritto alla bigenitorialità la possibile sussistenza in capo
al minore della c.d. PAS, ossia la sindrome di alienazione paren-
tale, perché il dato che conta per la giurisprudenza di legittimità
e per parte di quella di merito è l’esame in concreto delle con-
dotte genitoriali idonee a privare un figlio dei suoi diritti, tra cui
quello alla bigenitorialità.
Molto interessante sul punto è una pronuncia del Tribunale
di Cosenza, che si muove nel solco del recente orientamento del-
la S.C. secondo cui «a prescindere dal giudizio astratto sulla va-
lidità o invalidità scientifica della suddetta patologia, in tema di
affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci com-
portamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario, di allon-
tanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come si-
gnificativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fi-
ni della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di me-
rito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti
comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e

106
specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare
adeguatamente, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità geni-
toriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle
relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del fi-
glio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena»147.
Ciò comporta che una volta accertata la condotta oppositiva
del genitore collocatario, idonea ad impedire la coltivazione del-
la relazione affettiva del figlio con l’altro genitore, non rileva
l’eventuale ulteriore accertamento sulla sussistenza o meno di
una PAS, poiché ciò che conta è la lesione del diritto del minore
all’instaurazione di un legame affettivo sano e sereno anche con
il genitore con il quale non convive più.
Basta dunque la prova della condotta tesa a ostacolare o a
non favorire la coltivazione della relazione affettiva con l’altro
genitore per ritenersi leso il diritto alla bigenitorialità, che rien-
tra a pieno titolo nella categoria dei c.d. danni-evento, dai quali
può ben discendere il conseguente risarcimento pronunciato in
favore dei soggetti che abbiano subito gli effetti negativi del
predetto comportamento antigiuridico.
I giudici cosentini, infatti, una volta ritenuto integrato il
pregiudizio della disfunzionalità della relazione affettiva madre-
figlio ad opera delle condotte oppositive del padre collocatario,
hanno fatto discendere da ciò sia la lesione del diritto del minore
alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena, sia il dirit-
to della madre di svolgere il proprio ruolo genitoriale.
Tale lesione è stata valutata quale fonte di obbligazione ri-
sarcitoria e il relativo danno è stato liquidato in 5.000,00 euro
per ciascuno dei danneggiati.
La liquidazione è stata fatta in via equitativa tenendo conto
del disagio psichico cagionato al minore, della durata
dell’emarginazione della figura materna a far data dal colloca-
mento del figlio presso il padre, delle presumibili sofferenze pa-

147
Cass. civ., sez. I, sent. 6919/2016, in www.italgiure.it.

107
tite dalla madre per il distacco fisico ed emotivo dal figlio, senza
escludere dalla valutazione, la concorrente responsabilità della
madre nell’avvenuta marginalizzazione del suo ruolo.
In applicazione dell’art. 709 ter c.p.c. , infine, il Collegio ha
ritenuto di dover ammonire il padre ad astenersi dal tenere con-
dotte tese ad ostacolare le frequentazioni madre-figlio.
La pronuncia in esame – prescindendo dalla sussistenza del-
la PAS – giunge ad affermare che il risarcimento non è solo una
condanna alla corresponsione di un quantum, bensì uno stru-
mento dissuasivo, abbinato ad un vero e proprio monito a non
ripetere tali condotte in futuro. Ciò consente di attribuire alla
pronuncia il merito di rappresentare un importante precedente in
tema di tutela del diritto del minore alla bigenitorialità, in quanto
lo stesso è specularmente connesso alla tutela del diritto del ge-
nitore non collocatario a mantenere un rapporto significativo
con il proprio figlio, senza che l’altro genitore possa ostacolarlo
in alcun modo.
La decisione del Tribunale di Cosenza accoglie
l’orientamento ormai consolidato secondo cui il pregiudizio in-
ferto alla relazione familiare, dal quale deriva una disfunzione
della stessa, merita di essere risarcito.
La giurisprudenza di merito è ricca di decisioni favorevoli
al risarcimento del danno alla persona cagionato dal familiare
colpevole di aver tenuto condotte vessatorie ai danni dell'altro
coniuge o del figlio.
In questi casi il bene protetto dall'ordinamento giuridico non
è solo la persona in quanto tale (tutelata dalla Costituzione nelle
previsioni di cui agli artt. 2 e 32) ma la sua formazione nell'am-
bito della famiglia (struttura sociale oggetto di espressa statui-
zione costituzionale (cfr. art. 29 Cost). Dalla suddetta giurispru-
denza si desume che gli obblighi familiari non sono solo vincoli
di carattere socio-morale, ma puntuali impegni giuridici, la cui
violazione non può non produrre conseguenze.
Non vi è motivo, d’altronde, per non risarcire pregiudizi di

108
tal fatta, se non a costo di una ingiustificata e illegittima com-
pressione di valori costituzionali supremi, attinenti allo sviluppo
dell’individuo sia come singolo sia nelle formazioni sociali (in
primis la famiglia). Tant’è che già da tempo la giurisprudenza
riconosce quale fonte generatrice di obbligazione risarcitoria la
lesione del diritto alla serenità familiare e allo status familiare,
che trova il suo fondamento costituzionale nella previsione di
cui agli artt. 2 e 29 Cost. e ha natura di diritto inviolabile della
persona.
Valori come la salute, la solidarietà familiare, la libertà
(evidentemente anche quella di coltivare rapporti affettivi) de-
terminano l'insorgere in ambito familiare di penetranti obblighi
di protezione in capo a determinati soggetti (per esempio in capo
ai genitori rispetto ai figli) sulla scia della previsione penalistica
di cui all'art. 40, comma 2 c.p. (clausola generale di equipara-
zione alla commissione del mancato impedimento dell’evento
rispetto al quale incombe sul soggetto un obbligo giuridico di
impedire l'evento medesimo), la cui violazione è potenziale fon-
te di un danno non patrimoniale, qualificabile come ingiusto, e
dunque risarcibile in forza della lettura ampia e costituzional-
mente orientata che è stata data dell'art. 2059 c.c., poiché detti
valori trovano preciso fondamento in altrettante previsioni costi-
tuzionali.

2.6. Il maltrattamento, l’abuso e la patologia delle cure.


Sostiene Gaetano De Leo, «[…] alcune dinamiche familiari
preparano il terreno per un processo di disadattamento, facili-
tando e accelerando un percorso deviante […]148».
Ne sono una drammatica testimonianza i casi di violenza
agita nei rapporti familiari ed adoperata come tecnica relazionale
anche all’esterno. La violenza si interiorizza e distrugge anche la
convivenza civile nella comunità.
148
G. De Leo, in A. Valenti, Marginalità e devianza come emergenza
formativa, op. cit., p.18.

109
Per mere ragioni classificatorie, la letteratura psicologica e
giudiziaria, tende a suddividere i vari tipi di violenza sui minori
in: maltrattamento fisico; maltrattamento psicologico; violenza a
cui si assiste in famiglia; patologia delle cure (incuria, discuria e
ipercura); abuso sessuale intra ed extra-familiare; violenza isti-
tuzionale.
Il disvalore del maltrattamento fisico è talmente elevato che
l’ordinamento giuridico lo sanziona penalmente all’art. 572 c.p.
Esso infatti corrisponde alla condotta del genitore, ovvero
dell’adulto legalmente responsabile del minore, che leda o pon-
ga in pericolo l’integrità fisica del bambino.
La sistematicità delle condotte maltrattanti rappresenta un
elevato fattore di rischio per il corretto sviluppo del bambino, in
quanto produce nello stesso danni psicologici importanti che
possono manifestarsi sotto il profilo comportamentale, emotivo
e relazionale.
Con riguardo all’aspetto comportamentale il piccolo può
presentare instabilità reattiva, paura degli estranei, aggressività
improvvisa verso oggetti e persone, rifiuto o timore del contatto
fisico, atteggiamenti oppositivi e provocatori, come anche atteg-
giamenti passivi verso gli adulti.
Rispetto al profilo emotivo, il maltrattamento può far scatu-
rire nel bambino patologie legate ai disturbi d’ansia, diffidenza
verso gli adulti e verso il mondo esterno, bassa autostima e dif-
ficoltà di socializzazione e relazione con i pari.
Da ultimo, i pregiudizi di tipo relazionale generati dalle
condotte maltrattanti possono consistere nei disturbi
dell’attaccamento, nelle pericolose identificazioni con
l’aggressore, la cui responsabilità viene neutralizzata mediante
l’assunzione dei suoi stessi comportamenti, capaci così di con-
validare – sul piano interno e coscienziale – le condotte aggres-
sive subite, come anche nell’altrettanto pericolosa assunzione di
atteggiamenti passivi e non difensivi, che espongono il bambino
maltrattato al rischio costante di vestire i panni della vittima, ri-

110
tenendo di poter interpretare unicamente questo ruolo nella di-
namica relazionale.
Il maltrattamento psicologico è sempre presente in tutte le
forme di abuso sul minore. Esso si caratterizza per l’assenza di
indicatori fisici, ma la sua capacità lesiva è parimenti elevata.
Nel maltrattamento psicologico il bambino è sottoposto in-
tenzionalmente e sistematicamente a rifiuti, umiliazioni, criti-
che, derisione o richieste inadeguate rispetto all’età da parte del
genitore o del caregiver.
Pertanto il maltrattamento si manifesta sul piano verbale e
comportamentale. Un esempio emblematico di maltrattamento
psicologico è rappresentato dal coinvolgimento del figlio nelle
separazioni tra coniugi.
La violenza assistita, che pure è un peculiare articolarsi del
maltrattamento psicologico, viene comunque trattata separata-
mente, per la specificità del fenomeno che richiede un’analisi a
sé stante.
Essa consiste nell’esposizione del minore alle dinamiche
violente tra i genitori in forma diretta o indiretta. Nella prima
ipotesi, il bimbo assiste ad aggressioni fisiche, ferimenti e tal-
volta addirittura all’uccisione di un genitore per mano dell’altro.
Nella seconda, invece, il piccolo ascolta discussioni violente,
minacce, ingiurie gravi e urla.
La violenza assistita è stata definita come violenza di tipo
primario e parificata totalmente al maltrattamento di tipo fisico
che il minore riceve direttamente.
La gravità di questa tipologia di maltrattamento è elevatis-
sima ed i rischi che il piccolo sviluppi disagi o devianza lo sono
altrettanto.
E’ pacifico ormai che bambini esposti precocemente e per
lunghi periodi a queste forme di violenza presentino già
dall’adolescenza disturbi molto seri che possono sfociare in de-
pressioni, suicidi, tossicomanie e comportamenti antisociali.

111
Anche la patologia delle cure è idonea a generare disturbi
nel piccolo e forti deficit di sviluppo. Nell’incuria, infatti, il
bambino è letteralmente abbandonato a sé stesso. Viene privato
del soddisfacimento dei bisogni primari sia di ordine materiale,
che affettivo ed educativo.
Anche la discuria è idonea a far scaturire disagi nel minore,
perché le cure vengono somministrate in modo inappropriato e
distorto rispetto alla realtà evolutiva del bambino.
La discuria è una forma di accudimento atipico, solitamente
spinto da disturbi d’ansia da cui sono affetti i genitori. Accade,
ad esempio, che ad un bimbo di dieci anni venga ancora sommi-
nistrato il biberon o, al contrario, che al piccolo si richiedano
prestazioni di gran lunga superiori a quelle compatibili con l’età,
caricandolo di aspettative irrazionali.
Anche l’ipercura si colloca tra le forme di maltrattamento,
perché comprende tutte quelle situazioni in cui al bambino viene
offerto, in modo patologico e disturbato, un eccesso di cure. Si
va dall’oppressione genitoriale di tipo fobico all’ipocondria sti-
molata dall’eccessiva preoccupazione per lo stato di salute del
figlio.
Una forma di ipercura patologica è la sindrome di
Münchausen by proxy (o per procura) che consiste nel coinvol-
gimento di un genitore, solitamente la madre, la quale provoca
deliberatamente i sintomi di una malattia nel figlio, al fine di at-
tirare l'attenzione su di sé.
Il genitore affetto da tale patologia ritiene in tal modo di ac-
quisire la stima e l'affetto delle altre persone perché si preoccupa
della salute del proprio figlio o della propria figlia.
Tra le condotte che ledono permanentemente e definitiva-
mente la personalità dei minori si collocano senz’altro gli abusi
sessuali.
Dare una compiuta definizione di abuso sessuale è quanto
mai difficile, sia a causa della complessità del fenomeno, sia per
l’ampiezza ed eterogeneità della letteratura esistente.

112
Non è semplice neanche delimitare i confini del concetto di
abuso perché le definizioni esistenti non sono di facile “operati-
vizzazione”149, ma si può comunque partire dalla nozione di
abuso offerta dal Consiglio d’Europa a Strasburgo nel 1978, se-
condo la quale rientrano nelle condotte abusanti tutti gli atti e le
carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, atten-
tano alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, intellet-
tivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le
lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un
familiare o di terzi.
Certamente il pregiudizio derivante al minore dall’abuso
sessuale è gravissimo, perché corrisponde ad un attacco confusi-
vo e destabilizzante della sua personalità, con conseguenze im-
portanti sul suo percorso evolutivo, rese assai più difficili da su-
perare quando la violenza sia intrafamiliare.
I disagi ed i disturbi che i piccoli abusati riportano a seguito
di tali esperienze sono molto seri e vanno dal disturbo post-
traumatico da stress, alla cronicizzazione dell’ansia dovuta ad
esempio alla paura della perdita dell’abusante che spesso è una
figura significativa nella vita del bambino, un adulto di cui egli
si fida ed al quale non vuole nuocere, neppure in simili frangen-
ti.
Il bimbo è assediato dal senso di colpa per non aver impedi-
to l’abuso, dalla vergogna per il coinvolgimento affettivo prova-
to o per l’eccitamento corporeo sperimentato.
L’abuso sessuale si colloca a pieno titolo tra i più gravi fat-
tori di rischio per un corretto sviluppo del bambino, pertanto in
tali ipotesi, più che in altre la precocità e l’adeguatezza
dell’intervento possono modificare il corso di un’esistenza.
Infine tra le condotte maltrattanti perpetrate ai danni dei mi-
nori e capaci di generare disagi o devianze si colloca anche la
violenza istituzionale, che è costituita dall’insieme delle pratiche
149
G. De Leo, V. Cuzzocrea, M.S. Di Tullio D’Ellis, G.L. Lepri,
L’abuso sessuale sui minori, in www.rassegnapenitenziaria.it.

113
istituzionali che invece di tutelare il bambino, finiscono con il
danneggiarlo, sottoponendolo ad uno stress emotivo per lui in-
sopportabile.
Tempi processuali insostenibili, audizioni giudiziarie effet-
tuate con modalità non protette o comunque tardive, carenza di
personale specializzato nell’ascolto e nel sostegno del minore in
tutto l’iter processuale, mancanza di sinergia tra istituzioni e
operatori, finiscono con il pregiudicare la posizione del bambi-
no, anziché presidiare e garantire il rispetto dei suoi diritti.
Non v’è dubbio che esperienze e agiti di violenza nella vita
dei bambini costituiscano un pregiudizio grave e aumentino
molto il rischio di insorgenza di disturbi idonei a sfociare anche
nella devianza.
D’altronde, nel percorso evolutivo del bambino giocano un
ruolo fondamentale le rappresentazioni del legame che egli si
costruisce a partire dalle esperienze quotidiane di interazione coi
genitori.
Tali rappresentazioni - definite da Bowlby “modelli opera-
tivi interni” - vengono utilizzate dall’individuo per percepire e
interpretare gli eventi, per prevedere le situazioni future e per
organizzare il proprio comportamento. Perché tali modelli siano
utili, essi devono essere molto accurati e dettagliati; la loro strut-
tura, cioè, deve riflettere nel modo più attento e fedele possibile
la struttura della realtà che essi rappresentano.
L’ontologia del legame familiare e la sua capacità di fornire
al bambino strumenti di relazione adeguati e competenze sociali
idonee a garantirli uno spazio di realizzazione compiuta del sé
sono totalmente assenti nei contesti in cui è la violenza l’unico
linguaggio adoperato.
Dunque, non può non riconoscersi che lo stesso grado di pe-
ricolosità, rispetto a possibili derive di devianza, sia da attribuir-
si ai contesti delle organizzazioni criminali, in cui la pedagogia
perversa è quella dell’educazione all’odio, alla vendetta, al rifiu-
to delle regole e all’incapacità di accettare modi di vivere, di

114
pensare e di essere diversi da quelli imposti dai codici delle co-
sche.
La letteratura giuridica, pedagogica e psicologica è univoca
nel ritenere che la violenza sia uno dei fattori di rischio più peri-
colosi ed insidiosi per il corretto sviluppo del minore; ne conse-
gue che, se quest’ultimo è stabilmente inserito in contesti in cui i
bisogni del singolo o del gruppo vengono affermati e soddisfatti
attraverso la sistematica prevaricazione dell’altro…

2.7. La violenza domestica e i principi introdotti dalla


Convenzione di Istanbul.
Le condotte disfunzionali e patologiche richiamate nel pa-
ragrafo che precede rientrano a pieno titolo nel fenomeno della
violenza domestica, che, secondo l’art. 3 lett. b) della Conven-
zione di Istanbul comprende «tutti gli atti di violenza fisica, ses-
suale, psicologica o economica che si verificano all’interno della
famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi
o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti
condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vitti-
ma»150.
Si tratta di una c.d. gender neutral definition151 che com-
prende vittime e autori delle condotte violente di entrambi i ses-
si, infatti la Convenzione introduce importanti novità non solo
sull’individuazione di precise azioni di contrasto alla violenza di
genere e a quella domestica, ma anche rispetto al suo ambito di
applicazione rationae persona: le tutele in essa contenute sono
estese a tutte le vittime di violenza domestica152, tra cui si anno-

150
Art. 3 lett. b) della Convenzione di Istanbul. La Convenzione la sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violen-
za domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, è stata adottata dal
Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 ed è stata aperta alla firma l’11 maggio
2011. L'Italia ha sottoscritto la Convenzione il 27 settembre 2012 e il Parla-
mento ha autorizzato la ratifica con la legge 77/2013.
151
Explanatory Report, 12 aprile 2011, in www.conventions.coe.int.
152
Convenzione di Istanbul, art. 2 par. 2 .

115
verano innanzitutto i bambini e, seppur raramente, anche gli
uomini.
Sul tema del contrasto al fenomeno insidioso e drammatico
della violenza in famiglia e di genere, la Convenzione di Istan-
bul si può considerare il primo strumento giuridicamente vinco-
lante in ambito internazionale153. Essa introduce un sistema di
norme volto alla protezione delle donne e dei minori contro tutte
le forme di violenza, che si presenta completo e attento anche
sotto il profilo della promozione della cultura della parità stig-
matizzando ogni discriminazione basata sul sesso.
Gli obiettivi del testo sono stati riassunti nelle “3 P”: “Pre-
vention, Protection of victims and Prosecution of Offenders”154,
a cui va aggiunta una quarta P, quella delle Politiche integrate,
olistiche e coordinate, senza le quali le misure per eliminare un
fenomeno così radicato e complesso sarebbero fallimentari e so-
stanzialmente inutili.
In ognuna di queste quattro aree (prevenzione, protezione
delle vittime, perseguimento dei colpevoli e politiche integrate)
la Convenzione indica diverse misure a carattere specifico che
gli Stati sono chiamati ad attuare.
Per quanto riguarda la prima area, quella della prevenzione,
è necessario che gli Stati adottino tutti i provvedimenti necessari
per promuovere un cambiamento di vasta portata delle mentalità
degli individui a tutti i livelli, affinché si arrivi all’obiettivo del
superamento degli stereotipi di genere155e alla sensibilizzazione

153
La Convenzione di Istanbul all’art. 75 par. 1 prevede che anche gli
Stati non membri del Consiglio d’Europa che hanno partecipato alla sua ela-
borazione e l’Unione Europa possano firmare e ratificare la suddetta Conven-
zione.
154
Prevenzione, protezione delle vittime e condanna degli autori di cri-
mini contro la violenza nei confronti delle donne, in Comitato Ad Hoc sulla
prevenzione ed eliminazione della violenza contro le donne e della violenza
domestica (CAHVIO), Interim Report, Strasburgo, 27 maggio 2009, CAH-
VIO (2009) 4 FIN, p. 6 par. 7.
155
Convenzione di Istanbul, art. 12 par. 1.

116
dell’opinione pubblica rispetto al problema della violenza e alle
conseguenze dalla stessa generate.
A tal uopo essi devono adottare anche misure di natura pre-
ventiva, atte ad impedire che la violenza si verifichi156, e intra-
prendere azioni positive per proteggere le persone che si trovano
in condizione di particolare vulnerabilità, incluse le donne in
stato di gravidanza, le madri di bambini piccoli, le persone affet-
te da disabilità, i migranti, gli omossessuali, i bambini e gli an-
ziani157.
Altra importante prescrizione dettata dai redattori della
Convenzione è quella che impone agli Stati di adottare pro-
grammi e realizzare attività che abbiano la finalità di aumentare
il livello di autonomia e di emancipazione delle donne a tutti i
livelli, compresi quello economico e politico.
L’obiettivo di tali programmi è quello di raggiungere “the
hearts and minds of individuals”158 che attraverso il loro com-
portamento contribuiscono al persistere della violenza contro i
soggetti vulnerabili159. Questo è un passaggio cruciale che in-
volge in prima battuta il tema dell’educativo: nessuna preven-
zione è possibile se gli attori non statali e tutti segmenti della
società non vengono inclusi in campagne di sensibilizzazione ed
informazione atte a scongiurare il pericolo che talune culture, re-
ligioni o tradizioni possano essere usate per giustificare gli atti
di violenza perpetrati in danno degli esseri umani in posizione di
maggiore vulnerabilità160. Ciò implica che gradualmente i per-
corsi di recupero rivolti agli autori di simili condotte possano es-
sere accolti con maggiore disponibilità, perché – in un mutato

156
Ivi, art. 12 par. 2.
157
Consiglio d’Europa, Convenzione sulla prevenzione e lotta contro la
violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Explanatory Re-
port, 12 aprile 2011, par. 87, in: www.conventions.coe.int.
158
Ivi, par. 85.
159
Ibidem.
160
Convenzione di Istanbul, art. 12 par. 5.

117
scenario culturale – è altamente probabile che i progetti riabilita-
tivi smettano di essere percepiti come misure afflittive e venga-
no accettati come una concreta possibilità di riparazione delle
ferite inferte ai propri cari e conseguente reinserimento sociale.
Naturalmente tali progetti devono essere predisposti da
esperti, avere un substrato scientifico che consenta di realizzare
il difficile obiettivo della destrutturazione progressiva degli agiti
violenti e dell’acquisizione delle giuste competenze per gestire
relazioni interpersonali, e devono altresì essere realizzati in
stretta sinergia con i servizi specializzati che accolgono e so-
stengono le vittime.
L’educazione, la rieducazione, la cultura della parità di ge-
nere, del rispetto reciproco e della soluzione concordata e pacifi-
ca dei conflitti, svolgono un ruolo fondamentale ai fini della
prevenzione della violenza in famiglia e contro i soggetti vulne-
rabili. Il cambiamento culturale auspicato non è realizzabile, pe-
rò, senza una formazione mirata delle figure professionali depu-
tate ad occuparsi di vittime e autori di violenza. Gli operatori,
infatti – come già accennato – devono avere una conoscenza ap-
profondita e specifica delle diverse forme di violenza, degli
aspetti psicologici legati alle specificità del genere di apparte-
nenza (senza la quale non si può comprendere autenticamente la
cultura della parità), dei bisogni e dei diritti delle vittime e dei
processi di vittimizzazione secondaria161.
Sebbene i redattori della Convenzione abbiano lasciato agli
Stati la libertà di decidere come formare il personale preposto a
fornire protezione e assistenza alle vittime di violenza e prende-
re in carico gli autori della stessa, è opportuna l’attivazione di

161
La vittimizzazione secondaria si realizza quando le vittime di crimini
subiscono una seconda vittimizzazione da parte delle istituzioni, dagli opera-
tori o dall’esposizione mediatica non voluta. Cfr. D. Chindemi, V. Cardile,
Violenza psichica endo-familiare, plagio della vittima e rimedi terapeutici,
articolo estratto dalla Responsabilità Civile e Previdenza, Fascicolo n.
3/2007, Giuffré Editore, in www.altalex.com.

118
strumenti di controllo per verificare che le competenze acquisite
siano esercitate in maniera adeguata; come è importante a questo
fine che vengano adottati protocolli e linee guida chiari, conte-
nenti gli standard che gli esperti sono tenuti a rispettare nei vari
settori in cui operano.
La seconda area d’intervento introdotta dalla Convenzione
di Istanbul è quella dedicata alle misure di protezione e sostegno
in favore e di vittime e testimoni, i quali devono essere tutelati
dalle possibili ritorsioni e aiutati nel percorso di ricostruzione
esistenziale162.
Posto che le misure di protezione devono essere inquadrate
nell’alveo degli strumenti a tutela dei diritti umani, esse devono
innanzitutto strutturarsi su un approccio integrato che tenga con-
to del rapporto tra vittime, autori degli agiti violenti, bambini e
contesto sociale di riferimento; e in secondo luogo evitare la vit-
timizzazione secondaria.
Per far ciò è necessario garantire la cooperazione tra tutti gli
organismi statali competenti (autorità giudiziaria, enti locali e
regionali, organizzazioni non governative) e l’accesso ai servizi
a tutela delle vittime (servizi legali, sanitari, psicologici, finan-
ziari, d’impiego, di alloggio, di formazione e di educazione) de-
ve essere immediato e continuativo nel tempo, oltre che sgancia-
to e indipendente dalla volontà delle stesse di intentare un pro-
cedimento penale o di testimoniare contro l’autore della violen-
za.
Perché il servizio di supporto sia adeguato ed efficace, inol-
tre, gli Stati devono necessariamente istituire case rifugio e cen-
tri di prima assistenza per le donne e per i bambini vittime di
violenza e attivare linee telefoniche di sostegno che possano
operare ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette163.
La Convenzione impone agli Stati parti anche un obbligo di in-

162
Consiglio d’Europa, Explanatory Report, cit., par. 110.
163
Ivi, art. 23-25.

119
coraggiare le segnalazioni da parte dei testimoni164, poiché se-
condo i redattori della Convenzione, le segnalazione fatte da
amici, parenti, insegnanti o vicini contribuiscono a rompere il si-
lenzio che spesso circonda la violenza di genere e la violenza
domestica.
La terza area, che è quella relativa alla persecuzione dei
colpevoli, richiede ai sottoscrittori della Convenzione di punire
le condotte violente con sanzioni che siano “effective, propor-
tionate and dissuasive”165. Le stesse possono includere la priva-
zione della libertà personale, l’estradizione, la decadenza dalla
responsabilità genitoriale, il monitoraggio e l’osservazione delle
persona attinta dalla misura166.
Infine, la quarta e ultima area d’intervento, riguarda
l’adozione di politiche nazionali, efficaci, globali e integrate, al-
lo scopo di agire efficacemente per prevenire ed eliminare qual-
siasi forma di violenza in famiglia e per motivi legati al genere.
Tale approccio, a carattere olistico, presuppone la creazione di
un organo che garantisca la piena e completa collaborazione di
tutti i soggetti coinvolti nella rete della tutela dei soggetti vulne-
rabili (enti, organizzazioni e istituzioni, società civile, organiz-
zazioni di donne, autorità nazionali, locali e regionali), chia-
mandoli ad operare nell’ambito di un piano nazionale d’azione.
Sebbene la Convenzione di Istanbul si presenti come lo
strumento più importante in seno al diritto internazionale per
rendere effettivi i diritti umani, non mancano le criticità, come
emerge dal primo rapporto pubblicato il 13 gennaio 2020 dalla
delegazione GREVIO167 (Gruppo delle/gli esperte/i per il mo-
nitoraggio dell’implementazione della Convenzione del Consi-
glio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei
confronti delle donne e la violenza domestica).

164
Ivi, art. 27.
165
Consiglio d’Europa, Explanatory Report, cit., art. 45 par. 1.
166
Ivi, art. 45, par. 2.
167
Rapporto GREVIO 13.01.2020, in www.coe.int.

120
Il rapporto del GREVIO, oltre ai rilievi critici dei quali si
darà conto, contiene anche valutazioni positive rispetto ad alcu-
ne riforme legislative che hanno consentito l’introduzione di mi-
sure concrete per porre fine alla violenza sulle donne, come ad
esempio la normativa del 2009 contro lo stalking, o la Legge n.
119/2013, che ha sancito l’obbligo delle autorità di sostenere e
promuovere, in particolare attraverso l’assegnazione di mezzi
finanziari, una vasta rete di servizi di assistenza alle vittime. E
anche altri due testi sono stati oggetto di plauso: il Decreto legi-
slativo n. 80/2015, le cui disposizioni prevedono un congedo
speciale retribuito per le lavoratrici vittime di violenza di gene-
re, e la Legge n. 4/2018, che contiene numerose misure a tutela
degli orfani di una vittima di crimine domestico.
Tuttavia – come già accennato – nel riconoscere i progressi
compiuti per dare concreta attuazione ai principi contenuti nella
Convenzione di Istanbul in Italia, il rapporto sottolinea che la
causa dell’uguaglianza di genere incontra ancora resistenze nel
paese e che sta emergendo una preoccupante tendenza a reinter-
pretare e riorientare la nozione di parità di genere riconducendo-
la nell’alveo delle politiche per la famiglia e nella tutela della
maternità, con ciò trascurando al contempo tutti gli altri ambiti
in cui il principio della parità meriterebbe di essere affermato e
tutelato.
Nel campo della protezione e dell’assistenza alle vittime, il
rapporto ritiene che le autorità nazionali dovrebbero prioritaria-
mente stanziare finanziamenti adeguati ed elaborare soluzioni
che permettano di fornire una risposta coordinata e interistitu-
zionale alla violenza, basate sul forte coinvolgimento delle auto-
rità locali e sulla partecipazione di tutti gli attori interessati, in
particolare le ONG femminili che offrono strutture di accoglien-
za per le vittime.
Inoltre non risultano attuate quelle misure complementari,
ispirate a un approccio fondato sui diritti umani, finalizzate a
colmare le lacune nei servizi di supporto specializzati per le vit-

121
time di violenza sessuale, poiché non è stato mai dato corso alle
azioni di impulso indicate nella Convenzione e dirette
all’istituzione di più centri di accoglienza per le vittime di stupro
o di violenza sessuale.
Il rapporto rileva ulteriori lacune legislative, come, ad
esempio, l’assenza di mezzi di ricorso civili efficaci nei confron-
ti delle autorità statali che abbiano mancato al loro dovere di
adottare le necessarie misure di prevenzione o di protezione
nell’ambito delle loro competenze. Né sono state assunte deter-
minazioni efficaci sull’esercizio del diritto di custodia dei figli
da parte del genitore maltrattante, rispetto al quale – non appaia
superfluo osservarlo – dovrebbe prevalere sempre il superiore
interesse del bambino all’integrità fisica e psichica. Sul punto il
GREVIO esprime preoccupazione, vista la tendenza del sistema
attuale a esporre a una vittimizzazione secondaria sia le madri
che denunciano, sia i minori coinvolti in simili vicende.
Se è vero che bisogna trattare le denunce di violenza con
grande cautela per via del crescente e odioso fenomeno dei falsi
abusi usati come strumento di vendetta nei confronti dell’ex
partner, è altrettanto vero che il sistema deve dotarsi di tutti gli
strumenti per riconoscere il vero dal falso e accordare al vero
tutte le tutele necessarie.
Infine, in materia di diritto di asilo, il rapporto sottolinea
che l’assenza di procedure efficaci di valutazione delle vulnera-
bilità, che non consente di individuare correttamente le vittime,
può condurre all’espulsione o al rimpatrio delle stesse, in viola-
zione dell’obbligo di non respingimento. Le recenti politiche mi-
ranti a porre fine ai salvataggi in mare e a rafforzare la dissua-
sione dei potenziali candidati all’emigrazione, associate alla
chiusura dei porti italiani per le navi che trasportano migranti
soccorsi in mare, aumentano ulteriormente il rischio di respin-
gimento.

122
Al di là delle criticità rilevate dal rapporto del GREVIO, ve
ne sono altre che – a parere di chi scrive – meritano di essere
poste in evidenza.
Si pensi ad esempio alla recente Legge n. 69 del 19 luglio
2019, c.d. Codice rosso, che, sebbene sia apprezzabile per aver
introdotto il reato di revenge porn, ossia la diffusione illecita di
immagini o video sessualmente espliciti, e per aver stabilito per
lo stesso la procedibilità d’ufficio, non certamente si presta a ri-
solvere problemi endemici e persistenti nella tutela lacunosa di
chi subisce violenza.
La parte più critica del Codice Rosso riguarda l’obbligo per
le Procure di sentire le persone offese e chi ha presentato denun-
cia, querela o istanza entro tre giorni dall’iscrizione della notizia
di reato.
Sembra trattarsi di una norma posta più a tutela
dell’indagine giudiziaria che della persona, visto che tutte le as-
sociazioni per la protezione delle vittime di violenza, gli esperti,
gli psicologi dei centri antiviolenza, hanno giudicato questo ter-
mine troppo stringente e in linea di massima incompatibile con i
tempi di metabolizzazione delle vittime, spesso – o quasi sempre
– non pronte in così pochi giorni a essere sentite dall’Autorità
giudiziaria.
Inoltre non è stata eliminata la possibilità di delega alla po-
lizia giudiziaria e – per tale ragione – le vittime nella gran parte
dei casi vengono sentite da carabinieri e polizia, i cui operanti
potrebbero non essere adeguatamente preparati a gestire
l’ascolto di esseri umani che vengono da esperienze così doloro-
se e la cui complessità richiederebbe l’ausilio di un esperto non
sempre disponibile.
Non si fa alcuna differenza tra donne che siano già state col-
locate in protezione e donne che siano ancora a casa (dunque in-
sieme all’autore del reato) al momento della convocazione. Per-
ciò sorge la fondata preoccupazione su come in concreto tale
convocazione possa avvenire; è auspicabile che non si contatti la

123
vittima nella propria abitazione e in presenza del suo carnefice,
al quale sarebbe difficile spiegare a quali adempimenti la stessa
è chiamata.
L’analisi sin qui svolta dimostra che ancora l’approccio cul-
turale e del diritto nei confronti della violenza domestica e della
violenza di genere è fortemente improntato più alla tolleranza
che alla stigmatizzazione
La violenza intrafamiliare e quella contro le donne appare –
per molti versi – non solo socialmente accettata, ma anche isti-
tuzionalizzata come forma di estrinsecazione del dominio del
genere maschile da giustapporre al ruolo delle donne ancora lar-
gamente caratterizzato da forti elementi di subalternità sociale
ed economica.
Ed è qui che il ruolo dell’educativo travalica anche quello
del diritto, presentandosi come l’unica via per sradicare pregiu-
dizi e strettoie culturali che ancora affollano vari segmenti del
sociale e anche le aule giudiziarie, in cui troppo spesso si cele-
brano processi a carico delle vittime, ritenute colpevoli di aver
armato la mano del carnefice.

124
Capitolo terzo

Il conflitto inconciliabile: analisi del femminicidio. Possibili


proposte pedagogiche.

Di tutte le creature che hanno anima e cervello,


noi donne siamo le più infelici» (vv. 230-31)
Euripide, Medea.

3.1. Le donne, i femminismi e l’utopia di una trasforma-


zione incompiuta.
Il ‘900 è stato un secolo di profondi cambiamenti, afflitto da
due guerre mondiali, ricordato per il misconoscimento dei diritti
fondamentali della persona e per le persecuzioni razziali, ma an-
che per la straordinaria rinascita dell’uomo, così ben rappresen-
tata dalla poesia dei primi decenni del XX secolo168, in cui han-
no fatto la loro comparsa temi propri della letteratura di ogni
tempo legati all'acqua e alle sue figurazioni.
L'immersione, il viaggio per acqua, il naufragio, il rispec-
chiarsi dell'uomo nell'elemento liquido169, costituiscono il sim-
bolo della rigenerazione: attraverso l’acqua come elemento pri-

168
Si pensi all’importantissimo contributo letterario offerto dall’Italia
attraverso autori come Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi, Guido Gozzano,
Dino Campana, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, ai
quali si affianca, nella ricostruzione della letteratura novecentesca in termini
di spinta alla rinascita dell’uomo, anche Filippo Tommaso Marinetti, come
autore e rifondatore del genere-manifesto, del quale Il Manifesto del Futuri-
smo - che apparve in anteprima sul Giornale dell’Emilia di Bologna, il 5 feb-
braio 1909 - fu l’opera simbolo.
169
G. Bachelard, Dormeurs eveilles. La rêverie lucida, in Id., Causeries
(1952-1954), con Prefazione di J.L. e Introduzione, traduzione e cura di V.
Chiore, Genova, Il Melangolo, 2005, p. 98., p. 101. La metafora dell’acqua
come specchio, che simboleggia l’io dinanzi all’infinità di sé stesso è presen-
te anche nella poesia di U. Saba Il pomeriggio, “Il cielo è azzurro come il
primo cielo che Dio inarcava sulla terra nuova, e il mare, appena benedetto,
è un liscio specchio all’azzurro di tutto quel cielo”, p. 87, Il Canzoniere, in
Tutte e Poesia, a cura di A. Stara, Mondadori, Milano, 1988.

125
mordiale, così come attraverso lo specchiarvisi - già fortemente
evocativo nel mito greco di Narciso - ed ancora immergendovi-
si, l’uomo attualizza, per dirla con Jung, la storia dell’umanità:
il mito, che sempre ritorna, della morte e della rinascita e delle
infinite figure che fluttuano intorno a questo mistero, ed entra,
così, in contatto con la dimensione «sovrapersonale»
dell’inconscio170.
Così il ‘900 diventa anche l’era del riscatto dell’essere
umano rispetto alla sofferenza, alla sopraffazione e alle espe-
rienze di aridità interiore imposte dalla tormentata storia del se-
colo breve171.
Esso ha costituito, infatti, nella sua contraddittoria fisiono-
mia, il punto di partenza per una nuova cultura dell’individuo,
diventando così terreno di coltura per il processo
dell’emancipazione femminile.
Il ‘900 è infatti – secondo Simonetta Ulivieri – «il secolo
dell’affermazione paritaria delle donne, dal primo femminismo
pro-suffragio delle donne che all'inizio del secolo rivendicavano
il voto e i diritti civili, al neo-femminismo degli anni Settanta
che ha portato, nei Paesi occidentali, a diverse condizioni di vita,
a relazioni tra i sessi più libere e più complici, alla possibilità
per le giovani donne di guardare alla loro vita futura senza timo-
re, ansia e paura, potendo pianificare scelte esistenziali consape-
voli sia rispetto alla loro formazione, che alle loro scelte lavora-
tive, che alla procreazione»172.

170
C.G. Jung, Über das Unbewusste, trad. it. L’inconscio, in Id., La psi-
cologia dell’inconscio, Roma, Newton Compton, 1989, p. 142.
171
Il ‘900 è stato definito il Secolo breve, dallo storico Eric J. Hob-
sbawm, il quale riteneva che gli eventi più significativi del XX secolo fossero
racchiusi tra il 1914, anno dello scoppio della I guerra mondiale e il 1991,
anno in cui è avvenuta la dissoluzione dell’URSS dopo il crollo del muro di
Berlino del 1989. La ricostruzione degli avvenimenti del ‘900 operata da
Hobsbawm è contenuta nel noto saggio Il Secolo breve - 1914-1991: l'era dei
grandi cataclismi, collana Bur Varia, Rizzoli, 2007.
172
S. Ulivieri, Il femminicidio diffuso. Cronache di ordinaria follia, in
Corpi violati, S. Ulivieri (a cura di), FrancoAngeli, Milano, 2014, p. 9. Per un

126
Ma quali sono stati i momenti più significativi, nel moto
ondivago della storia, che hanno condotto a quello che la studio-
sa chiama “il secolo dell’affermazione paritaria delle donne”?
Per convenzione è comune classificare le ondate femministe
in tre principali fasi: il femminismo dell’uguaglianza (first-wave
feminism), il femminismo della differenza (second-wave femi-
nism) e l’ondata femminista più recente, iniziata nel 1990 e che,
per molti, continua fino ad oggi (thrid-wave feminism).
Sebbene si possano individuare già alla fine del Settecento
le prime rivendicazioni femministe – ne sono esempio noto le
opere di Mary Wollstonecraft (1792) e Olympe de Gouges
(1791) – Simone de Beauvoir nel 1949 aveva proposto la divi-
sione del femminismo in due ondate principali: modern-
feminism tra il 1789 e il 1950 e il contemporary femminism da-
gli anni Sessanta fino ad oggi.
Ai giorni nostri, per contro, la letteratura parla di post-
feminism e di fourth-wave feminism, articolando ulteriormente
il femminismo contemporaneo.
Nel corso della prima ondata, le rivendicazioni riguardarono
la parità e i diritti: il movimento femminista di matrice suffragi-
sta, sviluppatosi in forma organica a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, guardava alla diseguaglianza femminile e alla
disparità dei diritti tra uomini e donne nelle società nel loro
complesso e riteneva indispensabile l’affermazione della parità
dei diritti per il raggiungimento di una società più equa.
Il risultato più importante fu allora la conquista del diritto di
voto per le donne (nel 1928 in Gran Bretagna, paese natìo del
suffragismo e a seguire, gradualmente, in molti altri paesi).

approfondimento si veda anche E. Doni, M. Fugenzi, Il secolo delle donne.


L’Italia del Novecento al femminile, Laterza, Roma-Bari 2003; M. Durst (a
cura di), Identità femminili in formazione. Generazioni e genealogie delle
memorie, FrancoAngeli, Milano 2005; F. Marone, Narrare la differenza.
Genesi, saperi e processi formativi nel Novecento, Unicopli, Milano 2004.

127
La prima ondata femminista è definita anche «social femi-
nism»173 poiché caratterizzata dalla mobilitazione di migliaia di
donne di classe operaia e di classe media in nome
dell’emancipazione femminile174.
Queste forme di mobilitazione, a cui bisogna aggiungere il
ruolo delle donne nel sostenere la produzione economica duran-
te la I guerra mondiale – quando, cioè, la forza lavoro maschile
era al fronte – favorirono non solo la visibilizzazione delle don-
ne e delle loro rivendicazioni, ma anche la consapevolezza della
necessità di impegnarsi per accrescere i diritti politici e miglio-
rare le condizioni di lavoro delle donne175
Concentrandosi principalmente sui diritti politici e sul lavo-
ro, la prima ondata non riuscì a trasformarsi in un movimento di
massa che attraversasse tutti gli aspetti e tutte le ragioni di dispa-
rità tra uomini e donne. Poi, il susseguirsi di avvenimenti di
grande impatto a livello internazionale, come la Grande Depres-
sione (1929-1939) e la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945),
spinsero i movimenti sociali e gli intellettuali a concentrarsi
maggiormente sui problemi relativi all’economia e al welfare
state, ma senza un’attenzione specifica alle istanze femministe o
a una loro riformulazione sulla base della nuova congiuntura.
Negli Stati Uniti, ad esempio, l’anticomunismo, il maccarti-
smo, la guerra di Corea (1950-1953), impedirono l’affermazione
di qualsiasi movimento di massa, poiché prevalse l’idea della tu-
tela degli interessi nazionali, la quale finì con l’inibire anche
nuove teorizzazioni e pratiche femministe.

