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SPAZI DI POTERE FEMMINILE CONCESSI

DALLA LETTERATURA: ELENA E PENELOPE


COME MODELLI EDUCATIVI ANTITETICI
SPACES OF FEMALE POWER IN THE LITERATURE: HELEN
AND PENELOPE AS OPPOSING EDUCATIONAL MODELS

Carlotta FAZZI, Giulia BIDDAU


Università degli Studi di Sassari

Riassunto
La tradizione letteraria classica ha indiscutibilmente plasmato
l’immaginario occidentale. I personaggi omerici di Elena di Troia
e di Penelope, regina di Itaca, hanno dato vita a due modelli
femminili opposti, rappresentativi degli unici spazi di potere
concessi alle donne nel corso della Storia: il potere della matrona,
costretta nelle mura domestiche di cui è padrona e prigioniera e il
potere seduttivo della femme fatale, affascinante e peccatrice.
Entrambi i ruoli nei quali le donne vengono relegate riflettono uno
sguardo essenzialmente maschile che attribuisce alle donne un
potere fittizio che andrebbe messo in discussione, portando
finalmente al centro la figura femminile.
Parole chiave: Elena di Troia, Penelope, archetipi, donne, potere.

Abstract
The classical literary tradition has undoubtedly shaped the
collective Western image. Helen of Troy and Penelope, the queen
of Ithaca, are the two Homeric characters who have given birth to
two opposing female models that represent the only spaces of
power allowed to women in History: that of the matron, forced
into the domestic walls of which she is mistress and prisoner, and
the seductive power of femme fatale, charming and sinful. Both
roles reflect an essentially masculine gaze that confers to women
a fictitious power that should be questioned, finally drawing
attention to the female figure.
Keywords: Helen of Troy, Penelope, archetypes, women, power.
1. PREMESSE CONCETTUALI

Nel suo libro La soggezione delle donne pubblicato nel lontano


1869, John Stuart Mill fu il primo a mettere in discussione il
concetto di “natura femminile”, con il quale venivano
contrabbandati quei caratteri ritenuti peculiari della donna, per
dimostrare invece come essi fossero il logico prodotto di un
preciso contesto storico, culturale e sociale. (Gianini Belotti,
1999: 5).

È così che Elena Gianini Belotti1 comincia la trattazione del


suo rivoluzionario saggio Dalla parte delle bambine, edito per la
prima volta da Feltrinelli nel 1973. Nell’analisi condotta
dall’autrice, si evidenzia come all’origine della differenziazione
che sussiste ancor oggi tra i ruoli di genere maschili e femminili
– ammessi e promossi dalla nostra società occidentale – si celi
non tanto una questione di natura biologica, quanto un
condizionamento esercitato da modelli culturali preesistenti.
La letteratura rappresenta una delle forme della conoscenza
che l’uomo plasma in relazione al proprio vivere in società e si
configura quindi come specchio della cultura2 d’appartenenza.
Pertanto, intraprendere un’indagine ermeneutica relativa ai testi
costitutivi del canone letterario occidentale consente di esplorare
i principali modelli di riferimento che influenzano
inconsciamente la nostra visione del mondo, i quali – com’è
risaputo – trovano le proprie radici nella tradizione letteraria dei
classici greci e latini, rappresentativi di una società che potremmo
definire, senza indugio, patriarcale.

1
Elena Gianini Belotti – nata a Roma il 2 dicembre del 1929 e recentemente
scomparsa, il 24 dicembre 2022 a Roma, all’età di 93 anni – è stata una
pedagogista e scrittrice italiana alla quale si deve il primo importante
contributo circa l’analisi socio-culturale dei ruoli e degli stereotipi di genere in
ambito di educazione infantile.
2
Intendiamo cultura secondo la definizione che l’antropologo britannico
Edward Burnett Tylor ne diede nel 1871, in apertura del suo saggio Primitive
Culture, ovvero come “quell'insieme complesso che include la conoscenza, le
credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società” (Ferrero, 2009:
164).
Non è un caso, infatti, che sia l’Iliade sia l’Odissea – opere
cardine del canone letterario occidentale – cantino “la bellezza
della guerra” (Baricco, 2004: 148), narrando le gesta di uomini-
eroi in una Storia da cui le figure femminili sono escluse o ridotte
a mera funzione di sfondo e di espediente narrativo. Una Storia in
cui

il quadro simbolico che la sostiene rimane il medesimo: in esso


un soggetto maschile, che si pretende neutro/universale, dice la
sua centralità e disloca intorno a sé un senso del mondo a sua
misura figurato e nelle sue figure rivelantesi. Un senso nel quale
anche le figure femminili trovano dunque posto in riferimento, al
soggetto maschile stesso che le decide (Cavarero, 2009: 13).

