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MICHIO KAKU
Traduzione di
Chiara Barattieri di San Pietro
e Giuseppe Maugeri
Michio Kaku
Il futuro della mente. L’avventura della scienza per capire, migliorare e potenziare il nostro cervello
Titolo originale
Future of the Mind: The Scientific Quest to Understand, Enhance, and Empower the Mind
© 2014 by Michio Kaku
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Alla mia amata moglie, Shizue, e alle mie figlie, Michelle e Alyson
Il futuro della mente
Introduzione
Rivoluzioni gemelle
Potenziare la mente
Per quanto riguarda il cervello, parto da una premessa fondamentale: il suo funzionamento, ciò
che chiamiamo “mente”, è la conseguenza diretta della sua anatomia e della sua fisiologia, e niente
altro.
Carl Sagan
Nel 1848 Phineas Gage lavorava nel Vermont come operario addetto
alle ferrovie. Un giorno una carica di dinamite esplose accidentalmente
sparandogli in faccia un palo di ferro lungo più di un metro: questo
attraversò la parte frontale del cervello di Gage, per uscire dalla sommità
del suo cranio e atterrare a oltre cento metri di distanza. I compagni,
scioccati alla vista di pezzi di cervello volare via assieme al palo,
chiamarono subito un medico: con grande stupore di tutti, medico incluso,
Gage non morì sul colpo.
Per diverse settimane rimase semi incosciente1 ma alla fine sembrò
rimettersi del tutto (nel 2009 fu ritrovata una delle rare fotografie di Gage,
che mostra un bell’uomo dall’aspetto sicuro, con una ferita alla testa e
all’occhio sinistro, e con in mano una palo di ferro). Tuttavia, dopo
l’incidente, i colleghi di Gage cominciarono a notare un netto cambiamento
nella sua personalità: da caposquadra allegro e sollecito quale era, divenne
violento, ostile ed egoista, e alle donne veniva consigliato di non
avvicinarglisi. John Harlow, il medico che lo aveva curato, osservò che
Gage era «capriccioso e incostante. La sua mente concepiva innumerevoli
piani e operazioni, organizzate con la stessa velocità con cui erano poi
abbandonate a favore di altre che [al paziente] apparivano più semplici. Un
bambino, in quanto a capacità intellettiva e manifestazioni, ma con le
passioni animali di un uomo». Harlow notò che era «radicalmente
cambiato», e i suoi amici sostennero che «non era più Gage»2. Dopo la sua
morte, avvenuta nel 1860, Harlow conservò il cranio di Gage e il palo
incriminato; indagini condotte ai raggi X sul reperto anatomico
confermarono in seguito che l’incidente aveva seriamente danneggiato
l’area cerebrale che si trova proprio dietro alla fronte – il lobo frontale – di
entrambi gli emisferi.
Questo incredibile evento non cambiò solo la vita di Phineas Gage, ma
l’intero corso della scienza: se prima di allora in filosofia dominava il
dualismo, secondo cui anima e cervello erano due entità separate, con il
tempo divenne sempre più chiaro che il danno al lobo frontale del cervello
di Gage aveva determinato il brusco cambiamento della sua personalità. Ciò
portò a una trasformazione del paradigma del pensiero scientifico: si
potevano associare aree del cervello specifiche a specifici comportamenti.
Il cervello di Broca
Tra gli anni cinquanta e sessanta del Novecento fu creata una mappa del
cervello che ne localizzava le diverse regioni e per alcune di esse
identificava anche le rispettive funzioni.
La figura 2 mostra la neocorteccia, lo strato esterno del cervello.
Nell’uomo questa struttura è molto sviluppata ed è divisa in quattro lobi,
tutti deputati all’elaborazione dei segnali sensoriali, tranne uno: il lobo
frontale, localizzato proprio dietro la fronte. La corteccia prefrontale, la
parte più anteriore del lobo frontale, è la sede dell’elaborazione della
maggior parte del pensiero razionale. Le parole su queste pagine, per
esempio, sono elaborate dalla vostra corteccia prefrontale. Una lesione a
quest’area può compromettere la capacità di una persona di pianificare o
immaginare il futuro, come nel caso di Phineas Gage. In questa regione il
cervello soppesa le informazioni sensoriali e pianifica le azioni da
intraprendere.
Figura 2. I quattro lobi della neocorteccia del cervello sono responsabili di funzioni diverse ma tra
loro correlate (Jeffrey L. Ward).
Il cervello in evoluzione
Quando osserviamo le diverse strutture del nostro corpo – muscoli, ossa
e polmoni – la loro funzione sembra logica ed evidente. La struttura del
cervello, invece, appare casuale e caotica, e il tentativo di mapparlo è stato
spesso definito “cartografia per pazzi”.
Nel 1967, per dare un senso a questa struttura, il medico del National
Institute of Mental Health Paul MacLean decise di applicare la teoria
evoluzionistica di Darwin. Divise il cervello umano in tre parti (da allora la
ricerca ha dimostrato che è possibile ridefinire il modello in modo più
dettagliato, ma lo useremo come schema per spiegare la struttura generale
del cervello) e notò, per prima cosa, che le sue parti posteriore e centrale –
il tronco cerebrale, il cervelletto e i nuclei della base – erano in pratica
identiche a quelle del cervello dei rettili. Ora note come cervello rettiliano,
queste strutture sono le più antiche dal punto di vista evolutivo, e governano
funzioni basilari quali l’equilibrio, la respirazione, la digestione, la
frequenza cardiaca e la pressione del sangue. Controllano anche
comportamenti come il combattimento, la caccia, l’accoppiamento e la
territorialità, necessari per la sopravvivenza e la riproduzione. Possiamo far
risalire la nascita del cervello rettiliano a cinquecento milioni di anni fa.
Figura 3. La storia del cervello: il cervello rettiliano, il sistema limbico (il cervello mammifero), e la
neocorteccia (il cervello umano). Si può dire che il percorso evolutivo del cervello umano sia partito
dal primo, fino a giungere al nostro (Jeffrey L. Ward).
Figura 4. Diagramma di un neurone. I segnali elettrici viaggiano lungo l’assone fino alla sinapsi; i
neurotrasmettitori possono regolarne il flusso (Jeffrey L. Ward).
L’elettroencefalografia
Scansioni PET
Sono molti gli strumenti entrati a far parte della “cassetta degli attrezzi”
dei neuroscienziati negli ultimi dieci anni: tra di essi lo scanner
elettromagnetico transcranico (TES), la magnetoencefalografia (MEG), la
spettroscopia nel vicino infrarosso (NIRS) e l’optogenetica.
Il magnetismo è stato inoltre utilizzato per bloccare l’attività di
specifiche parti del cervello senza l’ausilio della chirurgia. Il principio
fisico alla base di questi nuovi strumenti è che una rapida inversione di un
campo elettrico ne genera uno magnetico e viceversa; i
magnetoencefalogrammi misurano in modo passivo i campi magnetici
prodotti dal cambiamento dei campi elettrici del cervello. Essi sono molto
deboli, e loro forza è pari a un miliardesimo di quella terrestre. Come le
EEG, i MEG hanno una risoluzione temporale elevatissima, fino al
millesimo di secondo, ma la loro risoluzione spaziale è solo pari a un
centimetro cubo.
Al contrario della MEG, che come abbiamo detto è una tecnologia
passiva, uno scanner elettromagnetico transcranico è in grado di generare
un potente impulso elettrico, da cui a sua volta si genera un forte impulso
magnetico. Se posto vicino al cervello, l’impulso magnetico generato dalla
TES penetra nel cranio e crea un campo elettrico all’interno del cervello:
l’impulso elettrico secondario, a sua volta, è sufficiente per spegnere o
smorzare l’attività di aree del cervello selezionate.
In passato gli scienziati potevano basarsi soltanto sull’effetto di un ictus
o di un tumore per “spegnere” l’attività di una parte del cervello e
determinarne la funzione; grazie alla TES è invece oggi possibile inibire o
attenuare l’attività di un’area cerebrale a proprio piacere: direzionando il
campo magnetico in maniera appropriata è infatti possibile determinarne la
funzione solo osservando in che modo si modifichi il comportamento di una
persona (quando gli impulsi sono diretti verso lobo temporale sinistro, per
esempio, è possibile osservare come ciò influisca negativamente sull’abilità
di parlare).
Figura 6. Scanner elettromagnetico transcranico e magnetoencefalogramma. Al posto delle onde
radio, la MEG sfrutta i principi del magnetismo per determinare la natura dei pensieri. Applicando un
campo magnetico al cervello è possibile silenziare in modo temporaneo l’attività di alcune sue parti,
permettendo agli scienziati di determinare l’azione delle diverse regioni cerebrali senza dover
necessariamente ricorrere a conseguenze di eventi traumatici, come un ictus (Jeffrey L. Ward).
Il cervello trasparente
Chi comanda?
1
Si veda Michael S. Sweeney, Brain: The Complete Mind: How It Develops, How It Works, and
How to Keep It Sharp, National Geographic, Washington 2009, pp. 207-8.
2
Rita Carter, Mapping the Mind, University of California Press, Berkeley 2010, p. 24.
3
Judith Horstman, The Scientific American Brave New Brain, John Wiley and Sons, San Francisco
2010, p. 87.
4
Carter, Mapping the Mind, cit., p. 28.
5
The Transparent Brain, in “New York Times”, 10 aprile 2013.
6
Carter, Mapping the Mind, cit., p. 83.
7
Intervista radiofonica a Steven Pinker per Exploration, settembre 2003.
8
Steven Pinker, The Riddle of Knowing You’re Here, in Your Brain: A User’s Guide, “Time” Inc.
Specials, New York 2011.
9
Boleyn-Fitzgerald, Pictures of the Mind, cit., p. 111.
10
Carter, Mapping the Mind, cit., p. 52.
11
Intervista radiofonica a Micheal Gazzaniga nel settembre 2012 per Science Fantastic.
12
Carter, Mapping the Mind, cit., p. 53.
13
Boleyn-Fitzgerald, Pictures of the Mind, cit., p. 119.
14
Intervista a David Eagleman nel maggio 2012 per Science Fantastic.
15
David Eagleman, In incognito: la vita segreta della mente, Milano, Mondadori 2012 (ed. orig.,
Incognito: The Secret Lives of the Brain, Vintage 2012).
16
Ivi.
Capitolo 2
La coscienza secondo un fisico
La mente dell’uomo è capace di ogni cosa… perché in essa si trova tutto, tutto il passato e tutto il
futuro.
Joseph Conrad
La coscienza può ridurre anche il più sofisticato dei pensatori a straparlare senza coerenza.
Colin McGinn
Definizione di coscienza
Tutte le teorie devono essere falsificabili. La sfida che si pone alla teoria
dello spazio-tempo della coscienza è quella di riuscire a spiegare tutti gli
aspetti della coscienza umana, dal momento che se ci sono processi
cognitivi che non riesce a spiegare, la teoria può dirsi confutata. Si potrebbe
obiettare che il nostro senso dell’umorismo sia tanto effimero e
donchisciottesco da trascendere qualsiasi spiegazione: trascorriamo una
gran quantità di tempo a ridere con gli amici o davanti a un comico, e
tuttavia sembra che l’umorismo non abbia niente a che fare con la
simulazione del futuro. Ma consideriamo questo: in una barzelletta, gran
parte del divertimento sta nella battuta finale.
Quando ascoltiamo una storiella non possiamo fare a meno di prevedere
come andrà a finire e completare il racconto da soli (anche se
inconsapevolmente). Conosciamo a sufficienza il mondo fisico e quello
sociale per anticipare la fine della storia, ma scoppiamo a ridere quando la
battuta finale ci porta a una conclusione del tutto inaspettata. L’essenza
dell’umorismo sta nella sorpresa data dal disallineamento tra la nostra
simulazione del futuro e la conclusione (ed è un aspetto importante dal
punto di vista evolutivo. Per cui avere un senso dell’umorismo ben
sviluppato riflette il nostro livello 3 di coscienza e intelligenza, ovvero la
capacità di simulare eventi futuri).
Al comico americano W.C. Fields fu chiesto cosa ne pensasse
dell’educazione dei giovani: «Crede che i giovani debbano essere saper
presi?» «Certamente,» rispose lui «a calci».
La battuta è divertente perché ci immaginiamo che la risposta si debba
riferire, in qualche modo, alla pedagogia: W.C. Fields propone invece un
futuro del tutto diverso, che prevede un uso socialmente inappropriato della
forza (è ovvio che quando spieghiamo una battuta essa perde la sua forza
perché avevamo già simulato diverse situazioni possibili nella nostra testa).
Ciò spiega anche quello che tutti i comici sanno già: il segreto
dell’umorismo sono i tempi comici. Se la battuta arriva troppo in fretta, il
cervello non ha il tempo fare una previsione e perde la sensazione di
sorpresa. Se arriva troppo tardi, il cervello ha già avuto il tempo di simulare
diverse possibilità, e ancora una volta si perde il senso dell’imprevisto.
(La risata, chiaramente, ha altre funzioni, come quella di legare con i
compagni della propria cerchia: in realtà utilizziamo il senso dell’umorismo
per valutare il carattere di chi ci sta intorno, un processo essenziale per
determinare il nostro status all’interno della società. Ridere contribuisce
quindi a definire la nostra posizione dell’ambiente sociale, ovvero il livello
2 di coscienza).
Alcuni recenti studi di imaging cerebrale hanno in parte fatto luce sui
meccanismi che permettono al cervello di simulare il futuro, processo che
sembra originarsi principalmente dall’attività della corteccia prefrontale
dorsolaterale – l’amministratore centrale – tramite i ricordi del passato. I
risultati di tali simulazioni possono essere desiderabili, e in questi casi si
attiveranno i centri del piacere (nel nucleo accumbens, localizzato vicino
all’amigdala, e nell’ipotalamo), o negativi, e richiedere l’intervento della
corteccia orbitofrontale. Alla fine sarà la corteccia prefrontale dorsolaterale
a mediare e a prendere la decisione finale, come descritto nella figura 9
(ricordo che alcuni neurologi questa battaglia assomiglia alle dinamiche
freudiane tra ego, id e superego).
Il mistero dell’autoconsapevolezza
Esiste con ogni probabilità una parte specifica del cervello il cui lavoro
consiste nell’unificare i segnali provenienti dai due emisferi e creare una
sensazione di sé uniforme e coerente. Todd Heatherton, psicologo della
Dartmouth University, è convinto che questa regione si trovi all’interno
della corteccia prefrontale, e più nello specifico nella corteccia prefrontale
mediale. Il biologo Carl Zimmer ha scritto: «Rispetto al senso del “sé”, la
corteccia prefrontale mediale potrebbe svolgere lo stesso ruolo che
l’ippocampo svolge per la memoria (…): costruire un senso unificato di chi
siamo»9. Dunque, tale struttura potrebbe essere la porta d’ingresso al
concetto di “io”, in altre parole, la regione del cervello che fonde, integra e
architetta un racconto unificato della nostra identità (ma ciò non vuol dire
che la corteccia prefrontale mediale sia l’omuncolo che siede nel nostro
cervello e che controlla ogni cosa).
Se questa teoria è vera, allora quando riposiamo o sogniamo ad occhi
aperti e pensiamo a noi stessi o ai nostri amici, il cervello dovrebbe essere
più attivo del normale, anche quando altri parti delle regioni sensoriali del
cervello non lo sono; e le scansioni cerebrali indicano proprio questo.
Heatherton conclude: «Per la maggior parte del tempo in cui siamo
impegnati a sognare ad occhi aperti pensiamo a ciò che ci è capitato o a ciò
che pensiamo di altre persone, ovvero compiamo un’autoriflessione»10.
Secondo la nostra teoria dello spazio-tempo la coscienza nasce
dall’attività combinata delle diverse sottounità del cervello, che si trovano
tra loro in competizione per creare un unico modello di mondo. Eppure la
coscienza ci appare un fenomeno uniforme e continuo: com’è possibile che
tutti vivano una sensazione di “sé” continua, in cui un’unica entità è sempre
al comando?
Nel capitolo precedente abbiamo incontrato la difficile situazione dei
pazienti split-brain, i quali si trovano a combattere contro mani aliene
dotate di una mente propria. Sembra che il cervello di queste persone ospiti
due centri di coscienza: in che modo ciò può generare un unico e coeso
senso del “sé”?
Ho posto questa domanda a una persona che potrebbe avere la
risposta11. Come accennato, Micheal Gazzaniga ha studiato lo strano
comportamento dei pazienti split-brain: nel corso di vari decenni ha
scoperto che quando il loro emisfero sinistro era messo di fronte al fatto che
all’interno dello stesso cranio sembravano risiedere due centri separati della
coscienza, esso tendeva a dare spiegazioni assurde, senza preoccuparsi di
quanto strane potessero sembrare. Gazzaniga è convinto che ciò crei la falsa
sensazione, comune a tutti, di essere individui unici e unificati. Ha chiamato
l’emisfero sinistro l’interprete: la sua funzione sarebbe quella di creare idee
per coprire le incongruenze e le lacune della nostra coscienza.
In un esperimento con un paziente split-brain, Gazzaniga aveva
presentato la parola rosso solo all’emisfero sinistro e la parola banana solo
a quello destro (l’emisfero sinistro, dominante, non poteva essere quindi
consapevole dell’idea di banana). Al soggetto era poi stato chiesto di
prendere in mano una penna con la mano sinistra (controllata dall’emisfero
destro) e di disegnare qualcosa: ovviamente il paziente aveva disegnato una
banana. L’emisfero destro agiva così perché aveva visto la banana, ma il
cervello sinistro non poteva averne idea.
Al soggetto era poi stato chiesto di spiegare perché avesse disegnato
proprio quell’oggetto. Dal momento che il linguaggio è controllato solo
dall’emisfero sinistro, e che questo non poteva sapere niente della banana, il
paziente avrebbe dovuto rispondere “non lo so”. Invece disse: «È più
semplice disegnare con questa mano, perché con questa mano è più facile
buttare giù qualcosa». Secondo Gazzaniga l’emisfero sinistro stava
cercando di trovare una spiegazione a un fatto incongruente, perché il
paziente non aveva idea di come mai la sua mano destra avesse disegnato
una banana.
Gazzaniga conclude: «È compito dell’emisfero sinistro realizzare quella
inclinazione tutta umana di trovare un ordine al caos, di far rientrare tutti i
fatti in una storia coerente e di trovare un contesto a tutto. Sembra che
questo emisfero sia portato a cercare di dare una struttura al mondo anche di
fronte a prove evidenti dell’inesistenza di uno schema»12.
Da qui proviene il nostro senso del “sé”. Sebbene la coscienza sia un
patchwork di tendenze contrastanti e spesso in contraddizione, l’emisfero
sinistro ignora tali incongruenze e riempie le lacune più evidenti per
garantire l’esistenza di un senso uniforme di “io”. In altre parole, esso
trascorre il suo tempo a inventare frottole, alcune delle quali strampalate e
assurde, per dare un senso al mondo: si chiede “perché?”, e inventa
spiegazioni, anche se la domanda non ha una risposta.
(Esiste probabilmente una ragione evolutiva per cui l’uomo ha
sviluppato un cervello diviso in due: un bravo amministratore spesso
incoraggia i propri assistenti a sostenere punti di vista opposti in una
discussione, per stimolare un dibattito intenso e meditato, e la maggior parte
delle volte la risposta giusta emerge dall’interazione tra idee sbagliate. Allo
stesso modo, i due emisferi si completano l’un l’altro, fornendo un’analisi
pessimistica/ottimistica o analitica/olistica della stessa questione. Come
vedremo, nel caso di alcune malattie mentali questo scambio di idee tra i
due emisferi non funziona nel modo corretto).
Ora che abbiamo una teoria della coscienza che funziona, è venuto il
momento di utilizzarla per capire in che modo si evolveranno le
neuroscienze. Oggi abbiamo a nostra disposizione un vasto e straordinario
repertorio di esperimenti neuroscientifici che stanno modificando in
maniera fondamentale l’intero panorama scientifico: grazie
all’elettromagnetismo gli scienziati sono in grado di esplorare la natura dei
pensieri, inviare messaggi telepatici, controllare gli oggetti con la telecinesi,
registrare i ricordi e, forse, farci diventare più intelligenti.
L’applicazione pratica più immediata di questa nuova tecnologia è
qualcosa che una volta era considerata assolutamente impossibile: la
telepatia.
1
Steven Pinker, Come funziona la mente, Milano, Mondolibri 2001, pp. 651-65 (ed. orig. How the
Mind Works, 1997).
2
“The Biological Bulletin”, n. 3, dicembre 2008, p. 216.
3
Sono d’obbligo, quindi, alcune precisazioni. I gatti selvatici, per esempio, sono animali sociali
che, allo stesso tempo, non cacciano in branco: il numero di animali del branco è quindi pari a 1,
ma solo per quanto riguarda la caccia. Quando arriva la stagione degli accoppiamenti i gatti
selvatici mostrano complessi rituali di corteggiamento, di cui il livello 2 non può non tener conto.