173
J. Pilcher, I. Whelehan, Fifty Key Concepts in Gender Studies, Sage
Pubns, London. 2004, p. 53.
174
M.J. Boxer e J.H. Quataert, Connecting Spheres Women in the We-
stern World, 1500 to the Present, Oxford University Press, Oxford, 1987.
175
N. Berkovitch, From Motherhood to Citizenship Women‟s Rights
and International Organizations, Johns Hopkins University Press, Baltimora,
1999; L.J. Rupp, Feminisms and Internationalism: A View from the Centre,
Gender & History, Volume 10, Issue 3, Novembre 1998, pp. 535 -538; D.
Stienstra, Women’s Movements and International Organizations, Palgrave
Macmillan, London, 1994.

128
In Europa occidentale, allo stesso tempo, l’attenzione era
prevalentemente rivolta alla ricostruzione, alla soluzione delle
conseguenze della guerra, e ancora ben delineata si mostrava la
separazione tra sfera domestica (femminile) e sfera pubblica
(maschile) nonostante molte donne, in molti (ma non in tutti) i
paesi avessero guadagnato nuovi diritti.
Il 1963, anno di pubblicazione di The Feminine Mystique di
Betty Friedan176 negli Stati Uniti, rappresentò per alcuni il punto
di partenza per il femminismo della seconda ondata. Altri, inve-
ce, presero come anno di riferimento il 1949, anno in cui Simo-
ne de Beauvoir pubblicò in Francia Le Deuxième Sexe177.
Al di là di un tentativo di suddivisione temporale del pro-
cesso di affermazione delle istanze femministe, furono le grandi
mobilitazioni e manifestazioni (studentesche, nere, operaie e
femministe) a rappresentare una svolta cruciale anche in quel
senso.
In particolare, nella seconda metà del Novecento, emersero
alcuni movimenti caratterizzati sia dalla novità dei temi affron-
tati sia dagli attori impegnati in questi conflitti. Si trattava di
giovani, donne, nuovi gruppi professionali, soggetti che in que-
gli anni rivendicavano istanze inedite e diritti e si rendevano
(politicamente) visibili: una costellazione di movimenti sociali
che combattevano contro l’imperialismo, contro il razzismo,
contro l’omofobia e le differenze di classe178.
Per le caratteristiche specifiche di composizione interna e
per la novità dei temi trattati e posti al centro della scena politi-

176
B. Friedan, The Feminine Mystique, W. W. Norton & Company,
New York, 1963, trad. it. Valtz Mannucci, La mistica della femminilità, Edi-
zioni di Comunità, Milano, 1964.
177
S. de Beauvoir, Le Deuxième Sexe, Gallimard, Parigi, 1949; tr. it.
Roberto Cantini e Mario Andreose, Il Secondo sesso, Il Saggiatore, Milano,
1961.
178
N. Fraser, Scales of Justice: Reimagining Political Space in a Globa-
lizing World, Columbia University Press, New York, 2009, p. 107.

129
ca, questi movimenti furono definiti «nuovi movimenti socia-
li»179.
Secondo Alain Touraine e Alberto Melucci, i conflitti degli
anni Sessanta e Settanta mettevano al centro della loro critica il
modernismo, il progresso, cercavano di opporsi alla penetrazio-
ne dello stato nella vita sociale e difendevano la sfera
dell’autonomia personale. Le trasformazioni di quegli anni, tra
le quali il passaggio dall’economia keynesiana a quella neolibe-
rale, una nuova divisione internazionale del lavoro che si nutriva
di manodopera a basso costo (prevalentemente femminile), con-
flitti armati e diffusione dei movimenti religiosi fondamentalisti,
divennero centrali anche nelle rivendicazioni femministe.
I movimenti femministi, che come gli altri movimenti socia-
li guadagnarono il prefisso neo-femminismi, parteciparono atti-
vamente alla messa in discussione dell’organizzazione politica e
sociale delle società occidentali.
Se la prima ondata fu un movimento di emancipazione e di
rivendicazione dei diritti delle donne e della loro autonomia ri-
spetto alla controparte maschile, la seconda ondata si proponeva
di portare avanti un processo più ampio e trasversale che coin-
volgesse ogni aspetto della vita delle donne: quello politico,
corporeo, psichico, intimo.
Il femminismo della seconda ondata faceva sua l’idea della
non conformità del proprio destino alla biologia, come testimo-
nia la celebre locuzione di Simone de Beauvoir, «On ne naît pas
femme, on le devient»180.
Negli Stati Uniti, pochi anni più tardi, Betty Friedan mise a
fuoco le rappresentazioni sociali, culturali e commerciali ameri-
cane degli anni Cinquanta e Sessanta che consolidavano e raf-
forzavano un immaginario specifico di ruoli maschili e ruoli
179
A. Melucci, Social Movements and the Democratization of Everyday
Life, in Keane J. (ed.), Civil Society and the State, New European Perspecti-
ves, Verso, London 1988; A. Touraine, Il ritorno dell’attore sociale, Editori
Riuniti, Roma, 1988.
180
S. de Beauvoir, Le Deuxième Sexe, op. cit., p. 13.

130
femminili tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata.
Friedan mostrò quanto le donne americane, nonostante
l’idealizzazione del loro ruolo di mogli e madri, fossero investite
da un «senso di disagio e di frustrazione», quello che l’autrice
definì la «mistica della femminilità» o ancora «il problema sen-
za nome»181.
Indagare il senso delle relazioni familiari, matrimoniali e af-
fettive, così come interrogare la sfera privata e l’intimità dal
punto di vista delle donne divenne uno dei nodi centrali della se-
conda ondata che, per questo, divenne un processo di liberazione
oltre che di emancipazione.
Le femministe della seconda ondata avevano infatti com-
preso che la parità formale (diritto al voto, accesso
all‘istruzione, etc.), seppure sancita e legalmente vincolata, non
era sufficiente a garantire anche quella sostanziale.
Con lo slogan «il personale è politico», il secondwave fe-
minism ha sottolineato la necessità di guardare e affrontare le
conseguenze del sessismo e del patriarcato anche nella vita pri-
vata, negli aspetti personali delle donne, nell’istituzione matri-
moniale, nelle relazioni all’interno delle famiglie oltre che nella
vita e nella partecipazione alla sfera pubblica.
Per il femminismo, anche a livello internazionale, nel 1975
nasceva un nuovo corso, celebrato ufficialmente a Città del
Messico. Le Nazioni Unite, infatti, intitolarono quell’anno «In-
ternational women‘s year» (Iwy) e così anche tutto il decennio
successivo (1975-1985), qualificato come «United Nations de-
cade for women» (Undw).
Il femminismo stava diventando un «interlocutore politico e
internazionale»182 a cui governi e istituzioni dovevano dare con-
to. Lungo tutta la decade, a partire dal 1975, rappresentanti di
governi, Ong, gruppi e movimenti femministi, si riunirono in più

181
B. Friedan, La mistica della femminilità, op. cit, pp. 17-18.
182
R. Baritono, Soggetti globali/Soggetti transnazionali: il dibattito
femminista dopo il 1985, in Genesis VIII/2, 2009, Viella, Roma 2009, p. 186.

131
occasioni per adottare insieme soluzioni che avrebbero favorito
l’avanzamento dei diritti e delle condizioni delle donne in tutto
il mondo e per incrementare il dialogo globale sulla parità di ge-
nere.
Alla fine di quel decennio, il movimento delle donne, in tut-
to il mondo, presentava caratteri e solidità probabilmente inim-
maginabile fino a qualche anno prima.
Raffella Baritono considera proprio il 1985, il decimo anno
della decade for women, un «possibile nodo storico»183, un an-
no di svolta «nella costruzione dei movimenti delle donne […]
non solo per ciò che riguarda l’ampiezza della loro azione, ma
anche per le istanze politiche e teoriche che essi esprimono»184.
Non a caso proprio in quegli anni, nel 1984, Robin Morgan
aveva pubblicò l’antologia Sisterhood is Global: The Internatio-
nal Women‟s Movement Anthology185, di cui fu curatrice, evo-
luzione del precedente Sisterhood is Powerful del 1970186.
Sisterhood is Global rappresentò in qualche maniera il
compimento da un punto di vista teorico di quanto proposto nel-
le Conferenze mondiali. Morgan individuò nella sorellanza uni-
versale (global sisterhood) la base comune di azione per le don-
ne di tutto il mondo: il solo fatto di essere donna era inteso come
il comune denominatore per azioni e teorizzazioni capaci di uni-
re le donne, a prescindere dalla appartenenza geografica, politica
o culturale.
L’assunto di partenza era questo: il patriarcato è trasversale
a ogni cultura e a ogni contesto e soltanto una solidarietà fem-
minile e femminista, di tutte le donne, può combatterlo; il pa-
triarcato e l’essere donne rappresentano la base comune della
lotta.
183
Ivi, p. 190.
184
Ivi, p. 192.
185
R. Morgan, Sisterhood Is Global: The International Women‟s Mo-
vement Anthology, Random House,New York, 1984.
186
R. Morgan, Sisterhood Is Powerful: The Women‟s Liberation Antho-
logy, Random House, New York, 1970.

132
«Goodbye to all that» incitava Morgan nel 1970 al fine di
rifondare una società nuova che si allontanasse, distruggendole,
dalle strutture di potere che avevano fino a quel momento rap-
presentato la causa di oppressione per tutte le donne. Tra i risul-
tati più importanti frutto delle lotte, delle riflessioni e delle mo-
bilitazioni della seconda ondata vanno annoverati certamente il
controllo della riproduzione (facilitando l’accesso ai contraccet-
tivi), l’accesso a alcune professioni fino a quel momento consi-
derate tipicamente maschili, la parità salariale per gli uomini e le
donne, nuove legislazioni in tema di stupro, molestie sessuali e
violenza domestica187.
Il patriarcato, storicamente e soprattutto per la tradizione
femminista, indica il sistema di dominio maschile, come sistema
universale di rappresentanza/rappresentazione e organizzazione
della società, e quindi fonte di legittimità dell’ordine sociale, po-
litico e sessuale, che si basa su una supposta superiorità del ma-
schile sul femminile.
Da sempre bersaglio delle rivendicazioni e delle lotte fem-
ministe, oggi, sulla base di nuovi paradigmi emergenti, questo
ordine simbolico, secondo alcuni, sarebbe in crisi, poiché la pre-
sa di parola femminile rende impossibile continuare a pensare al
maschile in termini di superiorità e universalità. In questo senso
si parla di post patriarcato.
Allo stesso tempo però, la seconda ondata è stata criticata
perché secondo alcuni rifletteva principalmente gli interessi del-
le donne di classe media bianca, escludendo tutte le altre possi-
bili tipologie storicamente specifiche di differenziali di pote-
re188, come il genere, l’etnia, la razza, la classe, la sessualità,
l’età e la generazione, la disabilità, la nazionalità, categorie che,
nel loro intersecarsi, producono ulteriori ineguaglianze sociali e
187
A. Mc Robbie, The Aftermath of Feminism. Gender, Culture and So-
cial Change, Sage Publications, 2009, p.32.
188
C. Demaria, Intersezionalità e femminismo transnazionale tra co-
struttivismo, post-strutturalismo e performance epistemologiche, in «Scienza
& Politica», XXVIII, No. 54, (pp. 71-85), 2016, p. 73.

133
relazioni sociali ingiuste, che non possono risolversi, unicamen-
te, nella convinzione essenzialista che tutte le donne del mondo
condividano la stessa esperienza proprio in quanto donne189.
Il limite del femminismo della seconda ondata fu proprio
questo: era stata costruita una categoria femminile omogena e
monolitica, che finiva con il trascurare, cancellandole, le esigen-
ze (differenti) delle donne non-occidentali, attraverso un proces-
so di «forclusione»190.
In questo modo, afferma bell hooks191, è andato rafforzan-
dosi razzismo, classismo e etnocentrismo all’interno del movi-
mento femminista stesso a discapito proprio delle donne.
Negli anni Ottanta, dunque, si raggiunse una nuova consa-
pevolezza: l’identità, anche quella delle donne, dipende da va-
riabili molteplici, e la presa di coscienza di questi meccanismi
essenzializzanti ed escludenti avviò una critica radicale di cui
furono protagoniste le donne nere, le lesbiche, le chicane e tutte
le femministe non occidentali in generale.
Quello che iniziava ad emergere, da questi dibattitti, era il
tema del doppio patriarcato: doppio perché la donna non occi-
dentale si scopriva oggetto di una duplice esclusione, razziale e
sessuale.
In Terre di confine del 1987192, Gloria Anzaldúa (chicana e
lesbica) offrì diverse immagini esemplificative di come la donna

189
E. Pesole, Femminismo transnazionale, in S. Marchetti, J.M.H. Ma-
scat, V. Perilli, Femministe a Parole. Grovigli da Districare, Ediesse, Roma,
(pp. 106-110), 2016, p. 106).
190
G. C. Spivak, (2004), Critica della ragione postcoloniale, P. Calefa-
to (a cura di), Meltemi, Roma, 2004. «Forclusion», che diventa forclusione in
italiano, è un termine introdotto da Jacques Lacan per tradurre il freudiano
«verwerfung», che può essere reso letteralmente come preclusione.
Nell’approccio psicoanalitico lacaniano la forclusione è un meccanismo che
cancella definitivamente un avvenimento, che non rientra più nella memoria
psichica di un soggetto. Successivamente è stato ripreso da G.C. Spivak e
adattato alle teorizzazioni e riflessioni dei subaltern studies.
191
b. hooks, Ain'’t I a Woman? Black women and feminism, South End
Press, Boston, 1981.

134
chicana fosse vittima addirittura di una tripla, se non quadrupla,
discriminazione: razziale in virtù del colore della pelle e della
sua etnia, di classe perché economicamente svantaggiata, di ge-
nere in quanto donna, ed eventualmente di orientamento sessua-
le qualora non conforme al regime normativo
dell’eterosessualità.
Ritiene chi scrive che questo sia un passaggio determinante
anche nel dibattito contemporaneo sulle rivendicazioni delle
donne: riconoscere la necessità di «interrogare i soggetti rispetto
ai confini che definiscono la loro formazione [in riferimento] al-
le loro possibilità di azione e interconnessione locali, nazionali e
transnazionali»193.
L’intersezionalità, della quale si parla sin dagli anni Novan-
ta del secolo scorso, è uno strumento teorico, concettuale e poli-
tico per decostruire le molteplici e simultanee cause e dimensio-
ni dell’oppressione femminile. Il termine «intersectionality» è
stato coniato dalla studiosa afro-americana Kimberlé Williams
Crenshaw194, che lo ha concettualizzato ispirandosi alla resisten-
za e alle lotte per l’emancipazione delle donne nere, pioniere di
quello che più tardi prenderà il nome di black feminism (tra le
altre, Ana Julia Cooper e Sojourner Truth), le quali, sin dai tem-
pi della schiavitù, hanno combattuto contro l’oggettivazione dei
loro corpi e contro il razzismo, il sessismo e la discriminazione
basata contestualmente sul genere e sulla classe sociale.
È, dunque, da questo quadro che bisogna partire per com-
prendere il ruolo delle donne nel mondo contemporaneo e gli ef-
fetti del patriarcato che resiste nelle pieghe dell’inconscio e in
192
G. Anzaldúa, Borderlands/La Frontera, The New Mestiza, Aunt Lu-
te Books, San Francisco, 1987.
193
C. Demaria, Intersezionalità e femminismo transnazionale tra co-
struttivismo, post-strutturalismo e performance epistemologiche, già cit.,
2016, p. 73.
194
K. W. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex:
A Black Feminist Critique ofAntidiscrimination Doctrine, Feminist Theory
and Antiracist Politics, University of Chicago Legal Forum,Vol. 1989, Arti-
cle 8.

135
un sistema culturale difficile da decostruire, anche quando sem-
bra che molte conquiste siano state fatte. In realtà l’utopia della
trasformazione è ancora tristemente incompiuta.

3.2. Le donne e il loro ruolo nel mondo contemporaneo.


Oggi, sia pure tra luci e ombre e in un percorso ancora tutto
da compiere, le richiamate condizioni di parità, di autonomia, di
autorealizzazione sembrano essersi guadagnate un posto nel no-
stro tessuto sociale, tant’è che illustri studiose affermano che è
più diffusa di quanto si possa pensare la consapevolezza del va-
lore delle donne e della loro capacità di lavorare alla costruzione
di una società più giusta e più umana per tutti195.
E’ senz’altro vero che le nuove generazioni di donne rie-
scono ad affermarsi in tutti i segmenti della società: dalla politi-
ca allo sport, dal mondo dello spettacolo a quello della ricerca,
con risultati spesso ancor più brillanti dei loro colleghi di sesso
maschile. Eppure in questa incredibile ascesa delle donne nel
mondo contemporaneo, rimangono ancora enormi vuoti: talvolta
sembra che il patto silenzioso e perverso tra i sessi, quello stori-
co rapporto di subalternità femminile instaurato nella notte dei
tempi, si sia rotto e non senza conseguenze nefaste. Nuovi sce-
nari e nuove conflittualità affiorano nelle relazioni tra uomini e
donne in un equilibrio precario, che si regge su una parità più
apparente che reale.
Oggi le donne, a pieno titolo, non tollerano più oppressioni
e forme di prevaricazione, hanno una nuova percezione di se
stesse, della loro autonomia e dell’importanza del principio di
autodeterminazione, ma gli uomini, anche quelli più giovani, pur
trovando prima facie tutto ciò giusto e accettabile196, quando il
rapporto si stringe, più o meno inconsciamente finiscono col ri-
195
L. Santelli Beccegato L., Le donne, La pace e il valore della non vio-
lenza, in "Studium educationis", 2/2003, pp. 532-544.
196
C. Albanesi, S. Lorenzini (a cura di), Femmine e maschi nei discorsi
tra compagni di classe. Il focus group nella ricerca sul genere in adolescen-
za, Clueb, Bologna 2011.

136
proporre gli schemi familiari appresi, senza riuscire a liberarsi di
quei retaggi che per secoli hanno caratterizzato le relazioni tra
uomini e donne.
E’ come se agisse una sorta di uncoscious bias che induce
gli uomini a rivendicare per sé una libertà d’azione che per con-
tro negano – e talvolta anche con violenza – alla propria com-
pagna.
La studiosa Carmela Covato ci dice infatti che «il modello
implicito nei valori tradizionali della famiglia borghese ha una
tradizione secolare dalla quale non è possibile prescindere»197.
Ne consegue che le donne, più consapevoli delle loro risorse
e delle loro possibilità, si scontrano con uomini, per converso,
poco consapevoli dei pregiudizi inconsci di cui ancora sono vit-
time, dando luogo a conflitti che talvolta divengono insanabili.
L’insanabilità del conflitto porta in molti casi alla decisione
di porre fine alla relazione e accade assai frequentemente che,
quando la scelta della conclusione del rapporto è assunta unilate-
ralmente dalla donna, la reazione del partner può essere violenta
e incontrollata, specie nelle ipotesi in cui questi aveva già mani-
festato in costanza di rapporto comportamenti prevaricanti.
L’incidenza del fenomeno conduce a ritenere che le conqui-
ste ottenute dal ‘900 in poi, le ondate femministe che a più ripre-
se, e a velocità diverse, hanno prodotto nuove aperture sociali e
politiche non possono dirsi ancora totalmente introiettate dalla
società. Purtroppo molti uomini, ancora oggi, stentano a separar-
si dalla cultura patriarcale che ha dominato per secoli, come an-
che dall’idea che le donne non siano di loro proprietà.
I numerosi episodi di violenza contro le donne sono la te-
stimonianza che le battaglie per la parità di cui si è tentato di dar
conto nel paragrafo precedente, la cultura e le politiche di pari
197
C. Covato, Il genere come norma nella storia dell’educazione, Uni-
copli Milano, 2014, pp. 111-112.

137
opportunità hanno raggiunto e convinto solo alcune fasce della
nostra popolazione, con la conseguenza che il processo di acqui-
sizione di queste nuove consapevolezze da parte della società
appare ancora in corso di costruzione e con grandi ritardi, perché
non condivisa o addirittura negata in alcune famiglie198, tra le
quali bisogna annoverare anche quelle degli immigrati, che per
retaggi culturali specifici faticano ad accettare il modus vivendi
dei propri figli nati e cresciuti in un contesti profondamente di-
versi da quelli di provenienza.
I dati sulla violenza contro le donne sono, purtroppo,
tutt’altro che confortanti e confermano che siamo ancora ben
lontani dall’aver raggiunto l’agognata parità. Inoltre, la situazio-
ne ha subito un deciso peggioramento a seguito dell’emergenza
epidemiologica da Covid-19.
In data 17 maggio 2021 è stato diffuso lo studio dell’Istat
denominato «Le richieste di aiuto durante la pandemia»199 nel
quale sono confluiti i dati dei Centri antiviolenza, delle Case ri-
fugio e delle chiamate al 1522 relativi al 2020.
Già grazie ai rapporti di Action Aid ed Eures, nonché quelli
consegnatici dalla rete Di.Re., a ridosso del 25 novembre (la
giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro
le donne), il quadro fotografava una condizione, nazionale e in-
ternazionale, di grave intensificarsi. Lo studio dell’Istat ci con-
ferma dunque che l’emergenza sanitaria ha avuto, in particolare
nella fase del lockdown che ha previsto convivenze forzate,
l’effetto di detonare situazioni pregresse di violenza e scoper-
chiarne di ulteriori.
L’aumento consistente delle chiamate all’utenza dedicata
del 1522 è pari al 79,5%, ovvero da 8427 chiamate del 2019 si è
198
Cfr. Palomba R., Sognando parità. Occupazione e lavoro, maternità,
sesso e potere, violenza e povertà: le pari opportunità, se non ora quando?,
Ponte alle Grazie, Firenze 2013.
199
Rapporto ISTAT del 17.05.2021, Le richieste di aiuto durante la
pandemia. I dati dei centri antiviolenza, delle Case rifugio e delle chiamate
al 1522. Anno 2020, in www.istat.it.

138
passati a 15128 nel 2020. Anche i messaggi arrivati alla chat
hanno avuto un incremento del 71%, passando da 683 a 2361.
Con riferimento alle telefonate, il picco relativo all’anno
2020 si registra da fine marzo con un +176,9% ad aprile (rispet-
to all’anno precedente) e a un +182,2% a maggio (rispetto allo
stesso mese del 2019).
Intorno a novembre del 2020, quindi nella settimana in cui
le campagne informative riguardanti il 25 novembre si facevano
più fitte, l’Istat riferisce un aumento del 114,1% rispetto al 2019.
Si tratta, nel 47,9% dei casi, di violenza fisica, anche se tutte le
donne che si sono rivolte al 1522 hanno denunciato più forme,
compresa quella psicologica nella metà dei casi.
E’ in aumento anche l’aiuto chiesto dalle ragazze, nella fa-
scia di età fino ai 24 anni (11,8%) e dalle donne di età superiore
ai 55 anni (23,2%); in assoluto, circa la metà risulta coniugata.
Anche a proposito dei maltrattanti la conferma è che si tratti di
famigliari con una crescita del 18,5% nel 2020 contro il 12,6%
nel 2019.
Le violenze ricevute invece dai partner restano nella inva-
riata percentuale del 57%.
Un ulteriore dato in crescita è quello relativo a chi si rivolge
al 1522. Si tratta nella gran parte dei casi di donne, ma non man-
cano (è l’aumento è pari all’80% in più)segnalazioni da parte di
parenti, amici, conoscenti e operatori territoriali che chiamano
per denunciare situazioni di violenza.
Anche i dati che arrivano dai centri antiviolenza ribadiscono
quanto i primi mesi del 2020 abbiano visto un’accentuazione del
fenomeno, si parla infatti di oltre 20mila donne rivoltesi ai cen-
tri, quasi il 10% di esse ha dichiarato che si sia trattato di circo-
stanze legate alla pandemia, ovvero l’obbligo di convivenza a
causa del lockdown, la perdita del lavoro da parte della donna o
dell’autore della violenza; sopra la media si trovano Lazio, Ve-
neto, Sicilia, Sardegna e Lombardia.

139
I dati dei territori, nella loro differenza, ci offrono una vi-
sione ancora più dettagliata: dalla media di 73 donne accolte per
centro antiviolenza, si raggiunge quella di 108 donne nel nord-
est e 95 nel centro Italia. Un dato rilevante giunge dalle isole che
hanno visto un incremento del 41,5% di donne accolte nei primi
cinque mesi del 2020 mentre un calo si è verificato nel nord-
ovest con un 16,4% in meno.
La difficoltà affrontata dai centri antiviolenza, ampiamente
descritta nei mesi scorsi, tra emergenza sanitaria, penuria di fon-
di e impossibilità evidenti connesse al lockdown, non ha tuttavia
prodotto l’interruzione dei servizi se non in sei casi (tre in Lom-
bardia, uno in Veneto, nel Lazio e in Abruzzo). Grazie alla rete
delle associazioni e dei centri infatti si sono svolti in presenza –
rispettando le regole del distanziamento – il 67,3% dei colloqui,
telefonate e mail hanno fatto il resto – che è tantissimo immagi-
nando quanto nelle prime settimane di pandemia si sia avuto un
fisiologico calo di utenze e un panorama tutto da ripensare in re-
lazione a ciò che di inedito stava capitando; in particolare ne
hanno risentito i centri antiviolenza di Lombardia, Piemonte,
Emilia Romagna, Toscana e Marche; al sud invece Molise e Pu-
glia. Maggiore è stata invece la difficoltà accusata dalle Case ri-
fugio che, nella metà dei casi, hanno faticato a trovare nuove
strategie di intervento, avendo una natura di carattere residenzia-
le e dunque difficilmente modificabile.
Alla luce di questi numeri, sarà bene considerare quanto mai
essenziale il lavoro che viene fatto sui territori, le reti politiche e
di sostegno che non si sono date per vinte anche durante i mesi
più difficili dell’anno scorso. E quanto soprattutto la violenza
maschile contro le donne mostri il suo aspetto strutturale, anche
in mezzo a una pandemia mondiale.

3.3. Le origini del termine femminicidio.


L’introduzione dei vocaboli femmicidio e femminicidio,
nella comunità scientifica prima e nell’uso comune poi, non è

140
frutto di un percorso lineare, ma difficoltoso e ambiguo200. Tale
neologismo non è da intendersi come il femminile di omicidio,
poiché non tutte le uccisioni di donne possono considerarsi dei
femminicidi e – secondo la prospettiva della studiosa Marcela
Lagarde201 – non tutti i femminicidi comportano la morte, ben
potendo il fenomeno ricomprendere ogni forma di discrimina-
zione e violenza esercitata contro la donna, in “quanto donna”.
Il femminicidio è dunque la forma estrema di violenza di
genere, poiché annulla l’identità e la personalità della vittima ed
è quasi sempre preceduto da un insieme di comportamenti vio-
lenti nei confronti delle donne in quanto tali. Esse sono uccise
per avere trasgredito al ruolo imposto loro dalla tradizione, per
avere deciso liberamente della propria vita ed essersi sottratte al
controllo e al potere del proprio partner. In questo caso la morte
di una donna è la conseguenza di atteggiamenti o di pratiche so-
ciali misogine202, è l’ultimo atto di un continuum di violenza di
carattere psicologico, fisico, e talvolta anche economico; si tratta
della forma estrema del «terrorismo sessuale»203, al quale si ac-
costa lo stupro quale pratica in cui l’uomo non è alla ricerca del
piacere sessuale, ma intende soddisfare un vero e proprio desi-
derio di potere, dominio e controllo.
Per dirla con le parole della Russell: «rape focuses on the
man’s desire for power, dominance and control»204, per tale ra-
gione, la studiosa sostiene che il femminicidio, quale manifesta-
zione estrema della brama di dominio, è esistito fin dai tempi

200
B. Spinelli, Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento
giuridico internazionale, Milano, 2008, p. 29.
201
M. Lagarde Y Los Rios, Feminicidio. Conferencia en la Universidad
de Oviedo, del 12 gennaio 2006 in:
www.ciudaddemujeres.com/articulos/Feminicidio.
202
D. Russell, J. Radford, Femicide: The Politics of Women Killing,
New York, 1992, p. 5.
203
J. Caputi, D. E. H. Russell, Femicide: Speaking the Unspeakable,
Ms, Sep; 1,2, Research Library Core, 1990, p. 34.
204
D. Russell, J. Radford, Femicide: The Politics of Women Killing, op.
cit., p. 3.

141
più antichi; solo il vocabolo è nuovo, ma il fenomeno che esso
descrive è vecchio come il patriarcato205, ne rappresenta
l’espressione ultima206, tant’è che tutte le società patriarcali lo
hanno usato e continuano a usarlo come forma di punizione e di
controllo sociale sulle donne207.
Nel Sedicesimo e Diciassettesimo secolo molte furono le
donne uccise perché accusate di stregoneria, molte furono quelle
perseguitate perché lesbiche, bruciate vive, linciate per il solo
sospetto di avere commesso adulterio; mentre nel mondo con-
temporaneo il femminicidio si consuma in tutti i sistemi che
considerano lo stupro del coniuge non punibile; in tutte le morti
che seguono alla pratica degli aborti clandestini, perché abortire
in alcuni Stati non è legale208, o perché in altri, come l’Italia, ol-
tre l’80% dei ginecologi è obiettore di coscienza209; si consuma
ogniqualvolta una donna muore per avere contratto il virus dell’
HIV dopo avere subito violenza sessuale o semplicemente per-
ché il proprio partner non l’ha informata di essere sieropositivo;
oppure ancora nel dolore delle sterilizzazioni forzate.

205
Ivi, p. 25.
206
J. Caputi, Advertising Femicide: Lethal Violence Against Women in
Pornography and Gorenography in Femicide the Politics of Women Killing
di J. Radford e D.H.E Russell, op. cit., p. 203.
207
D. Russell, Femicide is old as Patriarchy, in D.E.H. Russell, A. R.
Femicide in a Global Pesrpective, New York, 2000, p. 26.
208
L’interruzione della gravidanza su richiesta è vietata in: Andorra,
Croazia, Finlandia, Cipro, Irlanda, Liechtstein, Malta, San Marino, Polonia.
In Germania e Regno Unito è illegale ma è possibile interrompere la gravi-
danza in alcuni specifici casi: malformazione del feto e pericolo della salute
della madre. A Berlino è però possibile abortire a seguito di violenza sessua-
le. Infine è illegale in Africa e in Oceania. In: http://www.iljournal.it/2013/in-
quali-paesi-e-vietato-laborto/541373.
209
M. N. De Luca, 194, Così sta morendo una legge in Italia, torna
l’aborto clandestine, 23 maggio 2013, in:
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/inchiesta-
italiana/2013/05/23/news/aborti_obiettori_di_coscienza-59475182/.

142
Femminicidio è, secondo Barbara Spinelli210, «la morte vi-
vente di quelle donne che subiscono abusi in famiglia e non rie-
scono più a riprendere una vita normale» e si rintraccia anche
nella complicità attiva e passiva dello Stato, incapace di tutelare
i diritti delle donne e assicurare loro protezione. Per questo mo-
tivo si potrebbe parlare di «violenza di Stato»211 quando sia lo
Stato stesso a porre in essere norme discriminatorie contro le
donne: si pensi al caso del Sudan, dove l’art. 152 del codice pe-
nale prevede che le donne che violino la moralità pubblica o che
abbiano una tenuta indecente siano punite con quaranta colpi di
frusta e con una multa. Si pensi ancora al caso di Lubna al-
Hussein212 arrestata il 3 luglio del 2009 per avere indossato i
pantaloni, o all’eliminazione sistematica dei feti femminili213. La
complicità dello Stato nel femminicidio è ravvisabile anche
quando il sistema accetta la violenza di matrice religiosa, in par-
ticolare in quei paesi dove le legislazioni accolgono le disposi-
zioni della Sharia islamica, come ad esempio in Iran, dove è
prevista la pena di morte per il reato del lesbismo.
Emblema del femminicidio di Stato è la recente presa del
potere in Afghanistan da parte dei Telebani, che attraverso il loro
portavoce, Zabihullah Mujahid, lo scorso 24 agosto hanno dichia-
rato che al momento e fino a quando la situazione non sarà più si-
cura, le donne dovranno rimanere a casa e non potranno lavorare.
Come se la situazione di instabilità e i disordini generati dal loro
210
B. Spinelli, Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento
giuridico internazionale, Milano, 2008.
211
Giuristi Democratici, Violenza sulle donne: parliamo di femminici-
dio. Spunti di riflessione per affrontare a livello globale il problema della
violenza sulle donne con una prospettiva di genere, in
www.giutistidemocratici.it p. 15.
212
L. A. AL-Hussein, “40 coups de fout pour un pantalon”, ed. Plon,
Francia, novembre 2009, p. 19.
213
Il riferimento è al caso della Cina, dove ogni anno vengono uccisi
milioni di feti femmina. Questa sparizione è diretta conseguenza della legge
sul controllo demografico che impone il figlio unico risalente al 1979. Il fe-
nomeno è comunque diffuso anche in India, Pakistan, Bangladesh, Taiwan e
Corea del Sud, in I. Attané, Une Chine sans Femmes?, Perrin, 2005, p. 17.

143
stesso insediamento non riguardassero tutta la popolazione, uomini
compresi.
Per questo motivo, Marcela Lagarde214 parla di femminici-
dio come “violencia istitutional” ogniqualvolta lo Stato venga
meno al suo obbligo di garantire il diritto a una vita integra e si-
cura alle donne, o quando non si attivi adeguatamente nella ri-
cerca dei colpevoli di tali crimini, perché l’impunità è un altro
elemento consustanziale di questo fenomeno215.
La criminologa e scrittrice Diana Russell è stata la prima
studiosa a ricostruire la storia del termine femmicidio, nonché a
dare allo stesso un significato politico e simbolico che va oltre il
senso letterale del termine, tant’è che è stata definita: “la teorica
del femmicidio”.
Ella venne a conoscenza di questo termine nel 1974, quando
seppe che Carol Orlock216 stava scrivendo un libro intitolato
“Femicide”217. La Russell rimase molto affascinata da questo
vocabolo, poiché esso è privo di quel carattere neutro proprio
del termine omicidio218, si estende oltre gli angusti confini della
definizione giuridica di omicidio e include tutte quelle situazioni

214
143 M. Lagarde Y De Los Rios, Feminicidio. Conferencia en la Uni-
versisad de Oviedo 12 enero de 2006, Artículos de Ciudad de Mujeres:
http://www.ciudaddemujeres.com/articulos/Feminicidio.
215
Ivi.
216
D.E.H. Russell, The Origin And The Importance of The Term Femi-
cide, dicembre 2011, in:
http://www.dianarussell.com/origin_of_femicide.html.
217
Il termine femmicidio in realtà non è stato inventato dalla Orlack.
Nella lingua inglese si usò questo termine circa due secoli fa, esattamente nel
1801, nel testo di Corry “In a Satirical View Of London At The Commence-
ment of the Nineteenth Century, con il significato di “uccisione di una donna”
. Il termine femicide apparve anche nel 1827, nella terza edizione di The Con-
fession Of An Unexecuted Femicide, di William Mac Nash. Altra traccia del
termine femicdie risulta nel Law Lexicon di Wharton del 1848, in B. Spinelli,
Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico interna-
zionale, op. cit. p. 32.
218
D. Russell, The Origin And The Importance of The Term Femicide,
op. cit., p. 1.

144
in cui la morte della donna rappresenti l’esito o la conseguenza
di atteggiamenti o pratiche sociali misogine219.
Attraverso l’uso e la diffusione di tale neologismo, la Rus-
sell voleva persuadere il lettore a riconoscere il femmicidio co-
me un problema urgente sul quale interrogarsi, anche al fine di
sollecitare la collettività a conoscere questa piaga sociale per ar-
ginarla definitivamente;220 non a caso, nel 1976, durante una sua
testimonianza resa al Tribunale Internazionale dei Crimini con-
tro le donne221, la studiosa usò la parola “femicide” e ne diede
una precisa definizione, osservando che il femmicidio corri-
sponde all’omicidio di una donna da parte di un uomo per moti-
vi di odio, disprezzo, o per un ancestrale senso del possesso222.
Nella sua prima opera, “Femicide: The Politics of Women
Killing”, la Russell rilevò infatti che il femmicidio è innanzitut-
to un problema politico, negato tuttavia dalle società patriarcali
e dalle istituzioni223; pertanto, per un cambio di rotta radicale

219
D. Russell, J. Radford, Femide: The Politics of Women Killing, op.
cit., pp. 6-7.
220
D.E.H Russell, A.R Harmes, Femicide in Global Perspective, New
York, 2001, p. 10.
221
La Russell tenne una prima conferenza sul tema tra il 4 e l’8 marzo
1976. Obiettivo della conferenza era, come afferma Frances Doughty, quello
di: “make the public the full range of crimes, both violently brutal and sibtily
discriminatory, committed against women of all cultures”. All’evento parte-
ciparono circa duemila donne provenienti da 40 paesi diversi. Queste, oltre a
denunciare le violenze contro le donne, volevano creare insieme una mobili-
tazione internazionale per combattere questo crimine. La Russell che era fau-
trice della conferenza s’impegnò moltissimo a curarla nei minimi particolari ,
il problema però fu che diverse femministe radicali presero d’assalto il palco,
spensero i microfoni e i relatori furono costretti a lasciare la scena. Alla fine
del secondo giorno si sbarazzarono del programma, il terzo giorno la seduta
fu interrotta per la minaccia di una bomba. Nella conferenza si usò il termine
crimine in modo generico, riferendolo a tutte le forme di oppressione patriar-
cali e sessiste contro le donne. In Russell, The Origin And The Importance of
The Term Femicide, dicembre 2011, p. 1.
222
J. Caputi, D. Russell, Femicide: Speacking the Unspeakable op cit.,
pp. 34-37.
223
D.E.H. Russell, J. Radford, Femicide: The politics of women killing,
op. cit., p. 13.

145
nelle società, appariva necessario un passaggio preliminare: “to
name femicide”, definire in modo chiaro il significato del termi-
ne.
Nel corso degli anni, la Russell è tornata ad occuparsi più
volte del femmicidio: lo ha fatto nel 1990 insieme a Jane Capu-
ti224, nel 1992 insieme a Jill Radford225, nel 2001 nel libro “Fe-
micide in Global Perspective”226 e nel 2011, anno in cui, insie-
me Roberta Harmes227, lo ha definito come «l’uccisione di
femmine da parte di maschi, perché femmine», distinguendo an-
che le diverse forme di femmicidio228: quello razzista, quello
domestico, quello coniugale, quello lesbofobico, quello seriale e
quello di massa229, sino a includere nel processo classificatorio
delle condotte femmicide anche tutte quelle violenze sessuali, fi-
siche, psicologiche, socio-economiche e tutte quelle pratiche
tradizionali lesive dell’integrità fisica e psichica della donna che
esitino nella sua morte230.
Alla Russell va riconosciuto il merito di avere per prima in-
dividuato la natura politica e subculturale delle uccisioni delle
donne ad opera degli uomini.231. La celebre criminologa è stata
infatti, la prima ad indagare il fenomeno in esame e a far rilevare
che le violenze contro le donne avvengono soprattutto in casa,

224
J. Caputi, D. Russell, Femicide: Speacking the Unspeakable op cit.,
pp. 34-37.
225
D.E.H. Russell, J. Radford, Femicide: The politics of women killing,
op. cit., p. 13.
226
D.E.H Russell, A.R Harmes, Femicide in Global Perspective, op.
cit., p. 10.
227
Ivi, p. 14.
228
B. Spinelli, Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento
giuridico internazionale, op. cit., p. 37.
229
D.E.H. Russell, J. Radford, Femicide: The politics of women killing,
op. cit., p. 15.
230
J. Caputi, Sexist terrorism against women, in D.E.H. Russell e J. Ra-
dford, Femicide the Politics of Women Killing, op. cit., p. 15.
231
B. Spinelli, Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento
giuridico internazionale, op. cit., p. 37.

146
per motivi sessisti e in ogni cultura232 ed è stata la prima a spie-
gare la differenza tra omicidio e femmicidio: mentre il primo in-
dica l’assassinio di donne e uomini in generale, il secondo indica
l’uccisione delle donne per via del loro genere233.
Gli importanti studi condotti dalla Russell sono stati ripresi
da Marcela Lagarde, femminista, antropologa e politica messi-
cana, per affrontare il tema delle violenze contro le donne e per
meglio spiegare la situazione politica di Ciudad Juárez.
Il “caso di Ciudad Juárez”, città dello Stato messicano del
Chihuahua, è esploso perché dal 1993 in poi numeri crescenti di
giovani donne, che lavoravano nelle maquiladoras, venivano ra-
pite, violentate, torturate, sfigurate e uccise. I loro corpi straziati,
nella maggior parte dei casi, erano rinvenuti dopo un ampio las-
so di tempo e spesso ne era difficile anche il riconoscimento.
Una vera e propria strage di donne della quale l’antropologa
messicana si è interessata, ritenendo che si trattasse di un fem-
minicidio di massa, una violenza perpetrata nei confronti delle
donne e mirata al loro annientamento dal punto di vista morale,
psichico e fisico.
Molte di queste donne non sono più state ritrovate e la mag-
gior parte di tali crimini sono stati derubricati a violenza dome-
stica o passionale, riducendo così il numero totale delle uccisio-
ni, nonostante sui corpi ritrovati ci fossero evidenti tracce di vio-
lenze e torture.
Il governo dello Stato di Chihuahua ha dichiarato ufficial-
mente 120 casi di femminicidio, ma un’analisi più attenta ci dice
che dal 1993 a oggi circa 400 donne sono state assassinate nella
cittadina messicana e oltre 600 risultano quelle scomparse.
La Lagarde, determinata a generare una presa di coscienza
di questo dramma e della relativa condizione femminile nel suo
paese, ha iniziato a trasformare l’idea della Russell sul femmici-

232
Ivi, p. 38.
233
D. Russell, Femicide The Power of a Name, 5 ottobre 2011, in:
www.dianarussell.com.

147
dio in una campagna politica, giungendo ad adottare il termine
“femminicidio”, per spiegare lo «stato di violenza patriarcale
impunita e di machismo diffuso come quello che caratterizzava
il Messico in quel periodo»234.
Secondo la definizione dell’antropologa messicana, dunque,
il femminicidio andrebbe letto in una dimensione più ampia ri-
spetto a quella individuata dalla Russell, poiché coincide con «la
forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto
della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e pri-
vato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, vio-
lenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, econo-
mica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che
comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a li-
vello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una
posizione indifesa e di rischio, possono culminare con
l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in al-
tre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, inciden-
ti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, do-
vute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclu-
sione dallo sviluppo e dalla democrazia»235.
Dunque, possiamo certamente dire che la Russell è conside-
rata la teorica del femmicidio mentre Marcela Lagarde è la teo-
rica del femminicidio.
Va altresì detto che la Lagarde ha preferito tradurre il termi-
ne inglese “femicide” in “femminicidio” anche per evitare so-
vrapposizioni di significati e fraintendimenti, perché il termine
castigliano femicidio è una voce omologa ad omicidio, ma signi-
fica uccisione di donne236. Inoltre, dopo aver constatato che i

234
B. Spinelli, Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento
giuridico internazionale, op. cit., p. 39.
235
Ibidem.
236
M. Lagarde, Por la vida y la libertad de las mujeres: fin al Feminici-
dio, in Apuntes para la Agenda legilativa de PRD 2004, Mes Directiva del
GPPDR, Grupo Parlamentario del PDR Camera de Diputados, Congreso de
la Unión, LIX Legislatura, Mexico, pp. 93-108.