La donna, dunque, “pensata dall’uomo a sua immagine e


dissimiglianza” (Cavarero, 2009: 14), si trova costretta in spazi e
modelli predefiniti che non lasciano possibilità di
un’autorappresentazione Altra.
I personaggi di Penelope, regina di Itaca, e di Elena di Troia
sono emblematici di questo paradigma, in quanto hanno dato vita
agli unici due modelli femminili plausibili, e ancora oggi attuali,
riassumibili nella banale dicotomia di Sante e Puttane.
Penelope, nel sentire comune, è divenuta simbolo di virtù e
fedeltà matrimoniale, attendendo per vent’anni – con silente
astuzia – il ritorno d’Ulisse, senza cedere alle pretese dei Proci;
Elena, invece, al contrario, incarna in toto l’immagine della
femme fatale, adultera, affascinante e peccatrice.
Entrambe rappresentano perciò due declinazioni opposte d’un
presunto Potere femminile: quello della matrona che si esplicita
nell’amministrazione autorevole dell’interno domestico e quello
di una bellezza seduttrice e ammaliatrice in grado di provocare
guerre tra popoli.
Ambo i casi, però, riflettono una visione essenzialmente
maschile che attribuisce alle donne sì un potere, ma fittizio, che
vale la pena mettere in discussione, tentando di portare al centro
la figura femminile quale soggetto – e non solo oggetto – della
narrazione.
L’intento, come propone Daniela Brogi, è dunque quello di:
restituire esperienza storica (spazio), profondità di campo alle
donne; anche orgoglio sociale, se si vuole, perché erano
invisibili, ma non assenti dalla storia; e si tratta di capire altresì,
comprendere, vedere e rivedere, il significato, pure formale, che
avevano e hanno, per esempio, trame e destini raccontati da certe
scritture (Brogi, 2022: 62).

In tal senso, il presente lavoro si propone lo scopo di


evidenziare il pericolo di un’unica storia3, la quale, generando
stereotipi, ci vuole conformi a quelle “caratteristiche di pretesa
«natura» femminile definita dalla tradizione” (Cavarero, 2009: 9).
Già dall’infanzia, infatti, quando comincia il processo di
costruzione della nostra identità, ci interfacciamo con schemi di
comportamento prestabiliti in base al nostro genere
d’appartenenza; una sorta di libretto d’istruzioni da seguire che,
dopotutto, appare rassicurante.
Ma il problema, a ben rifletterci, è che non ci rendiamo conto
di quanto tali regole siano, invece, barriere invisibili, prigioni
edulcorate che niente hanno a che vedere con il concetto di
possibilità. Cresciamo nella convinzione che gli spazi che ci
vengono concessi siano gli unici legittimi; non ci viene invece
detto che è possibile superare questi recinti per creare luoghi altri
in cui esistere in funzione di noi stesse e di nessun altro.
E così, figli e figlie dell’universo simbolico greco, il cui
sistema originario persiste ancora oggi, ci troviamo di fronte a “un
tempo/luogo dell’azione riservato agli uomini e un tempo/luogo
del lavoro di accudimento riservato alle donne” (Cavarero, 2009:
25).
Se è vero, infatti, che agli uomini concerne il campo di
battaglia, la guerra, la politica, ma anche il mare, l’avventura, la
scoperta, è altresì vero che alle donne è destinato il focolare, la
cura degli affetti, le mansioni domestiche. Un senso d’apertura,
di varietà di possibilità, contro una chiusura che è prigionia e
impossibilità.
Già Anna Kuliscioff, nel 1890, sosteneva che “tutta la storia
dello sviluppo dell’eterno femminino […] si presenta agli occhi
3
Il rimando è all’opera di Chimamanda Ngozi Adichie, edita da Einaudi nel
2020 – intitolata, appunto, Il pericolo di un’unica storia – e tratta dalla
conferenza TEDx, The Danger of a Single Story, tenuta dall’autrice nel 2009.
nostri come un luogo martirologio” (Kuliscioff, 2002: 15). E
infatti, sempre in relazione alla società greca antica, possiamo
osservare che:

Relegate nell’ambito domestico, escluse dalla vita pubblica, le


donne vivono nella polis quasi come straniere in patria, aliene
misteriose da guardare con diffidenza. Se si mantengono sagge e
oneste, se si dedicano a vegliare sul focolare domestico, allora
possono essere amate e rispettate. (Ieranò, 2021: 8).

