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Ilenia Zodiaco Follow

Oct 31 · 29 min read

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Shirley Jackson, l’autrice che svela il lato


mostruoso dell’ordinario.
Un’analisi critica del romanzo Abbiamo sempre vissuto nel castello, tra gotico
femminile e horror domestico.

12

La paura: un sentimento che non invecchia


Esporsi al terrore richiede un prezzo alto, non tutti lo pagano volentieri ma
chi osa farlo, ottiene in cambio qualcosa di altrettanto prezioso: il conforto.
:
Il genere dell’orrore, in tutte le sue declinazioni — benché provochi disagio,
quando non direttamente profonde sensazioni disturbanti — ha un
innegabile potere esorcizzante per il quale siamo disposti a fare esperienza
del panico, anzi, ad abbracciarlo totalmente perché sappiamo che dopo
proveremo un improvviso sollievo. Le storie di terrore non sono solo un
modo per scongiurare la paura ma anche per conoscerla. I disturbi del
nostro tempo, come la depressione e l’ansia generalizzata, non hanno
bersagli di facile individuazione: generano tensione e paura che si
manifestano non in risposta a minacce fisiche imminenti ma piuttosto
all’anticipazione di pericoli futuri. La percezione che ciò che ci aspetta
domani non sarà nulla di buono provoca un’angoscia paralizzante,
addirittura degli attacchi di panico che si si scatenano come meccanismo di
risposta allo stress e alle sempre più esigenti richieste di realizzazione
personale (aspettative estetiche, economiche, familiari, professionali,
amorose, sociali ecc..). Abbiamo fame di scoprire l’origine e la causa dei
timori che ci divorano, ecco perché le narrazioni che tentano di controllare
la paura, scatenandola, sono più attuali che mai. Parte dell’agitazione che ci
provoca il panico è dovuta anche al non sapere e al non capire [IZ1] cosa ci
sta succedendo, le storie quindi diventano veicolo di elaborazione e
interpretazione delle nostre emozioni: sono i personaggi che attraversano
la foresta e vanno incontro al lupo ma siamo noi che li accompagniamo,
insieme ma distaccati, osservando in silenzio, imparando chi è il lupo della
nostra storia.

Gotico femminile: il racconto dell’orrore nelle donne tra


imprigionamento e liberazione
Dai tempi più remoti le storie hanno modellato la paura, incarnandola in
tanti mostri, incubi e fantasmi, dando libero sfogo a fantasie tanto
truculente quanto in grado di scacciare i veri timori che simboleggiavano.
Come disse Chesterton, le storie non insegnano ai bambini che i draghi
esistono ma che si possono sconfiggere. Guardando all’era contemporanea,
il racconto dell’orrore si è trasformato e in alcuni autori e autrici[IZ2] ha
:
preso dimora tra le pareti della nostra psiche, rendendo protagoniste
giovani fanciulle che per affrontare i loro spettri non avevano che da
guardarsi allo specchio. Tra le prime ad indagare i fantasmi della psiche, ci
furono le esponenti di quello che poi a posteriori venne definito Female
Gothic. Quest’espressione, introdotta da Ellen Moers, nasce per descrivere
narrazioni in cui eroine femminili si trovano imprigionate nella sfera
domestica (la concentrazione spaziale si rispecchia nel motivo gotico del
castello) e vivono sotto la minaccia incessante di estorsioni, stupri e
matrimoni forzati. Non si tratta ovviamente di storie in cui c’è una mera
vittimizzazione delle donne ma di specifici e complessi quadri narrativi,
creati dalle scrittrici del diciottesimo e del diciannovesimo secolo che
hanno usato elementi prettamente orrorifici per metaforizzare e
descrivere le ansie dovute all’intrappolamento domestico e la repressione
della sessualità subita dalle donne a quel tempo. Stiamo parlando di
scrittrici come Ann Radcliffe, Mary Shelley e le sorelle Brontë. Il romanzo
gotico femminile, specialmente radclaffiano, descrive, attraverso simboli
ed elementi narrativi ben definiti, il rapporto di assoggettamento e
prevaricazione subito dalle donne nel corso dei secoli, non è un caso che,
oltre al castello, uno dei luoghi prediletti dal genere sia il convento, altro
spazio di confinamento e isolamento per antonomasia.

Se inevitabilmente i classici gotici inglesi ci riportano ad un immaginario


doloroso e terrificante ma comunque ambientato nel passato, sarebbe un
errore considerare i motivi gotici superati. Rimangono angosciosamente
attuali per le donne la paura dell’isolamento, le sopraffazioni di una cultura
patriarcale, il disciplinamento del corpo femminile, il vincolo del
matrimonio, il soffocamento della propria identità, l’impossibilità di
sfuggire al “destino biologico” di maternità ecc… Lo dice bene il filosofo
Mark Fisher in Desiderio post capitalista : nel presente le donne hanno a
disposizione molte più opzioni percorribili per la loro autoderminazione
ma “nessuna di queste è socialmente ammissibile” perché genera
riprovazione nelle “narrazioni dominanti”: se hai un figlio e rinunci alla
:
carriera per stare a casa a occuparti di lui, sei una mantenuta scansafatiche,
se non hai un figlio, rinneghi la tua natura ecc…Questo condizionamento
rende ancora oggi la famiglia “normativa” per la donna e la sottopone a
“imperativi contraddittori”, impossibili da soddisfare, che causano un
logoramento della salute mentale. Il new gothic, che si concentra proprio
sulle ansie femminili determinate dalle pressioni della società patriarcale,
dimostra che c’è ancora spazio per riletture che sfruttino le metafore
orrorifiche per rimettere al centro il problema del genere.