Quando poi la femmina del gatto selvatico partorisce una cucciolata che deve essere curata e
sfamata, il numero di interazioni sociali aumenta di conseguenza. Anche nel caso dei cacciatori
solitari, quindi, il numero dei membri della specie che interagiscono tra loro non può essere 1, e il
numero totale di anelli di retroazione può essere piuttosto elevato. Inoltre, se il numero di membri
di un branco diminuisce, potrebbe sembrare che il livello 2 si riduca di conseguenza. Per tenerne
conto, dobbiamo quindi introdurre il concetto di un livello 2 medio che sia comune per l’intera
specie, oltre a uno specifico livello 2 di coscienza per il singolo animale. Il livello 2 medio per
una determinata specie non cambia se il branco si ridimensiona, perché è comune all’intera
specie, ma cambia il livello 2 del singolo individuo (che ne descrive l’attività mentale e della
coscienza). Riferendosi all’uomo, il livello 2 medio deve tenere in considerazione il numero di
Dunbar (150) ovvero il numero approssimativo di persone del nostro gruppo sociale di cui
possiamo tenere traccia. Il livello 2 dell’uomo inteso come specie sarà quindi il risultato del
numero totale di emozioni e comportamenti distinti che utilizziamo per comunicare, moltiplicato
per 150 (mentre i singoli individui possono mostrare un livello 2 di coscienza molto diverso, dal
momento che la cerchia di amici e il modo con cui interagiamo con essi può variare in maniera
considerevole). Notiamo qui che anche alcuni organismi appartenenti al livello 1 (come gli insetti
e i rettili) possono mostrare dei comportamenti sociali. Le formiche, quando si scontrano,
scambiano tra loro informazioni tramite scie chimiche, e le api utilizzano la “danza” per
comunicare la posizione dei fiori. I rettili possiedono addirittura un sistema limbico primitivo ma,
in generale, come detto, questi animali non sembrano provare alcuna emozione.
4
Michael S. Gazzaniga, Human: quel che ci rende unici, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 27
(ed. orig. Human, 2008).
5
Daniel Gilbert, Stumbling on Happiness, Alfred A. Knopf, New York 2006, p. 5.
6
Gazzaniga, Human, cit., p. 20.
7
Eagleman, In incognito, cit., p. 144.
8
John Brockman, The Mind: Leading Scientists Explore the Brain, Memory, Personality, and
Happiness, Harper Perennial, New York 2011, p. XIII.
9
Floyd Bloom, Best of the Brain from Scientific American: Mind, Matter, and Tomorrow’s Brain,
Dana Press, New York 2007, p. 51.
10
Ivi, p. 51.
11
Intervista radiofonica a Micheal Gazzaniga nel settembre 2012, per Science Fantastic.
12
Gazzaniga, Human, cit., p. 85.
Parte II
Il potere della mente sulla materia
Capitolo 3
Telepatia. A cosa pensi?
Che ci piaccia o meno, il cervello è una macchina. Gli scienziati sono arrivati a questa
conclusione non perché sono dei guastafeste meccanicisti, ma perché hanno accumulato le prove che
ogni aspetto della coscienza possa essere fatto risalire al cervello.
Steven Pinker
Alcuni storici sono convinti che Harry Houdini sia stato il più grande
mago mai vissuto. Le sue mirabolanti fughe da casse chiuse e camere
sigillate, con acrobazie che sfidavano la morte, hanno lasciato senza fiato i
suoi spettatori, ed era capace di far sparire le persone e farle riapparire nei
posti più inaspettati. Sapeva inoltre leggere la mente, o almeno così
sembrava.
Houdini provò in tutti modi a spiegare che le sue magie erano
un’illusione, una serie di abili giochi di prestigio: lui stesso ricordava al suo
pubblico che leggere la mente è impossibile. Oltraggiato dai sedicenti
maghi che ingannavano i propri facoltosi mecenati con scadenti trucchi da
salotto e sedute spiritiche, decise di viaggiare per tutto il paese al fine di
smascherarli, e promise che sarebbe stato in grado di copiare qualsiasi
numero di lettura del pensiero eseguita da questi ciarlatani privi di scrupoli.
Fu anche membro del comitato organizzato da “Scientific American” che
offriva una generosa ricompensa a chiunque fosse stato in grado di provare
di avere dei poteri psichici (ricompensa che nessuno si è mai aggiudicato).
Houdini credeva che la telepatia fosse impossibile; ma la scienza sta
dimostrando che si sbagliava: infatti, oggi essa è oggetto di intenso studio
nelle università di tutto il mondo, e gli scienziati sono già riusciti a
utilizzare dei sensori per leggere e decifrare, direttamente dal cervello,
singole parole, immagini e pensieri. Tali scoperte potrebbero cambiare il
modo di comunicare con i pazienti vittime di ictus o di incidenti, “bloccati”
all’interno dei propri corpi, incapaci di articolare i pensieri se non tramite il
movimento delle palpebre. Ma questo è solo l’inizio: la telepatia potrebbe
cambiare radicalmente il modo con cui interagiamo con i computer e il
mondo.
In un recente rapporto della IBM, il famoso Next 5 in 5 forecast1, in cui
gli scienziati dell’azienda propongono gli sviluppi più rivoluzionari da loro
previsti per i prossimi cinque anni, si dichiara che presto saremo in grado di
comunicare mentalmente con i computer, magari sostituendo mouse e
comandi vocali. Questo significherebbe utilizzare il potere della mente per
telefonare, pagare le bollette, guidare, prendere appuntamenti e creare
meravigliose sinfonie e opere d’arte. Le possibilità sono infinite, e sembra
che tutti, dalle aziende di computer agli educatori, dagli sviluppatori di
videogiochi agli studi di registrazione, fino al Pentagono, stiano facendo
convergere i propri interessi verso questa tecnologia.
La telepatia vera, quella di cui leggiamo nei libri di fantascienza e nei
fantasy, non è possibile senza l’aiuto di un assistente. Un elettrone emette
una radiazione elettromagnetica quando subisce un’accelerazione, e ciò vale
anche per gli elettroni che oscillano all’interno del cervello emettendo onde
radio. Questi segnali, però, sono troppo deboli per essere percepiti dagli
altri, e anche se fossimo in grado di intercettarli non sapremmo come
interpretarli: se però l’evoluzione non ci ha dotati della capacità di decifrare
tale insieme casuale di segnali, i computer possono farlo. Grazie alla
tecnologia EEG gli scienziati sono stati in grado di ottenere una grossolana
approssimazione dei pensieri di una persona: ai soggetti dell’esperimento
veniva fatto indossare un casco dotato di sensori EEG, ed era richiesto di
concentrare la propria attenzione su alcune immagini, per esempio quella di
un’automobile. Per ogni immagine venivano registrati i segnali EEG
generati dal suo cervello, e così è stato possibile creare un rudimentale
dizionario del pensiero, basato sulle singole corrispondenze. Quando poi a
quest’ultimo veniva mostrata l’immagine di un’altra auto, il computer era in
grado di riconoscere lo schema EEG generato, come quello associato al
pensiero di un’automobile.
Il vantaggio della tecnologia EEG è che i sensori utilizzati sono poco
invasivi e di facile applicazione: basta indossare un casco contenente un
sacco di elettrodi e la macchina EEG è in grado di identificare i segnali
elettrici generati dal cervello con una precisione temporale pari al
millisecondo (il suo problema, come abbiamo visto, è che le onde
elettromagnetiche si deteriorano quando attraversano il cranio, ed è difficile
localizzarne la fonte precisa). Questo metodo è in grado di dirci se il
soggetto stia pensando a un’automobile o a una casa, ma non di ricreare
l’immagine dell’automobile. Ecco dove entra in scena il lavoro di Jack
Gallant.
Leggere la mente
Alla Mayo Clinic del Minnesota, Jerry Shih ha usato la tecnologia dei
sensori ECOG per permettere ai pazienti epilettici di imparare a scrivere
con la mente. La calibrazione dello strumento è semplice: per prima cosa al
paziente vengono mostrate delle lettere, chiedendogli di concentrarsi
mentalmente su ciascuna di esse; allo stesso tempo, un computer registra i
segnali che provengono dal cervello a mano a mano che questo le passa in
rassegna. Come per l’esperimento precedente, una volta creato questo
dizionario di associazioni univoche è semplice per il paziente pensare a una
lettera per poterla vederla trascritta sullo schermo, e questo solo grazie al
potere della mente.
Shih, a capo del progetto, sostiene che l’accuratezza di questo strumento
si avvicini al 100 per cento, ed è convinto che in futuro sarà possibile creare
un dispositivo che registri le immagini, e non solo le parole, elaborate dalla
mente del paziente. Ciò potrebbe rappresentare un vantaggio pratico per
artisti7 e architetti, ma il grosso punto debole della tecnologia ECOG è che,
come abbiamo detto, è necessario esporre chirurgicamente parte del
cervello.
Allo stesso tempo, grazie alla loro non invasività, stanno ora
comparendo sul mercato le “macchine da scrivere EEG”; pur non essendo
così precise o accurate come le macchine ECOG, hanno il vantaggio di
poter essere vendute liberamente. La Guger Technologies, una società
austriaca, ne ha di recente presentato un modello a una fiera commerciale:
secondo i responsabili8, per imparare a usare questo strumento, che è in
grado di trascrivere a una velocità di 5-10 parole al minuto, bastano
all’incirca dieci minuti.
Elmetti telepatici
MRI al telefono
Questioni di privacy
Problemi legali
È dovere del futuro quello di essere pericoloso… I più grandi avanzamenti dell’uomo non sono
stati altro che processi che hanno sconvolto le società in cui sono avvenuti.
Alfred North Whitehead
Molti sono i gruppi di lavoro che si stanno buttando nella mischia. Gli
scienziati della Northwestern University hanno fatto un altro grande passo
avanti riuscendo a collegare il cervello di una scimmia direttamente al suo
braccio, bypassando il midollo spinale danneggiato. Nel 1995 fu data la
notizia che l’attore Christopher Reeve, che nei panni di Superman si era
librato nelle profondità dello spazio, era rimasto completamente paralizzato:
disarcionato da cavallo, era caduto atterrando sul proprio collo e il midollo
spinale era rimasto danneggiato appena sotto la testa. Se fosse vissuto più a
lungo, Reeve sarebbe stato testimone del lavoro di questi scienziati. Solo
negli Stati Uniti, le persone che soffrono di un danno al midollo spinale
sono più di duecentomila3. Anni fa sarebbero probabilmente morti poco
dopo l’incidente, ma gli avanzamenti nell’assistenza al trauma acuto hanno
determinato un sostanziale aumento del numero di persone che sopravvive a
questo tipo di traumi; in televisione non mancano le immagini delle
migliaia di soldati feriti, vittime della guerra in Iraq e Afganistan, e se ad
essi aggiungiamo il numero di pazienti paralizzati a seguito di ictus o di
altre malattie come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), il loro numero
sale a due milioni.
Gli scienziati della Nortwestern hanno impiantato sulla corteccia
cerebrale della scimmia un chip composto da cento elettrodi, tramite cui
registrare direttamente i segnali neurali mentre l’animale era intento ad
afferrare una palla, alzarla e lasciarla cadere in un tubo. Dal momento che a
ciascun compito corrisponde un determinato schema di segnali, gli
scienziati hanno potuto a mano a mano decodificarli.
Quando la scimmia vuole muovere il braccio4 i segnali neurali sono
elaborati dal computer facendo riferimento a questo codice, e vengono
inviati, invece che a un braccio meccanico, direttamente ai nervi del suo
braccio. «Intercettiamo i segnali elettrici naturali del cervello che
comandano i movimenti del braccio e della mano, e li inviamo direttamente
ai muscoli»5 ha commentato Lee Miller.
La scimmia ha imparato a coordinare i muscoli del braccio tramite
tentativi ed errori: «Questo processo di apprendimento motorio è molto
simile al percorso che intraprendiamo quando impariamo a utilizzare un
nuovo computer, un mouse o una racchetta da tennis» aggiunge Miller (è
impressionante che la scimmia sia stata in grado di controllare così tanti
movimento del braccio con un chip cerebrale di soli cento elettrodi: Miller
fa notare come il controllo di un braccio vero implica l’azione di milioni di
neuroni. Il motivo per cui cento elettrodi possono rappresentare
un’approssimazione ragionevole è che essi connettono solo i neuroni di
output, dopo che il cervello ha compiuto tutta una serie di complesse
elaborazioni: escludendo dal computo tutte queste analisi sofisticate, i cento
elettrodi possono semplicemente occuparsi della trasmissione
dell’informazione dal cervello al braccio).
Questo strumento è solo uno dei molti progettati alla Northwestern che
permetteranno ai pazienti di bypassare una lesione al midollo spinale. Un
altro sfrutta il movimento delle spalle per controllare un braccio: alzare le
spalle determina la chiusura della mano, abbassarle la fa aprire. Il paziente
può anche stringere le dita attorno a un oggetto o stringere una chiave tra
pollice e indice.
Miller conclude: «Un giorno questo collegamento tra cervello e muscoli
potrebbe aiutare i pazienti paralizzati a seguito di una lesione al midollo
spinale a eseguire tutte quelle attività quotidiane che garantiscono una
maggiore indipendenza».
Rivoluzionare le protesi
Brain-net e civilizzazione
Esoscheletri
Avatar e replicanti
Il futuro
Tra non molto i risultati ottenuti oggi nei laboratori di tutto il mondo
potrebbero alleviare le sofferenze delle persone affette da paralisi o
disabilità: grazie al potere della mente esse potranno comunicare con i
propri cari, controllare la propria sedia a rotelle e il proprio letto,
camminare (guidando degli arti meccanici), usare un elettrodomestico e
condurre una vita quasi normale.
Sul lungo termine, invece, questi progressi potrebbero avere importanti
conseguenze pratiche ed economiche a livello mondiale, dal momento che
verso la metà di questo secolo l’interazione mentale con i computer
potrebbe divenire la norma. Il giro di affari dell’industria dei computer si
aggira intorno a migliaia di miliardi di dollari, e rappresenta un mercato in
grado di creare giovani miliardari e nuove società nel giro di una notte: i
progressi di questo tipo di interfacce avranno quindi di certo un effetto su
Wall Street, oltre che nei nostri salotti.
I dispositivi che oggi usiamo per interagire con i computer (il mouse, la
tastiera, i portatili e i notebook, ecc.) potrebbero pian piano sparire per
lasciare spazio a semplici comandi mentali, che ordineranno a minuscoli
chip nascosti nell’ambiente di soddisfare i nostri desideri. Seduti in ufficio,
a passeggio nel parco, guardando le vetrine o semplicemente rilassandoci,
la nostra mente potrebbe interagire con decine di chip per controllare il
nostro conto in banca, organizzare una serata a teatro o fare una
prenotazione.
Anche i maestri dell’arte potrebbero trarre vantaggio da questa
tecnologia: se un artista riuscisse a visualizzare mentalmente la propria
opera, potrebbe poi riprodurre l’immagine su schermi olografici
tridimensionali grazie ai sensori EEG. Dal momento che l’immagine
mentale non sarebbe precisa quanto l’oggetto reale, egli potrebbe poi
migliorarla immaginandola più e più volte: dopo varie ripetizioni, la
versione definitiva potrebbe essere realizzata grazie a una stampante 3D.
Allo stesso modo, gli ingegneri potrebbero progettare modelli in scala di
ponti, tunnel e aeroporti usando solo la propria immaginazione, e sempre
con il pensiero potrebbero apportare all’istante qualsiasi modifica al
progetto originale; i singoli pezzi della macchina così progettata potrebbero
passare direttamente dallo schermo del computer alla stampante 3D.
Chi critica questa possibilità sostiene che i poteri telecinetici presentino
un limite enorme: la mancanza di energia. Alcuni super eroi possono
muovere una montagna col pensiero, come nel film X-Men: Conflitto finale,
in cui il perfido Magneto sposta il Golden Gate puntandovi semplicemente
un dito. Tuttavia il corpo umano può riunire in media solo circa 0,15 kW di
potenza, ed è quindi troppo debole per realizzare le imprese erculee
illustrate nei fumetti; ecco perché esse sono frutto di pura fantasia.
Il problema, però, ha una soluzione. Potremmo collegare la nostra
mente a una fonte di energia esterna, ingigantendone così la potenza di
milioni di volte, e avvicinandola a quella degli dei. In un episodio di Star
Trek l’equipaggio della nave raggiunge un pianeta lontano, dove incontra
una creatura che dichiara di essere Apollo, il dio greco del sole. L’essere,
che con i suoi trucchi di magia abbaglia tutti i membri dell’equipaggio,
sostiene di aver visitato la Terra eoni prima, quando gli uomini lo
adoravano. Eppure i membri l’equipaggio, scettici, sospettano l’inganno e
scoprono che la potenza del sedicente dio si deve in realtà a una fonte di
energia nascosta, che gli permette di realizzare i suoi inganni.
Distruggendola, egli ritorna ad essere un semplice mortale.
Allo stesso modo, anche noi in futuro potremmo controllare
mentalmente una fonte di energia che ci garantisca una forza sovraumana.
Un operaio edile, per esempio, potrebbe sfruttare tale risorsa per alimentare
i grossi macchinari necessari al suo lavoro e, in questo modo, riuscirebbe a
costruire da solo edifici e abitazioni utilizzando il potere della sua mente: la
fonte di energia provvederebbe a spostare e sollevare i carichi pesanti,
mentre l’operatore assomiglierebbe di più a un direttore d’orchestra, che
con la sola forza del suo pensiero conduce il movimento di gru e bulldozer.
La scienza comincia a raggiungere il passo della fantascienza anche in
altri modi: la saga di Guerre stellari è ambientata in un’epoca in cui la
civilizzazione umana si è diffusa in tutta la galassia, e la pace è garantita
dall’operato dei cavalieri Jedi, valorosi guerrieri che utilizzano il potere
della “Forza” per leggere nella mente e combattere con le spade laser.
Tuttavia non dovremo aspettare che l’uomo colonizzi l’intera galassia
per iniziare a sfruttare la potenza della Forza, perché, come abbiamo visto,
alcune sue declinazioni sono possibili già oggi (come per esempio la
capacità di “leggere” i pensieri altrui degli elettrodi ECOG e dei caschi
EEG). I poteri telecinetici dei cavalieri Jedi, invece, diventeranno realtà
solo quando impareremo a sfruttare telepaticamente una fonte di energia
esterna: mentre quei personaggi possono convocare a sé la propria spada
laser con un semplice movimento della mano, noi potremmo ottenere lo
stesso risultato sfruttando la forza del magnetismo (che può lanciare in aria
un martello, come vi riesce il magnete delle macchine per la risonanza
magnetica). Grazie alla moderna tecnologia, attivando telepaticamente una
fonte di energia esterna, potremmo già afferrare la spada laser che si trova
all’altro capo della stanza.
Potere divino
Un racconto morale
1
Sul “New York Times”, 17 maggio 2012, p. 17.
2
Intervista radiofonica a John Donoghue nel novembre 2009 per Science Fantastic.
3
Centers for Disease Control and Prevention, Washington, D.C., consultabile all’indirizzo internet
http://tinyurl.com/lxjyjas.
4
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/k24xdz9.
5
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/kdyp3fl.
6
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/alo38n4. CBS 60 Minutes, andato in onda il
30 dicembre 2012.
7
Ivi.
8
In “Wall Street Journal”, 29 maggio 2012.
9
Sul “New York Times”, marzo 2013, consultabile all’indirizzo internet
http://tinyurl.com/ckq7lhk. Si veda anche l’“Huffington Post”, 28 febbraio 2013,
http://tinyurl.com/c4w5p85.
10
“USA Today”, 8 agosto 2013, p. 1D.
11
Intervista a Miguel Nicolelis nell’aprile 2011.
12
L’obiettivo è stato raggiunto con successo. Per un approfondimento si veda
http://tinyurl.com/q9a757z. [N.d.R.].
13
Per una discussione completa sull’esoscheletro, si veda Miguel Nicolelis, Il cervello universale:
la nuova frontiera delle connessioni tra uomini e computer, Bollati Boringhieri, Torino 2013 (ed.
orig, Beyond Boundaries: The New Neuroscience of Connecting Brains with Machines – and
How It Will Change Our Lives, 2011).
14
Consultabile all’indirizzo internet http://www.asimo.honda.com. Si veda anche l’intervista ai
creatori di ASIMO dell’aprile 2007 per la serie televisiva in onda sulla BBC Visions of the
Future.
15
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/npyr9bz.
16
In “Discover”, 9 dicembre 2011, consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/8xcbnzg.
17
Nicolelis, cit., p. 315.
18
Intervista agli scienziati della Carnegie Mellon nell’agosto 2012 per la serie televisiva Sci Fi
Science, in onda su Discovery/Science Channel TV.
Capitolo 5
Ricordi e pensieri su ordinazione
Se il nostro cervello fosse abbastanza semplice da capire, non saremmo abbastanza intelligenti
per capirlo.
Anonimo
Neo è Il Prescelto. Solo lui può portare alla vittoria un’umanità sconfitta
dalle Macchine: solo Neo può distruggere Matrix, che per controllare
l’umanità ha impiantato nel cervello degli uomini dei falsi ricordi. In una
scena del film, divenuta ormai classica, le Sentinelle protettrici di Matrix
hanno accerchiato Neo e sembra che l’ultima speranza dell’umanità stia per
essere distrutta; ma grazie a un elettrodo precedentemente impiantato nella
parte posteriore del collo del protagonista, Neo può imparare
istantaneamente qualsiasi arte marziale, e nel giro di pochi secondi diventa
un maestro di karate capace di sconfiggere i nemici a colpi di calci volanti
mozzafiato e pugni ben assestati. Nel film imparare le incredibili capacità di
un maestro di cintura nera di karate è semplice come infilare una spina nel
cervello e premere “download”. Forse, un giorno, questo sarà possibile
anche per noi, cosa che aumenterà in maniera sensazionale le nostre
capacità.
Ma cosa accadrebbe se questi ricordi fossero falsi? In Atto di forza,
l’eroe è sottoposto a una procedura simile, e la distinzione tra realtà e
finzione gli risulta del tutto offuscata: fino alla fine del film combatterà i
cattivi su Marte, quando all’improvviso si renderà conto di esserne il leader.
