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Presentazione

«Si può vivere con poco, quasi


niente, considerando quel poco
quasi troppo.»

Quasi niente ha il sapore antico


delle storie narrate un tempo
davanti al focolare. Storie che
intrattenevano liberando sapienze
semplici ed essenziali, di cui oggi si
sente la mancanza. In quest’epoca
frenetica dominata dai miti del
successo, della vittoria a ogni costo
e dell’arricchimento, Corona e
Maieron portano un contributo
diverso e spiazzante. Parlano di
sconfitta, fragilità, desiderio, pace
interiore, lealtà, radici, silenzio,
senso del limite, amore, rievocando
personaggi leggendari come Anna,
Silvio, Menin, Tituta, Tacus,
Orlandin, Cecilia, Tin, il trio Pakai e
molti altri. Uomini e donne che non
hanno trovato spazio nei libri di
storia ma hanno saputo lasciare un
messaggio illuminante, che può
trasformare le nostre vite.
“Filosofastri” le cui minute sapienze
tramandano la memoria di chi vive
nelle piccole valli, dove non nevica
firmato e ci si può chiamare da una
costa all’altra.
Questo libro ha un precedente nella
voce. Nasce dall’incontro tra due
grandi amici che, in una
conversazione appassionata e
godibilissima, alternano
delicatamente storie, aneddoti,
riflessioni e citazioni regalandoci un
piccolo e prezioso gioiello. Una
filosofia minima e pratica che al
linguaggio gridato preferisce l’arte
di sussurrare, in cui l’etica del fare
ha sempre la meglio sull’estetica
dell’apparire. Una filosofia che
proviene da un passato rievocato
senza nostalgie. Un tempo in cui i
valori erano vissuti concretamente
non per moralismo ma perché
aiutavano a stare meglio.
Quasi niente è l’ultima traccia di un
mondo ben diverso da quello in cui
viviamo oggi. Un mondo duro,
feroce, ma che ha ancora molto da
insegnarci.

Mauro Corona è nato a Erto


(Pordenone) nel 1950. È autore di Il
volo della martora, Le voci del
bosco, Finché il cuculo canta, Nel
legno e nella pietra, Aspro e dolce,
L’ombra del bastone, Vajont: quelli
del dopo, I fantasmi di pietra, Cani,
camosci, cuculi (e un corvo), Storia
di Neve, Il canto delle manére, La
fine del mondo storto (premio
Bancarella 2011), La ballata della
donna ertana, Come sasso nella
corrente, Venti racconti allegri e
uno triste, Guida poco che devi
bere: manuale a uso dei giovani per
imparare a bere, La voce degli
uomini freddi (finalista premio
Campiello 2014), Una lacrima color
turchese, I misteri della montagna,
Favola in bianco e nero, La via del
sole e delle raccolte di fiabe Storie
del bosco antico e Torneranno le
quattro stagioni, editi da
Mondadori. Ha pubblicato anche La
casa dei sette ponti (Feltrinelli
2012) e Confessioni ultime
(Chiarelettere 2013).

Luigi Maieron è nato a Cercivento


(Udine) nel 1954. Dal nonno e dalla
madre ha ereditato la passione per
la musica, iniziando a suonare fin
da bambino nella sua Carnia. Ha
vinto tre edizioni del Festival del
canto friulano (1993, 1995, 2012) e
il premio Friùl (1997). Ha avviato
una collaborazione artistica con
Mauro Corona e Toni Capuozzo con
lo spettacolo Tre uomini di parola.
Nel 2002 ha pubblicato l’album Si
Vîf, prodotto da Massimo Bubola,
ottenendo un ottimo successo di
critica e collocandosi al secondo
posto al premio Tenco. Il suo album
più recente s’intitola Vino, tabacco
e cielo (2011). Su “la Repubblica”
Gianni Mura ha definito Maieron
“un albero che ha il dono della
parola”.
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© Chiarelettere editore srl


Soci: Gruppo editoriale Mauri
Spagnol S.p.A.
Lorenzo Fazio (direttore editoriale)
Sandro Parenzo
Guido Roberto Vitale (con Paolonia
Immobiliare S.p.A.)
Sede: corso Sempione 2, 20154
Milano

ISBN 978-88-6190-940-3

Prima edizione digitale: marzo 2017


Published by arrangement with
Susanna Zevi Agenzia Letteraria,
Milan

In copertina: illustrazione di
Giordano Poloni
Art director: Giacomo Callo
Graphic designer: Marina Pezzotta

Quest’opera è protetta dalla Legge


sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche
parziale, non autorizzata.
QUASI NIENTE
A Mario Rigoni Stern e
Carlo Sgorlon
Se tuto gnènt (è tutto niente).
Mario Rigoni Stern

Meglio m’era che mi fussi messo a


fare zolfanelli.
Michelangelo Buonarroti

Non v’è rimedio per la nascita e per


la morte salvo godersi l’intervallo.
Arthur Schopenhauer
È inutile dire per sempre

Ci troviamo di fronte al Col Nudo,


la punta più alta delle Prealpi
venete, in una giornata splendida e
malinconica di ottobre, con
l’improvvida idea di annodare i fili
delle nostre storie, del nostro
passato vissuto tra queste
montagne. L’impresa è tentare il
riassunto di un’esistenza. La storia
di Anna ci accompagna in questa
prima traversata.

M.C. Guarda il Col Nudo, Gigi. È in


ombra, le cose belle sono sempre in
ombra. Quella montagna mi ricorda
l’infanzia. Prima del Vajont i miei
genitori si separarono e noi tre
fratelli finimmo dai nonni. Ogni
mattina mi svegliavo a casa loro, mi
affacciavo alla finestra e vedevo ’sta
montagna e mi affascinava
fortemente l’idea di andar su. Non
conoscevo ancora la parola scalare
ma ogni volta mettevo fuori il naso
e osservavo rapito quella punta
meravigliosa.
Cosa c’era lassù? La luce del
primo mattino, il vuoto, il cielo. Da
bambino il mistero ti seduce, ti
attraversa come qualcosa di fisico. È
presente dappertutto, lo senti, ti
spaventa ma lo vai cercando.
Trent’anni dopo quella montagna
l’ho finalmente scalata con amici
che oggi non ci sono più, sono
arrivato in cima ma la sensazione
dell’infanzia è ancora viva dentro di
me. Ecco la differenza tra sogno e
desiderio, infanzia e vita adulta.
Se guardo indietro capisco che la
vita non può essere vissuta come un
programma, non è una carriera, non
risponde a un modello che ci siamo
costruiti o che ci hanno tramandato
e non è neppure una sfida. È
un’avventura fatta di incontri che ti
possono trasformare. Sempre che
riusciamo a vedere gli altri non
come degli avversari da affrontare e
da battere. Queste cose le ho capite
molto tardi e devo riconoscere che
mi sono pentito del perenne
combattimento che nel mio caso è
stato anche feroce. Forse la vera
felicità consiste nel non avere
desideri, come ha detto qualcuno.
Oggi sono quasi arrivato a questo
ma ci ho impiegato più di
sessant’anni a capirlo.
Avere sogni è importante,
immaginare cose impossibili: vivere
in un altro mondo, avere le ali,
librarsi nel cielo tra le montagne.
Andare sott’acqua con i pesci, starci
dei mesi, il sogno è quella fantasia
irrealizzabile che scalda l’anima. È
questa la sensazione che ricordo
della mia infanzia, affacciato alla
finestra e rapito dalla vetta del Col
Nudo. I desideri invece ci
raffreddano e ci spengono. Sono
traguardi da superare e bottini da
incassare, per un dovere ereditario
tramandato da tempi antichissimi
da troppi uomini che alla fine si
sono ritrovati con un pugno di terra
in mano e qualche quintale sulla
cassa. Ecco la vita dei desideri, un
pugno di terra e un’esistenza di
perenne combattimento e
insoddisfazione.
Oggi ho chiuso con questa storia,
spero per sempre, e ho scoperto ad
esempio il valore della
vulnerabilità, che io ho, che ho
messo nei libri ma nascosto bene
nella vita. Lo sentivo dentro e gli ho
dato la voce dei personaggi
femminili dei miei romanzi. Il mio
rapporto personale con le donne è
stato molto conflittuale perché ho
capito fin da piccolo che la donna è
più forte del maschio. Non essendo
stato educato ad accettarlo, per
colpa dell’eredità atavica e
maschilista di queste valli misogine
e spietate, trovandomi di fronte una
forza che poteva sconfiggermi mi
sono costruito una maschera di
ferro.
L’uomo è il cervo che si picchia
con i maschi per la femmina, non
viceversa. Il cervo, il capriolo si
spaccano la pancia a cornate e a
testate, se la tagliano. Anche i galli
forcelli, cedroni eccetera. Ma
provando a vedere la vita con lealtà
devo schierarmi dalla parte della
donna. In queste valli sono stato
uno dei primi a dire che era uguale
al maschio, forse meglio. Nei libri
ho dato alla donna il valore che ha e
che merita, soprattutto a quelle
donne che sono state sconfitte,
picchiate, massacrate e alla fine ne
sono uscite con dignità. Come mia
mamma, tre volte in coma sotto le
sprangate di mio padre. La dignità
sublime del silenzio, della
determinazione, di chi riesce
sempre a guardare avanti.
Voglio ricordare la storia di
Anna, che per me rappresenta
proprio il modello che ho avversato
nella vita ma ho portato nelle storie
dei miei libri sempre restituendogli
grandezza. Anna, come tante donne
di montagna, è forte e tenace.
Conosce la durezza del vivere ma è
abituata a sopportarla, non le fa
paura. È stata educata a obbedire,
come stabilito da antiche tradizioni
misogine nei paesi di alta quota e
non solo. Oggi molto è cambiato, c’è
più libertà. Eppure le storie e le
memorie di un tempo restano e
chiedono di essere tramandate.
Almeno per una giustizia di ricordo.
Mio nonno in casa esigeva il voi
perché, diceva, i pantaloni li porto
io. La consegna del silenzio non
lasciava scampo, era così e basta,
altrimenti erano legnate. Mia
mamma tutte e tre le volte è finita
in coma per una parola di troppo.
Salva per miracolo. Mio padre
picchiava duro, usava oggetti,
manici da scure, tondini. È per
questo che a parlare d’amore faccio
fatica, non me ne intendo. A casa
nostra l’amore non entrava. Più
facile è ricordarsi storie e
raccontarle.
Quella di Anna è una storia
quietamente violenta – un tempo
vigeva l’imposizione a tacere –
eppure per me rappresenta una
grande storia di intelligenza e
sensibilità. Anna poteva ribellarsi al
marito. Tutti possiamo ribellarci. Se
lo avesse fatto forse sarebbe finita
in libri più ufficiali e autorevoli di
questo, libri di storia. È stata paura
la sua? Credo di no, non solo. Anna,
obbedendo, esprime un gesto di
liberazione totale, per questo la sua
vicenda è sublime. Non lo è certo
per chi l’ha vissuta, non per la
cronaca, non per il marito Nel, che
avrà detto: «Ecco, finalmente se n’è
andata!». È sublime per chi la legge.
Sublime nella sua delicatezza e
anche nella sua ferocia. Mi ricorda
la storia di Neve, Neve Corona
Menin, la bambina che non
piangeva mai, nata nel tempo
cattivo dell’inverno del 1919 con la
maledizione addosso di non poter
amare: amando, infatti, il suo corpo
si sarebbe sciolto come neve al sole.
È forse una delle storie cui sono più
legato, quella di una ragazza unica e
speciale, che ho raccontato in Storia
di Neve.
Anna non insulta, non sbraita,
non ha fatto cause. Nella sua
obbedienza io vedo un’espressione
di liberazione. Vedo la fine di un
amore. Il silenzio di Anna fa più
rumore di uno sparo. Chi legge la
sua storia se lo sente addosso,
implacabile e brutale; la sua
memoria rimane una lezione
sull’amore. Ma è inutile dire per
sempre.