148
numerosi femminicidi commessi in Messico e nelle altre città la-
tino-americane rimanevano impuniti, ha deciso di ricomprendere
nel concetto di femminicidio anche tutte quelle violenze che ri-
manevano impunite da parte dello Stato.
Su quest’ultimo punto concordano in qualche misura anche
la Russell e le sue coautrici, che hanno posto in rilievo nelle loro
opere come i meccanismi di violenza e discriminazione contro le
donne vengano sovente riprodotti da alcuni attori sociali altri-
menti incaricati della loro protezione, facendo discendere da ciò
la necessità di trattare il femmicidio come un problema politico
e sociale237.
Il gruppo di ricerca della Russell è giunto a sostenere che è
la società ad accettare la violenza contro le donne, considerando-
la come qualcosa di naturale. È la società che le ignora, le mette
a tacere, le rende invisibili, le svalorizza e a loro volta le comu-
nità (famiglie, quartieri, organizzazioni sociali) minimizzano la
violenza e adottano comportamenti e meccanismi violenti di re-
lazione con le donne238. E Marcela Lagarde, pur accedendo a
un’interpretazione più ampia del concetto di femminicidio, con-
verge con la Russell e scrive che uno dei punti chiave di questo
odioso crimine è che la violenza contro le donne è illegale ma
legittima239.
La differenza principale tra le due studiose è che la Russell
fa rientrare nel concetto di femmicidio solo comportamenti mi-
sogini/discriminatori che portano alla morte della donna, perché
se non c’è morte non c’è femmicidio; mentre per la Lagarde
questo non è necessariamente vero. Perché il femminicidio oltre
a comprendere gli omicidi di donne, comprende un insieme mol-
to vasto di comportamenti violenti contro le donne, che non per
forza portano alla loro morte: si tratta di comportamenti che vio-

237
Ivi, p. 41.
238
M. Lagarde, Feminicidio. Conferencia en la Universidad de Oviedo,
cit.
239
Ibidem.

149
lano i loro diritti fondamentali, cioè qualsiasi forma di discrimi-
nazione, fisica o psicologica, atta ad annullare la personalità,
l’identità e la libertà di una donna.
Sulla falsariga dell’accezione di femminicidio offerta dalla
Lagarde si colloca l’interpretazione della criminologa palestine-
se Nadera Shaloub Kevrokian, la quale, partendo dall’analisi del
femicide nel mondo arabo, vi ha incluso anche tutte quelle situa-
zioni in cui la donna vive sotto la continua minaccia di morte o
di cosiddetta “morte in vita”. Si tratta di una definizione allarga-
ta di femicide, inteso come processo diretto alla morte e alla
creazione di una situazione in cui sia impossibile per la vittima
vivere. Un vero e proprio metodo sociale teso all’affermazione
dell’egemonia maschile e usato per distruggere le potenzialità, le
abilità e i diritti delle donne, nonché quello fondamentale di vi-
vere in sicurezza. È una forma di abuso che degrada e subordina
il genere femminile, conduce a uno stato di perenne paura, fru-
strazione, isolamento ed esclusione, pregiudicando irrimedia-
bilmente per le donne la possibilità di essere padrone della pro-
pria vita240.

3.4. Il femminicidio e le ragioni oscure della violenza.


Le statistiche dei delitti e delle violenze, come si è visto, ri-
feriscono in modo chiaro come per la maggior parte dei casi si
consumano tra le mura domestiche, in parte anche garantiti da
un certo diritto alla privacy, così tenacemente e impunemente
difeso, con particolare vigore negli ultimi anni in molti paesi del
mondo, anche di quelli più progrediti.
Come ha osservato anche Martha Nussbaum è difficile ne-
gare «che la famiglia è stata uno dei principali, se non il princi-
pale luogo di oppressione della donna. Amore e cura sono pre-
senti nella famiglia, ma anche violenza domestica, stupro coniu-

240
N. S. Kevorkian, Reexamining Femicide: Breaking the Silence and
Crossing Scientific Borders in “Signs” Chicago 2003, Volume 28, Iss. 2, p.
581.

150
gale, abuso sessuale infantile, denutrizione delle bambine, cure
sanitarie inadeguate, opportunità scolastiche inique e innumere-
voli altre più intangibili violazioni della dignità e della ugua-
glianza della persona»241.
In questo senso, la tutela della vita privata ha comportato
una certa impunità per le reiterate forme di violenza esercitate
sulle donne e sui bambini. È altresì del tutto evidente come an-
cora oggi vi siano delle forti disparità nel modo di educare e cre-
scere i bambini e le bambine nelle diverse parti del mondo. Se
possiamo riconoscere che nel nostro paese si sono fatti molti
passi avanti nell’educazione alimentare, sanitaria e culturale in
senso stretto delle donne, dobbiamo del resto ammettere che in
alcuni paesi del mondo ancora oggi non è così e che, in questo
caso anche nel nostro paese, sono ancora molti i pregiudizi e gli
stereotipi che riguardano la sfera femminile.
Per dirlo ancora con la Nussbaum dobbiamo porre molta at-
tenzione alla «vita delle donne nella famiglia, perché troppo
spesso alle donne sono stati negati i beni elementari della vita
perché sono state viste come parti di un’entità organica, come si
suppone la famiglia sia, piuttosto che soggetti politici a pieno ti-
tolo. Sono state anche, troppo spesso, viste come riproduttrici e
badanti, invece che come fini in sé. In termini pratici e concreti
questo ha significato che ci si è interrogati in modo insufficiente
sulla distribuzione delle risorse e delle opportunità all’interno
della famiglia»242.
La disparità nel modo di crescere e di considerare la vita
delle donne rispetto a quella degli uomini è stata avvertita in
modo sempre più consapevole, anche grazie al movimento rivo-
luzionario del femminismo, come un genere di ingiustizia

241
M. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, il
Mulino, Bologna 2000, pp. 292-293.
242
Ivi, p. 297.

151
inammissibile di cui farsi carico per garantire un’effettiva cre-
scita culturale e sociale di un paese che volesse dirsi civile243.
Risuona forte, allora, il provocatorio interrogativo di Catha-
rine MacKinnon che si chiede e ci chiede: «Le donne sono uma-
ne? Se noi donne fossimo umane, saremmo trasportate come
merce pronta a essere venduta dalla Thailandia ai bordelli di
New York? Saremmo schiave sessuali, usate a fini riproduttivi?
Saremmo allevate come bestie, costrette a lavorare per tutta la
nostra vita senza essere pagate, bruciate nel caso i soldi della
nostra dote non siano abbastanza, o nel caso gli uomini si stan-
chino di noi, fatte morire di fame quando i nostri mariti muoiono
(se sopravviviamo alla loro pira funebre) vendute per sesso, per-
ché siamo apprezzate per nient’altro? Saremmo date in spose ai
sacerdoti, in cambio di denaro per espiare i peccati della nostra
famiglia, o per migliorarne le prospettive terrene? Nel caso ci
fosse concesso di lavorare dietro retribuzione, saremmo costrette
a svolgere i lavori più umili e saremmo sfruttate fino al punto di
essere ridotte alla fame? I nostri genitali sarebbero tagliuzzati
per «purificarci» (le membra dei nostri corpi sono impure?), per
controllarci, per marcarci per definire le nostre culture? Sarem-
mo smerciate come cose destinate all’uso e all’intrattenimento
sessuale, in tutto il mondo, e in qualunque forma resa possibile

243
Come ha osservato anche Claudia Mancina la questione del ricono-
scimento delle identità femminili, come identità rilevanti dell’essere umano e
non desumibili solo per differenza dal maschile, ha messo in primo piano an-
che la questione della differenziazione e quindi della valorizzazione delle
specificità femminili. La differenza tra maschile e femminile «ha dato luogo
ad una clamorosa, e oggi scandalosa, esclusione dalla cittadinanza anche nel-
le società in cui più si sono sviluppate istituzioni libere e democratiche. Solo
nel corso del Novecento i paesi democratici hanno dato la pienezza dei diritti
civili e infine anche il diritto di voto alle loro cittadine: che dunque erano sta-
te, fino ad allora «cittadine senza cittadinanza» [Godineau 1991]» (C. Manci-
na, Oltre il femminismo. Le donne nella società pluralista, ilMulino 2002, pp.
20-21).

152
dall’attuale tecnologia? Ci sarebbe impedito di imparare a legge-
re e scrivere?»244.
Martha Nussbaum, Catharine MacKinnon e molte altre au-
trici che si sono dedicate a questo tema riconoscono anzitutto
nella destinazione naturale la genesi dello sfruttamento e del
mancato riconoscimento della dignità delle donne, ma accanto a
tutto ciò c’è da domandarsi se non vi sia anche una ragione ulte-
riore che deve essere cercata, come si accenava, nel modo nel
quale oggi uomini e donne si relazionano reciprocamente. C’è,
in altre parole, da chiedersi se la relazione interpersonale non
sia, per così dire, attaccata da una sorta di virus difficile da indi-
viduare ed estirpare che si annida, quasi incistandosi dentro la
sfera affettiva e impedisce ai legami di essere percepiti come
opportunità.
In questo modo i rapporti vengono trasformati in veri e pro-
pri tormenti, lacci insopportabili che soffocano la creatività e lo-
gorano la dinamica stessa della donazione e della reciprocità.
Potrebbe essere opportuno provare a rispondere alla do-
manda della genesi della violenza nella relazione interpersonale
per comprendere se e in che modo le appartiene in modo conna-
turale o subentra come una sorta di agente patogeno che infetta
la relazione, fino a portarla ad una fine tragica: l’eliminazione
fisica di uno dei due amanti ad opera dell’altro.
Se è vero che la forza non è del tutto estranea alla relazione
interpersonale è, del resto anche tristemente vero, che troppo
spesso la forza si trasforma in una violenza assassina, che can-
cella l’amore che ha unito gli amanti e li trasforma in due vitti-
me dell’odio. È il potere del negativo che prende il sopravvento
fagocitando il bene e la capacità umana di controllare e gestire
anche le situazioni più difficili. Va detto che la violenza pre-
scinde dai fattori culturali e sociali delle vittime e dei loro carne-
244
C. MacKinnon, Le donne sono umane?, Editori Laterza, Roma-Bari
2012, pp. 3-4.

153
fici e li rende tutti diversamente vittime della rabbia, di una vio-
lenza incapace di vedere e riconoscere sempre e comunque il
bene proprio e altrui.
La relazione interpersonale è, infatti, il luogo della cura e
del rispetto, della donazione e della fiducia, in altre parole
dell’affidamento reciproco. I partner, accanto alla possibilità di
soddisfare il loro desiderio, chiedono alla relazione sicurezza e
stabilità, hanno in altre parole bisogno di sentire che il legame
conta, che ciò che l’unione dei due ha reso possibile è qualcosa
di solido che vale la pena di essere difeso e protetto rispetto
all’esterno, in altre parole che il legame e ciò che significa per i
due è una realtà di cui devono prendersi cura. In questo senso la
relazione chiama in causa la forza, come quell’energia che im-
pieghiamo per difendere e custodire qualcosa di incommensura-
bilmente prezioso e che vale in quanto tale.
Il problema sorge quando la forza, che viene utilizzata per
proteggere il noi dall’esterno, ovvero per custodire il legame da
tutto ciò che è diverso, distante, altro dal nostro essere un noi,
viene utilizzata contro la stessa relazione, cioè quando diviene
forza di l’io amante contro il tu amato, quando la forza che si ri-
volge contro quel noi così essenziale all’amore serve a distrug-
gere e disgregare.
Se dunque possiamo ammettere che solo la forza e non la
violenza sia connaturata al legame, può essere opportuno cercare
di capire come il desiderio, che ha reso possibile l’unione dei
due, possa trasformarsi, tramutarsi in un desiderio di annulla-
mento di una delle due realtà, spesso la più fragile: la donna. Ci
chiediamo se e in che modo la genesi della violenza possa essere
fatta risalire al desiderio, nel suo divenire altro da ciò che è. Il
desiderio, in effetti, può essere concepito come un’energia che ci
permette di unirci all’oggetto amato. Ma il desiderio propria-
mente sussiste nell’esistenza e sussistenza dei due che, recipro-
camente, nel desiderarsi dichiarano il loro essere l’uno per
l’altra disponibili ad essere oggetti del desiderio da parte

154
dell’altro. L’elemento cardine del desiderio è dunque la libertà,
una libertà che non può che essere reciproca, proprio per assicu-
rare l’esercizio del desiderio. Si può dire che un tempo c’era un
solo io libero, riconosciuto anche a livello sociale come colui
che provvedeva e sorreggeva il legame, esercitando il proprio
desiderio con potenza, ma spesso anche attraverso un vero e
proprio potere sull’altra, come se la sua compagna e sposa fosse
in proprio dominio, inserendo, in tal modo dentro la relazione un
ingrediente artificiale, ovvero una vera e propria asimmetria
estranea all’autentico rapporto interpersonale.
Oggi, credo più che in passato, le relazioni si instaurano e si
giocano non più tra un io libero: il maschio e uno dipendete: la
femmina, ma tra due io entrambi liberi, che cercano di essere
l’uno dinanzi all’altra, l’uno per l’altra soggetti e oggetti di desi-
derio. Come è stato osservato: «se la coppia funziona secondo
reciprocità riconoscente, il gioco delle parti assume un altro
aspetto e manda all’esterno un messaggio radicalmente diver-
so»245.
La maggiore consapevolezza delle donne di essere soggetti
attivi e non solo oggetti destinati alla cura e allo spazio della vita
privata, ha comportato per i rapporti interpersonali la presenza
di un’altra libertà che, accanto a quella maschile, ha la capacità e
il potere di vivere il legame in pienezza e libertà.
La presenza e l’esercizio di questa seconda libertà, che si
gioca dentro il rapporto, genera, per un verso «l’intimità più pro-
fonda che si può in vita sperimentare»246 e, per altro, un vero e
proprio smarrimento rispetto all’esercizio di quel potere che, in
certa misura, ai maschi è servito per gestire il legame secondo
uno schema consolidato e assicurato da secoli di storia. Gli uo-
245
C. Vigna, Antropologia trascendentale e differenza sessuale, in R.
Fanciullacci, S. Zanardo, Donne e uomini. Il significato della differenza, Vita
& Pensiero, Milano 2007, p. 225.

246
Ivi, p. 227.

155
mini oggi sono chiamati a scoprire forme nuove di vivere la re-
lazione, nella quale l’altra, la compagna non è più in loro pos-
sesso e a loro disposizione, ma è un’alterità simmetricamente li-
bera che, con creatività e impegno, contribuisce e si prende cura
non solo della sfera privata, ma anche della vita pubblica. In ef-
fetti «il gioco di due libertà è certamente il gioco più alto e più
bello che gli esseri umani possano giocare. Ma è anche il gioco
più rischioso. Basta un niente per mandarlo in aria. Il fatto è che
due libere persone possono essere legate l’una all’altra solo se
sono l’una per l’altra oggetti di desiderio, in reciprocità»247. In
molte circostanze questa trasformazione della relazione da sfera
del dominio e del potere a sfera di libertà genera sconcerto e
paura, perché devono essere rivisti, con intelligenza e fantasia,
tutti i ruoli sia quelli maschili che quelli femminili.
L’abbandono di un uso paternalistico del potere non è sem-
pre facile richiede impegno ed energia, un vero e proprio lavoro
per custodire e mantenere l’amore, che richiede un esercizio
operoso e se mal condotto conduce spesso a pessimi risultati. Da
qui sorgono la frustrazione e la rabbia, che prendono il posto
della ricerca di ciò che unisce e di ciò che consente al rapporto
di rinnovarsi e di sperimentare forme e linguaggi sempre nuovi
per incontrarsi. Il fallimento di questo lavoro non è però la fine
del rapporto, ma è la violenza che sostituisce il desiderio di vo-
lere il bene dell’altro in reciprocità. Una relazione affettiva può
anche finire, e anzi in molti casi è bene che finisca, ma il pro-
blema nasce quando uno dei due, spesso colui che ha maggiore
forza e potere, non riesce a vivere e concepire la fine del rappor-
to come un’altra possibilità di dire il proprio bene per l’altro. Da
qui sorge la disperazione e il sentimento di impotenza che può
tramutarsi in una forza distruttiva che, non essendo più utilizzata
per proteggere la relazione dall’intrusione di agenti esterni, si
scarica dentro il rapporto inquinando i sentimenti e inibendo la
247
Ivi, p. 228.

156
capacità di ricomporre le piccole e grandi fratture che, inevita-
bilmente, sono sottese ad ogni genere di legame. La violenza di
una persona contro un’altra è sempre inconcepibile ed inammis-
sibile, lede ogni legame e non è degna di un essere umano.
La consuetudine ad essere concepite come oggetti e non
come soggetti di desiderio248, ha spinto, ma purtroppo dobbiamo
riconoscere che ancora oggi, spinge molte donne a credere e a
confondere la forza dell’amore con un amore per forza. Donne
abituate ad essere violate e violentate fisicamente e psicologi-
camente, diventano a poco a poco vittime, perché incapaci di
considerarsi meritevoli e degne di rispetto e di cure da parte de-
gli uomini.
La violenza interrompe e corrompe il legame, ci doman-
diamo se e in che modo dalla violenza subita può ricostituirsi un
legame tra gli esseri umani coinvolti e quale genere di legame
saranno in grado di ristabilire? C’è, in altre parole, da chiedersi
se la vittima (quando sopravvive) e il suo carnefice possono spe-
rare di recuperare anzitutto la fiducia in se stessi e poi anche
nell’altro ed essere capaci di vivere e concepire un’esistenza de-
gna di rispetto e stima reciproci, per poter scegliere di lasciarsi
coinvolgere solo in legami definitivamente distanti dalla violen-
za.
In primo luogo, occorre osservare che per poter sottrarre la
vittima al suo carnefice, ovvero l’amata al suo amante-violento,
è necessario ristabilire e mantenere una giusta distanza tra i due
di cui si devono farsi carico la giustizia e le istituzioni.
Il ricorso alla giustizia, come terzo nella relazione, può es-
sere opportuno per ricomporre e ricucire le ferite, restituendo al
legame spezzato dalla violenza, la possibilità dell’amore. Ciò
che lo sguardo della giustizia rende possibile è l’attivarsi di un
duplice processo di riconoscimento: da parte di chi ha usato la
forza contro il legame, deve sapersi assumere la propria respon-

248
Cf. M. Nussbaum, Persona oggetto, Erikson, Trento 2014, pp. 31-51.

157
sabilità e ammettere di aver stravolto e trasformato l’amore in
odio e, dall’altra, chi ha subito violenza (se e quando è ancora in
vita) deve decidere di non accettare in nessun modo nessun altro
legame che non sia improntato al rispetto e alla fiducia. Solo co-
sì la violenza potrà essere vinta e l’amore restituito al suo habitat
naturale: la relazione interpersonale.
Il percorso attivato dalla giustizia è necessario, non solo per
permettere al partner violento di riconoscere il proprio errore,
ma anche per restituire alla vittima la propria dignità e la stima
di sé che la violenza ha oscurato e cancellato. La violenza perpe-
trata sulle donne, che ancora oggi in molte parti del mondo si
esercita con sistematica crudeltà249, può essere vinta sia median-
te una pratica della giustizia, ispirata ai principi del femmini-
smo250, che definisca i confini di ciò che è lecito e di ciò che non
lo è, sia per mezzo di una capillare educazione al rispetto e alla
cura dei legami, nei quali si gioca la libertà delle persone. Oc-
corre altresì avere il coraggio di ripensare l’umano nella sua di-
gnità, bellezza, creatività e pluralità, essere capaci di educare al
rispetto e alla responsabilità, saper insegnare alle nuove genera-
zioni che la relazione è un’opportunità di essere e non
un’occasione per avere, che nel legame si sperimenta e si realiz-
za in modo speciale e creativo il dono di sé all’altro/a nella li-
bertà e verità dell’essere di ciascuno. Saper sostare dinanzi
all’alterità dell’altro, nel segno del rispetto e della fiducia reci-
proci, senza pretendere di ridurlo a nostro possesso è una sfida e
un compito che spetta a ciascuno di noi, nessuno escluso.

249
C. Okrent, Il libro nero della donna. Violenze, soprusi, diritti nega-
ti, Cairo Publishing, Milano 2007.
250
Come ha osservato Martha Nussbaum: «La politica internazionale e
il pensiero economico dovrebbero essere femministi, quindi attenti (fra
l’altro) ai particolari problemi connessi al sesso che le donne affrontano in
quasi ogni paese al mondo, problemi senza la cui comprensione non ci si può
confrontare adeguatamente con la problematica generale della povertà e dello
sviluppo» (M. Nussbaum, Diventare persone, p. 18).

158
3.5. La relazione negativa tra vittima e carnefice.
La violenza contro le donne affonda le sue radici nella stori-
ca negazione del femminile, che appartiene a un ordine simboli-
co capace di riflettersi anche nei costrutti linguistici e rappresen-
tazionali, i quali rispecchiano la secolare organizzazione delle
relazioni tra uomini e donne, in qualche misura alimentandola.
La semiologa Patrizia Violi osserva infatti sul punto che «il lin-
guaggio, in quanto sistema che riflette la realtà sociale, ma al
tempo stesso la produce, diviene il luogo in cui la soggettività si
costituisce e prende forma, dal momento che il soggetto si può
esprimere solo entro il linguaggio e il linguaggio non può costi-
tuirsi senza un soggetto che lo fa esistere»251.
«Ma – si chiede Elisabetta Musi nel saggio “Le radici na-
scoste della violenza”252 – se il femminile continua a essere con-
cepito per derivazione, o meglio, se i luoghi di produzione sim-
bolica – culturale, mediatica, politica – confermano carenze e
limiti rappresentazionali reiterando resistenze e pregiudizi nei
confronti delle donne253, che spazio di riconoscimento e di
espressione ha la soggettività femminile?»
Nell’analisi che si sta conducendo, non si può trascurare in-
fatti che l'universo maschile si è concepito, linguisticamente e
concretamente, come autoreferenziale, autarchico, e dunque in-
capace di accettare la differenza e la propria autoinsufficienza.
Ancora oggi serpeggia, più di quanto si possa immaginare, la
cultura della primazia maschile e gli uomini vacillano, perché
hanno perso – senza avere gli strumenti culturali per misurarsi
col nuovo – quella sicurezza derivante dal vecchio sistema so-

251
P. Violi, L'infinito singolare.Considerazioni sulla differenza sessuale
nel linguaggio, Essedue ed., Verona 1986, p. 10.
252
E. Musi, Le radici nascoste della violenza, in S. Ulivieri (a cura di),
Corpi violati, op. cit., p. 50-51.
253
Sapegno M.S. (a cura di), Che genere di lingua? Sessismo e potere
discriminatorio delle parole, Carocci, Roma 2010.

159
ciale e normativo che si strutturava sull’autorità dell’uomo254 e
legittimava, di fatto, anche i comportamenti violenti contro i fi-
gli, le figlie, le mogli e le donne, ammantati sotto la feroce e de-
plorevole prerogativa del c.d. ius corrigendi.
D’altronde, che la legge accogliesse – più o meno larvata-
mente – il principio dell’autorità e della superiorità maschile è
testimoniato dal fatto che il c.d. delitto d’onore è stato abolito in
Italia solo nel 1981. Era dunque la legge stessa che considerava
l’onore del maschio vilipeso dall’adulterio, o dalla condotta ses-
suale di figlie o sorelle, una ragione sufficiente per attenuare la
reazione sanzionatoria dello Stato, nonostante la vis aggressiva
fosse culminata nell’uccisione della congiunta. La vita di una
donna valeva meno dell’onore del maschio ferito.
A ben vedere, il cammino verso la ridefinizione in senso pa-
ritetico delle relazioni di genere era iniziato a metà meta del XX
secolo, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale a cui la
storia ha risposto mediante la celebrazione dei valori di egua-
glianza e autodeterminazione, assurti a principi universali nella
Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948.
Ma l’incedere esitante e talvolta contraddittorio della tradu-
zione normativa del principio d’uguaglianza , che – come so-
stiene Habermas con riferimento al sistema dei diritti umani –
non esiste in astratto ma solo all’interno delle particolari inter-
pretazioni politiche che lo hanno formulato,255 rivela come il ri-

254
M. Deriu, Un'autorità sgombra dal potere, in S. Ciccone, B. Mapelli
(a cura di), Silenzi, Ediesse, Roma 2012.
255
J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politische
Theorie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1996, trad. it. L’idea kantiana della
pace perpetua, due secoli dopo, in J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp.
177-215. Cfr. anche J. Habermas:«Non esiste «il» sistema dei diritti sul piano
della purezza trascendentale. Tuttavia, più di due secoli di sviluppo costitu-
zionale europeo ci forniscono ormai un numero sufficiente di modelli. Essi
possono guidarci a una ricostruzione generalizzante delle intuizioni su cui
poggia la prassi intersoggettiva di una legislazione intrapresa con strumenti di
diritto positivo», Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto
e della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 155).

160
conoscimento dei diritti della donna abbia fatto oscillare l’intera
scala dei valori sociali.
Le conseguenze di questo riconoscimento hanno rimesso in
discussione le tradizionali e intangibili distinzioni di ruoli e toc-
cato gli aspetti più intimi e privati dell’esistenza; tant’è che il
percorso tormentato della riforma del codice Rocco ha incontra-
to le maggiori difficoltà proprio nella ridefinizione dei diritti in-
dividuali.
Il codice, promulgato nel 1930 durante il regime fascista, ha
accordato una tutela privilegiata al sodalizio familiare, enfatiz-
zando un modello di donna subalterna e obbediente al marito e
consegnata al suo destino riproduttivo, unico possibile.
In questa prospettiva, gli atti di violenza e di costrizione
commessi contro la donna erano valutati come reati unicamente
nei loro aspetti considerati “eccessivi” e in ogni caso si configu-
ravano come reati contro la morale e non contro la persona.
Riconosciuto come un valore socialmente rilevante, di cui si
poteva e si doveva tener conto anche a fini giuridici, l’onore e
soprattutto la sua salvaguardia era considerato una valida circo-
stanza attenuante per rapimenti, stupri e omicidi. Fu solo nel
1966 che il caso sollevato dal rapimento di Franca Viola e il fat-
to che la ragazza, allora diciottenne, rifiutò le nozze riparatrici
incrinò l’idea sino ad allora monolitica che la difesa dell’onore
dell’uomo dovesse avere rilevanza.
La storia di Franca Viola divenne così un precedente giuri-
dico importante: malgrado le intimidazioni e le difficoltà oppo-
ste dall’ambiente sociale, la giovane donna non arretrò, il pro-
cesso contro Filippo Melodia e i suoi dodici complici si conclu-
se con una condanna ad undici anni per lui, cinque assoluzioni e
pene minori per gli altri.
Nonostante la risonanza sociale del caso e la sua importanza
in punto di interpretazione della legge penale, furono però ne-
cessari altri quindici anni perché la norma sul matrimonio ripa-
ratore venisse definitivamente abrogata nel 1981, stesso anno in

161
cui – come si è detto – furono abrogate le disposizioni penali sul
delitto d’onore.
Le lotte per l’emancipazione femminile, le varie ondate
femministe di cui si è tentato di dar conto, tra luci e ombre, suc-
cessi e insuccessi, hanno avuto il grande merito di far tramontare
quel modello maschile e paterno, che è stato così superato dalla
storia, è stato negato, rigettato, ma – purtroppo – senza la capa-
cità di rifondare un nuovo modello maschile e paterno in grado
di interpretare adeguatamente il segno dei tempi e strutturare in
maniera autenticamente equilibrata le relazioni tra uomini e
donne.256
Senza una maturazione individuale e collettiva, il conflitto
tra generi e quello intergenerazionale è riemerso
nell’aggressività esasperata contro le donne, e ha finito col di-
ventare una forma terrifica di ipercompensazione del ruolo per-
duto dagli uomini nell’organizzazione sociale.
Annientando l’altra si nega la differenza, ci si afferma nuo-
vamente su di lei, si alimenta l’illusione di mettere a tacere l'in-
quietudine che essa suscita, il lavoro di mediazione e continua
elaborazione che richiede. Le donne vengono umiliate, violenta-
te, ammazzate perché portatrici di una differenza all’interno di
un ordine del discorso che ancora oggi nei fatti non le contem-
pla; troppo spesso aggrovigliate nelle trame di stereotipi, pre-
giudizi e modus vivendi che riproducono – consapevolmente o
inconsapevolmente – condizionamenti culturali e familiari, le
donne restano a tutt’oggi esposte a molteplici forme di violenza.
E la famiglia che ruolo gioca nella costruzione di relazioni
negative in cui si innestano dinamiche violente?
Gli studi pedagogici e psico-socio-antropologici dimostrano
come la vita familiare e le sue dinamiche interne siano in grado
di condizionare la crescita, in termini di sviluppo ed emancipa-
zione, o al contrario, nel senso della stasi, della stagnazione
256
Cfr. M. Recalcati , Cosa resta del padre? La paternità nell’'epoca
ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011.

162
dell’apatia e della perdita della dignità verso se stessi e verso gli
altri.
Anche il premio Nobel per l'economia Sen ha posto alla ba-
se delle proprie teorie delle capabilities257 l'importante ruolo che
la famiglia gioca in termini di benessere e di promozione delle
libertà personali e sociali. Importantissimi sono gli studi che
evidenziano quanto un sistema familiare generativo e democra-
tico influenzi la possibilità delle donne di diventare protagoniste
della propria vita, di scegliere in autonomia, di studiare, di acce-
dere al sistema economico e politico di un paese, contribuendo
così al benessere complessivo della società e alla sua evoluzio-
ne.
La famiglia «è, ancora oggi, "la struttura fondamentale della
società", un luogo fisico e metaforico in cui le capacità umane
possono essere coltivate e fatte fiorire o possono essere distrutte
e fatte morire»258; essa infatti può essere luogo di cura, ma an-
che luogo asfittico e paralizzante perché, come spiega Maria
Grazia Riva, «l’incontro tra genitori e figli [...] non avviene in
un vuoto di condizionamenti»259. Vi sono patti familiari invisibi-
li e inconsci basati su legami «impregnati di emozioni aggrovi-
gliate, aspettative, pretese, bisogni e manipolazioni»260 che
espongono al rischio di intessere relazioni patologiche, nonché
di inferire o subire violenze, abusi e cattive condotte che diven-
gono gabbie dalle quali è difficile uscire.
«Le conseguenze pedagogicamente più rilevanti di queste
osservazioni stanno nel poter riconoscere i rischi e le opportuni-
tà che fanno della vita in famiglia occasione generativa di capa-
257
Cfr. A. Sen, Commodities and Capabilities, Amsterdam, North-
Holland, 1985; Gender and Cooperative Conflicts, WIDER Working Papers,
18, 1987.
258
D. Dato, Eterna incompiuta. Emancipazione femminile tra famiglia,
formazione e lavoro, in S. Ulivieri (a cura di) Corpi violati, op. cit., p. 104.
259
M. G. Riva, Mal d’amore e rapporti tra le generazioni, in I. Loiodi-
ce (a cura di) Sapere pedagogico. Formare al futuro tra crisi e progetto, Pro-
gedit, Bari, 2013, p. 79.
260
Ivi, p. 80.

163
cità emotive, cognitive e formae mentis tese, nel nostro caso par-
ticolare, a promuovere un pensiero "per" la differenza, un habi-
tus mentale aperto al confronto, all'incontro, al dialogo. Sono le
stesse relazioni a costituire, nel bene e nel male, la "mappa gene-
tica" della famiglia, a fungere da risorsa per la promozione e la
formazione, piuttosto che da ostacolo, censura, abbrutimento
delle stesse capacità cognitive ed emotive del singolo».261
D’altronde, come ben sottolinea Gulotta «la probabilità di
divenire vittima di un crimine non è ugualmente distribuita fra
tutti gli individui in quanto, indipendentemente dalla predisposi-
zione generica, esistono delle circostanze, proprie di alcuni sog-
getti, che favoriscono certi tipi di condotta criminale. Tali circo-
stanze costituiscono una sorta di predisposizione specifica nei
confronti di determinati reati»262.
La mancata esperienza della relazione familiare feconda
rappresenta senz’altro uno dei primi fattori di rischio di instau-
razione di rapporti disfunzionali, che tendono dal lato
dell’autore di condotte violente a sottrarre dignità alla vittima,
dal lato di quest’ultima a subire le aggressioni ritenendosi spesso
colpevoli di averle determinate.
Accade cioè che il destinatario di atti di violenza perda agli
occhi di chi violenza agisce lo status di essere umano, che perda
dunque la dignità.
La violenza su un altro essere umano necessita di un proces-
so denigratorio, di un procedimento sottrattivo che porta a con-
siderare l’altro come minus, come persona destituita di umanità.
Solo in questo modo è possibile la coesistenza di una percezione
positiva di sé e la commissione di azioni violente.
Il meccanismo autoassolutorio messo in atto dal soggetto
violento è simile a quello che consente al torturatore di tornare a
casa ed esprimere tutta la propria amorevolezza di padre e di

261
D. Dato, Eterna incompiuta. Emancipazione femminile tra famiglia,
formazione e lavoro, in S. Ulivieri (a cura di) Corpi violati, op. cit., p. 106.
262
G. Gulotta, La vittima, Giuffré, Milano, 1976, p. 23.

164
marito, al soldato di uccidere e sentirsi appagato per la sua capa-
cità militare, al dittatore sanguinario di considerarsi un salvatore
della patria.
Alla base di tali dinamiche mentali si situa quel processo
reificazione della vittima individuato nella teoria del disimpegno
morale di Bandura263, che si giustappone a quell’operazione sot-
trattiva della dignità umana indispensabile per dar corso alla vio-
lenza.
La teoria sociale-cognitiva di Albert Bandura dimostra co-
me tali meccanismi di disimpegno, qualificabili come vere e
proprie tecniche di autoassoluzione, possano definirsi strategie
cognitivo-discorsive di auto-esonero, capaci di annientare gli
imperativi morali interni alla persona. La nullificazione degli
imperativi di ordine morale consente al soggetto non solo di por-
re in essere condotte aggressive, ma soprattutto di giustificare il
proprio atto trasgressivo sempre e comunque.
Cosa può modificare, allora, tali dinamiche psichiche? Co-
me ci si può opporre alla forza della violenza incontrollata e alle
strategie autoassolutorie dell’aggressore?
L’antidoto contro gli impulsi distruttivi che caratterizzano
alcune reazioni umane è rappresentato dal processo di sublima-
zione e astrazione degli istinti aggressivi, processo che sposta la
violenza sul piano simbolico e favorisce l’elaborazione dei sen-
timenti negativi. Perché tale processo si attivi sono fondamentali
l’educazione e il senso di appartenenza al gruppo.
Appartenere a un gruppo significa accettare modalità di
composizione dei conflitti che esulino dal ricorso a comporta-
menti aggressivi. È la forza della legge che si erge a controllo
della energia dirompente e distruttiva. Appartenere a un gruppo
sociale significa rispettare le sue leggi, accettare la necessità di
regolamentare il proprio agire. Il sentimento di colpa che affiora
in conseguenza di un’azione improvvida, impulsiva, sanzionata
263
Cfr. A. Bandura, Autoefficacia: teoria e applicazioni, trad. it., Tren-
to, Edizioni Erickson, 2000.

165
dal gruppo di appartenenza, spinge la coscienza a vagliare il
proprio agire, a sottoporre le proprie intenzioni al setaccio della
legge morale.
La forza della legge si costituisce nella necessità
dell’appartenenza. È nella chiamata a partecipare e condividere
le sorti della grande famiglia umana che nasce il bisogno della
legge morale, nasce cioè la necessità di porre argine al desiderio
sfrenato e alla distruttività che può conseguirne. La violenza
trova un recinto di contenimento nello sforzo di posticipare le
istanze che alimentano le sue ragioni, di sublimarne gli impulsi,
sino a sopire del tutto la sua voce imperiosa in conseguenza del-
la necessità di non essere esclusi dalla comunità di appartenen-
za. Le istanze del “noi” diventano istanze dell’Io, regole interne
che controllano il comportamento umano ed escludono dal pro-
prio orizzonte i comportamenti violenti.
La legge morale è conseguenza della riflessività umana,
come ci ricorda Kant nella dottrina del sublime espressa nella
Critica della ragion pratica264: senza un’attività tesa ad esamina-
re il senso del proprio agire non può esservi legge prescrittiva.
L’impulso istintuale è privo di fondamento etico, come me-
glio vedremo nel capitolo che segue, e la hybris sfrenata porta
alla follia inconsapevole.
Il senso etico nasce dall’azione riflessiva che dirige la pro-
pria attenzione sull’azione umana e la confronta con le condi-
zioni di benessere o malessere che da essa possono conseguire.
L’aggressività è un impulso che necessita di essere addome-
sticato allo scopo di garantire la convivenza tra persone, di tal-
ché la violenza deve temperarsi con il bisogno dell’altro, con il
bisogno di relazione che appartiene antropologicamente
all’essere umano e controbilancia la sua parte più primitiva.

264
I. Kant: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione
sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si
occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro me»,
Critica della ragion pratica, KGS, V, p. 161.

166
Il comportamento violento, dunque, affonda le sue radici
nell’istintualità aggressiva che proviene dalla stessa biologia,
dalla componente ferina dell’uomo, la quale riesce ad essere ge-
neralmente controllata solo grazie al lungo processo di addome-
sticamento avvenuto nel corso della storia della civiltà.
Nella relazione negativa tra vittima e carnefice manca del
tutto la capacità di controllare e dominare gli impulsi, come an-
che la capacità di respingere la forza dell’aggressione.
Ed esattamente in questo vuoto che si situa il c.d. ciclo della
violenza.

3.6. La relazione negativa e il ciclo della violenza.


Nella maggior parte dei casi la relazione violenta non si
preannuncia come tale, ma comincia come una normale relazio-
ne in cui l'uomo incarna per la donna il modello sognato265. Ac-
cade anche che il partner si presenti fin dall'inizio con tratti auto-
ritari e che la donna non si soffermi su tale aspetto, interpretan-
dolo come sintomo di sicurezza e fiducia che questi nutre verso
se stesso, caratteristiche idonee a compensare alcune fragilità
personali. Altre volte ancora l'autoritarismo viene interpretato
dalla partner come espressione di interesse e quindi giustificato
e accettato.
Così – in maniera progressiva e silente – la violenza si insi-
nua nella relazione e assume un moto ciclico: gli aggressori al-
ternano ai maltrattamenti momenti di tenerezza e dolcezza, con-
fondendo la vittima e rendendole difficile il percorso di uscita
dal rapporto perverso.
Lenore E. Walker266, teorica del ciclo della violenza, ha in-
dividuato tre fasi che caratterizzano la dialettica distorta della
265
Cfr. I. Merzagora Betsos, Uomini violenti: I partner abusanti e il lo-
ro trattamento. Milano:
Raffaello Cortina Editore.
266
26 L.E. Walker, psicologa americana fondatrice del Domestic Vio-
lence Istitute, elaborò il ciclo della violenza nel 1979 grazie ad un indagine
condotta su 435 donne maltrattate basata sulla Social Learning Theory.

167
coppia e si ripetono nel tempo aumentando di volta in volta i pe-
ricoli per la vittima267.
La prima fase è quella della Tension building, durante la
quale la violenza trapela dagli atteggiamenti (occhiate aggressi-
ve), dalla mimica (silenzi ostili) e dal timbro della voce. In que-
sti frangenti la donna, avvertendo la tensione, si blocca, si sforza
di essere gentile, rinunciando ai propri desideri, e cerca di ac-
contentare il partner. Queste micro tensioni che si accumulano
creano uno stato continuo di stress descritto dalle vittime come
“camminare sulle uova”268. L'uomo, per contro, diventa sempre
più opprimente a fronte dell’atteggiamento passivo della com-
pagna, che si autoaccusa, si sente responsabile di non essere in
grado di controllare la situazione e vive un crescente senso di di-
sperazione.
La seconda è quella dell’Explosion, generalmente innescata
da un evento esterno o da uno stato interno dell'uomo e raramen-
te dal comportamento della donna. L'uomo perde il controllo di
se stesso, urla, insulta e minaccia la compagna fino ad aggredirla
fisicamente. La donna è impreparata all'aggressione, non reagi-
sce perché terrorizzata e tende ad incolpare se stessa per la vio-
lenza subita. Il partner, invece, vive l'aggressione come una libe-
razione dell'energia negativa accumulata269.
La terza fase è quella dell’Honeymoon e inizia di solito al
termine dell'episodio violento. Dopo l’aggressione l'uomo, per il
timore di essere abbandonato, diventa estremamente affettuoso,
contrito e chiede perdono. Spesso le richieste di perdono e le
promesse di cambiamento sopraggiungono quando la donna si
rivolge all'esterno per ricevere un aiuto e iniziare l'iter della se-
parazione. Questo atteggiamento fa sì che la donna ricominci a
267
L. E. Walker, The Battered Woman, Harper and Row, New York,
1979.
268
A. Pauncz, Trasformare il potere. Come riconoscere e cambiare le
relazioni dannose, Firenze, Romano editori, 2012, p.40.
269
Cfr. M. F. Hirigoyen, Sottomesse. La violenza sulle donne nella cop-
pia, Torino, Einaudi, 2006.

168
sperare in un possibile cambiamento del partner con l'effetto di
aumentare il suo livello di tolleranza ai futuri attacchi dell'uomo.
Questa fase, infatti, incide molto sulla decisione della donna
di allontanarsi dal partner violento: «la donna tende a scotomiz-
zare il comportamento violento e a separare l'uomo ideale che
ama dal violento, considerando la violenza un incidente di per-
corso che non inficia il rapporto»270. Il periodo felice porta ad
eliminare il ricordo della violenza, che viene allontanato dalla
memoria e che appare sfocato come in un sogno o come se non
fosse mai avvenuto.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi la fase della luna di
miele rappresenta la vigilia di un nuovo ciclo, che si ripete sem-
pre secondo lo stesso schema e culmina con un altro.
Nel corso del tempo i periodi di tensione, che all'inizio pos-
sono essere molto lunghi, si accorciano fino talvolta arrivare a
sparire.
Walker parla di una “impotenza appresa”, che corrisponde
alla consapevolezza che a nulla valgono le ripetute reazioni di
rabbia e i tentativi di concludere la relazione rispetto alle vane
promesse di cambiamento; tant’è che progressivamente queste
reazioni si attenuano e scompaiono perché la donna introietta
l’idea di non avere strumenti per cambiare la situazione. A fron-
te di ciò l’uomo si fortifica e consolida la certezza che la com-
pagna non reagisce, con la conseguenza che il ricorso alla vio-
lenza sarà sempre più frequente271.
Il ciclo della violenza produce danni decisamente rilevanti
alla vittima, soprattutto in termini di abbassamento dell'autosti-
ma e incremento dei vissuti depressivi, i quali possono sfociare
– secondo la Walker – nella cosiddetta Sindrome della donna

270
E. Reale, Maltrattamento e violenza sulle donne. La risposta dei ser-
vizi sanitari, Milano, Franco Angeli, 2011, p. 136.
271
Cfr. A. Pauncz,Trasformare il potere. Come riconoscere e cambiare
le relazioni dannose,op. cit.