Scioccato, scopre che i suoi ricordi di cittadino rispettoso della legge sono
completamente falsi.
Hollywood ama i film che esplorano l’affascinante, benché fittizio,
mondo dei ricordi artificiali. Con la tecnologia di oggi tutto questo non è
chiaramente possibile, ma possiamo immaginare che un giorno, tra molti
decenni, lo possa diventare.
Come ricordiamo
Registrare un ricordo
Un ippocampo artificiale
Direzioni future
In tal senso il lavoro su primati ed esseri umani sarà molto più difficile,
dal momento che in queste specie l’ippocampo è una struttura molto più
grande e complessa. Per prima cosa sarà necessario crearne una mappa
neurale dettagliata, posizionando degli elettrodi in diverse aree e
registrando i segnali che ne attraversano le diverse regioni. L’ippocampo è
diviso in quattro aree principali, da CA1 a CA4, e sarà necessario tracciare i
segnali scambiati tra ciascuna di esse.
Il secondo passo consisterà nel chiedere ad alcuni volontari di eseguire
un determinato compito, nel corso della cui realizzazione gli scienziati
registreranno gli impulsi che attraversano le diverse regioni
dell’ippocampo, registrando così il ricordo stesso. Il ricordo di ciascun
compito eseguito (per esempio saltare attraverso un cerchio) genererà uno
schema di attività elettrica a livello dell’ippocampo, che potrà essere
registrato e analizzato; sarà poi possibile creare un dizionario che abbini il
ricordo con il flusso di informazioni registrato.
Infine, il terzo passo sarà registrare il ricordo e trasmetterlo
all’ippocampo di un altro soggetto attraverso degli elettrodi, e verificare la
possibilità che esso venga interpretato correttamente dal ricevente,
permettendo in tal modo al destinatario di imparare a saltare attraverso un
cerchio senza averlo mai fatto. Se il tentativo avrà successo, sarà possibile
estendere gradualmente il tipo di ricordi e crearne un vero e proprio
archivio.
Potremmo dover aspettare decenni prima di arrivare ad avere dei ricordi
artificiali per l’uomo, ma possiamo già immaginare cosa accadrebbe: in
futuro le persone potrebbero essere assunte per creare determinate memorie,
per esempio una vacanza indimenticabile o una battaglia eroica, registrate
usando dei nanoelettrodi posizionati in diverse parti del cervello (dovranno
essere estremamente piccoli, per non interferire con la formazione del
ricordo).
I segnali generati sarebbero poi inviati via wireless a un computer e lì
registrati, e in seguito, se una persona decidesse di voler fare
quell’esperienza, potrebbe inserire nel proprio cervello il relativo ricordo
tramite degli elettrodi posizionati nel suo ippocampo.
(Tale idea, è ovvio, non è priva di complicazioni. Se provassimo a
installare il ricordo di un’attività fisica, per esempio un’arte marziale, ci
scontreremmo con il problema della “memoria muscolare”. Quando
camminiamo non pensiamo in maniera cosciente a mettere una gamba
davanti all’altra: è un’attività per noi naturalissima, dal momento che la
svolgiamo spesso e da quando siamo piccoli. Ciò significa che i segnali che
controllano le nostre gambe non hanno più origine interamente
nell’ippocampo, ma provengono anche dalla corteccia motoria, dal
cervelletto e dai gangli della base. Se in futuro volessimo inserire delle
memorie relative a, per esempio, uno sport, gli scienziati dovrebbero
decifrare il modo con cui i ricordi vengono in parte immagazzinati anche in
altre aree del cervello).
Sono stati identificati più di trenta diversi circuiti neurali coinvolti nella
visione, ma è assai probabile che ne esistano molti di più.
Dal lobo occipitale l’informazione passa alla corteccia prefrontale, dove
è possibile finalmente “vedere” l’immagine e creare il ricordo a breve
termine. L’informazione è poi spedita all’ippocampo, che la elabora e
immagazzina per un tempo massimo di ventiquattr’ore. Il ricordo viene poi
suddiviso in parti più piccole e distribuito tra le varie aree corticali.
Il punto è che la visione, un processo che per noi avviene senza sforzo,
implica il lavoro sequenziale di miliardi di neuroni, che trasmettono milioni
di bit di informazioni al secondo. Non dimentichiamo, poi, che esse
possono giungere al cervello da tutti e cinque gli organi di senso, assieme
alle emozioni associate ad ogni immagine: il tutto è elaborato
dall’ippocampo e va a creare il semplice ricordo di un’immagine. Ad oggi
non esiste macchina che sia in grado di eguagliare la raffinatezza di questo
processo, e tentare di replicarlo è la vera sfida degli scienziati che stanno
cercando di creare un ippocampo artificiale per l’uomo.
Ricordare il futuro
Nel 2012 gli stessi scienziati della Wake Forest Baptist Medical Center
e della University of Southern Carolina che avevano creato l’ippocampo
artificiale del topo, hanno annunciato un altro esperimento, di portata
ancora più vasta: anziché registrare un ricordo nell’ippocampo murino,
sono riusciti a duplicare un processo cognitivo molto più complesso
generato nella corteccia di un primate.
Per prima cosa i ricercatori hanno selezionato cinque scimmie rhesus e
hanno inserito dei minuscoli elettrodi all’interno di due strati della loro
corteccia cerebrale chiamati L2/3 e L5, per poi registrare i segnali neurali
che li attraversavano mentre ogni singola scimmia imparava a eseguire un
compito sperimentale (che prevedeva di porla in osservazione di una serie
di immagini, premiandola ogni qual volta fosse stata in grado di scegliere,
da un mazzo di immagini più corposo, le stesse viste in precedenza). Dopo
una fase di preparazione, le scimmie erano divenute in grado di eseguire il
compito con un’accuratezza pari al 75 per cento. Se gli scienziati
ritrasmettevano il segnale preregistrato alla corteccia cerebrale dell’animale
impegnato nell’esecuzione del test, i risultati miglioravano del 10 per cento.
Se alla scimmia erano iniettate determinate sostanze i risultati calavano del
20 per cento, ma se la registrazione era di nuovo inviata alla corteccia, la
performance si alzava oltre il livello normale. Pur considerando il campione
piuttosto limitato, e nonostante i miglioramenti della prestazione fossero
modesti, lo studio ha indicato che la registrazione è riuscita a catturare in
maniera accurata il processo decisionale della corteccia.
Essendo stato condotto su primati e non su modelli murini, e avendo
coinvolto la corteccia cerebrale e non solo l’ippocampo, questo studio
potrebbe avere importanti implicazioni nel momento in cui iniziasse la
sperimentazione sull’uomo. Sam A. Deadwyler della Wake Forest ha detto:
«L’idea alla base di questo studio è la possibilità di avere uno strumento,
come questo, che possa generare dei segnali in uscita in grado di aggirare
un’area cerebrale danneggiata e creare una connessione alternativa»13.
L’esperimento trova la sua possibile applicazione nei pazienti con un danno
alla neocorteccia: come una sorta di stampella, questo strumento potrebbe
eseguire le operazioni cognitive di pertinenza dell’area danneggiata.
Un cervelletto artificiale
Alcuni sostengo che l’Alzheimer sia la malattia del secolo: oggi gli
americani affetti da questo tipo di demenza sono quasi cinque milioni e
mezzo15, e ci si aspetta che il loro numero quadruplichi entro il 2050. Il 5
per cento delle persone di età compresa tra i sessantacinque e i
settantacinque anni ha l’Alzheimer, ma la percentuale raggiunge il 50 per
cento se si si considerano le persone con un età superiore agli ottantacinque
anni, pur in assenza di chiari fattori di rischio (se torniamo indietro, agli
inizi del ventesimo secolo, l’aspettativa di vita negli Stati Uniti era di
quarantanove anni, quindi l’Alzheimer non rappresentava un problema
significativo; oggi, invece, le persone al di sopra degli ottant’anni
rappresentano uno dei gruppi demografici con la crescita maggiore).
Durante le prime fasi della malattia l’ippocampo, la parte del cervello
attraverso cui elaboriamo i ricordi, inizia un lento processo di
deterioramento: gli studi di imaging cerebrale mostrano chiaramente che le
dimensioni dell’ippocampo nei pazienti affetti da Alzheimer si riducono,
così come il collegamento tra questo e la corteccia prefrontale, lasciando il
cervello incapace di elaborare in maniera appropriata i ricordi a breve
termine. I ricordi a lungo termine già immagazzinati nella corteccia
cerebrale rimangono relativamente intatti, quanto meno all’inizio, e ciò
porta la persona a non essere in grado di ricordare cosa abbia fatto pochi
minuti prima, pur riuscendo a rievocare in modo nitido eventi accaduti
decine di anni prima.
Negli suoi stadi finali la malattia progredisce al punto che anche i
ricordi a lungo termine vanno distrutti: il paziente non è più in grado di
riconoscere i propri figli o il partner, né di ricordare chi sia, e può
addirittura cadere in uno stato vegetativo pseudo-comatoso.
Purtroppo la comprensione dei meccanismi fisiopatologici alla base
dell’Alzheimer è cominciata a emergere solo di recente. Uno dei più
importanti progressi è stato fatto nel 2012, con la scoperta che l’Alzheimer
comincia dalla formazione di proteine Tau, che a loro volta accelerano la
formazione di Beta amiloide, uno sostanza gommosa simile a colla che
intasa il cervello (prima di allora non era chiaro se ciò fosse la causa vera e
propria dell’Alzheimer, o il sottoprodotto di un disturbo ancor più
fondamentale).
Quel che rende queste placche amiloidi così difficili da identificare e
colpire con i farmaci è che esse, molto probabilmente, sono costituire da
prioni, ovvero molecole proteiche che hanno assunto una conformazione
errata: anche se non si tratta di batteri o virus, hanno la capacità di
riprodursi. Se osservata dal punto di vista anatomico, una molecola proteica
assomiglia a una giungla di atomi aggrovigliati assieme; affinché la proteina
possa assumere la sua forma e funzione è necessario che tale groviglio di
atomi si ripieghi in maniera corretta. I prioni, invece, sono proteine deformi
ripiegatesi in maniera scorretta e, ancor peggio, che possono indurre altre
proteine sane, quando vi entrano a contatto, ad assumere la stessa
conformazione anomala. In tal modo, un singolo prione può generare una
cascata di proteine malformate, creando una reazione a catena che
contamina miliardi di altre proteine.
Oggi non sappiamo come fermare l’inesorabile progressione
dell’Alzheimer, ma ora che i meccanismi di base della malattia sono chiari,
la creazione di anticorpi o di un vaccino il cui target siano queste molecole
proteiche deformi potrebbe rivelarsi un approccio assai promettente; in
alternativa, si potrebbe creare un ippocampo artificiale, per ripristinare la
memoria a breve termine nei pazienti.
Inoltre, se riuscissimo a identificare i geni che ottimizzano la memoria,
la genetica potrebbe permetterci di migliorare la capacità del cervello di
creare ricordi; e il futuro della ricerca in questo campo potrebbe trovarsi nel
cosiddetto topo intelligente.
Il topo intelligente
Nel 1999 Joseph Tsien e i suoi colleghi di Princeton, del MIT e della
Washington University hanno scoperto che, aggiungendo un singolo gene,
era possibile migliorare in maniera significativa la memoria e le prestazioni
cognitive di un topo. Questi “topi intelligenti”, chiamati Doogie (da Doogie
Howser M.D., un popolare personaggio televisivo americano) erano in
grado di orientarsi più velocemente all’interno di un labirinto, ricordare
meglio gli eventi e ottenere risultati molto migliori in un gran numero di
compiti assegnati loro nel corso degli esperimenti, rispetto agli altri topi.
Tsien è partito dallo studio del gene NR2B che, come una sorta di
interruttore, controlla la capacità del cervello di associare un evento a un
altro (gli scienziati l’hanno verificato in quanto, silenziando o rendendo
inattivo questo gene, i topi perdono tale capacità); il motivo per cui
l’apprendimento dipende dal gene NR2B sta nel fatto che esso controlla le
comunicazioni tra le cellule della memoria e l’ippocampo. Per prima cosa
Tsien ha creato un gruppo di topi privi del gene, e ha osservato che essi
manifestavano delle difficoltà sul piano della memoria e
dell’apprendimento. Ne ha poi creato un altro dotato di più copie dello
stesso, scoprendo che questi nuovi topi mostravano capacità cognitive
superiori. Se posti in una piccola vaschetta piena d’acqua e obbligati a
nuotare, i topi del primo gruppo si dibattevano nell’acqua senza una
direzione precisa, avendo dimenticato che, come era stato loro mostrato
pochi giorni prima, a pelo d’acqua fosse possibile trovare una piattaforma
subacquea nascosta su cui fermarsi a riposare. I topi intelligenti, invece, vi
si dirigevano senza esitazione al primo tentativo.
Da allora i ricercatori hanno confermato questi risultati anche in altri
laboratori, e sono riusciti a creare topi ancor più intelligenti. Nel 2009 Tsien
ha pubblicato un articolo annunciando la creazione un’altra popolazione di
topi, chiamata Hobbie-J (dal nome di un popolare cartone animato cinese):
gli Hobbie-J erano in grado di ricordare fatti nuovi tre volte più a lungo
rispetto alla popolazione murina geneticamente modificata ritenuta più
intelligente. «Questo va a supporto dell’idea che NR2B sia un interruttore
universale per la formazione dei ricordi» ha commentato. «È come prendere
Micheal Jordan e far nascere un super Micheal Jordan» ha detto Deheng
Wang, uno studente di Tsien.
Ma anche questa nuova popolazione di topi ha dei limiti: quando era
data loro la possibilità di girare a destra o a sinistra per ottenere un dolce-
ricompensa, Hobbie-J era in grado di ricordare il percorso corretto molto
più a lungo dei topi normali, ma lo dimenticava dopo cinque minuti. «Non
ne potremo mai fare dei matematici. Dopo tutto, sono topi» ha detto Tsien.
Va notato che alcune di queste popolazioni si mostravano
eccezionalmente timide rispetto a dei topi normali. Alcuni pensano che, con
una memoria eccezionale, ci si ritrovi a saper ricordare anche tutti i
fallimenti e i dolori subiti, divenendo forse più esitanti; ricordare tutto
presenta anche degli aspetti negativi.
Gli scienziati sperano in futuro di poter estendere questi risultati anche
ad altre specie animali, come per esempio i cani – dal momento che con
loro condividiamo molti geni – e forse un giorno anche all’uomo.
1
Nicholas Wade, The Science Times Book of the Brain, New York Times Books, New York 1998,
p. 89.
2
Wade, The Science Times Book of the Brain, cit., p. 89.
3
Antonio Damasio, Il sé viene alla mente: la costruzione del cervello cosciente, Adelphi, Milano
2012, pp. 130-53 (ed. orig. Self Comes to Mind, 2012).
4
Wade, The Science Times Book of the Brain, cit., p. 232.
5
Consultabile all’indirizzo internet http://www.newscientist.com/article/dn3488.
6
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/kx293lb.
7
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/ksfdapj.
8
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/m489mmb.
9
Questo riporta in evidenza la domanda che riguarda la memoria a lungo termine di animali come
i piccioni viaggiatori, gli uccelli migratori, le balene ecc., dal momento che migrano per centinaia
o migliaia di chilometri in cerca di cibo e di un partner. Gli scienziati non ne sanno molto, ma si
crede che la loro memoria a lungo termine si basi sulla localizzazione di punti di riferimento
specifici, piuttosto che sull’elaborazione di eventi passati: in altre parole, non farebbero uso dei
ricordi per simulare il futuro, e la loro memoria consterebbe soltanto di una serie di indicatori.
Sembra, dunque, che solo nell’uomo i ricordi a lungo termine contribuiscano alla simulazione del
futuro.
10
Michael Lemonick, Your Brain: A User’s Guide, in “Time”, dicembre 2011, p. 78.
11
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/k5cgh2q.
12
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/lgd78ej.
13
Sul “New York Times”, 12 settembre 2012, p. A18.
14
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/k38qf2o.
15
Alzheimer’s Foundation of America, consultabile all’indirizzo internet http://www.alzfdn.org.
Capitolo 6
Il cervello di Einstein, ovvero come aumentare
l’intelligenza
Il talento arriva dove nessuno sa arrivare; il genio arriva a ciò che nessuno vede.
Arthur Schopenhauer
Migliorare l’intelligenza
Questa eventualità è stata analizzata per la prima volta nel racconto del
1959 Fiori per Algernon, in seguito diventato un film vincitore di un
premio Oscar e di un Golden Globe. La storia racconta la vita di Charly
Gordon, un garzone del fornaio con un QI di 68. La sua è una vita semplice:
non si rende conto di come i colleghi lo prendano sempre in giro e non sa
neppure scrivere il suo nome in modo corretto.
La sua unica amica è l’insegnante Alice, che prova pietà per lui e che
cerca di insegnargli a leggere. Alice viene a conoscenza del fatto che è stata
scoperta una nuova procedura in grado di trasformare topi normali in
animali superintelligenti, e decide di presentare Charly agli scienziati che
l’hanno messa a punto. Questi acconsentono a eseguire l’esperimento per la
prima volta sull’uomo, e nel giro di poche settimane Charly inizia a
mostrare dei cambiamenti considerevoli: il suo vocabolario si espande,
inizia a divorare libri dalla biblioteca, diventa una specie di casanova e la
sua stanza si riempie di arte moderna. Presto si interessa alla fisica, e legge
testi sulla relatività e sulla teoria quantistica, sfidando i limiti della scienza
più avanzata. Lui e Alice intrecciano una storia d’amore.
Gli scienziati però si accorgono che i topi dell’esperimento cominciano
a perdere le proprie capacità, e che infine muoiono. Rendendosi conto di
poter perdere tutto, Charly tenta disperatamente di utilizzare il suo nuovo
intelletto superiore per trovare una cura, ma riesce soltanto ad essere
testimone del suo inesorabile declino: il suo vocabolario si contrae,
dimentica le nozioni di matematica e di fisica, e lentamente torna ad essere
quello di prima. Nelle scene finali del film Alice, straziata, guarda Charly
giocare con dei bambini.
Il racconto e il film, per quanto commoventi e acclamati dalla critica,
furono considerati pura fantascienza. La trama era toccante e originale, ma
l’idea di aumentare l’intelligenza di una persona era considerata
impossibile: le cellule del cervello non si possono generare, dicevano gli
scienziati, e quindi il racconto era del tutto illogico. Ora non più.
Sebbene sia ancora impossibile accrescere la nostra intelligenza, i rapidi
passi avanti che si stanno compiendo nello studio dei sensori
elettromagnetici, della genetica e delle cellule staminali potrebbero, un
giorno, trasformare tutto questo in realtà. Oggi l’interesse scientifico è
rivolto in particolare ai savant, persone autistiche dotate di capacità
fenomenali; le stesse capacità, cosa ancora più importante, che qualsiasi
persona può acquisire quasi istantaneamente a seguito di una lesione a
carico di specifiche parti del cervello, e che alcuni scienziati sono convinti
possano essere indotte utilizzando i campi magnetici.
Abbiamo detto che per molti anni si è creduto – e ciò era considerato un
dogma delle neuroscienze – che le cellule cerebrali non si rigenerassero.
Riparare le cellule cerebrali vecchie e morenti, o farne crescere di nuove, e
migliorare quindi le nostre capacità cognitive, sembrava impossibile. Il
1998 è stato l’anno della svolta, l’anno in cui è stato scoperto che il cervello
in effetti possiede delle cellule staminali adulte, e che queste si trovavano
nell’ippocampo, nel bulbo olfattivo e nel nucleo caudato. Detto in parole
povere, le cellule staminali sono la “madre di tutte le cellule”: quelle
embrionali, per esempio, sono in grado di evolversi in qualsiasi altro tipo di
cellula. Sebbene ciascuna cellula contenga tutto il materiale genetico
necessario per costituire un essere umano, solo quelle staminali embrionali
hanno la capacità di differenziarsi in qualsiasi altra cellula del corpo.
Le cellule staminali adulte, invece, hanno perso tale, camaleontica,
capacità, ma possono ancora riprodurre e rimpiazzare le vecchie cellule. Per
quanto riguarda la possibilità di migliorare la nostra memoria, l’interesse
scientifico si è concentrato sulle cellule staminali adulte dell’ippocampo: si
è scoperto che qui nascono ogni giorno migliaia di nuove cellule, anche se
molte di esse muoiono nel giro di pochissimo. È stato però possibile
dimostrare che i ratti che imparano nuove abilità conservano un maggior
numero di cellule nuove, e che lo stesso effetto si può ottenere anche dalla
combinazione di esercizio fisico e sostanze in grado di migliorare l’umore;
al contrario, lo stress ne accelera la morte.
Nel 2007 siamo stati testimoni di un’importante progresso scientifico
quando alcuni scienziati americani e giapponesi sono riusciti a creare nuove
cellule staminali riprogrammando normali cellule dell’epidermide22. La
speranza è che un giorno queste staminali, di provenienza naturale o
ricreate tramite ingegnerizzazione genetica, possano essere inserite nel
cervello dei pazienti malati di Alzheimer per sostituire le cellule morenti (le
nuove cellule, in quanto prive delle connessioni opportune, non andrebbero
direttamente a integrarsi nell’architettura neurale del cervello: ciò significa
che per incorporare i nuovi neuroni il paziente dovrebbe re-imparare alcune
capacità).