Shirley Jackson tra riletture del gotico moderno e horror


domestico
Tra le protagoniste più originali della ripresa del genere gotico nel
Novecento americano, c’è Shirley Jackson, scrittrice californiana che, a
distanza di più di cinquant’anni dalla morte, riesce ancora a richiamare
l’attenzione straordinaria del pubblico — ogni anno si aggiungono nuovi
fecondi livelli di lettura alla sua opera sia da parte dei lettori sia dalla critica
— accompagnata anche da nuove trasposizioni cinematografiche e seriali.
Soltanto recentemente però — almeno, relativamente alle tempistiche degli
studi accademici — il profilo di Shirley Jackson è stato rivalutato, riuscendo
non solo ad essere inserito all’interno della tradizione gotica americana,
accanto a Hawthorne e Poe, ma anche a conquistarsi un ruolo unico, di
spiccata originalità, nel sotto-genere “horror domestico”, nel quale la
maggior parte delle sue opere maggiori rientrano (la produzione di Jackson
conta circa sei romanzi, sette raccolte di racconti, e altri diari e scritti vari).
Curiosamente, però, in vita, il successo più grande è da ricondurre a un
racconto molto diverso dal resto ovvero The Lottery. Scritto nel 1949 e
ambientato in un piccolo villaggio, presumibilmente nel New England, ha
come soggetto un linciaggio pubblico, una lapidazione rituale ai danni di
una persona scelta dal caso, il cui nome viene estratto da una “lotteria”. Il
racconto fu così sconvolgente che, non appena fu pubblicato sul New Yorker,
furono tantissime le lettere di protesta ma anche di incredulità (in molti
pensarono che la vicenda fosse realmente accaduta), pervenute alla
:
redazione, in cui ci si indignava per la messa in discussione dei civilissimi
valori americani. Da sempre quindi Shirley Jackson fu una scrittrice
pericolosa, in grado di perturbare e di mettere in scacco la tradizione.

Come predetto, tuttavia, il suo talento emerge soprattutto nel racconto


dell’orrore domestico, sempre ancorato e in relazione alla complessa
psiche dei suoi personaggi femminili. Il recente e intenso lavoro di critica
letteraria attorno all’opera di Jackson — in particolare quello di Lynette
Carpenter, Berenice Murphy e Roberta Rubenstein — si è infatti avvalso
degli strumenti della psicanalisi per rivelare come Jackson abbia sempre
celato sotto la maschera dell’orrore la violenza e il trauma insiti
nell’ordinaria vita domestica. Altri due indagatori letterari della casa come
gabbia dorata furono Sylvia Plath e Stephen King, entrambi profondamente
influenzati proprio dall’opera di Jackson. Grazie a quest’incredibile
operazione di recupero critico, oggi abbiamo nuovi strumenti di
interpretazione per le sue opere, a dispetto di precedenti (e anche
autorevoli) giudizi come quello di Harold Bloom che affermò che Jackson
non era in grado di ritrarre “le complessità del personaggio e della
personalità”, quindi non poteva nemmeno trasportare il lettore e la lettrice
in una vera esplorazione dell’interiorità, né commuoverci e cambiarci in
maniera permanente. Il parere di Bloom suona involontariamente ironico,
alla luce non solo della longeva popolarità dell’autrice ma anche della
comprovata (e tristemente sorprendente) attualità delle sue storie,
avvalorata anche dal successo delle diverse trasposizioni mediali dei suoi
romanzi (in primis la serie antologica del 2018, L’incubo di Hill House, diretta
da Mike Flanagan, su Netflix).

Nella società della paura e dell’ansia, è presto spiegato l’interesse verso


storie basate sul senso di colpa e l’angoscia di coltivare ambizioni di
autorealizzazione in una società che invece spinge le donne verso un
disciplinamento domestico (focalizzato sulla cura, la natalità e la
dimensione privata) ma contemporaneamente a una performante e
redditizia carriera come professioniste autosufficienti, e le conseguenze
:
terrificanti di questa scissione sulla propria psiche.

Abbiamo visto come il modello di Jackson si muove in maniera fluida tra


classicità e modernità, tanto da arrivare fino a noi con il fascino
tormentato del gotico ma anche con la rilevanza del contraddittorio e
pressante problema di genere. Questa formula è creata attraverso la
combinazione di più elementi e tradizioni. Il domestic horror non si limita a
raccogliere l’eredità del gotico femminile, ma lo piega e modella alle nuove
esigenze dell’era contemporanea alla scrittrice, ovvero il dopoguerra,
un’epoca diversa ma comunque ugualmente perseverante nell’ostilità verso
la libertà e l’autodeterminazione delle donne. È in questi anni che
assistiamo a una brusca battuta d’arresto delle istanze femministe, ancora
più sentita data l’immane mobilitazione anche professionale delle donne
durante la Seconda Guerra mondiale che ha permesso alla società di
funzionare anche durante il conflitto bellico. Al contrario, gli anni 50 e 60
sono contraddistinti da un’inversione di marcia: la donna bianca della
classe media viene seppellita nella vita domestica, sforzandosi di essere
una buona casalinga-madre ma coltivando in segreto la frustrazione e il
senso di colpa per non trarre gioia ma anzi insoddisfazione da questo stile
di vita. Tutte queste esperienze, per lo più taciute e represse, verranno poi
finalmente descritte all’interno di un saggio rivelatorio: “La mistica della
femminilità” di Betty Friedan nel 1963.