Penelope, ne è l’esempio per eccellenza: rappresentativa di un


“modello di virtù femminile all’interno di un’ideologia misogina”
(Galletti, 2017: 63), parrebbe vivere immobile entro i confini
della reggia, in attesa del ritorno del proprio sposo che, al
contrario, si trova a scrivere la sua odissea in balìa del mare e del
Fato.
Anche le donne, nel mito, intraprendono viaggi per mare, ma
lo fanno sempre in relazione agli uomini a cui appartengono, mai
per sé stesse: Penelope, infatti, viaggia dalla casa paterna di
Sparta alla reggia d’Itaca d’Ulisse; Elena, ugualmente, lascia a
Sparta il marito per giungere a Troia tra le braccia di Paride e poi
tornare indietro, a guerra finita, ricondotta in patria da Menelao
che, nel rivederla, rimane ammaliato dalla sua bellezza e, non
trovando il coraggio d’ucciderla, la riprende con sé.
Potremmo definire il mare, dunque, elemento di pertinenza
maschile, inteso come metafora della Vita, il cui corrispettivo
femminile è invece rappresentato dall’atto della tessitura (si pensi
alle Moire greche o alle Parche romane). Pertanto – volendo
adottare una prospettiva femminile e femminista – la tela, sita
entro le mura domestiche, diventa mezzo di costruzione o auto-
costruzione delle trame della Vita: le donne, private d’una libertà
vera e propria e costrette tra le mura domestiche, usano in maniera
attiva gli strumenti a loro disposizione per scrivere la propria
storia.

2. ARCHETIPI LETTERARI FEMMINILI A CONFRONTO

2.1. PENELOPE
Penelope, nell’atto del tessere e del disfare, agisce “facendo
credere che non stia agendo affatto” (Cornacchia, 2007: 510) e si
dimostra intelligente e scaltra al pari di Ulisse: dilata il tempo in
maniera consapevole, creando così un luogo/tempo altro che è
traducibile con “lo stare presso di sé, un appartenersi per così dire
assoluto” (Cavarero, 2009: 26).
Questo spazio – che condivide con le ancelle complici in una
sorta di sorellanza – è intoccato dalle vicende degli uomini e, al
tempo stesso, estraneo alla funzione prevista della tessitura, intesa
unicamente come mero strumento d’accudimento. Qui, appunto,
è molto di più: il disfacimento della tela, per Penelope, non è solo
l’escamotage che consente di proteggere il proprio regno e la
propria castità, ma è anche atto di rivendicazione di Sé e creazione
di quella stanza tutta per sé4, imprevista e impenetrabile, in cui
può finalmente esistere.
Per questo, Margaret Atwood, nella sua celebre opera del
2005, The Penelopiad, tenta di restituire voce e centralità a
Penelope, immaginando che sia lei a narrare la propria versione
dei fatti. Tuttavia, la Penelope atwoodiana ci parla dall’Ade,
perché solo da morta può concedersi di esprimere il proprio
pensiero, scevra dal peso che il ruolo di moglie rispettabile le ha
comportato in vita: “Ora lo posso dire perché sono morta. Prima
non ne avrei avuto il coraggio” (Atwood, 2021: 40), confessa la
regina di Itaca nel corso del suo memoir.
L’opera ci costringe a chiederci continuamente che cosa ne
sarebbe stato di Itaca se Penelope non avesse adempito a tale
ruolo e apre alla possibilità di una versione de-romanticizzata del
mito e del rapporto coniugale tra lei e Ulisse: in un matrimonio
che fonda le proprie radici su una competizione tra uomini, in cui
la donna è il premio in palio, risulta effettivamente difficile
pensare che sia stato il sentimento amoroso a mantenere intatta la
fedeltà di Penelope e non piuttosto un senso di dovere imposto
dai dettami sociali verso il proprio sposo. Curiosamente, infatti,
l’aggettivo fedele “nell’Iliade compare 80 volte e nell’Odissea
una (Macyoux, 1975: 14), ma mai in riferimento a Penelope”
(Galletti 2017: 66) e ciò ci permette di riflettere su come sia stata