L.M. Anna è protagonista di una


storia di famiglia che mi raccontò
mia nonna, me l’ha ripetuta così
tante volte che l’ho fatta vivere
anche in una canzone, La neve di
Anna. De Conti Anna fu Angelo era
nata a Cercivento il 22 gennaio
1880. Quel giorno era caduto più di
mezzo metro di neve. I fiocchi
erano cominciati con le doglie e
avevano smesso in serata, quando
la piccola aveva finito di piangere.
Era un pianto leggero il suo, quasi
un lamento. Le donne la
rincuoravano con leggere carezze
senza ottenere però grandi risultati.
Forse la bambina capiva il
linguaggio della neve, forse quel
giorno le aveva predetto il futuro.
Poi tutto sarebbe stato cancellato
dalla memoria, Anna sarebbe
cresciuta, avrebbe attraversato la
vita fino ad arrivare
all’appuntamento con la sua neve,
che l’aspettava in una terra foresta,
in un bosco straniero.
Nonna Augusta mi diceva che
Anna era morta per amore. Me lo
diceva sottovoce, accusando Nel,
marito e padre dei suoi figli, per
quello che era capitato. Un paesano
che lavorava con lui, poco prima di
Natale, aveva informato Anna che
una donna vie tal forest se la
intendeva con Nel. Quell’anno
infatti il marito di Anna non era
tornato. Era rimasto in Austria,
dove lavorava come boscaiolo
stagionale. Partiva ai primi di
marzo, anticipando la primavera, e
rientrava a dicembre. Tornava e
riformava la famiglia, ma solo per
pochi mesi, prima di una nuova
partenza. Gli affetti così si
arrendevano alla povertà, alla
distanza e ai confini. L’emigrazione
significava un pezzo di pane ma al
prezzo del distacco. Un pane amaro,
duro da masticare.
Sia chi restava sia chi partiva
imparava il linguaggio della
solitudine. I figli crescevano orfani,
alzavano lo sguardo oltre i monti in
cerca di un padre che conoscevano a
malapena. Poi, appena l’età lo
permetteva, lo avrebbero raggiunto
condividendo lo stesso destino. Non
erano tempi facili per nessuno.
Anna, dopo aver saputo dell’altra
donna, non ci mise molto a decidere
di partire. Se una cosa doveva
essere fatta, andava fatta e basta.
Neppure il Padreterno sarebbe
riuscito a fermarla.
Era il 3 gennaio 1913. Anna partì
con la neve e attraversò il passo di
Monte Croce Carnico. La nonna
conservava nel comò lo scialle che
l’aveva coperta in quel viaggio.
Parlava con affetto di lei, con tutta
la pietà che il suo cuore tributava a
chi aveva sofferto. Una volta mi
confidò che non avrebbe mai
perdonato a Nel l’accaduto. Era
proprio quello il motivo dell’astio
nei confronti del suocero. Diceva
che quel viaggio aveva piegato la
salute di quella povera donna.
Tanta strada per toccare con
mano, per capire se erano vere le
parole di quell’uomo giunto a
raccontarle una storia che lei non
avrebbe potuto sopportare. Infatti
lo erano. Anna arrivò a Hermagor,
dove il marito lavorava. Chiese della
sua abitazione e le fu indicata. Fu
così che lo vide con l’altra. Nel non
se l’aspettava e non trovò di meglio
che rispedirla a casa con un ordine
secco: «Ce fastu achì, file a cjase!».
Anna ci aveva messo otto ore per
arrivare e lui le ordinava di tornare
indietro, subito, all’istante. Non
considerava la stanchezza, né la
salute fragile, né il buio imminente,
né il freddo, né il rischio di neve.
Non le lasciava il tempo di parlare.
Puniva la moglie per essere andata
fin là, per avergli puntato il dito, per
aver scoperto quello che non
doveva, per averglielo rinfacciato in
silenzio. Le intimava di caricarsi
sulle spalle amore, dolore, fatica e
tornarsene da dove era venuta. La
sua autorità invertiva i ruoli e
l’aggrediva, le addossava una colpa
che Anna non aveva.
Il marito chiudeva così quella
vicenda che arrivava anche dalla
solitudine a cui era costretto sia chi
restava, sia chi emigrava. Anna era
donna e doveva capire. Lui era
maschio e non aveva resistito. Da
troppo era costretto a fare i conti
con i suoi desideri di uomo forte,
impetuoso e solo sotto un cielo
straniero.
M.C. Me lo immagino il volto di
Nel, duro, spocchioso, arrogante.
Un uomo di montagna abituato al
comando. E purtroppo se penso alla
storia di Anna non posso che
riconoscermi in lui. Io sono quello.
Io sono Nel. Non lo disprezzo, la
mia vita l’ho recitata su quegli
schemi, solo adesso sto
cominciando un po’ a liberarmene.
Sono cresciuto con l’imperativo
della forza, dovevo essere duro,
solido, resistente alla fatica e alle
donne. Che è una bella fatica.
Cedere significava essere un
perdente. Sentivo di dover
dimostrare la padronanza in ogni
situazione, nessuno spazio per le
gentilezze, quei moti naturali
dell’animo che raccontano la nostra
fragilità e la debolezza che ci
portiamo dentro. E forse anche un
timido amore. Anna però non posso
immaginarla, ecco perché è così
potente. Se la sua storia fosse un
film, Anna la vedo in una figura
quasi rarefatta, eterea.
Rappresentarla sarebbe di una
difficoltà ardua da superare. A una
donna così non puoi dare un volto.
La riprenderei di spalle che
s’allontana, per restituirle tutto il
suo carattere nobile. Connotarla,
anche con il corpo di una bellissima
attrice, vorrebbe dire sminuirla,
renderla come tante. Dovrà
mostrarsi come un’ombra.
Un’ombra di grandezza.
Che legnata ha dato al marito,
che lezione! L’ha steso, alla fine
anche un misogino incallito vede il
marito di Anna con ripulsa. Il suo
comportamento riesce a migliorare
anche me, ecco il valore della
letteratura o dell’arte in generale. Io
mi sono schierato subito con Anna
e quella storia mi ha educato
meglio.

