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Salvatore Natoli

L’animo degli offesi e il contagio del male

I Promessi Sposi sono un romanzo sul male in tutte le sue sfaccettature (morali, politiche, sociali), sulla sua
pervasività e sulla responsabilità di ognuno di fronte ad esso: tutti infatti siamo toccati dal “contagio del
male”, sia oppressori che oppressi.

INTRODUZIONE

Cap.1 Un classico. Manzoni come canone d’identità nazionale

I Promessi Sposi fanno parte del “canone di formazione nazionale” cioè dell’insieme di testi che diventano
incarnazione di valori collettivi, che sono dei classici. Per “classico” intendiamo un’opera che porta alla luce
in modo unico e peculiare i tratti persistenti della specie umana, slegandosi quindi da un’epoca specifica e
diventando una lettura valida in ogni tempo. Diventando portatore di concetti universali, il classico ha
sempre qualcosa da dire e diviene trasversale alle epoche. L’autore quindi vuole analizzare proprio il tratto
principale per cui i Promessi Sposi sono a tutti gli effetti un classico della letteratura italiana (e non solo).
CONCEZIONE GENERALE DEL MALE E DELLA PROVVIDENZA IN MANZONI
Cap.2 La pervasività del male e la Provvidenza
«I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del
male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi».
Il punto di partenza della riflessione di Natoli, che dà anche il titolo al saggio, è una frase posta nel capitolo 2
e che si configura come uno dei tanti punti in cui Manzoni, con i suoi commenti concisi ma estremamente
chiari, esprime sentenze valide universalmente. Proprio in questi punti emerge con più forza ciò che il
romanzo ha da dire ai lettori di oggi. La frase si colloca all’interno della descrizione dello stato d’animo di
Renzo, uscito sconvolto dalla casa di Don Abbondio dopo aver saputo del matrimonio negato: “Renzo era un
giovane pacifico (…) ma in quei momenti il suo cuore non batteva che per l’omicidio”. A fronte del diritto
calpestato, Renzo scambia la vendetta per giustizia, ponendosi di fatto dalla parte del torto. La reazione al
male con altro male, infatti, non riscatta il male stesso ma anzi lo replica: l’innocente che patisce
un’ingiustizia rischia di divenire colpevole a sua volta. Ecco perché Manzoni denuncia questo male “di
riflesso” come ancora peggiore di quello causato inizialmente: quello della trasformazione dell’offeso in
criminale. La frase viene ripresa anche da Primo Levi ne “I sommersi e i salvati” sottolineando come la
condizione di offeso non preservi dalla colpa, spesso grave, ma che sia difficile giudicarla proprio in quanto
provocata da un male originario. Punto cruciale della riflessione pessimistica manzoniana è quindi che al
male non si sfugge: il male “infetta”, diventa “epidemico” (come la peste, di cui è perfetta metafora). Il
“male ammala”.
Come poter vivere, quindi? Secondo Manzoni si può soltanto attraverso la fede nella Provvidenza, che non è
solo un piano divino che sottrae gli eventi alla mera casualità, ma anche uno strumento razionale (una
“scommessa della ragione”, come diceva il filosofo Pascal) per poter fronteggiare il male: essa infatti
insegna la pazienza, unico mezzo per frenare l’”epidemia. Anche la conversione di Manzoni nasce dal
confronto col terrore del male: lo scrittore abbraccia la fede cristiana per poter combattere le sue ossessioni
pessimistiche, per poter conoscere e dare un senso al male. Confidando che nel male esista un senso più alto,
Manzoni trova la via per affrontare il dolore e passarci attraverso: la Provvidenza è la “forza dei disarmati”,
degli umili, che sono al centro dei Promessi Sposi, un vero e proprio romanzo popolare. Se Antonio Gramsci
criticò Manzoni definendo “aristocratico” il suo approccio al popolo, Natoli sostiene invece che esso sia
piuttosto un approccio distaccato, proprio di un grande scrittore che descrive le ambiguità del mondo, in cui
ragione e torto non possono mai dividersi nettamente e in cui le masse vengono sfruttate e umiliate dal
potere. Il popolo da Manzoni non viene concepito come “classe” ma come “volgo disperso che nome non
ha” (cit. coro dell’Adelchi); la fragilità umana di fronte al dilagare del male viene descritta con compassione,
un tratto peculiare del romanzo, che si può definire anti-eroico. La forma del romanzo (da Hegel definita “la
prosa del mondo”) permette a Manzoni di addentrarsi nella storia: dopo aver aperto sull’intero del paesaggio
con una zoomata dall’alto, Manzoni fa irrompere l’imprevisto. Se le montagne stanno lì da sempre, la vita
invece è fatta di “accidenti” che ribaltano i nostri piani. Ha inizio così una storia tra le tante sulla scena del
mondo: per Manzoni la Storia è fatta di questo, di singole vite. Scandagliando l’animo dei suoi personaggi,
Manzoni entra così nelle pieghe della storia lasciandosi uno spazio “fuori campo” per far riflettere il lettore
sulle responsabilità individuali, così come sulla necessità di comprenderle, convinto che il “male che si
conosce è più vicino alla guarigione del male che si ignora”. La fede non esonera affatto dal dolore ma
permette di starci dentro e di interpretare le disgrazie non come fatti casuali ma come indicatori di direzione
in cui fare delle scelte: ognuno è chiamato a prendersi la sua parte di responsabilità di fronte al male: Don
Abbondio, Gertrude, Renzo,….