4
Il riferimento è alla celebre opera di Virginia Woolf del 1929, A Room of
One's Own.
la cultura romana a rielaborare il mito greco in chiave cristiana,
trasmettendo questa “ossessione maschile per la fedeltà
femminile” (Galletti 2017:68) fino ai giorni nostri.
Visto in quest’ottica, il matrimonio è assimilabile a “uno
stupro autorizzato” (Atwood 2021: 42), un patto tra maschi
dominanti dei quali la donna risulta essere proprietà: Penelope
viene vinta dal suo futuro sposo e, allo stesso tempo, ceduta in
moglie dal proprio padre, senza avere potere decisionale.
Tale condizione di subordinazione rimarrà la medesima anche
durante i vent’anni di assenza di Ulisse: sarà infatti il figlio
Telemaco a imporsi come Pater Familias, arrogandosi – nel
primo libro dell’Odissea – il diritto di zittire e ricacciare la propria
madre nelle stanze del lavoro domestico, ribadendole che è agli
uomini, e solo a essi, che spetta la parola e a lui che spetta il
potere. Siamo ai versi 356-359, che recitano quanto segue:

Su, va’ nelle tue stanze e attendi ai lavori tuoi,


telaio e conocchia, e alle ancelle comanda che pensino
a lavorare. Il parlare sia cura degli uomini,
di tutti, e soprattutto di me, che ho il comando qui in casa
(Di Benedetto, 2010: 193).

È quasi paradossale che, per quanto Penelope rappresenti il


modello auspicabile di donna per eccellenza, venga comunque
redarguita e dominata dagli uomini che le stanno accanto, a cui si
sottomette senza ribellarsi. E anzi, forse è proprio questo suo
tacito adattarsi, stare entro gli schemi previsti, che la rende degna
di lode rispetto a uno sguardo maschile e le consente di
salvaguardare uno status dopotutto privilegiato, diventando “una
leggenda edificante. Un bastone con cui picchiare altre donne”
(Atwood, 2021: 12).
Non è un caso, infatti, che Atwood ci presenti una Penelope
che, anche nell’Aldilà, si sente in perenne competizione con
Elena, sua cugina, in un’ottica di misoginia interiorizzata atta a
mettere in luce la rivalità tra donne; rivalità, questa, che scaturisce
da una volontà implicita di ottenere il rispetto e l’approvazione
maschile, fino a sconfinare nel fallimento della sorellanza.
Il confronto tra le due, filtrato dal punto di vista di Penelope, è
interamente giocato sul parallelismo tra la bella stupida e la brutta
intelligente: un duello in cui Penelope oppone a quelle che reputa
le futili e ingannevoli armi estetiche della cugina, le proprie armi
morali vincenti: l’intelletto, l’astuzia, la saggezza. La bellezza di
Elena diviene così già una colpa per Penelope, che incarna un
sistema di giudizio prettamente maschilista quando, ad esempio,
sul finale del quinto capitolo, dichiara:

Non era giusto – non avevo commesso niente di infamante,


soprattutto in materia di sesso, mentre di lei si conoscevano solo
azioni indegne. […] Elena non è mai stata punita. Vorrei sapere
perché. Altri, per colpe minori, sono stati strangolati dai serpenti
marini, sono affogati nel mare in tempesta, sono stati trasformati
in ragni o colpiti da frecce. […] Sarebbe logico pensare che Elena
avesse meritato almeno una buona frustata, dopo tutto il male e
le sofferenze da lei causati. Ma nessuno l’ha frustata. (Atwood,
2021: 26-28).

Penelope, dunque, secondo la rappresentazione di Atwood, ci


appare consapevole a metà: è sì conscia del peso che la narrazione
tradizionale ha fatto ricadere sulla propria figura ma è altresì
incastrata nel ruolo attribuitole, funzionale al mantenimento dello
status quo e diametralmente opposto a quello di Elena.