169
maltrattata, che è quasi sistematicamente riscontrata nelle donne
che abbiano subito almeno due cicli di violenza.
Ci si chiede, quindi, cosa impedisca alla vittima di maltrat-
tamenti familiari di lasciare il partner violento e gli studi svolti
hanno dimostrato che sussistono fattori precisi di resistenza alla
decisione di concludere il rapporto tossico.
A partire dalla già richiamata situazione di “impotenza ap-
presa”, se ne possono individuare altre che alimentano il dram-
matico proposito di restare in una relazione patologica. Tra que-
ste si annoverano: la dipendenza economica, la paura di rimane-
re sole, la minaccia di perdere i figli, la perdita di autostima e la
depressione, e non ultimo lo svilimento psicologico che impedi-
sce alla vittima di vedere via di uscita. Senza considerare ancora
i sensi di colpa, il credere nella subordinazione femminile e
l’utilizzo del sesso nella speranza che possa ristabilire una rela-
zione d’affetto sana e funzionale.
Così, isolate e controllate le vittime smettono di cercare aiu-
to all’esterno nella convinzione di meritare quanto stanno su-
bendo.
La sindrome della donna maltrattata presenta alcuni elemen-
ti tipici della Sindrome di Stoccolma. A differenza della prima,
questa patologia viene riconosciuta attraverso l’osservazione di
ciò che avviene nei casi di limitata libertà individuale e più nello
specifico nelle situazioni di prigionia, dove nasce un legame af-
fettivo positivo tra vittima e carnefice.
Il nome della Sindrome deriva da quanto è successo nel
1973 nella banca Kreditbanken di Stoccolma, situazione in cui
alcuni dipendenti furono tenuti in ostaggio dai ladri per sei gior-
ni. Il criminologo e psicologo Nils Bejerot, aiutante della polizia
nella fase di negoziazione, evidenziò che i sequestrati avevano
sviluppato un legame positivo con gli aguzzini, scaturito

170
dall’istinto di sopravvivenza e dal controllo operato sulle vitti-
me272, che li spinse addirittura a prendere le loro difese.
Nel momento in cui l’individuo è sottoposto a forte stress
relativo a una minaccia di vita si crea una situazione di forte di-
pendenza e paura, in cui il sequestratore risulta fonte di minaccia
ma anche fonte di tutela per la sopravvivenza. L’impossibilità di
fuggire dal contesto porta la vittima a identificare delle qualità
positive nell’aggressore.
Dee Graham273 successivamente studiò le caratteristiche
della Sindrome di Stoccolma rispetto alle donne maltrattate e
pervenne alla conclusione secondo cui la Domestic Stockholm
Sydrome è un meccanismo di difesa, una strategia finalizzata ad
evitare almeno le violenze più gravi, con la conseguenza che la
vittima per far ciò tende a focalizzarsi maggiormente sugli
aspetti positivi dell’aggressore, ponendo in secondo piano quelli
connessi alla sua brutalità.
Il legame affettivo patologico, tipico della sindrome, rap-
presenta una risposta di difesa inconscia al traumatismo e non
una scelta razionale per permettere alla vittima di salvarsi. Di
fronte alla privazione della libertà ed alla sottomissione, nella
vittima si istaurano meccanismi di identificazione con
l’aggressore, di introiezione di valori alieni e di regressione. I
primi due sono provocati dalla necessità di evitare le reazioni
aggressive del nemico, di superare l’avversione per quest’ultimo
e di tollerare la situazione. Invece, la regressione ad uno stato in-
fantile è strettamente collegata alla sottomissione in cui si trova
il rapito. Egli, infatti, essendo completamente dipendente per i
272
Il 23 agosto de 1973 un carcerato evaso tenta una rapina nella Kre-
ditbanken di Stoccolma. L’intervento della polizia, che gli impedisce di por-
tare a termine l’operazione, lo obbliga ad asserragliarsi all’interno della banca
prendendo in ostaggio quattro dipendenti. Al momento della liberazione, gli
ostaggi si interpongono fra i rapinatori e la polizia fino al punto di proteggerli
durante il processo. Una delle vittime finirà per sposare il rapinatore.
273
Cfr. D.L. Graham, E.I. Rawlings, K. Ihms, A scale for identifying -
Stockholm syndrome - reactions in young dating women: factor structure, re-
liability and validity, ViolenceVict., 10, 1995.

171
bisogni primari (cibo e acqua) dal suo aguzzino, cerca, attraver-
so i comportamenti infantili, di suscitare in quest’ultimo senti-
menti di pietà che lo inducano a non interrompere la cura e
l’accudimento nei suoi confronti.
L’elemento fondamentale per l’evoluzione della sindrome è
l’isolamento, che alimenta la paura e l’incapacità di opporsi alle
intimidazioni dell’aggressore, il quale a questo punto può eserci-
tare una forma di controllo totale sulla sua vittima che finisce
con l’identificarsi con la visione svilente che il suo compagno ha
di lei. E’ quindi attraverso questi processi che si crea il tragico
fenomeno della normalizzazione e accettazione della violenza.
E’ evidente che il partner violento si serva anche di tecniche
manipolatorie (lavaggio del cervello)274, delle quali si era occu-
pato il sociologo Albert Biderman nel 1957 in uno studio in cui
analizzò le condotte utilizzate nella guerra di Corea sui prigio-
nieri americani per ottenere l’adattamento al trattamento di pri-
gionia.
La Binderman’s Chart275, che contiene un elenco di com-
portamenti manipolatori, è composta da otto punti in cui vengo-
no evidenziati i metodi, gli effetti e le varianti delle tecniche del
lavaggio del cervello, consistenti nell’isolamento, nella monopo-
lizzazione della percezione, nell’induzione alla debilitazione e
all’esaurimento, nelle minacce, in occasionali indulgenze, nella
dimostrazione di onnipotenza e onniscienza, nella degradazione
e nello svilimento.

274
Il lavaggio del cervello corrisponde a una forma di plagio psicologi-
co effettuata da un soggetto o da un gruppo di persone che possono influen-
zare o modificare il libero arbitrio di un individuo, in modo da portarlo a
compiere delle azioni esterne alla propria volontà. L’insieme di queste tecni-
che prolungate nel tempo provocano il “Disturbo dissociativo” patologia che
rientra nel DSM-IV.
275
Il riferimento alla Binderman’s Chart è contenuto nel seguente testo:
E. Reale, Maltrattamento e violenza sulle donne. Vol II Criteri, metodi e
strumenti per l’intervento clinico, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 96.

172
Tali meccanismi di controllo mentale sono un’ulteriore
forma di maltrattamento che colpisce le donne e il fenomeno è
noto in letteratura come gaslighting276.
Si tratta di una tecnica manipolatoria messa in atto da una
persona abusante per indurre la sua vittima a dubitare costante-
mente di se stessa e dei suoi giudizi di realtà e della sua capacità
di percepirla, iniziando così a sentirsi confusa al punto da temere
di essere sull’orlo della follia. Il gaslighting è un vero e proprio
abuso emozionale e psicologico, agito mediante comportamenti
tesi a minare la stabilità mentale della vittima277.
Pur non basandosi su atti di violenza fisica, questo meccani-
smo manipolatorio è una forma grave e insidiosa di maltratta-
mento che lascia profonde ferite psicologiche278.
Un tipico esempio di gaslighting all’interno di una relazione
di coppia è quella in cui l’uomo, coinvolto in una relazione ex-
traconiugale, usa gli stereotipi di genere come ad esempio la ge-
losia femminile, non solo per distogliere l’attenzione da ciò che
egli stesso compie, ma anche per controllare la donna portandola
a dubitare delle sue percezioni279. Il risultato delle tattiche del
gaslighter fa sì che la vittima sperimenti confusione, dubbi su di
sé e senta il bisogno di ritirarsi, allontanandosi così da altre per-
sone significative.
La manipolazione ad opera del gaslighter prevede varie stra-
tegie ingannevoli come il negare la fondatezza di quanto la vit-
276
Il termine deriva da un film degli anni Quaranta Gas Light che de-
scrive il comportamento di un marito che cerca di indurre la moglie alla paz-
zia attraverso l’alterazione dell’ambiente con un gioco di luci provocato dalle
lampade a gas. Il termine è stato ripreso da Florence Rush che definisce il ga-
slighting come tentativo di distruggere la percezione della realtà in una per-
sona.
277
Cfr. N. A. Kline, Revisiting once upon a time. American Journal of
Psychiatry, 163(7), 1147-1148, 2006.
278
Cfr. C.A. Stark, Gaslighting, misogyny, and psychological oppres-
sion, The Monist, 102(2), 221-235, 2019; R. Stern, The gaslight effect, Ran-
dom House, New York, 2007.
279
G.Z. Gass, W.C. Nichols, Gaslighting: A Marital Syndrome, Con-
temporary Family Therapy 10 (1): 3–16, 1988.

173
tima afferma, oppure il presentare false informazioni in modo da
disorientarla e confonderla. L’abilità del manipolatore è quella
di modificare la verità sfidando i ricordi e la memoria della vit-
tima in modo talmente convincente da costringere quest’ultima a
mettere in dubbio la sua sanità mentale280.
In questo scenario chi subisce tali atti manipolatori arriva a
vedere persino il ricordo del proprio vissuto così debole, da es-
sere relegato a mero fatto immaginato, con conseguenze gravi e
profonde sull’autostima, fino addirittura a ritenersi stupida e in-
capace, pazza, poiché è insidiata ogni certezza e sicurezza della
persona281. Si crea così un rapporto tossico in cui la vittima si
sente inadeguata e incapace e contestualmente vede nel suo ag-
gressore una ‘fonte di autorità’, perché lo associa a una possibi-
lità di crescita e miglioramento personale282.
Nella relazione negativa tra vittima e carnefice, le sindromi
esaminate (Sindrome di Stoccolma, Sindrome della donna mal-
trattata e Gaslighting) spesso non si manifestano in forma pura,
ma sono si combinano in modo mortifero con l’obiettivo di lede-
re la capacità del soggetto fragile di resistere.

3.7. Lo Stalking e i rimedi educativi.


Lo stalking è un crimine quasi invisibile, subdolo, terribil-
mente insidioso perché si nutre dell’omertà e della paura delle
sue vittime, per la maggior parte donne.
Il temine deriva dal verbo inglese to stalk (fare la posta,
cacciare in appostamento) mutuato dall’attività venatoria e indi-
ca un insieme di comportamenti, reiterati e intrusivi, di sorve-
glianza, di controllo, di ricerca e contatto nei confronti di una

280
Hightower, E. (2017), An exploratory study of personality factors re-
lated to psychological abuse and gaslighting (Doctoral dissertation, William
James College).
281
Calef, V., & Weinshel, E. M. (1981), Some clinical consequences of
introjection: Gaslighting. The Psychoanalytic Quarterly, 50(1), 44-66.
282
Gruda, S. (2020). Gaslighting: quando la manipolazione annulla la
libertà. State of Mind.

174
“vittima” che risulta continuamente molestata, preoccupata e
vessata da tali attenzioni, decisamente pressanti e perciò non
gradite.
Le dinamiche che caratterizzano lo stalking solitamente
vengono messe in atto da un ex partner, un ex coniuge o da un
amante respinto, i quali, con condotte minacciose e conseguenti
molestie, tentano una riconquista, secondo modalità morbose e
irrazionali.
Tali condotte si sostanziano in atteggiamenti compulsivi e
persecutori come inviare quotidianamente decine di sms, e-mail,
fare molte telefonate con una cadenza cronologica molto preci-
sa, attuare pedinamenti e intrusioni di varia natura nella vita pri-
vata.
Il fenomeno è diventato materia di studio negli Usa sin dagli
anni ’80, quando si verificarono casi di persecuzione di perso-
naggi famosi dello star system da parte di ammiratori ossessivi.
In California la prima legge anti-stalking è nata nel 1991, mentre
in Italia la prima legge in materia di stalking risale al 2009.
I nuovi mezzi di comunicazione come i cellulari o i social
network, soprattutto Facebook, hanno offerto nuove, concrete
possibilità di azione agli stalker e dato luogo a una conseguente
recrudescenza di questo tipo di reato che si è arricchito così di
altre fattispecie che vanno dalla mera incompetenza sociale, ca-
ratteristica del soggetto che ignora la gravità dei suoi comporta-
menti prevaricatori, sino al sadic stalking ossia il comportamen-
to messo in atto da quelle persone, solitamente con disagio men-
tale, che pedinano, assillano molestano la vittima per poi ucci-
derla. Comunemente si ritiene che lo stalker sia una persona
che possiede tratti narcisistici e ossessivi per cui sviluppa un
senso di possesso sulla vittima che diventa nel tempo la sua os-
sessione. Egli non percepisce la gravità dei suoi gesti, si sente in
diritto di comportarsi così.

175
La letteratura scientifica283 ha individuato cinque tipologie
di stalkers classificati in base ai bisogni e ai desideri che fanno
da motore motivazionale.
La suddivisione è stata fatta per ragioni classificatorie e si-
stematiche, ma non è infrequente che i tratti di due o più tipolo-
gie siano compresenti in un unico soggetto che commette il rea-
to di stalking.
La prima è quella del rejected “il risentito”. Lo stalker cor-
rispondente a questo profilo tende a seguire i propri bisogni e a
negare la realtà, pensa di essere sempre nel giusto e sospinto dal
desiderio di vendicarsi di un danno o di un torto che ritiene di
aver subito, è fermamente intenzionato a perseguire un piano
punitivo considerando giustificati i propri comportamenti, dai
quali trae confortanti sensazioni di potere e di controllo, che
hanno poi l'effetto di rinforzarlo inducendolo a continuare. Il suo
comportamento è alimentato dalla ricerca di vendetta e pensa di
283
Mullen, Pathè, M., Purcell, R., & Stuart, G. W., A study of stalkers,
American Journal of Psychiatry, 1999, p. 156: «This clinical study was de-
vised to elucidate the behaviors, motivations, and psychopathology of stalk-
ers. It concerned 145 stalkers referred to a forensic psychiatry center for
treatment. Most of the stalkers were men (79%, N = 114), and many were
unemployed (39%, N = 56); 52% (N = 75) had never had an intimate rela-
tionship. Victims included ex-partners (30%, N = 44), professional (23%, N
= 34) or work (11%, N = 16) contacts, and strangers (14%, N = 20). Five
types of stalkers were recognized: rejected, intimacy seeking, incompetent,
resentful, and predatory. Delusional disorders were common (30%, N = 43),
particularly among intimacy-seeking stalkers, although those with personality
disorders predominated among rejected stalkers. The duration of stalking was
from 4 weeks to 20 years (mean = 12 months), longer for rejected and inti-
macy-seeking stalkers. Sixty-three percent of the stalkers (N = 84) made
threats, and 36% (N = 52) were assaultive. Threats and property damage were
more frequent with resentful stalkers, but rejected and predatory stalkers
committed more assaults. Committing assault was also predicted by previous
convictions, substance-related disorders, and previous threats. Stalkers have a
range of motivations, from reasserting power over a partner who rejected
them to the quest for a loving relationship. Most stalkers are lonely and so-
cially incompetent, but all have the capacity to frighten and distress their vic-
tims. Bringing stalking to an end requires a mixture of appropriate legal sanc-
tions and therapeutic interventions.»

176
essere chiamato dal destino per vendicare le ingiustizie, quando
invece l’obiettivo è quello di ricevere attenzioni, o di riconqui-
stare la persona che lo ha lasciato: egli pensa che il proprio è un
comportamento non riprovevole perché spinto dall’amore, inol-
tre è convinto che riuscirà a piegare la resistenza della vittima
perché in fondo anche lei nutre gli stessi suoi desideri. Talvolta
pone in essere una crudele ed infida manipolazione mentale de-
finita gaslighting: questa tecnica viene utilizzata per rendere la
vittima più flessibile e facilmente controllabile, o più emotiva e
quindi più bisognosa e dipendente, la mette in condizione di du-
bitare di se stessa e dei suoi giudizi di realtà, facendola sentire
confusa o tentando di farle temere di stare impazzendo.
La seconda è quella dell’intimacy seeker “il bisognoso
d’affetto”. Lo stalker corrispondente a questo profilo è alla ri-
cerca di una relazione e di attenzioni nell’ ambito dell’amicizia
o dell’amore e questa richiesta affettiva è diretta a un partner
idealizzato.
Il suo comportamento è alimentato dalla voglia di avere un
legame fisico (o emotivo) stabile con un'altra persona, che egli
ritiene possa aiutarlo, attraverso la relazione desiderata, a soddi-
sfare le seguenti esigenze:
- risolvere la propria mancanza di amore o affetto,
- uscire dalla solitudine,
- superare qualche problema che lo blocca.
Questa categoria include anche la forma definita delirio ero-
tomane o Sindrome di Clérambault, in cui il bisogno di affetto
viene erotizzato e lo/la stalker tende a leggere nelle risposte del-
la vittima un desiderio a cui lui/lei resiste. Il bisogno di amore si
fonda su una fissazione totalizzante: l’idea di un rifiuto, vissuto
come un intollerabile attacco all’Io, diviene inaccettabile.
La terza categoria di stalker è quella dell’incompetent, “il
corteggiatore incompetente”. Lo stalker corrispondente a questo
profilo non riesce ad entrare in sintonia con il partner desiderato

177
a causa della sua incapacità nell'approcciare e nell'intrattenere
dei rapporti interpersonali con persone l’altro.
Il suo comportamento si caratterizza per l’utilizzo di avan-
ces opprimenti, esplicite e nelle ipotesi in cui non riesce a rag-
giungere i risultati sperati, mette in atto anche condotte verbal-
mente offensive, o comunque condotte maleducate, aggressive e
finanche manesche.
La quarta categoria è quella del resentful “il respinto”. Lo
stalker che rientra in questo profilo diventa tale come reazione
ad un rifiuto. E seppur consapevole del fatto che insistenze, mi-
nacce, pedinamenti, aggressioni, denunce e rappresaglie hanno
l'effetto di peggiorare il suo rapporto con l'oggetto amato tutta-
via non desiste, anzi avvia una sorta di escalation. Il suo com-
portamento diventa una continuazione della relazione, la cui
perdita è percepita come troppo minacciosa, insopportabile.
La quinta e ultima categoria è quella del predatory, “il pre-
datore”. Lo stalker che rientra in questo profilo ambisce ad avere
rapporti sessuali con una vittima. Il suo comportamento consiste
nel pedinare, inseguire, spaventare, torturare la “preda”: la pau-
ra, infatti, eccita questo tipo di stalker. Appartengono a questa
categoria anche i pedofili e/o i feticisti, che provano soddisfa-
zione ed un senso di potere nell’organizzare l’assalto, nell'osser-
vare la preda di nascosto, nel pianificare l'agguato senza prean-
nunciarlo mediante minacciare o palesare anzitempo le proprie
intenzioni.
La più nota dimostrazione del fatto che la vittimizzazione di
uno può produrre una catena di vittimizzazioni è nella nota leg-
ge criminologica del ciclo dell’abuso. Il ciclo dell’abuso trova
conferma nel fatto che molti studi denunciano storie di vit-
timizzazioni infantili nelle biografie dei criminali violenti.
Nei primi decenni del Novecento, Peter Kürten, che si gua-
dagnò il meritato appellativo di “Mostro di Düsseldorf” per aver
commesso 9 omicidi, 30 tentati omicidi e un numero imprecisa-
to di aggressioni sessuali, affermò: “Nulla può superare il dolore

178
dell’anima di quello che ha subito i tormenti di un altro tormen-
tatore, e che ora scopre in sé il desiderio di infliggere lui stesso
dolore ad altri”.
Tali posizioni trovano conferma anche nel pensiero di Lon-
nie Athens, un criminologo che sperimentò in prima persona gli
effetti devastanti della violenza, per via del padre “brutalizzan-
te” e delle esperienze vissute durante infanzia e adolescenza tra-
scorse con la sua famiglia in quartieri malfamati.
Secondo questo Autore, il processo di “violentizzazione” -
uguale e contrario a quello di “socializzazione”- non consiste in
una insufficiente o difettosa interiorizzazione delle norme, ma è
un processo di apprendimento di sistemi culturali e normativi
fondati prevalentemente sulla violenza, e che si articola secondo
un percorso formativo che comporta in primo luogo esperienze
di “brutalizzazione”.
In ambito psicologico, Meloy284 ha proposto
un’interpretazione psicodinamica dei comportamenti di stalking
incentrata sulla patologia del narcisismo e dell’attaccamento.
Riprendendo la classificazione di Bartholomew285 sugli stili di
attaccamento, identifica lo stalker come una persona avente un
modello di attaccamento definito “preoccupato”, caratterizzato
dalla ricerca dell’approvazione dell’altro, al fine di rafforzare la
propria bassa autostima. L’evento iniziale, nel ciclo delle mole-
stie, è individuato da Meloy nella creazione di una fantasia nar-
cisistica di legame speciale con un oggetto idealizzato e/o supe-
riore, basata su pensieri consci (di essere amato, di amare, di
condividere il destino con una particolare persona). Si tratta di
pensieri presenti anche in individui normali, che sono alla base
dell’amore e possono culminare in una relazione stabile. Tutta-
via, mentre la persona normale di fronte a un rifiuto da parte

284
J. R. Meloy, The Psychology of Stalking Clinical and Forensic Per-
spectives, Academic Press, San Diego, 1998.
285
K. Bartholomew, Avoidance of Intimacy: an Attachment Perspective,
Journal of Social and Personal Relationships, 7, 1990, pp. 147-178.

179
dell’altro si ritira, il futuro stalker, a causa del suo narcisismo
patologico è particolarmente sensibile al rifiuto e ai sentimenti
di 13 vergogna e umiliazione che vi si accompagnano. Per evita-
re queste emozioni intollerabili si difende con rabbia e svalutan-
do l’oggetto. Quando la vittima è sufficientemente svalutata,
l’oggetto reale (che era diventato uno stimolo avversivo a causa
del suo rifiuto) può essere rimosso e la fantasia di legame può
nuovamente ripristinare l’equilibrio narcisistico del soggetto.
Svalutare l’oggetto e, soprattutto sottoporlo a controllo costante
attraverso comunicazioni e contatti imposti, ristabilirebbe, in
chiave persecutoria e agita, la fantasia di legame indissolubile
con la vittima e di potere su di essa. Secondo questa lettura, lo
stalking sarebbe un tentativo di difesa dalla ferita narcisistica, un
modo di reagire alla fine di un rapporto o al rifiuto da parte
dell’altra persona di iniziare una nuova relazione286. Meloy sot-
tolinea anche la difficoltà del soggetto ad attraversare
l’esperienza del lutto: le molestie assillanti avrebbero l’obiettivo
di restaurare il Sé grandioso, negando la separazione e la perdita
nei confronti di un oggetto continuamente presentificato e con-
trollato.
Anche per Kienlein287 alla base dello stalking vi è una pato-
logia dell’attaccamento. Lo studioso ipotizza che i maltratta-
menti, l’assenza emotiva e la separazione dal caregiver primario
abbiano contribuito allo sviluppo di un attaccamento patologico
nell’età adulta e all’emergere di comportamenti di stalking.
Gli individui che presentano tratti narcisistici e antisociali
invece perseguitano la vittima per cercare vendetta nei confronti
dell’oggetto che rifiuta e ferisce: lo stalking è una vendetta nei
confronti della vittima per il danno che il suo rifiuto ha provoca-
to al legame narcisistico. Paradossalmente, lo stalker si percepi-
286
Cfr. J. R. Meloy, The Psychology of Stalking Clinical and Forensic
Perspectives, op. cit.
287
K. K. Kienlein, Developmental and social Antecedents of Stalking, in
Meloy, J.R. The Psycology of Stalking: Clinical and Forensis Perspectives,
Academic Press, San Diego, 1998.

180
sce come la sola e vera vittima per essere stato deriso, maltratta-
to e umiliato; per lui non è importante il modo con cui viene ri-
fiutato, poiché ciò che per lui è intollerabile è il rifiuto in sé, che
vive con ostilità e angoscia.
Per questo tipo di persona è fondamentale ricevere una
qualsiasi forma di risposta emotiva (amore, rabbia, compassio-
ne, odio) poiché il silenzio (la non-risposta) lo carica di
un’angoscia che può tradursi in comportamenti decisamente ag-
gressivi (acting out). Alla non-accettazione del rifiuto si aggiun-
gono tratti ossessivo-compulsivi: l’intera vita di uno stalker ruo-
ta esclusivamente e in maniera persistente intorno alla propria
vittima, e manifesta una serie di pensieri intrusivi e inarrestabili,
incentrati esclusivamente su di essa.
I tratti compulsivi che caratterizzano lo stalker sono indivi-
duati nella ripetitività comportamentale (coazione a ripetere),
nell’ipercontrollo generalizzato, nella tendenza incoercibile alla
morbosità e alla vischiosità.
Nel nostro Paese, il fenomeno dello stalking è stato disci-
plinato dall’introduzione di una norma che prevede e punisce la
condotta di una attività persecutoria (nuovo art. 612 bis c.p.),
colmando un vuoto giuridico che non dava la possibilità agli
operatori di intervenire in tutti i casi di attività insidiose (ingiu-
rie, intrusioni nella vita privata, pedinamenti, osservazioni), che
potevano anche essere prodromiche di condotte delittuose di
gravità maggiore (ad esempio aggressione sessuale oppure omi-
cidio della vittima). Prima dell’approvazione delle nuove norme,
infatti, i Pubblici Ministeri potevano contestare solo il reato ex
art. 660 c.p. (Molestia o disturbo alle persone), che non consente
l’adozione di nessuna misura cautelare oppure il reato di violen-
za privata di cui all’art. 610 c.p. Occorrevano sforzi interpretati-
vi o, paradossalmente, atti delittuosi più gravi, per consentire un
intervento giudiziale efficace - anche sotto il profilo cautelare e
quindi di protezione della vittima - nell’ambito della condotte di
molestie persecutorie. Al fine di porre rimedio a tale carenza le-

181
gislativa, in data 18 giugno 2008, il Consiglio dei Ministri ap-
prova un disegno di legge contenente misure contro gli atti per-
secutori.
Il 29 gennaio 2009, detto disegno di legge viene approvato
dalla Camera dei Deputati e passa al vaglio del Senato. In data
23 febbraio 2009, in pendenza dell’esame del Senato, il Governo
emana il decreto legge n.11, recante “Misure urgenti in materia
di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale non-
ché in tema di atti persecutori”, detto “decreto legge Antiviolen-
ze”, successivamente convertito in legge 23 aprile 2009, n. 38. Il
D.L. in esame prevede l’introduzione dell’art. 612 bis del Codi-
ce Penale (Atti persecutori), a norma del quale «salvo che il fat-
to costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei
mesi a quattro anni chiunque molesta o minaccia taluno con atti
reiterati e idonei a cagionare un perdurante e grave stato di ansia
o di paura ovvero a ingenerare un fondato timore per
l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al
medesimo legata da relazione affettiva ovvero a costringere lo
stesso ad alterare le proprie scelte o abitudini di vita. La pena è
aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separa-
to o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione af-
fettiva alla persona offesa. La pena è aumentata fino alla metà se
il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato
di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3
della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da perso-
na travisata».

182
Capitolo quarto

Il fenomeno della violenza intrafamiliare: profili pedagogici, so-


ciali, criminologici e letterari.

La bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia,


l'altro d'angoscia, e taglia in due il cuore.

Virginia Wolf.

4.1. Le emozioni: moti irrazionali o elementi costitutivi


del ragionamento etico?

Nella storia del pensiero, in particolare nella filosofia clas-


sica, le emozioni sono state spesso accostate a meri moti irrazio-
nali, forze contrapposte alla ragione in grado di obnubilare la
mente, tanto da richiedere un’educazione specifica volta al loro
controllo, ove non addirittura alla loro rimozione, per preservare
la vita morale e la lucidità del ragionare.
L’immagine antropologica emergente dai poemi omerici,
infatti, è quella di una corporeità costituita da una pluralità di
organi e forze propulsive relativamente autonome e spesso in
conflitto tra di loro, che irrompono sulla scena attraverso una
grande varietà di comportamenti impulsivi e imprevedibili, al
punto da sottrarsi quasi sempre ad ogni possibilità di controllo
razionale.
La dicotomia passione-ragione presente nel mondo classico
è ben tratteggiata da Dodds, quando dice che «l’uomo omerico
non ha un concetto unitario di quel che chiamiamo anima o per-
sonalità»288 e non di rado le sue azioni trovano origine nel thy-
mos (la sede delle emozioni) che «dice all’uomo quando deve
288
E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Milano, Rizzoli (ed.or. The
Greeks and the Irrational, Berkeley, University of California Press, 1951),
2010.

183
mangiare, bere o uccidere un nemico; gli offre consigli sulle
azioni da compiere, gli suggerisce le parole. (…) Ma l’uomo
omerico tende a non sentire il thymos come parte dell’io: abi-
tualmente il thymos compare come voce interiore indipenden-
te»289.
L’ossimoro classico anima-corpo, sovrapponibile alla con-
trapposizione bene-male, raggiunge l’acme nella teorizzazione
filosofica di Platone, secondo cui il corpo raccoglie e riassume
in sé tutte le valenze irrazionali del mondo greco e viene con-
trapposto drasticamente all’anima razionale, che ha il compito di
combattere senza tregua contro la follia del corpo e le sue impu-
rità, al fine di riconquistare finalmente la sua autentica natura
razionale nel mondo iperuranico delle idee pure.
Si legge nel Fedone: «Pare ci sia come un sentiero a guidar-
ci, col raziocinio, nella ricerca; perché, fino a quando abbiamo il
corpo e la nostra anima è mescolata e confusa con un male di tal
natura, noi non saremo mai capaci di conquistare compiutamen-
te quello che desideriamo e che diciamo essere la verità. Infinite
sono le inquietudini che il corpo ci procura per le necessità del
nutrimento; e poi ci sono le malattie che, se ci capitano addosso,
ci impediscono la ricerca della verità; e poi esso ci riempie di
amori e passioni e paure e immaginazioni di ogni genere, e in-
somma di tante vacuità e frivolezze che veramente, finché siamo
sotto il suo dominio, neppure ci riesce, come si dice, fermare la
mente su cosa veruna. (…) E ci apparisce chiaro e manifesto
che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua nettezza, ci
bisognerà spogliarci del corpo e guardare con sola la nostra
anima pura la pura realtà delle cose. E solamente allora, come
pare, riusciremo a possedere ciò che desideriamo e di cui ci pro-
fessiamo amanti, la sapienza»290.
Secondo Platone, dunque, solo la definitiva liberazione dal
corpo (la morte) apre al sapere, poiché – seguendo la logica
289
Ibidem.
290
Platone, Il Fedone.

184
espressa nel passaggio del Fedone appena richiamato – non sa-
rebbe possibile, in unione col corpo, venire a conoscenza di al-
cuna cosa nella sua purezza.
Il disprezzo del corpo irrazionale e l’esaltazione dell’anima
razionale sono state il presupposto della filosofia occidentale si-
no al mondo contemporaneo (come era già stato messo in evi-
denza, del resto, anche da autori come Nietsche e Freud).
L’antitesi drammatica tra anima e corpo tracciata da Platone, in-
fatti, ha condizionato a lungo la storia del pensiero, che, dando
per presupposto e irrisolvibile tale atavico conflitto, ha espunto
le emozioni dall’ambito etico. Bisognerà attendere il Novecento
per iniziare a mettere in discussione l’assioma granitico della
contrapposizione passione-ragione.
Si pensi ad esempio alla denuncia arendtiana della spersona-
lizzazione dell’individuo avvenuta durante il nazismo e così
amaramente tratteggiata ne La banalità del male. Nel celebre te-
sto, infatti, la studiosa ebreo-tedesca stigmatizza l’assenza di
sentimenti che connota le condotte di Eichmann, ponendo in ri-
lievo che è proprio tale assenza a togliere l’humanitas all’uomo.
Nello scenario desolante dell’egida hitleriana l’individuo è reso
incapace di comunicare con se stesso e col mondo e perde così i
suoi tratti più importanti, quelli legati alla memoria, al linguag-
gio e al giudizio, per rimanere acriticamente intrappolato negli
ingranaggi algidi e disumanizzanti dell’apparato di regime in cui
– in assenza di empatia e capacità di immedesimazione con
l’altro – vi è spazio solo per l’orrore dell’annientamento.
Hannah Arendt ha celebrato il valore etico della compassio-
ne nella relazione tra individui e, in rottura con la vecchia idea
dell’essere come entità duale, formata dalle due diverse compo-
nenti della passione e della ragione, la studiosa ha rimesso
l’uomo in contatto con la propria realtà naturale291, dischiudendo

291
Cfr. H. Arendt, On Humanity in Dark Times. Thoughts about Les-
sing, in Men in Dark Times, Har-court, Brace & World, New York 1968, p.
6, trad. it. L’umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, «La società de-

185
il singolo agli altri tramite un sentimento immediato di condivi-
sione e, dunque, riportando a pieno titolo le emozioni nel ragio-
namento etico.
Al pari dell’amore, come si può desumere da alcuni celebri
passi della Vita activa292, la compassione consente una com-
prensione diretta dell’identità dell’altro perché annulla le distan-
ze e permette di sentire l’altro. In sintonia col celebre detto di
Terenzio «Homo sum: humani nihil a me alienum puto»293, dun-
que, nella logica arendtiana, la compassione esige
un’immedesimazione con l’umanità essenziale dell’altro, che
dev’essere riconosciuta come propria senza distinzioni: in que-
sto senso, in quanto esseri compassionevoli, nulla di ciò che è
umano può esserci estraneo.
Se nulla di ciò che è umano può esserci estraneo, alcun di-
sprezzo può nutrirsi per le emozioni, che sono parte dell’essere e
come tali degne di avere centralità nella costruzione dell’etica
contemporanea, per la cui rifondazione i sentimenti appaiono a
chi scrive imprescindibili.
Sul solco già tracciato da Hanna Arent, la dicotomia anima-
corpo sembra ormai destinata a tramontare. Essa si è dissolta nel
giudizio di incomprensibilità dell’orrore scolpito nelle pagine de
Le origini del totalitarismo, secondo cui: «I lager sono i labora-
tori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana[...].
Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver prova-
to soltanto che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di
tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza sa-
perlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire

gli individui», n. 1, 2000, p. 7. La prima realtà naturale con cui l’uomo viene
posto in contatto tramite le passioni è ovviamente la vita; in proposito cfr.
l’introduzione di H. Arendt a J. Glenn Gray, The Warriors. Reflections on
Men in Battle, University of Nebraska Press, Lincoln 1970, pp. VII-XIV.
292
Cfr. H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago
Press, Chicago 1958, p. 242, trad. it. Vita activa, Bompiani, Milano 1988²,
pp. 178-179 e anche, On Revolution, cit., p. 86, trad. it. cit. p. 91.
293
Terenzio, Heautontimorumenos, I, 1, 25 (Ἑαυτὸν τιµωρούµενος, Il
punitore di se stesso).

186
né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è di-
ventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non
poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi
dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimen-
to; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità soppor-
tare, l'amicizia perdonare, la legge punire.»294.
Il male assoluto non è più spiegabile, la dualità anima-corpo
non basta a comprendere l’orrore della soluzione finale; anzi, al
contrario, per superare quel tratto ferino e cinico che rende spie-
tati verso l’altro, è necessaria la reductio ad unum: l’uomo ha
una sola natura in cui ragione e sentimento coesistono, si com-
penetrano e salvano, perché talvolta il male nasce proprio
dall’assenza del sentimento, sovrastato e ucciso da una ragione
agghiacciante.
L’assenza di empatia, raccontata ne la banalità del male, è
il fil rouge delle cronache firmate dalla Arendt per il settimanale
“The New Yorker”, nelle quali la studiosa ha raccontato il pro-
cesso al gerarca nazista Adolf Eichmann, a Gerusalemme.
Il caso Eichmann ha spalancato le porte della storia ad un
pubblico che negli anni ’60 del Novecento era ancora troppo in-
consapevole delle atrocità della Shoah, e ha permesso – anche
grazie alla criticata e sofferta narrazione fatta dalla Arendt – di
acquisire piena coscienza di cosa fosse stato davvero lo stermi-
nio nazista e di quanto potere mortifero si celasse nell’assenza di
sentimenti e nel mai totalmente scongiurato disconoscimento
dell’altro.
La mancanza di compassione, che determina la necessità del
superamento della dicotomia tra ragione ed emozione nella ri-
fondazione dell’etica, è racchiusa nella difesa di Eichmann che,
per deresponsabilizzarsi, ai giudici diceva: «Facevo solo il mio

294
H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1966), tr. It. di S. Forti, Ediz.
Di Comunità, Torino, 1999, p. 628.

187
dovere, conformemente agli ordini […], ero addetto a svolgere il
mio lavoro da dietro una scrivania»295.
L’immagine insignificante del burocrate dal volto inespres-
sivo e nascosto dalle spesse lenti, al chiuso della gabbia di vetro
che lo mostrava al mondo durante il processo, è diventata il
simbolo della mediocrità e del conformismo che si fa strumento
inesorabile di sterminio, dissolvendo l’humanitas tra i documen-
ti da firmare, senza considerare mai, neppure per un momento,
che dentro quelle carte c’erano storie, vite e condanne a morte.
Eichmann dunque non è né Lady Macbeth, né l’ispettore
Javert de I Miserabili, non è neppure lo Stavrogin di Dostoev-
skij, al contrario, come afferma Simona Forti, «Eichmann è
l’anti-Stavrogin. È colui che, anche da un punto di vista filosofi-
co, si colloca in una posizione speculare e contraria a quella de-
gli anti-eroi di Dostoevskij, nel senso che egli fa il male non tra-
sgredendo la legge per amore del male, ma attenendosi inte-
gralmente alla legge, a prescindere dal suo contenuto»296.
La novità del male totalitario, di cui Eichmann è il triste
prodotto, consiste quindi nella sua normalità, ossia nel fatto che
trova il suo fondamento in comportamenti quotidiani e ripetitivi
di adeguamento agli ordini, di obbedienza priva di interrogazio-
ne, di puntigliosa esecuzione di prescrizioni di natura burocrati-
ca.
Eichmann è quindi la testimonianza chiara che l’assenza di
emozione e di compassione può produrre il male, anche quello
più impensabile e devastante, tanto da far dire alla Arendt che
«il male non è mai così radicale, ma solo estremo, non possiede
né profondità né dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo
intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un
fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, perché

295
Atti del processo a Eichmann, dibattimento svoltosi dall’11 aprile al
15 dicembre ’61.
296
S. Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Milano, Fel-
trinelli 2012, p.246.

188
quando penetra in profondità non trova nulla. Questa è la banali-
tà. Solo il bene ha la profondità e può essere radicale».
Ne “La scienza del male”297 Simon Baron- Cohen si inter-
roga, da neuroscienziato e psicopatologo, sulle radici della cru-
deltà umana concentrandosi principalmente sul concetto di em-
patia. La crudeltà è considerata come un deficit di empatia che
rende alcuni soggetti, definiti dallo studioso “zero-negativi”, in-
capaci di capire la propria mente in termini di emozioni e senti-
menti e di sintonizzarsi su quella dell’altro. L’altro da sé è quin-
di trattato freddamente e cinicamente come una res, un oggetto,
al punto da poter essere destinatario di efferate violenze per fu-
tili motivi.
Baron-Cohen osserva che numerosi esperimenti, documen-
tati con Risonanza Magnetica Nucleare funzionale, dimostrano
un’ipoattività marcata del circuito cerebrale dell’empatia nei
soggetti zero-negativi che si confrontano con immagini di per-
sone che esprimono emozioni (come sofferenza, gioia, disgu-
sto). L’immedesimazione è totalmente annullata, la crudeltà è
insensibile al dolore altrui e le neuroimmagini fotografano la
chiara incapacità di distinguere gli stati emotivi espressi dai volti
umani.
D’altronde anche per Simone Weil il male è ciò che tra-
sforma gli uomini in cose. Nell’attribuire al concetto di forza
una valenza negativa idonea a spiegare lo squilibrio presente in
alcune relazioni umane, e quindi l’origine del male, la studiosa
francese afferma che «la forza è ciò che rende chiunque le sia
sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa
dell’uomo una cosa, nel senso più letterale della parola, poiché
lo trasforma in un cadavere. C’era qualcuno, e un attimo dopo
non c’è nessuno»298. L’uomo che subisce ingiustizia diventa co-

297
S. Baron- Cohen, La scienza del male. L'empatia e le origini della
crudeltà, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012.
298
S. Weil, L’Iliade poema della forza, in L’attesa della verità, cit., p.
87.

189
sa perché viene trattato e considerato come tale. Accecato
dall’ira o inebriato dal misero potere che si ritrova tra le mani, il
forte non vede più davanti a sé un essere umano, ma una cosa di
cui può disporre come meglio crede: «accade come quando un
uomo maneggia la materia. Non ci sono due volontà da far coin-
cidere. L’uomo vuole e la materia subisce. Il debole è come una
cosa»299.
Dunque è in questo processo di reificazione degli esseri
umani che bisogna rintracciare l’origine della violenza, intesa
come volontà di sopraffazione che può trovare il suo contraltare
solo nella pietas, nella compassione. Quella stessa compassione
che vede trionfare il vecchio Priamo su Achille, quando in gi-
nocchio, di fronte all’assassino di suo figlio, ne chiede il corpo
per poter celebrare i riti funebri e, con essi, restituire al giovane
sconfitto in battaglia dignità di uomo e di eroe, nonché la gloria
degli immortali.
Ecco che la compassione si situa sulla soglia del mondo
umano nella forma più elevata dell’apertura all’altro, unica via
per superare la finitezza, la miseria e la crudeltà e per restituire
alle emozioni un ruolo centrale nell’etica di quella Slavoi Zizek
non esita a definire epoca della post-umanità.

4.2. La compassione in chiave fenomenologica: Martha


Nussbaum, l’etica e il ruolo delle emozioni.
Grazie al contributo di Martha Nussbaum, la filosofia con-
temporanea ha progressivamente abbandonato lo stereotipo delle
emozioni come elementi effimeri e obnubilanti, recuperandone
per contro il carattere costitutivo del ragionamento etico.
Pur costruendo il suo percorso teoretico sulle solide basi
della filosofia classica, in particolare sul pensiero di Aristotele e
sul suo concetto di εὐδαιµονία nel senso di «vita riuscita», Nus-
sbaum ha messo profondamente in discussione la dicotomia pas-
299
S. Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., p.
104.

190
sione-ragione, sostenendo, per contro, la centralità delle emo-
zioni nella vita cognitiva. Secondo la studiosa senza
l’intelligenza emotiva la mera razionalità risulterebbe incomple-
ta.
Nello sviluppare la sua personale teoria delle emozioni, che
non sarà definitiva e rigorosa come quelle di Cartesio o Spinoza,
la Nussbaum sin da subito fa riferimento all’aspetto esperienzia-
le dell’emozione. La tesi che ella cercherà di difendere e dimo-
strare è che le emozioni sono giudizi di valore, ossia non impulsi
o istinti, e neppure semplici processi psicofisici. Le emozioni
hanno la capacità di riconoscere l’importanza e il grado di valo-
re che il soggetto attribuisce all’oggetto per il quale prova
l’emozione. Il grado di valore di cui la Nussbaum parla è un
giudizio con cui il soggetto attribuisce importanza all’oggetto,
importanza che deriva dal rapporto che l’oggetto ha nella conce-
zione di vita buona del soggetto.
Per chiarire meglio questi aspetti, è opportuno soffermarsi
brevemente su cosa la Nussbaum intenda con le espressioni va-
lore e vita buona.
Il valore è ciò che un determinato gruppo umano tende a
considerare come principio o elemento positivo, ma è evidente
che la connotazione di positività è fortemente correlata al conte-
sto sociale e al tipo di educazione che quel dato gruppo umano
ha ricevuto, pertanto si può ritenere che il valore corrisponda, in
sostanza, a un giudizio su qualcosa.
Mentre il concetto di vita buona, come già osservato in
apertura del presente paragrafo, rimanda all’eudaimonia di Ari-
stotele, ma in un’accezione più ampia, perché racchiude al suo
interno l’insieme dei rapporti che l’uomo instaura con le cose e
le persone a cui attribuisce importanza e per cui sente di volersi
in qualche misura impegnare.
E’ evidentemente forte l’influenza dello Stoicismo sulla
studiosa. Sebbene tale corrente di pensiero pervenga a conclu-
sioni diverse, se non opposte rispetto a quelle della filosofa ame-

191
ricana, è la prima dottrina filosofica che supera la barriera tra
parte razionale e parte irrazionale dell’anima. Barriera fortemen-
te presente in Platone – come già posto in rilevo –, ma non meno
estranea allo stesso Aristotele, che comunque riteneva che la ra-
gione dovesse esercitare sulle passioni l’arte della persuasione
indirizzandole verso il bene.
L’elemento che accomuna Martha Nussbaum agli Stoici è
che sia l’una che gli altri reputano le emozioni come moti interni
alla razionalità costituiti da credenze, anche se poi la studiosa
giunge a valorizzare l’ambito emotivo qualificandolo come una
vera e propria forma di intelligenza di pari dignità rispetto alla
ragione; mentre lo Stoicismo associa la ragione a giudizi esatti e
la passione a giudizi erronei, che corrispondono alla diastrophè,
ossia alla perversione, allo sviamento della ragione stessa, come
ben si può notare nel pensiero di Seneca, che mette in scena lo
sviarsi della ragione a causa delle passioni in tragedie come Er-
cules furens, Medea e Fedra, introducendo l’idea di un conflitto
interno alla razionalità, quello che, nel linguaggio senencano, si
può individuare nell’opposizione tra bona mens e furor.
In Terapia del desiderio, per contro, Martha Nussbaum ope-
ra un’esegesi minuziosa e approfondita dello Stoicismo, metten-
do in discussione l’assioma secondo cui la dignità razionale
dell’uomo debba necessariamente implicare l’oscuramento, ove
non addirittura l’eliminazione, del suo lato emotivo.
L’autrice si domanda esplicitamente: «si può vivere nel re-
gno della ragione, così come lo intendono gli Stoici, e continua-
re ad essere una creatura che prova meraviglia, ama, soffre?»300.
Per la studiosa è quanto mai urgente affermare la sussistenza di
una razionalità pratica all’interno della quale si collocano a pie-
no titolo sentimenti come l’amore e la sofferenza, ai quali spetta
una fondamentale funzione di orientamento nell’agire umano.