L.M. La parabola di Anna è come


una nuvola che ha attraversato la
mia famiglia. A me ha insegnato che
prima di ogni altra cosa è
fondamentale attrezzarsi per evitare
tutti quei sentimenti negativi,
invidie, rancori, quelle meccaniche
che in qualche modo ci portano a
stringerci in noi stessi e a chiuderci.
Uno dei segreti per respirare
meglio è non accumulare negatività
nel nostro cuore. Per molti aspetti
c’era una durezza nella gente che
viveva tra queste montagne, però
c’era anche un senso misericordioso
della vita che inevitabilmente
portava le persone a capire, ad
accettare, a superare e a perdonare.
Oggi sembra impossibile perdonare,
perché una società come quella in
cui viviamo finisce inevitabilmente
per allargare il senso dell’io e anche
un piccolo torto diventa
insuperabile. Invece il viaggio di
ritorno di Anna è triste ma non
rabbioso.
Anna non trama vendette, non
odia. In lei c’è questa cognizione del
dolore nella consapevolezza che fa
parte della vita. Sono sicuro che se
Nel le avesse detto: «Vieni, fermati
un momento, perdonami», lei lo
avrebbe perdonato. Ma il marito
non era pronto ad ammettere
mancanze. Anna doveva stare al suo
posto e non fargli i conti in tasca. Si
era presentata come un terremoto.
Lui se l’era trovata davanti come
un’accusa e non aveva avuto scelta,
si era affidato all’autorità e aveva
rimesso ogni cosa al suo posto.
Anna capiva, conosceva quelle
regole feroci ed era pronta anche ad
accettarle. Non era lì per accusarlo,
voleva mostrargli il suo dolore.
A cjase! Nel le ordinava di
tornarsene subito a casa e lei lo
faceva, ma fin dove sarebbe
arrivata? Era stanca, aveva
camminato per tutto il giorno. Il
buio era vicino, poche ore e sarebbe
calato. Prima di ripartire, Anna si
prese solo il tempo di sfilarsi la
fede. La fece cadere sopra il letto e
se ne andò. Forse, pensava, il
rimorso avrebbe parlato a
quell’uomo di pietra. Forse lui
l’avrebbe seguita, le avrebbe detto
che il loro legame era rimasto in
Carnia. Aspettava solo di ritornare a
casa. Le avrebbe detto tutto questo
e altro. Presto però il paese
austriaco già non si vedeva più.
Anna era sola. Allungò il passo
perché doveva avvicinarsi alla sua
terra. Là i sentieri non le avrebbero
fatto paura.
La sera arrivò prima del previsto
e Anna decise di fermarsi. Era stata
previdente, aveva portato con sé
qualche indumento e una coperta.
Si sdraiò sotto a un abete. Il cuore
le faceva male e le suggeriva di
restare così, di non alzarsi, di
lasciare che la neve le cucisse
addosso un nuovo abito da sposa.
Le lacrime scesero presto a
raccontare alla neve quello che non
avrebbe saputo spiegare a parole.
Raccontavano il suo dolore, lo
smarrimento per essere rimasta
sola. Raccontavano di una
emigrazione che aveva fatto a
brandelli il loro amore. La neve
ascoltava e le suggeriva di dormire.
Il giorno nuovo allevia sempre un
poco i tormenti del cuore.
Il bosco le aveva fatto sempre
paura di notte ma quella volta
pareva proteggerla. Chissà se il suo
uomo la stava cercando. Forse era
vicino, forse le si sarebbe sdraiato
accanto per ritrovarsi e dimenticare.
Ma era solo la sua immaginazione,
il suo cuore stanco che si
aggrappava a un ultimo sogno. Era
freddo e i vestiti non bastavano più.
Anna raccolse del fogliame per
meglio coprirsi. Le avrebbe fatto da
materasso e coperta, era un buon
modo per proteggersi dal freddo.
Ogni necessità aveva a poco a poco
escogitato naturali metodi di
sopravvivenza, bastava affidarsi alla
natura, bastava ascoltare e la natura
avrebbe offerto i suoi ripari.
L’indomani sarebbe partita molto
presto, così pensava.
La mattina, quando spuntò il
giorno, Anna si alzò. Il bosco era
completamente bianco ma il cielo
era sereno. Riprese il viaggio. Gli
alberi sembravano giganti che
trattenevano il respiro. La neve sui
rami si scioglieva piano ai raggi del
sole. Chissà cosa le girava per la
testa, cosa pensava. Quello che le si
prospettava davanti era un
abbandono che andava a intaccare
anche la sopravvivenza. Chi avrebbe
pensato a lei e ai bambini se Nel
non fosse tornato? Se le forze
l’avessero sostenuta ce l’avrebbe
fatta anche da sola, ma era sempre
più debole, la tosse che da mesi la
perseguitava non aveva una voce
amichevole.
In lontananza vedeva già i tetti
dei primi paesi, parevano ali
bianche pronte a spiccare il volo.
Anna era ancora giovane ma il peso
dei suoi pochi anni le vociava
dentro come il brusio di un enorme
nido d’api. Il suo compito ora era
salvare la famiglia, tutelare i figli,
mio nonno Pio e suo fratello Luigi.
Lo fece in silenzio, non servivano
parole. Lei non era solo moglie, era
madre. Tornava a casa, i piccoli
l’aspettavano. Bisognava lasciare
andare i cattivi pensieri, le
malinconie, bisognava ricominciare.
Bisognava crederci, andare avanti.
Forse qualcuno da lassù avrebbe
pensato anche a lei.
Anna non sopravvivrà che pochi
mesi a quel viaggio. Me la
immagino anch’io di spalle, china,
la testa così bassa che i suoi
pensieri parevano toccare la neve.

M.C. È una storia straziante, di


poesia totale. Penso che la maggior
capacità di elaborare dolore sia
femminile. Il maschio è fragile,
geloso, insicuro, possessivo. Non
abbiamo il coraggio di dirlo, causa
un antico retaggio che ha stabilito
che l’uomo ha sempre ragione. Non
è vero. Il maschio scatena la sua
violenza proprio quando ha la
consapevolezza di essere inferiore
rispetto alla donna.
L’uomo deve sempre ostentare,
deve avere una sua virilità da
mostrare altrimenti si reputa un
fallito. Quando questa virilità viene
in qualche modo smascherata o non
ritenuta all’altezza di quello che i
retaggi hanno tramandato, ecco che
si sente inferiore e lì basta una
risata anche bonaria di chiunque
per scatenare una tragedia. Perché
non ci hanno insegnato a perdere.
Perdere, risuscitare e attraverso le
sconfitte migliorarsi. Invece con le
sconfitte ci abbrutiamo e ci
incattiviamo.
La sconfitta è istruttiva,
formativa, ma se chi la subisce non
è stato educato a sopportarla,
accettarla, viverla come lezione,
allora si trasforma in un torto e può
innescare una reazione vendicativa.
La donna è sempre disposta ad
accogliere. La donna è sempre
pronta. La storia di Anna è una
magnifica conferma letteraria di
tutto questo. Anna che parte per
cercare il suo amore. Glielo avevano
insegnato. Forse l’istinto suo
sarebbe stato un altro, ma fin da
piccola le avevano insegnato che
comandava il maschio. Se fosse
stata una donna di oggi l’avrebbe
trascinato in tribunale o avrebbe
mandato dei killer a risolvere
l’affronto, invece Anna è andata lì
perché lo amava e sentiva il dovere
di andarlo a cercare. Ha voluto
verità con la verifica. Di fronte alla
realtà, senza scenate, senza giudici,
avvocati né divorzi, se n’è andata.
Il silenzio non è la cosa più
giusta ma ha sempre la meglio sulla
forza. Tu mi hai tradito e me la
paghi. Un uomo farebbe così.
Invece lei ha taciuto, ha lasciato
cadere la fede e se n’è andata. Di
sicuro la sua anima era devastata e
quella scena ha una grandiosità che
rasenta una rappresentazione della
Madonna, sia dal lato etico sia da
quello estetico. C’è un’etica nei
comportamenti ma anche
un’estetica. Quella scena mi fa
commuovere, è maestosa e terribile,
meravigliosa, e mi trasmette un
insegnamento, una morale.
L’esistenza è un imparare continuo
soprattutto dagli altri, da chi ha
avuto legnate e da chi ha avuto
forse qualche successo ma è finito
male.
Un vecchio bracconiere mi
raccontò di uno stupro sulle rive del
Vajont. Mentre la donna era
impegnata a lavare i panni, un
uomo, afferrandola da dietro, le
puntò il coltello alla gola e
camuffandosi la voce le disse: «Non
voltarti finché non sarò scomparso,
altrimenti ti faccio fuori». Lei lo
riconobbe, l’acqua faceva da
specchio. Si vendicò spaccandogli la
testa con un palo.
Nelle comunità di montagna
succedeva spesso e alle donne era
imposto il silenzio. Tutto si chetava
lì. Mia mamma è stata una donna
che ha subito angherie e botte da un
marito che era molto violento. È
riuscita comunque a piangere e
sorridere. Io credo di avere
ereditato da lei la capacità di
immalinconirmi ma nello stesso
tempo di riuscire sempre a
sorridere anche un po’. Mio padre
era una tenebra, cupo, guardava con
gli occhi di traverso, fulminanti,
spietati. Se non aveva l’ultima
parola lanciava il piatto o il bastone
o quello che capitava a tiro. Una
volta anche il coltello, che mi aprì
uno squarcio nella mano. Questa è
la memoria che ho.
Ovviamente c’erano anche
coppie felicissime che si amavano.
Non a casa mia. «La bontà o
l’amore – disse Borges – non
bastano, ci vuole intelligenza»,
altrimenti puoi fare disastri. Se non
sei educato all’intelligenza diventi
timoroso e possessivo. Mio padre ci
ha massacrati di botte. Era il suo
carattere, la sua natura violenta e
tragica. Un po’ ci voleva bene, ma
non ebbe in dono intelligenza. Qui
non m’interessa fare un bel
discorso sulle donne. Fossi Aldo
Cazzullo o Bruno Vespa lo farei, ma
non ho il loro talento, ahimè!
Voglio soffermarmi sul lato etico ed
estetico del comportamento
femminile che in molti casi rasenta
la perfezione.
Oggi abbiamo sempre più
bisogno di fortuna nella vita,
dobbiamo sperare che le cose ci
vadano un po’ per il verso giusto.
Vorremmo rimuovere il dolore, la
possibilità del dolore, non siamo
capaci di sopportarlo. Come se non
fosse parte della vita. «A noi non
capiterà mai» diciamo. Magari in
fondo siamo buoni, gentili,
amorevoli, ma senza intelligenza
basta che qualcosa giri storto e
siamo devastati. Dobbiamo sperare
di star bene per tenerci saldi in
piedi, se ci capita qualcosa non
siamo in grado di controllarci, di
guardare avanti, di pacificare questa
onnipotenza dell’io che pensa che
tutto gli sia dovuto.
La storia di Anna mostra come si
può sopportare un dolore con stoica
eleganza. È questo che mi fa
pensare. Vedo scrittori, grandi
artisti, persone di successo che se
gli accade qualcosa di grave non
reggono, crollano. Allora tutto quel
talento, quella genialità, a cosa
servono per l’arte più importante
che è sopravvivere? Non servono a
nulla. La religione cristiana è
l’unica in cui degli uomini fanno
santi altri uomini. Santo: che cosa
vuol dire? Che si eleva al di sopra di
tutti gli altri. È irraggiungibile, non
umano, dunque a che serve
l’esempio della sua vita? Dobbiamo
riportare i santi sulla terra, tra noi,
fare in modo che siano persone a
portata di mano perché così
possiamo imitarle.
Ogni volta che nella storia
abbiamo assistito a sconvolgimenti,
disgrazie, situazioni tremende e
tragiche, la donna è stata sempre
capace di uscirne non lasciando
macerie bensì aiutando. La lotta
partigiana, per esempio. Chi
sosteneva i combattenti? Maria
Plozner Mentil, una donna
fantastica. È morta cento anni fa,
nel febbraio del 1916. Durante la
Prima guerra portava le granate ai
soldati con la gerla, si procurava il
cibo per loro. Sempre le donne.
Avevano la capacità di agire
nell’ombra, in silenzio, nelle
retrovie. Erano meridiane del
tempo, davano ore del loro impegno
senza clamore né rintocchi di gloria.
Per me la dote di questa presenza
nel silenzio è sublime. Non hai
bisogno di essere glorificato. Stare
muti nell’ombra, con la coda
dell’occhio osservare e capire
quando è il momento di esserci,
quando c’è bisogno di te. Ogni volta
in queste situazioni la donna c’era,
nella guerra, nella vita, nella
tragedia del Vajont.