La ricerca sulle cellule staminali è, senza dubbio, una delle aree più
attive nell’ambito delle neuroscienze. «In questo momento la ricerca sulle
cellule staminali e la medicina rigenerativa stanno attraversando una fase
estremamente feconda. Le conoscenze vanno accumulandosi a un ritmo
sostenuto, e oggi stanno nascendo diverse società per dare inizio a varie
sperimentazioni cliniche in ambiti diversi»23 ha commentato lo svedese
Jonas Frisén del Karolinska Institute.
La genetica dell’intelligenza
Gli studi della dottoressa Pollard si sono concentrati sulle aree del
genoma umano che condividiamo con gli scimpanzé e che si sono evolute;
è però possibile che esistano regioni peculiari solo agli esseri umani, e che
non si trovano nelle scimmie. Nel novembre 2012, alcuni scienziati guidati
da un gruppo di ricerca dell’università di Edimburgo hanno isolato il gene
RIM-941, l’unico mai scoperto prima d’ora che appartenga solo all’Homo
sapiens e non ad altri primati27. I genetisti sono stati in grado di dimostrare
che la sua comparsa risale tra uno e sei milioni di anni fa (quindi dopo la
separazione delle linee filogenetiche degli uomini e degli scimpanzé).
Per sfortuna la scoperta ha anche dato il via a un’enorme tempesta
mediatica, e tra le notizie scientifiche, nei blog di scienza e su internet,
hanno fatto la loro comparsa i titoli più altisonanti: i giornalisti si sono
affannati a scrivere che era stato scoperto il gene che avrebbe potuto
rendere gli scimpanzé intelligenti, e i giornali strillavano che era stata
finalmente isolata a livello genetico l’essenza dell’“umanità”.
Alcuni scienziati di chiara fama si sono allora fatti avanti per tentare di
calmare le acque, spiegando che con tutta probabilità l’intelligenza umana
si deve alla complessa interazione di vari geni, e che non è possibile, con
uno solo di essi, far diventare una scimmia improvvisamente intelligente
quanto un uomo.
Anche se grazie a titoli esagerati, gli articoli ebbero il merito di
sollevare una domanda importante: quanto è realistico Il pianeta delle
scimmie?
Le cose non sono così semplici. Se fosse possibile alterare i geni HAR1
e ASPM e determinare un’improvvisa espansione della struttura e delle
dimensioni del cervello della scimmia, non sarebbero le uniche alterazioni a
intervenire: per prima cosa sarebbero necessari muscoli del collo più forti e,
in generale, un corpo di dimensioni maggiori per sostenere una testa più
grande. Ma ciò, da solo, sarebbe inutile se non fosse possibile controllare
dita capaci di sfruttare le potenzialità degli strumenti, cosa che implica una
trasformazione anche del gene HAR2; inoltre, dato che le scimmie spesso
camminano appoggiandosi sulle mani, dovrebbe alterararsi anche un altro
gene, così che la schiena si raddrizzi e la posizione eretta le lasci libere di
muoversi. L’intelligenza in sé, poi, sarebbe inutile se questi animali non
fossero in grado di comunicare con gli altri membri della propria specie: ciò
implicherebbe anche la mutazione del gene FOXP2, che permette la nascita
del linguaggio. Infine, se volessimo creare una specie di scimmie
intelligenti, dovremmo modificare anche il canale del parto, in quanto esso
non sarebbe ampio a sufficienza: si dovrebbe ricorrere a un parto cesareo o
alterarne geneticamente le dimensioni, in modo da permettere il passaggio
di un cervello più grande.
Come risultato di tutti gli interventi necessari potremmo ottenere un
essere molto simile a noi; in altre parole, sembra anatomicamente
impossibile creare delle scimmie intelligenti (come visto nei film) senza
trasformarle in qualcosa di molto simile agli essere umani.
È dunque chiaro che creare scimmie intelligenti non è un’impresa
semplice; ciò che vediamo nei film di Hollywood sono uomini che
indossano costumi da scimmia, o il risultato di effetti speciali generati al
computer: così, tutti i problemi sono convenientemente nascosti sotto un
metaforico tappeto. Se davvero gli scienziati potessero utilizzare la ricerca
genetica per creare scimmie intelligenti, è probabile che queste ci
assomiglierebbero molto, avrebbero mani in grado di maneggiare strumenti,
corde vocali per permettere l’uso del linguaggio, una spina dorsale che
possa sostenere la posizione eretta e ampi muscoli del collo per sostenere la
testa, proprio come noi.
Tutto ciò solleva anche dei problemi etici: la nostra società potrebbe
permettere lo studio genetico sulle scimmie, ma non tollerare la
manipolazione di creature dotate di intelletto, in grado di provare
sofferenza, di esprimersi a sufficienza per lamentarsi della propria
situazione, e il cui punto di vista verrebbe ascoltato dal pubblico.
Non sorprende, quindi, che quest’area della bioetica, essendo ancora
praticamente nuova, sia rimasta del tutto inesplorata. La tecnologia di oggi
ancora non permette simili risultati, ma nei prossimi decenni, a mano a
mano che saranno identificati i geni che ci separano dalle scimmie e le loro
rispettive funzioni, il modo di trattare gli animali sottoposti a questo genere
di modificazioni genetiche potrebbe diventare una questione
importantissima.
Dunque, si tratta solo di una questione di tempo prima che anche le
minime differenze genetiche tra noi e gli scimpanzé possano essere
sequenziate, analizzate e interpretate con precisione; eppure ciò non
risponde ancora alla domanda di base: quali sono state le forze evolutive
che hanno contribuito a dotarci di una simile eredità genetica, in seguito alla
separazione dalla linea filogenetica delle scimmie? Per quale motivo si sono
sviluppati geni come ASPM, HAR1 e FOXP2? In altre parole, la genetica
offre la possibilità di capire come l’uomo sia diventato intelligente, ma non
spiega perché ciò sia avvenuto.
Se sarà possibile chiarire tale interrogativo, la risposta potrebbe indicare
in che modo l’uomo si evolverà, la qual cosa ci porta direttamente al cuore
del dibattito odierno: qual è l’origine dell’intelligenza?
L’origine dell’intelligenza
A partire da Darwin si sono succedute numerose teorie sul perché si sia
sviluppata l’intelligenza dell’uomo28.
Secondo una di esse, tale evoluzione si sarebbe realizzata per stadi a
partire dal cambiamento climatico avvenuto in Africa: con il progressivo
diminuire delle temperature le foreste iniziarono a retrocedere, obbligando i
nostri antenati a spostarsi nelle pianure aperte e nelle savane, dove erano
esposti all’attacco dei predatori e al capriccio degli agenti atmosferici. Per
sopravvivere nel loro nuovo, ostile, habitat gli esseri umani furono costretti
a imparare l’arte della caccia e la deambulazione in posizione eretta, in
modo da lasciar libere le mani e i pollici opponibili per usare gli strumenti.
A sua volta la coordinazione manuale necessaria alla fabbricazione degli
strumenti avrebbe favorito lo sviluppo di un cervello più grande: ciò
significa che, secondo questa teoria, non soltanto gli uomini nostri antenati
hanno creato gli strumenti, ma anche gli strumenti hanno creato l’uomo.
Ma i nostri predecessori non hanno impugnato all’improvviso uno
strumento, diventando intelligenti. Al contrario: mentre chi era in grado di
manipolare uno strumento aveva maggiori possibilità di rimanere vivo nella
prateria, gli altri gradualmente scomparivano; coloro che riuscivano a
sopravvivere e prosperare erano gli stessi che, attraverso le mutazioni,
divenivano sempre più bravi nella fabbricazione degli utensili, cosa che
richiedeva un cervello sempre più grande.
Un’altra teoria indentifica un vantaggio nella natura sociale e collettiva
dell’uomo. Gli esseri umani sono facilmente in grado di coordinare l’azione
di un centinaio di altri individui, in situazioni come la caccia, la
coltivazione, il combattimento e l’edificazione: tali aggregazioni sono
molto più ampie di quelle che si possono osservare tra gli altri primati, e
potrebbero aver favorito l’uomo rispetto agli altri animali: ci vuole un
cervello più grande, secondo questa teoria, per valutare e controllare il
comportamento di così tanti soggetti (come anche per ordire, tramare,
ingannare e manipolare altri esseri intelligenti della propria tribù: secondo
la teoria machiavellica dell’intelligenza, gli individui in grado di
comprendere le motivazioni degli altri e di sfruttarle a proprio vantaggio
sarebbero avvantaggiati rispetto a chi, invece, non ci riesce).
Un’altra teoria sostiene che allo sviluppo dell’intelligenza avrebbe
contribuito lo sviluppo del linguaggio, avvenuto in un secondo momento: al
linguaggio si associa il pensiero astratto e la capacità di pianificare,
organizzare una società, creare mappe, ecc. Gli esseri umani possiedono un
vocabolario molto esteso che, con le sue decine di migliaia di parole in
media per persona, non è comparabile a quello di nessun altro animale.
Grazie al linguaggio l’uomo ha potuto coordinare e guidare l’attività di più
persone, nonché manipolare concetti e idee astratte. Possedere un
linguaggio significa anche poter comandare una battuta di caccia, un grosso
vantaggio per inseguire un mammut, come per comunicare ai compagni
dove abbonda la cacciagione o dove, invece, incombe il pericolo.
Tra le teorie proposte vi è anche quella della “selezione sessuale”,
secondo cui le femmine preferirebbero accoppiarsi con i maschi intelligenti.
Nel regno animale, per esempio in una famiglia di lupi, il maschio alfa tiene
assieme il branco con la forza bruta, e qualsiasi sfidante alla gerarchia va
rimesso al suo posto a suon di morsi e zampate. Tuttavia, milioni di anni fa,
con l’aumentare dell’intelligenza dell’uomo, la sola forza ha cessato di
essere sufficiente al fine di tenere assieme una tribù: chiunque fosse stato
abbastanza furbo e intelligente avrebbe potuto tendere un’imboscata,
mentire, tradire e formare fazioni all’interno della famiglia per sconfiggere
il maschio dominante; la nuova generazione di maschi alfa non avrebbe
dovuto necessariamente essere la più forte. Questa è con ogni probabilità la
ragione per cui le femmine scelgono i maschi furbi (non per forza il nerd
“sfigato”, ma magari il rugbista brillante). A sua volta l’evoluzione del
nostro cervello sarebbe stata accelerata dalla selezione sessuale, e in
particolare dalle femmine che, scegliendo compagni in grado di pianificare,
diventare capo-tribù e superare gli altri in astuzia, selezionavano i maschi
con il cervello più grande.
Queste sono solo alcune delle teorie sull’origine dell’intelligenza,
ognuna delle quali possiede dei pro e dei contro; l’idea comune, tuttavia,
sembra essere la capacità di simulare il futuro. La funzione di un capo, per
esempio, è quella di scegliere gli obiettivi futuri della tribù: ciò significa
che deve saper comprendere le intenzioni degli altri per pianificare una
strategia. Chi meglio simula il futuro è in grado di tramare, complottare,
interpretare i pensieri dei propri compagni e armarsi, meglio dei propri
simili.
Anche il linguaggio ci permette di simulare il futuro. Pur servendosi di
una rudimentale forma di comunicazione, il linguaggio degli animali si
realizza principalmente nel presente: possono comunicare per avvisare i
compagni di una minaccia immediata, per esempio un predatore che si
nasconde tra gli alberi, ma non sembrano esprimersi al passato o al futuro –
gli animali, cioè, non coniugano i verbi. Ciò significa che, forse, questa
nostra capacità di esprimere il tempo passato e futuro ha rappresentato un
grande passo avanti nello sviluppo dell’intelligenza.
Daniel Gillbert, psicologo di Harvard, ha scritto: «Dopo la sua iniziale
comparsa sulla Terra il nostro cervello è rimasto bloccato in un presente
permanente per diverse centinaia di milioni di anni, e gran parte dei cervelli
animali lo è tutt’ora. Ma non il vostro e non il mio, perché due o tre milioni
di anni fa i nostri antenati hanno iniziato la grande fuga dal qui e ora…»29.
Il futuro dell’evoluzione
Considerazioni finali
1
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/l5tok5q.
2
Stephen Jay Gould, Intelligenza e pregiudizio, Il Saggiatore, Milano 1998, p. 109 (ed. orig. The
Mismeasure of Man, 1981).
3
Consultabile all’indirizzo internet http://tinyurl.com/p2ojcu2.
4
Malcolm Gladwell, Outliers: The Story of Success, Back Bay Books, New York 2008, p. 40.
5
C. K. Holahan e R.R. Sears, The Gifted Group in Later Maturity, Stanford University Press,
Stanford 1995.
6
Boleyn-Fitzgerald, Pictures of the Mind, cit., p. 48.
7
Sweeney, Brain, cit., p. 26.
8
Bloom, Best of the Brain from Scientific American, cit., p. 12.
9
Bloom, Best of the Brain from Scientific American, cit., p. 15.
10
Consultabile all’indirizzo internet http://www.daroldtreffert.com.
11
Daniel Tammet, Nato in un giorno azzurro: il mistero della mente di un genio dei numeri,
Rizzoli, Milano 2008, p. 4 (tit. orig. Born on A Blue Day, 2007).
12
Intervista radiofonica a Daniel Tammet nell’ottobre 2007 per Science Fantastic.
13
“Science Daily”, marzo 2012, http://tinyurl.com/7w7z3ta.
14
AP wire story, 8 novembre 2004, http://www.space.com.
15
“Neurology 51”, ottobre 1998, pp. 978-82. Si veda anche http://tinyurl.com/kpfjcep.
16
Sweeney, Brain, cit., p. 252.
17
Center of the Mind, Sydney, Australia, http://www.centerofthemind.com.
18
Robyn L. Young, Michael C. Ridding e Tracy L. Morrell, Switching Skills on by Turning Off Part
of the Brain, “Neurocase”, 10, 2004, pp. 215, 222.
19
Sweeney, Brain, cit., p. 311.
20
“Science Daily”, maggio 2012, http://tinyurl.com/crmomk7.
21
“Science Daily”, cit.
22
Sweeney, Brain, cit., p. 294.
23
Sweeney, Brain, cit., p. 295.
24
Katherine S. Pollard, What Makes Us Different, “Scientific American Special Collectors
Edition”, inverno 2013, 31-35.
25
Pollard, What Makes Us Different, cit., 31-35.
26
Ididem.
27
TG Daily, 15 novembre 2012. http://tinyurl.com/b3uxxo9.
28
Si veda per esempio, Gazzaniga, Human, cit., 2009.
29
Daniel Gilbert, Stumbling on Happiness, Alfred A. Knopf, New York 2006, p. 15.
30
Douglas Fox, The Limits of Intelligence, in “Scientific American”, luglio 2011, p. 43.
31
Ivi, cit., p. 42.
Parte III
Alterazioni della coscienza
Capitolo 7
In sogno
Come sogniamo?
Tutto questo lascia però aperta una domanda: cosa genera i nostri sogni?
Una delle massime autorità mondiali nel campo è Allan Hobson, psichiatra
presso alla Harvard Medical School. Hobson, che ha dedicato interi decenni
della sua vita al compito di svelare i segreti di questo fenomeno, sostiene
che i sogni, specie quelli prodotti durante la fase REM del sonno, possano
essere studiati a livello neurologico, e che insorgano quando il cervello
tenta di dare un senso ai segnali, in gran parte casuali, emessi dal tronco
cerebrale.
Dopo diversi decenni impiegati a catalogare sogni, ne ha rintracciato
cinque caratteristiche fondamentali2:
Fotografando un sogno
Sogni lucidi
Entrare in un sogno
1
Calvin Springer Hall e Robert L. Van den Castle, The Content Analysis of Dream, Appleton-
Century-Croft, New York 1966.
2
Intervista del luglio 2012 ad Allan Hobson per il programma radiofonico Science Fantastic.
3
Wade, The Science Times Book of the Brain, cit., p. 229.
4
“New Scientist”, 12 dicembre 2008, http://tinyurl.com/m4qepjk.
5
Effettuata l’11 luglio 2012.
6
“Science Daily”, 28 ottobre 2011, http://tinyurl.com/oegkuyp.
7
Si veda il lavoro di Babak Parviz, http://tinyurl.com/oks7vnt.
Capitolo 8
Si può controllare la mente?
Alla fine l’isteria della guerra contagiò le alte sfere della CIA2. Convinti
che i sovietici fossero molto più avanti nella scienza del lavaggio del
cervello e nella messa a punto di metodi scientifici poco ortodossi, la CIA si
imbarcò in una serie di progetti riservati, come l’MKUltra, che ebbe inizio
nel 1953, per sondare idee bizzarre ed estreme. Nel 1973, mentre lo
scandalo Watergate diffondeva il panico negli ambienti governativi, il
direttore della CIA Richard Helms annullò l’MKUltra e ordinò che tutti gli
incartamenti ad esso relativi venissero immediatamente distrutti; tuttavia,
ventimila documenti sopravvissero in qualche modo alla purga e vennero
declassificati nel 1977 grazie al Freedom of Information Act, rivelando
l’intera portata di questo sforzo enorme.
Oggi sappiamo che, dal 1953 al 1973, l’MKUltra finanziò 80 istituzioni,
compresi 44 tra università e college, e decine di ospedali, aziende
farmaceutiche e prigioni, spesso sperimentando su persone ignare senza il
loro permesso, nel corso di 150 operazioni segrete. In un determinato
periodo, il 6 per cento tondo tondo dell’intero bilancio della CIA venne
impiegato per l’MKUltra.
Alcuni di questi progetti volti al controllo della mente includevano:
1
Nicolelis, Il cervello universale, cit., pp. 272-280.
2
Progetto MKUltra, programma di ricerca sulla modificazione comportamentale della CIA.
Audizioni congiunte davanti al Comitato Ristretto sulle Risorse Umane, Senato degli Stati Uniti,
95° Congresso, 1a Sessione, Ufficio di Tipografia del Governo, 8 agosto 1977, Washington DC,
http://tinyurl.com/yghz8ot; La CIA rivela di aver trovato altri documenti segreti sul controllo
comportamentale, “The New York Times”, 3 settembre 1977; Documenti governativi sul
controllo mentale dell’MKUltra e di Bluebird/Artichoke, http://tinyurl.com/mxypc6x; Esame da
parte del Comitato Ristretto delle operazioni governative in relazione alle attività di intelligence
straniera e militare. Relazione n. 94-755 della Commissione Church, 94° Congresso, 2a Sessione,
p. 392, Ufficio di Tipografia del Governo, Washington DC, 1976; Progetto MKUltra, il
Programma di Ricerca in Modificazione Comportamentale della CIA, http://tinyurl.com/pcdtemf.
3
Steven Rose, The Future of the Brain: The Promise and Perils of Tomorrow’s Neuroscience,
Oxford University Press, Oxford 2005, p. 292.
4
Ivi, p. 293.
5
Hypnosis in Intelligence, Black Vault Freedom of Information Act Archive, 2008,
http://tinyurl.com/m9uxser.
6
Boleyn-Fitzgerald, Pictures of the Mind, cit., p. 57.
7
Sweeney, Brain, cit., p. 200.
8
Boleyn-Fitzgerald, Pictures of the Mind, cit., p. 58.
9
http://tinyurl.com/prfee8r.
Capitolo 9
Stati di coscienza alterata
Era solo una contadina analfabeta che sosteneva di udire la voce di Dio;
ma Giovanna d’Arco sarebbe emersa dall’anonimato per condurre un
esercito demoralizzato a vittorie che avrebbero cambiato il corso della
storia delle nazioni, facendo di lei una delle figure più affascinanti e
tragiche della storia.
Nel caos della guerra dei cent’anni, quando la Francia settentrionale era
ormai in mano alle truppe inglesi e la monarchia francese batteva in ritirata,
una ragazzina di Orléans asserì di aver ricevuto delle istruzioni divine con
cui guidare l’esercito francese alla vittoria. Non avendo più nulla da
perdere, Carlo VII le assegnò il comando di alcune delle sue truppe. Nello
stupore generale, la ragazza riportò una serie di vittorie sugli inglesi, e le
voci su questa strabiliante fanciulla si diffusero in fretta. La sua reputazione
continuò a crescere trionfo dopo trionfo, elevandola al rango di eroina
popolare attorno a cui i francesi presero a stringersi. Le truppe transalpine,
poco prima sull’orlo della disfatta totale, ottennero una serie di vittorie
decisive che spianarono la strada all’incoronazione del nuovo re.
Tuttavia, la ragazza fu tradita e catturata dagli inglesi; questi ultimi,
consapevoli di quale grave minaccia essa rappresentasse, dal momento che
era un simbolo potente per i francesi e sosteneva di essere guidata da Dio, la
sottoposero a un processo-farsa: al termine di un interrogatorio condotto ad
arte, venne giudicata colpevole di eresia e arsa sul rogo all’età di diciannove
anni. Era il 1431.
In seguito, nel corso dei secoli, sono state azzardate innumerevoli
ipotesi su questa adolescente fuori dal comune: era una profetessa, una
santa o una pazza? Più di recente, gli scienziati hanno cercato di utilizzare
la psichiatria e la neuroscienza moderne per analizzare personaggi storici
come Giovanna d’Arco.
Pochi mettono in dubbio la sincerità delle sue affermazioni in merito
all’ispirazione divina. Ma molti scienziati hanno ipotizzato che, dal
momento che diceva di sentire delle voci, potesse essere affetta da
schizofrenia. Altri hanno contestato tale congettura, visto che i documenti
superstiti del suo processo rivelano un soggetto estremamente razionale. Gli
inglesi predisposero per lei diverse trappole teologiche: per esempio, le
chiesero se fosse in grazia di Dio. Rispondendo di sì, sarebbe stata tacciata
di eresia, dal momento che nessuno può sapere con certezza se è o no in
grazia di Dio; con una risposta negativa, invece, avrebbe confessato la sua
colpa, ammettendo di essere una truffatrice. In entrambi i casi, sarebbe stata
colta in fallo.
