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Un viaggio, un’autrice, tre libri

Valeria
Parrella
Natalia Ceravolo

INCURSIONIexl
Valeria Parrella è nata a Torre del Greco nel 1974. Vive a Napoli. Per
minimum fax ha pubblicato le raccolte di racconti Mosca piú balena
(2003) e Per grazia ricevuta (2005); per Einaudi ha pubblicato i ro-
manzi Lo spazio bianco (2008), da cui Francesca Comencini ha tratto
l’omonimo film, Lettera di dimissioni (2011), Tempo di imparare (2013),
la raccolta di racconti Troppa importanza all’amore (2015), Enciclopedia
della donna. Aggiornamento (2017) e Almarina (2019); per Rizzoli ha
pubblicato Ma quale amore (2010). È autrice dei testi teatrali Il verdetto
(Bompiani 2007), Tre terzi (Einaudi 2009, insieme a Diego De Silva e
Antonio Pascale), Ciao maschio (Bompiani 2009) e Antigone (Einaudi
2012). Per Ricordi, in apertura della stagione sinfonica al Teatro San
Carlo, ha firmato nel 2011 il libretto Terra su musica di Luca France-
sconi. Ha inoltre curato la riedizione italiana de Il Fiume di Rumer
Godden (Bompiani 2012). Da anni si occupa della rubrica dei libri
di «Grazia» e collabora con «Repubblica». I suoi libri sono tradotti
in 11 lingue.

Incursioni exl
Inediti di approfondimento sul mondo della scrittura e dell’editoria
Numero 1
Un viaggio, un’autrice, tre libri. Valeria Parrella
Novembre 2021 © Exlibris20
Testi di Natalia Ceravolo

Progetto grafico di Carmine Picone

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Un viaggio, un’autrice, tre libri
Riuscireste a definire in poche parole il primo amore?
Quel tremore mai provato prima, il sudore ingestibile,
il cuore nello stomaco? Ecco appunto, no.
E, per me, questo è Mosca più balena, l’esordio narra-
tivo di Valeria Parrella, Premio Campiello opera prima nel
2003, edito da minimum fax.
Mosca più balena è stato anche il mio esordio qui,
su Exlibris20, la prima recensione su questo terreno poi
diventato casa: https://www.exlibris20.it/valeria-parrel-
la-e-la-mosca-balena/

Ma siccome a noi piace esagerare, quest’oggi non vi


parleremo di un libro, ma vi porteremo per mano in un
viaggio fatto di pagine e parole.
Valeria Parrella ha quel tipo di scrittura perfetta e bru-
tale, che lascia esattamente il segno previsto dall’inten-
zione della penna. In Mosca+Balena ci troviamo in una
Napoli un po’ vissuta e un po’ subita, che piove sulla te-
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sta dei personaggi in modo assai differente eppure con la
capacità di travolgere allo stesso identico modo. Abbia-
mo sei racconti con donne protagoniste e artefici, anche
quando si siedono per non vivere. Donne che decidono,
scelgono, osservano. Sono le donne a guardarci negli oc-
chi e a rendere feroce anche il caos colorato del vociare
che si avverte come sfondo.

“Non ho mai avuto una festa a sorpresa: credo di non


averne mai dato il tempo a nessuno. Per paura che passasse
inosservato qualcosa di importante per me, ho sempre annun-
ciato con largo anticipo i programmi dei festeggiamenti. E ho
festeggiato sempre, anche quando non avrei voluto; per la
paura che scomparire agli altri significasse scomparire”.
L’amarezza, che si trasforma spesso in guizzo ironico,
deriva dalla legge del compromesso che alla condotta
quotidiana impone le sue regole per la sopravvivenza.
“La depressione dà i suoi segnali di ritirata in questo modo,
ti lascia ritrovare i particolari: per quanto mi riguarda, se rie-
sco ad accorgermi di una foglia gialla, di un parassita nuovo,
allora il peggio è passato”.
Qui il territorio diviene uno spazio osservato dall’an-
golino disincantato di chi lo abita e ha messo, per andare
avanti o per non impazzire, il filtro dell’accettazione an-