L.M. Erano abituate a pretendere


davvero molto da loro stesse, a
essere pazienti e tenaci, a vincere le
battaglie senza azioni grandiose né
celebrazioni. Ciò che doveva essere
fatto andava fatto e basta. Si
muovevano con cautela, attente ai
segni che la vita lasciava e pronte a
tutto.
La vita un tempo seguiva uno
schema al femminile. Alle donne
toccava il ruolo di mogli, madri,
amanti, infermiere e lavoratrici
senza pretese. Anna è stata
protagonista di un’altra impresa al
femminile, come i viaggi durante la
guerra. C’erano donne che
scendevano a piedi fino alla bassa
friulana in cerca di provviste. C’era
il rischio di incappare in qualche
azione militare, di subire una
requisizione delle merci o perfino
un abuso. Ogni discesa era
un’avventura e la vita le premiava
dando loro ogni volta un po’ di forza
in più.
Sono le donne che trasmettono
un’etica nuova fondata sul perdono
e consapevole della precarietà della
vita. Sono le donne a vincere la
sfida con il rancore. Il rancore fa
sempre un po’ di fatica a dialogare
con il perdono. Si aggrappa alle sue
ragioni e non cede volentieri agli
inviti di pace. È ribelle, cupo, pronto
a chiudersi e a battersi. Mantiene le
sue posizioni severe e approfitta di
ogni occasione per sferrare i suoi
biechi colpi. Spesso è lì perché
qualche ingiustizia ce l’ha lasciato,
come potrebbe essere il tradimento
subito da Anna, o altre ferite. Il
rancore resiste, cresce e spesso non
trova il sentiero per andarsene.
Aspetta emozioni buone, capaci di
liberarlo, di mostrargli quanta luce
c’è in questa impresa.
C’è sempre tempo per dare il
bene e l’affetto che ci siamo tenuti
dentro. La prospettiva cambia
giorno per giorno, chiarisce il senso
della vita con l’occhio della
distanza, che guarda sempre
all’insieme e non si ferma a un
punto solo. La rivalsa non è
importante, il costo del rancore è
sempre troppo alto.
L’arte di vivere

Bisogna creare spazio. Dentro di


noi. Solo così possiamo produrre
un cambiamento. I contadini
ancora oggi alternano le colture, un
anno piantano granoturco, l’anno
dopo girasole, il successivo orzo,
poi il quarto anno lasciano riposare
la terra. Così la preparano, creano
lo spazio per il cambiamento. In
questo modo la terra è fertile, il
raccolto più generoso. Oggi il sole
sembra che aiuti i ricordi a venir
fuori più limpidi.