Prima dell’ondata femminista degli anni 60 e 70, però, è in letteratura che si


iniziano lentamente ad associarsi le sensazioni di malessere, paura,
soffocamento, frustrazione femminile all’ambiente domestico e alla
maternità. Le opere neogotiche di Shirley Jackson — L’incubo di Hill House
(1959) e Abbiamo sempre vissuto nel castello (1962, l’ultimo romanzo prima
della morte) — si collocano proprio tra gli anni 50 e inizio anni 60. La
specificità nel descrivere così attentamente le difficoltà psicologiche, i
conflitti interiori e la profonda insoddisfazione delle donne a partire dal
secondo dopoguerra in poi è da ricondurre al fatto che fu lei stessa una di
quelle donne.
:
Una scrittrice ambiziosa nell’era della domesticità: la vita di
Shirley Jackson
Shirley Jackson, nel corso della sua breve vita (1916 –1965, muore a 48
anni), ha cercato di mantenersi in equilibrio, come tante donne ancora
oggi, tra il suo lavoro come giornalista e scrittrice, e il secondo e terzo
lavoro di casalinga, moglie e madre, compiti spesso esercitati lontano dai
centri culturali bensì nelle periferie e nelle cittadine di provincia come
Bennington nel Vermont, in cui Jackson stanziava malvolentieri, obbligata
dalle necessità professionali del marito, professore e critico letterario. Il
senso di isolamento, acuito dai traslochi da una casa e l’altra e dai
trasferimenti più o meno permanenti, descritti nelle sue storie, sono
proprio indice di questo senso di precarietà e insicurezza, di
frammentarietà e ricerca spasmodica di un rifugio non fagocitante, di una
casa non infestata dagli spettri. Ecco che associare atmosfere da incubo a
un ambiente “protetto” come la casa diventa una precisa scelta, è su questo
terreno simbolico che si concentra tutta l’ambivalenza tra la celebrazione
dell’amore per il focolare domestico con le gioie della vita familiare e
dall’altro lato i suoi lati più oscuri, in particolare la paura di vedere
schiacciate le proprie ambizioni e il proprio talento sotto il peso dei ruoli di
genere, di madre e moglie. Shirley Jackson, così come tante sue
protagoniste, visse sempre alla ricerca di una conciliazione tra ambizione e
cura dei propri affetti, tra senso di colpa per non riuscire ad aderire a un
modello materno “normale” e la paura di bruciare il proprio talento, tra il
terrore dell’isolamento e l’agorafobia, di cui la scrittrice soffriva, unita a un
più generale disturbo d’ansia. Shirley Jackson conosceva la presa
asfissiante della paura, le sue manifestazioni fisiche e ovviamente il suo
potere psicologico. Le forze soprannaturali e orrorifiche presenti nei suoi
libri sono il modo di portare fuori dalla sua mente, di rendere concrete e
visibili le paure più profonde che stava vivendo. Ne L’incubo di Hill House le
manifestazioni dell’orrore sono ambigue: non sempre sono “reali” ma sono
in bilico tra suggestione psicologica (e disturbo paranoico delle
protagoniste) e invece forza soprannaturale. Chi sta bussando alla porta? È
:
solo nella mia testa o esiste? È su questa linea sottile che gioca l’autrice: il
panico nasce nella nostra mente ma è tangibile, fisico. Ed è anche il motivo
per cui proviamo sollievo nell’esporci alla paura. Sapere che qualcun altro è
spaventato, che c’è qualcosa fuori dalla nostra testa, che qualcuno sta
tremando e sudando freddo insieme a noi, questo ci dà conforto. Le storie
di fantasmi danno forma o voce al soffio invisibile del panico. Possiamo
vederlo in faccia e affrontarlo. Nella narrativa di Jackson questa
ambivalenza si tramuta in simboli che enfatizzano la metafora del
dentro/fuori, del reale/immaginario, sé/gli altri, il confronto e la
confusione continua con il modello materno, tra assimilazione e rigetto
della madre e della società. Le sue sono rappresentazioni di io scissi, di
protagoniste insicure, quando non direttamente outsider e reiette che
vivono in piccole comunità, che abitano un mondo spaventoso dentro e
fuori di loro, alla perenne ricerca di potere e agency, due possibilità che
alle donne della sua epoca raramente venivano concesse.

Il modello Jacksoniano attraverso l’analisi della sua ultima opera:


“Abbiamo sempre vissuto nel castello”.
:
Abbiamo sempre vissuto nel castello è un romanzo in prima persona, breve
ma denso, che segue il pattern simbolico del romanzo gotico — a partire
dal castello, citato nel titolo — arricchendolo con elementi psicologici
traumatici che vengono sviscerati ed elaborati attraverso la veste orrorifica
del racconto: il rapporto con la madre assente, l’ingerente e predatorio
sistema patriarcale, il tentativo di ricreare un nucleo familiare surrogato,
disallineato alle norme della società, l’uso della stregoneria e della violenza
come armi di difesa, la presenza della morte e il senso di colpa. Tutto questo
in meno di duecento pagine.

È la storia di un noi — già esplicitato nel titolo originale We Have Always


Lived in a Castle — formato da due sorelle Mary Kate e Constance, che
vivono barricate in casa, insieme allo zio disabile e demente Julian, nella
grande e maestosa tenuta dei Blackwood, proprietà di famiglia ben isolata
dal resto del villaggio, tanto arroccata da essere definita un “castello”. Da
quando sei anni prima il resto della famiglia — tra cui padre, madre, fratello
e moglie dello zio — è morta in seguito ad avvelenamento da arsenico, quel
che resta dei Blackwood vive in una sorta di atemporalità, un momento di
stasi irreale (sottolineato dall’avverbio sempre del titolo) che ricorda una
“fairy-tale”, una favola nera in cui i rapporti familiari si sono congelati in
una nuova configurazione: Constance, la maggiore di 28 anni, è diventata il
surrogato della figura materna e si prende cura, principalmente attraverso
la preparazione del cibo e delle faccende domestiche di Mary Kate, la
diciottenne sorella minore, nonché narratrice degli eventi, decisamente
più selvatica e ribelle e dello zio Julian, evirato sostituto della figura
paterna, incapace di provvedere a se stesso sia per l’età sia per i danni fisici
dovuti all’avvelenamento (che lui stesso ha subito, restando paralizzato).

Elemento esogeno ed elemento endogeno nella dinamica


familiare e narrativa
Dal punto di vista interno, la vita immobile del nucleo familiare è un idillio,
niente cambia, tutta la famiglia contribuisce affinché “ogni cosa rimanga al
:
proprio posto” (cioè dove è sempre stata), tutto è volto all’eterna
celebrazione e alla messa in scena ritualistica del passato: Mary Kate va in
paese a fare la spesa il martedì, Constance fa le pulizie lo stesso giorno alla
stessa ora, cucina sempre le stesse cose, le sorelle indossano i vestiti della
madre e trattano la casa come un santuario, come un baluardo contro il
tempo. Non ricevono nessuno in casa, con un’unica eccezione: la signora
Helen, che si reca da loro ogni mese per il tè. È un’isola felice, confinata e
autosufficiente (“noi non chiediamo niente a nessuno, ricordatelo”).
Qualsiasi cosa minacci questo fragile equilibrio è visto come una minaccia,
da qui la paranoia per gli “intrusi” e chiunque cerci di entrare nella loro
proprietà. Specialmente nella mente della narratrice, soprannominata
Merricat, l’immobilità e l’immutabilità sono le premesse per la loro
felicità. Il loro castello è quello delle favole principesche: luminoso, isolato,
lontano dal resto del mondo.