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che quando il cambiamento è desiderato e, spesso, co-
struito passo dopo passo. Sempre partendo da quell’an-
golino disincantato.
Abbiamo due miracoli: l’assenza totale di giudizio (che
di questi tempi mi pare luce in fondo al tunnel). Chi scri-
ve consegna delle storie senza alzarsi su alcun altare e il
lettore ne segue il metodo, affascinato dal vivere più che
dall’esprimere una opinione da follower/haters.
L’altro miracolo del libro è la lingua, uno strano miscu-
glio di taglio colto o popolare, gergo e dialetto. L’effetto è
tutto da leggere.
Sempre mano nella mano per strada, in un percorso
questa a volta meno corale ma altrettanto penetrante, ci
troviamo con Tempo di imparare, Einaudi, 2013. La storia
è l’archetipo del tutto, il principio di tutte le altre storie: di

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una mamma e di un bambino.
Inizia con i turbamenti, le apprensioni, le fragilità che
un genitore deve affrontare già alla nascita di un figlio, ma
se le cose si complicano tutto abbandona il campo della
normale inesperienza e diviene ansia del reale. Questa
maternità è sofferente come la disabilità del piccolo Ar-
turo.
“Siamo una famiglia di disabili: è come i pellerossa, ne ba-
sta uno della tribù che prendono tutti gli stessi segni, io sono
disabile, la mamma di Arturo è disabile, i nonni sono disabi-
li, e anche il Botanico, vedi quel signore là che sta fumando
fuori dal balcone? È un nostro caro amico, conosce Arturo da
quando è nato, così, è disabile anche lui.”
Loro due, isolati. L’iscrizione a scuola fa esplodere il
già precario equilibrio e tutto diviene una lotta per diritti
e inclusione. Ogni conquista va custodita perché le scon-
fitte sono dietro l’angolo.
“Ci ho messo tempo per capire e ce ne vorrà per sempre.
Capire tu dove fossi, dietro quale lettera della parola disabilità
ti stessi nascondendo, con quale ti fossi armato per portare
avanti la tua vita, in un mondo che non ha proprio la forma
della promessa.”
La penna della scrittrice qui attinge dalla vita vera, la
sua e di suo figlio, e si fa megafono.
Impossibile non ascoltare. Impossibile non voler im-
parare.
Sempre donna, sempre con lo sguardo che spoglia da
pregiudizi e convinzioni. È Lei: Almarina, Einaudi 2019.
“Può una prigione rendere libero chi vi entra? Elisabetta
insegna matematica nel carcere minorile di Nisida. Ogni mat-
tina la sbarra si alza, la borsa finisce in un armadietto chiuso
a chiave insieme a tutti i pensieri e inizia un tempo sospeso,
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un’isola nell’isola dove le colpe possono finalmente sciogliersi
e sparire. Almarina è un’allieva nuova, ce la mette tutta ma i
conti non le tornano: in quell’aula, se alzi gli occhi vedi l’o-
rizzonte ma dalla porta non ti lasciano uscire. La libertà di
due solitudini raccontata da una voce calda, intima, politica,
capace di schiudere la testa e il cuore”.

Elisabetta è una professoressa, rimasta da poco vedo-


va, che vive di contrasti: entra da libera, volontariamente,
nel luogo principe di privazione della libertà. Bastano po-
che pagine, dense di intimità, per ritrovarci nell’essenza di
questa donna: la passione per la matematica, l’amore per
Antonio e il desiderio di un figlio che non è mai arrivato. Il
calvario delle adozioni mancate e il dolore che scaturisce
dalla realizzazione di quel sogno. Ma in questo buio si in-
sinua una crepa chiamata Almarina, una ragazza piccola
fatta di grandi dolori.
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Un rapporto destinato a crescere. La consueta scrittu-
ra precisa ed emotiva (che spesso noi emotive ci sentia-
mo dire che ci lasciamo coinvolgere troppo dalla storia
abbandonando lo stile e invece con Valeria diciamo un
grande tiè metaforico a tutti e ci godiamo le emozioni
senza timore).
“La strada per arrivare a Nisida è lunga e in salita, e te-
nere tutto assieme è faticoso, e fare tutto bene è impossibile. E
così nel quotidiano fare, avevo dimenticato sugli scalini della
casa antica, lì dove i ricordi restano in nostra assenza, l’amore
delle madri: senza merito, senza reciprocità e senza conquista”.
Buona strada, buona salita, buona conquista.

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