2.2. ELENA
Elena, invece, che più volte si autodefinisce cagna5 nell’Iliade,
è la donna di cui non ci si può fidare. Compie infatti un gesto che,
secondo il criterio del doppio standard6, risulta essere
imperdonabile a qualsiasi donna, ma più facilmente concesso e
giustificabile se attuato da un uomo, ovvero: “abbandonare uno
sposo eccelso, la famiglia e la figlia solo perché il desiderio, eros,
dominava ogni sua azione” (Ieranò, 2021: 54).
È in tal modo che si macchia della colpa che la propone, fino
ai giorni nostri, quale modello da non seguire. Eppure, è da
sempre dubbia la sua volontà e complicità nel lasciare la patria e
5
Elena, “nel VI canto dell’Iliade, davanti al cognato Ettore, si definisce per
ben due volte «una cagna» […] in altri casi si attribuisce, per esempio, l’epiteto
sprezzante di kynòpis, «faccia di cane»” (Ieranò, 2021: 11).
6
Per doppio standard s’intende “l’applicazione di principi di giudizio diversi
per situazioni simili, o nei confronti di persone diverse che si trovano nella
stessa situazione” (Vagnoli, 2021: 35).
la famiglia per recarsi a Troia con uno straniero: già in numerose
interpretazioni antiche, Elena è ritenuta, infatti, vittima d’un
rapimento o, ancora, del volere di Afrodite7; ciononostante, l’idea
per cui sia stata la sua bellezza a causare innumerevoli morti,
basta di per sé a consacrarla definitivamente come responsabile,
generando nel suo personaggio il mito di pericolosa seduttrice.
“Che Elena sia colpevole o no, la sua bellezza è portatrice di
morte” (Ieranò, 2021: 17). Non a caso, anche Dante, nella
Commedia, la colloca nel girone infernale dei lussuriosi8.
Tutto ciò la insignisce di una sorta di autonomia d’azione, che
in Penelope vediamo occultata in nome di quell’elogio alla
passività che, di fatto, la rende virtuosa.
Tuttavia, paradossalmente, lo stesso male gaze9 che fa di Elena
un esempio affascinante ma sostanzialmente negativo, si scontra
con l’incapacità di contenere la portata liberale del suo
personaggio, di fronte al quale – al pari d’una dea – nessun uomo
sembra potersi imporre o resistere. E ciò motiva, forse, anche lo
spazio che, in entrambe le opere omeriche, le è concesso di
occupare eccezionalmente nella dimensione sociale, parlando
davanti agli uomini, intromettendosi nei loro discorsi ed
esprimendo liberamente il proprio pensiero10.
Altra questione da sottolineare, poi, è come, anche Elena, nel
terzo canto dell’Iliade, ci venga presentata entro una sala del
palazzo di Priamo, intenta a tessere; così come anche nel quarto
canto dell’Odissea, fa la sua prima apparizione accompagnata da
elementi che rimandano alla tessitura: ovvero una cesta di lana e

7
Per l’implicazione di Afrodite nella vicenda, si rimanda ai Canti Ciprii, antico
poema epico greco, in cui viene narrato di come fu la dea a far congiungere
Elena con Paride.
8
Dal V canto dell’Inferno, vv. 64-65: “Elena vedi, per cui tanto reo tempo si
volse” (Petrocchi, 1966-67: 19).
9
Male gaze: letteralmente “lo sguardo maschile. Il termine è stato introdotto
dalla critica femminista Laura Mulvey nel 1975 per identificare tutte quelle
narrazioni in cui lo sguardo è dominato dal piacere maschile, ovviamente
proiettato su un’immagine eroticamente stimolante e stereotipata della donna”
(Guerra, 2020: 42).
10
Ad esempio, ai vv. 235-264 del IV canto dell’Odissea, “Elena si arroga le
competenze e il ruolo di un aedo: allieta gli uomini riuniti a banchetto con un
racconto costruito in modo perfetto (katà mòiran, come le dice il marito
Menelao, complimentandosi con lei)” (Ieranò, 2021: 41).
il fuso. È ciò che tesse, però, a fare la differenza: nella sua tela
porpora, color sangue, Elena anticipa, attraverso le immagini di
guerra tra cavalieri achei e troiani, ciò che si sta per svolgere sul
campo di battaglia; tramite “il linguaggio muto della tessitura,
parla di sé stessa e di quella guerra che è materia del poema in cui
è protagonista” (Ieranò, 2021: 25), come fosse lei stessa, alterego
di Omero, ad essere incaricata di narrare la Storia.
Dunque, Elena, in tale prospettiva, non rappresenterebbe
soltanto l’oggetto del racconto – il premio conteso che scatena la
guerra – ma anche il soggetto per mezzo del quale gli uomini
possono diventare eroi, consegnando il loro nome alla gloria
eterna. Al pari della guerra, Elena accende negli uomini quel
“dionisiaco bisogno di violenta bellezza” (Girasole, 2014): il
corpo femminile diviene quindi il campo di battaglia di cui
l’uomo si appropria per autoaffermarsi e autodeterminarsi.
Ciò spiega perché la lettura più comune sia dunque quella che
trova nell’adulterio di Elena la causa della sanguinaria guerra e
delle morti ad essa annesse. Effettivamente, in entrambi i poemi,
il personaggio di Elena è contrassegnato dal senso di colpa e
maledice senza mezzi termini il giorno in cui la propria madre
l’ha messa al mondo11, convinta d’essere la sola e unica
responsabile di questa strage. Eppure, riflettendoci, anche la
castità di Penelope implicò innumerevoli morti, quando Ulisse,
tornato a casa, non esitò a vendicarsi dei Proci e delle ancelle
infedeli. Questo, dunque, suggerisce che la guerra, la violenza, il
possesso, connotano, di fatto, un gioco esclusivamente maschile
per la contesa del Potere: per dirlo con una metafora, si tratta
infatti di un tavolo al quale le donne non possono sedere perché
sono impegnate a reggerlo; e se la struttura cede, allora la colpa è
la loro, e non degli uomini che vi hanno battuto sopra i propri
pugni ripetutamente.
La responsabilizzazione di Elena è la conditio sine qua non
affinché l’uomo si senta de-responsabilizzato, tramite quei