M.C. Viviamo dentro schemi rigidi


di comportamenti che ci fanno
soffrire, creano ansie, stress,
attacchi di panico, malesseri
incomprensibili. I nostri vecchi
erano rimasti ai tempi buoni. Tutti i
malanni dell’era moderna sono
generati da trappole che ci vengono
imposte e che in qualche modo
accettiamo di assecondare. La
trappola dell’amore, la trappola del
desiderio, della ricchezza, del
successo. In pratica la trappola
dell’apparire: se ci vengono a
mancare queste cose cadiamo
annientati. Costruiamo troppe
sicurezze su palafitte e sabbie
mobili. Diventiamo deboli e
vulnerabili perché non abbiamo
messo in conto la sconfitta, il
fallimento, il senso di provvisorietà
della vita. C’è sempre questa idea,
cioè che bisogna vincere e se non
vinci sei finito. La sconfitta è
inaccettabile. Ma come nasce l’idea
del fallimento? Tutte le parole del
globo sono create dall’essere umano
e hanno una radice profonda. Se le
analizzi e le liberi dall’uso comune
che ne facciamo, dalle incrostazioni
della vita di ogni giorno, ecco che ci
raccontano come siamo. E come
siamo diventati.
Il fallimento. Anzitutto alla base
di questa parola ci sono le
aspettative. Ci facciamo delle
aspettative rispetto alla nostra vita,
alle nostre azioni, e molto spesso,
anzi quasi sempre, queste
purtroppo non arrivano da noi ma ci
vengono imposte dall’esterno. La
nostra condizione di esseri umani
non è improntata all’azione ma alla
reazione. Viviamo così, ci
costruiamo così. Ecco le trappole.
Da qui nascono il risentimento,
l’arroganza, l’istinto di vendetta. Io
sono così per reazione a modelli che
ho ricevuto da giovane e che ho
fatto miei perché li credevo giusti.
Siamo diventati tutti una forza
esausta, irrazionale e incosciente;
nessuno riesce più ad affermare la
propria differenza, la propria
specificità. Da qui, credo, arriva il
fatto che stiamo male.
In realtà dobbiamo capire che
nessuno è un fallito. Uno nasce,
cresce e muore con quello che gli
capita. C’è chi ha la vita più lunga,
chi più corta, chi purtroppo
l’abbandona appena generato. La
vita è il romanzo di ognuno di noi,
che si muove tra i due estremi della
nascita e della morte. Il fallimento,
in tutto questo, io ho imparato a
chiamarlo «l’accadimento
esistenziale». Non esiste il
fallimento. Esiste la vita, e la vita
non ha fallimenti. Se non vogliamo
ammettere che nascere è un
fallimento.
In base al giudizio di altri io
posso essere definito un fallito. Ma
la vita ha una data di inizio e di fine,
e in mezzo quello che capita, diceva
Pessoa. È il cinismo degli altri che
la colloca nel fallimento. Io, e
questo ho capito che può valere per
tutti, se imparo che si può vivere
non di sola reazione ma tentando di
far venir fuori ciò che siamo
veramente; se ho la forza di fare
questo, ecco che posso ribaltare la
condanna del fallimento. Pensa le
sconfitte e i fallimenti quanto bene
fanno all’umanità. Proviamo a
rovesciare questa idea, non solo
come provocazione ma proprio
come schema mentale che può
attivarsi quando vengo annientato
da una sconfitta. Vediamo il mio
caso. Sono un uomo molto
acuminato, arrogante, anche
maleducato, quindi mi sono fatto
un sacco di nemici. Sono stato
finalista al Campiello, uno dei più
prestigiosi premi letterari italiani.
Almeno qualche secolo fa lo era. Ci
tenevo molto a vincerlo perché per
un ertano, per uno che viene dai
boschi e dalla miseria, portare il
Campiello al suo paese era una
forma di riscatto da una vita di
merda. Ecco le aspettative. E mi
avevano quasi illuso che l’avrei
vinto.
Non l’ho vinto. Sono rimasto
male. Poi ho pensato: «Quanta
gente ho fatto star bene con il mio
fallimento!». Così ho visto il mio
fallimento come una bella vittoria a
favore di altri. Prova a pensarci, mi
sono detto. Tutti gli invidiosi, i
malcontenti, coloro che imputano
agli altri i loro fallimenti avranno
gongolato e brindato perché ho
perso. La mia sconfitta ha fatto
felici altre persone. Allora, dico,
siate sconfitti perché farete stare
bene un sacco di gente. Perdete,
siate perdenti e farete del bene
all’umanità. Non chiamatele più
sconfitte né fallimenti ma opere di
carità.
La Rochefoucauld ha scritto una
frase azzeccata: «Nelle disgrazie –
io dico nella sfiga – dei nostri
migliori amici c’è sempre qualcosa
che non ci dispiace affatto». I nostri
fallimenti arricchiscono gli altri, li
fanno stare meglio, quindi bisogna
imparare a perdere, a essere
sconfitti. Anzi, obbligarci a perdere.
Ecco lo schema mentale che
possiamo attivare se nella nostra
vita siamo annientati da una
sconfitta. Poi, certo, ognuno prova a
fare bene le cose, ma quello che
ama veramente e non quello che è
stabilito dalle aspettative e dai
desideri che ci arrivano dall’esterno.
Non parlo solo di chi vive in città,
anche qui tra le nostre montagne
avviene lo stesso meccanismo. Hai
mai visto un libro di sconfitte sulle
scalate? Nessun alpinista, e ne
conosco a centinaia, ha scritto delle
sue sconfitte, sono tutti arrivati in
cima: neve, barbe incrostate di
ghiaccio, assideramenti, fatiche,
piedi congelati ma alla fine ognuno
ce l’ha fatta. Per questo mi
piacerebbe leggere un libro di
scalate con il titolo: Non sono
arrivato in cima. Non ce l’ho fatta!
È solo attraverso fallimenti e
sconfitte che s’impara a vivere, che
si cresce davvero. Al mio paese
dicono: «Quando l’acqua tocca il
culo s’impara a nuotare», altrimenti
anneghi. Ho imparato da vecchio a
non vantarmi di nulla, neanche
delle cime scalate. Oggi sento di
essere stato un esibizionista ma
leale. Questa parola per me è
fondamentale: dobbiamo essere
leali, pur con i nostri mille difetti.
Mi gratifica la certezza di non aver
perso molto tempo nella vita.
Ovviamente qui sta anche un
rimorso, perché ho capito che per
far felice te stesso devi far star male
gli altri. Siate leali, non
raccontatevela. Se tu persegui non
dico la felicità, che è una parolona
abusata, ma la tranquillità, la
contentezza, qualcun altro starà
male per questo. Da buon egoista
ma uomo leale so che esistono
persone eccezionali che si
sacrificano per gli altri e possono
essere uno straordinario esempio
nella società; poi c’è chi scrive il
romanzo della vita a modo suo
perché sa che ha un’occasione sola,
non c’è una ristampa: ecco l’egoista.
Un egoista leale sa ammettere che
perseguendo il proprio benessere
provoca malessere agli altri. Sei sul
divano che leggi un libro, la stufa
accesa, un bicchiere di vino e ti
arriva una telefonata di amici che ti
invitano a cena. Se rispondi di no
perché stai bene dove sei in quel
momento, ecco che gli altri
metteranno il muso. La persona
leale non è tollerata.
«Non me ne frega niente di
venire a cena perché sto bene qui!»
dico. E gli altri si sentono offesi.
Solo un vero amico può capire: «Sta
bene lì, lo lascio stare». Il tuo star
bene, cercare una gioia, una
contentezza, è direttamente
proporzionale al disappunto che
crei negli altri. Hai una figlia, le
vuoi bene, l’hai creata, educata, lei
si sposa e va a vivere altrove,
lontano da te, per tentare la sua
felicità lei ti crea un dolore. Se è
leale va avanti lo stesso, vive la sua
vita consapevole di questo
meccanismo. Altrimenti si arresta,
non vuole farti danno, non perché
sia eroica, forse solo perché non ha
coraggio. O forse perché ti vuol
bene.
Bisogna avere il coraggio di
essere leali con se stessi e di
conseguenza con gli altri. Questo
l’ho capito da bambino. Non c’è una
gioia tua se non c’è il dramma negli
altri. Non posso avere nulla se non
a scapito di altri, e a me non piace
far male agli altri. Se devo
rintracciare una causa della mia vita
sciagurata credo sia proprio questa.
Ora sto meglio, mi sono pacificato
un poco con il mio pensiero. Per
questo dico siate perdenti ma leali
con voi stessi.
Il fallimento, la sconfitta
dobbiamo imparare a viverli come
un tentativo positivo, qualcosa che
non va a buon fine, ma il fine era
buono. Si cresce passando per
tentativi ed errori, cadute e risalite.
Come disse il filosofo Kierkegaard,
«Vivere significa scegliere – dunque
poter sbagliare, aggiungo io – e chi
non sceglie si sottopone alle scelte
degli altri». Allora sono gli altri che
scelgono per noi! Provare, e fallire,
non vuol dire che sei un fallito.
Dobbiamo rompere questo
passaggio deleterio e stupido. Solo
se non provi non sbagli, se tenti
sbagli, puoi sbagliare.
Il mondo è spietato. Uno prova a
fare una roba, non ci riesce e viene
definito trombato. Non c’è pietà
verso chi non è riuscito. È andata
male, non ha ottenuto il successo
sperato, ha fatto fiasco. E gli altri
godono! Ecco La Rochefoucauld che
torna. Va bene, facciamo fiaschi. Io
ho imparato a tenere presente che
nel nostro fiasco facciamo del bene
a tanti che se la godono. Allora
questa può diventare la missione, e
non vuole essere solo una
provocazione quello che sto
dicendo: dobbiamo fallire per far
star bene gli altri. Così possiamo
piano piano rompere la macchina
diabolica dei fallimenti e delle
sconfitte che ci schiantano, ci fanno
a pezzi.
Alziamo il culo la mattina e ci
sentiamo colpevoli di qualcosa che
non abbiamo fatto. Siamo in
trappola di noi stessi se non ci
rassegniamo che possiamo anche
perdere e fallire. L’ho capito da
piccolo, ho sofferto, ho imparato a
diventare forte, non mi sono
autodistrutto nonostante abbia
rischiato. Devo dire di essere grato a
mio padre che mi ha abituato a
perdere a forza di legnate, perché
non solo mi sentivo sconfitto da
bambino, le prendevo anche. Se non
colpivo il camoscio, non solo c’era
l’umiliazione di aver sbagliato mira,
il farabutto mi dava anche una rata
di botte. È così che ho imparato a
perdere. Non è stato semplice, mi
sono buttato a bere, le mie sconfitte
le ho risolte con l’alcol. Ho
attraversato l’inferno della bottiglia.
Dopo cinque anni e due mesi di
astinenza ho ripreso a bere qualche
bicchiere e questa è una ricaduta
che temo, perché se ricomincio
un’altra volta sarà veramente finita.
Anche questa è una prigione, essere
in trappola di qualcosa.
Abbiamo voglia di cose che non
riusciamo ad avere e questo ci ha
resi schiavi, eroinomani di oggetti.
Ci riempiamo la bocca con la parola
libertà senza capire che la vera
libertà è la sfida più grande per
ognuno di noi, una conquista
personale immensa e non solo un
diritto. «La libertà esiste sempre.
Basta pagarne il prezzo» disse
Henry de Montherlant. Ma quanti
oggi sanno pagarne il prezzo?
Eppure tutti si riempiono la bocca
della parola libertà.
La vera felicità consiste nel non
avere desideri, ma ci hanno educato
fin da piccoli a costruirci desideri e
aspettative. Viviamo in gabbia. Per
anni ho sentito di portare sulle
spalle il peso del mondo, una roba
assurda, poi a un certo punto ho
cominciato a guardarmi da fuori, da
quel momento ho imparato a darmi
meno importanza, a dare meno
importanza anche ai miei
sentimenti. Ho sentito di
appartenere a un insieme, di non
essere io il mondo. Io che lo porto
in spalla. Io il centro del mondo, io
contro il mondo. La salvezza può
arrivarti se hai un’appartenenza,
altrimenti finisci solo e in conflitto
perenne.
Mi ha colpito molto una tua frase
Gigi, che ricordavi pronunciata da
tua mamma, poi racconterai anche
di lei, eccezionale musicante di
Carnia. «Preferisco una sconfitta
alle mie condizioni a una vittoria
alle condizioni degli altri.»
Meraviglioso. Una grande frase, da
incidere su bronzo. Ma soprattutto
da vivere. I successi che
desideriamo sono sempre fatti alle
condizioni degli altri. Sono gli altri
che stabiliscono quali sono le
vittorie. Immagina con i libri, tu
sperimenti una cosa che magari hai
dentro e che senti importante per te
più che per gli altri. Magari non
funziona una volta, due volte, alla
terza finisce che nessuno ti
pubblica, allora accetti di pubblicare
come decidono gli altri, forse
raggiungi una vittoria, che però non
è tua. Hai costruito qualcosa che
non sei tu, che non è la tua vita,
quello per cui sei nato. Diverso è
raggiungere un successo e poi
difenderlo, io questo lo capisco,
perché in guerra ognuno difende le
proprie creature come può. Il
problema è che se arrivi a una
vittoria ci devi arrivare alle tue
condizioni, se no lascia perdere.
Una vittoria alle condizioni degli
altri non dura, non serve, non è
utile a nessuno.
Quando fai una cosa, falla totale
per te, non aver scrupoli di niente
ma resta nelle regole, nelle leggi.
Non è che questo sia un
incitamento, un’istigazione a
delinquere. Se parti per un viaggio
non darti aspettative, vai e basta; se
ami una persona non aspettarti per
forza la ricevuta di ritorno. È tutto
precario e provvisorio, la vita è
questa. Ed è anche la sua
meraviglia, ma possiamo vederla
solo uscendo dalla grotta del nostro
narcisismo, del pensare che tutto ci
sia dovuto. Capire che siamo precari
non ci farà perdere tempo, ci farà
godere di più l’esistenza.
Siamo abituati a pensare che la
vera fatica sia concentrata nel
tempo del lavoro e non nel tempo
del godimento, ma chi può dirlo?
Chi può dire che ci sia più pensiero
nel lavoro che nel godimento? Ci
hanno educati alla certezza, alla
sicurezza, alla rigidità che
trasportiamo anche nel cosiddetto
tempo libero. Le ferie, il weekend,
la gita domenicale, l’aperitivo, tutto
fissato da altri. Allora, anche se oggi
è difficile dirlo, mi permetto di dire
– e lo dico con tutta la delicatezza e
il rispetto possibili per chi vive
situazioni di disagio, abbandono e
povertà – siate precari, così potrete
aprire la porta al vero godimento
che non è fatto di previsioni, ricette,
aspettative.
C’è un libro eccezionale che mi
ha insegnato il senso del limite,
della precarietà e provvisorietà della
vita. S’intitola La valigia quasi
vuota e l’ha scritto una persona
fuori dal comune, Haim Baharier,
biblista, esperto del pensiero
ebraico, allievo e amico di
grandissimi filosofi. Racconta la
storia di Monsieur Chouchani,
personaggio enigmatico comparso
all’improvviso nella Parigi degli
anni Cinquanta come un clochard
geniale e sapientissimo. «Io non so
cosa sappia – disse di lui il filosofo
Emmanuel Lévinas – ma di una
cosa sono certo: tutto quello che io
so, lui lo sa.» Chouchani aveva vesti
stropicciate e un tratto che lo
contraddistingueva, camminava
zoppo. Il suo essere zoppo, il suo
limite, rappresentava anche la sua
forza. Baharier commenta
l’incedere zoppo di Monsieur
Chouchani con questa immagine
sublime: «La claudicanza la
considero una condizione comune a
tutto il genere umano; a imitazione
non dell’imperfezione ma della
perfettibilità, intesa come percorso.
Ce lo suggerisce la Torah. È nella
Genesi. Quando vennero creati il
sole e la luna, essi furono all’inizio
ugualmente grandi, ci dice il testo, i
due grandi luminari del cielo. Ma la
luna protestò: due sovrani non
possono fregiarsi della medesima
corona. Hai ragione, rispose allora il
Creatore alla luna: vai e
rimpicciolisci! Diventa claudicante.
La claudicanza di cui parlo è una
fiera menomazione, perché
grandezza e precarietà non sono in
alternativa ma costituiscono il
modus vivendi dell’uomo
responsabile». Leggete la storia di
Chouchani, siate precari, siate
claudicanti ma leali, con voi stessi
prima di tutto, imparate a non
temere fallimenti e sconfitte. Da
quando ho fatto così anch’io mi
sono un po’ pacificato. Ma non del
tutto.