Al contrario, dal punto di vista esterno il castello restituisce un’immagine


oscura, impenetrabile e minacciosa. In particolare, per gli abitanti del
villaggio, esclusi dalla visione interna, la famiglia Blackwood rappresenta
una pericolosa perversione della famiglia tradizionale. Nonostante
Constance sia stata prosciolta dall’accusa di omicidio, inevitabilmente su di
lei ricadono i sospetti del delitto familiare, aggravando la sua agorafobia e
condannandola a una vita da reclusa, lo zio Julian poi è sempre stato
malvisto anche prima dell’incidente (“è un filino eccentrico”, “devia dalla
norma”), sia per un’allusa omosessualità sia soprattutto per la sua
incapacità di provvedere alla sua famiglia, tanto da vivere nell’ombra e a
casa del fratello, John, padre di Constance e Mary Kate. È quindi solo
lontano dagli sguardi della società, all’interno del loro castello, che i
Blackwood rimanenti possono essere tollerati. Anche la coppia simbiotica
di Constance e Marricat è una potente minaccia contro l’ordine costituito:
sono due donne che vivono da sole, sono ricche perché hanno ereditato una
cospicua somma di denaro, custodita nella cassaforte di casa, che sono
libere di amministrare come vogliono, non sono assoggettate all’autorità
:
paterna né a quella maschile, tant’è che si rifiutano di frequentare la
società. Non devono lavorare per vivere, sono autosufficienti e non devono
scendere a patti e/o a compromessi con la comunità che disprezzano e che a
loro volta disprezza loro. “Gli abitanti del paese ci hanno sempre odiati”,
dice Merricat. Anche prima dell’avvelenamento, la separazione dal resto
della comunità era ben delineata dalla recinzione che il padre fece costruire
tutt’intorno alla proprietà, perché la madre non voleva avere niente a che
fare con i vicini. La diversità dei Blackwood è palesemente dettata dalla
condizione economica più abbiente e dal conseguente senso di superiorità.
Lo snobismo dei genitori è stato ereditato dalla progenie, e in Merricat si è
patologizzato, rendendola intollerante a qualsiasi intrusione. Fuor di dubbio
è che l’odio sia alimentato reciprocamente da entrambe le parti, la sezione
finale del romanzo non lascia adito al minimo sospetto sul fatto che gli
abitanti della cittadina detestino a morte le Blackwood (e invece ignorino
l’innocuo e de-mascolinizzato Julian), appellandole con insulti denigratori,
abusi verbali e cantilene accusatorie, ogni volta che Merricat si reca in
paese. Sul villaggio regna una patina di squallore, un degrado pettegolo,
l’ottusità e il grigiore della violenza e della monotonia provinciale,
probabilmente una proiezione dell’ostracizzazione patita da Jackson
durante il suo soggiorno in Vermont. Le Blackwood quindi diventano un
facile bersaglio, la loro sola presenza — così pacifica, così immobile da
sembrare eterna — suona come una provocazione. L’eterna stasi in cui si
sono rifugiate Constance e Merricat, però, non cela nulla di provocatorio,
non è un atto di ribellione palese contro la società, o meglio, non solo. Più
distintamente è l’insano desiderio di protezione da un trauma non
elaborato ovvero quello dell’avvelenamento (evento di cui “non parliamo
mai”).

Tra stasi e cambiamento: sviluppo e conflitto dell’autorità


maschile e del domestico femminile
Il falso equilibrio viene meno quando arriva un ospite indesiderato a far
scoppiare la bolla nella quale le Blackwood si sono rifugiate: il cugino
:
Charles, nipote di zio Julian, figlio di uno dei fratelli del capofamiglia John e
più grande di Constance solo di qualche anno. Dopo la morte del padre (che
aveva rotto i ponti con la famiglia a seguito dell’avvelenamento), Charles
decide di recarsi nella proprietà Blackwood per prendere il controllo della
tenuta, posizionandosi come nuovo capofamiglia e sostituendosi al padre
come figura maschile in comando. Charles è percepito da Merricat come un
predatore, “infesta” la casa, dapprima con il suo odore (di fumo) e il rumore
(delle scarpe pesanti). Successivamente inizia a divorare in maniera rapace
il cibo preparato da Constance, rubando attenzioni a Merricat. Addirittura,
si assegna il compito di fare la spesa per la famiglia in paese, mansione
finora svolta solo da Merricat, per via della fobia di Constance. Charles
prosegue la sua opera di conquista e occupazione della casa, rubando i
vestiti e gli oggetti dal guardaroba del defunto padre John, volendone
prendere il posto nell’amministrazione finanziaria della casa. Inizia con
avidità a interrogare le sorelle sul patrimonio e sul valore degli oggetti, si
stanzia in camera del capofamiglia e mostra accessi di rabbia ogni volta che
Merricat attua dei comportamenti bislacchi e fuori dall’ordinario, tentando
di punirla e disciplinarla, proprio come faceva il padre. Sì, perché “Merricat
era sempre in castigo (…) era una bambina cattiva e disubbidiente”.
Evidentemente questa condotta riporta Merricat alla mal tollerata autorità
paterna, soprattutto l’ossessivo attaccamento ai beni materiali, di cui
invece Merricat fa un uso assolutamente trasgressivo e anticonvenzionale.
Emblematico è il caso della cassetta d’argento piena di dollari che da lei
viene sotterrata, gesto che scatenerà l’ira furibonda di Charles, che non si
capacita come un bene di grande valore come il danaro possa essere
utilizzato come un gioco. Charles quindi proietta in casa il fantasma
incarnato dell’oppressione paterna, innescando in Merricat una reazione
di rigetto. La sua ostilità è tanto più rinforzata dal fatto che Charles non si
pone soltanto come sostituto del padre (odiato) ma anche come rivale nel
contendersi le attenzioni e l’amore di Constance, con la quale Merricat vive
in simbiosi, nutrendo verso di lei una vera e propria ossessione. Vedendosi
destituita dalla presenza di Charles, desidera “estirparlo” come un’erbaccia,
:
e non è un caso che tra le azioni intraprese ci sia in primis il tentativo di
sabotarlo, rendendo inutilizzabile l’orologio (precedentemente era
appartenuto al padre), che simboleggia proprio la misura del tempo degli
uomini. Danneggiandolo, desidera sovvertirne l’ordine, oltre a
rappresentare simbolicamente anche la rottura con il mondo esterno, con
gli abitanti “orribili” del paese e della società. D’altra parte nella mente di
Merricat a loro non serve il tempo delle lancette, seguono la luce del sole e
il ritmo della natura, vivono in un mondo completamente separato e
“idillico”, quasi pastorale. Le forze antagoniste di Charles e degli abitanti
del villaggio insieme però porteranno il romanzo verso un crescendo
distruttivo e rovinoso.