Prendendo in contropiede l’uditorio, lei rispose: «Se non lo sono, che
Dio mi ci ponga; se lo sono, possa Dio mantenermici». Sui verbali del
processo, il notaio del tribunale registrò che quelli che la interrogavano
rimasero stupefatti.
In effetti, le trascrizioni del suo interrogatorio sono tanto notevoli che
George Bernard Shaw le utilizzò nella sua pièce Santa Giovanna.
Negli ultimi tempi, su questa donna di certo eccezionale è stata
formulata un’altra teoria: forse soffriva di epilessia del lobo temporale. Chi
è soggetto a tale condizione manifesta i classici attacchi convulsivi, ma in
alcuni casi emerge anche un curioso effetto collaterale che potrebbe gettare
un po’ di luce sulle modalità in cui le credenze umane si strutturano: questi
pazienti soffrono di “iperreligiosità” e non posso trattenersi dal pensare che
dietro ogni cosa ci sia uno spirito o una presenza. Gli eventi casuali non lo
sono mai sul serio, ma hanno sempre un profondo significato religioso:
alcuni psicologi hanno supposto che un certo numero di profeti soffrisse di
lesioni epilettiche del lobo temporale, per spiegare il fatto che fossero
convinti di parlare con Dio. Il neuroscienziato David Eagleman afferma:
«Una buona percentuale di profeti, martiri e leader della storia soffriva, con
tutta probabilità, di epilessia del lobo temporale. Si pensi a Giovanna
d’Arco, la sedicenne che riuscì a imprimere una svolta alla guerra dei
cent’anni perché credeva (e riuscì a convincerne i soldati francesi) di udire
le voci dell’arcangelo Michele, di santa Caterina d’Alessandria e santa
Margherita»1.
Questo bizzarro effetto fu notato nel lontano 1892, quando i libri di
testo sulle malattie mentali cominciarono a riportare un legame tra
“emotività religiosa” ed epilessia, e venne clinicamente descritto nel 1975
dal neurologo Norman Geschwind, del Boston Veterans Administration
Hospital. Geschwind si accorse che gli epilettici che avevano problemi di
trasmissione elettrica nel lobo temporale sinistro spesso sperimentavano
esperienze religiose, e dunque ipotizzò che la tempesta elettrica nel cervello
fosse in qualche modo responsabile di tali ossessioni.
V.S. Ramachandran stima che tra il 30 e il 40 per cento di tutti i pazienti
affetti da epilessia del lobo temporale da lui trattati manifesti una qualche
forma di iperreligiosità: «Talvolta si tratta di un Dio personale2, altre volte è
una diffusa sensazione di essere tutt’uno con il cosmo. Ogni cosa sembra
intrisa di significato. Il paziente dirà: “Finalmente capisco cosa c’è dietro,
dottore. Sono arrivato a comprendere davvero Dio. Conosco il mio posto
nell’universo, lo schema cosmico”»3.
Ramachandran osserva inoltre che molti di questi individui sono
inamovibili e piuttosto convincenti nelle loro credenze: «A volte mi chiedo
se i pazienti che soffrono di epilessia del lobo temporale non abbiano
accesso a un’altra dimensione della realtà, una sorta di tunnel spazio-
temporale verso un universo parallelo. Ma di solito non ne faccio parola con
i miei colleghi, per paura che dubitino della mia salute mentale». Dopo aver
condotto esperimenti sui pazienti affetti da epilessia del lobo temporale,
Ramachandran ha avuto conferma del fatto che essi denotano una forte
reazione emotiva alla parola Dio, diversamente da quanto avviene con
parole neutre: ciò significa che il legame tra iperreligiosità ed epilessia del
lobo temporale è reale, non solo aneddotico.
Lo psicologo Michael Persinger sostiene che un certo tipo di
stimolazione elettrica transcranica (la TMS) possa indurre l’effetto di tali
lesioni epilettiche: se le cose stanno davvero così, è possibile servirsi dei
campi magnetici al fine di modificare l’altrui credo religioso?
Negli studi condotti da Persinger il soggetto indossa un casco
(soprannominato il casco di Dio) contenente un dispositivo in grado di
inviare impulsi magnetici in aree del cervello particolari. Successivamente
intervistato, il soggetto sostiene di essersi trovato in presenza di un grande
spirito. Su “Scientific American”, David Biello afferma: «Durante i tre
minuti di stimolazione i soggetti interessati traducevano questa percezione
del divino nel loro linguaggio culturale e religioso, chiamandola Dio,
Buddha, presenza benevola o meraviglia dell’universo»4. Il fatto che un
simile esito sia riproducibile a comando sta forse a indicare che il cervello è
in qualche modo programmato per rispondere al sentimento religioso.
Spingendosi oltre, alcuni scienziati hanno ipotizzato l’esistenza di un
“gene di Dio” che predispone il cervello ad essere religioso: dal momento
che la maggior parte delle società ha creato una religione di qualche tipo,
sembra plausibile che la nostra capacità di rispondere al sentimento
religioso possa essere geneticamente programmata (alcuni teorici
evoluzionisti hanno cercato di spiegare questi fatti sostenendo che, nei
primi esseri umani, la religione servisse ad accrescere le possibilità di
sopravvivenza, per esempio contribuendo a integrare individui rissosi in
una tribù resa coesa da una mitologia comune).
Può un esperimento come quello con il “casco di Dio” scuotere le
convinzioni religiose di una persona? E può una macchina RM registrare
l’attività cerebrale di un soggetto che sta sperimentando un risveglio
religioso?
Per testare queste idee Mario Beauregard, dell’Université de Montréal,
ha reclutato un gruppo di quindici suore carmelitane che hanno accettato di
infilare la testa in una macchina RM5. Requisito indispensabile per
l’esperimento era l’aver «fatto esperienza di profonda unione con Dio».
In origine, Beauregard sperava che le suore manifestassero una
comunione mistica con Dio, così che la risonanza magnetica potesse
rilevarla; tuttavia, vedersi spingere in una macchina per la risonanza
magnetica, circondate da mucchi di bobine magnetiche, fili e
apparecchiature sofisticate, non si è rivelato essere il presupposto ideale per
un’epifania religiosa. Il meglio che le suore siano riuscite a fare è stato
evocare il ricordo di precedenti esperienze religiose. «Dio non può essere
evocato a proprio piacimento» ha spiegato una di loro.
Il risultato finale è stato confuso e abbastanza inconcludente, ma
durante l’esperimento diverse aree del cervello si sono illuminate in
maniera evidente:
Malattie mentali
Allucinazioni
La mente ossessiva
Un altro disturbo nel cui caso si può ricorrere ai farmaci per guarire la
mente è il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Come abbiamo già visto,
la coscienza umana comporta la mediazione tra una serie di meccanismi di
feedback; a volte, tuttavia, questi meccanismi rimangono bloccati in
posizione “on”.
Un americano su quaranta soffre di disturbo ossessivo compulsivo: le
sue forme possono essere anche lievi, come quando, per esempio, la gente
deve rientrare a casa di continuo per controllare di aver chiuso la porta
(Adrian Monk, protagonista della serie televisiva Detective Monk, soffre di
una lieve forma di DOC). Ma esistono anche forme molto gravi, tanto da
costringere i soggetti che ne sono affetti a graffiarsi o lavarsi
compulsivamente fino a scorticarsi la pelle a sangue; alcune persone colpite
da DOC ripetono comportamenti ossessivi per ore, rendendogli complicato
mantenere un lavoro o gestire una famiglia.
Nella norma, quando cioè vengono messi in atto con moderazione,
questi comportamenti compulsivi costituiscono in realtà un bene per noi,
dal momento che ci aiutano a mantenerci puliti, in salute e al sicuro, motivo
per cui li abbiamo sviluppati nel tempo; ma gli indivui che soffrono di DOC
non possono porre un freno al loro aumento incontrollato.
Le scansioni cerebrali ci stanno finalmente svelando in che modo tutto
questo avvenga nella pratica: almeno tre aree del cervello, che di norma ci
aiutano a mantenerci sani, rimangono bloccate in una retroazione continua.
In primo luogo c’è la corteccia orbitofrontale che, come abbiamo visto nel
Capitolo 1, può agire come fact-checker, assicurandosi che le porte siano
state chiuse nel modo corretto e che le mani siano state lavate; in pratica ci
dice: “Mmh, forse c’è qualcosa che non va”. Poi c’è il nucleo caudato, che
si trova nei gangli della base, e che governa le attività apprese e ormai
automatiche: in poche parole, ordina al corpo di “fare qualcosa”. Infine c’è
la corteccia cingolata, che registra le emozioni coscienti, compreso il
disagio; è come se essa dicesse: “Sto ancora malissimo”.
Il professor Jeffrey Schwartz, docente di psichiatria alla UCLA, ha
cercato di mettere insieme tutto questo per spiegare come il DOC sfugga di
mano. Immaginate di avvertire l’esigenza di lavarvi le mani: la corteccia
orbitofrontale riconosce che qualcosa non va, che avete cioè le mani
sporche; entra in gioco il nucleo caudato, spingendovi in automatico a
lavarvele; infine, la corteccia cingolata registra la soddisfazione dovuta al
fatto che le vostre mani siano pulite.
In un soggetto colpito da DOC, però, questo ciclo è alterato: anche dopo
essersi accorto di avere le mani sporche e averle lavate, egli non smette di
avvertire la spiacevole sensazione che ci sia qualcosa che non va, che le
mani, cioè, siano ancora sporche; così si ritrova bloccato in una retroazione
continua, che non si fermerà.
Negli anni sessanta, la clomipramina ha cominciato a dare un certo
sollievo ai paziendi di DOC. Questo e altri farmaci sviluppati da lì in poi
aumentano i livelli di serotonina nel corpo, e nelle prove cliniche sembrano
ridurre i sintomi del disturbo ossessivo compulsivo addirittura del 60 per
cento. Osserva Schwartz: «Il cervello farà quello che vuole, ma non dovete
permettergli di comandarvi a bacchetta»10. Pur non costituendo certo una
cura, questi farmaci hanno dunque portato un po’ di sollievo a quanti
soffrono di disturbo ossessivo compulsivo.
Disturbo bipolare
Prospettive future
Allo stato attuale delle cose, dunque, non esiste una cura per i pazienti
affetti da malattie mentali. In passato, gli uomini di scienza erano del tutto
impotenti al riguardo, ma la medicina moderna ci ha fornito una serie di
nuove possibilità e terapie per affrontare questo antico problema. Solo per
citarne alcune:
Al fine di mettere ordine nella vasta gamma dei disturbi mentali, alcuni
scienziati ritengono di poterli suddividere in almeno due gruppi principali,
ognuno dei quali richiede un approccio diverso:
1
Eagleman, In incognito, cit., p. 232.
2
Boleyn-Fitzgerald, Pictures of the Mind, cit., p. 122.
3
Vilayanur S. Ramachandran, The Tell-Tale Brain: A Neuroscientist’s Quest for What Makes Us
Human, W.W. Norton, New York 2011, p. 280.
4
David Biello, “Scientific American”, p. 41, www.sciammind.com.
5
Ivi, p. 42.
6
Ivi, p. 45.
7
Ivi, p. 44.
8
Sweeney, Brain, cit., p. 166.
9
Sweeney, Brain, cit., p. 90.
10
Ivi, p. 165.
11
Ivi, p. 208.
12
Ramachandran, The Tell-Tale Brain, cit., p. 267.
13
Carter, Mapping the Mind, cit., pp. 100-103.
14
Sherry Baker, Helen Mayberg, in “Discover Magazine Presents the Brain”, Kalmbach Publishing
Co., Waukesha, WI, autunno 2012, pp. 46-53.
15
Ivi, p. 3.
16
Carter, Mapping the Mind, cit., p. 98.
17
“The New York Times”, 26 febbraio 2013, http://tinyurl.com/bth6p9q.
18
Ibidem.
Capitolo 10
Mente artificiale e coscienza di silicio
No, non mi interessa sviluppare un cervello elettronico potente. Mi accontento di uno mediocre,
un po’ come quello del presidente dell’AT&T.
Alan Turing
Il cervello è un computer?
Dove abbiamo sbagliato? Negli ultimi cinquant’anni gli scienziati
operanti nel campo dell’IA hanno cercato di modellare il cervello seguendo
l’analogia con i computer digitali; un approccio, forse, troppo semplicistico.
Come disse una volta Joseph Campbell, «i computer sono come gli dei del
Vecchio Testamento; un sacco di regole e nessuna pietà». Se rimuovete un
singolo transistor da un chip Pentium, il computer si blocca
immediatamente. Ma il cervello umano può funzionare abbastanza bene
anche privato di una sua buona metà.
Questo perché il cervello non è affatto un computer digitale, ma una
sofisticatissima rete neurale: a differenza del primo, che ha un’architettura
fissa (input, output e processore), le reti neurali sono insiemi di neuroni che
si riconnettono di continuo e si rafforzano dopo aver appreso una nuova
attività. Il cervello non è programmato: non ha un sistema operativo, tipo
Windows, né un processore centrale. Piuttosto, le sue reti neurali lavorano
massicciamente in parallelo, con un centinaio di miliardi di neuroni che si
attivano in contemporanea al fine di raggiungere un unico obiettivo:
imparare.
Alla luce di tutto ciò, i ricercatori impegnati nel campo dell’IA stanno
iniziando a rimettere in discussione “l’approccio top-down” seguito negli
ultimi cinquant’anni (per esempio, inserendo tutte le regole di buon senso
su un cd), e riprendendo in esame “l’approccio bottom-up”, che cerca di
seguire Madre Natura, la quale ha creato esseri intelligenti (noi) attraverso
l’evoluzione, partendo da animali semplici come vermi e pesci, per poi
generarne di più complessi. Le reti neurali devono imparare a proprie spese,
scontrandosi con la realtà e commettendo errori.
Rodney Brooks, ex direttore del famoso Artificial Intelligence
Laboratory del MIT e cofondatore di iRobot, azienda che ha portato gli
aspirapolveri meccanici in molti salotti, ha introdotto un nuovo approccio
all’IA: invece di progettare grossi e goffi robot, perché non costruirne di
piccoli e compatti come insetti, che, proprio come succede in natura,
devono imparare a camminare?
Quando l’ho intervistato6, mi ha confidato di provare una certa
ammirazione per le zanzare, che, pur avendo un cervello quasi
microscopico, con pochissimi neuroni, sono in grado di compiere manovre
nello spazio meglio di qualsiasi aeroplano meccanico. All’epoca aveva
realizzato una serie di robot molto semplici e affettuosamente ribattezzati
insectoids o bugbots, che scorrazzavano sui pavimenti del MIT e davano
filo da torcere ai robot più tradizionali. L’obiettivo era realizzare robot che
seguissero il metodo che procede per tentativi ed errori usato, appunto, da
Madre Natura: in altre parole, questi robot imparavano scontrandosi con
l’ambiente circostante (sulle prime potrebbe sembrare che ciò richieda
molta programmazione, tuttavia l’aspetto ironico è che non ne richiede
alcuna: l’unica cosa che la rete neurale fa è riconnettersi in modo costante,
modificando la forza di alcuni percorsi ogni volta che prende una decisione
corretta. La programmazione è nulla, la flessibilità della rete è tutto).
Un tempo gli scrittori di fantascienza immaginavano che i robot su
Marte sarebbero stati umanoidi sofisticati, in grado di camminare e
muoversi proprio come noi, grazie alla complessa programmazione
assicurata loro dall’intelligenza umana. Si è avverato esattamente l’opposto,
e oggi i nipoti del nuovo approccio – come il Mars Rover Curiosity – che se
ne vanno a zonzo sulla superficie di Marte, non sono robot programmati per
camminare come esseri umani: al contrario, posseggono l’intelligenza di un
insetto, ma se la cavano molto bene su quel terreno. I rover inviati su Marte
hanno una programmazione relativamente esigua, e imparano dagli ostacoli
in cui si imbattono.
Forse il modo migliore per chiarire perché dei veri automi non esistano
ancora è quello di classificare il loro livello di coscienza. Come abbiamo
visto nel Capitolo 2 possiamo ripartire la coscienza in quattro livelli. Il
livello di coscienza 0 attiene ai termostati e alle piante, e chiama in causa
alcuni cicli di retroazione in una manciata di semplici parametri, quali la
temperatura o la luce solare. Il livello di coscienza 1 descrive insetti e rettili,
creature mobili e dotate di un sistema nervoso centrale: esso chiama in
causa la creazione di un modello del mondo in rapporto a un nuovo
parametro, lo spazio. Abbiamo poi il livello di coscienza 2, che ricrea un
modello del mondo in relazione ai propri simili, e che richiede dunque
emozioni. Infine abbiamo il livello di coscienza 3: esso descrive gli esseri
umani, i quali possiedono il senso del tempo e la consapevolezza di sé, che
utilizzano per fare proiezioni su come le cose si evolveranno in futuro e
determinare così il loro posto in tali modelli.
Possiamo servirci di questa teoria per classificare i robot di oggi. I robot
di prima generazione erano di livello 0, visto che erano statici, senza ruote
né battistrada. I robot di oggi sono al livello 1, dal momento che sono
mobili: ma il rango rimane comunque basso perché hanno enormi difficoltà
a orientarsi nel mondo reale. La loro coscienza può essere paragonata a
quella di un verme o di un insetto lento; ma per ricreare una coscienza che
sia pienamente di livello 1, gli scienziati dovranno realizzare robot in grado
duplicare realisticamente la coscienza di rettili e insetti. Anche questi ultimi
possiedono, infatti, abilità che i robot attuali non hanno, come trovare in
fretta un nascondiglio, localizzare i compagni nella foresta, riconoscere ed
eludere i predatori o cercare cibo e riparo.
Come accennato in precedenza, possiamo classificare la coscienza in
base al numero di cicli retroattivi per ciascun livello. I robot in grado di
vedere, per esempio, possono avere diversi cicli retroattivi, perché
dispongono di sensori visivi capaci di rilevare ombre, bordi, curve, forme
geometriche e così via, in uno spazio tridimensionale. Allo stesso modo, i
robot in grado di sentire richiedono sensori capaci di rilevare, per esempio,
frequenza, intensità, enfasi e pause. Il numero totale di questi cicli di
retroazione può ammontare a circa una decina (mentre un insetto, essendo
in grado di perlustrare un ambiente in cerca di cibo, trovare i compagni,
individuare un riparo ecc., può vantare cinquanta o più anelli di
retroazione). Un robot standard, quindi, può avere un livello di coscienza
1:10.
Per poter accedere a un livello di coscienza 2 i robot dovranno essere in
grado di creare un modello di mondo in relazione agli altri. Come già detto,
prima di tutto la coscienza di livello 2 si calcola moltiplicando il numero dei
membri del gruppo per il numero di emozioni e gesti che vengono utilizzati
per comunicare al suo interno: i robot avrebbero in tal modo una coscienza
di livello 2:0. Tuttavia, la speranza è che i robot emotivi, oggi in
costruzione nei laboratori, possano presto aumentare di numero.
Gli attuali robot vedono gli esseri umani semplicemente come un
insieme di pixel che si spostano sui loro sensori video, ma alcuni ricercatori
nel campo dell’IA stanno cominciando a realizzare robot in grado di
riconoscere le emozioni nelle espressioni del nostro volto e nel nostro tono
di voce. Si tratta di un primo passo verso la creazione di robot capaci di
rendersi conto di come gli esseri umani siano più che semplici pixel casuali,
e posseggano stati emotivi.
Nel giro di qualche decennio i robot raggiungeranno pian piano il livello
2 di coscienza, diventando intelligenti come topi, ratti, conigli e infine gatti.
Forse sul finire del secolo saranno intelligenti come scimmie e inizieranno a
porsi degli obiettivi propri.
Una volta che avranno una conoscenza basilare del senso comune e
della teoria della mente, i robot saranno in grado di eseguire simulazioni
complesse in un futuro che li vede attori principali, entrando così nel livello
3 di coscienza.
Lasceranno il mondo del presente per fare il loro ingresso in quello del
futuro. Ma tutto questo è a molti decenni di distanza dalle capacità dei robot
attuali. Eseguire proiezioni sul futuro significa avere una solida conoscenza
delle leggi della natura, della causalità e del senso comune, tanto da riuscire
a proniosticare gli eventi futuri; significa anche comprendere le intenzioni e
le motivazioni umane, così da poterne prevedere gli esiti.
Il valore numerico del livello 3 di coscienza, l’abbiamo già visto: si
calcola prendendo il numero totale di collegamenti causali che si riesce a
cogliere simulando il futuro in una varietà di situazioni di vita reale, e
dividendolo per il valore medio di un gruppo di controllo. Oggi i computer
sono in grado di effettuare un certo numero di simulazioni riguardanti
alcuni parametri (per esempio la collisione di due galassie, il flusso d’aria
attorno a un aereoplano, l’oscillazione degli edifici durante un terremoto),
ma sono del tutto impreparati a simulare il futuro relativo a situazioni
complesse di vita reale, quindi il loro livello di coscienza sarebbe qualcosa
di simile al livello 3:5.
Come vedete, potrebbero volerci decenni di duro lavoro prima di avere
un robot che possa funzionare senza problemi in seno alla società umana.