IL MALE SOTTO L’ASPETTO ETICO (SCELTA E RESPONSABILITA’)


Cap.3 Responsabilità, colpa, emendazione
Responsabilità è una parola chiave per Manzoni, non solo nel romanzo. Natoli richiama l’episodio della
polemica con Pietro Verri: nel 1630 venne istituito un processo ai cosiddetti untori (persone accusate di aver
volontariamente diffuso la peste), i quali vennero condannati in seguito a una confessione estorta con la
tortura. Se Verri usa l’episodio per puntare il dito contro la tortura come mezzo barbaro, che non porta alla
verità, Manzoni risale ancora più a monte, definendo illegittimo il processo stesso, messo in atto soltanto a
partire da ignoranza, pregiudizio e superstizione, ossia da passioni umane radicate che non si possono
estirpare dall’uomo semplicemente cambiando procedure.
Manzoni va al cuore del problema del male non ragionandone in astratto, ma entrando nel vivo della storia e
per far questo studia cronache dell’epoca (Ripamonti sulla peste di Milano e Gioia sulle gride contro i bravi)
così come economisti (Sismondi): studiando la storia di un tempo passato si trovano infatti tratti istruttivi per
il presente. La scelta del romanzo storico, cioè di qualcosa di realmente accaduto, rende ancora più
irrevocabile la coscienza del male, al centro del romanzo, che lo studioso Giovanni Macchia definisce
“romanzo nero”: c’è il male inflitto, con un’analisi spietata del potere, della giustizia negata, delle colpe
sociali e delle miserie umane, e c’è il male subìto, che diventa fonte di perversione dei buoni, epidemia. Per
non essere vittime di questa epidemia ci vuole una grande forza, che però non deve essere reattiva ma attiva:
non è la vendetta la soluzione al male, ma la pratica quanto più possibile del bene, come esemplificato nella
storia di Lodovico-fra Cristoforo, in cui l’espiazione della colpa passa anche attraverso il sentirsi “inutili”.
Fare il bene per il bene, indipendentemente dai risultati, è l’unica risposta “giusta” al male.