Merricat, una narratrice inaffidabile e narcisista


Prima di analizzare nel dettaglio il finale, è bene soffermarci sulle
caratteristiche psicologiche chiave di Merricat, la voce narrante del libro. Il
racconto in prima persona rischia di deformare la prospettiva del
racconto: non essendoci abbastanza distanza focale, rischiamo di farci
influenzare, prendendo sempre le sue parti. In questo caso, però la sua voce
è talmente ego riferita e inaffidabile da considerare fin da subito
compromesse le sue doti di osservatrice. È impossibile celare fin dalle
prime pagine i comportamenti antisociali e ossessivi di Merricat (“non mi
piaceva lavarmi”), le sue macabre fantasie di violenza (“Mi sarebbe piaciuto
entrare lì dentro una mattina, e trovarli tutti sdraiati a terra e in lacrime, a
morire di una morte atroce”), i suoi accessi di rabbia che la portano a
spaccare oggetti per ripicca (spesso utensili da cucina, come il bricco del
latte della sorella). È piuttosto straniante apprendere fin dall’inizio che
Merricat ha diciotto anni perché è immatura e infantile, al limite del
pensiero magico (“Pensai che se avessi trattenuto il respiro fino a che la
goccia non fosse caduta, Charles se ne sarebbe andato”). Sotterra gli oggetti
pensando di attivarne poteri protettivi, usa parole magiche come
incantesimi, tenta di lanciare sortilegi contro Charles (“Stavo riflettendo su
Charles. Potevo trasformarlo in una mosca, impigliarlo in una ragnatela e
:
guardarlo mentre se ne stava lì a dibattersi ronzando impotente”).
Storicamente la stregoneria e la saggezza mistica, si sono occupati di campi
del sapere trascurati dalla scienza istituzionale, guidata dagli uomini, che
per reazione le hanno demonizzate e a lungo stigmatizzate. La scelta di
ricorrere alla magia, da un lato, è spiegabile con il tentativo di Merricat di
dare un senso e un significato a un mondo disabitato e solitario, svuotato
di punti di riferimento; dall’altro lato, rappresenta anche un modo per
evidenziare il carattere trasgressivo di Merricat (persino il suo nome
richiama un lato selvatico, tradotto letteralmente dall’inglese significa gatto
felice). Il tentativo di accedere alla stregoneria, chiaramente inefficace, è il
tentativo di accumulare un potere grazie all’immaginazione, potere che
nella realtà non esiste perché Merricat sia prima sia dopo l’avvelenamento,
al di fuori del suo regno immaginifico e favolistico, è una donna
impotente. Come figlia di mezzo, non erediterà nulla, lontana dall’essere la
convenzionale e docile figlia, destinata al matrimonio, si è sempre
interessata alle attività all’aria aperta, i libri di storia, la magia e la libertà.
Per questo non è mai stata accettata né capita dalla propria famiglia, in
particolare negletta dalla madre (dinamica molto presente nell’opera di
Jackson e nella sua biografia) che le impediva di accedere alla sua camera e
si affiancava al marito, il padre di Merricat, nel punirla e nel disciplinarla,
come sua alleata e cospiratrice (agli occhi di Merricat). In effetti la madre
non è solo dipinta come una cattiva madre perché non ama le proprie figlie
ma anche come sostituta dell’autorità maschile. Queste madri terrificanti,
in qualità di “padri surrogati”, disciplinano le loro figlie per farle rientrare
nei ruoli disegnati per loro dalla società patriarcale.

Merricat è bloccata in uno stato infantile narcisistico e si crogiola in


fantasie di regressione, tipiche di chi cova una paura o un trauma che non
sa affrontare direttamente. D’altra parte cos’è il terrore se non qualcosa che
ci impedisce di andare avanti, di crescere? Completamente disinteressata al
mondo esterno, vive nel suo regno domestico, prigioniera di se stessa e
contemporaneamente tenendo anche la sorella in ostaggio. Ogni volta che
:
Constance mostra la volontà di ritornare nella comunità (anche solo
indugiando con lo sguardo troppo al lungo al di fuori della casa, verso il
villaggio), Merricat si sente “gelare”, non solo perché la prospettiva di
qualsiasi cambiamento la atterisce ma anche perché la possibilità di
distaccarsi da Constance è inconcepibile. Un’interpretazione audace
dell’opera in effetti potrebbe tradursi nel considerare non Merricat l’eroina
gotica ma Constance, tenuta intrappolata nel castello dalla sorella, che la
vuole come sostituta della madre affettuosa e come oggetto d’amore
incondizionato e possessivo. Infatti, se in prima battuta potrebbe sembrare
che sia Constance ad aver assunto il ruolo di genitore responsabile, è in
realtà Merricat la vera figura dominante della coppia. Non vogliamo
certamente fare di Merricat l’antagonista della storia, anche perché nel suo
disperato desiderio di ritirarsi dalle pressioni e dalle soggiogazioni di un
mondo patriarcale c’è soprattutto la necessità primaria di ogni bambina
non amata dai propri genitori di essere accettata per chi si è e non per la
propria capacità di servire, per il proprio valore strumentale all’interno dei
meccanismi sociali. Il rifugio mentale di Merricat — bisognosa di sicurezza,
conforto e ordine, mai conosciuti prima — è quanto di più semplice, tenero
e giocoso ci possa essere: il paesaggio lunare, cavalli alati, piante pelose
come gatti, come il suo gatto Jonas, il suo unico amico e compagno. La luna
e i suoi nascondigli — “dove nessuno ci avrebbe mai potute vedere”, il
desiderio supremo: essere lasciate in pace — rappresentano la sua fortezza,
la sua barricata contro il caotico e lurido mondo esterno.

Chi ha avvelenato la famiglia?