L.M. Mi apri un mondo con queste


storie e questi pensieri. Lealtà.
Fallimento. Precarietà. Devo dire
che un tempo facevano parte della
vita. Ci sono racconti delle mie valli
che ricordano molto la saggezza di
Chouchani. Storie di artisti e
musicanti, continuo sul filo delle
tue riflessioni. Tituta di Prato
Carnico era cieco perché una
pallottola gli era esplosa in viso, ma
era lo stesso molto ricercato per la
sua abilità musicale. Tacus di
Cludinico, anche lui non vedente,
ereditò la fisarmonica di Tituta che
una volta gli disse: «nou viodin cun
cheste», noi vediamo con questa.
Donada di Ovaro di mestiere faceva
il falegname e a causa del suo
lavoro aveva perso la falange del
dito indice, il più importante per un
contrabbassista. Si era fatto un dito
«matto», lo chiamava così, che
portava sempre in tasca, diceva che
quell’arto non subiva reumatismi.
Orlandin di Ligosullo invece aveva
perso entrambe le mani per lo
scoppio di una bomba. Dopo la
degenza in ospedale decise di non
alzare bandiera bianca, con l’aiuto
dell’amico Morocut e di altri
artigiani del posto s’ingegnò a
preparare dei nuovi arti. Con
pazienza si costruì prima una
protesi poi uno strumento adatto
per poter ricominciare a suonare.
Quanta pazienza nelle teste
montanare! Una pazienza infinita,
silenziosa, prudente.
Quello che doveva essere fatto si
faceva piano e bene, fino ad arrivare
a esibire doti fuori dal comune. Era
la pazienza che li faceva aspettare,
faceva accettare anche le durezze, le
asperità della vita, la solitudine. Vei
pazienze era un invito a lasciare
andare i rancori e le animosità, per
trovare la serenità anche nella
sofferenza. Questa è la storia di
quattro musicanti che secondo me
hanno molto da dire sulla
claudicanza e sulla precarietà.
Tituta era parecchio conosciuto.
Nato nei primi del Novecento,
divenne cieco a causa di
un’imprudenza. Nel 1918, infatti,
una pallottola rimasuglio di guerra
gli scoppiò tra le mani mentre
tentava di aprirla. Quel fatto lo isolò
ma lo accolse il rifugio della musica
e la crescente passione lo portò a
conseguire un diploma in
pianoforte, fatto raro tra i nostri
monti a quei tempi. Ma il diploma
non gli servì per una carriera
concertistica. La musica che voleva
fare, che sentiva appartenergli, era
quella di Svualdin, di Venanzio, di
Mano, erano le note dei musicanti
che aveva ascoltato fin da piccolo.
Per emularli, scelse la fisarmonica,
lo strumento che rideva e piangeva
insieme a lui, così usava dire.
L’adoperava mettendo in atto i
piccoli segreti che riusciva a
catturare all’uno o all’altro artista,
oppure seguendo i consigli,
ascoltando. Non vedeva ma sapeva
raccogliere ogni briciola che il
mondo gli offriva, che metteva al
servizio della sua abilità.
L’imperfezione non era un limite,
doveva esserci tra le note, doveva
scorrere, perché l’arte è come la
vita, mai corretta o giusta. Ci doveva
essere sempre qualcosa di strambo
che portava da un’altra parte, che
non si accontentava di ciò che era
scontato o comune: l’arte popolare
voleva un poco di stravaganza.
Tituta ci teneva così tanto a
imporre il suo repertorio popolare
che negava perfino il diploma. La
musica povera che eseguiva non era
esaltata dalla sua bravura, dallo
studio o dalla tecnica ma dal valore
in sé: quel genere musicale non
aveva niente di minore. La sua
cecità gli permetteva di guardare
lontano, lui voleva essere un uomo
comune, non aspirava alle vette, gli
bastava respirare il profumo dei
prati. Viveva a misura d’uomo,
consapevole dei limiti di ognuno.
Diceva che la musica rischiarava i
suoi pensieri e quello bastava, non
era necessario che accendesse
lampadine a illuminare la sua
persona. Spesso sedeva sull’uscio di
casa, passava ore a esercitarsi. La
gente si fermava per un breve
saluto e per dirgli che erano lì per
lasciarsi portare dalle sue note,
dalla sua vista speciale che teneva
lontane le ombre.
Tacus condivideva lo stesso
destino di cecità con Tituta. Quando
suonavano insieme, Tituta lasciava
la parte del solista a Tacus. La loro
musica, carica di sentimento e
leggerezza, raccontava ciò che la
loro vista interiore percepiva.
Partivano in duetto e pareva che
spiegassero quello che ci stava
intorno ma che noi non vedevamo.
Con la fisarmonica catturavano
immagini, sensazioni, le stabilivano
attraverso le note, con scale e
melodie irresistibili. Erano note
allegre che correvano in superficie,
ma intinte nel sentimento, nella
mancanza, accarezzate da quanto la
vita gli aveva tolto. I loro occhi
spenti tenevano acceso lo spirito e
le loro anime vedevano. Erano
sereni, erano un enorme esempio di
serenità. Nonostante la sottrazione
che il destino gli aveva imposto,
loro ci vedevano bene.
Donada faceva il falegname e nel
suo laboratorio perse la falange del
dito indice sezionando un tronco.
Era il dito più importante per un
contrabbassista e l’infortunio
scatenò la sua maluserie, la
malinconia carnica, perché la
perdita gli avrebbe impedito di
continuare a usare nel modo
migliore lo strumento. La passione
però insisteva, non accettava la resa
né voleva subire il limite di quel
dito a metà. Così arrivò la
soluzione: Donada si costruì un dito
di legno vuoto, che infilava come un
ditale. Era la sua fede, il suo anello
nuziale con la musica. Riprese a
suonare con la solita abilità,
assicurando ai presenti che nel
cambio ci aveva guadagnato, quel
dito matto non rischiava più le
vesciche a contatto con le corde di
budello. E non avrebbe mai sofferto
di alcun reumatismo.
Gjovanin di Calgaretto lo
accompagnava accettando senza
proteste qualche ritardo nel cambio
nota, o qualche errore dovuto a un
inaspettato movimento del dito
matto. Se l’errore era stato troppo
vistoso, Donada sospendeva per un
momento di suonare e alzava il dito
dopo averlo intinto nel bicchiere di
vino perché tutti vedessero il vero
colpevole: non solo quel dito era
matto, era anche ubriaco. Poi
ripartiva tra i commenti benevoli
dei presenti che ci tenevano a
sottolineare le imprese di chi
andava avanti nonostante i suoi
limiti. Si faceva con quanto c’era a
disposizione, noncuranti di
mancanze e di difetti.
Orlandin aveva perso entrambe
le mani causa lo scoppio di una
bomba, era successo all’età di
quindici anni. Aveva costruito da sé
l’ordigno per esaltare i
festeggiamenti di un matrimonio in
paese. Fin da piccolo aveva
dimostrato buona manualità;
persino quella bomba era fatta
bene, ma la fretta giovanile lo aveva
reso precipitoso. La miccia aveva
rallentato nella parte finale, dopo
essere entrata nell’involucro.
Convinto si fosse spenta, Orlandin
alzò l’ordigno con entrambe le
mani, invece lo scoppio era solo
ritardato. Da quel momento
incominciò a dialogare con il dolore,
ad ascoltare le sue parole più dure.
Lentamente imparò la pazienza, che
gli suggeriva che non era la fine, che
solo una parte se n’era andata ma si
poteva continuare con quello che
restava.
Faceva lunghi giri nei boschi alla
ricerca di funghi, in realtà cercava la
quiete. Si sedeva vicino al ruscello e
guardava l’acqua passare. L’acqua
gli parlava, si lasciava prendere, si
regalava senza pretendere niente in
cambio. Sentiva il canto degli uccelli
e in risposta fischiava, imitandoli. Il
bosco un poco lo rincuorava e le sue
ansie si alleggerivano. Gli era chiaro
che la sua energia, la sua voglia di
fare, l’operosità innata non
potevano fare a meno delle mani e
durante l’ennesima passeggiata si
decise a prepararsene delle nuove.
Cominciò a leggere, a guardarsi
intorno, a interessarsi di meccanica.
Seguendo il movimento di apertura
della ganascia di una piccola gru,
trovò la soluzione per mani capaci
di chiudersi. Pazientemente preparò
i disegni confrontandosi e facendosi
aiutare da artigiani del posto che
lavoravano il legno, il ferro o altri
materiali, gente abituata al fare, che
puntava a risultati concreti. Gli
diedero informazioni, mostrarono
esempi, contenti di misurarsi con
un’impresa così particolare, utile,
unica. Si dissero ben disponibili a
costruire i meccanismi necessari.
Non passò molto tempo che
Orlandin indossò le sue mani
nuove. Riprese a fare i suoi lavori
stringendo ogni attrezzo con il
calore del legno e la forza del ferro.
Ma gli spiaceva non poter prendere
più in mano il suo strumento.
Aveva incominciato da poco e non
era ancora abile, ma la sua
fisarmonica gli mancava. Nel
segreto della sua bottega, Orlandin
coltivava un nuovo sogno, voleva
costruire mani che sapessero
suonare. Le mani nuove si aprivano
e chiudevano ma per la musica
serviva l’azione delle dita. L’idea
giusta gli venne guardando una
macchina da scrivere, il movimento
delle aste che portavano le lettere a
imprimersi sul foglio. Era difficile,
forse impossibile, ma ci doveva
provare.
Ci volle tempo, tanto, ci vollero
anni, cinque, ma ci riuscì. Le
preparò con pazienza infinita,
continue modifiche, verifiche,
prove, delusioni, ripensamenti.
Passavano le stagioni, cadeva la
neve e gli portava un poco di quella
innocenza infantile che lo
rincuorava, si alzava il sole e
Orlandin sentiva il lavoro più
leggero. Il tempo passava con il suo
ritmo malinconico, forse si
impietosì. Quell’uomo andava
aiutato. Una mattina di primavera
Orlandin capì che non doveva fare
più niente perché le mani erano
pronte. Non era possibile
aggiungere altri movimenti, altra
sensibilità. Ma non bastava, serviva
uno strumento adatto. Tasti più
larghi e più rigidi per accompagnare
la rigidità di quelle dita di legno, un
mantice più stretto, i bassi
dovevano avere una forma concava,
non a cupola. Bisognava
commissionare uno strumento che
sapesse dialogare con la sua
imperfezione.
Era un’altra scommessa. La ditta
Borgna ci lavorò dei mesi e alla fine
quel pezzo unico fu pronto. Quanto
tempo era occorso per un’idea, per
cancellare uno scoppio che doveva
solo sancire un nuovo inizio.
Quante lacrime erano state
necessarie per convincere le mani a
funzionare, a non abbandonarlo.
Adesso tornava in pista. Erano tutti
davanti a lui. Le sue mani erano
pronte, stavano per ripartire.
Orlandin tornava a suonare. Era
stata scelta la sala parrocchiale del
paese, gremita per quella occasione
unica. I paesani e molti colleghi
musicanti erano felici di rendere
omaggio alla perseveranza, perché
lui non aveva mollato; di rendere
omaggio all’amore, perché era stato
capace di darsi senza risparmio; di
rendere omaggio alla fantasia,
perché aveva trasformato una
perdita in conquista; di rendere
omaggio alla pazienza, perché le
stagioni si accalcavano sulle sue
spalle ma lui non protestò mai.
Erano grandi artisti
dell’imperfezione. Erano i nostri
Monsieur Chouchani, conoscevano
la provvisorietà, la precarietà
dell’esistenza. L’attraversavano tutti
d’un pezzo, senza paura,
straordinari maestri nell’arte di
vivere.
Misericordia