La zona perturbante
Ma supponiamo per il momento che un giorno coesisteremo con robot
incredibilmente sofisticati, che magari utilizzano chip con transistor
molecolari, piuttosto che di silicio. Fino a che punto vorremmo che questi
robot ci assomigliassero? Il Giappone è leader mondiale nella realizzazione
di robot che assomigliano a cuccioli e a bambini, ma i loro ideatori prestano
molta attenzione a che questi ultimi non abbiano sembianze troppo umane,
perché la cosa potrebbe risultare inquietante. Del fenomeno, chiamato zona
perturbante, si è occupato per primo Masahiro Mori in Giappone, nel 1970.
L’ipotesi formulata da Mori presuppone che i robot percepiti come troppo
simili agli esseri umani ingenerino angoscia (l’effetto era stato in realtà
citato per la prima volta da Darwin nel 1839 in Viaggio di un naturalista
intorno al mondo e da Freud in un saggio del 1919 intitolato, appunto, Il
perturbante). Da allora, l’ipotesi è stata studiata con molta attenzione, non
solo da ricercatori nel campo dell’IA ma anche da esperti di animazione,
pubblicitari o da chiunque promuovesse un prodotto che avesse a che fare
anche con figure umanoidi. Per esempio, riferendosi al film The Polar
Express, un recensore della CNN ha osservato: «I personaggi umani del
film hanno un’aria assolutamente… be’, raccapricciante. Ragion per cui
The Polar Express è nella migliore delle ipotesi sconcertante e nella
peggiore un tantino terrificante».
Secondo Mori, più un robot assomiglia a un essere umano, più
proviamo empatia nei suoi confronti, ma solo fino a un certo punto: non
appena le sue sembianze si avvicinano sul serio alle nostre, l’empatia
accusa una flessione, denominata appunto zona (o valle) del perturbante. Se
il robot è molto simile a un umano eccetto che per un paio di caratteristiche
“perturbanti”, creerà in noi una sensazione di repulsione e paura, mentre se
viene percepito come umano al 100 per cento, indistinguibile da voi e me,
torneremo a registrare emozioni positive.
Tutto questo ha implicazioni pratiche. Per esempio: i robot dovrebbero
sorridere? Sulle prime, sembrerebbe ovvio che i robot debbano sorridere
alle persone che incontrano per metterle a proprio agio: sorridere è un segno
universale che comunica un senso di calore e accoglienza. Se il sorriso del
robot è troppo realistico, però, ci farà accapponare la pelle (non a caso, le
maschere di Halloween hanno spesso le fattezze di demoni sogghignanti).
Dunque i robot dovrebbero sorridere solo se hanno un aspetto infantile
(cioè, grandi occhi e un viso rotondo) o se sono in tutto e per tutto umani, e
non un qualcosa che sta in mezzo (quando forziamo un sorriso, attiviamo i
muscoli del viso tramite la corteccia prefrontale; quando invece sorridiamo
perché siamo di buon umore, i nostri nervi vengono controllati dal sistema
limbico, che attiva un insieme di muscoli leggermente diverso. Il nostro
cervello sa cogliere la sottile differenza tra i due sorrisi, capacità che si è
rivelata utile per la nostra evoluzione).
Questo effetto può essere studiato ricorrendo alle scansioni cerebrali.
Un soggetto è inserito in una macchina per la risonanza magnetica e gli
viene mostrata l’immagine di un robot che sembra umano, tranne che per i
movimenti del corpo leggermente scattosi e meccanici. Dato che ogni volta
che vede qualcosa il cervello cerca di prevederne i movimenti futuri,
osservando un robot dalle sembianze umane esso si aspetta di vederlo
muovere come un essere umano; ma se il robot si muove come una
macchina la discrepanza che ne emerge ci mette a disagio. In particolare, si
illumina il nostro lobo parietale – più di preciso, la parte in cui la corteccia
motoria si collega con la corteccia visiva, area in cui si ritiene vi siano dei
neuroni specchio. Ciò ha un senso: la corteccia visiva raccoglie l’immagine
del robot umanoide, i cui movimenti sono invece previsti dalla corteccia
motoria e dai neuroni specchio. Alla fine è probabile che la corteccia
orbitofrontale, situata proprio dietro gli occhi, metta tutto insieme
concludendo che qualcosa non quadra.
I registi conoscono bene questo effetto: dal momento che spendono
moltissimi soldi per realizzare un film horror, sono ben consapevoli del
fatto che la scena più spaventosa non è quella in cui una gigantesca massa
informe o Frankenstein saltano fuori all’improvviso da un cespuglio, bensì
quella in cui si assiste a un’aberrazione del normale. Pensate al film
L’esorcista: quale scena ha fatto venire i conati agli spettatori mentre
scappavano via dal cinema, o li ha fatti svenire sulla sedia? Forse quella in
cui si manifestava il demonio? No. I cinema di tutto il mondo si sono
riempiti di urla stridule e sonori singhiozzi quando Linda Blair ha preso a
ruotare la testa sul collo di trecentosessanta gradi.
Questo effetto si riscontra anche nelle giovani scimmie. Se si mostrano
loro immagini di Dracula o Frankenstein si limitano a ridere e a strapparle;
quello che invece le fa urlare di terrore è la foto di una scimmia decapitata.
Ancora una volta, è un’aberrazione del normale a suscitare le paure più
grandi (nel Capitolo 2 abbiamo detto che la teoria spazio-temporale della
coscienza spiega la natura dell’umorismo, perché il cervello simula gli
sviluppi futuri di una barzelletta, per poi rimanere sorpreso alla battuta
finale. Ciò spiega anche la natura dell’orrore: il cervello simula il futuro di
un evento comune, banale, e subisce uno shock quando le cose assumono
all’improvviso una piega orribilmente distorta).
Per questo motivo i robot continueranno ad avere un aspetto un po’
infantile anche quando il loro livello di intelligenza si avvicinerà a quello
umano: solo quando saranno in grado di muoversi e agire in modo
realistico, come veri esseri umani, i progettisti daranno loro sembianze in
tutto e per tutto antropomorfe.
Coscienza di silicio
Robot emotivi
Un ventaglio di emozioni
Programmare le emozioni
I robot mentiranno?
Robot etici
Sulle prime, l’idea di robot etici può sembrare uno spreco di tempo e
fatica. Tuttavia, la questione diventa urgente non appena ci rendiamo conto
che essi possono prendere decisioni di vita o di morte: come abbiamo
accennato, dal momento che saranno dotati di forza, e in grado di salvare
vite umane, verranno probabilmente posti in condizione di dover operare in
una frazione di secondo scelte etiche concernenti, per esempio, chi salvare
prima.
Poniamo il caso di un terremoto catastrofico in cui dei bambini siano
intrappolati in un edificio che sta per crollare. In che modo il robot
dovrebbe ripartire la sua energia? Dovrebbe cercare di salvare il maggior
numero di bambini? O i più piccoli? Oppure, ancora, i più esposti al
pericolo? Se le macerie sono troppo pesanti, il robot potrebbe riportare un
danno ai circuiti elettronici, e dovrà dunque confrontarsi con un’ulteriore
questione etica: come soppesare il numero di bambini che può mettere in
salvo rispetto alla quantità di danni che subirà la sua componente
elettronica?
Senza un’adeguata programmazione, il robot potrebbe semplicemente
fermarsi in attesa che sia un essere umano a prendere la decisione finale,
sprecando così del tempo prezioso; qualcuno dovrà quindi programmarlo in
anticipo perché prenda automaticamente la decisione “giusta”.
Tali decisioni etiche dovranno essere pre-installate nel calcolatore del
robot, perché non esiste legge matematica che possa assegnare un valore al
salvataggio di un gruppo di bambini. Il programma dovrà contenere una
lista esaustiva di priorità, una faccenda davvero noiosa, tanto è vero che a
volte un essere umano ci mette una vita intera a far propri questi precetti
etici; un robot, invece, deve impararli in fretta, prima ancora di lasciare la
fabbrica, perché possa essere inserito nel modo corretto in società.
Tuttavia, i dilemmi etici dividono spesso anche noi esseri senzienti. Il
che solleva un ulteriore interrogativo: chi prenderà le decisioni? Chi
deciderà, cioè, l’ordine in cui i robot salveranno delle vite umane?
La questione di come saranno infine prese queste decisioni verrà risolta,
con ogni probabilità, attraverso una combinazione tra legislazione e
mercato, nel senso che sarà necessario approvare delle leggi che
stabiliscano dei criteri in base a cui, per esempio, dare delle priorità di
salvataggio in caso di emergenza. Esistono, però, migliaia di questioni
etiche ancora più spinose, che possono essere decise dal mercato e dal buon
senso.
Se lavorate per un’agenzia di sicurezza che protegge personalità di
spicco, dovrete dare al robot l’ordine preciso in cui salvare le persone nelle
diverse situazioni (basandovi su considerazioni come l’adempimento del
dovere primario nel rispetto del budget).
Cosa succede se un criminale compra un robot con l’intento di fargli
commettere un crimine? Ovvero: a un robot dovrebbe essere consentito
sottrarsi al volere del suo proprietario se quest’ultimo gli chiede di
infrangere la legge? L’esempio di prima ci ha mostrato come i robot
debbano essere programmati per comprendere le norme ed essere in grado
di prendere decisioni etiche: quindi, se il computer è in grado di valutare
che gli si sta chiedendo di infrangere la legge, dev’essergli consentito di
disobbedire al proprietario.
C’è anche il dilemma etico posto dai robot che riflettono le convinzioni
dei loro proprietari, magari diretti da una morale che diverge dalle norme
sociali: le “guerre culturali” saranno enfatizzate una volta che i robot
rispecchieranno le opinioni e la fede dei loro proprietari, ma in un certo
senso tale conflitto è inevitabile, dato che essi sono estensioni meccaniche
dei sogni e dei desideri dei loro creatori; quando saranno abbastanza
sofisticati da prendere decisioni morali, lo faranno.
Le divisioni sociali potrebbero essere sottolineate quando i robot
cominceranno a mostrare comportamenti che sfidano i nostri valori e
obiettivi: robot di proprietà di giovani che hanno appena assistito a un
concerto rock potrebbero entrare in conflitto con quelli di proprietà di
anziani residenti in un quartiere tranquillo (il primo gruppo di robot
potrebbe essere stato programmato per amplificare i suoni delle band,
mentre il secondo per mantenere al minimo i livelli di rumore); robot
posseduti da fondamentalisti praticanti potrebbero litigare con i robot di
soggetti atei; robot di diverse nazioni e culture potrebbero essere progettati
per rispecchiare i costumi delle rispettive società, talvolta in contrasto fra
loro.
Come si fa, quindi, a programmare dei robot eliminando tali conflitti?
Non si può: essi rispecchieranno le propensioni e i pregiudizi dei propri
creatori. In definitiva, le differenze culturali ed etiche che sorgeranno
dovranno essere risolte nei tribunali, e non essendoci legge della fisica che
possa fissare delle questioni morali, per gestire i nuovi conflitti in seno alla
società si dovrà ricorrere alle norme giuridiche. I robot non possono
risolvere i dilemmi morali creati dagli esseri umani; possono, semmai,
amplificarli.
Se i robot possono prendere decisioni etiche e legali, sono anche in
grado di provare e comprendere sensazioni? Se riescono a salvare qualcuno,
possono sperimentarne la gioia? E possono percepire qualcosa come il
colore rosso? Analizzare con freddezza i principi etici in base a cui salvare
qualcuno per primo è una cosa, percepire e comprendere è un’altra. E
dunque: i robot possono provare sensazioni?
I robot possono “capire” o “percepire”?
Nel corso dei secoli sono state avanzate molte teorie circa la possibilità
che una macchina possa pensare e percepire delle sensazioni. La filosofia a
cui personalmente mi rifaccio è detta costruttivismo; ciò ci induce, al posto
di discutere all’infinito la questione, cosa del tutto inutile, a dedicare le
nostre energie alla creazione di un automa per vedere fino a che punto
possiamo spingerci (altrimenti finiamo per arenarci in dibattiti filosofici
interminabili e destinati a rimanere insoluti). Il vantaggio della scienza è
che, una volta che tutto è stato detto e fatto, si possono condurre degli
esperimenti per risolvere un problema in via definitiva.
Perciò, per dirimere la questione se un robot possa pensare, la soluzione
definitiva potrebbe essere quella di costruirne uno; secondo alcuni, tuttavia,
le macchine non saranno mai in grado di pensare come un essere umano.
L’argomento su cui costoro fanno maggiormente leva è che, per quanto
possa manipolare i fatti più in fretta rispetto a un essere umano, un robot
non “capisce” cosa stia manipolando; per quanto sia in grado di elaborare
elementi sensoriali (per esempio colori o suoni) meglio di un essere umano,
non può davvero “percepire” o “sperimentare” la loro essenza.
Per esempio, il filosofo David Chalmers ha suddiviso i problemi legati
all’IA in due categorie, i Problemi Facili e i Problemi Difficili. Per lui, i
Problemi Facili stanno creando macchine che possono imitare sempre
meglio le capacità umane, come giocare a scacchi, sommare numeri,
riconoscere certi schemi ecc. I Problemi Difficili comportano la creazione
di macchine in grado di comprendere i sentimenti e le sensazioni
soggettive, chiamati qualia.
Così come è impossibile insegnare il significato del colore rosso a una
persona non vedente, un robot non sarà mai in grado di provare la
sensazione soggettiva legata al colore rosso, ci dicono. Un computer
potrebbe anche essere in grado di tradurre parole cinesi in inglese con
grande scioltezza, ma non sarà mai in grado di capire cosa stia traducendo.
In questa ottica, i robot sono come i registratori a cassette o le macchine
addizionatrici, meccanismi in grado di recitare e manipolare le informazioni
con precisione incredibile, ma senza alcuna comprensione di sorta.
Questi argomenti devono essere presi sul serio, ma esiste anche un altro
modo di guardare al problema dei qualia e dell’esperienza soggettiva. In
futuro, molto probabilmente una macchina sarà capace di elaborare un
elemento legato alle sensazioni, come il colore rosso, molto meglio di
qualunque umano: sarà in grado di descrivere le proprietà fisiche del rosso e
perfino di utilizzarle in chiave poetica in una frase, meglio di un umano. Il
robot “percepisce” il colore rosso? La questione diventa irrilevante, perché
la parola percepisce non è ben definita. La descrizione del colore ad opera
di un robot potrebbe superare quella di un essere umano, e a quel punto il
primo potrebbe, a ragione, chiedere: gli esseri umani capiscono davvero il
colore rosso? Forse gli uomini non possono capire davvero il colore rosso
con tutte le sfumature e le sottigliezze che può invece apprezzare un robot.
Come disse una volta il comportamentista BF Skinner: «Il vero
problema non è se le macchine pensino, ma se lo facciano gli uomini».
Allo stesso modo, è solo questione di tempo prima che un robot possa
essere in grado di definire e utilizzare in un dato contesto le parole cinesi
molto meglio di qualunque essere umano; quel giorno diventerà irrilevante
stabilire se il robot “capisca” il cinese, perché in tutte le applicazioni
pratiche, emergerà che vi riesce meglio di qualunque essere umano; in altri
termini, la parola capisce non è ben definita.
Dunque, un giorno, quando i robot supereranno la nostra capacità di
manipolare queste parole e sensazioni, diventerà irrilevante decretare se le
“capiscano” o le “percepiscano” (come diceva il matematico John von
Neumann, «in matematica non si capiscono le cose. Semplicemente, si fa
l’abitudine alle cose»13).
Il problema non riguarda dunque l’hardware, ma la natura del
linguaggio umano, in cui le parole che non sono ben definite significano
cose diverse per ciascuno. Un giorno chiesero al grande fisico Niels Bohr in
che modo si potessero capire i profondi paradossi della teoria quantistica: la
risposta, disse lui, sta nel modo in cui si definisce la parola capire.
Daniel Dennett, docente di filosofia alla Tufts University, ha scritto:
«Non potrebbe esserci un criterio oggettivo per distinguere un robot
intelligente da una persona cosciente. Dovete scegliere: potete attenervi al
Problema Difficile, oppure scuotere la testa stupiti e rigettarlo»14.
In altre parole, non esiste nulla come il Problema Difficile.
Per la filosofia costruttivista, il punto non è discutere se una macchina
possa sperimentare il colore rosso o meno, ma costruirla. In un quadro
simile, c’è un continuum di livelli che descrive le parole capire e percepire
(ciò significa che potrebbe anche essere possibile attribuire dei valori
numerici al grado di comprensione e di percezione): a un estremo abbiamo i
robot impacciati di oggi, che possono manipolare alcuni simboli ma poco
più, e all’estremo opposto esseri umani che si vantano di percepire i qualia.
Con il passare del tempo, però, i robot saranno in grado di descrivere le
sensazioni meglio di noi a qualsiasi livello: a quel punto sarà diventato
ovvio che i robot “capiscono”.
Questa era la filosofia dietro il famoso test di Turing: quest’ultimo
predisse che un giorno sarebbe stata costruita una macchina in grado di
rispondere a qualsiasi domanda, tanto da risultare indistinguibile da un
essere umano. «Un computer meriterebbe di essere chiamato intelligente se
riuscisse a far credere a un umano di essere un umano».
Il fisico e premio Nobel Francis Crick lo disse ancora meglio. Nel
secolo scorso, osservò, tra i biologi si accendevano intensi dibattiti intorno
alla domanda: “Cos’è la vita?”; ora, con la nostra comprensione del DNA,
gli scienziati si rendono conto di come la questione non sia ben definita.
Quella semplice domanda nasconde molte varianti, molteplici livelli e
complessità. La domanda “cos’è la vita?” ha semplicemente perso
consistenza. Lo stesso potrebbe infine valere per i concetti di capire e
percepire.
Robot autocoscienti
IA amica
Fusione uomo-macchina?
1
Daniel Crevier, AI: The Tumultuous History of the Search for Artificial Intelligence, Basic
Books, New York 1993, p. 109.
2
Ibidem.
3
Michio Kaku, Fisica del futuro. Come la scienza cambierà il destino dell’umanità e la nostra
vita quotidiana entro il 2100, Codice edizioni, Torino 2012, p. 62 (ed. orig. Physics of the Future.
How Science Will Shape Human Destiny and Our Daily Lives by the Year 2100, 2011).
4
Brockman, The Mind, cit., p. 2.
5
Intervista dell’aprile 2007 ai creatori di ASIMO durante una visita al laboratorio Honda a
Nagoya, in Giappone, per la serie tv della BBC Visions of the Future.
6
Intervista dell’aprile 2002 a Rodney Brooks per il programma radiofonico Exploration.
7
Visita al Media Laboratory del MIT effettuata il 13 aprile 2010 per Sci Fi Science di
Discovery/Science Channel TV.
8
Frank Moss, The Sorcerers and Their Apprentices: How the Digital Magicians of the MIT Media
Lab Are Creating the Innovative Technologies That Will Transform Our Lives, Crown Business,
New York 2011, p. 168.
9
Gazzaniga, Human, cit., p. 440.
10
“The Guardian”, 9 agosto 2010, http://tinyurl.com/oe3r8wm.
11
http://tinyurl.com/n97aqnx.
12
Damasio, Il sé viene alla mente, cit., pp. 142-168.
13
Ray Kurzweil, Come creare una mente: i segreti del pensiero umano, Apogeo, Milano 2013, p.
149 (ed. orig. How to Create a Mind: The Secret of Human Thought Revealed, 2012).
14
Pinker, The Riddle of Knowing You’re Here, cit., p. 19.
15
Gazzaniga, Human, cit., p. 440.
16
Kurzweil.net, 24 agosto 2012, http://tinyurl.com/k5fwfgr. Si veda anche “Yale Daily News”, 25
settembre 2012, http://tinyurl.com/n2eo4xv.
17
Intervista del novembre 1998 ad Hans Moravec per il programma radiofonico Exploration.
18
Sweeney, Brain, cit., p. 316.
19
Intervista dell’aprile 2002 a Rodney Brooks per il programma radiofonico Exploration.
20
TED Talks, http://tinyurl.com/lpm7jdn.
21
http://phys.org/news205059692.html.
Capitolo 11
Il reverse engineering del cervello
Amo il mio corpo come chiunque altro, ma se con un corpo di silicio posso arrivare a duecento
anni, faccio a cambio.
Daniel Hill, cofondatore della Thinking Machines Corporation
Costruire un cervello
Dal momento che il cervello è così complesso esistono almeno tre modi
distinti per disassemblarlo, neurone per neurone. Il primo è quello di
realizzare una sua simulazione elettronica con dei supercomputer, ovvero
l’approccio adottato dagli europei. Il secondo è quello di tracciare una
mappa dei percorsi neuronali di cervelli reali, come previsto dal BRAIN
(compito che, a sua volta, può essere ulteriormente suddiviso a seconda di
come i neuroni vengono analizzati: anatomicamente, neurone per neurone,
o per funzione e attività). Terzo – l’approccio pionieristico di Paul Allen, il
miliardario a capo di Microsoft – si possono decifrare i geni che controllano
lo sviluppo del cervello.
Il primo approccio, attraverso la sua simulazione tramite transistor e
computer, sta compiendo passi in avanti nel ricostruire il cervello di una
certa sequenza di animali: prima topo, poi ratto, quindi coniglio e infine
gatto. Gli europei stanno seguendo il sentiero accidentato dell’evoluzione,
partendo dai cervelli più elementari per poi risalire la scala. Dal punto di
vista informatico, la soluzione risiede una maggiore potenza
computazionale grezza: più ce n’è, meglio è, e ciò significa utilizzare alcuni
dei più grossi computer al mondo per decifrare i cervelli di topi e uomini.