Con il prosieguo della storia, l’alienazione di Merricat dalla realtà e la sua
presumibile follia crescono d’intensità fino a rivelare ciò che abbiamo
sempre sospettato: è stata lei, e non Constance, ad avvelenare la famiglia,
quando aveva solo dodici anni. La rivelazione non arriva senza
anticipazioni e indizi, soprattutto di natura psicologica. Un atto così
aberrante lascia segni inequivocabili, è il risultato di una profonda
dissociazione, uno strappo violento da un mondo considerato ormai
:
inabitabile. Merricat potrebbe essere la protagonista più forte di Shirley
Jackson, se non altro la più resoluta nel suo totale isolamento dal mondo e
nel suo atto di ribellione suprema contro il simbolo della tirannia in casa:
il patricidio. Non si limita a uccidere il padre in realtà, perché,
avvelenandolo, si disfa anche delle ancelle del patriarcato (madre e zia), del
fratello (rivale) e successivamente tramerà per liberarsi del nemico finale: il
cugino Charles, un altro uomo. L’autorità maschile è completamente
annichilita dall’arsenico e assistiamo a un radicale trasferimento di potere
dagli uomini alle donne. L’unico sopravvissuto alla tragedia è Julian, verso il
quale Merricat nutre un senso di colpa palese che si esplica in piccoli
incarichi e gesti di bontà che la ragazza si impone di fare nei suoi confronti
(“devo essere più buona con Julian” è un mantra che si ripete spesso durante
il romanzo). Julian viene risparmiato anche per motivi quasi ovvi: non è
considerato una minaccia alla libertà delle Blackwood, non rappresenta un
simbolo della mascolinità tossica, dedita all’accumulo di capitale e alla
repressione della libertà femminile, anzi, si rivela un prezioso alleato e
complice, contro i pettegolezzi degli abitanti del villaggio e contro Charles
(“un giovanotto davvero sgradevole”). Anche le paranoie di Merricat su
possibili persecuzioni e ripercussioni contro di loro e la loro proprietà da
parte degli abitanti — da qui l’ossessione per la “sorveglianza” e la
protezione della casa — sono spia del proprio senso di colpa o comunque di
un senso di ambivalenza verso i propri impulsi violenti e sadistici. Merricat
immagina che Charles sia un fantasma del padre, “un demone”, tornato per
punirla (così come era solita punirla in vita), uno spettro inconscio del
proprio bisogno di espiare o di fare i conti con le proprie azioni. La natura
ritualistica e ossessiva dei pensieri di Merricat ha fin dalle prime pagine
messo in luce una vacillante stabilità mentale, pronta a degenerare.

Constance: tra mito domestico e dissociazione psicologica


Al contrario di Merricat, Constance non è mai credibile come assassina,
nonostante i costanti (ma deboli) sospetti che tutti nutrono su di lei. Non si
discosta mai dal modello femminile sottomesso e docile. La sua personalità
:
è profondamente collegata alla preparazione del cibo, la cucina è il “cuore
della casa” e il regno domestico, dove le due sorelle trascorrono la maggior
parte del loro tempo (sia prima sia dopo l’avvelenamento). In particolare è
qui che Constance può mostrare il suo talento e la sua creatività.
Tradizionalmente, infatti, nella società patriarcale la preparazione del cibo
è sempre stata riservata alle donne, come ruolo connotato dal genere
all’interno del romanzo il cibo assume un significato simbolico centrale.
Innanzi tutto, quando Merricat va in paese a fare la spesa, il cibo diventa un
ulteriore motivo di distinzione: all’emporio, i commercianti e i clienti
presenti, trattano con invidia mista a disprezzo la scelta di prima qualità — e
anche abbastanza costosa — degli ingredienti, commentando con: “in casa
Blackwood si è sempre mangiato bene”, alludendo malignamente
all’intossicazione. Curiosamente il fatto che Constance cucini per tutta la
famiglia — anche prima dell’evento mortale — è considerato perfettamente
legittimo e, anzi, auspicabile visto che va a sopperire alla “femminilità”
mancante della madre che invece cucina assai di rado (e quando lo fa, ne
consegue che zio Julian avrebbe “preferito provare l’arsenico”). Facciamo
notare anche che la confusione provata da Constance tra l’essere se stessa e
l’imitare il modello materno è invisibilizzata, passa sotto silenzio e non
vengono mai messo in discussione la sua soddisfazione e felicità personale
nel diventare un mero stampino della madre. Il suo disagio psicologico è
completamente represso.

Altrettanto curiosamente il fatto che Merricat invece compri il cibo da sola


con i soldi che amministrano in totale autonomia, da quando il padre è
morto, è considerato altamente provocatorio, quasi arrogante e infatti
viene trattata con aperta ostilità. La stessa Merricat comunque non cucina
mai e, anzi, prima dell’avvelenamento, le veniva anche negato il cibo come
punizione per la sua tempra ribelle, pur differenziandosi dalla madre. Il
rifiuto di Mrs Blackwood di adempiere al ruolo di cura prescritto dal
genere non è da intendersi infatti come un atto di trasgressione, (dove
invece ricade l’indole di Merricat) bensì come una manifestazione di
:
potere: Mrs Blackwood è una donna dell’alta società che disprezza gli
abitanti del villaggio e si rifiuta di essere relegata al ruolo servente di
madre, piuttosto preferisce dividere l’autorità disciplinante e punitiva con il
marito. Incapaci di raggiungere un compromesso tra un’autorità paterna
tirannica e una figura materna asservita al ruolo di accudente, entrambi i
genitori Blackwood falliscono nel restituire amore e sicurezza alle loro
figlie. In seguito alla loro morte, le sorelle troveranno il modo di ricreare il
nucleo familiare, trasformandolo completamente. In questo atto generativo
e al contempo spietato, possiamo vedere una perversione e/o la creazione
di un modello alternativo della famiglia eteronormativa. Questa visione
critica — portata avanti dalla studiosa Roberta Rubenstein — si esplica
meglio fino alle sue conseguenze più estreme nel finale, che
approfondiremo tra poco.