300
M. Nussbaum, R. Davies, Terapia del desiderio. Teoria e pratica
nell’etica ellenistica, tr. It. N. Scotti Muth, Vita e Pensiero, Milano, 1998, p.
378.

192
Così Martha Nussbaum – restituendo centralità alle emo-
zioni – attribuisce a questa parte dell’intelligenza, quale elemen-
to intrinseco della stessa, la capacità di ridefinire il ragionamen-
to etico in chiave contemporanea.
Le emozioni sono dunque una parte ineliminabile della vita
cognitiva e pratica, grazie alla quale ci si rende conto della pro-
pria finitudine, dell’impotenza in relazione a taluni eventi, con
ciò donando all’uomo il più potente strumento per la compren-
sione del reale.
Respingendo tout cout la dicotomia ragione-passione, Mar-
tha Nussbaum, ridefinisce le emozioni come «forme di interpre-
tazione valutativa intelligenti»301, giudizi che consentono
all’uomo di cogliere e comprendere la sua fragilità e la comples-
sità del reale.
Il difficile compito che Nussbaum si propone, rifacendosi ai
filosofi antichi, è dunque non solo la riabilitazione della vita
emotiva all’interno dell’etica, ma anche la giustificazione di una
nuova visione di emotività; un’emotività che, superando il con-
flitto con la ragione, si ritrova piuttosto a far parte di essa, ad es-
sere identificabile con il pensiero razionale, perché fondamento
e limite della «vita buona» è la realtà, nella quale il soggetto si
trova completamente immerso.
Una ragione separata dalle emozioni finirebbe, d’altronde,
per risultare fuorviante, in quanto essa viene teorizzata col pre-
ciso fine di trascendere l’umanità; mentre per comprendere la
complessità dell’essere umano è necessario focalizzarsi sul sog-
getto agente imperfetto e mutevole, vulnerabile e molto spesso
in balìa del fato.
Secondo la Nussbaum, in questo sforzo di comprensione le
emozioni hanno un ruolo decisamente importante, non solo per
decodificare i comportamenti umani, ma anche per «trovare una
teoria dell’amore secondo la quale sia ragionevole attendersi che

301
M. Nussbaum, La fragilità del bene, op.cit. pag.19.

193
la vita emotiva dei cittadini sosterrà le istituzioni liberaldemo-
cratiche pluraliste»302.
L’approccio teoretico della Nussbaum ha una chiara conno-
tazione fenomenologica, che rimanda al pensiero di Max Sche-
ler, il cui lavoro ha dato un contributo significativo alla rivaluta-
zione della vita emotiva nel discorso etico.
Per Scheler l’amore e l’odio sono atti privilegiati, in grado
far conoscere la vera essenza dell’altro, poiché si tratta di emo-
zioni originarie e dunque capaci di connotare la persona in pro-
fondità. L’amore è considerato un moto intenzionale, a valen-
za creativa, oltre che conoscitiva, grazie al quale l’altro inizia ad
esistere, si disvela: «L’amore eticamente dotato di valore è quel-
lo che, amando, non considera la persona per il suo possedere
queste o quelle qualità o esplicare queste o quelle attività, avere
questa o quella “dote”, essere bella o virtuosa, bensì è l’amore
che include quelle qualità, attività, doti nel suo oggetto, per il
fatto che esse appartengono a questa persona
303
le» . Avviene così un riconoscimento d’identità, che coincide
con la presa di coscienza dell’esistenza e dell’unicità dell’altro.
Accogliere l’approccio fenomenologico delle emozioni si-
gnifica favorire il principio dell’accettazione dell’alterità, che è
alla base delle relazioni umane funzionali.
L’amore così inteso reca in sé l’imperativo del «lascia esse-
re», e non quello del «devi essere», in base al quale si valorizza
l’altro nella sua diversità, così come nei suoi limiti.
La rottura con il paradigma platonico opera un vero e pro-
prio rovesciamento della direzione del movimento dell’amore,
da movimento dell’inferiore verso il superiore, a movimento
verso l’inferiore da parte del superiore, che si dona all’altro, in
linea con la filosofia cristiana che suggella definitivamente il
principio fondamentale del riconoscimento dell’altro.

302
M. Nussbaum, Terapia del desiderio, op. cit. pag. 402.
303
Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, L. Boelli (a cura di),
FrancoAngeli, Milano 2010, , p. 169.

194
Ecco perché, nell’ottica dell’analisi delle relazioni disfun-
zionali, della genesi della violenza nei rapporti umani, è quanto
mai urgente liberarsi da una concezione dell’emozionale come
un insieme di forze cieche a favore di una riscoperta dell’essere
e dell’esperienza in una logique du coeur.
Malgrado le divergenze strutturali presenti nel pensiero di
Scheler e Nussbaum, dovute anche ai diversi metodi adottati e ai
diversi interessi (l’uno si muove su un piano ontologico, l’altra
ha interessi epistemologici), le loro tesi presentano importanti
convergenze: entrambe fanno dell’amore una guida morale e
conoscitiva, entrambe valorizzano l’individualità altrui e, sulla
scia di Aristotele, rivalutano la fragilità e la labilità della vita
umana, rivendicando i diritti di una ragione essenzialmen-
te pratica, che corrisponde all’empatia ed è utile all’estensione
dei confini del sé e alla rottura di quel guscio di ottusità e sordità
che può rendere gli altri totalmente estranei e impenetrabili.
«L’empatia – dunque – è un’abilità mentale di grande im-
portanza per la compassione, sebbene di per sé sia fallibile e
moralmente neutra»304. Per contro, l’assenza di empatia conduce
inevitabilmente a una completa disumanizzazione dell’altro, a
una estraneità che può anche perdere ogni senso del limite (co-
me accade nelle relazioni violente).
I principali ostacoli alla compassione – per la Nussbaum –
sono costituiti dalle istituzioni sociali inadeguate e dalla manca-
ta fuoriuscita da quella condizione di egoismo/narcisismo che un
normale processo di maturazione ed educazione dovrebbe con-
sentire di superare. L’incapacità di riconoscere la propria condi-
zione di essere bisognoso, vulnerabile, dipendente dagli altri ed
esposto alle vicissitudini dei beni esterni può condurre infatti a
una crescita smisurata dell’ideale di autosufficienza con un con-
seguente incremento dei sentimenti di repulsione (verso coloro
che non sono all’altezza di questo ideale) e di vergogna (verso le
304
M. Nussbaum, Upheavals of Thought, The Intelligence of Emotions,
Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 333.

195
proprie debolezze), il cui sbocco più naturale sono quei fenome-
ni di sessismo, razzismo, omotransfobia, bullismo e violenza
domestica, drammaticamente noti alle nostre società.
Fenomeni che, con Martha Nussbaum, potremmo definire
«d’intolleranza dell’umanità verso se stessa»305.
La sfida è allora quella di mettere in campo azioni educative
idonee a legittimare i sentimenti, tutti, anche quelli tradizional-
mente intesi come negativi, perché è quanto mai urgente educare
persone capaci di convivere con la propria umanità, rinunciando
all’onnipotenza in favore della compassione.
Il primo passo per l’instaurazione di relazioni umane e in-
tra-familiari feconde è «riconoscere la propria non-
onnipotenza»306, insegnare ai più piccoli a leggere e gestire i
processi emotivi, a sviluppare i sentimenti d’amore, cura, colpa
e vergogna, a elaborare in maniera non distruttiva i primi lutti e
le prime perdite e ad assumere il punto di vista degli altri.
Magistra vitae, a tal fine, è la letteratura, «che nutre la no-
stra capacità di guardare con piacere alla finitudine umana»307.

4.3. Amor, Livor e Furor: da topoi letterari a pulsioni


omicidiarie.
La letteratura, palpito dopo palpito, racconta l’amore e le
sue storie dai primi vagiti agli ultimi sospiri, tra lacrime e pas-
sioni, sorrisi e pianti, in una difformità e pluralità di tempi e si-
tuazioni che attraversano una e mille vite. Un’onda lunga di
esperienze e di affetti, che scavalca resistenze e prepotenze, in
cui l’amore è centrale, perché è lì che si colloca il nodo più vita-
le e significativo dell’esistenza, tra sogni realizzati e sconfitte,
illusioni e disillusioni.

305
Ibidem, p. 350.
306
Ibidem, p. 351.
307
Ibidem.

196
Il passato e il presente si mescolano in un linguaggio di me-
tafore antiche e moderne che raccontano l’uomo, il suo patire, il
suo esperire e anche il suo superarsi.
Vite quotidiane lacerate da addii, o riconciliate dal calore
dell’affetto, nostalgie, memorie felici o cancellate, ricordi che ir-
rompono con violenza e scoperte improvvise dell’opacità di al-
cune esistenze, grumi di pensieri che si agitano nel profondo e
viaggi dentro se stessi, questo e molto altro la letteratura ci con-
segna, facendosi pedagogia dell’uomo, da sempre in balìa di
Eros e Thanatos.
Non a caso il nesso indissolubile tra Eros e Thanatos è il to-
pos letterario più celebre, si tratta infatti del punto di tensione
estrema delle relazioni sentimentali. «Fratelli, a un tempo stes-
so, Amore e Morte ingenerò la sorte» canta Leopardi in uno dei
componimenti più struggenti del Ciclo di Aspasia, mentre
Freud, nel saggio “Al di là del principio di piacere” li trasporta
nel complesso mondo della psicoanalisi utilizzandoli per spiega-
re che si tratta di pulsioni essenziali: Eros è pulsione costruens,
tesa verso la conservazione e il processo creativo e Thanatos è
pulsione destruens, tesa verso la distruzione e l’annientamento.
Ma già al tempo di Freud Eros e Thanatos vantavano una
tradizione secolare, fortemente presente nella tragedia greca,
come in quella shakespeariana, nel poema epico e nelle canzoni
popolari. Si pensi alla poesia fiorentina degli albori, ai sonetti di
Guido Cavalcanti che cantano dell’esperienza amorosa come di
un’esperienza che sfibra l’animo fino a generare una totale anar-
chia interiore.
Sul poeta dilaniato dall’amore aleggia sempre Thanatos, una
morte spirituale che trasuda dai versi di “Tu m’hai sì piena di
dolor la mente”, in cui il poeta si descrive come “colui ch’è fuor
di vita”, al punto da sembrare a chi lo guarda come se fosse “fat-
to di rame o di pietra o di legno”, un essere inanimato che si
muove meccanicamente “per maestria” e ha nel cuore una ferita
che è la prova evidente, “aperto segno”, che egli è morto.

197
Thanatos allora diventa l’alter ego di Eros, che è potente,
devastante, come la bufera che trascina le anime di coloro che
“la ragion sommettono al talento” nel V Canto dell’Inferno di
Dante, in cui Francesca da Rimini non esita a dichiarare “Amor
condusse noi ad una morte”, alludendo a quell’Eros che pervade
e condanna chiunque ne resti vinto, perché “Amor che a nullo
amato amar perdona”.
Per questa ragione, in letteratura, come in psicoanalisi,
l’Amor è legato indissolubilmente anche al concetto di Furor,
altro topos che taglia trasversalmente, dalle radici classiche sino
alla modernità, arte, letteratura e analisi dell’io.
Intimamente vincolato al tema dell’amore è, infatti, il tema
del delirio308. Platone, nel Fedro, ci presenta quattro tipi di deli-
rio divino: il delirio delle Muse, il delirio d’amore, associato ad
Afrodite ed Eros, il delirio di Dioniso e il delirio d’Apollo. In
una sorta di ruota dominata dalla sorte (τύχη), che si muove in
un ciclo simile al susseguirsi di giorno e notte, caldo e freddo,
buio e luce, dolore e gioia309, l’animo umano si fonde con il di-
vino310. E il movimento che accompagna il divenire del destino

308
L’amore, prendendo in considerazione il Fedro di Platone, è “un tipo
di delirio” [A 265], “e vi sono due generi di delirio, uno prodotto dall’umana
debolezza, l’altro da un divino straniarsi dalle normali regole di condotta.” [A
265]. L’amore corrisponde al secondo tipo, ovvero è uno “stato di esaltazio-
ne”, “datoci per dono divino” [A-B 244] e “questa specie di delirio è la più
grande fortuna concessa dagli dèi.” [B-C 245]. Platone, Fedro, trad. di P.
Pucci, introd. di B. Centrone, Laterza, Bari 1998.
309
Platone prende in analisi questi due processi per spiegare il movi-
mento che accompagna i mutamenti della natura umana: “ciò che nell’anima
diviene piacevole e ciò che vi diviene doloroso, sono ambedue un movimen-
to” [E 583]. In mezzo, cioè “intermedio a queste due condizioni” [A 584] c’è
“la quiete [...] Essa invece sembra piacevole rispetto a ciò che è penoso e pe-
nosa rispetto a ciò che è piacevole.” [A 584], in La Repubblica, trad. di F.
Sartori, introd. di M. Vegetti, note di B. Centrone, Laterza, Roma 2003.
310
Questa fusione rappresenta, come vedremmo nel quinto ed ultimo
capitolo, la chiave di comprensione dell’amore. Comprendendo i movimenti,
la dinamica, i cicli che accompagnano la natura - pensando ad esempio alle
quattro stagioni dell’anno oppure alle quattro età di cui ci parla Dante alla fi-
ne del Convivio (IV, XXIII, 12-15), inoltre ai quattro elementi (acqua, fuoco,

198
scaturisce dalla forza di Eros, che sospinge i cicli della vita dal
basso verso l’alto e viceversa, senza sosta, scandendo così il
ritmo dell’esistere.
Il Furor, dunque, può assumere il significato di ebbrezza al-
colica, come il furore dionisiaco presente nelle Baccanti di Euri-
pide, oppure quello di furore profetico come nel caso della Pizia
di Apollo, o quello di furore poetico determinato dall’influsso
delle Muse, ma non gli è estraneo il significato primigenio di ira,
che è, ad esempio, il tratto che contraddistingue Achille e Aiace.
Achille è il più prestante e forte tra i guerrieri greci
dell’Iliade, invulnerabile tranne che nel tallone; mentre Aiace,
cugino di Achille, è l’unico tra i protagonisti del poema omerico
a non accettare l’aiuto degli dei e quindi a rimanere vittima della
sua stessa Hybris.
Entrambi coltivano passioni indomabili e sono monolitici,
statuari, nel loro interpretare plasticamente il moto ondivago
della vita e le conseguenze funeste della resa al delirio narcisi-
stico. Nel personaggio di Achille il Furor è un vero e proprio fil
rouge che miete morti e porta distruzione. Il suo nemico, il prin-
cipe troiano Ettore, uccide Patroclo, amato cugino dell’indomito
eroe, così questi, in preda all’ira, folle di un dolore straripante,
fa strage di troiani e in un duello uccide lo stesso Ettore trasci-
nandone il corpo legato al carro lungo le mura della città, in

terra, aria), evidenziati da Platone nel Timeo, introd. e note di F. Fronterotta,


Bur, Milano 2006, p. 193 [C 32] - si può capire le diverse forme in cui attua
l’amore, ovvero i quattro tipi di delirio, le diverse tipologie di divinità dalle
quali l’uomo può essere invaso. L’amore è, in ultima analisi, il movimento
che integra, nel girare della ruota, le quattro forme di delirio presentate da
Platone, cioè l’integrazione dell’umano con il divino. “Questa è la nostra for-
za, questo è il gioco che conduciamo continuamente: noi giriamo la ruota in
tondo, ci piace mutare le cose che sono in basso con quelle che si trovano in
alto, e viceversa.” Boezio, La Consolazione della Filosofia, a cura di C. Mo-
reschini, Unione Tipografica - Editrice Torinese, Torino 1994, p. 131. Plato-
ne: “Nella natura, ripresi, ci sono l’alto, il basso e il medio”, in La Repubbli-
ca, cit., p. 621 [D 584]

199
spregio alle inviolabili regole sull’onore dei vinti. Un vero vili-
pendio dovuto al Furor, che si manifesta attraverso l’insaziabile
desiderio di vendetta.
Con Aiace il Furor diventa follia, una follia che fa sprofon-
dare l’eroe nella vergogna e nella desolazione.
Aiace è furioso perché non ha ottenuto dai generali greci le
armi di Achille, che vengono invece affidate a Odisseo. Atena
infonde il seme della pazzia momentanea in Aiace che così fa
strage di pecore e montoni credendoli soldati greci, per poi rin-
savire e perdere definitivamente l’onore. La qual cosa non è cer-
to priva di conseguenze, perché gli eroi omerici credono in un
sistema di valori definito “civiltà della vergogna”311 e la manca-
ta adesione a tali modelli ha come esito il disonore, la vergogna
per l’appunto, sia a livello interiore e psicologico (perdita
dell’autostima), sia a livello sociale (perdita della considerazio-
ne da parte degli altri che produce biasimo ed emarginazione).
Dodds osserva in proposito che «tutto quel che espone
l’uomo al disprezzo e al ridicolo dei suoi simili è sentito come
isopportabile»312, tant’è che Aiace si uccide gettandosi sulla
spada che Ettore gli aveva donato alla fine di un duello.
Nell’Iliade il Furor è pervasivo, tutta la storia si snoda nel
racconto di una guerra sanguinosa dallo stesso generata: il Furor
della gelosia. La guerra nasce infatti per vendicare l’onore di
Menelao, marito della bella Elena che lo ha abbandonato per
unirsi al principe troiano Paride, lasciandolo in preda al livore.
Il tradimento viene vendicato con uno smisurato spargimen-
to di sangue che sgorga dai corpi di greci e troiani, chiamati ad
uccidersi l’un l’altro per un interesse non loro.
Furens è Didone, vittima di una passione amorosa infausta.
La Dido furens virgiliana si uccide vinta dal dolore sordo

311
E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, op.cit. p. 30-31.
312
Ibidem.

200
dell’abbandono di Enea: «Non moriva né per il fato né per la
morte meritata, ma infelice e accesa da improvviso furore»313.
Nel IV libro dell’Eneide, il lessico della passione ruota
attorno ai campi semantici del fuoco bruciante che prefigura il
suicidio e a quello del furor che trasporta sul piano degli inferi
un’eroina in realtà destinata alla dimensione siderea per via del
pudor che la connota, ma che a causa di Enea si è estinto.
Per Virgilio dunque l’amore è dementia cioè mancanza di
senno e come tale ha solo effetti negativi: è una forza irrazionale
che sconvolge gli animi, una furia devastante che provoca
dolore e morte, come dimostrano i repentini ondeggiamenti
dell’animo in tempesta di Didone.
Che l’amore sia portatore di delirio lo sostiene anche Lu-
crezio nel De rerum natura, quando definisce tale sentimento
dira libido, smania mostruosa che procura all’uomo il desiderio
ossessivo del possesso di un essere umano, che non è di per sé
realizzabile.
«Il testo lucreziano è intriso di termini quali follia, ardore,
furia, ansia, travaglio, piaga, ferita… parole forti che stanno ad
indicare il carattere violento e doloroso della passione erotica,
ma delineano anche l’illusione e l’inganno a cui vanno incontro
gli amanti314: «come dentro i sogni l’assetato cerca di bere, e
acqua / non gli vien data, che possa spegnere l’ardore delle
membra, / ma si slancia a fantasmi di acque, e invano fatica, / e
nel mezzo del fiume impetuoso ha sete mentre beve, / così dentro
l’amore Venere illude gli amanti, / e non riescono a saziare il
corpo guardando quel corpo da presso, / né con le mani posso-
no raschiar via cosa alcuna dalle tenere membra, /mentre vaga-
no indeterminati per tutto il corpo»315.

313
Virgilio, Eneide, vv. 667-705.
314
M. Sammarro, Vittima d’amore. Tradimento, gelosia e follia tra let-
teratura e psicoanalisi, FrancoAngeli, Milano, 2014, p. 26.
315
Lucrezio, (I sec. a.C.), 2007, IV, vv. 1076-1083, 1113-1119, pp. 313-
315).

201
Per Lucrezio l’amore è un sentimento perturbante, a causa
del suo trasformarsi in passione insaziabile, che genera rabies e
furor, un desiderio folle e rabbioso, che ritorna incessante dopo
l’illusorietà dell’appagamento, perché non riesce a trovare un
mezzo per porvi rimedio.
Così il racconto immortale dell’amore letterario, che arro-
venta i rapporti nella ricerca di un limite, di un assoluto, o di un
oltre che se non viene raggiunto confina con la morte, è viva te-
stimonianza di come l’uomo attraverso le parole abbia saputo
sublimare la sua parte pulsionale.
Figure, ambienti, paesaggi, linguaggi, esperienze sono
quell’altrove in cui ritrovarsi e interrogarsi sulla finitezza della
natura umana che fa dire a Martha Nussbaum, richiamando Te-
renzio, che nulla può essere estraneo all’uomo, creatura nella
quale Eros e Thanatos si agitano e si confondono da sempre.
La letteratura insegna dunque a sentire, a levigare l’animo, per-
ché a ben vedere essa non è altro che una complessa fenomenologia
dei sentimenti umani, dove si apprende cosa siano il dolore, la noia,
l’amore, la disperazione, astraendoli dalla dimensione pulsionale per
condurli in quella del pensiero, dell’elaborazione, della consapevo-
lezza che si fa empatia.
«L’impulso – dice Galimberti – è la più primitiva delle cari-
che emotive e ha come linguaggio il gesto»316, perciò le menti
non abituate all’astrazione, più facilmente, si fermano al gesto
che segue all’impulso, senza passare attraverso l’elaborazione
dell’emozione.
La mancanza del processo di astrazione rende l’aggressore
incapace di tollerare sentimenti penosi di ansia, depressione o
colpa che egli prova nei confronti della vittima, la quale diviene
così l’oggetto contro cui scagliare la vis aggressiva data dalla
bassa soglia di tolleranza verso la frustrazione.

316
U. Galimberti, Lettere a Umberto Galimberti, La Repubblica
31.8.2013.

202
Una madre che uccide il suo bambino, un marito che uccide
la moglie, un figlio che uccide un genitore sono tragedie che non
possono essere sbrigativamente etichettate come «casi psichia-
trici» e in quest’alveo relegati e rimossi, anche allo scopo di
esorcizzare la paura che il loro verificarsi genera. Il ricorrere di
storie come queste obbliga tutti noi a una riflessione più seria
che parta da un interrogativo dirimente: disponiamo ancora di
una psiche capace di elaborare i conflitti e che, grazie a questa
elaborazione, sia in grado di trattenerci dal gesto?
Dobbiamo chiederci, in particolare, se esista nella nostra
cultura e nelle nostre pratiche di vita un’educazione emotiva che
ci consenta di conoscere i nostri sentimenti, le nostre pulsioni e i
moti della nostra aggressività, poiché quando il mondo emotivo
vive dentro di noi come un ospite sconosciuto a cui non sappia-
mo dare neppure un nome, la possibilità che quell’ospite si tra-
sformi in pulsione omicidiaria cresce a dismisura, perché è diffi-
cile pensare di poter governare la propria vita senza un’adeguata
conoscenza di sé.
E non si tratta di quella conoscenza ricercata ex post, quella
che in età adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo
psicoterapeuta nel tentativo di indagare sulla propria anima, o in
farmacia a cercare rimedi per sedare l’inquietudine; si tratta a
ben vedere di quella cura della psiche che prende avvio il primo
giorno di vita, quando il bimbo nell’abbraccio materno e durante
l’allattamento sperimenta l’accoglienza, l’indifferenza o il rifiu-
to. Moti impercettibili che sfuggono all’osservazione esterna,
ma decisivi per la formazione di quella che gli psicologi defini-
scono «fiducia di base», che è la prima condizione per stare al
mondo senza essere sopraffatti dall’angoscia.
La genitorialità contemporanea sembra più attenta a pro-
muovere un’educazione fisica e un’educazione intellettuale e
meno attenta a favorire l’educazione ai sentimenti, alle emozio-
ni, agli entusiasmi e alle paure, inducendo il bambino a organiz-

203
zare questa importante parte di sé da solo e con gli strumenti che
non ha.
Tra eccessi di stimoli e assenza di tempo da trascorrere in-
sieme, quanto latita al giorno d’oggi quella comunicazione tra
genitori e figli, anche non verbale, che trasmette a questi ultimi
la sensazione che della mamma e del papà ci si può fidare?
Quanto manca la cura dell’anima? Sembra, sotto questo profilo,
che gli adulti siano molto disorientati, tant’è che veicolano
l’amore attraverso le cose che in abbondanza acquistano per
soddisfare quei desideri infantili che vanno a occupare il vuoto
di comunicazione che manifesta i suoi primi segni nella svoglia-
tezza, nell’indolenza, nella pigrizia, nella ribellione e, nei casi
più gravi anche se meno eclatanti, nella rassegnazione depressi-
va.
Quel che si può avvertire in questo periodo, caratterizzato
da sovrabbondanza di stimoli esterni e carenza di comunicazio-
ne, sono i primi e preoccupanti segnali di indifferenza emotiva,
oggi sempre più diffusa nei giovani, e per effetto della quale si
verifica una sorta di anestesia sentimentale che fa smarrire la
percezione della differenza tra bene e male, giusto e ingiusto, le-
cito e illecito, la cui prima radice risiede proprio nella nostra ba-
se sentimentale.
E allora tutto si fa buio, indecifrabile, incomprensibile, e
tutto può accadere, anche la cosa più terribile, senza che un se-
gno, un sintomo, un indizio possa far presagire alcunché. E que-
sto non per un raptus improvviso che non esiste, e neppure per
uno stato depressivo che, quando è serio, non consente, a chi ne
è afflitto, neppure di alzarsi dalla sedia, ma perché, per effetto
della mancata educazione della psiche, ormai la differenza tra
aggredire uno dei propri cari e svolgere una qualsiasi pratica
quotidiana risiede in un confine incerto e labile.
Tant’è che molte perizie condotte sugli autori di simili delit-
ti non hanno parlato di «psicosi» perché la personalità psicopati-
ca non è destrutturata (si pensi al caso di Erika e Omar) e neppu-

204
re di «nevrosi» perché il disturbo non nasce da un conflitto, ma
da quella «immaturità affettiva» che è una conseguenza della
mancata educazione emotiva.
Gli effetti di questa «immaturità affettiva» che sfiora
l’analfabetismo emotivo sono l’incapacità di esprimere senti-
menti positivi come simpatia e gratitudine, l’apatia morale con
mancanza di sensi di rimorso o sensi di colpa, la condotta anti-
sociale, non episodica o impulsiva, ma costante, anche se ben
mascherata, che consente di mettere in atto comportamenti delit-
tuosi realizzati – come ci dicono le cronache dei nostri giorni –
con freddezza e indifferenza.
D’altra parte Paul Valery ci ricorda che: «quelle del cuore
non sono “ragioni”, sono ben altro, sono “forze”» che, quando
non sono educate, o esplodono, o vengono raffreddate attraverso
lo stordimento emotivo, che trova una sua via d’espressione
nell’abuso di alcol e droga.
Un ruolo importante in questo scenario è riservato alla scuo-
la, che senza dubbio può intervenire in favore delle giovani ge-
nerazioni, ormai divenute terre di nessuno, in cui la famiglia, per
effetto delle carenze comunicative accumulate, non svolge più
alcuna funzione.
È quanto mai urgente che la scuola smetta di limitarsi a
«istruire» e si riappropri della sua capacità di «educare», nel
senso profondo del prendersi cura della crescita emotiva degli
studenti, poiché se essa fallisce in questo compito, non resta che
consegnare i giovani alle chances di successo offerte dalla socie-
tà e dai suoi disvalori fatti di business, denaro e immagine, in
spregio ai valori rappresentati dalla solidarietà, dalla relazione,
dalla comunicazione e dall’aiuto reciproco, che proteggono dalla
supremazia del gesto rispetto alle parole che, per contro, salva-
no.
Le tragedie del contemporaneo sono il frutto del compresso
e dell’incomunicato, della distopia che non lascia trasparire nul-
la dei drammi che si consumano nelle mura domestiche. Ed è in

205
questo spazio, tra verità e menzogna, tra detto e non detto, che si
fa largo il deserto delle emozioni che insorgono incontrollate at-
traverso il gesto, il gesto violento che prende il posto di tutte le
parole mai scambiate né in casa, né fuori.
Ecco perché è importante la pedagogia delle relazioni uma-
ne e, con essa, il ritorno alle parole con cui nominare i moti
dell’anima come fa da sempre la letteratura mettendoli in scena
e offrendoli all’uomo perché li mentalizzi, li sublimi e li ante-
ponga al gesto; specie in una società che Zizek non esita a defi-
nire della postumanità, in cui impera un individualismo esaspe-
rato e una possibilità di scelta e di libertà mai conosciute sino a
questo momento.
In passato il contenimento veniva dalla povertà, oppure dal-
la tradizione religiosa, ora – e per certi versi fortunatamente –
questi argini non esistono, tuttavia la nuova individualità che si
va affermando sembra non avere la forza per reggere lo spazio
di libertà e di solitudine che le è stato concesso.
Per questo è importante lavorare nella direzione della peda-
gogia della cura e delle relazioni, non solo nell’educazione del
corpo e dell’intelligenza. Solo così possiamo cercare di essere
all´altezza delle sfide del nostro tempo, in cui ancora avvengono
delitti atroci nelle mura domestiche, che solo per effetto di una
mancata riflessione collettiva sull’immaturità affettiva della no-
stra cultura, possono ancora sorprenderci e stupirci.

4.4. Pulsione e agito omicida in ambito familiare: il c.d.


omicidio di prossimità.
La locuzione “omicidi in famiglia, o omicidi in ambito fa-
miliare” costituisce una species del genus più ampio noto come
“omicidi di prossimità”, all’interno del quale sono ricompresi i
delitti consumati o tentati che maturano nelle relazioni senti-
mentali, di vicinanza, di affezione o anche di semplice coabita-
zione, le quali implicano, o hanno implicato, la strutturazione di

206
legami stabili di carattere affettivo o anche di mera necessità o
utilità.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha iniziato ad
imporsi all’attenzione del mondo scientifico, in particolare quel-
lo dei sociologi e dei criminologi, il fenomeno della violenza
endemica perpetrata all’interno delle mura domestiche, spesso
sfociante nell’atto più estremo dell‘aggressività umana:
l‘omicidio volontario.
Negli Stati Uniti, sotto l’egida della politica Zero Toleran-
ce, connessa al grande allarme sociale dovuto alla criminalità di
strada (fenomeno diffuso soprattutto nelle grandi metropoli), Ri-
chard J. Gelles e Claire P. Cornel avvertivano di come ci fossero
molte più possibilità che una persona venisse uccisa, aggredita,
percossa o malmenata in casa da altri componenti della famiglia
stessa che in altri luoghi e da chiunque altro nella società317.
Alcuni studi, inoltre, col precipuo fine di rinvenire le cause
sottese al vertiginoso aumento degli omicidi nel territorio ameri-
cano, dopo avere condotto un’analisi di tipo empirico, hanno in-
dividuato proprio nelle relazioni familiari problematiche il se-
condo fattore scatenante il raptus omicida, dopo la povertà e
prima dell’abuso di alcol318.
Anche in Italia l’omicidio domestico irrompe nel dibattito
scientifico a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Pro-
prio in questo periodo, infatti, le statistiche nazionali individua-
317
Cfr. Gelles R.J., Cornell C.P., Intimate violence in families, Newbury
Park, Sage, 1990, 11
318
Sul punto si veda Goetting A., Homicide in Families, New York,
1995, second cui: «The first is poverty. Evidence of a positive relationship
between poverty and homicide has persisted in the literature in studies of
both homicide offenders and homicide rates. […] The second risk factor
identified from these Detroit studies that is generally recognized in the re-
search literature is firearm abuse, which is strongly associated with all profi-
les except those describing child victims and females against females. […]
The concern of this volume is mostly with primary homicides, those invol-
ving long-term intimate relationship. Such incidents occur usually in a priva-
te residence, and when a gun is used it is virtually always one kept in the ho-
me for personal protection».

207
no l’ambiente familiare come il contesto nel quale maggiormen-
te matura e si consuma il fenomeno omicidiario. Secondo i dati
di quel momento gli omicidi volontari consumati nelle mura
domestiche sarebbero stati addirittura superiori al numero di
quelli ascrivibili alla criminalità comune e alla criminalità di
stampo mafioso319.
Tale trend è stato confermato anche dai dati degli anni suc-
cessivi, in cui si è verificato un generale decremento degli omi-
cidi per mano mafiosa, sebbene questi ultimi a tutt’oggi conti-
nuino a detenere un forte primato nel Sud Italia, area geografica
in cui le organizzazioni criminali sono più radicate e pervasive.
Osservando l’evoluzione dei dati nel tempo, si pone in rilie-
vo che nel Rapporto EURES sull’omicidio volontario in Italia,
pubblicato nel dicembre del 2009, quello consumato in ambito
domestico ha riguardato il 28% di tutti i delitti registrati nel no-
stro Paese nell’anno 2008, contro il 22,1% della criminalità co-
mune e il 20,9% della criminalità organizzata.
Disaggregando il dato si può rilevare come il fenomeno
considerato abbia avuto un‘incidenza ancor maggiore nel Nord e
nel Centro Italia (rispettivamente 40% e 38% sul totale degli
omicidi volontari commessi), mentre nel Sud Italia (17,5%) ha
avuto un‘incidenza percentuale inferiore rispetto a quella ricon-
ducibile a fenomeni di criminalità organizzata, che è prevalsa
con il 38,8%.
Tali dati raccolti a livello nazionale sono sostanzialmente
analoghi a quelli registrati negli anni precedenti, nel corso dei
quali l’omicidio familiare aveva rappresentato il 26,3% degli
omicidi volontari commessi nel 2007 e il 31,7% di quelli del
2006320.

319
EURES-ANSA, L’omicidio volontario in Italia, Rapporto 2007,
Roma 2008, 94.
320
Indagine statistica condotta e pubblicata da EURES-ANSA,
L’omicidio volontario in Italia, Rapporto 2009, Roma 2009, 34 ss.;
L’omicidio volontario in Italia, Rapporto 2006, Roma, 2007, 48 ss.

208
Un‘ulteriore ricerca pubblicata nel 2007 ha messo in evi-
denza come l‘omicidio domestico risulti essere, se non il primo,
uno degli ambiti principali in cui l’omicidio volontario si espri-
me nei Paesi a più avanzato sviluppo economico e sociale321.
Secondo tali studi si potrebbe addirittura ipotizzare un rap-
porto di proporzionalità inversa tra l’indice di rischio omicidia-
rio (rapporto annuale tra il numero assoluto degli omicidi volon-
tari commessi in un Paese ogni 100.000 abitanti) e l’incidenza
del delitto maturato in ambito domestico; infatti, proprio negli
Stati con più basso rapporto tra numero di omicidi registrati e
abitanti, l’incidenza della tipologia dei crimini in questa sede
esaminati tende ad aumentare, attestandosi attorno ad un terzo
del totale: 37% in Canada (anni 1995-2004), 37,8% in Australia
(tra il 1989 e il 2002), 36,6% in Germania (nell‘anno 2006),
43,4% nel Regno Unito (anni 2005-2006) e il 12,3% negli Stati
Uniti (anno 2005)322.
Tali numeri, tuttavia, devono essere interpretati cum grano
salis, stante la loro riferibilità a fenomeni non esattamente so-
vrapponibili: nelle statistiche diffuse dai governi di Canada, Au-
stralia e Germania, infatti, vengono conteggiati oltre agli omici-
di volontari anche quelli preterintenzionali (appare così spiegata
la maggiore incidenza rispetto al dato italiano); per quanto con-
cerne il Regno Unito, la nozione di omicidio familiare, oltre a
ricomprendere il murder (fattispecie che si contraddistingue per
la presenza di una condotta dolosamente diretta a cagionare la
morte di un uomo)323, ricomprende anche il manslaughter (ipo-

321
Sul punto si veda F. Piacenti, Identikit degli omicidi in famiglia, in
L’orrore in casa. Psico-criminologia del parenticidio, Milano, 2007, 125;
EURES-ANSA, L’omicidio volontario in Italia, Rapporto 2007, Roma 2008,
99 ss.
322
EURES-ANSA, L’omicidio volontario in Italia, Rapporto 2007,
Roma 2008, 29 ss. Per un approfondimento sugli studi statistici relativi alla
violenza familiare negli Stati Uniti si veda anche G.B. Palermo, M.T. Paler-
mo, Affari di famiglia. Dall’abuso all’omicidio, Roma, 2003, 18 ss.
323
Sulla distinzione fra Murder e Manslaughter nel diritto inglese e sta-
tunitense si veda M. Ronco, Tecniche di incriminazione: rilievi di diritto

209
tesi corrispondente ai casi di omicidio preterintenzionale, colpo-
so commesso con colpa grave, nonché volontario commesso con
dolo eventuale), nonché i delitti perpetrati in danno di semplici
amici o conoscenti; il dato degli Stati Uniti, al contrario, appare
sottostimato, essendo conteggiati solo i murders (omicidi volon-
tari intenzionali ed omicidi preterintenzionali conseguenti a le-
sioni volontarie gravi ed intenzionali).
Altri dati, depurati delle incongruenze connesse ai diversi
criteri adottati da ciascuno Stato nella redazione delle statistiche,
misurano l’incidenza dell’omicidio familiare sul totale degli
omicidi volontari per il 19,1% negli Stati Uniti tra il 1976 e il
2003, per il 27,1% nel Regno Unito tra il 2003 e il 2005, e infine
per ben il 54% in Svizzera nel periodo 2000-2004324.
Focalizzando l‘attenzione sullo Stato italiano, deve osser-
varsi come uno scenario altrettanto preoccupante emerge dai da-
ti raccolti da fonti istituzionali. Il 20 giugno 2007, nel corso di
una conferenza stampa, l’allora Ministro dell‘Interno Amato il-
lustrò i risultati del Rapporto sulla criminalità in Italia, il cui
obiettivo era quello di fornire conoscenze accurate
sull’andamento della delinquenza nel nostro Paese, sulla sua di-
stribuzione territoriale, sulle caratteristiche dei reati commessi,
dei loro autori, delle vittime e delle relazioni che li legano.
Un intero capitolo del rapporto è dedicato agli omicidi vo-
lontari, suddivisi in due macro-ambiti: comune e organizzato.
All’interno del primo sono stati inseriti, tra gli altri, gli omicidi
consumati nel contesto domestico o affettivo. All’interno del se-
condo, invece, i delitti maturati in seno alle organizzazioni cri-
minali. Dai dati raccolti dal Ministero risulta che tra il 1992 e il
2006 vi è stato un decremento degli omicidi commessi per mano
della criminalità organizzata e un drastico aumento degli omici-
di scaturiti in ambito familiare o per ragioni legate a relazioni

comparato, sub art. 575, in Codice Penale Ipertestuale, M. Ronco, S. Ardiz-


zone (a cura di), cit., 1959.
324
Cfr. F. Piacenti, Identikit degli omicidi in famiglia, cit., 121 ss. 44.