Il primo obiettivo è il cervello del topo, che, essendo mille volte più
piccolo di un cervello umano, contiene circa cento milioni di neuroni:
analizzare il processo di pensiero ad esso sotteso è oggi compito del
computer Blue Gene di IBM, che, insieme ad alcuni dei più grossi computer
del mondo – un tempo utilizzati per progettare testate a idrogeno per il
Pentagono – si trova al Lawrence Livermore National Laboratory, in
California. Questa colossale collezione di transistor, circuiti integrati e fili
contiene 147.456 processori, per un totale sbalorditivo di 150.000 gigabyte
di memoria (si pensi che un normale computer può avere un processore e un
paio di gigabyte di memoria).
Il progresso è lento ma costante: anziché ricreare un modello dell’intero
cervello, gli scienziati cercano di duplicare soltanto le connessioni tra la
corteccia e il talamo, dove si concentra gran parte dell’attività cerebrale (ciò
significa che in questa simulazione le connessioni sensoriali con il mondo
esterno non sono prese in considerazione).
Nel 2006 Dharmendra Modha, di IBM, ha effettuato una simulazione
parziale del cervello di topo con 512 processori; nel 2007 il suo gruppo ha
simulato il cervello di ratto con 2048 processori; il cervello del gatto, con
più di un miliardo e mezzo di neuroni e nove trilioni di connessioni, è stato
simulato nel 2009, con 24.576 processori.
Oggi, sfruttando la potenza del computer Blue Gene, gli scienziati di
IBM hanno simulato il 4,5 per cento dei neuroni e delle sinapsi del cervello
umano: per iniziare una sua simulazione parziale servirebbero 880.000
processori, traguardo che sarà possibile raggiungere intorno al 2020.
Ho avuto la possibilità di filmare il Blue Gene. Per raggiungerlo ho
dovuto superare diversi controlli di sicurezza, dal momento che si trova nel
più importante laboratorio militare di tutti gli Stati Uniti; una volta
oltrepassati i vari checkpoint si accede nell’enorme sala climatizzata che lo
ospita.
Il computer è davvero un magnifico esemplare di hardware: si compone
di griglie e di grossi armadietti neri pieni di interruttori e luci lampeggianti,
ciascuno dei quali alto circa due metri e mezzo e lungo quasi cinque.
Mentre vi camminavo nel mezzo, mi chiedevo quale tipo di operazioni
stesse eseguendo il Blue Gene; è molto probabile che stesse ricreando
l’interno di un protone, calcolando il decadimento degli inneschi di
plutonio, simulando la collisione di due buchi neri e il pensiero di un topo,
tutto nello stesso momento.
Poi mi è stato detto che anche questo supercomputer sta cedendo il
passo alla generazione successiva, il Blue Gene/Q Sequoia, che condurrà a
un nuovo livello di elaborazione. Al massimo delle sue prestazioni,
quest’ultima versione – che nel giugno del 2012 ha stabilito il record
mondiale di velocità tra i supercomputer – può eseguire operazioni a 20,1
petaFLOPS (ovvero, 20,1 trilioni di operazioni in virgola mobile al
secondo). Si estende su una superficie di quasi 280 metri quadrati e divora
energia elettrica al tasso di 7,9 megawatt, l’equivalente necessario a
illuminare una piccola città.
Questa enorme potenza di fuoco computazionale concentrata in un
computer è in grado di rivaleggiare con il cervello umano?
Purtroppo, no.
Simili simulazioni cercano solo di duplicare le interazioni tra la
corteccia e il talamo; mancano dunque parti consistenti del cervello. Modha
è perfettamente consapevole della complessità del suo progetto, ma la sua
ambiziosa ricerca gli ha consentito di valutare cosa occorra per creare un
modello funzionante dell’intero cervello umano – e non solo di una sua
porzione, o di una sua assai più pallida versione – completo di tutte le parti
che costituiscono la neocorteccia e le connessioni sensoriali. Modha
immagina di utilizzare non un singolo computer Blue Gene, ma migliaia di
essi (nel qual caso, invece di una stanza, servirebbe un intero isolato): il
consumo di energia di un simile mostro di silicio sarebbe così elevato da
richiedere una centrale nucleare da 1000 megawatt per poterlo alimentare, e
per evitare che fonda si dovrebbe deviare il corso di un fiume e farlo
scorrere attraverso i suoi circuiti.
Fa una certa impressione prendere atto del fatto che occorre un
computer grande quanto una città per simulare un pezzo di tessuto umano
che pesa a dir tanto un chilo e mezzo, sta tutto dentro il vostro cranio,
aumenta la temperatura corporea solo di pochi gradi, usa 20 watt di potenza
e ha bisogno solo di qualche panino per tirare avanti.
È davvero un cervello?
Gli scienziati che hanno dedicato la loro vita al reverse engineering del
cervello sono consapevoli dei decenni di dure fatiche ancora davanti a loro,
ma sono anche convinti delle implicazioni pratiche del proprio lavoro.
Ritengono che anche risultati parziali aiuteranno a decodificare il mistero
dei disturbi mentali che da sempre affliggono gli esseri umani.
I cinici, tuttavia, sostengono che dopo aver portato a termine l’arduo
compito disporremo di una montagna di dati che non avremo idea di come
assemblare. Immaginate, per esempio, un Uomo di Neanderthal imbattersi
un giorno nel progetto completo di un computer IBM Blue Gene: tutti i
particolari sono presenti, fino all’ultimo transistor, e il piano è imponente,
tanto da occupare migliaia di metri quadrati di carta. Il Neanderthal
potrebbe anche essere consapevole del fatto che il progetto racchiuda il
segreto di una macchina superpotente: la massa pura e semplice di dati
tecnici, però, non significherebbe niente per lui.
Allo stesso modo, il timore è che, dopo aver speso miliardi per decifrare
la posizione di ogni neurone del cervello, non saremo in grado di capire
cosa il tutto, nella sua interezza, significhi: per riuscirci, potrebbero
occorrere svariati altri decenni di duro lavoro.
Per esempio, il Progetto Genoma Umano ha registrato un incredibile
successo nel mettere in sequenza tutti i geni, ma si è rivelato una grossa
delusione per chi si aspettava una cura immediata per le malattie genetiche:
un enorme dizionario con ventitremila voci, ma senza definizioni e dalle
pagine vuote, per quanto l’ortografia di ogni singolo gene sia perfetta. Il
progetto ha rappresentato una svolta, ma allo stesso tempo è soltanto il
primo passo di un lungo viaggio la cui meta è capire cosa questi geni
facciano, e come interagiscano.
In modo analogo, il solo disporre di una mappa completa di ogni singola
connessione neuronale nel cervello non ci assicura che sapremo cosa questi
neuroni facciano, nè come reagiscano. Il reverse engineering è la parte
facile: quella difficile – dare un senso a tutti questi dati – comincia dopo.
Il futuro
1
http://tinyurl.com/kvc3xgg.
2
http://tinyurl.com/pqtzjk9.
3
David Kushner, The Man Who Builds Brains, p. 19, in “Discover Magazine Presents the Brain”,
Kalmbach Publishing Co., Waukesha, WI, autunno 2001.
4
Ibidem, p. 2.
5
Sally Adee, Reverse Engineering the Brain, “IEEE Spectrum”, http://tinyurl.com/ouf58s4.
6
http://tinyurl.com/nlt272u.
7
http://tinyurl.com/mmuevah. Si veda anche Sebastian Seung, Connettoma. La nuova geografia
della mente, Codice edizioni, Torino 2013 (ed. orig. Connectome. How the Brain’s Wiring Makes
Us Who We Are, 2012).
8
http://tinyurl.com/kv2ckm7.
9
TED Talks, gennaio 2010, http://www.ted.com.
Capitolo 12
Il futuro. La mente oltre la materia
La speculazione non è mai una perdita di tempo. Taglia via i rami secchi dalla selva della
deduzione.
Elizabeth Peters
La nostra è una civiltà scientifica […]. Questo significa una civiltà in cui la conoscenza e la sua
integrità sono fondamentali. Scienza è solo una parola latina per conoscenza […]. La conoscenza è
il nostro destino.
Jacob Bronowski
Può la coscienza esistere di per sé, libera dai vincoli del corpo fisico?
Possiamo lasciare il nostro corpo mortale e, come spiriti, aleggiare in questo
parco giochi chiamato universo? Il tema ha ispirato l’episodio di Star Trek
in cui l’equipaggio della nave stellare Enterprise incontra una razza
sovrumana, quasi un milione di anni più avanzata rispetto alla Federazione
dei Pianeti: si tratta di esseri tanto evoluti da avere ormai da lungo tempo
abbandonato i propri fragili corpi mortali, per incarnarsi in globi pulsanti di
pura energia; da millenni non provano più sensazioni inebrianti come
respirare aria fresca, toccare una mano o sperimentare l’amore fisico. Il loro
leader, Sargon, è lieto di accogliere l’Enterprise sul pianeta, e il capitano
Kirk accetta l’invito (ben consapevole del fatto che, se lo volesse, la civiltà
potrebbe incenerire la sua nave in un istante).
I membri dell’equipaggio non lo sanno, ma tali entità superiori hanno
un grosso punto debole: da centinaia di migliaia di anni l’avanzatissima
tecnologia di cui sono in possesso li tiene separati dai loro corpi, e bramano
di poter riassaporare il tumulto delle sensazioni fisiche tornando ad essere
umani.
Una di esse, in effetti, è determinata a impossessarsi del corpo fisico di
uno dei membri dell’equipaggio: poco le importa se a tal fine deve
distruggere la mente che lo abita, e ben presto assume il controllo del corpo
di Spock. Sul ponte dell’Enterprise si accende la lotta con il resto
dell’equipaggio.
Gli scienziati si sono chiesti se esista una legge della fisica che
impedisce alla mente di esistere senza corpo; in altri termini, se la mente
umana cosciente è un dispositivo che crea costantemente modelli del
mondo e li proietta nel futuro, è possibile realizzare una macchina in grado
di simulare l’intero processo?
Abbiamo già accennato alla possibilità che il nostro corpo venga
collocato in capsule, come nel film Il mondo dei replicanti, mentre
controlliamo un robot con la mente. Il problema è che il nostro corpo
naturale andrebbe progressivamente avvizzendo, mentre il nostro surrogato
robot continuerebbe a funzionare. Illustri scienziati stanno valutando le
possibilità concrete di poter trasferire le nostre menti in un robot e diventare
così, davvero, immortali. E chi non vorrebbe avere una chance di vita
eterna? Come ha detto una volta Woody Allen: «Non voglio raggiungere
l’immortalità attraverso le mie opere; voglio raggiungerla non morendo».
In realtà, milioni di persone già sostengono che sia possibile per la
mente lasciare il corpo. E in molti affermano di aver vissuto di persona una
simile esperienza.
Esperienze extracorporee
Quella di una mente senza corpo è, con tutta probabilità, la più antica
delle superstizioni, radicata nel profondo dei nostri miti, nel folklore e nei
sogni; forse addirittura nei nostri geni. Non esiste cultura che non abbia le
sue storie di fantasmi e demoni in grado di entrare e uscire a piacimento dal
corpo di qualcuno.
Purtroppo, molti innocenti sono stati perseguitati per esorcizzare i
demoni che si credeva li possedessero; è ragionevole ritenere che soffrissero
di malattie mentali come la schizofrenia, dato che le sue vittime sono spesso
perseguitate da voci generate dalle proprie menti. A detta degli storici, una
delle streghe di Salem, impiccata nel 1692 con l’accusa di possessione, era
forse affetta dalla malattia di Huntington, che provoca movimenti inconsulti
degli arti.
Al giorno d’oggi ci sono persone che sostengono di essere entrate in un
stato di trance in cui la coscienza ha abbandonato il corpo per vagare
nell’etere (riuscendo addirittura a vedere il proprio corpo dall’esterno): in
un sondaggio su un campione di tredicimila europei, il 5,8 per cento degli
intervistati ha dichiarato di aver avuto un’esperienza extracorporea1,
percentuale non dissimile da quelle riscontrate nei sondaggi fatti negli Stati
Uniti.
Il premio Nobel Richard Feynman, sempre incuriosito dai nuovi
fenomeni, una volta si è calato in una vasca di deprivazione sensoriale nel
tentativo di lasciare il suo corpo fisico: il tentativo andò a buon fine, e più
tardi Feynman scrisse di aver avuto la sensazione di lasciare il corpo,
vagare nello spazio e, voltandosi indietro, vedere le proprie membra
immobili. Tuttavia, in seguito lui stesso concluse che, con tutta probabilità,
la deprivazione sensoriale aveva semplicemente scatenato la sua
immaginazione.
I neurologi che hanno studiato il fenomeno hanno una spiegazione più
prosaica; Olaf Blanke, con l’ausilio dei suoi colleghi in Svizzera, potrebbe
aver individuato il punto preciso del cervello che genera le esperienze
extracorporee. Una delle sue pazienti era una donna di quarantatré anni che
soffriva di attacchi epilettici causati dal lobo temporale destro. Per cercare
di individuare l’area responsabile delle convulsioni, le è stata applicata sul
capo una griglia da un centinaio di elettrodi: non appena questi hanno
stimolato l’area tra i lobi parietali e temporali, lei ha subito avuto la
sensazione di lasciare il corpo. «Mi vedo sdraiata sul letto, da sopra, ma
vedo solo le gambe e la parte inferiore del tronco!» ha esclamato2. Si
sentiva fluttuare a due metri dal corpo.
Disattivati gli elettrodi, tuttavia, la sensazione extracorporea si è dissolta
all’istante. Dunque, stimolando quest’area del cervello, Blanke ha scoperto
di poter ripetutamente innescare e disinnescare la sensazione extracorporea
come davanti a un interruttore. Abbiamo visto nel Capitolo 9 che le lesioni
del lobo temporale riconducibili all’epilessia possono indurre la sensazione
che dietro ogni disgrazia ci siano spiriti maligni: dunque, l’idea che uno
spirito possa lasciare il corpo è forse parte del nostro corredo neuronale (e
ciò potrebbe anche spiegare la presenza di esseri soprannaturali: quando
Blanke ha esaminato una donna di ventidue anni che soffriva di crisi
epilettiche non trattabili, ha scoperto che, stimolando la regione temporo-
parietale del cervello, avrebbe potuto indurre la sensazione di una presenza
oscura dietro di lei. La donna poteva descrivere questa presenza nel
dettaglio, sostenendo perfino che le avesse afferrato le braccia. La presenza
cambiava posizione ad ogni apparizione, ma le stava sempre alle spalle).
La coscienza umana, come ho già detto di ritenere, è il processo di
continua formazione di un modello di mondo al fine di simulare il futuro e
realizzare un obiettivo. In particolare, il cervello riceve sensazioni dagli
occhi e dall’orecchio interno per creare un modello di noi stessi nello
spazio; quando tali segnali sono in contraddizione ci sentiamo disorientati.
Possiamo avvertire un senso di nausea e lo stimolo a rimettere: per esempio,
molte persone soffrono il mal di mare quando sono su un’imbarcazione che
ondeggia perché i loro occhi, guardando le pareti della cabina, comunicano
loro che sono fermi, mentre l’orecchio interno dice loro che stanno
oscillando (il rimedio è quello di puntare lo sguardo sull’orizzonte in modo
che l’immagine visiva corrisponda ai segnali provenienti dall’orecchio
interno). Identico senso di nausea può essere indotto anche in chi è fermo:
se guardate rotolare un bidone dell’immondizia con sopra dipinte delle
strisce verticali colorate, vi sembrerà di vedere le suddette strisce muoversi
orizzontalmente, e questo vi darà la sensazione che siate voi a muovervi,
mentre l’orecchio interno vi dice che siete fermi (e anche se siete seduti su
una sedia, la mancata corrispondenza che ne deriva vi procurerà un senso di
nausea nel giro di pochi minuti).
I messaggi provenienti dagli occhi e dall’orecchio interno possono
essere disturbati anche elettricamente, lungo il confine tra i lobi temporali e
parietali, dando così origine a esperienze extracorporee: quando viene
toccata quest’area sensibile, il cervello perde la percezione della propria
collocazione nello spazio (anche una perdita temporanea di sangue o la
mancanza di ossigeno o, ancora, un’eccesso di anidride carbonica nel
sangue possono causare una perturbazione nella regione temporo-parietale e
indurre esperienze extracorporee: circostanze che possono spiegare la
prevalenza di tali sensazioni in concomitanza con incidenti, emergenze,
attacchi cardiaci ecc.)3.
Esperienze pre-morte
Immortalità
Questi metodi sono stati criticati perché il loro processo non ingloba in
modo realistico personalità e ricordi autentici. Una maniera più fedele di
riversare una mente in una macchina si avvale del Progetto Connettoma
Umano, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente e che si propone di
duplicare, neurone per neurone, tutte le vie cellulari del cervello: tutti i
ricordi e le peculiarità della personalità sono già incorporati nel connettoma.
Sebastian Seung, a capo del progetto, sottolinea come alcune persone
siano disposte a sborsare centomila dollari o più per farsi congelare il
cervello nell’azoto liquido. Certi animali, come pesci e rane, possono
arrivare a congelarsi del tutto durante l’inverno, per poi tornare in perfetta
salute dopo lo scongelamento, in primavera. Questo perché utilizzano il
glucosio come antigelo per modificare il punto di congelamento dell’acqua
nel sangue: in questo modo, anche se sono rivestiti di ghiaccio solido, il
loro sangue rimane liquido. Una simile concentrazione di glucosio nel
corpo umano, tuttavia, sarebbe probabilmente fatale: non solo l’espansione
dei cristalli di ghiaccio potrebbe provocare la rottura della parete cellulare
dall’interno, ma gli ioni di calcio provocherebbero l’espansione e, infine, la
rottura delle cellule cerebrali; esse, in ciascuno dei due casi, non
sopravviverebbero al processo di congelamento.
Anziché congelare il corpo, provocando la rottura delle cellule, un
processo più affidabile per ottenere l’immortalità potrebbe consistere nel
portare a compimento il proprio connettoma. I medici avrebbero a
disposizione le vostre connessioni neurali su un hard-disk, la vostra anima
verrebbe ridotta a mera informazione e inserita in un supporto rigido. In
futuro qualcuno potrebbe resuscitare il vostro connettoma e, in linea di
principio, utilizzare un clone o un ammasso di transistor per riportarvi in
vita.
Il Progetto Connettoma Umano, come abbiamo visto, è ancora lontano
dall’essere in grado di registrare le connessioni neurali di un essere umano;
ma, come dice Seung, «dovremmo ridicolizzare i moderni cacciatori di
immortalità, chiamandoli pazzi, o un giorno se la rideranno sulle nostre
tombe?»11.
Trasferimento graduale
Cos’è l’invecchiamento?
Questo nuovo approccio muove dalle più recenti ricerche sul processo
di invecchiamento. In passato tra i biologi non c’era accordo circa le sue
cause, ma nell’ultimo decennio una nuova teoria ha guadagnato sempre più
consensi, unificando molti filoni di ricerca: fondamentalmente,
l’invecchiamento è un accumulo di errori a livello genetico e cellulare. A
mano a mano che le cellule invecchiano, nel loro DNA iniziano a
raccogliersi errori e detriti cellulari, rendendole apatiche. Le cellule
cominciano a funzionare sempre peggio, la pelle inizia ad afflosciarsi, le
ossa diventano fragili, i capelli cadono e il nostro sistema immunitario si
deteriora. Alla fine, moriamo.
Le cellule hanno dei meccanismi di correzione degli errori. Solo che,
nel corso del tempo, anch’essi cominciano a fare cilecca, e
l’invecchiamento accelera. L’obiettivo, dunque, è quello di rafforzare i
meccanismi naturali di riparazione cellulare, cosa che può essere fatta
tramite la terapia genica e la creazione di nuovi enzimi. Ma c’è anche un
altro modo: utilizzando nanobot assemblatori.
Cardine di questa tecnologia futuristica è appunto il nanobot, una
macchina minuscola che pattuglia il flusso sanguigno eliminando le cellule
tumorali, riparando i danni del processo di invecchiamento e mantenendoci,
per sempre, giovani e in forma. La natura ha già creato dei nanobot sotto
forma di cellule immunitarie che perlustrano il corpo attraverso il sangue:
ma queste attaccano virus e corpi estranei, non il processo di
invecchiamento.
Se i nanobot potessero resettare i danni prodotti dal processo di
invecchiamento a livello molecolare e cellulare, attaccando le cellule
tumorali, neutralizzando i virus e sgombrando il campo dai detriti e dalle
mutazioni, l’immortalità sarebbe raggiungibile con i nostri stessi corpi, non
grazie a un robot o a un clone.
1
Kevin Nelson, The Spiritual Doorway in the Brain, Dutton, New York 2011, p. 137.
2
Ivi, p. 140.
3
“National Geographic News”, 8 aprile 2010, http://tinyurl.com/qgu8yxy; si veda anche Nelson,
The Spiritual Doorway in the Brain, cit., p. 126.
4
Nelson, The Spiritual Doorway in the Brain, cit., p. 126.
5
Ivi, p. 128.
6
Dubai (EAU), novembre 2012. Intervistato nel febbraio del 2003 per la trasmissione radiofonica
Exploration. Intervistato nell’ottobre del 2012 per la trasmissione radiofonica Science Fantastic.
7
Bloom, Best of the Brain from Scientific American, cit., p. 191.
8
Sweeney, Brain, cit., p. 298.
9
Carter, Mapping the Mind, cit., pp. 298.
10
Intervista del settembre 2009 a Robert Lanza per il programma radiofonico Exploration.
11
Seung, Sebastian, TED Talks, http://tinyurl.com/7gxvzr9.
12
http://tinyurl.com/oycl34h.
13
Intervista del novembre 1998 ad Hans Moravec per il programma radiofonico Exploration.