Il cibo come simbolo sacro di appartenenza e al contempo


meccanismo disciplinante all’interno della famiglia
“Tutto ciò che si mangiava era sacro”. In casa Blackwood ciascuno dei
commensali ha un posto fisso a tavola e l’atto di mangiare è un rituale,
rivelatore del posto che ciascun membro occupa all’interno della struttura
familiare, il cibo è un simbolo di appartenenza. Il fatto che Merricat sia
spesso mandata a letto senza cena — e anche la sera dell’avvelenamento non
fosse seduta a tavola — è un indicatore chiaro del livello di accettazione
della figlia all’interno della sua stessa famiglia. Altrettanto chiaro però è il
suo desiderio di creare un legame con gli altri: quando sogna ad occhi
aperti, immagina che la notte dell’omicidio non sia stata espulsa dalla tavola
e, anzi, ogni commensale siede al posto giusto e ne tesse le lodi.

Nell’ottica deformante di casa Blackwood, però, la dinamica di nutrire e


preparare il cibo si perverte, diventando un veicolo di morte: l’arsenico con
cui la famiglia viene uccisa è contenuto nella zuccheriera, il simbolo per
eccellenza dell’accoglienza. L’avvelenamento si configura in questo modo
non soltanto come un tradimento dei valori della famiglia, una mancanza
:
assoluta di fiducia nelle dinamiche tradizionali di affetto e lealtà, ma anche
come un tradimento degli ideali di femminilità e domesticità. L’accudente
— chi prepara il cibo — da figura servente e sottomessa, diventa il soggetto
di potere che, approfittando della vulnerabilità dei commensali, procura
loro la morte. È un potere negativo, terribile e limitato alle pareti
domestiche che ne decreta anche il totale esilio dalla società civile. Non
stupisce quindi che sia Merricat ad avere il coraggio di impugnarlo.
Constance ne è complice ma anche in qualche modo succube.

Constance e Merricat rappresentano in un certo senso la scissione dell’io


femminile, una coppia simbiotica formata da due opposti, in relazione
reciproca. Non è la prima volta che Shirley Jackson oggettifica attraverso il
meccanismo romanzesco e quindi rende tangibile in due personaggi diversi
una separazione, una frammentazione che nella realtà avviene all’interno
della mente di un’unica donna. Pensiamo alle turbe delle protagoniste di
Hill House o Shirley o Paranoia. Se Merricat è estrema, Constance è
accomodante ma entrambe affrontano le stesse problematiche e gli stessi
imperativi della società patriarcale, sviluppando forme di reazione
opposte e vicendevolmente compensatrici. Anche quando Charles arriva
nelle loro vite, la risposta alla minaccia è antitetica. Se Merricat inizia a
competere con Charles per la posizione dominante in casa, Constance,
corteggiata e al contempo trattata con condiscendenza dal cugino, cerca di
compiacerlo facendo l’unica cosa che crede di dover fare: lo nutre e si
prende cura di lui come una madre-moglie accudente. Tuttavia sviluppa un
senso di colpa immediato perché la sola presenza di Charles la distrae e
non le lascia il tempo materiale e mentale di prendersi cura di zio Julian e
Merricat, anche perché il cugino è ingordo, una presenza ingombrante che
“divora” lo spazio e il tempo di Constance. Se il cibo e l’atto di prepararlo e
servirlo sono una metafora per l’amore filiale, Charles rappresenta un
rapace che arraffa tutto quello che può, anziché dividerlo con gli altri, e che
chiede sempre di più. Più Charles si insinua nella casa, con fare
paternalistico e oppressivo, più Constance si sente inadeguata a ricoprire il
:
ruolo di genitrice, sentendosi sempre più impotente e sopraffatta.

Per compensazione con la madre “cattiva”, Constance deve interpretare le


vesti della madre “buona”, non punendo mai Merricat e soddisfacendo le
aspettative e i desiderata di tutti gli abitanti della casa: quando non cucina,
si occupa delle pulizie, legge libri di cucina per migliorare le sue doti
tecniche e creative, con un senso di perfezionismo che sfiora la
maniacalità, si concentra nell’arricchire la collezione di conserve delle
donne di casa Blackwood, vedendo in questo la sola strada per sentirsi
soddisfatta. Come una casalinga degli anni 50 ma anche come una mamma
influencer sull’orlo di una crisi di nervi dei giorni nostri, Constance non ha
molta scelta.

A salvarla dal crollo nervoso arriva Merricat che decide di prendere


l’iniziativa. Si intrufola nella stanza di Charles, che in precedenza era stata
la stanza di suo padre; disgustata alla vista dei simboli dell’autorità
maschile e della società degli uomini — una pipa fumante, accanto a un
giornale — li getta nel cestino, facendo esplodere un incendio in casa. Le
fiamme divorano tutto il piano superiore (poco frequentato dalle Blackwood
e da zio Julian a cui è negato l’accesso per via della sedia a rotelle) ma
risparmiano il piano terra, anche grazie al tempestivo arrivo degli abitanti
del villaggio, allertati da Charles, che riescono a estinguere l’incendio. Una
volta domato il fuoco, però, uno dei livorosi abitanti del paese, il capo dei
vigili, lancia un sasso contro una delle finestre, nel tentativo di fare un
affronto al simbolo della trasgressione sociale, danneggiando la proprietà
che rappresenta la famiglia che li ha sempre snobbati. A quel punto si
innesca una reazione a catena che dà a tutti gli altri il permesso di attaccare
la casa. Durante la spaventosa opera di distruzione, che rimanda a un
linciaggio pubblico e a una caccia alle streghe, lo zio Julian muore di
infarto e Constance e Merricat si nascondono finché tutto non è finito
mentre Charles scompare, dopo aver tentato di portar via la cassaforte. Gli
abitanti del villaggio distruggono tutto ciò che possono, concentrandosi
sulle stanze più amate dalle sorelle, facendo a pezzi gli utensili da cucina di
:
Constance, portandosi via gli oggetti di valore, mettendo in atto una vera e
propria iniziativa di spoliazione punitiva.

Furia distruttrice e insania: l’interpretazione del finale


Due atti di distruzione segnano il finale del romanzo: il primo (l’incendio) è
un rito di purificazione per estinguere la presenza intrusiva in casa
(Charles) ed è innescato dall’interno (da Merricat). Il secondo invece è un
atto di odio e rabbia collettivo, che proviene dall’esterno ma che ha un tono
altrettanto ritualistico (le pietre scagliate contro la casa simulano un
linciaggio pubblico). L’incendio parte e distrugge il piano superiore (il regno
degli uomini), la caccia alle streghe (gli abitanti si domandano
ossessivamente dove si nascondono Merricat e Constance) si concentra
invece ai piani inferiori (il regno delle ragazze). Quello a cui assistiamo non
è altro che l’adattamento del confronto diretto tra le streghe moderne e i
cacciatori di streghe; d’altra parte cos’è stata la persecuzione delle streghe
se non la risposta patriarcale alla ribellione femminile?