210
sentimentali disfunzionali. Questi ultimi, invero, registrano la
massima frequenza negli anni 2002 e 2003 in cui si segnalano,
rispettivamente, 211 e 207 casi325.
Tanto i dati del Ministero dell’Interno, quanto i dati raccolti
dall’EURES, sembrerebbero confermare una crescita costante
degli omicidi consumati all’interno delle mura domestiche. A
favore della loro attendibilità va detto anche che l’omicidio, a
differenza di altre fattispecie di reato (come ad esempio la vio-
lenza sessuale), è caratterizzato da una minore cifra oscura, es-
sendo pochi i casi di assoluta incertezza sull’esistenza in vita di
una persona.
Occorre tuttavia tener presente che i dati statistici riflettono
sempre delle esigenze conoscitive particolari, che inevitabilmen-
te condizionano i criteri di selezione dei dati stessi e il risultato
finale al quale si perviene. Non solo, nel corso degli ultimi anni i
sistemi di rilevazione statistica hanno subito degli importanti
cambiamenti, grazie ai quali è stata resa più precisa anche la tra-
smissione dei dati agli organismi incaricati di compiere le inda-
gini. In Italia, fino al 2004, le fonti alle quali gli studiosi si ri-
volgevano per studiare l’andamento della criminalità erano due:
le Forze di polizia (Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Fi-
nanza) e la Magistratura. In questo modo era possibile disporre
dei dati relativi sia ai reati denunciati dai cittadini alle Forze
dell’ordine, sia ai reati per i quali era stata avviata d’ufficio
l‘azione penale.
A partire dal 2004, sono state introdotte innovazioni di
grande importanza, che hanno mutato modi, tempi e contenuti
del processo di raccolta dei dati provenienti dalle Forze di poli-
zia. Il vecchio sistema di trasmissione all’ISTAT – basato su da-
ti numerici riassuntivi trasmessi mensilmente dalle prefetture e
trimestralmente dagli uffici giudiziari – è stato sostituito con un

325
Rapporto sulla criminalità in Italia. Analisi, prevenzione, contrasto,
in www.interno.it.

211
sistema di rilevazione più efficiente e ricco di informazioni: il
c.d. S.D.I.326.
Il rapporto del 2007 fornisce un’analitica esposizione dei
dati sull’andamento della criminalità in Italia, in un contesto di
lungo periodo - dal 1968 al 2006 - ritenuto più idoneo per valu-
tare se le variazioni registrate indichino, o meno, un diverso
trend e per interpretarle correttamente.
Il capitolo dedicato agli omicidi volontari, in particolare,
fornisce una dettagliata disamina sull’andamento di questo tipo
di delitto nel tempo e nello spazio, sul profilo della vittima e
dell’autore e sulle relazioni intercorrenti tra gli stessi.
Tener conto di questi cambiamenti è tutt’altro che seconda-
rio. Invero, l’affinarsi dei metodi di rilevazione e il mutamento
dei sistemi di raccolta dei dati può portare a differenze fra i ri-
sultati annuali che solo apparentemente sono dovute al muta-
mento statistico dei fenomeni analizzati, e che invece si possono
attribuire, quantomeno in parte, alla maggiore precisione dei
metodi adottati per il loro studio. Per questa ragione i dati stati-
stici, pur essendo una base di partenza imprescindibile per una
comprensione rapida dell’andamento di certi fenomeni sociali,
non possono essere assunti acriticamente e, se provenienti da
fonti diverse, devono essere comparati con altrettanta prudenza e
spirito critico.
Sulla scorta di questo postulato è stata condotta l’analisi dei
dati contenuti nel Report dell’ISTAT del 5 febbraio 2021327, re-
lativo all’analisi statistica su autori e vittime di omicidio in Ita-
lia, nel periodo compreso tra gli anni 2018 e 2019.
Il report fornisce un quadro delle caratteristiche delle vitti-
me e degli autori degli omicidi, con un focus specifico su quelli
326
Si tratta del c.d. S.D.I., acronimo di Sistema di Indagine, una banca
dati che raccoglie informazioni e comunicazioni di cui tutte le Forze di poli-
zia (tra cui la Polizia Penitenziaria, la D.I.A., il Corpo Forestale dello Stato,
la Polizia locale, le Capitanerie di porto) sono venute a conoscenza.
327
Report ISTAT 5 febbraio 2021, Autori e Vittime di omicidio - Anni
2018-2019, in ISTAT datawarehouse dell’ISTAT: http://dati.istat.it/

212
che avvengono in famiglia e in altri contesti relazionali, grazie
all’utilizzo di diverse fonti in ambito giudiziario: in particolare,
sono stati utilizzati i dati del Ministero dell’Interno (che hanno
consentito di stimare per la prima volta il numero dei femmini-
cidi), delle Procure della Repubblica, del Casellario Giudiziale
Centrale e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria
(per l’analisi di imputati, condannati e detenuti per omicidio e
per l’osservazione di quelli avvenuti in un contesto relazionale
violento).
Ciò che è emerso dall’analisi dei dati è che quel trend che
iniziava a registrare un calo delle vittime di omicidio, specie tra
gli uomini, può dirsi confermato. L’Italia è oggi uno dei Paesi
con il più basso rischio di omicidi volontari al mondo.
Nel 2019 le Forze di polizia hanno registrato 315 omicidi
(0,53 vittime per 100.000 abitanti), distinguendo per genere, su
100.000 persone lo 0,70% delle vittime sono uomini e lo 0,36%
donne.
Confrontando i dati attuali con quelli già richiamati del
1991 – anno in cui si è registrato il picco più alto del numero di
omicidi e a partire dal quale è iniziato il trend discendente – si
può constatare che la realtà è effettivamente molto cambiata.
Gli omicidi erano oltre 6 volte di più (1.917 contro gli attua-
li 315), con un tasso pari a 3,4 per 100.000 abitanti.
Il 37,5% degli omicidi era attribuibile alle organizzazioni di
tipo mafioso, mentre ora tale dato è in calo. Infatti, pur rimanen-
do la criminalità organizzata un fenomeno da monitorare con
estrema attenzione, oggi costituisce una causa a minore impatto
sul numero delle persone uccise intenzionalmente, corrispon-
dendo al 9,7% del totale nel quinquennio 2015-2019.
La forte diminuzione degli omicidi e, in particolare, la con-
trazione delle morti dovute alla criminalità organizzata e alla
criminalità comune, ha avvantaggiato soprattutto gli uomini, più
esposti in quei contesti rispetto alle donne.

213
Nei primi anni Novanta si contavano cinque omicidi ai dan-
ni di persone di sesso maschile a fronte di ogni donna uccisa,
mentre nel 2019 si sono verificati 204 omicidi di uomini e 111
di donne, con una evidente contrazione del dato.
Nonostante l’assottigliamento progressivo della differenza,
permane sino al 2019 un tasso di omicidi ai danni degli uomini
più elevato rispetto a quello relativo alle donne. Come leggere
questo dato senza incorrere in interpretazioni fuorvianti?
Per lo studio della vittimizzazione di genere è fondamentale
considerare la relazione esistente tra la vittima e il suo omicida
e, se è vero che a rimanere vittime di omicidio sono stati più gli
uomini che le donne, va detto anche che il dato deve essere di-
saggregato per poter essere compreso adeguatamente: tra i ma-
schi vittime di omicidio, nel 2018, solo il 2,4 per cento è stato
ucciso dal partner o dall’ex partner, il 16 per cento da un altro
parente e il 10,8 per cento da un conoscente al di fuori della fa-
miglia. Quindi, con riferimento agli uomini, si può affermare
che è assai raro che essi soccombano all’azione omicida della
partner o dell’ex partner, inoltre solo nel 29,2 per cento dei casi,
vittima e autore si conoscevano prima dell’omicidio, permanen-
do alto il tasso di omicidi ad opera di un autore sconosciuto alla
vittima (il 37,7 per cento), o ad opera di un autore non identifi-
cato (circa un terzo del totale).
Va poi tenuto conto, nell’interpretazione di questi dati, del
peso degli omicidi legati alla criminalità organizzata, che sebbe-
ne diminuiti notevolmente continuano comunque a colpire in
maniera preponderante gli uomini. Al contrario, per le donne
l’omicidio avviene principalmente nel contesto familiare ed è
commesso dal partner o ex partner nel 54,9 per cento dei casi
(anno 2018) o comunque all’interno della famiglia, ad opera di
un parente.
Se ne deduce che, nonostante il dato sull’omicidio ai danni
delle donne indichi complessivamente una percentuale minore di
vittime, non vi è dubbio che esso avvenga nella gran parte dei

214
casi in ambito familiare, al contrario di quanto accade nelle ipo-
tesi in cui la vittima sia un uomo.
In tutto il periodo considerato (anni 2002-2018), negli omi-
cidi consumati in ambito familiare oltre la metà delle vittime
appartiene al genere femminile, addirittura negli anni più recenti
(2014-2018) la percentuale non è mai scesa al di sotto della so-
glia del 70 per cento e nella gran parte dei casi l’autore
dell’omicidio è il partner – attuale o ex –, oppure, in percentuale
minore, un altro familiare.

4.5. La violenza domestica nella famiglia contempora-


nea.
Effettuata la disamina dei dati statistici sull’omicidio, con
particolare riferimento all’omicidio di prossimità, deve passarsi
all’analisi del concetto di famiglia, sia sotto il profilo normativo
che sotto quello sociale, per meglio comprendere quali fenomeni
possano rientrare nel genus “omicidio di prossimità”.
L’art. 29 della Costituzione italiana definisce la famiglia
una società naturale; tale locuzione ha suscitato molteplici ri-
flessioni circa il suo significato autentico, riflessioni che sem-
brano trovare un’armonica composizione nelle parole di Aldo
Moro, membro della Commissione che si occupò di redigere il
testo costituzionale e secondo cui con l’espressione “società na-
turale” si intende porre in rilievo che la famiglia ha un ordina-
mento autonomo rispetto a quello dello Stato, il quale, quando
interviene, si trova di fronte ad una realtà che non può né ignora-
re, né menomare, né mutare. Un istituto, quello della famiglia, in
cui le relazioni tra i componenti hanno caratteristiche proprie,
ove sono ammessi obblighi di dare senza ricevere, ove non sus-
sistono soltanto vincoli giuridici, ma soprattutto stretti legami
affettivi, dell’animo e del sangue, che il diritto non crea ma tro-
va in rerum natura328.
328
Cfr. V. Scordamaglia, Prospettive di nuova tutela penale della fami-
glia, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1991, 375.

215
Tuttavia, affinché le norme del testo fondamentale non ri-
mangano lettera morta, è necessario che esse trovino concreta
attuazione nella normativa dettata dal codice civile, quanto alle
regole effettive, e dal codice penale, quanto alla previsione delle
sanzioni. Sul punto, a fronte dei principi all’avanguardia intro-
dotti dalla Costituzione, la legge penale è rimasta quasi immobi-
le. L‘inerzia del legislatore penale è stata in qualche misura
compensata da due importanti interventi della Corte Costituzio-
nale, rappresentati dalle sentenze n. 126 del 1968 e 147 del
1969, che hanno dichiarato costituzionalmente illegittimi
l‘adulterio della moglie, con la relativa punibilità del correo (art.
559, co. 1 e 2), nonché tutte le altre ipotesi di adulterio e concu-
binato (artt. 559, co. 3, 2 e 560, 561, 562).
Prima di tali statuizioni, dunque, l‘adulterio e il concubinato
erano puniti, peraltro con una grave discriminazione di genere,
posto che il marito poteva tradire la moglie senza alcuna conse-
guenza sotto il profilo penalistico e veniva sottoposto a pena sol-
tanto ove avesse tenuto una concubina all‘interno della casa co-
niugale o notoriamente altrove.
La Corte, poggiando la sua decisione su questa ingiustifica-
ta disparità di trattamento, ha ancorato il suo giudizio non alla
violazione dell‘art 3 della Costituzione, bensì all‘art. 29, co. 2,
secondo cui il matrimonio è ordinato sull‘uguaglianza morale e
giuridica dei coniugi.
Sul versante civilistico, invece, deve osservarsi che prima
della riforma del 1975 il codice civile, all’articolo 144, conferiva
al marito il ruolo di capo della famiglia, attribuendogli la potestà
maritale e il conseguente ruolo di preminenza all’interno delle
mura domestiche. Tale autorità, in particolare, non si rifletteva
soltanto nell’adozione delle decisioni concernenti la vita familia-
re, ma riguardava altresì l’ambito economico, fino a ricompren-
dere un potere correzionale sulla moglie e a giustificare ogni
esasperata forma di supremazia.

216
Svolte decisive verso il superamento di una tale concezione
si ebbero con la sentenza della Suprema Corte del 22.2.1956329,
con la quale vennero tracciati i primi segni di un nuovo indiriz-
zo, poiché si ritenne l’articolo 571 del codice penale non appli-
cabile al marito che percuote la moglie.
I giudici del Supremo Consesso stabilirono che al marito
non compete nei confronti della consorte un potere correttivo,
poiché ciò sarebbe in contrasto con l’articolo 29 della Costitu-
zione, in cui è consacrato il principio dell’eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi.
Altro passaggio decisivo verso il superamento della cultura
della subordinazione all’autorità maritale è rappresentato dalla
Riforma del diritto di famiglia del 1975, grazie alla quale è stata
consacrata la piena parità dei diritti e dei doveri tra i coniugi. La
nuova normativa pone in essere un radicale ridimensionamento
della figura del marito all’interno del nucleo familiare e una pa-
rallela valorizzazione del ruolo della moglie: viene eliminata
dall’ordinamento la potestà maritale e tutte le implicazioni che
da essa scaturivano, prima fra tutte la presenza di un capo
all’interno della famiglia.
Il dettato costituzionale, che già da tempo invocava la parità
tra coniugi, trova finalmente traduzione nella littera legis e, in
particolare, negli articoli 143 e seguenti del codice civile, ove
sono espressamente elencati i medesimi diritti ed obblighi di cui
il marito e la moglie sono titolari.
Alla luce delle considerazioni formulate, diviene fisiologico
chiedersi se le forme attuali di violenza domestica possiedano un
aliquid novi, o non debbano piuttosto essere semplicemente ri-
condotte alle valenze conflittuali ed aggressive presenti, fin
dall’origine, nella struttura del nucleo familiare. Sembra ragio-
nevole ritenere che, pur potendo rinvenirsi un file rouge tra i de-
litti commessi un tempo e quelli odierni, esista tra gli stessi una

329
Cass. Pen., 22.2.1956, in Riv. Pen., 1957, 3.

217
forte differenziazione qualitativa: la patria potestas, lungi dal
rappresentare una mera forma di tirannide domestica, esprimeva,
anche se con rigore spietato, una precipua funzione di controllo
sociale, sul presupposto dell’assenza di efficaci poteri esterni.
La stessa storia della civiltà testimonia che, in corrispon-
denza di periodi di particolare indebolimento dell’autorità pub-
blica, si riscontra un parallelo rafforzamento della solidarietà
familiare; laddove, invece, l’autorità statale si organizzi in strut-
ture sempre più capillari ed efficienti, si assiste ad una progres-
siva erosione dei poteri della famiglia.
La moderna famiglia nucleare, priva di funzioni istituzionali
nel senso sopra descritto, tende a fondarsi quasi esclusivamente
su funzioni microsociali, ossia sulla promozione dell’affettività
tra i coniugi, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, sullo sfondo
dell’ormai avvenuto tramonto di una rigida gerarchia all’interno
delle mura domestiche.
Tuttavia ciò, in non pochi casi, ha determinato una situa-
zione paradossale e sconcertante: in un mondo in cui si tende a
disciplinare normativamente ogni tipo di rapporto, la famiglia è
divenuta il luogo ove è più facile scatenare l’aggressività, la sola
arena rimasta in cui sono possibili forme di relazioni sociali
primitive o naturali, libere dal controllo pubblico. Non solo, nel
microcosmo domestico l’aggressività irrompe in modo più cla-
moroso proprio a cagione dell’ambiente ristretto in cui i mede-
simi componenti si trovano a vivere330, anche alla luce del fatto
che è specialmente nel privato che la tensione e la frustrazione
del singolo si trasformano in prevaricazione verso il partner e i
figli.
Rilevanti, inoltre, le ripercussioni esercitate dalle rapidissi-
me trasformazioni socioculturali della nostra epoca sui ruoli esi-
stenti all’interno della famiglia. Che nel corso del ‘900 la fami-
glia sia profondamente cambiata è cosa nota. Abbiamo assistito
330
Cfr. F. F. Cenderelli, Abuso e violenza in famiglia nel diritto civile,
internazionale e penale, Padova, 2006, 3 ss.

218
al passaggio dalla famiglia autoritaria – così ben simboleggiata
nelle sue degenerazioni dalla figura del padre-padrone tratteg-
giata da Ledda (che con questo sintagma ha posto in rilevo la
concezione proprietaria della filiazione tradita dalla stessa se-
mantica) – alle famiglie del mondo contemporaneo. E parliamo
di famiglie al plurale perché accanto al modello tradizionale si
collocano a pieno titolo le convivenze fuori dal matrimonio, le
famiglie ricomposte, i nuclei monogenitoriali e le famiglie omo-
genitoriali. E ciò richiede alla pedagogia, al diritto e alle scienze
umane tutte, di ridefinire la realtà familiare, che, comunque si
costituisca, rimane – per usare le parole di Corsi – il luogo privi-
legiato dell’amore, dell’educazione e della cura delle persone
che lo compongono331.
Tuttavia, l’aver individuato nell’educazione, nella cura e
nell’amore il nucleo centrale dei compiti spettanti ai genitori
contemporanei non risolve i problemi e le sfide che ci si pongo-
no di fronte, specie se osserviamo che l’essere umano appare
sempre più fragile e disorientato anche nella costruzione dei le-
gami con l’altro.
Il vero punto dolente è dunque la struttura della relazione
educativa tra genitori e figli nel mondo contemporaneo, perché
le modalità attraverso le quali si costruisce la relazione educati-
va fanno la differenza e spingono a riflettere sul ruolo fonda-
mentale esercitato dalla famiglia nella formazione, come ci dice
Viviana Burza nel bel saggio La formazione in famiglia tra
emancipazione e devianza, contenuto nel volume Cultura della
legalità curato proprio da Mario Caligiuri332.
Le trasformazioni sociali e familiari che hanno attraversato
la nostra storia dal ’68 in poi, pur rappresentando una delle più
importanti conquiste in punto di emancipazione dell’essere
331
M. Corsi, “Famiglia e “famiglie”: i diritti delle persone e il dovere
della responsabilità,in Annali 2005, Facoltà di Scienze della formazione, vol.
II, Macerata, EUM, 2006, pp. 85-94.
332
Cfr. V. Burza, La formazione in famiglia tra emancipazione e de-
vianza, in Cultura della legalità a cura di M. Caligiuri, Rubbettino, 2010.

219
umano, sono tuttavia all’origine del disorientamento dell’uomo
di oggi.
La famiglia tradizionale era intesa dai giovani contestatori
sessantottini come apparato istituzionale di tipo disciplinare e
conformistico, capace di produrre solo obbedienza,
un’obbedienza cieca e acritica, dunque un dispositivo funziona-
lizzante e subordinante, tant’è che proprio qualche anno prima
della rivoluzione studentesca Don Milani affermava – condivisi-
bilmente – che essa non fosse più una virtù333.
Testimonianza esplicita di questo desiderio di distruzione di
un apparato volto a produrre obbedienza sono le suggestive im-
magini del celebre video di The Wall dei Pink Floyd, in cui gli
studenti appaiono senza volto e schiacciati dai congegni repres-
sivi. Questo il clima nel quale si è consumata la morte della fa-
miglia preconizzata da Cooper334 e, in qualche misura, auspicata
dalla Scuola di Francoforte.
Tuttavia gli affascinanti e incontrovertibili postulati ador-
niani secondo cui la famiglia può diventare luogo privilegiato di
riproduzione della personalità autoritaria335, hanno finito nel
corso del tempo per determinare una vera e propria eterogenesi
dei fini. La morte della famiglia autoritaria ha generato il dram-
ma del vuoto successivo, perché i suoi codici deteriori – che
senza alcun dubbio andavano banditi – non sono stati tuttavia
sostituiti da nuovi codici in grado di emancipare l’essere umano
e realizzare l’utopia della decostruzione dell’autoritarismo. Essi
hanno piuttosto aperto il varco a quello che Recalcati – riecheg-
giando Lacan – chiama “evaporazione del padre”336.

333
Cfr. L. Milani, L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del
processo di Don Milani, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1965.
334
D. Cooper, La morte della famiglia, Einaudi, Torino, 1972.
335
Cfr. T. W. Adorno, La personalità autoritaria – I, Edizioni di comu-
nità, 1997.
336
M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermo-
derna, Raffaello Cortina Editore, 2017.

220
Ecco il vero dramma della famiglia contemporanea: un salto
nel vuoto dalla asimmetria alla simmetria generazionale, dalla
verticalità all’orizzontalità liquida e incerta, dalla rigidità dei
ruoli predefiniti all’assenza di ruoli all’interno del nucleo, che
produce il doloroso e mortifero effetto di annientare i conflitti
intergenerazionali, i quali restano comunque fondamentali per
crescere.
In assenza di ruoli chiari, i genitori contemporanei si alleano
pericolosamente con i figli ritenendo di avere come unico com-
pito la rimozione di ogni ostacolo e persino la rimozione della
memoria e dei riti, purché questo corrisponda ai desideri dei loro
ragazzi.
La cronaca ci racconta che sempre più spesso madri e padri
protestano contro docenti, allenatori, maestri d’arte e chiunque
si frapponga tra la loro pretesa autorealizzativa trasferita sui figli
e la possibile realizzazione di quest’ultima.
La morte della famiglia, senza che a tale fenomeno sia se-
guita una ricostruzione di codici relazionali efficaci e chiari, ha
determinato – con una spinta accelerativa negli anni ’90 del se-
colo scorso – la crescente e pervasiva affermazione
dell’ipercognitivismo, riducendo l’esistenza di genitori e figli a
una propaggine del principio di prestazione, contro ogni sogno
di trasformazione sociale evocato da Marcuse in Eros e civil-
tà337.
Il tentativo di fermare le derive dell’omologazione attraver-
so la morte della famiglia è naufragato nelle pieghe del narcisi-
smo contemporaneo, che non tollera il fallimento e, dunque,
neppure il pensiero critico.
L’assimilazione passiva non avviene più attraverso i colpi
inferti dall’autoritarismo, ma è veicolata dallo spegnimento del

337
H. Marcuse, Eros e civiltà, (ed. or. 1955), Einaudi, Torino, 2001.

221
desiderio, sepolto da genitori amici e iperprotettivi e da quella
che Mario Caligiuri definisce società della disinformazione338.
L’adolescente di oggi evoca la dostoevskijiana voce narran-
te delle memorie dal sottosuolo339, trascorre il suo tempo a spin-
gersi negli oscuri labirinti della psiche, a sezionare e a scompor-
re impietosamente le proprie contraddizioni, ad analizzare com-
portamenti, gesti, pensieri. E’ un groviglio cupo e denso, fitto e
contorto di autolesionismo e di autocompiacimento, dove ven-
gono meno le leggi del mondo e gli schemi, come anche le im-
bastiture astratte dell’intelletto.
Il sottosuolo d’altronde è il mondo sepolto, è l’assenza di
ogni legge o convenienza imposta dalla società o dal prossimo; è
collisione incessante tra pulsioni dissimili, tra ordine e disordi-
ne, tra regole e caos, tra serenità e sovvertimento, tra costruzione
e dissipazione, tra visioni eroiche e quotidiane meschinità.
Il sottosuolo disvela il caos, la discordanza, la problematici-
tà di quello che «l’intelletto si è illuso di rendere cognito, leviga-
to e definito»340, generando una disarmonia radicale tra ciò che è
intimo e oscuro e ciò che domina oltre quel suolo in cui l’animo
acerbo di un adolescente si inabissa per perdersi senza speranza
né soluzione, salvo che grazie ad adulti significativi non ne ri-
sorga rigenerato.
Secondo Galimberti tutti i giovani contemporanei, affaticati
dalla ricerca di un’identità che stenta a emergere, «stanno ma-
le»341, e «non per le solite crisi esistenziali che costellano la gio-
vinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira
tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri,

338
M. Caligiuri, Introduzione alla società della disinformazione. Per
una pedagogia della comunicazione, Rubbettino, 2018.
339
F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, tr. it. M. Martinelli, BUR
Rizzoli, Milano, 2000.
340
R. Cantoni, Crisi dell’uomo, Mondadori, 1948, p. 47.
341
U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltri-
nelli, Milano, 2008, p. 11.

222
cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce
le passioni rendendole esangui.
Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo
il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del diverti-
mento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto
gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro
stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di
far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un as-
soluto da vivere con la massima intensità, non perché questa in-
tensità procuri gioia, ma perché permette di seppellire l’angoscia
che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i con-
torni del deserto di senso. […] E perciò le parole che alla spe-
ranza alludono, le parole di tutti più o meno sincere, le parole
che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono
lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come
rumore insensato»342.
Dunque il non detto, il silenzio è rumore insensato, pari-
menti insensate sono l’assenza di adulti significativi e la rinun-
cia al dovere di educare, «perché – dice Platone – malvagio nes-
suno è di sua volontà, ma il malvagio diviene malvagio […] per
un allevamento senza educazione»343.
Per il filosofo ateniese l’educazione, quindi, è in grado di
incidere sul destino dei più piccoli, poiché chi ne è privo rischia
di cedere alla malvagità, intesa quasi come una sventura che le
corrette pratiche di cura possono evitare. Ma la cultura occiden-
tale ha dimenticato questo insegnamento e ci appare ripiegata su
se stessa, vinta da una profonda crisi dovuta all’imperversare del
funzionalismo che genera il nichilismo a cui si riferisce Galim-
berti.
Quel nichilismo è l’esito di una promessa tradita.
Famiglia e scuola, vittime entrambe del tramonto delle idee
e dei progetti visionari, sembrano ossessionate
342
Ivi, p. 12.
343
Platone, Timeo, 86e.

223
dall’aspetto performativo di figli e studenti, perché la società
tecnocratica ha detto loro che l’uomo non è più il soggetto del
suo operare, ma il mero esecutore di azioni descritte e prescritte
da logiche di mercato, i cui unici canoni sono quelli
dell’efficienza e della produttività.
Ciò determina marginalità sociale e culturale, rifugio nelle
vite parallele, non quelle plutarchiane, ma quelle costruite sui
social, dove pensieri ed emozioni si dissolvono, perché di fatto
mancano i luoghi, gli ambienti, le moderne agorà per una loro
vera possibilità di estrinsecazione. E questo è il terreno di coltu-
ra della violenza.
Gli esperti non assumono una posizione univoca sulla ezio-
logia da attribuire ai fenomeni delle aggressioni in famiglia,
specie quelli tra coniugi e a danno dei figli. La moltitudine di
concezioni che si riscontrano sul tema possono essere ragione-
volmente ricondotte a tre filoni principali:
1) la teoria funzionalistica, che interpreta la violenza come
il risultato della frustrazione dei bisogni individuali che si può
verificare all’interno delle strutture familiari;
2) le teorie comportamentali, che riconducono le manifesta-
zioni aggressive ad un tipo di comportamento appreso, per cui i
figli tenderebbero a riproporre i modelli comportamentali assun-
ti dai genitori;
3) le teorie che spiegano la violenza contro le donne e i
bambini come una conseguenza strutturale della condizione su-
bordinata attribuita a donne e bambini all’interno della famiglia
tradizionale.
Gullotta344 , nel panorama italiano, ha proposto un’efficace
sintesi di questi tre orientamenti, individuando le seguenti prin-
cipali variabili alla base dei fenomeni di violenza domestica: il
contesto, il fattore temporale, i ruoli e gli status assunti dai di-
versi componenti della famiglia.

344
G. Gulotta, Famiglia e violenza, Giuffrè, Milano, 1984.

224
Le osservazioni sull’importanza dell’ambito territoriale oc-
cupato dalla famiglia traggono la loro origine dal presupposto
per cui, quanto è maggiore la concentrazione di individui in un
determinato ambito spaziale, tanto più facilmente in esso si pro-
durranno episodi di conflittualità345.
Per quanto concerne il fattore temporale, è stato osservato
che gli episodi di violenza intrafamiliare avvengono con mag-
giore frequenza in particolare momenti della giornata o in perio-
di del mese. A titolo esemplificativo, i litigi tra coniugi si inten-
sificherebbero alla fine del mese e durante il fine settimana. Du-
rante la giornata, invece, i litigi più gravi tenderebbero a verifi-
carsi nelle ore che vanno dal tardo pomeriggio a quelle serali,
poiché sono queste le fasce orarie in cui la famiglia si trova riu-
nita.
Infine, i ruoli e gli status rivestono un’influenza molto si-
gnificativa nella dinamica dei rapporti familiari: in particolare,
lo status indica il prestigio proprio di un individuo; il ruolo, in-
vece, rappresenta l’aspetto dinamico dello status, in quanto ri-
guarda tutto ciò che l’individuo è chiamato a compiere per con-
servare il suo diritto ad un particolare status.
Proprio la crisi del ruolo familiare, scaturente dalle incom-
prensioni circa il comportamento che un membro deve assumere
o che si attende altri assuma, può essere alla base di comporta-
menti violenti all’interno delle mura domestiche346.
345
Cfr. M. M. Correra, P. Martucci, La violenza nella famiglia, Cedam,
Padova, 1988, p. 19. Il presupposto di una tale teoria è che l’antagonismo
giochi un ruolo fondamentale in ogni rapporto interpersonale.
346
Di qui la necessità di concepire la famiglia come un sistema circola-
re, che non deve essere ridotta ad una sterile sommatoria dei suoi elementi
(padre+madre+figli), bensì come l‘insieme delle relazioni che tali soggetti
creano tra di loro: ―E‘ fondamentale capire che la famiglia costituisce un di-
verso ed autonomo soggetto rispetto ai suoi componenti, i quali tutti si muo-
vono ed interagiscono in funzione di esso, con un meccanismo di omeostasti,
ovvero di equilibrio e stabilità per la sua auto conservazione, di modo che
quando il comportamento di uno dei suoi membri indica un cambiamento,
l‘altro risponde con un comportamento che tende a limitare ed a sabotare
l‘altro con la tendenza a mantenere lo status quo. Si verifica una circolarità

225
Tuttavia, nell’analizzare i mutamenti e le trasformazioni che
hanno attraversato la famiglia nel tempo, bisogna avere la pru-
denza di non ascrivere al cambiamento la responsabilità
dell’esplosione della violenza, lo studio dello scenario in cui le
famiglie si muovono è utile a comprendere cosa possa esserci
all’origine del conflitto, ma non deve mai essere confuso con le
motivazioni poste alla base di gesti violenti.
A ben vedere, la violenza domestica, anche nella sua forma
più grave, non può e non deve esser letta come effetto
dell’affermarsi di nuovi modelli familiari o del declino della fa-
miglia tradizionale, poiché ciò aprirebbe il varco a pericolose e
fuorvianti strumentalizzazioni da parte di quanti negano cittadi-
nanza alla pluralità, del tutto legittima, dei modelli familiari.
L’analisi del contesto è utile a comprendere come sentimen-
ti ancestrali affiorino nell’attuale contesto familiare e nelle pro-
blematiche che il mondo contemporaneo presenta alle famiglie,
ma non certo a divenire il vessillo dei sostenitori di un mondo
dissolto.
La conflittualità coniugale, la gelosia, l’avidità, il disagio
esistenziale, il tradimento degli affetti, e i moltissimi altri mo-

delle azioni per cui ad ogni azione corrisponde una retroazione o feedback
con continuità, ossia senza che vi sia un inizio ed una fine. Eventi però di na-
tura intra familiare (es. nascita di un figlio illegittimo, adulterio, aborto, al-
coolismo) ed extra familiare (es. disoccupazione), possono talvolta portare al-
la crisi del sistema se non vi è un sufficiente grado di interazione e di adatta-
bilità ai mutamenti. Può così accadere che tra i due partners vi siano incom-
prensioni sul comportamento di ruolo che ciascuno deve tenere o che può
attendersi dall‘altro (discordanza cognitiva), ovvero sugli scopi sociali, lavo-
rativi, amicali o relazionali che, anche in modo inespresso, ciascuno si pre-
figge (discordanza nei fini), o difetto di comunicazione sui ruoli o sulle attri-
buzioni (discordanza comunicazionale o nelle attribuzioni). Od ancora inca-
pacità dei coniugi di comportarsi in modo da provvedere ai mezzi necessari
per il buon funzionamento del rapporto (discordanza strumentale) od infine
incapacità di accettare differenti valori culturali o religiosi (discordanza cul-
turale)ǁ. Per un’ampia trattazione si veda D. Pallotta, Il padre malevolo esi-
ste? Le relazioni nel conflitto familiare, 2007, in
www.psicologiagiuridica.com. sul punto si veda anche G. Gullotta, Comme-
die e drammi nel matrimonio, Milano, 1997, 124 ss.

226
venti che stanno alla base dei crimini studiati, non sono una pe-
culiarità delle famiglie dei nostri giorni, ma sono espressione di
sentimenti, passioni, disagi - sociali e personali - che si manife-
stano, oggi come in passato, laddove i vincoli sono più stretti e
la conflittualità più facilmente si accentua.
Del resto, che la famiglia sia il contesto in cui si estrinseca-
no comportamenti violenti è una constatazione che non deve la-
sciare più di tanto stupiti: di regola chi uccide, o, più in generale,
chi tiene un comportamento violento, lo fa per un motivo ben
determinato e nei confronti di soggetti con i quali si trova a vi-
vere in una qualche forma di relazione. Non solo. A differenza
di altri contesti, notoriamente criminogeni e che ciascun indivi-
duo è libero o meno di frequentare, la famiglia è un nucleo in
cui ognuno di noi è inserito sin dalla nascita e di cui continua a
far parte per l’intera vita. É dunque statisticamente più probabile
che sia proprio in questo tipo di contesto che la violenza trovi la
sua valvola di sfogo.
D’altro canto, rimane l’ineluttabile constatazione che alcuni
delitti siano l’immagine riflessa di una profonda crisi dei rap-
porti familiari, all’interno dei quali la figura maschile si aggira
raminga alla ricerca di un ruolo che la tradizione da tempo gli
aveva conferito ma che la realtà gli ha irrimediabilmente sottrat-
to, per conferirla ad una nuova figura femminile che ancora fati-
ca a definirsi in un mondo fluttuante e dai confini incerti.

227
Capitolo quinto

Il disordine dell’istinto che sfocia nel delitto tra


letteratura e realtà.

Come sul mare infuriato che, illimitato da ogni parte,


ululando solleva e precipita montagne d’onde,
siede in una barca il navigante, confidando nella debole imbarcazione;
così l’uomo isolato sta tranquillamente in mezzo a un mondo di tormenti,
appoggiandosi fiducioso al principium individuationis.

A. Schopenhauer,
Mondo come volontà e rappresentazione, I

5.1. Il mito: struttura permanente dell’umanità e stru-


mento di sublimazione delle tendenze antisociali.
Secondo Aristotele «gli uomini, sia nel nostro tempo sia
dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filoso-
fare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che era-
no a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e
in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo

228
stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le
affezioni [ossia le eclissi, il sorgere e il tramonto] della luna e
del sole e delle stelle e l’origine dell’universo. Chi è
nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere nell’ignoranza
(perciò anche chi ha propensione per le leggende è, in un certo
qual modo filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravi-
gliose); e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare
con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi perse-
guivano la scienza col puro scopo di sapere e non per qualche
bisogno pratico. E ne è testimonianza anche il corso degli even-
ti, giacché solo quando furono a loro disposizione tutti i mezzi
indispensabili alla vita e quelli che procurano benessere e agia-
tezza, gli uomini incominciarono a darsi ad una tale sorta di in-
dagine scientifica. È chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale
indagine senza mirare ad alcun bisogno che ad essa sia estraneo,
ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non
per un altro, così anche consideriamo tale scienza come la sola
che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé»347.
Il rapporto della filosofia con lo stupore ci costringe quindi
ad interrogarci anche sui rapporti tra filosofia e mito poiché,
come leggiamo nel testo aristotelico, «anche chi ha propensione
per le leggende è, in certo qual modo filosofo, giacché il mito è
un insieme di cose meravigliose».
Tra mito e filosofia esiste un comune sentimento di stupore
e la volontà di dare un senso alle cose e alle vicende umane, ec-
co perché nelle cosmologie si rintraccia un tentativo di narrare
(mythéo: io racconto o narro) l’origine del mondo a partire dal
caos primitivo348.
Il più antico documento della cosmogonia presso i Greci è
la Teogonia di Esiodo (VIII sec. a.C.), dove il multiforme dive-
347
Aristotele, Metafisica, I, 982b, 10-25, trad. it. Di G. Giannantoni, La-
terza, Bari, 1971, pp. 8-9
348
Abbagnano-Fornero, La filosofia (1A). Dalle origini ad Aristotele,
Paravia, 2009, pag. 19; v. anche Massaro-Fornero, “Tra mito e logos: la na-
scita della filosofia”, in: Fare filosofia, Vol. 1°, Paravia, 1998, pag. 6.

229
nire della realtà astrofisica viene “antropomorfizzato” attraverso
la narrazione delle generazioni degli dèi.
Basti pensare che, dovendo rappresentare l’ordine del mon-
do attraverso le gerarchie divine, Esiodo pone all’origine di tutte
le generazioni una coppia che è la personificazione stessa
dell’universo fisico: Gea (la Terra) e Urano ( il Cielo).
Essi dunque posso ben rappresentare quello che Levy-
Strauss ha definito “struttura”, nel senso di strumento attraverso
il quale è possibile rintracciare un ordine sottostante, poiché uni-
tario è lo spirito umano da cui le variazioni fenomeniche hanno
avuto origine.
Mediante il mito si può superare il livello della superficie
per cogliere le «leggi universali che reggono l’attività inconscia
dello spirito»349. Osserva infatti il celebre antropologo francese:
«non ci siamo resi abbastanza conto che lingua e cultura sono
due modalità parallele di un’attività più fondamentale: alludo,
qui, a quell’ospite presente fra noi, benché nessuno si sia sogna-
to di invitarlo alle nostre discussioni: lo spirito umano»350.
E’ questa dunque la funzione del mito secondo Lévi-
Strauss: «scoprire quelle leggi di funzionamento della mente
umana che consentano di comprendere a un tempo l’unitarietà
del genere umano e la molteplicità delle sue manifestazioni con-
crete»351 .
Dalla tradizione francese di Durkheim, Lévi-Strauss trae la
convinzione che i fenomeni culturali non siano espressione di
scelte individuali e consapevoli, ma il prodotto di un’attività col-
lettiva inconscia dello spirito umano. Sulla base di meccanismi
di funzionamento tipici della natura degli uomini, e dunque tra-
sversali e comuni a popolazioni e ad epoche storiche diverse,
un’azione inconscia collettiva avrebbe agito nei diversi popoli

349
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano 1980 (ed. originale
1958), p. 74.
350
Ivi, p. 87.
351
E. Comba, Introduzione a Lévi-Strauss, Bari, 2000, p. 29.

230
per organizzare i contenuti, dando luogo alle forme apparenti
della cultura.
Risalire alle strutture vuol dire allora ricostruire le categorie
universali, formali e inconsce del pensiero, in base alle quali
hanno preso corpo credenze, forme artistiche, religiose e orga-
nizzazioni sociali. Tali categorie si rivelano essere per lo più
principi di opposizione secondo una logica binaria, come al-
to/basso, destra/sinistra, crudo/cotto, dare/avere, e così via. Si
tratta di opposizioni puramente formali, cioè in sé vuote, prive
di contenuto, che vengono applicate dai vari popoli in modo dif-
ferente, ma sempre inconsapevolmente, per ordinare il mondo
naturale e sociale.
L’inconscio di Lévi-Strauss non è quindi un serbatoio di
contenuti, quale l’aveva inteso Freud, ma piuttosto la funzione
che impone delle regole alle attività mentali umane. Ne conse-
guono ordinamenti del mondo e sistemi culturali che, pur nella
loro diversità, non sono fra loro incomunicabili proprio perché
costruiti sulla base di dispositivi mentali universali.
Per tali ragioni lo studioso arriva a definire il mito «struttura
permanente dell’umanità»352. Il mito – come la musica – supera
l’antinomia fra tempo storico e struttura permanente: attraverso
di esso l’uomo accede a una specie di immortalità. Poiché il pas-
saggio dallo stadio naturale a quello culturale è sovente elabora-
to dalle società attraverso la creazione collettiva di un mito, la
scienza dei miti può illuminare le strutture profonde, universali
e atemporali che soggiacciono al pensiero umano.
Per Lévi-Strauss le opposte categorie di crudo e cotto, fre-
sco e putrido, bagnato e bruciato – al pari dei segni linguistici –
costituiscono sistemi simbolici rivelatori, grazie ai quali si pos-
sono restituire sul piano dell’intelligibile, e non soltanto del sen-
sibile, le funzioni necessarie alla comprensione e allo scambio
della verità.

352
Cfr. C. Levy-Strauss, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 2016.

231
Partendo dall’impostazione di Lévi-Strauss, possiamo so-
stenere quindi che il mito abbia la funzione di «sublimazione
delle tendenze antisociali»353 e che rappresenti anche lo «sfogo
delle emozioni degli individui in canali socialmente graditi»354.
In questo senso i miti relativi all’incesto, al parricidio, al figlici-
dio, all’uxoricidio esorcizzano le paure che gli stessi generano
nell’animo umano e ne favoriscono una corretta elaborazione sul
piano simbolico.
D’altronde questo tratto può ritenersi in un certo qual modo
presente anche nella catarsi aristotelica, che attraverso la subli-
mazione disloca le pulsioni distruttive sul piano simbolico.
Lévi-Strauss ci ricorda che i miti sono racconti che trascen-
dono la contingenza in cui nascono per divenire “struttura per-
manente dell’umanità”, con il compito di sottoporre il disordine
dell’istinto e della passione all’imperio della legge.
Il celebre antropologo e filosofo francese osserva che il mi-
to è una costruzione dell’immaginazione, nella quale bisogna
saper cogliere le componenti di ordine intellettuale o più in ge-
nerale le componenti che presiedono a una vera e propria orga-
nizzazione del mondo: esse si presentano come immagini, figu-
re, storie, ma vanno considerate come concrezioni di momenti e
di relazioni intellettuali generali.
Il mito rappresenta un punto di incontro tra sensibilità e in-
telletto, nel quale vedere un modo di prospettare la realtà, ma
anche di sopravanzarla, cioè di dominarla intellettualmente, su-
perando l’elemento naturale ed effettuando il passaggio al piano
della civiltà e della cultura.
Questa tensione tra natura e cultura è uno dei temi generali
di Lévi–Strauss, presente nel primo volume della Mitologica, Il

353
Clyde Kluckhohn «Myth and Ritual: General Theory – Harvard
Theological Review, 1942.
354
Ibidem.

232
crudo e il cotto355: il mito sembra situarsi nel punto di passaggio
dalla natura alla cultura, dal livello animale al livello umano, e
spesso sembra tradurre sul piano immaginativo i problemi che
risultano dalla necessità di questo passaggio.
Emblema del passaggio dalla natura alla cultura è
l’esperienza teatrale dei Greci, che ha una serie di valenze speci-
fiche, per cui la sua espressione estetica e artistica riveste glo-
balmente ogni aspetto dell’esistenza, rimandando a funzioni
connesse con i vari statuti della città che fu la sede unica del tea-
tro greco: Atene.
Il teatro (Θέατρον, da Θεάοµαι , Osservare) per i Greci ave-
va una funzione educativa, rintracciabile nella struttura politica
della Atene del V secolo a. C., grazie alla quale una comunità di
uomini liberi era partecipe e responsabile di ogni potere nel go-
verno delle città.
In questa autentica democrazia la rappresentazione teatrale
costituiva un’occasione esemplare di esperienza e di vita collet-
tiva, che l’organismo stesso del dramma rispecchia nella interre-
lazione in cui agiscono l’eroe (individuo) e il coro (la comunità).
Celebre è la definizione della tragedia offerta da Aristotele
nella Poetica, secondo cui essa «è l’imitazione di un’azione se-
ria e compiuta in se stessa, di una certa estensione, in un lin-
guaggio adorno di vari abbellimenti, applicati ciascuno a suo
luogo nelle diverse parti, rappresentata da personaggi che agi-
scono e non narrata; la quale mediante pietà e terrore, produce la
purificazione di siffatte passioni»356.
Nell’ottica aristotelica, dunque, il fenomeno della catarsi è
il risultato di un’esperienza tramite cui lo spettatore è alleviato
da un carico emozionale potenzialmente nocivo.
Il pubblico impara attraverso l’esperienza tragica degli eroi
della mitologia ad entrare in contatto con la dimensione

355
C. Lévy-Strauss, Il crudo e il cotto, tr. it A.
Bonomi, Il Saggiatore, Milano, 2008.
356
Aristotele, Poetica, a cura di G. Paduano, Bari, Laterza, 1998, p. 13.

233
dell’orribile e del terrificante; e questo avvicinarsi alla morte, al
senso di sventura e caducità dell’esistenza terrena, finisce con
l’assumere la funzione di quella morte livellatrice di agostiniana
memoria, che ricorda alle persone che non è possibile distingue-
re una tomba di un re da quella di un contadino e che dopo mi-
gliaia di anni rimane comunque solo polvere.
Ciò libera le menti dalla paura e si impara a guardare a fon-
do nell’abisso dell’inconscio. Nulla di più vicino alla moderna
visione della psicologia secondo cui il maggior successo nella
repressione della passioni si ottiene garantendo ad esse uno sfo-
go innocuo e controllato.
D’altra parte anche in Nietzsche357 il complesso rapporto tra
razionale e irrazionale, tra apollineo e dionisiaco, viene risolto
nel Sublime, inteso come “addomesticamento del terribile” e nel
Comico che è “sollievo artistico dal disgusto dell’assurdo”.
Tramite la visione di eventi terrificanti, o sragionati, come
Antigone che viene murata viva, o Eracle che si suicida gettan-
dosi sulla spada dopo aver brutalmente sterminato i suoi stessi
figli, o la tragedia nella casa di Atreo, il pubblico prova meno
sconforto e paura nei confronti di ciò che non è calcolabile e ra-
zionalizzabile e comprende quanto l’esistenza terrena sia cadu-
ca, mutevole e fortemente contingente.
Nel sogno, nella dimensione immaginifica, l’uomo vive le
esperienze quasi in presa diretta, è attore e spettatore allo stesso
tempo; nello spazio infinito dell’onirico l’uomo diventa quello
che Nietzsche definisce un «perfetto artista», perché capace di
spezzare il tempo della quotidianità e far svanire tutto ciò che
connota la coscienza ordinaria.
L’individuo, quando sogna, quando immagina, si trova in
una dimensione atemporale e utopica che eleva lo spirito e con-
sente di conoscere e dominare l’irrazionale.