IL MALE SOTTO L’ASPETTO POLITICO E SOCIALE


Cap.4 Potere, società, giustizia
La tesi per cui i Promessi Sposi siano un romanzo sul male trova altri argomenti nel tema politico. Secondo
Calvino, i PS sono il romanzo dei “rapporti di forza”, in cui si combattono il vero e il falso, la buona e la
cattiva Chiesa, i poteri forti e il popolo. La scelta del Seicento rientra nella volontà di Manzoni di far
emergere le costanti della storia umana, particolarmente evidenti in un secolo dominato dalla sopraffazione,
dalla violenza e dall’abuso. Il potere, che per Manzoni dovrebbe essere sinonimo di “servizio”, viene visto
nella sua contrapposizione al diritto: colpevole è chi ne abusa ma anche chi non vi si oppone (Don
Abbondio). Manzoni ragiona su potere e società non in astratto, in un saggio, ma calando gli assetti
istituzionali, politici, sociali in una storia e analizzando finemente i comportamenti collettivi: l’esempio più
significativo di ciò si trova nel capitolo sulla carestia e sulla rivolta, in cui si evidenzia la tendenza delle folle
ad essere manipolate da furbi e cinici e a dimenticare le reali cause del malessere sociale sfogando in
spiegazioni semplicistiche (quando non del tutto false) la propria rabbia. La dietrologia, il complottismo, la
creazione di capri espiatori, le “supposizioni” che sviano le responsabilità e la speculazione di chi si
approfitta di tutto ciò, sono i mali rintracciati da Manzoni nelle dinamiche della crisi economico-sociale della
Milano del 1628, e sono perfettamente sovrapponibili a tante situazioni contemporanee.

I MALI (PATOLOGIE) DELL’ANIMA: DON RODRIGO, LUCIA E GERTRUDE


Cap. 5 La prevaricazione e l’insinuazione: il desiderio senza legge e la sollecitazione del desiderio
Un altro aspetto analizzato da Manzoni nella sua riflessione sul male è quello delle “patologie della libertà”,
ossia quando l’azione segue come unico impulso il desiderio senza limiti: “poiché voglio qualcosa, ho diritto
di prendermela”. Don Rodrigo ricalca il personaggio mozartiano di Don Giovanni, libertino che va in cerca
di avventure amorose solo per divertimento e finisce per essere dannato. Don Rodrigo non ama affatto Lucia,
che rappresenta un semplice capriccio e un modo per ribadire il suo potere. Anche Lucia, come Renzo, si
trova di fronte al rischio di “pervertimento”: di fronte a Gertrude, Lucia però ribadisce la libertà della sua
scelta di Renzo. Non è quindi un personaggio represso, come spesso è stato dipinto, ma al contrario una
donna che vuole scegliere liberamente e di fronte alla tentazione del male, sceglie la fede. Attraverso Lucia,
il personaggio più “costruito” del romanzo, Manzoni denuncia la violenza di un desiderio senza limiti e i
benefici della virtù che ad esso si contrappone: il sacrificio dell’innocente e pura Lucia rende ancora più
manifesta l’empietà del prevaricatore, mette in luce ancora più chiaramente per il lettore il danno di un
desiderio senza freni.
Cap.6 Gertrude: l’inibizione degli affetti e le patologie dell’anima
La frase del cap.2 oggetto di questo libro (la perversione degli offesi) trova la sua più alta definizione nel
personaggio di Gertrude: ciò che in Renzo e Lucia è rimasto rischio, nella Monaca di Monza si realizza
compiutamente: la devastazione di una vita. Il potere prevaricatore del padre distorce, devia e infine annienta
una natura sana. Nella descrizione di Gertrude (cap. IX) emerge tutta la partecipazione di Manzoni per la
ragazza, prodotto malato di un potere che per mettere al riparo le ricchezze priva i figli della libertà. La storia
di Gertrude è quella di una tortura dei sensi e dell’anima, in cui la sessualità repressa riemerge come malattia
e come degradazione di sé. Il potere costrittivo riesce quindi a rendere la vittima colpevole, mettendola nelle
occasioni per esserlo. Gertrude è quindi vittima due volte: di ciò di cui è stata privata ma anche delle
conseguenze che questa privazione ha avuto sulla sua anima. Nella sua complicità al rapimento di Lucia si
manifesta compiutamente il dramma di un’anima spezzata, una storia senza lieto fine.
LA REAZIONE AL MALE: CINISMO O PIETA’?
Cap.7 Il cinismo, il dolore, la pietà
Di fronte al male che si abbatte su tutti (la peste) è occasione per due distinte prese di posizione: quella di chi
compatisce e perdona (Fra Cristoforo e Renzo di fronte a Don Rodrigo), che nasce quando si guarda l’altro in
volto, e quella di chi specula sulla sofferenza e trasforma il dolore in business: durante la peste i monatti
(coloro che vanno a raccogliere i cadaveri degli appestati) rubano, rapinano, estorcono soldi alle famiglie,
esattamente come fanno gli scafisti oggi di fronte ai disperati che vogliono emigrare, lucrando sulla miseria
di uomini stremati da fame e guerre. Allo sguardo dell’altro però non si può sfuggire e nell’episodio del cap.
34 della madre di Cecilia, bimba uccisa dalla peste, si rivela come anche il “turpe monatto” esiti di fronte
all’amore materno (pag. 75). L’episodio è citato da Primo Levi nel capitolo sulla “zona grigia” dei Sommersi
e salvati, per delineare come pietà e brutalità, compassione e cinismo possano coesistere all’interno di uno
stesso individuo e di come lo sguardo sul singolo costringa l’uomo a prendere posizione di fronte all’altro.
Levi racconta l’episodio di una donna trovata viva nella camera a gas del lager. Di fronte alla sopravvissuta
gli aguzzini si paralizzano: non c’è più di fronte una massa anonima, ma una singola persona. L’ufficiale
delle SS, di fronte allo sgomento dei suoi sottoposti, decide che la ragazza va uccisa, ma chiama qualcun
altro a farlo. Levi commenta che probabilmente, se questo ufficiale fosse vissuto in un’altra epoca, si sarebbe
comportato come qualunque altro uomo, ribadendo che anche le cosiddette “persone comuni” possono
trasformarsi in aguzzini quando, per conformismo o per ossequio, avallano il potere, diventando vettori e
strumenti della colpa del sistema.