Tuttavia alla fine la casa risulta ancora abitabile: dopo che la cenere si è
posata, Merricat e Constance tornano ai resti della casa e la ripuliscono,
salvando ciò che possono dalla dispensa (fortunatamente ben rifornita di
cibo conservato nel corso degli anni dalle donne Blackwood). Ricavano degli
abiti — genderless- dai vestiti di zio Julian e dalle vecchie tovaglie, e si
rifugiano, ancora più arroccate all’interno della casa in rovina (il simbolo
del decadimento è il vecchio scalone, completamente divelto, un tempo
fiore all’occhiello della dimora Blackwood ed elemento architettonico di
rinomato pregio). Con il trascorrere del tempo, l’edera coprirà,
nascondendole, le parti bruciate della casa e le persone andranno a visitare
— come si fa con i luoghi abbandonati — la proprietà, in una sorta di
pellegrinaggio religioso. Tant’è vero che di notte, le persone del villaggio
lasciano anche dei cesti di cibo — come delle offerte a delle divinità — sulla
veranda, accompagnandoli con delle note di scuse, delle richieste di
perdono. Tutti infatti mormorano che le sorelle Blackwood vivono ancora lì
:
dentro, come degli spiriti. Probabilmente nel tentativo di non inimicarsi
due fantasmi, gli abitanti del paese cercano di compiacerle, considerando
la loro solo presenza una minaccia e il fatto che siano sopravvissute, un
prodigio, come se avessero riconosciuto la superiorità o quanto meno la
pericolosità di queste donne, che hanno il coraggio di restare fieramente
separate, anche a costo della vita.

Come dobbiamo interpretare il finale? Come molte direzioni narrative


prese da Shirley Jackson, ci troviamo di fronte a un’ennesima sacca di
ambiguità. Da un lato, le streghe sono sopravvissute al rogo e alla
lapidazione e possono ora vivere isolate nel loro castello in un mondo
totalmente sgombro dal patriarcato e dai suoi mostri. Dall’altro lato,
l’isolamento — sofferto soprattutto da Constance che nelle scene finali
piange — è forse indice di una segregazione forzata. L’abbiamo detto prima:
in un certo senso è Constance l’eroina gotica del romanzo. Il fatto di essere
stata letteralmente seppellita viva con la sua bisognosa figlia surrogato non
può che portare Constance a un ulteriore smarrimento, un ulteriore
sbiadimento della propria personalità. La vita da recluse delle Blackwood
in fondo è un delirio psicotico di Merricat, è un’illusione, non una vera
liberazione. Un imprigionamento non può corrispondere ad una via
d’uscita. L’alternativa al mondo normale, che le Blackwood non possono
cambiare perché non hanno nessun potere al di fuori del loro giardino, non
è che una “favola sbagliata”, una favola andata nel modo storto.

La loro alienazione ormai è permanente e il nuovo nucleo familiare, in


mancanza di Julian, è una perversione assoluta del mito domestico. Il
finale può benissimo essere letto come una sfida: la sostituzione dell’amore
eterosessuale con la sorellanza (o l’amore omosessuale, benché incestuoso
ma stiamo lavoriamo solo sul piano simbolico, non letterale, visto che non è
mai esplicitato nel testo). Il matrimonio simbolico tra Merricat e Constance
è monogenere; gli uomini sono stati eliminati dal loro mondo ma questo
sradicamento dell’elemento maschile non implica necessariamente una
perfetta armonia, anzi richiama qualcosa di inquietante. Merricat infatti si
:
è sostituita al padre, raggiungendo il dominio domestico che il cugino
Charles non poteva avere, e la figura materna di Constance è diventata
ancora più succube e compiacente. Nel nuovo accordo della famiglia
Blackwood possiamo leggervi contemporaneamente la ribellione contro
l’oppressione patriarcale, oltre che, più radicalmente, il ripudio del
modello della famiglia nucleare eteronormativa e orientata all’educazione
dei figli (come fa notare Roberta Rubenstein) ma anche l’apice
dell’imprigionamento domestico. Anche prima del rovesciamento finale, la
famiglia Blackwood, costituisce un “ironico” nucleo familiare: una figura
maschile mentalmente debole e fisicamente dipendente, una figura
materna costretta a casa e una bambina che vive in un mondo fantastico
sostenuto dal pensiero magico.

Certo, è comunque altrettanto ironico il fatto che per tutto il romanzo ci


troviamo schierati dalla parte di avvelenatrici, piromani e dementi. È forse
questa la provocazione più grande del romanzo, farci capire che uccidere è
un solo atto violento, compiuto in un mondo in cui la violenza contro le
donne è sistemica e minaccia di erompere in qualsiasi momento. Il sentirsi
costantemente sotto minaccia e oppresse dalla società innesca rabbia o
paura, o entrambe. Shirley Jackson scriveva storie in cui dietro l’immagine
di casalinghe felici, ci sono fatica, frustrazione, senso di colpa e angoscia.
Nei suoi romanzi, privi di facili soluzioni, si materializza un glitch che rivela
i sentimenti oscuri insiti nella vita domestica di ogni donna. Nei suoi libri
le madri “cattive”, che cospirano con i padri per domare le loro figlie,
vengono uccise e le madri “buone”, che si dedicano alle figlie diventando
spesso agorafobiche, rimangono intrappolate per sempre nelle loro case,
schiave della loro progenie. Nella visione di Shirley Jackson, la
dissociazione e la follia, le fantasie di alienazione e regressione, la crudeltà
e il terrore che investono le donne, non sono mai nevrosi individuali e
personali. Al contrario: sono manifestazioni sensibili, simboli concreti che
descrivono il mondo angosciante in cui vivono tutte le donne. Così come il
true crime non insegna alle donne che gli assassini esistono (lo sanno già)
:
ma che gli assassini le odiano e mostra loro fino a che punto le odiano; allo
stesso modo l’horror non insegna che tutte le donne provano paura (lo
sanno già) ma che la loro paura è giustificata.

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