357
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Mondadori, Milano 2003.

234
«La contemplazione, la bellezza e l'illusione circoscrivono
la sfera dell'arte apollinea: si tratta del mondo trasfigurato
dell'occhio, che crea artisticamente nel sogno, con le palpebre
abbassate. Anche la poesia epica vuol condurci a questo stato di
sogno: non dobbiamo veder nulla con gli occhi aperti e dobbia-
mo pascerci delle immagini interiori, alla cui produzione cerca
di stimolarci il rapsodo con i suoi concetti»358.

5.2. Il narcisismo, lo strazio, la furia e la sete di vendetta


in Medea.
La parola “Madre” – come ricorda Ivano Dionigi – è «me-
ravigliosa e terribile, consolatoria e incombente, familiare ed
estranea. Figura invocata e maledetta, generosa e possessiva, ne-
cessaria e rischiosa. Nome di tutti il più bello; e assoluto. Come
la vita. […] A colei-che-dà-la-vita non si cessa mai di chiedere,
senza avvedersi che un cono d’ombra minaccia costantemente la
luminosità dell’evento generativo. Madre significa non solo
doppia identità, ma anche identità perduta e vita sospesa; madre
significa non solo necessità ma anche disarmonia di due alterità;
madre significa non solo plusvalore affettivo e sintonia col
mondo, ma anche forma svuotata e solitudine. Una sorta di terri-
torio non protetto, di oltre che solo una donna può conoscere e
osare.
Stanno insieme desiderio e rifiuto, amore e odio di un fi-
glio: un’ambivalenza tutta a carico di questa “creatura creatri-
ce”, la quale testimonia e alimenta il deinon, il «tremendo e me-
raviglioso» di questa vita»359.
Il grande tema della Madre apre lo sguardo sulla multifor-
mità della figura femminile materna: la Madre idealizzata, che
trova il suo acme nella Vergine della cristianità, la Madre Terra,
358
F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, in G. Colli e M. Mon-
tinari (a cura di) La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al
1873, Adelphi, Milano, 1991.
359
I. Dionigi, Di tutti i nomi il più bello, in I. Dionigi (a cura di) Madre,
Madri, BUR Saggi, 2008, p. 7-9.

235
che apre e chiude il cerchio della vita, la Madre patria, quale
luogo della memoria e dei riti, la Madre lingua, quale luogo se-
greto di coltivazione dei pensieri, la Madre che accoglie e quella
che rifiuta, la Madre che genera e quella che uccide intrecciando
luce e buio. Ed è proprio quest’ultima figura, terrifica e spaven-
tosa, che incarna il personaggio di Medea: ella uccide i suoi figli
per vendetta contro Giasone. Per procurargli strazio finisce per
mutilare la parte più intima di se stessa.
Ma come può una madre dar vita e uccidere allo stesso tem-
po? Un interrogativo difficile, che si è posto all’uomo di ogni
tempo, come testimonia l’opera di Euripide dedicata a questo
tema.
Gli imperscrutabili sentieri dell’io, oggi campo di indagine
privilegiato della psicoanalisi, erano e sono i principali protago-
nisti della tragedia greca, nella quale – per usare le parole di
Bergman – «troviamo per la prima volta una descrizione vivida
e completa del conflitto intrapsichico»360 .
L’eroe tragico si trova sempre in una tremenda solitudine,
tormentato dall’angoscia dell’esclusione dalla comunità in cui
vive, dimidiato dal problema di dover scegliere tra due strade
che segneranno il suo destino e posto di fronte alla necessità di
agire. Il dilemma della scelta è simboleggiato dalla celebre e ri-
corrente domanda τί δράσω: «che cosa farò?», «che cosa posso
fare?», domanda che offre la scena al tema centrale delle trage-
die: l’incertezza sul da farsi che precede la decisione, a cui se-
guono ineluttabili la colpa e la rovina, il dolore folle e la dispe-
razione, che si scatenano di fronte all’errore di percezione del
protagonista, vinto dagli eventi prodotti dal suo agire e che non
sono quelli che avrebbe voluto.
A contraddistinguere l’essenza del tragico «non è
l’annientamento in sé, ma il fatto che la salvezza si trasformi in

360
Bergmann, Martin S., Anatomia dell’amore. Immagini, linguaggio,
malattia e storia di un sentimento universale. Traduzione di Gaspare Bona,
Torino, Einaudi, 1992, p. 50.

236
annientamento; la tragicità non si compie nel declino dell’eroe,
ma nel fatto che l’uomo soccomba proprio percorrendo quella
strada che ha imboccato per sottrarvisi»361.
Ad essere tragico non è dunque semplicemente il male, la
disgrazia, ma l’ignoranza/conoscenza dell’inevitabile trasgres-
sione dell’ordine stabilito e il constatare che l’oltrepassamento
del limite, della misura, è sempre fonte di rovina.
Nella tradizione greca, il carattere fatale della trasgressione
prende forma secondo due modalità: «da un lato abbiamo
l’ignoranza invincibile della trasgressione compiuta e l’azione
peccaminosa inconsapevolmente consumata. Dall’altro abbiamo
proprio l’acuta percezione della impossibilità di sottrarsi ad una
alternativa le cui scelte sono ugualmente orribili e disastrose»362.
Il male si presenta come ciò che l’eroe deve necessariamen-
te subire o compiere, ignaro o consapevole, nell’esercizio della
libertà. Nel primo caso la libertà distruttiva è determinata dalla
mancanza di conoscenza della verità, come accade a Edipo,
«l’uomo nobile che è destinato all’errore e alla miseria nono-
stante la sua saggezza»363; nel secondo caso gli esiti devastanti
della scelta sono connessi alla convinzione dell’eroe di dover
compiere un atto necessario, a cui egli crede di non potersi sot-
trarre e che solo a lui spetta. Questo è quanto avviene nella Me-
dea di Euripide, in cui la maternità è messa sotto accusa e giudi-
cata addirittura peggiore della guerra. Dice infatti la protagoni-
sta: «preferirei imbracciare le armi tre volte che partorire anche
una sola volta»364, rinfacciando – come Antigone – «alla legge e

361
P. Szondi, Saggio sul tragico, Traduzione di Gianluca Garelli, Tori-
no, Einaudi,1999, p. 79.
362
P. Sequeri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite. Milano,
Vita e Pensiero, 2002, p. 108.
363
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, op. cit., p. 65.
364
Euripide, Medea, vv. 250.

237
al potere un duplice abuso, politico e maschile. Insieme madre
di vita e madre di morte»365.
La vicenda, portata in scena nel 431 a.C. in occasione delle
Grandi Dionisie, è nota: «con il cuore sconvolto dall’amore per
Giasone» (ἔρωτι θυµὸν ἐκπλαγεῖσα Ἰάσονος,366 ), Medea lo ha
aiutato nella conquista del Vello d’oro ed è fuggita con lui in
Grecia tradendo la propria famiglia e la propria patria. Negato e
reciso ogni precedente affetto familiare anche attraverso il com-
pimento di crimini efferati, come l’uccisione di suo fratello
Aspirto e di Pelia, zio di Giasone, Medea raggiunge Corinto con
l’uomo che ama, è appagata, diviene madre di due figli ed è
«gradita ai cittadini»367.
A un certo punto nella trama di questa storia, come nella vi-
ta, tutto cambia: Medea viene abbandonata da Giasone che le
preferisce Glauce, figlia del Re Creonte, al fine di ottenere uno
status sociale più prestigioso; per tale ragione viene bandita dal-
la città perché temuta per le sue capacità strategiche e l’abilità
nelle arti magiche.
Il furor di Medea diviene allora straripante, non riesce a
sopportare il tradimento e l’abbandono da parte dell’uomo che
per lei rappresentava «tutto» e per il quale ogni cosa sentiva di
aver sacrificato. Perciò, dopo aver pianificato la sua vendetta ed
essersi garantita una sicura via di fuga, ella uccide i propri figli,
nella scellerata convinzione di non avere altra scelta, di trovarsi
di fronte al compimento di un atto necessario: «Fatti coraggio,
anima mia, che cosa aspetti a compiere questo gesto orrendo e
necessario?» (τί µέλλοµεν τὰ δεινὰ κἀναγκαῖα µὴ πράσσειν
κακά;)368.
Euripide, con magistrale raffinatezza, consente allo spettato-
re di cogliere che non vi è alcuna forza esterna che impone a
365
I. Dionigi, Di tutti i nomi il più bello, in I. Dionigi (a cura di) Madre,
Madri, op. cit., p. 8
366
Euripide, Medea, v.8.
367
Ivi, vv. 12-13.
368
Ivi, vv. 1242-43.

238
Medea di compiere il più insano e terribile dei gesti; la pervicace
convinzione della necessità di dover uccidere i suoi figli è un
moto totalmente interno della protagonista, dunque è in lei, nel
suo animo, che si compie la tragedia. Il dissidio non avviene a
causa di un demone esterno a Medea, ma si snoda tra due impul-
si che coesistono nella sua psychè.
Infatti, Dodds, nell’analizzare le trame euripidee, sottolinea
che in esse: «il mondo demoniaco si è ritirato, lasciando soli gli
uomini con le loro passioni. È questo che rende così dolorosa-
mente commoventi i casi patologici studiati da Euripide: egli
mostra uomini e donne che affrontano inermi il mistero del ma-
le, non più cosa estranea che aggredisce dall’esterno la loro ra-
gione, ma parte dell’essere loro, ἦθος ἀνθρώπῳ δαίµων.»369.
Il conflitto tragico di Medea è rappresentato da due forze:
θυµός e βούλευµα, parti in lotta di un contrasto che avviene tutto
a livello interno, nell’animo della protagonista, e che trova piena
espressione in quello che la tradizione filologica è solita definire
il “grande monologo di Medea”370
Il daimon che abita all’interno dell’animo di Medea è il
simbolo della parte ingovernabile, irrazionale dell’uomo, che si
manifesta nella furia cieca, e nella hybris portatrice di disgrazie
e spinta propulsiva di azioni funeste. Medea vive dentro di sé il
conflitto di queste due forze: Êthos-daímōn ed è «in questa di-
stanza che si costituisce l’uomo tragico. Si provi a sopprimere
uno dei due termini, ed egli scompare»371, come pure aveva sen-
tenziato Goethe.
Attraverso Medea, Euripide vuole dimostrare cosa accade
quando l’essere umano oltrepassa i confini di se stesso, oscillan-
do tra il suo essere superiore e quello inferiore, tra pulsione e

369
E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, op. cit., p. 236.
370
Euripide, Medea, vv. 1021- 80.
371
J.P. Vernant, P.Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia. La
tragedia come fenomeno sociale estetico e psicologico. Traduzione di Mario
Rettori, Torino, Einaudi, 1976, p. 18.

239
strategia, che pure a un certo punto paiono compenetrarsi e con-
fondersi.
Ma cosa spinge Medea all’oltrepassamento di se stessa?
Qual è il suo reale desiderio? E soprattutto in che modo affronta
questo dolente conflitto intimo e il suo disordine dell’anima?
Dopo l’abbandono di Giasone è inconsolabile e, da una par-
te, tende a riconoscersi nella moglie ferita a cui spetta un destino
di desolazione, immobilizzata in un silente ripiegamento su se
stessa, come dice la sua nutrice: «non alza gli occhi, non solleva
il volto da terra. Come scoglio, come onda del mare, è sorda ai
consigli degli amici. A volte, piegando il collo candido, tra sé e
sé piange suo padre, la sua terra e la casa, tutto ciò che ha tradito
per seguire un uomo che oggi la disonora»372; mentre dall’altra
sente di non voler corrispondere a questa immagine di sé, la ri-
fiuta, recuperando la pervicace volontà di corrispondere alla
donna invincibile che aveva reso possibile la conquista del Vello
d’oro.
Così inizia a formulare strategie, pianifica modalità di rea-
lizzazione dei suoi propositi di vendetta e sente di poter soddi-
sfare la sua spinta autorealizzativa mediante l’atroce scelta dei
sacrificio dei suoi stessi figli. Ma è su tale mortifera e malintesa
idea di scelta superiore e necessaria che Medea finirà con
l’infrangersi: la sua distruzione è figlia del suo desiderio. Questo
è il paradosso di Medea che Euripide ha consegnato all’uomo di
ogni tempo.
L’ossessiva convinzione della donna di voler rimanere fede-
le al proprio desiderio, l’incapacità di gestire con ethos il volere
del Fato, si tramuterà nell’annientamento di una parte di se stes-
sa, quella rappresentata dalla sua identità materna.
Nel reagire all’abbandono Medea fa leva sulla rabbia, tanto
che invoca Themis, incarnazione della giustizia, come testimone
del torto subito: «O grande Temi e tu, divina Artemide, vedete

372
Euripide, Medea, vv. 30-33.

240
quel che soffro. Avevo legato a me con giuramenti solenni
quest’uomo maledetto: vorrei vederlo annientato, lui, sua mo-
glie, con la casa intera, loro che per primi osarono recarmi offe-
sa»373
E’ chiaro, a questo punto, che la vera spinta propulsiva
all’oltrepassamento del limite sia da rintracciarsi nella ferita
narcisistica conseguente all’abbandono da parte dell’amato.
Inserire qui riferimento a Christopher Lash.
Richiamando le istanze freudiane presenti nel celebre testo
Psicologia delle masse e analisi dell’io374, sembra che Medea,
dopo essersi proiettata in maniera esclusiva nell’amore per Gia-
sone e avergli dedicato la sua intera esistenza, una volta speri-
mentato il tradimento da parte dell’oggetto della sua totale pas-
sione, operi un processo inverso, una vera e propria forma di di-
sinvestimento che orienta narcisisticamente su se stessa e sui
suoi propositi di vendetta perseguiti con lucidità ed ossessione
maniacale.
Perso l’oggetto d’amore, Medea entra in uno stato di pro-
fonda melanconia, che Euripide scolpisce nelle frasi in cui ella
invoca la morte: «Perché, perché non mi colpisce il fulmine ce-
leste? Quale senso ha per me vivere ancora? Vorrei lasciare que-
sta vita odiosa, vorrei dissolvermi nella morte»375. Ferita dalla
perdita di Giasone reagisce con un’aggressività che è espressio-
ne di un narcisismo non simbolizzato, corrispondente a una pul-
sione di morte che disgrega l’anima.
«L’aggressività si oppone alla mediazione offerta dal Sim-
bolico. Dove essa domina non può esservi dialogo; nell’ingiuria
la parola non può situarsi in una dialettica simbolica, fatta di
domande e di risposte, di desiderio di riconoscimento e di rico-
noscimento del desiderio. «Nell’ingiuria non c’è mediazione

373
Ivi, vv. 160-163.
374
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, Traduzione di S.
Daniele, E.A. Panaitescu, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.
375
Euripide, Medea, vv. 144-147.

241
simbolica tra il soggetto e l’Altro, ma solo l’imposizione, diret-
tamente nel reale, della voce superegoica, le cui intenzioni ag-
gressive sono apertamente manifeste e nell’impossibilità di esse-
re filtrate dall’azione simbolica del dialogo»376.
La spinta narcisistica è ben chiara a Euripide che attraverso
Medea mette in scena il furor di chi non controlla più i suoi im-
pulsi non sopportando l’idea di essere ritenuto debole, perdente,
umiliato e deriso, secondo i canoni della «civiltà della vergo-
gna»377.
Nulla di più vicino al narcisismo diffuso nel mondo con-
temporaneo, come aveva intuito più di quarant’anni fa Christo-
pher Lash.
Egli, ne “La cultura del naricismo”378, passando attraverso
l’analisi psicologica, sociologica, letteraria e filosofica, trat-
teggia la fisionomia dell’uomo della post-modernità. Una fi-
sionomia corrispondente a quella del narcisista, inteso non so-
lo come soggetto egoico che interpreta il mondo come spec-
chio dell'Io, ma anche come essere perseguitato dall'ansia e
tutt'altro che pago di sé. Il narcisista di Lash esige una gratifi-
cazione immediata e vive in uno stato di inquietudine e di in-
soddisfazione perenne, che lo porta a perdere ogni forma di
solidarietà e a vedere nell’altro solo un rivale con cui compe-
tere.
E in questo tempo senza tempo che unisce il narcisista di
Lash a Medea, si consuma l’esperienza tragica del solipsismo.
Quando Medea si determina ad ascoltare l’altra se stessa, perde
qualsiasi contatto con l’alterità e, consumandosi nell’io, si esorta
anzitutto a essere Medea, «colei che medita e trama»

376
M. Recalcati, Sull’odio, Milano, Mondadori, 2004, p. 120.
377
E. Dodds, I greci e l’irrazionale, op cit. «il bene supremo dell’uomo
omerico non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, sta nel possesso
della tīmē, la pubblica stima», p. 59.
378
C. Lash, La cultura del narcisismo. L'individuo in fuga dal sociale in
un'età di disillusioni collettive, tr. it. M. Bocconcelli (a cura di), Neri Pozza,
Milano-Vicenza, 2020.

242
(βουλεύουσα καὶ τεχνωµένη)379, usa la seconda persona per me-
glio rappresentare alla sua mente l’ingiustizia subita, a fronte
della quale deve trovare applicazione il principio etico secondo
cui bisogna fare bene agli amici e male ai nemici. Non manca di
ricordare a se stessa anche le sue origini nobili, addirittura divi-
ne: suo padre Eeta era figlio del Sole e questa è forse
l’espressione più chiara del tratto narcisistico della protagonista
e del dolore generato dal suo straripare.
Così l’orgoglio ferito la spinge a oltrepassare, a varcare i
confini di se stessa. Dopo aver oscillato tra pulsioni e strategie,
lucide pianificazioni e ripensamenti, Medea riscopre le sue ri-
sorse, i suoi poteri, la sua capacità persuasiva che le fa guada-
gnare un giorno di permanenza a Corinto nel dialogo con Creon-
te, la sua capacità dialettica, il logos, che usa astutamente ora
per blandire ora per colpire verbalmente l’avversario, come an-
che per autoconvincersi della necessità della sua vendetta.
Il desiderio di negare a Giasone la discendenza e punirlo nel
modo peggiore per il torto subito ha ormai preso il sopravvento,
Medea sa che uccidere i propri figli significa uccidere il padre,
uccidere il legame più profondo con Giasone, che, per contro,
deve divenire a lei totalmente estraneo.
Con questo gesto estremo Medea si allontana definitiva-
mente dalla sua vita precedente e – senza considerare la mo-
struosità del gesto e il male che a lei stessa procurerà – cede al
desiderio narcisistico di farsi altra dalla donna che aveva amato
Giasone, altra dalla madre dei suoi figli. E così – nel suo animo
imbrigliato nell’orgoglio ferito e dominato dalla hybris – il cuo-
re materno si è «fatto di pietra».
Molteplici sono le letture di questo dramma, che possiamo
considerare rivoluzionario per l’Atene del V secolo.
Euripide, nella sua straordinaria modernità, provoca il pub-
blico ateniese di quel tempo facendo pronunciare a Medea il ce-

379
Euripide, Medea, v. 402.

243
lebre discorso alle donne, in cui si ravvisa la più ferma protesta
contro la condizione femminile in Grecia. Sottoposte a limiti e
condizionamenti da una società controllata e gestita solo dagli
uomini, le donne erano lontane da ogni relazione sociale, chiuse
nelle pareti domestiche e destinate esclusivamente ad assicurare
una discendenza ai loro mariti.
La forza dirompente di Medea denuncia la discriminazione
subita dalle donne a causa di un impianto legislativo e culturale
radicato, e «in uno sforzo estremo di autoriflessione ella arriva a
vedere il suo caso come la manifestazione di un disagio che in-
veste più generalmente la società del suo tempo»380. Euripide
attraverso di lei fa una denuncia amara sul trattamento discrimi-
natorio subito dalle donne e dagli stranieri non cittadini ateniesi.
Il matrimonio viene presentato nella sua dimensione con-
trattuale, come una sorta di mercato dove la dote costituisce la
condizione perché la donna possa «comprarsi» un marito»381, a
cui si sottopone per il resto della vita e da cui non può separarsi
senza incorrere nel biasimo sociale. Quando il matrimonio va
male, «allora è meglio morire»382.
Nel suo j’accuse, Medea si appropria di prerogative stori-
camente e unicamente maschili: la competenza intellettuale e la
conoscenza delle circostanze storiche, come ad esempio quella
per cui i figli nati da donne straniere erano destinati ad essere
esclusi dal corpo civico di Atene, tanto che gli Ateniesi che vo-
levano avere una discendenza legittima e assicurare ai propri fi-
gli il pieno godimento dei diritti civili dovevano unirsi in matri-
monio solo con donne ateniesi, sciogliendo gli eventuali matri-
moni contratti in precedenza.

380
Euripide, Medea. Introduzione e premessa di Vincenzo Di Benedet-
to. Traduzione e appendice metrica di E. Cerbo, Milano BUR Rizzoli, 1997,
Introduzione, p. 15.
381
Euripide, Medea, v. 233.
382
Ivi, v. 243

244
L’accusa di Medea colpisce con assoluta determinazione il
cuore dell’istituto matrimoniale greco, basato sul carattere con-
trattuale del vincolo e sulla primazia maschile.
L’eroina euripidea denuncia la disparità tra i sessi biasi-
mando le disposizioni sulla dote, osservando che lo sposo divie-
ne non solo amministratore del patrimonio della moglie, ma an-
che padrone del suo stesso corpo383 e – soprattutto – sottoli-
neando che il divorzio è disdicevole per la donna ma non per
l’uomo, a cui pure sono consentite “legittime” evasioni a fronte
della clausura imposta alle donne.
A ben vedere, fin dall’inizio, nel testo di Euripide il riferi-
mento alla Grande Madre e al femminino sacro non è nascosto:
non si tratta di femminismo ante litteram da intendersi come ri-
vendicazione dei diritti delle donne (diritti che, nell’Atene del V
secolo, erano assurdità inconcepibili), ma è piuttosto la ribellio-
ne contro il patriarcato razionalista, contro le leggi degli uomini
che hanno avvinto la forza primordiale del femminino sacro e
della legge naturale.
Allo stesso modo, il tronfio relativista Giasone, convinto
che la propria eloquenza basti addirittura a convincere Medea
della bontà del suo operato, non si rende conto che, se quello
che ha fatto è accettabile secondo le leggi storiche, non lo è se-
condo le leggi naturali. Il suo tradimento è assoluto, benché la
sua parola abbia tutte le argomentazioni logiche per dimostrare
il contrario.
«Se Medea espone lo statuto del matrimonio, Giasone ne
motiva il tramonto: in verità non propriamente di un matrimonio
si tratta ma di un’unione, perché il loro giuramento/vincolo è
stretto non dalle leggi scritte del diritto attico ma dalle leggi non
scritte di Dike e Zeus chiamati a testimoni delle nozze.
A Medea che gli ricorda aiuto, sacrifici e amore del passa-
to, e che si vede crollare il mondo addosso, Giasone risponde

383
Ivi, vv. 233.

245
con l’indifferenza di un estraneo, col calcolo di chi ha le spalle
al sicuro, col cinismo di chi ha già una soluzione di riserva, sca-
vando così una divaricazione interiore in quella disparità istitu-
zionalizzata dei sessi. Infatti a Medea rinfaccia di avere avuto
più di quanto ella gli abbia dato: da barbara, da una condizione
di mancanza di leggi (anomia) è divenuta integrata in una città
regolata dalle leggi (nomoi); da sconosciuta, celebre; quanto ai
figli poi – fuoriusciti da un matrimonio “misto” (e quindi con di-
ritti limitati) e inseriti nel nuovo matrimonio paritario – essi go-
dranno di diritti pieni e degli stessi vantaggi dei loro nuovi fra-
telli»384.
È su tali postulati che Euripide fonda la vendetta di Medea:
nessuna legge umana, nessun discorso ben organizzato potrà mai
arginare la rabbia e l’onta che l’agire di Giasone le ha recato,
forte di un sistema che non concede nulla a chiunque rappresenti
il diverso.
Così Medea, diversa per eccellenza, perché donna e perché
straniera, compie delitti imperdonabili, visto che ormai il perdo-
no degli uomini o l’assoluzione delle loro leggi riguardano una
civiltà cui ella ha scelto di non appartenere più e a cui forse non
è mai appartenuta davvero.
Uccidere la principessa e il re di Corinto, ma soprattutto as-
sassinare i propri figli significa stracciare ogni convenzione, di-
struggere il tessuto sociale. Sulle macerie si innalza la maga del-
la Colchide, come una sorta di Grande Madre che con il sangue
ha rivendicato un’assolutezza che pertiene solo a lei. È Medea
stessa che appare trionfante alla fine della tragedia, dentro il car-
ro del Sole che la rende intoccabile da mano umana e a Giasone
non resta che abbandonarsi, come suo solito, a fiumi di parole,
ormai del tutto vane.
La transitorietà e la necessità della morte sono parte impre-
scindibile del potere matriarcale, oscuro complemento alla capa-
384
I. Dionigi, Mater terribilis, n I. Dionigi (a cura di) Madre, Madri,
op. cit., p.41.

246
cità creatrice della donna e Giasone non ha strumenti per modi-
ficare questa realtà.
L’ultimo scambio di battute tra gli ex-coniugi avviene alla
luce di una totale incomprensione. I due si parlano da due mondi
diversi. E mentre Giasone trova inconcepibile che Medea abbia
fatto tanto solo per un suo nuovo matrimonio, Medea ribalta tut-
to il suo sistema di valori in un’ottica matriarcale: una donna
non è poco, al contrario di quello che pensa Giasone (σµικρὸν
γυναικὶ πῆµα τοῦτ᾽ εἶναι δοκεῖς).
Euripide, infrangendo il dogma della maternità in un mo-
mento storico in cui era impensabile farlo, ha stigmatizzato la
cultura patriarcale e la sua idea del materno quale destino inelut-
tabile delle donne, o addirittura quale atto catartico rispetto ai
profili peccaminosi della femminilità.
Il tragediografo greco aveva intuito quali insidie terribili si
possano celare nel tentativo di addomesticamento e civilizzazio-
ne delle donne (tutte altre, tutte straniere) praticato attraverso la
maternità concepita come riscatto dal subalterno.
Medea, dal punto vista meramente metaforico e secondo il
telos pedagogico della tragedia greca, capovolge traumaticamen-
te la rappresentazione patriarcale della madre: uccidendo spieta-
tamente i suoi figli ella mostra che non è la madre del sacrificio
che annienta la donna, ma è la donna che rivendica la sua asso-
luta alterità di fronte alla madre.
Il carattere barbaro, indomabile, straniero e selvaggio di
Medea incarna in modo radicale l'eteros della donna che non si
piega alle convenzioni e ai ragionamenti utilitaristici. Ella ci ri-
corda, come scrive Euripide, che «quando una donna viene offe-
sa nel suo letto, non c'è altra mente che sia più sanguinaria».
Giasone non ha alcuna idea di cosa possa essere una donna,
il suo ragionamento esclude la hybris dell'amore femminile.
Giasone vuole civilizzare Medea. Così come i greci intendono
civilizzare gli stranieri in un’ottica etnocentrica, egli vuole a tut-
ti i costi mostrare che l'amore è solo un buono o un cattivo affa-

247
re. La sua mentalità è sterilmente borghese; vorrebbe sostituire
alla passione dell'amore la pianificazione lucida proponendo alla
moglie di rinunciare al suo essere donna, alla passione,
all’autenticità del legame d’amore, per assicurare ai suoi figli un
avvenire meno incerto.
Per lui il legame d'amore è semplicemente un contratto fra
gli altri. Mentre in lei prevale l’essere, in lui solo il cinismo
dell’avere, ma ciò si rivela fatale perché Medea dichiara peren-
toria: «Non voglio una vita felice che mi faccia soffrire né una
prosperità che mi tormenti l'animo». Medea rifiuta il destino
borghese promessole dal pragmatismo ottuso del suo uomo che
per lei è anzi imperdonabile, tanto da far prevalere la sua parte
malvagia, quella che agisce con «cuore di pietra» e con «la forza
del ferro», cancellando traumaticamente la madre con
l’insensatezza della hybris della donna.
Ecco perché per Ivano Dionigi, nel volume miscellaneo de-
dicato al tema delle madri385, Medea è la “Mater terribilis” e
nello stesso tempo è la mater infinita, per la forza dirompente e
per la vasta ricaduta che il suo personaggio ha avuto nei secoli.
Da Euripide a Pasolini, molti sono gli autori che ne hanno subito
il fascino misto di sgomento e pietas, orrore e compassione.
Euripide ha disvelato i segreti più oscuri e profondi del cuo-
re femminile e ha intuito una verità a lungo rimossa e oggi ri-
considerata con terrore e spavento. Ogni donna è una straniera
che viene da lontano. Ogni madre può essere Medea.

5.3. I legami di sangue, il furor fratricida e il dolore di


Antigone.
Le fraternità della storia sono spesso intrise di rivalità, di
violenza, di esclusione, di preferenza, di fratricidio, non sono
mai del tutto ciò cui aspirano e ciò che dicono di essere; e i miti

385
Ibidem.

248
distorti della fraternità ne mandano in onda un'immagine ideolo-
gica, falsificata, e per ciò stesso minacciosa e violenta.
L'implosione tra miti e fraternità è evidente in un senso e
nell'altro. Nei modi con cui la fraternità s'incarna nella vita col-
lettiva si alternano di continuo le fraternità di sangue con i loro
risvolti da branco, le fraternità comunitarie e tribali condannate
a escludere per includere e le fraternità universali così poco con-
crete, così pronte al generico e all'anonimato. Succede lo stesso
nelle versioni religiose della «fraternità del padre» che fa tutti
fratelli senza guardarsi in faccia o in quelle giuridico-
rivoluzionarie dei diritti proclamati in astratto. Anche le fraterni-
tà della giustizia sono incerte sul loro principio, volubili nei patti
e nei contratti poco definiti e troppo spesso smentiti.
Si prendano sull'altro versante i miti antichi dell'origine della
convivenza umana con la coppia di fratelli (come Caino e Abele
o Romolo e Remo) che mandano in scena lo scontro diretto e
mortale nella fondazione di una città. Quasi a voler dire che la
convivenza umana nasce nel fratricidio esplicito come nei miti
dei fratelli o dissimulato nelle vicende quotidiane di dolore e
d'ingiustizia.
Nell'implosione tra miti e fraternità tutto resta incompiuto. Met-
tendo il fratricidio all'origine della convivenza non è per nulla
chiaro cosa i miti intendano dire. Che non c'è convivenza senza
violenza? Che la fraternità di sangue non è la vera fraternità?
Che solo la convivenza rende possibile la fraternità in senso
umano? I miti sono incompiuti come è incompiuta la fraternità.
Nella lettura dei miti non è facile decidere se deve prevalere lo
sconforto, quasi fossero delle fotografie impietose di esperienze
fallimentari di fraternità, o invece il senso di una forte denuncia
perché non c'è abbastanza condivisione nella città, non c'è vera
fraternità. Denuncia soprattutto che non c'è fraternità senza re-
sponsabilità per l'altro come non c'è responsabilità senza frater-
nità. E’ forse questa la denuncia contenuta nell’Antigone di So-
focle? Un’opera che si snoda sulla dialettica degli opposti: amo-

249
re fraterno e fratricidio, legami di sangue indissolubili dissolti
dal conflitto o dalla morte, fede ed empietà, morale soggettiva e
ordine costituito.
Antigone incarna esattamente la metafora dell’eterno con-
flitto tra norma e legge: figlia incestuosa di Edipo e Giocasta,
“nata contro”, ella si presenta come la sintesi tragica del dolore
generato dal richiamo incondizionato dei legami familiari e dal
sangue.
La vicenda di Antigone inizia in una Tebe devastata dalla
morte di Edipo e appena liberata dall’attacco dei sette principi
argivi.
Nell’assedio erano morti i due fratelli dell’eroina di Sofocle,
l’uno per mano dell’altro. Eteocle nel tentativo di difendere la
patria, Polinice in quello opposto di espugnare la polis.
Il nuovo signore della città, Creonte, fratello di Giocasta,
emana un editto che vieta di seppellire Polinice, accusato di tra-
dimento della Patria. Antigone è decisa a trasgredire quello che
lei percepisce solo come l'ordine di Creonte, il
κήρυγµα, perché sente di dover rispettare, per contro, le
leggi non scritte sui doveri familiari, leggi supreme perché pree-
sistono all’uomo e hanno origine divina; mentre Ismene, pur so-
rella di Antigone e Polinice, rifiuta di andare
contro la polis e contro l’editto di Creonte, addolorata e
consapevole del destino di morte che avrebbe travolto Antigone.
Infatti, una volta scoperta, la fanciulla non può sottrarsi alla
condanna fatale
comminata dal principe di Tebe, che antepone il rispetto
della legge al suo stesso sangue. È disposto a sacrificare la vita
di Antigone, figlia di sua sorella, e finanche a lasciare inascolta-
to il pianto disperato di suo figlio Emone, promesso sposo di
Antigone.
Solo le profezie di Tiresia incrinano la forza della legge e
l’umano timore dei mali preconizzati dal vaticinio spingono
Creonte a cancellare la sentenza, ma è ormai troppo tardi: Anti-

250
gone si è impiccata, Emone si è ucciso per amore di lei, ed Euri-
dice, moglie di Creonte, si è suicidata per il dolore della perdita
del figlio.
Antigone è il testo fondativo dell’intera civiltà giuridica oc-
cidentale, tanto che in esso Martin Heidegger scorgeva la pre-
monizione del suo sorgere e del suo declinare. Non a caso que-
sto, tra i drammi sofoclei, è ritenuto l’opera perfetta, definita da
Hegel «una delle opere d'arte più eccelse e per ogni riguardo più
perfette di tutti i tempi. Tutto in questa tragedia è conseguente;
la legge pubblica dello Stato è in aperto conflitto con l'intimo
amore familiare ed il dovere verso il fratello… […]. Polinice,
combattendo contro la propria città natale, era caduto di fronte
alle porte di Tebe; Creonte, il sovrano, minaccia di morte, con
una legge pubblicamente bandita, chiunque dia l'onore della se-
poltura a quel nemico della città.
Ma di quest'ordine che riguarda solo il bene pubblico dello
Stato, Antigone non si cura, e come sorella adempie al sacro do-
vere della sepoltura, per la pietà del suo amore per il fratello. El-
la invoca in tal caso la legge degli dèi; ma gli dèi che onora sono
gli dèi inferi dell'Ade, quelli interni del sentimento, dell'amore
del sangue, non gli dèi della luce, della libera ed autocosciente
vita statale e popolare»386.
Le categorie dialettiche e le opposizioni della mirabile tra-
gedia sofoclea, che lega pubblico e privato, vivere sociale e vi-
sioni dell’ordine statuale, vengono messe in luce in maniera
poetica e vibrante ne Le Antigoni di George Steiner, dal quale
emerge l’attualità di una vicenda lunga tremila anni.
Le Antigoni387, nel buio assoluto della tomba che racchiude
Antigone, è un testo che elabora il tempo del mito greco e di
molti altri miti. Antigone, figura umana,

386
G.W.F. Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1977, p. 522, trad. di N.
Merker.
387
G. Steiner, Le Antigoni, (tit. or. Antigones, 1984), trad. di Nicoletta
Marini, Milano, Garzanti Editore, 1990, II ed. 2003, 2011.

251
appartiene a una dimensione universale e la sua vita-morte
sono eterne. La sepolta viva Antigone e le sue leggi di umanità-
umanesimo contrastano la parvente crudeltà di Creonte e del be-
ne supremo della polis, l’assolutismo del divino e la sua traspo-
sizione in inique leggi terrene, consentendo di osservare come il
dramma di Sofocle si riproponga continuamente in diverse geo-
grafie del mondo.
Antigone – come sostiene – Roberto Nicolai, è la “tragedia
della duplicità”, poiché tutta la vicenda si dipana sul tema dei
rapporti duplici e speculari: i due fratelli, Eteocle e Polinice, si
affrontano in duello e si uccidono, le due sorelle, Antigone e
Ismene, ripropongono sul piano dialogico lo scontro. Sullo
sfondo di tale duplicità, si situa l’opposizione della protagonista
al divieto di sepoltura inflitto al fratello Polinice, quasi a voler
rendere centrale il tema del conflitto tra coppie antitetiche, le
quali «si rispecchiano in un altro che è insieme uguale e oppo-
sto. I fratelli sono dello stesso sangue […] ma fanno scelte op-
poste»388.
Il duello mortale di Eteocle e Polinice si riflette nel dialogo
tra Antigone e Creonte che avviene sullo sfondo di una Tebe ba-
gnata dal sangue fratricida e incapace di riconciliarsi con l’altro,
col diverso, col nemico, con chiunque rappresenti il proprio op-
posto.
Anche Antigone opera il medesimo meccanismo di disco-
noscimento dell’altro e lo fa con proprio con sua sorella Ismene:
«la coppia sororale modellata inizialmente sulla coppia fraterna
Eteocle-Polinice dei Sette, si scinde»389; una divisione ideologi-
ca trasfusa anche nelle scelte lessicali fatte da Sofocle, che passa

388
R. Nicolai, Antigone allo specchio, in A.M. Belardinelli e G. Greco
(a cura di) Antigone e le Antigoni. Storia forme fortuna di un mito, Milano,
Mondadori, 2010, p. 187.
389
2 L. Bruzzese, Dai Sette contro Tebe di Eschilo all'Antigone di Sofo-
cle: la dualità nel mito dei Labdacidi, in in A.M. Belardinelli e G. Greco (a
cura di) Antigone e le Antigoni. Storia forme fortuna di un mito, op. cit., p.
207.

252
dal duale del prologo, alla chiara distinzione “io- tu” nei dialo-
ghi tra Antigone e Ismene dopo il rifiuto di quest’ultima di vio-
lare l’editto di Creonte.
«Tu hai scelto di vivere, io di morire»390, questa la sentenza
lapidaria di Antigone che segna la distanza da sua sorella, ormai
altra, aliena al suo cuore.
Allora è l’incapacità di accettare l’altro, il suo essere, la sua
natura e la sua diversità che si pone all’origine del fratricidio, sia
esso fisico, sia esso vissuto in forma di disconoscimento
dell’altro. Sofocle fa osservare all’occhio più attento che vi è più
di un parallelismo tra queste due coppie di fratelli: come Eteocle
e Polinice, sul campo di battaglia, dimenticano il legame di san-
gue e si fanno nemici; così Antigone, che rivendica con fermez-
za e coraggio la riconciliazione familiare, estranea a qualunque
distinzione di carattere politico, cancella il legame di sangue con
Ismene.
Forse la profondità del pensiero sofocleo è giunta a mettere
in discussione il significato di questo modo radicale di interpre-
tare l’altro. Una radicalità che, d’altronde, trova una forte testi-
monianza nel concetto di stasis, termine con il quale nel mondo
classico si indica la guerra civile combattuta all’interno di una
stessa comunità politica tra fratelli e concittadini.
Secondo Agamben «la “stasis” greca rappresenta la tensio-
ne irrisolta tra due appartenenze: alla famiglia e alla città»391 e
questa affermazione trova conferma nelle Leggi di Platone in cui
si dice che: «Il fratello che, in una guerra civile, uccide in com-
battimento il fratello, sarà considerato puro come se avesse ucci-
so un nemico».
Ciò che colpisce della stasis greca è che la guerra civile as-
simili il fratello al nemico. Tale assimilazione comporta che sta-
390
Sofocle, Antigone, v. 555.
391
G. Agamben, Stasis la guerra civile come paradigma politico, Homo
Sacer, II, 2, Bollati Boringhieri, Torino, 2019.

253
re nella fazione avversa si traduce nell’annientamento dei lega-
mi più profondi: chi è contro la polis è da ritenersi un nemico a
prescindere dai legami di sangue, come sembrerebbe emergere
dal conflitto che si insinua nelle due coppie di fratelli dell’opera
sofoclea.
La stasis dunque si situa tra la famiglia e la città, fra
l’oikos e la polis. La «guerra familiare» - per dirla con Platone -
investe tragicamente la città perché non viene dall’esterno, ma
nasce dai legami di parentela. Questo vuol dire che l’ordine poli-
tico della città è costantemente minacciato dall’interno, dalla di-
scordia tra fratelli, dall’incapacità di accogliere la differenza.
Agamben, però, non accetta di vedere nella guerra civile un
semplice segreto di famiglia, altrimenti non potrebbe assumere
rilevanza politica e così - nel saggio sopra richiamato - la sposta
sulla soglia tra oikos e polis.
Ciò che emerge dalla trama dell’Antigone, dalla stasis, dagli
scritti platonici è che quando la discordia si scatena, il fratello
uccide il fratello come se fosse un nemico, senza più distinguere
l’intimo e l’estraneo, il dentro e il fuori, la casa e la città, la pa-
rentela di sangue e la cittadinanza. In tal modo «il legame politi-
co si trasferisce all’interno della casa nella stessa misura in cui il
vincolo familiare si estranea in fazione»392.
Per Agamben la forma che la guerra civile ha assunto oggi è
il terrorismo. Proprio quando la città prende le sembianze rassi-
curanti della famiglia, la «casa Europa» o «il mondo come asso-
luto spazio della gestione economica globale», la guerra civile
diventa il paradigma di ogni conflitto e assume la figura del ter-
rore.
La guerra civile sembra essersi diffusa ovunque negli ultimi
anni, persino entro i confini europei. Il che conferma una delle
grandi intuizioni di Carl Schmitt, formulata in un testo pubblica-
to a Berlino all’inizio degli anni Sessanta e intitolato Teoria del

392
Ibidem.

254
partigiano 393, secondo cui si è creato un nuovo ordine mondiale
nel quale è in crisi il reciproco riconoscimento fra gli Stati so-
vrani e perciò la guerra non è più né circoscritta né regolamenta-
ta.
Il nuovo «nomos della terra», la nuova politica dello spazio,
deve considerare questo mutamento epocale, in cui il duello fra
gli Stati viene sostituito dalla guerra senza limiti e senza regole,
una guerra che criminalizza il nemico fino a volerne
l’annientamento.
Schmitt ha intuito i pericoli di questo mutamento in cui che
si nascondono nelle pieghe della contrapposizione radicale ami-
co-nemico, che ha fatto dell’ostilità assoluta un fenomeno globa-
le.
La globalizzazione è anche allargamento del terreno di
scontro, nell’epoca del terrore la guerra si diffonde a dismisura,
non ha più frontiere. Gli eventi bellici si moltiplicano, realizzan-
dosi in spazi e tempi differenti, perché saltano i confini fra mili-
tare e civile, esterno e interno, criminale e nemico.
La minaccia che incombe sul mondo intero, ancora troppo
diviso in fazioni che non comunicano tra loro, ricorda quel di-
sconoscimento del fratello proprio della stasis greca, in cui
l’essere da una parte o dall’altra implica, oggi come allora, la
reazione violenta dell’annientamento, del disconoscimento da
punire con la morte.
É come se la guerra civile si fosse allargata a dismisura e
spostata su scala mondiale, dividendo il mondo in gruppi rivali,
all’interno dei quali cresce l’odio verso l’altro, verso il fratello
che cessa di essere tale quando si trova dalla parte sbagliata.

393
C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del poli-
tico, Traduzione di Antonio De Martinis, Piccola Biblioteca Adelphi, 2005,
4ª ediz.