Beviamo il caffè seduti alla


terrazza del bar tra le montagne di
Erto. Ricordiamo parole e
sentimenti antichi. Maluserie in
dialetto carnico significa
cedimento, scoramento, nel corpo e
nello spirito. Oggi diremmo
tristezza, depressione, malinconia,
ma non è la stessa cosa. La
maluserie nasceva da una
situazione di reale disagio o
sofferenza, non dal mal di vivere.
La bellezza del dialetto è che ti
permette di cogliere sfumature che
hanno a che fare con l’esperienza,
con il vissuto concreto. Un tempo il
rito del caffè serviva a confortarsi,
condividere maluserie,
accomodarsi nei dispiaceri. La
certezza non ci apparteneva, la vita
trascorreva all’insegna della
provvisorietà.
M.C. Orlandin, Tituta, Tacus, che
storie Gigi, poi racconterai anche
qualcosa del trio Pakai che tra
queste valli erano come i Led
Zeppelin. Quando arrivavano era la
fine del mondo. A noi piace narrare
storie di sconfitti, ma solo in
apparenza, perché a leggerli in
profondità questi personaggi hanno
saputo cogliere l’essenza della vita o
almeno una parte preziosa di essa.
Il mio amico Silvio era del 1950
come me, oggi non c’è più, un
omone alto e solido che di mestiere
faceva trivellazioni per cercare
l’acqua. Una volta che avevamo
bevuto un bicchiere di troppo – anzi
no, il vino non è mai di troppo –,
capitava spesso da queste parti,
siamo finiti a discutere
animatamente. Io con la mia
arroganza l’ho affrontato
urlandogli: «Ma tu chi sei per
parlarmi così? Cos’hai fatto nella
vita?». Lui mi ha fissato con il suo
sguardo mite e mi ha detto: «Iù è
sbusè la tera par sciatè l’èga», io ho
bucato la terra per trovare l’acqua.
Sono rimasto annichilito. Pensate
che forza dirompente c’è in questa
risposta semplicissima. Mi ha
messo spalle al muro. Silvio era una
persona normale e non c’è spazio
per gente così nei libri di storia.
Quello che faccio con i romanzi è
tentare di ridare vita a questi
uomini e a queste storie minime
che compongono una vera epopea
montanara di valori e umiltà.
Silvio faceva trivellazioni ma si
spacciava per rabdomante. «Lì a
Codroipo ho trovato l’acqua!»,
diceva pieno di soddisfazione. Io
avevo già pubblicato dei libri di
qualche successo e mi ero montato
la testa. Ma ho capito la lezione.
Uno forse può vivere senza libri,
senz’acqua sicuramente no. Così ho
percepito la grandezza di Silvio. La
grandezza di chi porta avanti il
proprio compito, il mestiere che la
vita gli ha dato, senza che questo
debba essere per forza alto o nobile,
senza sentirsi in dovere di
dimostrare qualcosa.
Tante volte siamo indotti a
pensare che per essere qualcuno
dobbiamo fare qualcosa di grande.
Ma quando costruiamo troppo
intorno alla nostra persona c’è il
rischio reale che restiamo chiusi e
imprigionati nella costruzione. Così
finisci per crederci anche tu,
costruisci un personaggio e diventi
quella roba lì, vieni riconosciuto per
quello e basta. È un po’ il dramma
dei campioni, che però vale anche
per ognuno di noi. Bisogna stare
attenti. Silvio aveva fatto una cosa
normale per tutta la vita e andava
bene così. Una cosa normale in
questo modo diventa grandiosa,
solo che distratti dalle cose
grandiose convenute da altri
trascuriamo un uomo che cercava
acqua non per sé ma per tutti, Silvio
il rabdomante. Queste per me sono
delle parabole, quasi dei Vangeli!
Tutti i miei amici erano un po’
filosofi, anzi «filosofastri», come
diceva bonariamente Macedonio
Fernández. Anche nella loro
semplicità estrema. Oggi finalmente
mi sono reso conto che avevano
ragione. Non hanno costruito nulla,
hanno vissuto, non avevano
desideri, io li reputavo degli
spiantati, dei fannulloni, perché ero
vittima di quel dover dimostrare
qualcosa che mi arrivava un po’
dall’educazione, un po’ dal credere
che se non fai qualcosa che altri
reputano importante allora sei un
fallito. Oggi vado a dire che fallire è
un successone.
I miei amici si sono limitati a
vivere senza far del male, se
potevano aiutavano gratuitamente,
non hanno innescato polemiche
nella vita, le baruffe finivano la sera
stessa che iniziavano. Alcuni non
hanno avuto famiglie, figli, non
hanno avuto sogni faraonici, hanno
vissuto e si sono spenti con i loro
drammi, certi a causa dell’alcol, altri
di malattia, altri ancora si sono
suicidati, tutto nel silenzio più
assoluto. All’esterno erano pacifici,
all’interno forse no. Li chiamavi per
un aiuto e loro c’erano sempre,
senza bisogno neanche di dire
grazie. Ecco la normalità che oggi è
stata accantonata, non è più di
moda ormai.
Vivere in modo normale, direi
naturale, semplice. Noi ne abbiamo
conosciuta un’altra di persona così
Gigi, il mio caro amico Maurizio
Protti detto Icio, un uomo semplice.
I silenzi di Icio erano il suo grande
insegnamento. Il suo dolore, il suo
bisogno di confessarsi risiedevano
in quel silenzio compostissimo. Lui
era una persona a parte. Non era
facile da capire, per capirlo
bisognava esserci cresciuti insieme.
Mi diceva Mario Rigoni Stern:
«Mauro, per conoscere un uomo
devi aver mangiato con lui dieci
chili di sale». Non capivo. «Ma
come?» risposi. «Ma sì, vuol dire
un centinaio di polente.»
Spesso qualcuno tace per pudore,
per timidezza, per non essere
invadente. Icio taceva per rimorsi.
In quei silenzi mi stava raccontando
di sé, le sue sciagure, il
disfacimento della sua esistenza, i
rimorsi, con la mamma, con la
moglie. Oggi ho imparato che nella
vita basta non fare del male agli
altri. Per anni ho cercato un
riscatto, ci sono in parte riuscito,
ma che cosa ho adesso? Niente!
Qualche simpatizzante, qualche
nemico e basta.

L.M. No Mauro, oggi hai queste


storie e il dovere di raccontarle.
Così puoi farle vivere ancora.
Questo è un potere eccezionale che
hai conquistato.

M.C. Se fosse vero non avrei vissuto


invano. È un onore e un po’ di vanto
sapere che ho preservato la
memoria di questi personaggi.
Come diceva Macedonio Fernández,
si deve scrivere innanzitutto per
lottare contro l’oblio. Io la chiamo
la dimenticanza, che annienta
soprattutto gli ultimi cancellandoli
dalla faccia del mondo. Per quel che
ho potuto, nella mia terra li ho resi
ancora presenti i vecchi amici che
mi hanno dato forza, un buon
esempio anche nei loro disastri
esistenziali, i cosiddetti fallimenti.
Da loro ho imparato una lezione di
vita. Non potevo lasciarli
disperdere.
Lo scopo di uno scrittore è quello
di risuscitarli tenendo viva la
memoria di questi uomini che non
erano inferiori a nessuno ma erano
invisibili, erano le pietre di scarto.
Quando costruivano le chiese, la
pietra di scarto la buttavano giù
spaccandola, frantumandola. A
opera terminata potevi vedere la
chiesa in tutto il suo splendore, una
struttura magnifica. Ma lo scarto
che era stato eliminato durante la
costruzione faceva parte della stessa
materia, soltanto con la sfortuna di
non partecipare mai a ciò che
appariva, al risultato finale, la
cosiddetta opera d’arte.
Prendiamo la Pietà, il capolavoro
di Michelangelo venerato in tutto il
globo. O anche il David. Quanto di
quel marmo, magari solo per mezzo
millimetro, non è rimasto nella
storia, nell’opera che oggi
ammiriamo. Eppure anche quel
marmo, la parte scartata, faceva
parte del blocco intero. Era la Pietà
di Michelangelo anche quello, senza
di lui non ci sarebbe stata
nemmeno l’opera. Quel marmo lì è
finito in polvere, nelle discariche
del tempo insieme a tutte le
persone che ci hanno lavorato.
Ciò che siamo oggi è il risultato
di tanti altri esseri umani che sono
finiti nella polvere. Siamo il blocco
unico di una scultura: gli altri, gli
amici, la famiglia, gli sconosciuti, gli
scomparsi erano parte del nostro
blocco ma troppo spesso ce lo
dimentichiamo. Isoliamo la nostra
scultura, aspiriamo a diventare
pezzi unici che non devono nulla
agli altri. Siamo diventati sette
miliardi di anime arrabbiate e
solitarie. Vivere è come scolpire,
togliere per vedere qualcosa, e ora
sto per dire una cosa dolorosa: per
vedere e farti vedere devi togliere e
quel che togli scompare. È
inevitabile. Qui arriva il compito
dello scrittore, recuperare quella
pietra di scarto dalle scarpate e dire:
c’era anche lei quando hanno fatto
la Pietà. Altrimenti togliere soltanto
vuol dire buttare via, falsificare la
vita.
La memoria è recuperare lo
scarto per vedere la scultura in
origine, sincera e non falsificata,
della nostra vita. È un po’ la stessa
cosa che fai tu nelle tue storie o con
le tue canzoni. Prendi Orlandin,
aveva una passione poi gli è
scoppiata una bomba tra le mani.
Aveva solo quindici anni e
s’intratteneva pericolosamente con
gli amici per esaltarsi a un
matrimonio. Gli è andata male, gli
son partite entrambe le mani ma
non è rimasto schiantato. Ci ha
messo anni per rifarsi due arti
nuovi e uno strumento che potesse
riuscire a suonare. Così lui ha
recuperato la sua passione e la sua
vita ha ritrovato senso. Lo stesso
vale per i due musicanti ciechi di
cui hai raccontato. «Noi vediamo
con questa!» dissero alzando al
cielo la fisarmonica. Pensa che
meraviglia. Erano poeti-contadini-
montanari, vedevano nella loro
passione il punto di arrivo. Era
gente che desiderava esprimere
quello che sapeva fare. Avevano
sogni da inseguire e niente da
dimostrare. Questa tenacia di non
lasciarsi demolire da una disgrazia
veniva da un’atavica educazione alla
resistenza. Se mi mancassero le
mani comincerei a bere con una
cannuccia e mi ucciderei in pochi
mesi con massicce dosi di alcol.
Loro invece avevano questa capacità
mostruosa, epica, di provare a
ripartire. Io ne sono privo.
Ho entusiasmo, amo l’armonica
a bocca, cerco di suonare. Faccio
quello che mi piace: scrivere,
scolpire il legno, leggere, scalare.
Seguo le mie passioni nonostante
tutto. Libero dal giudizio degli altri.
Ho grande stima, ad esempio, per
gli atleti che fanno le Paralimpiadi.
Resto ammirato da queste persone.
Io con una disgrazia così mi lascerei
andare, loro ripartono da zero e ci
mettono entusiasmo. Che
bell’esempio! Il mio amico Alex
Zanardi è riuscito a ripartire senza
gambe. Oppure la ragazza medaglia
d’oro di scherma, Bebe Vio.
Avranno passato dolori e
malinconie terribili ma oggi li vedi
sempre sorridenti e ironici. La virtù
dell’umorismo e dell’ironia; su
questo ho imparato ancora qualcosa
leggendo di Chouchani nel libro La
valigia quasi vuota: «L’umorismo
in fondo è concausa della
claudicanza: decentra, spiazza. Non
è il riso sguaiato di chi ride perché
gode nel rovesciarti in faccia
l’ineluttabilità del tuo destino. Per il
popolo selenico d’Israel ridere non
è un verbo transitivo, non si ride
mai dell’altro, ma riflessivo. Si ride
sempre di sé».
Questa dote straordinaria risolve
ogni vittimismo, annulla la
sensazione di essere stati colpiti
ingiustamente da un oltraggio,
come da un dio vendicativo che ti
punisce. La vita continua, perfino
con leggerezza, ed è così che si
mostra per quello che è veramente.
Io fatico a raggiungere tali
risultati ma ci provo.