LA “MORALE” DEL ROMANZO


Cap.8 L’accidente: le deviazioni della storia e l’inatteso
Più che il romanzo della Provvidenza, i Promessi sposi sono il romanzo degli “accidenti”: gli imprevisti
infatti sono il motore della storia, a significare che nelle vicende umane l’inatteso può sempre accadere e dà
frutto dove il terreno è maturo (come nella vicenda dell’Innominato). Le avventure di Renzo assomigliano a
quelle di un romanzo di formazione in cui gli accidenti insegnano a vivere: Raimondi paragona Renzo ad
Ulisse, l’eroe che attraversa molte peripezie e imprevisti prima di tornare a casa. Il finale però è tutto tranne
che un lieto fine: la peste ha portato via fra Cristoforo, i privilegi di casta rimangono, le ingiustizie
continuano ad accadere, Renzo deve affrontare nuove prove. Il romanzo resta aperto perché la vita lo è: la
vita impegna sempre a nuove sfide che bisogna affrontare con sano realismo. Si può dunque cambiare il
corso della storia? Manzoni dubita che le rivoluzioni siano idonee ma è persuaso che il primo passo da fare
sia una mutazione delle coscienze. Lo stare bene inteso come pretesa di raggiungere la perfezione alla fine fa
stare peggio: ciò che bisogna fare è agire con giustizia e anche nell’ipotesi che tutto vada male, non resta che
provarci. Per chi crede nella Provvidenza vi è la persuasione che vi è un piano superiore ai mali della storia,
per chi non crede c’è comunque la certezza che per avere il bene bisogna farlo accadere. In Manzoni non vi è
un’astratta adesione a un ideale ma l’accettazione della realtà per quella che è, fedeltà alla terra che significa
saper soffrire e sentirsi fratelli degli oppressi ma anche saper gioire dello stare al mondo con quello che si ha.

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