11
L’episodio in questione si trova ai vv. 344-348 del VI canto dell’Iliade, che
recitano: “magari quel giorno che mi dette alla luce mia madre fosse venuta a
rapirmi una brutta tempesta di vento verso il monte o in mezzo alle onde del
mare sonoro, dove l’onda m’avesse inghiottito, prima che questo avvenisse!”
(Cerri e Gostoli, 2019: 401).
processi di victim blaming12 e slut shaming13 ancor oggi attuali
per cui la società legittima il comportamento violento maschile,
giustificandolo in nome del mantra “Boys will be boys” (Vagnoli,
2021: 33), mentre colpevolizza la donna che non risponde ai
requisiti di vittima perfetta e viene pertanto accusata
d’istigazione.

3. CONCLUSIONI E BUONI AUSPICI


A seguito di questa trattazione, appare insomma chiaro che:

Né Elena né Penelope sono modelli astratti di comportamento


negativo o positivo. Il teatrino in cui si contrappongono le figure
della donna perbene e della svergognata viene allestito in epoche
più tarde, seppure riutilizzando elementi già presenti nei poemi
di Omero (Ieranò, 2021: 30).

Sarebbe dunque certamente più confortante continuare a


pensare in termini divisivi, circa l’esistenza di un bene e un male
relazionati ai corpi e ai comportamenti delle donne; una divisione
tra buone e cattive che ci indichi dove sia possibile sentirci al
sicuro. Ma la verità è che ci troviamo di fronte a un meccanismo
culturale così ben radicato nella nostra società che, in fin dei
conti, non salva nessuna, sia che si tratti di una Elena, sia che si
tratti di una Penelope. E se schemi di pensiero come questo
continuano a persistere, allora forse è il caso di ammettere che
urge una rivoluzione culturale che ci consenta di ri-pensarci, quali
esseri umani liberi. Liberi da quegli stereotipi di genere che
impediscono il raggiungimento di una vera e propria parità; gli
stessi stereotipi che mantengono le donne escluse e al contempo,
però, gli uomini schiavi, in questo malsano gioco di Potere che

12
L’espressione victim blaming è stata coniata da William Ryan, grazie al
titolo della sua opera del 1971, Blaming the victim. Il termine indica
l’atteggiamento di colpevolizzazione della vittima, “a tutti gli effetti una delle
aggressioni secondarie a cui è sottoposta una persona che abbia subito
violenza, e consiste nell’additarle la responsabilità del reato di cui è stata, per
l’appunto, vittima” (Vagnoli, 2021: 36).
13
Lo slut shaming “(letteralmente: stigma della puttana) è un meccanismo per
cui la collettività è portata a giudicare una donna che si allontana
dall’immagine pura e addomesticata che dovrebbe avere” (Vagnoli, 2021: 34).
non risparmia nessuno. Perché – come scrisse Virginia Woolf –
“pensavo com’è spiacevole rimanere chiusi fuori; e poi quanto
dev’essere peggio rimanere chiusi dentro” (Woolf, 2019: 55).

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