14
Si veda la serie di lettere conclusive del lungo scambio pubblicate su “Chemical and Engineering
News” tra il 2003 e il 2004.
15
Garreau, Radical Evolution, cit., p. 128.
Capitolo 13
La mente come pura energia
A volte penso che la certezza dell’esistenza di una vita intelligente da qualche parte nell’universo
ci sia data dal fatto che nessuno ha mai cercato di contattarci.
Bill Watterson
Cacciatori di alieni
Primo contatto
La coscienza animale
Api intelligenti?
L’era postbiologica
Cosa vogliono?
1
http://kepler.nasa.gov.
2
Ibidem.
3
Intervista del giugno 1999 a Dan Wertheimer per il programma radiofonico Exploration.
4
Intervista del maggio 2012 a Seth Shostak per il programma radiofonico Science Fantastic.
5
Ibidem.
6
Paul Davies, Uno strano silenzio: siamo soli nell’universo?, Codice edizioni, Torino 2012, p. 25
(ed. orig. The Eerie Silence. Renewing Our Search for Alien Intelligence, 2010).
7
Carl Sagan, I draghi dell’Eden: considerazioni sull’evoluzione dell’intelligenza umana,
Bompiani, Milano 1979, p. 207 (ed. orig. The Dragons of Eden: Speculations on the Evolution of
Human Intelligence, 1977).
8
Ibidem.
9
Ivi, p. 109.
10
Eagleman, In incognito, cit., p. 88.
11
Intervista dell’aprile 2012 a Paul Davies per il programma radiofonico Science Fantastic.
12
Davies, Uno strano silenzio, cit., p. 166.
13
Ivi, p. 168.
14
Ibidem.
15
“Discovery News”, 27 dicembre 2011, http://tinyurl.com/n8ld2wf.
Capitolo 15
Osservazioni conclusive
Nel 2000 una furiosa polemica scosse la comunità scientifica. Uno dei
fondatori di Sun Computer, Bill Joy, scrisse un articolo infuocato per
denunciare la minaccia mortale rappresentata dal progresso tecnologico.
L’articolo, comparso su “Wired” con il titolo provocatorio Il futuro non ha
bisogno di noi, diceva tra l’altro: «Le nostre più potenti tecnologie del
ventunesimo secolo – robotica, ingegneria genetica e nanotecnologia –
minacciano di trasformare gli esseri umani in una specie in via di
estinzione»1. L’articolo incendiario metteva in discussione l’etica di
centinaia di scienziati dediti a un duro lavoro in laboratori all’avanguardia,
ma soprattutto il nucleo stesso della loro ricerca, affermando che i benefici
delle tecnologie da loro sviluppate fossero molto inferiori alle enormi
minacce che esse pongono all’umanità.
L’articolo descriveva, insomma, una sorta di macabra distopia in cui
tutte le nostre tecnologie cospirano per distruggere la civiltà: tre delle nostre
più importanti realizzazioni si rivolteranno contro di noi, ammoniva:
Questo dibattito ha anche un impatto diretto sul futuro della mente. Allo
stato attuale, le neuroscienze sono ancora a uno stadio piuttosto primitivo:
gli scienziati possono leggere e registrare pensieri elementari dal cervello di
una persona viva, censire qualche ricordo, collegare il cervello a bracci
meccanici, abilitare pazienti immobilizzati al controllo di macchine,
silenziare specifiche regioni del cervello attraverso il magnetismo e
identificare quelle responsabili dei disturbi mentali.
Nei prossimi decenni, tuttavia, il potere delle neuroscienze potrebbe
diventare esplosivo: oggi la ricerca è sulla soglia di nuove scoperte
scientifiche che, con ogni probabilità, ci lasceranno senza fiato. Un giorno
potremmo controllare gli oggetti intorno a noi con la forza della nostra
mente, downloadare i ricordi, curare le malattie mentali, potenziare la
nostra intelligenza, comprendere il cervello neurone per neurone, crearne
copie di backup e comunicare tra noi per via telepatica. Il mondo del futuro
sarà il mondo della mente.
Bill Joy non intendeva contestare le potenzialità di questa tecnologia
nell’alleviare la sofferenza dei malati; a terrorizzarlo era semmai la
prospettiva di individui potenziati che potrebbero invece frammentare la
razza umana. Il suo articolo traccia una sorta di cupa distopia in cui solo
una ristretta élite gode di intelligenza e processi mentali potenziati, mentre
le masse vivono nell’ignoranza e nella povertà. Il suo timore era che la
razza umana potesse scindersi, o cessare addirittura di essere tale.
Come abbiamo sottolineato, quando le tecnologie vengono introdotte
sono quasi tutte costose e quindi ad uso esclusivo dei benestanti, ma grazie
alla produzione di massa, al crollo del prezzo dei computer, alla
concorrenza e al costo sempre più basso dei trasporti, ognuna di esse finisce
inevitabilmente per divenire appannaggio anche dei meno abbienti. Questa
è stata la traiettoria seguita da fonografi, radio, tv, personal computer,
laptop, telefoni cellulari e smartphone.
Lungi dal voler creare un mondo di ricchi e poveri, la scienza è stata il
motore della prosperità; di tutti gli strumenti che l’umanità ha sfruttato fin
dagli albori del tempo, si è rivelata di gran lunga il più potente e produttivo,
ed è alla scienza che dobbiamo gran parte dell’incredibile ricchezza che
vediamo intorno a noi. Per apprezzare il modo in cui la tecnologia riduce,
anziché accentuare, le fratture sociali, prendiamo in considerazione la vita
dei nostri antenati intorno al 1900: all’epoca, negli Stati Uniti l’aspettativa
di vita era di quarantanove anni e molti bambini morivano in tenera età.
Per comunicare con un vicino bisognava gridare dalla finestra; la posta
veniva consegnata a cavallo, quando veniva consegnata; la medicina era in
larga parte olio di serpente – gli unici trattamenti che funzionavano davvero
erano le amputazioni (senza anestesia) e la morfina per attutire il dolore. Il
cibo marciva in pochi giorni, gli impianti idraulici erano inesistenti, le
malattie una minaccia costante. L’economia poteva sostentare solo una
manciata di ricchi e una sparuta classe media.
La tecnologia ha cambiato tutto: non dobbiamo più andare a caccia per
procurarci il cibo, ci basta entrare in un supermercato; non dobbiamo più
trasportare pesi massacranti, ci basta prendere l’auto (in realtà, la minaccia
principale derivante dalla tecnologia, una minaccia che ha in effetti ucciso
milioni di persone, non ha nulla a che fare con i robot assassini o i nanobot
impazziti, quanto con il nostro indulgente stile di vita, che ha creato diabete,
obesità, malattie cardiache, cancro ecc. prossimi ai livelli di un’epidemia –
e si tratta di una minaccia autoinflitta).
Applichiamo il ragionamento su scala globale: negli ultimi decenni, per
la prima volta nella storia, il mondo ha visto uscire milioni di persone da
uno stato di povertà opprimente. Allargando il quadro, possiamo dire che
una porzione significativa della razza umana abbia abbandonato lo stile di
vita legato all’agricoltura di sostentamento per entrare nei ranghi della
classe media.
Ci sono voluti centinaia di anni perché i paesi occidentali
raggiungessero un certo livello di industrializzazione, ma Cina e India lo
stanno facendo nel giro di pochi decenni, e tutto grazie alla diffusione
dell’alta tecnologia. Grazie a internet e al wireless, queste nazioni possono
scavalcare quelle più sviluppate che stanno, con fatica, cablando le proprie
città; mentre l’Occidente combatte contro l’invecchiamento e il degrado
delle infrastrutture urbane, le nazioni in via di sviluppo edificano intere
spumeggianti città servendosi della tecnologia più avanzata.
Quando ero uno studente appena laureato intento a ottenere il mio
dottorato di ricerca, le mie controparti in Cina e in India avrebbero dovuto
aspettare da diversi mesi a un anno perché venisse consegnato loro il
numero di una rivista scientifica che avevano richiesto. Inoltre, non
avevano quasi nessun contatto diretto con scienziati e ingegneri occidentali,
perché erano in pochi a potersi permettere di venire nella nostra parte del
mondo. Tutto ciò non faceva che ostacolare il flusso tecnologico, che in
queste nazioni si muoveva a ritmi assai fiacchi. Oggi, però, gli scienziati
possono leggere ognuno i documenti dell’altro non appena vengono postati
su internet, e collaborare via computer con i colleghi di tutto il mondo,
accelerando in modo considerevole il flusso di informazioni; e questa
tecnologia ha portato con sé progresso e prosperità.
Non è così evidente, inoltre, che una qualche forma di intelligenza
potenziata debba causare una scissione catastrofica della razza umana,
nemmeno nel caso in cui molta gente non abbia i mezzi per permettersela. Il
più delle volte l’essere in grado di risolvere equazioni matematiche
complesse o il possedere una memoria perfetta non garantisce un reddito
più alto o una maggior popolarità presso l’altro sesso, che sono poi gli
incentivi che motivano la maggior parte delle persone. Il principio
dell’uomo delle caverne surclassa il potenziamento del cervello.
Osserva Gazzaniga: «L’idea di mettere sottosopra le nostre viscere
risulta allarmante ai più. Cosa ce ne faremo di un’intelligenza potenziata?
La useremo per risolvere i problemi, o servirà solo ad allungare l’elenco di
persone a cui inviare i biglietti natalizi?»4.
Come abbiamo visto nel Capitolo 5, i lavoratori disoccupati potrebbero
beneficiare di questa possibilità, riducendo in modo drastico il tempo
necessario a padroneggiare nuove tecnologie e competenze. E ciò potrebbe
non solo alleviare i problemi legati alla disoccupazione, ma avere anche un
impatto sull’economia mondiale, rendendola più produttiva e reattiva ai
cambiamenti.
Questioni filosofiche
Per concludere, due parole sull’appunto mosso alla scienza secondo cui
giungere alla comprensione di un fenomeno significhi sminuirne il mistero
e la magia. Sollevando il velo che nasconde i segreti della mente, la scienza
la sta rendendo una materia comune e banale; tuttavia, per quanto mi
riguarda, più apprendo della complessità del cervello, più aumenta il mio
stupore di fronte al fatto che una cosa che ci sta sopra il collo sia l’oggetto
più sofisticato nell’universo noto. Come dice David Eagleman: «Che
sconcertante capolavoro è il cervello, e come siamo fortunati ad appartenere
a una generazione che ha la tecnica e la volontà di studiarlo. È la cosa di
gran lunga più bella che abbiamo scoperto nell’universo, e quella cosa
bellissima siamo noi». Conoscere meglio il cervello non può sminuire il
senso di meraviglia; al contrario, può solo amplificarlo.
Più di duemila anni fa Socrate disse: «Conoscere se stessi è l’inizio
della saggezza». Ci siamo messi in viaggio per esaudire questo auspicio.
1
“Wired”, aprile 2000, http://tinyurl.com/a6i2.
2
Garreau, Radical Evolution, cit., p. 139.
3
Ivi, p. 180.
4
Ivi, p. 353.
5
Ivi, p. 182.
6
Eagleman, In incognito, cit., p. 227.
7
Ivi, p. 230.
8
Pinker, Come funziona la mente, cit., p. 141.
9
Intervista del novembre 1996 a Stephen Jay Gould per la trasmissione radiofonica Exploration.
10
Pinker, Come funziona la mente, cit., p. 142.
Appendice
Una coscienza quantistica?
Universi multipli
Allo specchio
Quando mi guardo allo specchio non mi vedo davvero per quello che
sono: in primo luogo, mi vedo per com’ero circa un miliardesimo di
secondo prima, dal momento che questo è l’intervallo di tempo che impiega
un raggio di luce a lasciare il mio viso, colpire lo specchio e quindi i miei
occhi; in secondo luogo, l’immagine che vedo è davvero una media di
miliardi e miliardi di funzioni d’onda, una media che si avvicina di certo
alla mia immagine, ma che non è esatta. Tutt’intorno ci sono immagini
multiple di me che irradiano in tutte le direzioni. Sono perennemente
circondato da universi alternativi, che si diramano di continuo in mondi
diversi, ma la probabilità di scivolare da uno all’altro è così ridotta che la
meccanica newtoniana sembra essere corretta.
A questo punto, alcune persone si porranno di certo la seguente
domanda: per quale motivo gli scienziati non conducono, semplicemente,
degli esperimenti per determinare quale sia l’interpretazione valida?
Conducendo un esperimento con un elettrone tutte e tre le interpretazioni
produrranno lo stesso risultato sul piano fisico: tutte e tre sono, quindi,
interpretazioni serie e attuabili della meccanica quantistica, supportate dalla
stessa teoria dei quanti. Ciò che le distingue è il modo in cui spieghiamo i
risultati ottenuti.
Fra centinaia di anni fisici e filosofi potrebbero essere ancora intenti a
discutere la questione senza disporre di una soluzione chiara. Ma forse c’è
un ambito in cui questo dibattito chiama in causa il cervello: il problema del
libero arbitrio, che a sua volta interessa il fondamento morale della società
umana.
Il libero arbitrio
La nostra civiltà è basata per intero sul concetto di libero arbitrio, che ha
ricadute sui concetti di ricompensa, punizione e responsabilità personale.
Ma il libero arbitrio esiste davvero? O è solo uno scaltro espediente con cui
tenere insieme la società in barba ai principi scientifici? La polemica va
dritta al cuore della meccanica quantistica stessa.
Possiamo dire con certezza che sempre più neuroscienziati stiano piano
piano giungendo alla conclusione che il libero arbitrio non esiste, almeno
non nel senso in cui viene comunemente inteso. Se certi comportamenti
bizzarri possono essere messi in relazione a precisi difetti nel cervello, ne
consegue che una persona non è, dal punto di vista scientifico, responsabile
per i crimini che potrebbe commettere; forse, potrebbe essere pericoloso
lasciarla circolare per strada e potrebbe rivelarsi necessario rinchiuderla in
un istituto di qualche tipo, ma è sbagliato, si sostiene, punire qualcuno per il
fatto di essere stato vittima di un ictus o di un tumore al cervello. Tutto
quello che serve al soggetto in questione è un supporto medico e
psicologico: se il danno cerebrale potesse essere trattato (per esempio,
rimuovendo un tumore), costui potrebbe essere restituito al suo ruolo di
membro produttivo della società.
Nel corso di un’intervista, Simon Baron-Cohen, psicologo
dell’università di Cambridge, mi ha rivelato che molti (anche se non tutti)
gli assassini patologici hanno una qualche anomalia al cervello1. Le
scansioni cerebrali di questi soggetti mostrano un’assoluta mancanza di
empatia quando sono posti davanti a qualcuno che prova dolore; in effetti,
potrebbero addirittura provare piacere dall’assistere alle sofferenze altrui (in
tale circostanza la loro amigdala e il nucleo accumbens, il centro del
piacere, si accendono).
La conclusione che alcuni potrebbero trarre da tutto ciò è che queste
persone non siano davvero responsabili dei loro atti atroci, anche se devono
comunque essere isolate dal tessuto sociale; hanno un qualche problema al
cervello, e dunque necessitano di aiuto – non di punizioni. In un certo
senso, nel commettere i propri crimini potrebbero non agire sulla scorta del
libero arbitrio.
Un esperimento condotto da Benjamin Libet nel 1985 ne mette in
dubbio l’esistenza stessa. Poniamo di chiedere a dei soggetti di guardare un
orologio e di annotare con precisione l’istante in cui decidono di muovere
un dito; grazie alle scansioni EEG è possibile rilevare con esattezza il
momento in cui il cervello prende tale decisione. Se si confrontano i due
tempi, emergerà una mancata corrispondenza: le scansioni EEG dimostrano
infatti che il cervello ha, in effetti, preso la decisione circa trecento
millisecondi prima che la persona ne venga a conoscenza.
Ciò significa che, in un certo senso, il libero arbitrio è un falso: le
decisioni vengono prese in anticipo dal cervello, senza il contributo della
coscienza, e solo dopo il cervello cerca di occultare la cosa (come è solito
fare), dando a credere che la decisione fosse cosciente. Sweeney conclude:
«I risultati ottenuti da Libet suggeriscono che il cervello sa ciò che una
persona deciderà prima che lo sappia la persona stessa […] Il mondo deve
rivalutare non solo l’idea di ripartire i movimenti volontari da quelli
involontari, ma anche l’idea stessa di libero arbitrio»2.
Tutto ciò sembra indicare che il libero arbitrio, la pietra angolare su cui
poggia la società, sia una finzione, un’illusione creata dalla parte sinistra del
nostro cervello. Siamo dunque padroni del nostro destino, o solo pedine di
un raggiro architettato dalla mente?
Ci sono vari modi per affrontare questo problema spigoloso. Il libero
arbitrio va contro una filosofia chiamata determinismo, secondo cui tutti gli
eventi futuri sono determinati da leggi fisiche; Newton stesso considerava
l’universo come una specie di orologio avviatosi all’inizio del tempo e
obbediente alle leggi del moto, con la conseguenza che tutti gli eventi
sarebbero prevedibili.
Siamo parte di questo orologio? Anche tutte le nostre azioni sono
predeterminate? Domande gravide di implicazioni filosofiche e teologiche.
La maggior parte delle religioni, per esempio, aderisce a una qualche forma
di determinismo e predestinazione: essendo onnipotente, onnisciente e
onnipresente Dio conosce il futuro, che dunque è determinato prima del
tempo. Dio sa se siete destinati al paradiso o all’inferno prima ancora che
nasciate.
Proprio su tale questione la Chiesa cattolica ha subito una netta
scissione durante la rivoluzione protestante: secondo la dottrina cattolica del
tempo era possibile mutare il proprio destino ultimo tramite un’indulgenza
(ovvero per mezzo di donazioni generose, dunque il determinismo poteva
essere influenzato dalle dimensioni del vostro portafoglio); Martin Lutero
individuò la corruzione della Chiesa al riguardo, e nel 1517 affisse le sue 95
tesi sul portone della chiesa di Wittenberg, innescando, così, la Riforma
protestante. Questo fu uno dei motivi principali che portarono alla frattura
in seno alla Chiesa, e a morte e devastazione in intere regioni d’Europa.
Dopo il 1925, però, la meccanica quantistica ha introdotto l’incertezza
nella fisica. Tutto si è fatto improvvisamente incerto: non ci si poteva che
limitare a un calcolo di probabilità. In questo senso, forse il libero arbitrio
esiste ed è una manifestazione della meccanica quantistica: c’è, infatti, chi
sostiene che la teoria quantistica ristabilisca il concetto di libero arbitrio.
Un’idea, tuttavia, respinta dai deterministi, i quali affermano che gli effetti
quantistici siano estremamente ridotti (a livello di atomi) e dunque troppo
scarsi per dare conto del libero arbitrio degli esseri umani.
Oggi, in realtà, la situazione è alquanto confusa. Forse chiedersi se il
libero arbitrio esiste è un po’ come chiedersi cos’è la vita: la scoperta del
DNA ha reso la domanda sulla vita obsoleta, perché adesso sappiamo che
nasconde molti strati e molte complessità; e forse lo stesso vale per il libero
arbitrio.
Se le cose stanno così, diviene arduo dare una definizione di libero
arbitrio che non sia ambigua; un modo, per esempio, consiste nel chiedersi
se il comportamento possa essere predetto (se il primo esiste, allora il
secondo non può essere determinato in anticipo). Pensate a un film: la sua
trama è determinata, senza libero arbitrio di sorta, dunque è assolutamente
prevedibile. Ma il nostro mondo non può essere come un film, per due
motivi. Il primo, come abbiamo visto, risiede nella teoria quantistica,
perché il film rappresenta solo una possibile sequenza temporale; il secondo
risiede nella teoria del caos, perché sebbene la fisica classica affermi che
tutti i movimenti degli atomi sono totalmente determinati e prevedibili, in
pratica è impossibile prevederli, visto il numero di atomi coinvolti (il
minimo disturbo causato da un singolo atomo può innescare un effetto a
catena, che a sua volta può riversarsi a cascata fino a creare perturbazioni
enormi).
Pensate al tempo atmosferico. In linea di principio, conoscendo il
comportamento di ogni atomo nell’aria e disponendo di un computer
abbastanza potente, si potrebbero fare previsioni da qui al prossimo secolo.
In pratica, però, si tratta di una cosa impossibile: dopo poche ore il tempo
diventa così turbolento e complesso da rendere inutile qualsiasi simulazione
al computer.
Ciò dà vita a quel che chiamiamo effetto farfalla, per indicare il fatto
che anche il battito d’ali di una farfalla può causare piccole increspature
che, ingigantendosi di volta in volta, possono degenerare in un temporale
(quindi, se anche il battito d’ali di una farfalla può creare temporali, la
speranza di prevedere il tempo con precisione è inverosimile).
Ma torniamo all’esperimento mentale descrittomi da Stephen Jay
Gould. Pensate alla Terra di quattro miliardi e mezzo di anni fa, ovvero
appena nata. Ora immaginate di crearne in qualche modo una copia
identica, e di farla evolvere. Saremmo ancora qui, su questa Terra diversa,
quattro miliardi e mezzo di anni dopo?
È facile dedurre che, considerati gli effetti quantistici o la natura caotica
del tempo e degli oceani, gli esseri umani non si evolverebbero nelle stesse
creature che popolano la nostra Terra; quindi, in definitiva, sembra proprio
che una combinazione di incertezza e di caos renda impossibile un mondo
perfettamente deterministico.
Il cervello quantistico
1
Intervista del luglio 2005 a Simon Baron-Cohen per il programma radiofonico Exploration.
2
Sweeney, Brain, cit., p. 150.
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