255
Certamente la fraternità è difficile, è minacciata fin dal suo
nascere, è una realtà costitutiva, che biologicamente non sce-
gliamo, ma è tutta da costruire e da vivere, giorno dopo gior-
no.con fatica e alle volte anche con dolore.
Ricorda Recalcati che «Se si vuole pensare seriamente il
problema della fratellanza, non si deve dimenticare l’unione
perversa che lega tra loro il destino di Caino e quello (fatalmente
suicidario) di Narciso. La matrice dell’odio invidioso è, al suo
fondo, una passione narcisistica per se stessi, per la propria iden-
tità, per il proprio Io»394.
Bisogna fare i conti con il fatto che l’uomo non è una crea-
tura mansueta, capace solo di difendersi se si sente sotto attacco
o in pericolo, ma – come dicono i tragediografi greci – è l’essere
più “stupendo” e più “tremendo” (deinon) che ci possa essere,
poiché reca in sé sin dall’origine una crudeltà e una capacità
criminogena che spaventerebbero anche gli animali più feroci,
un’ostilità primaria verso i suoi simili che non ha paragoni.
Lo stesso Freud ha fatto tale ritratto dell’umano, che – così
descritto – appare senza speranza, ma spiega anche l’ingombro
della costante presenza di forze distruttrici nelle relazioni tra
persone.
Non è un caso che la narrazione biblica abbia origine da due
gesti profondamente trasgressivi. Il primo compiuto da Adamo
ed Eva, sobillati dal serpente, che violano il divieto di accesso
all’albero della conoscenza; il secondo compiuto dal loro primo
figlio, Caino, che con crudeltà e ferocia mette fine alla vita di
suo fratello Abele.
Sembra che il brocardo hobbesiano homo homini lupus sia
quello più capace di descrivere la parte ferina dell’uomo, che sin
dal racconto biblico si presenta capace di gesti estremi, quale il
fratricidio.

394
M. Recalcati, Il gesto di Caino, Einaudi, Torino, 2020.

256
«L’estraneo e l’ostile coincidono e animano l’odio come ri-
sposta difensiva. Per questa ragione l’odio è più originario
dell’amore. Ma il gesto di Caino rende questo primato – teoriz-
zato apertamente da Freud – ancora più sconcertante perché in
questo caso ad essere vittima non è l’estraneo, ma il più prossi-
mo, non lo sconosciuto, ma il fratello di sangue. Qual è la colpa
imperdonabile di Abele? Quella di aver destituito il fratello
maggiore dal suo posto di privilegio: essere l’unico figlio sulla
faccia della terra, il figlio unico che si realizza come una sorta di
piccolo dio per il desiderio di sua madre. La nascita di Abele è
vissuta come un’intrusione traumatica che lo scalza da questa
posizione unica e lo costringe al legame faticoso col fratello»395.
Il racconto biblico disvela la pericolosità del sentimento
dell’invidia, la frustrazione che lo stesso genera e la percezione
dell’altro (il fratello) come causa della propria alienazione o
esclusione. La spinta a eliminare l’altro è data dal desiderio di
porre fine al senso di svuotamento del proprio essere determina-
to dall’esistenza dell’altro, che è percepito come un intruso.
Abbiamo qui le due radici fondamentali dell’odio: da una
parte il sentimento di frustrazione; l’essere declassa-
ti, subordinati, scartati, messi da parte, fatti fuori. Dall’altra il
sentimento invidioso; l’impossibilità di tollerare la felicità, la
gioia, la vita piena dell’invidiato, il desiderio di voler essere
come colui verso il quale si scatena l’aggressività e
l’impossibilità di esserlo.
Caino e Abele – dunque –, così come Eteocle e Polinice,
non rappresentano il bene e il male intesi come due valori ester-
ni e rigidamente contrapposti, ma incarnano due passioni interne
che muovono tumultuosamente l’umano. Un’oscillazione che
siamo obbligati a sperimentare nella nostra vita individuale
e collettiva.

395
M. Recalcati, L’eredità di Caino, La Stampa, 3 agosto 2020.

257
L’errore più grande che si possa commettere nei confronti
di quella parte oscura che abita in ciascuno di noi è considerarla
inesistente, appartenente solo ad altri, per esorcizzare la paura e
liberarci in modo definitivo dell’ombra della nostra parte ferina.
«E' questa la posta in gioco di quella scommessa che chia-
miamo civiltà e che prende corpo ogni volta che la Legge della
parola si impone sull’assenza di Legge della violenza. E' stato
questo, in fondo, l’errore di Caino, ed è sempre stato questo
l’errore più profondo dell’uomo: scegliere la violenza al posto
della parola, andare dritto per la propria strada senza voltarsi per
imparare a riconoscere la verità dell’altro, la verità del fratello.
Pensare di possedere tutta la verità è la forma più estrema
dell’ignoranza. Allora la Legge della parola naufraga e lascia
che il sangue di Abele, ancora, si mescoli alla terra»396.

5.4. Vista, cecità, conoscenza: Edipo e la tragedia di una


paternità negata.
Conoscere e vedere procedono insieme o si escludono a vi-
cenda? Esiste forse una differenza o addirittura un’opposizione
fra la capacità di vedere con la mente e con gli occhi? Quale del-
le due mostra la verità?
Il confronto fra Tiresia, cieco, ed Edipo, vedente, porta tale
contrapposizione agli estremi, spingendo l’argomento fino ad un
paradosso che troverà la sua massima espressione nel rovescia-
mento della condizione di Edipo al termine della tragedia, quan-
do, venuto a conoscenza della verità, si accecherà.
E’ noto che la conoscenza(φρονεῖν) nel mondo greco venis-
se percepita come strettamente legata alla percezione visiva, tan-
to tramite la fruizione attiva di tale canale sensoriale, quanto
tramite la sua negazione. Tale postulato nella concezione classi-
ca era ritenuto condizione essenziale per generare un altro tipo
di vista, quella mentale, e quindi un altro tipo di conoscenza,

396
Ibidem.

258
quella della verità. Il comune uomo mortale che vede con i pro-
pri occhi, di cui Edipo è rappresentazione e metafora, si muove
in mezzo a illusioni e percezioni fuorvianti, tra le quali nemme-
no l’uso più virtuoso dell’intelligenza e della logica può essere
una guida affidabile. La tragedia greca intitolata «Edipo Re» of-
fre uno spaccato di tale concezione senza eguali e il dialogo fra
Edipo e Tiresia ne è simbolo assoluto.
Com’è noto la storia narra che Laio, padre di Edipo e re di
Tebe, aveva saputo dall’oracolo che, se avesse avuto un figlio,
questi un giorno lo avrebbe ucciso, avrebbe sposato la madre e
avrebbe provocato la rovina della sua casa.
Laio, tuttavia, generò Edipo e per evitare l’avverarsi della
profezia, ordinò a un servo di abbandonare su un monte il neo-
nato. Il servo eseguì l’ordine, ma poco dopo un viandante che
passava di là per caso udì piangere il bambino e, mosso a pietà,
lo raccolse e lo portò al suo signore, il re di Corinto Polibo che,
non avendo figli ed essendo desideroso di averne uno, lo allevò
come proprio.
Divenuto adulto, Edipo, ebbe una disputa con un tale che,
per offenderlo, gli disse che lui non era il vero figlio di Polibo,
ma solo un trovatello salvato dalla morte. Allora, turbato da
quella rivelazione, il giovane andò a Delfi per chiedere al dio
Apollo chi fossero i suoi veri genitori. L’oracolo di Delfi non gli
disse nulla a questo proposito, ma gli predisse che un giorno
avrebbe ucciso suo padre e sposato la sua stessa madre.
Volendo sfuggire a quel destino che lo terrorizzava, Edipo
decise di non tornare mai più a Corinto. Un giorno però, mentre
si trovava a un bivio incrociò la carrozza su cui viaggiava Laio,
il cui cocchiere prese così male la curva, che una ruota passò so-
pra a un piede di Edipo.
Essendone nato un grave litigio, il giovane per difendersi da
Laio che stava per ucciderlo, trafisse, cagionandogli la morte,
proprio quel padre che non aveva mai conosciuto.

259
Tempo dopo, mentre continuava il suo viaggio, Edipo in-
contrò la Sfinge e risolse il suo enigma: «Qual è l’animale che
ha voce, che il mattino va con quattro piedi, a mezzogiorno con
due e la sera con tre?» Edipo pensò attentamente e rispose:
«Quell’animale è l’uomo, che nell’infanzia si trascina carponi,
nell’età adulta sta in piedi e nella vecchiaia procede appoggian-
dosi a un bastone». Spezzato il sortilegio, la Sfinge, rabbiosa, si
gettò dalla rupe e morì.
Avendo liberato Tebe da quel mostro sanguinario, Edipo fu
accolto dalla città come un trionfatore tanto da riceverne in mo-
glie la regina Giocasta, sua madre. E così sebbene Laio ed Edipo
avessero cercato entrambi di sfuggire alla terribile profezia, tutto
si era avverato inesorabilmente.
Alla scoperta della terribile verità Edipo inflisse a se stesso
l’accecamento.
Gli elementi ricorrenti, anzi quelli indissolubilmente legati a
Edipo nella tradizione classica, sono la Sfinge, il parricidio e
l’incesto, presenti anche in altre opere connesse a tale personag-
gio, ma nell’Edipo Re di Sofocle è presente una novità assoluta.
Neppure il pubblico de tempo era a conoscenza dell’ultimo ge-
sto, spettacolare e terrificante, del protagonista:
l’autoaccecamento, atto simbolo di una tragedia che si snoda in-
teramente sul tema della vista, della conoscenza e della verità.
Temi cari al mondo greco, che ne dissemina tracce ovun-
que, dalla letteratura alla filosofia. Ne è preziosa testimonianza
il mito della caverna397 di Platone, contenuto nel settimo libro de

397
Platone, Repubblica, 7.514 a – 515 a23. «Dopo tutto questo» dissi,
«paragona la nostra natura, in rapporto all’educazione e alla mancanza di
educazione, a una condizione di questo tipo. Immagina dunque degli uomini
in una dimora sotterranea a forma di caverna, con un’entrata spalancata al-
la luce e larga quanto l’intera caverna; qui stanno sin da bambini, con le
gambe e il collo incatenati così da dover restare fermi e da poter guardare
solo in avanti, giacché la catena impedisce loro di girare la testa; fa loro lu-
ce un fuoco acceso alle loro spalle, in alto e lontano; tra il fuoco e i prigio-
nieri passa in alto una strada, e immagina che lungo di essa sia stato costrui-

260
La Repubblica, in cui le false percezioni degli uomini, che
scambiano per verità le ombre che vedono proiettate sul muro,
evocano le illusorie e fallaci credenze di Edipo, che pensa di ve-
dere la verità, senza accorgersi che essa sta altrove.
Platone scelse tale immagine per descrivere la condizione
dell’uomo sulla terra, ingabbiato al chiuso della caverna, meta-
fora dell’ignoranza, e incapace di arrivare alla verità, di vederla,
confondendola con mere ombre. Immediato è il rimando alla fi-
gura sofoclea di Edipo: gli uomini descritti da Platone non altro
riterrebbero essere il vero, se non le ombre proiettate sul muro
ed Edipo, sulla base di mere opinioni e percezioni distorte dei
fatti, si costruisce una propria visione della realtà, credendo di
vedere un complotto orchestrato da Tiresia e Creonte che altro
non è che illusione e bugia, come le ombre della caverna.
Per esempio, nell’allontanarsi da Corinto per evitare
l’avverarsi della profezia di Apollo398, Edipo dà per assunto che
i suoi veri genitori siano Merope e Polibo, ma forse avrebbe do-

to un muretto, simile ai parapetti che i burattinai pongono davanti agli uo-


mini che manovrano le marionette mostrandole, sopra di essi, al pubblico.»
«Vedo» disse.
«Vedi allora che dietro questo muretto degli uomini portano, facendoli
sporgere dal muro stesso, oggetti d’ogni genere e statuette di uomini e di
altri animali di pietra, di legno, foggiate nei modi più vari; com’è naturale
alcuni dei portatori parlano, altri tacciono.»
«Strana immagine descrivi» disse, «e strani prigionieri.»
«Simili a noi» dissi io. «Pensi innanzitutto che essi abbiano visto, di se
stessi e dei loro compagni, qualcos’altro se non le ombre proiettate dal fuoco
sulla parete della caverna che sta loro di fronte?»
«E come potrebbero» disse, «se sono costretti per tutta la vita a tenere
la testa immobile?»
«E lo stesso non accadrà per gli oggetti che vengono fatti sfilare?»
«Sì.»
«Se dunque fossero in grado di discutere fra loro, non pensi che essi
chiamerebbero oggetti reali le ombre che vedono?»
«Necessariamente.»
«E se la prigione avesse un’eco dalla parete verso cui sono rivolti, ogni volta
che uno dei portatori parlasse, credi penserebbero che a parlare sia qual-
cos’altro se non l’ombra che passa?»
398
Sofocle, Edipo Re, vv. 794-797.

261
vuto approfondire meglio tale punto; così come, nel dialogo con
Tiresia, a partire da «oscuri sospetti»399 privi di prove, Edipo
crede di poter dedurre un complotto dell’indovino con Creonte.
Sebbene l’ipotesi possa essere a buona ragione sollecitata dal
comportamento criptico di Tiresia, questo non giustifica Edipo
dall’assumerlo come fatto manifesto e chiaro: si tratta di un ge-
sto avventato che potrebbe essere ricondotto alla forte emotività
dell’intera scena, laddove Edipo reagisce d’impulso e con rabbia
a quanto si sente dire e, di conseguenza, la sua capacità di razio-
cinio risulta indebolita.
L’errore di Edipo non sta nelle deduzioni che fa, le quali
sembrerebbero logicamente corrette, ma nella sua percezione
della realtà. In questo modo Sofocle crea un’appassionante si-
stema di ironia drammatica, che «dipende dall’esistenza tempo-
ranea di illusioni non condivise dal pubblico»400.
L’errore di percezione, la vista fisica che inganna rispetto
alla vista metafisica che è la via per la conoscenza, sono al cen-
tro della visione sofoclea e di quella platonica.
Platone ricorre al lessico della luce (φῶς), della vista
(βλέ1ειν, ὁράω) e degli (ὄµµατα) per simboleggiare la cono-
scenza della verità (ἀλήθεια), e lo stesso fa Sofocle nell’Edipo
Re: se si guarda rapidamente alla sintassi degli interventi di Ti-
resia, si noterà che la prima enfasi del suo rimprovero cade non
tanto sulla gravità delle azioni compiute da Edipo, quanto sulla
sua incapacità di ‘vederle’: «Sì, tu hai gli occhi, ma non riesci a
vedere in quale miseria sei caduto, né dove abiti, né con chi vivi.
E sai forse da chi sei nato? Neppure immagini che sei in odio ai
tuoi, fra i morti e sulla terra»401.
Nemmeno le esplicite dichiarazioni di Tiresia aiutano l’eroe
a riconoscere la verità su se stesso e sulle proprie azioni; anzi, le

399
Ivi, v. 659 «ἀφανεῖ λόγῳ»
400
H. C. Baldry, I Greci a teatro, Bari 1972 (ed. orig. The Greek Tragic
Theatre, London 1971). p. 119.
401
Sofocle, Edipo Re, vv. 413-416

262
affermazioni dell’indovino appaiono ai suoi occhi del tutto as-
surde: Edipo, circondato da ombre che egli crede essere vere,
cerca invano di pervenire a conoscenza dell’autore dell’omicidio
di Laio, prima, e della propria identità, poi. Tiresia lo guarda
concentrarsi su false apparenze, come le ombre proiettate sulle
pareti della caverna, consapevole che la verità stia fuori, alla lu-
ce del sole, ma rimane impotente di fronte l’attuale cecità di
Edipo, il quale è incapace di credere alle sue parole e di vedere
in esse la verità, troppo accecante nella sua forza.
Tiresia si ritira e l’eroe procede da solo nell’interpretazione
di ciò che “vede” e, muovendosi lentamente fra ombre e riflessi
della verità, quali sono le narrazioni di Giocasta, del messaggero
di Corinto e del servitore di Laio, poco alla volta Edipo perverrà
alla corretta conoscenza dei fatti: in questo modo scoprirà la ve-
rità di quanto dettogli da Tiresia poco prima, come accade
all’uomo di Platone, una volta uscito dalla caverna.
Finalmente Edipo vede chiaro su tutto, e non può fare a me-
no di ripensare ai propri errori di interpretazione del passato,
quando, per esempio, si era vantato con superbia, a dispetto di
Tiresia, dell’intelligenza (γνώµῃ) dimostrata di fronte alla Sfin-
ge402, oppure quando aveva ingiustamente accusato il cognato
Creonte di omicidio e di complotto.
Come Edipo commisera se stesso, similmente Platone de-
scrive l’uomo che, finalmente abituato alla luce del sole, «com-
misererà quegli altri»403; come gli uomini incatenati nella caver-
na, che gareggiavano su chi avesse maggiore intuizione nel pre-
vedere il susseguirsi delle ombre, così Edipo, nel corso
dell’intera tragedia, dà prova della propria intelligenza formu-
lando congetture sulla base di indizi raccolti dalla realtà circo-
stante, il più delle volte grazie ai propri sensi, ma senza cogliere
il vero.

402
Ivi, vv. 390-398.
403
Platone. Repubblica, 7.516 c98 – 516 d114.

263
Fin dall’apertura del dramma si ha una fortissima rappresen-
tazione di questo modo di procedere di Edipo, il quale fa il pro-
prio ingresso sulla scena e racconta agli spettatori quanto intui-
sce a partire da un’osservazione condotta con i tre sensi della vi-
sta, dell’olfatto e dell’udito: i suoi occhi lo informano della pre-
senza davanti a lui dei Tebani «seduti con i rami incoronati dei
supplici»404, tramite l’olfatto percepisce il «profumo
dell’incenso»405 e tramite l’udito sente il risuonare
«d’invocazioni e di lamenti»406.
La fallacia del suo modo di cercare la verità si fa sempre più
evidente e Sofocle, poco alla volta, mette in crisi Edipo con lo
sviluppo della trama. La fragilità della conoscenza superficiale
simboleggiata dalla vista fisica raggiunge il suo acme con il ge-
sto dell’autoaccecamento di Edipo.
L’eroe, che prima faceva completo affidamento sulla perce-
zione visiva come campo di applicazione della propria intelli-
genza e come principale strumento per acquisire conoscenza, e
che, sulla base di tale conoscenza percettiva, credeva di essere
possessore della verità, alla fine è costretto a riconoscere i limiti
imposti dalla propria condizione umana, limiti che cerca di sor-
passare proprio tramite l’accecamento. Egli non può più soppor-
tare di vivere nel mondo dei mortali, in mezzo alle ombre rifles-
se sul muro della caverna, sapendo che da esse in qualsiasi caso
si troverebbe ingannato. Così si toglie la vista, decide di muo-
versi nelle tenebre per non essere fuorviato da illusorie ombre e
andare verso il vero, verso quella conoscenza a cui voleva avvi-
cinarlo il cieco Tiresia.
La contrapposizione vista/cecità è la metafora della con-
trapposizione conoscenza/ignoranza. Platone per primo fece
ampio uso dell’immaginario relativo alla luce e alla tenebra per

404
Sofocle, Edipo Re, vv. 2-3: θοάζετε ἱκτηρίοις κλάδοισιν
ἐψεστεµµένοι.
405
Ivi, v. 4: θυµιαµάτων γέµει.
406
Ivi, παιάνων τε καὶ στεναγµάτων.

264
descrivere l’accesso alla verità del filosofo, contribuendo a raf-
forzare quella catena di metafore che associano “verità” e “bene
assoluto” a “luce” e “vista”, e dall’atra parte “ignoranza” e “ma-
le” a “cecità” e “oscurità”. Nel dialogo fra Edipo e Tiresia lo
scontro fra conoscenza e ignoranza associato alle relative imma-
gini di luce e ombra, vista e cecità, raggiunge la sua massima
pregnanza proprio perché il pubblico vede davanti a sé fare uso
di tali associazioni di immagini da parte di personaggi che nella
loro persona incarnano esattamente l’opposto: Tiresia conosce la
verità, ed è cieco, Edipo, vedente, non conosce e non capisce la
verità.
Ma quanta cecità è diffusa nel mondo contemporaneo?
Quanti Edipo non vedono la verità e vivono nell’inautentico?
Quanti padri hanno smarrito il senso del loro ruolo come Laio e
quanti figli non riescono a scoprire il senso profondo della rela-
zione con chi li ha generati come Edipo?
Quale pedagogia, allora, per una famiglia educativa
nell’epoca delle passioni tristi? Quale pedagogia di fronte alla
“metamorfosi del mondo”, che ha generato quelli che Mario Ca-
ligiuri chiama studenti a tre dimensioni407 immersi nell’ambiente
cyber?
E’ più che mai urgente il ritorno a uno specifico statuto
dell’educazione: l’humanitas e le parole, strumento prezioso per
restituire consapevolezze e capacità educativa alle famiglie nella
società della disinformazione408.
A questo proposito, Mario Caligiuri pone in rilievo che se-
condo Tullio De Mauro, all’inizio del terzo millennio, tre quarti
degli italiani hanno competenze linguistiche limitate409. E come
si possono formulare pensieri complessi e costruire relazioni fe-
407
M. Caligiuri, Tutta colpa della luna? La pedagogia in un mondo fuo-
ri controllo, in Formazione e Insegnamento XVIII -2-2020, Pensa Multime-
dia Editore, p. 16.
408
M. Caligiuri, Introduzione alla società della disinformazione. Per
una pedagogia della comunicazione, già cit..
409
Ivi, p. 57.

265
conde se non si ha a disposizione un vocabolario utile a formula-
re quei pensieri e a riempire di senso quelle relazioni?
Le parole schiudono significati, aprono mondi, ci introdu-
cono in quella meravigliosa dimensione che è l’oltre, come di-
ceva Pirandello nei quaderni di Serafino Gubbio operatore410.
Come si fa, senza coscienza critica, a muoversi nella com-
plessità del contemporaneo? Come si fa a discriminare le fake
news dalle notizie vere? Come si fa a tracciare per i giovani una
linea di confine chiara tra ciò che si può fare e ciò che invece
non si può fare?
La strada da percorrere passa attraverso il potere delle paro-
le.
George Steiner, studioso del mondo classico e dei classici
greci, ha elaborato quella che possiamo definire categoria del
pensiero grammaticale. Egli ritiene cioè che attraverso le meta-
fore, i sinonimi, i diversi tempi verbali che vanno dal passato al
futuro, noi siamo in grado di organizzare la nostra vita interiore.
Pensiamo ad Omero che ha visto nel mare il colore cupo del vi-
no, alla gamma dei passati e dei futuri, degli ottativi e dei con-
giuntivi che conducono la mente ad accogliere il ricordo e
l’attesa, la speranza e il desiderio: tutto questo ci libera dalle co-
strizioni del fisico, in cui pure oggi siamo immersi, per condurci
nell’oltre.
«L'uomo è un animale linguistico»411 dice lo studioso, «il
linguaggio è il mistero che definisce l’uomo, in esso l’identità e
la presenza storica dell’uomo si esplicano in maniera unica. È il
linguaggio che separa l’uomo dai codici segnaletici determini-
stici, dalle disarticolazioni, dai silenzi che abitano la maggior
parte dell’essere. Se il silenzio dovesse tornare di nuovo in una

410
L. Pirandello, I quaderni di Serafino Gubbio operatore, Mondadori,
Milano, 1992, ristampa 2012.
411
G. Steiner, Errata. An examined life, Weidenfeld and Nicolson 1997;
tr. it. di C. Beguin, Errata. Una vita sotto esame, Garzanti, Milano 2000, pag.
105.

266
civiltà in rovina, sarebbe un silenzio duplice, forte e disperato
per il ricordo della Parola»412.
Allora, la Parola è da ritenersi una forza trasformativa, ca-
pace di restituire senso e vigore al pedagogico, in un tempo in
cui appare del tutto retorico invocare un’emergenza educativa
mai risolta, direi endemica, e per ciò stesso non più definibile
emergenza, ma condizione perdurante.
La pedagogia, dunque, deve capovolgere il brocardo di Ca-
tone: non più rem tene verba sequentur, ma il contrario: verba
tene res sequentur, perché le cose seguiranno naturalmente una
volta riattivato il processo di umanizzazione della vita attraverso
il potere delle parole.
La parola è farmaco dice Gorgia nell’Encomio di Elena, es-
sa è il mezzo per costruire coscienze critiche, per riconoscersi
come persone, per sentirsi all’interno della propria storia e di
quella degli altri, per diventare memoria condivisa in un signifi-
cato lontano dall’algido scambio di immagini via social. Le pa-
role sono rivoluzionarie, sono l’antidoto alla supremazia degli
algoritmi, sono la via più efficace per il cambiamento, che –
come dice Olga Tokarckzuc – è sempre più nobile della stabili-
tà.

5.5. Lutti, vendette e spargimento di sangue nella saga


degli Atridi. L’Orestea e la vittoria del logos sull’istinto.
Nelle Coefore di Eschilo Elettra accoglie Oreste che torna
dall'esilio dicendo: «Occhio mio diletto, quattro funzioni tu hai
nei miei riguardi; non posso non chiamarti col nome del padre, e
l'affetto verso la madre anche, da parte mia, inclina verso di te,
(lei a buon diritto viene odiata!) e l'amore della sorella che fu
spietata mente sacrificata. Tu sei il fratello fedele, che a me porti
affetto, tu solo»413.

412
G. Steiner, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura
e l’inumano, tr. it. R. Bianchi, Garzanti, Milano 2001, p.11.
413
Eschilo, Le Coefore, vv. 238 e ss.

267
Si tratta di uno dei pochissimi passi che approfondiscono
nella trilogia il tema delle relazioni familiari tra i protagonisti.
E’ infatti la stirpe degli Atridi la vera protagonista del dramma
eschileo. Essa domina sin dall’inizio con la sua legge interna che
è il deus ex machina del succedersi degli eventi.
Lo scontro è dunque tra l’insieme rigido e unitario del genos
e la collettività della polis. E’ quindi l'appartenenza è il criterio
decisivo del comportamento degli Atridi, a scapito della forza e
dell’importanza del rapporto personale che sfuma nell’unicum
indistinto e captativo del genos. Eschilo non si sofferma sui sen-
timenti che Oreste ha per Agamennone e per Clitemnestra, ma
sul sistema etico-logico a cui la legge familiare dà luogo e che si
identifica con la legge in assoluto, umana e divina.
Fanno eccezione queste accorate parole di Elettra, in cui è
evidente il trasporto che ella nutre verso il fratello, sebbene in
esse si rifletta tutto il sistema sociale e di relazioni tra generi che
la tragedia mette sotto accusa. Elettra manifesta il suo amore di
sorella affidando a Oreste il compito di rappresentare per sosti-
tuzione un intero mondo di affetti. E lo fa perché quelli sono i
rigidi ruoli affidati al mondo femminile, che si dissolve
nell’insieme organico della famiglia e nel criterio dinastico che
essa adotta per regolare i rapporti interni tra i membri. Il figlio
maschio si identifica col padre (Oreste-Agamennone) ed è porta-
tore della sua autorità, mentre la figlia, come tutte le donne, vive
in uno stato di costante soggezione verso tutti gli uomini della
famiglia, poiché il vincolo affettivo si fonda sul possesso e
sull'autorità.
E’ Clitemnestra a rompere questo clichè, perché lei non ac-
cetta la subalternità. Passata alla storia come crudele uxorici-
da, nelle riletture moderne appare molto diversa dall’immagine
che i greci ci hanno tramandato. In chiave femminista Clitemne-
stra è una donna indomita, dignitosa, capace di opporsi
all’infelicità cui l’universo femminile è condannato in quella po-
lis amministrata, gestita e pensata solo dagli uomini.

268
Quel mondo è magistralmente descritto attraverso la saga
degli Atridi e le sventure di Agamennone e Clitemnestra: padre
senza scrupoli e vincitore di Troia, lui; madre addolorata e sposa
infedele, lei.
Quando Agamennone, finita la guerra, fa rientro ad Argo,
ad attenderlo cʼè una donna seduta sul suo trono: è Clitemnestra,
sua moglie, che appropriatasi del potere durante la sua lunga as-
senza, ha ordito progetti di vendetta contro di lui.
Una vendetta generata dall’odio cieco, perché Clitemnestra,
prima di essere una moglie, è innanzitutto una madre in lutto. Il
sacrificio della figlia Ifigenia, voluto dal marito, ha generato in
lei un rancore profondo e indomabile. Così dolore, rabbia e de-
siderio di ribellione coesistono in Clitemnestra, alimentandosi a
vicenda. E tutti sanno che non cʼè niente di più pericoloso del
dolore di una madre che soffre per la perdita di un figlio.
Quando Ifigenia viene sacrificata, Clitemnestra si sente col-
pita nella parte più intima di se stessa e pensa di non avere altra
scelta se non quella di togliere la vita al marito per l’orribile
crimine commesso.
Agamennone muore, ma la sua morte non placa né esaurisce
il dramma, anzi lo alimenta in una spirale di altri lutti: Oreste si
macchia di matricidio uccidendo Clitemnestra per vendicare la
morte del padre e scatena così lʼira delle Erinni, mostruose crea-
ture che perseguitano gli autori degli omicidi dei consanguinei.
Solo con l’istituzione dell’Aeropago l’ira, le vendette e le
morti dalle stesse generate si fermano, Oreste viene assolto e le
Erinni divengono Eumenidi.
Le Eumenidi, preceduta dall’Agamennone e dalle Coefore, è
infatti la terza e ultima tragedia della trilogia di Eschilo, quella
in cui, al termine della saga sanguinosa degli Atridi, alla legge
interna del γένη, delle stirpi, si oppone quella collettiva della po-
lis (πόλις): la celebrazione pubblica del processo per il matrici-
dio commesso da Oreste pone fine alla violenza.

269
L’Orestea è dunque «l’evocazione della lunga catena di uc-
cisioni nella casa degli Atridi e, insieme, la commemorazione
del suo superamento attraverso la fondazione del tribunale
dell’Areopago, che porrà fine alla carneficina famigliare»414.
L’Orestea dunque è la celebrazione di una conquista di ci-
viltà. Alle prime due tragedie della trilogia, intrise di violenza e
sangue versato, segue la terza in cui la spirale della vendetta pri-
vata si interrompe vinta dal logos (λόγος).
Già in apertura del processo dinanzi all’Aeropago Oreste ri-
conosce di aver commesso il matricidio di cui è accusato, i giu-
dici lo ascoltano, la parola è al centro della scena. Nel momento
della decisione i voti sono pari e si procede con l’assoluzione
dell’imputato, perché Atena – che presiede – si schiera a suo fa-
vore e il suo voto pesa di più di quello degli altri membri.
La terza tragedia della trilogia non deve identificarsi con
l’assoluzione di Oreste, ma con la condanna definitiva e ineso-
rabile dell’antica giustizia vendicativa del γένη e delle Erinni, la
cui trasformazione in Eumenidi è il simbolo della giustizia illu-
minata.
La vera vittoria del processo a Oreste è quella del logos sul
disordine dell’istinto. La parola è l’unica via per scongiurare la
sequela di lutti generata dal rancore senza fine, la stasis e la lotta
tra fazioni nella città.
Nel passaggio dall’ antica giustizia vendicativa al nuovo or-
dine fondato «su un istituto di giustizia che resterà saldo per
sempre»415, si coglie anche l’attenzione dedicata all’enorme re-
sponsabilità che incombe su chi è chiamato a giudicare le colpe
altrui.
Oreste, dopo aver riconosciuto le proprie responsabilità, ha
facoltà di spiegare ai suoi giudici quali ragioni l’abbiano indotto

414
M. Cartabia, Una parola di giustizia. Le Eumenidi dalla maledizione
al logos, Lectio magistralis, Inaugurazione Anno accademico Roma Tre,
Roma 23 gennaio 2020.
415
Eschilo, Eumenidi, vv. 484.

270
al folle gesto. Ricorda a chi lo ascolta l’assassinio del padre e il
suo tradimento e anche le sollecitazioni di Apollo alla vendetta.
E’ chiaro a tutti – a questo punto – che si tratta di una situazione
molto difficile, al punto che non può essere giudicata da un sin-
golo, o da chi è troppo coinvolto, o da chi è mosso da motiva-
zioni profondamente personali; una tale complessità richiede
l’intervento di un organo terzo, composto da più giudici scelti
tra i migliori e presieduto dalla stessa Atena.
«La questione è troppo grave perché si ritenga di farla giu-
dicare da uomini; ma neppure a me è lecito dirimere liti di san-
gue scatenate da acuto rancore […] poiché la situazione è preci-
pitata a tal punto, io sceglierò per gli omicidi giudici giurati e
fonderò un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre»416.
Nasce il tribunale degli uomini, presieduto dalla dea della
sapienza. Nel processo che segue dominano il logos, la parola, il
ragionamento, la persuasione, la prova.
«Il ragionare prende il posto dell’istinto vendicativo. La pa-
catezza e la riflessione, quello della reattività. L’argomentare e il
motivare, quello del mistero. Le prove, la verifica dei fatti e del-
le circostanze prendono il posto del giuramento e di altre rituali-
tà performative. Forte e netto è il contrasto tra l’indicibilità delle
Erinni e l’argomentare di Atena in tribunale»417.
Lo stridore potente tra vendetta privata e logos è ben sim-
boleggiato dal contrasto tra la prima scena in cui le Erinni dor-
mienti non parlano e incutono un profondo timore solo attraver-
so il loro greve rumore di fondo e la scena in cui Atena si eleva
maestosa all’atto dell’apertura del processo e chiede che con un
«discorso perspicuo»418 le sia spiegato chi siano quelle creature
mostruose.

416
Ivi, vv. 470-484.
417
M. Cartabia, Una parola di giustizia. Le Eumenidi dalla maledizione
al logos, Lectio magistralis, Inaugurazione Anno accademico Roma Tre,
Roma 23 gennaio 2020.
418
Eschilo, Eumenidi, v. 408.

271
E’ la parola che vince sull’orrore rappresentato dalle Erinni
e dal timore muto, viscerale e istintuale dalle stesse evocato.
Il Processo si snoda interamente su base dialogica tra
l’accusa formulata dalle Erinni e la difesa rappresentata da
Apollo. Ma mentre la parola delle prime, figlie della notte, è e
buia e non è in grado di argomentare, è formulare e ripetitiva,
priva di capacità dialettica come il sentimento di vendetta che la
anima; la seconda è illuminante, irradia attraverso Apollo che
invita a comprendere le ragioni dell’accusato419. La difesa usa la
potenza degli argomenti, la persuasione, il logos.
La parola senza suoni delle Erinni è il simbolo
dell’insensatezza della giustizia vendicativa e tribale del γένη,
da cui non può che scaturire altro sangue, altro dolore e altro
male. Mentre la parola che vince è quella di Zeus «ispiratore
della parola», quella fondata sul dialogo, sul ragionamento e sul-
la ricerca della motivazione.
L’Orestea celebra quindi l’ascolto, quale atto fondativo del
giusto processo, in cui le ragioni di tutti devono trovare acco-
glienza e il linguaggio delle Erinni, il loro furore e le loro male-
dizioni devono essere abbandonati per sempre.
La nuova giustizia diventa così esperienza collettiva e non
espressione monocratica di una divinità o dell’ira di un mortale.
Per questo, quando – perso il processo contro Oreste – le
Erinni minacciano di spargere veleno nella città, Atena ingaggia
un dialogo lungo e intenso con le dee funeste della giustizia an-
tica, promettendo loro un posto nella città dove poter essere fi-
nalmente onorate dalla cittadinanza.
Il logos non espunge, non esclude, non punisce con violen-
za, ma è superamento del dolore, è restituzione di possibilità.
La trasformazione delle Erinni in Eumenidi e la loro perma-
nenza nella polis insegna che nessuno è reietto, neppure la crea-

419
Ivi, vv. 614 -621.

272
tura più mostruosa e ci rende avvertiti del fatto che il tema della
vendetta non è risolto, non è accantonato una volta per tutte.
Il tema della vendetta è consustanziale al tema della giusti-
zia, il cui obiettivo deve essere quello di controllare l’impeto
vendicativo il più possibile, non essendo consentito neppure allo
Stato di farsi guidare da quest’ultimo quando è chiamato a giu-
dicare le colpe altrui.

5.7. Prospettive pedagogiche per la repressione dei cri-


mini domestici.
Lo studio del mito ci ricorda che la relazione tra soggetti
differenti – uomini e donne, madri e figli, fratelli e sorelle – è
sempre complessa, perché esposta alla fatica del riconoscimento
dell’altro, all’imprevisto, al Fato e dunque è irriducibilmente
conflittuale.
Il vero tema è come leggere e gestire il conflitto. L’uomo
contemporaneo avrebbe bisogno di recuperare più che mai la
consapevolezza dell’inevitabilità del conflitto, che non può esse-
re inteso come dinamica inesorabilmente distruttiva, poiché ap-
partiene da sempre all’umano, ne è tratto imprescindibile. Dal
conflitto con se stessi, a quello con l’altro, a quello con la realtà,
l’uomo è l’esito di questa dialettica.
Per tale ragione l’elemento conflittuale non è solo dissolu-
zione, ma possiede anche una straordinaria capacità creativa e di
rinascita. Se elaborato e compreso diviene squilibrio vitale che
sprona a cercare la parte ultima di se stessi, al di là del il dolore.
Nell’affermare la necessità del conflitto e della sua articola-
zione simbolica per giungere a una forma più avanzata di lega-
me, Recalcati stigmatizza le storture del familismo contempora-
neo.
L’uomo è ormai da tempo ingabbiato tra due dinamiche so-
lo apparentemente opposte, ma in realtà complementari: da un
lato le piccole comunità (siano esse a carattere religioso, asso-
ciativo o ludico) fungono da surrogati di famiglie nucleari psi-

273
chicamente deboli, precarie e al tempo stesso consumiste;
dall’altro lato, però, le famiglie nucleari funzionano come surro-
gati delle realtà comunitarie che il capitalismo ha dapprima ero-
so e poi spazzato via.
La famiglia si è chiusa in un atteggiamento protettivo e di-
fensivo al limite della paranoia, assumendo atteggiamenti di pa-
tologica tutela verso i figli che non riescono più a crescere.
Stretta in questa sorta di doppio legame, la famiglia della
post-umanità si presenta apparentemente priva di conflitti, la cui
assenza tradisce in realtà solo pericolosi silenzi e legami fragili.
L’opposizione dell’adulto e all’adulto – prezioso strumento
di ricerca dell’identità – resta latente, non simbolizzata e pronta
ad esplodere.
Il punto di equilibrio delle relazioni umane, per contro, si si-
tua nella differenza tra conflitto generativo e conflitto degenera-
tivo. Il primo apre al molteplice il secondo alla violenza, che è e
resta un fenomeno innanzitutto culturale.
Che la violenza sia innanzitutto un fenomeno culturale è
ormai una consapevolezza indiscutibile, tanto che la Convenzio-
ne di Istanbul – come osservato nei capitoli che precedono – in-
dividua proprio nell’educazione uno strumento fondamentale
per prevenirla.
L’atto normativo appena richiamato, infatti, impone agli
Stati l’adozione di riforme giuridiche e di misure politiche fina-
lizzate alla promozione di cambiamenti profondi nella mentalità
e nei costumi degli uomini e delle stesse donne.
Un modello in cui il diritto penale non è l’unico strumento,
né quello preminente. L’individuazione di specifiche fattispecie
di reato e di strumenti giudiziari finalizzati alla loro punizione
sono precedute infatti dalla previsione ampia e puntuale di una
pluralità di misure volte, da un lato, alla protezione delle vittime
e al loro sostegno e, dall’altro, all’educazione e alla sensibilizza-
zione di tutti i membri della società.

274
In particolare, sono proprio educazione e sensibilizzazione
il nucleo delle misure di prevenzione della violenza, per pro-
muovere i necessari «cambiamenti nei comportamenti socio-
culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiu-
dizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea
dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli
delle donne e degli uomini» (art. 12.1).
A tal proposito, sono previste: la promozione di campagne
di informazione rivolte al vasto pubblico, anche attraverso la
raccolta e la diffusione dei dati relativi alla violenza domestica e
di genere (artt. 11 e 13), l’introduzione nelle scuole di ogni ordi-
ne e grado di programmi scolastici e materiali didattici che con-
sentano di affrontare il tema della parità tra i sessi e della vio-
lenza di genere (art. 14), la formazione adeguata di figure pro-
fessionali che, con diverse competenze e in diversi settori, si oc-
cupino delle vittime o degli autori degli atti di violenza (art. 15),
l’impegno a sollecitare il settore privato della comunicazione e i
mass media ad adottare codici di autoregolamentazione per raf-
forzare il rispetto della dignità delle donne (art. 17).
La scelta di combattere la violenza riconoscendone le radici
culturali è importante per almeno due ragioni. La prima è che
consente di considerare la violenza domestica e di genere non
più come una “questione privata” ma come un problema politi-
co. La seconda è che delegittima i tentativi di circoscrivere il fe-
nomeno all’ambito della devianza e/o della patologia di chi
compie atti di violenza, facendo emergere la connessione strut-
turale tra discriminazione e violenza entro un modello sociale in
cui la costruzione dei ruoli di genere risponde a logiche di potere
asimmetriche.
Se la violenza è un fenomeno culturale vuol dire che è un
problema di tutti, perché «ciò che offende le donne riguarda an-

275
che gli uomini, così come un nuovo modo di essere "maschi" in-
terroga inevitabilmente anche le donne»420.
Per tentare di arginare la cultura violenta allora occorre in-
nanzitutto smettere di ricercare di volta in volta nell’orrore delle
singole storie di violenza la sua spiegazione; ascrivendo ora al
raptus, ora a biografie difficili la sola responsabilità di gesti al-
trimenti incomprensibili. Le ragioni della violenza vanno cercate
in quello che la Musi definisce un «ordine simbolico intrinseca-
mente violento»421.
A cominciare dal linguaggio, che riflette una rappresenta-
zione della realtà divisiva e divisa tra generi, sino ad arrivare
all’organizzazione sociale, tutto è ancora interpretato secondo
canoni di relazione che dovrebbero appartenere al passato, ma
sono invece incredibilmente attuali.
La cultura patriarcale è tramontata solo in parte; essa resta
infatti ancora radicata in un subconscio che fatica a rimuoverla,
rendendo difficile l’acquisizione di strumenti relazionali efficaci
e idonei a promuovere la reciprocità.
Il modello maschile ha parlato anche alle donne per molto
tempo, perciò anche loro si ritrovano all’interno di un processo
trasformativo che talvolta non sanno interpretare.
Lo squilibrio delle relazioni tra persone precede la violenza.
Essa non è altro che la conseguenza estrema di tale squilibrio;
bisogna agire perciò sulle zone di allerta, su ciò che si situa al di
sopra dell’agito aggressivo, cioè sul substrato culturale di un da-
to gruppo umano.
Ed è qui che la pedagogia entra in gioco quale strumento
che produce utopie e trasformazioni, quale strumento di analisi
dei processi che determinano la costruzione di un ordine simbo-
lico, che – nel bene e nel male – condiziona la vita di tutti e di
ciascuno.

420
E. Musi, Le radici nascoste della violenza, in S. Ulivieri, Corpi vio-
lati, op. cit., p. 53.
421
Ibidem.

276
Il sapere pedagogico può dare un contributo importante alla
ridefinizione delle identità incerte di uomini e donne, perché
l’educazione può imprimere alla cultura di genere il carattere
dell’intenzionalità, togliendole finalmente quel ruolo scomodo e
riduttivo di mero accidente della storia.
Spetta alla pedagogia, allora, il compito di costruire nuovi
luoghi e nuovi spazi di relazione capaci recuperare la ricerca di
condivisione, l’uso di codici espressivi in grado di unire, di
comprendere l’altro riattivando il potere del logos che vince
sull’istinto.

277

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