L.M. Mia nonna usava spesso una


frase: è la ruota che gira. Così
spiegava che le cose capitano, i
dolori bussano a ogni casa. Non era
un luogo comune, era il risultato di
un vissuto concreto. Nessuno un
tempo era al sicuro e nessuno
doveva dimenticare chi soffriva,
questo per una forma di solidarietà
e affetto circolari, che sarebbero
stati restituiti se la ruota della
fortuna si fosse dimenticata
dell’uno o dell’altro.
Con il girare di quella ruota, il
dolore arriva per tutti, diceva fatale.
Arrivava anche a rendere le persone
più misericordiose. Per certi aspetti
un tempo c’era una durezza nei
rapporti tra le persone, però c’era
anche un fortissimo senso di
misericordia che portava alla
comprensione, all’accettazione, al
perdono. Oggi sembra impossibile.
Ho subito un torto, non posso
accettarlo, te la faccio pagare. Il
moto del perdono era automatico
tra queste montagne. La sofferenza
generata da attriti tra membri della
stessa famiglia era un qualcosa che
veniva superato in fretta. Magari ci
voleva un po’ di tempo perché se ne
andasse del tutto, però il senso della
famiglia superava ogni rancore. Era
come se ci fosse una legge non
scritta, che la sofferenza faceva
parte della vita e arrivava, prima o
poi ti ci trovavi davanti e dovevi
poterla affrontare. Era scontato.
Se pensiamo alle privazioni che
queste persone avevano, alla vita
dura che conducevano… Eppure
andavano avanti con la
consapevolezza che tutto era
relativo, quello che contava era
procedere, superare le difficoltà.
Bisognava sapersi accomodare nei
dispiaceri. Oggi il dolore o i
dispiaceri ci inchiodano, ci
distruggono, ci indeboliscono al
punto che restiamo annichiliti. Per
questo rimuoviamo la parte
negativa della vita che però fa
coppia con quella positiva senza che
possa darsi conciliazione tra le due.
Un tempo le persone si
proteggevano attraverso la
vicinanza, il sostenersi reciproco, lo
stare insieme. Era la misericordia
che aiutava ad andare avanti. C’era
un senso di comunità fortissimo lì
dove oggi esiste solo il singolo, al
massimo la propria famiglia, ma poi
anche nell’ambito della famiglia c’è
un personalismo inimmaginabile in
passato. Credo sia stato proprio
questo chiudersi nella propria
persona che ci ha portati a
cancellare il lato negativo della vita,
i rischi. Speriamo che non ci capiti
nulla, ma la speranza va aiutata.
La condivisione, l’operare
insieme portava a considerare
l’altro come parte di te, in qualche
modo vedevi nell’altro anche la tua
immagine allo specchio, nel bene e
nel male, così il senso di
misericordia diventava molto
spontaneo e naturale. La comunità
non era vissuta come qualcosa di
secondario, il noi precedeva sempre
l’io. Certo, ci potevano essere litigi,
tensioni, però probabilmente il
bisogno, la necessità finiva per
stimolare questo stare insieme.
Ognuno capiva che non poteva
bastarsi, che era fondamentale
aprirsi agli altri. Oggi la parola
misericordia, usata pochissimo, è
confinata quasi esclusivamente in
ambito religioso. Ma c’è un lato
umano, laico, della misericordia che
porta a considerare l’altro e a
rispettarlo con tutti i suoi limiti. C’è
un detto in Carnia molto efficace in
questo senso: «Ognun al bale cun
sò agne», è diventato anche il titolo
di una mia canzone. «Ognuno balla
con sua zia.» La spiegazione è
questa: crescevi in una comunità in
cui ballo e musica erano molto
sentiti. Tutti volevano ballare però
non c’era così tanta confidenza in
famiglia perché il papà o la mamma
ti insegnassero i passi di danza,
quindi alle feste paesane imparavi
magari con una zia e siccome non
sapevi muoverti le pestavi i piedi.
Ognuno insomma impara a ballare
come può. Allo stesso modo ognuno
impara a vivere come può. «Ognun
al bale cun sò agne»! Questo
generava un’accettazione totale
dell’altro, ecco la misericordia
montanara.
Se facevi le cose più strane, la
comunità le viveva con questo
senso di misericordia e, prima di
giudicare, si domandava: chissà che
cosa è successo nella sua testa. Qui
nelle zone di montagna la pietas, il
sostegno a chi aveva un qualsiasi
problema, erano totali. Certo,
esisteva sicuramente il senso critico
e non mancavano le cattiverie. Mia
nonna passava in rassegna i campi
lavorati e se qualcuno non era stato
tagliato bene criticava: «Guarda
come ha lasciato quel prato lì». La
maldicenza era frequentissima ma
non era mai spietata. Oggi proviamo
sentimenti più forti dal punto di
vista della negatività, un tempo
posso dire che erano quasi
folkloristici. C’era un misurarsi
sulle capacità, sulla bravura, una
piccola competizione. Si usava dire,
ad esempio, «Sei una femmina di
sest» a una donna che teneva bene
la casa, che teneva bene i figli, che
teneva bene i prati e gli animali. Se
una stalla non era a posto anche lì
scattava la critica. Esisteva un
ordine sociale, se vuoi anche
piuttosto rigido, che stabiliva come
dovevano andare una serie di cose
che avevano a che fare con la
quotidianità, con il fare, e
certamente in tutto questo c’era un
moralismo anche pesante. Io sono
figlio di una ragazza madre, una
volta si diceva figlio di
contrabbando. In paese era una
stranezza e se ne parlava un bel po’.
Tutto quello che riguardava il sesso
attivava una curiosità repressa e
morbosa, poi però venivi accettato.
La vergogna l’ho sentita con i
compagni alle elementari quando
finiva che avevi delle piccole baruffe
e arrivava l’attributo bastart, che
voleva dire «figlio di nessuno». Ma
erano episodi e cattiverie che poi
venivano asciugati da un sentire
comune che era molto potente. La
cura dell’altro era la tua religione,
non era solo un moto altruistico,
era una legge naturale. Se ti
ammalavi gli altri andavano a fare i
lavori al posto tuo. Era una legge
non scritta. Andavano ad accudire i
tuoi animali, a tagliare i tuoi prati.
Non lo facevano per farti un favore,
era una cosa che apparteneva alla
mentalità. A volte arrivava la
disgrazia di perdere una mucca che
cadeva in un crepaccio, oppure
durante un parto sfortunato poteva
accadere che perdevi perfino mucca
e vitello e immediatamente scattava
la solidarietà, si macellava
l’animale, il paese intero acquistava
una parte della carne. Le perdite, i
danni erano in qualche modo
assorbiti dalla comunità. Nessuno
restava a piedi, nessuno andava in
rovina.
Nella cultura montanara questo
esisteva un po’ dappertutto, poi
dove c’è l’uomo vive sempre
l’imperfezione. Non sto dicendo
questo perché rimpiango il passato,
non c’è nessuna nostalgia nel mio
ricordare. È solo la memoria di una
provenienza e di un’appartenenza.
Credo sia sconveniente
abbandonare quello che c’è stato
prima di noi perché può aiutarci a
camminare meglio oggi, può
aiutarci a risparmiare qualche
errore. Il ricordo del passato, questo
tornare indietro con il pensiero
dovrebbe in qualche modo essere
abbinato al movimento opposto,
alla visione del futuro. Oggi siamo
molto portati al ricordo, siamo
invece molto meno portati alla
previsione. Insieme, ricordo e
previsione, potrebbero invece
regalare un buon equilibrio al
presente, alla vita che conduciamo
ogni giorno. Facciamo fatica ad
attivare il movimento della
previsione, del guardare a quello
che sarà. Anche nelle espressioni
più popolari troviamo frasi come
queste: «Sarà quello che Dio
vorrà», oppure, ancora più fatali,
«Sarà quel che sarà». Ciò dimostra
che c’è poca attenzione per il futuro,
manca un atteggiamento di
previsione serio e totale.
Un esercizio che ho cominciato a
fare da qualche anno è provare a
vivere il presente in equilibrio tra il
ricordo del passato e la proiezione
al domani. Come sarò? Cosa resterà
di queste idee? Come diventerà
questo paese? È quasi un gioco:
vedo il paese, lo sento e provo a
immaginare come potrebbe
svilupparsi tutto questo, se resterà
tale e quale, in che direzione andrà
avanti, a cosa devo stare attento.
Questa proiezione verso il domani
ci porta a domandare: «Cosa
succederà se mi comporto così?».
L’esercizio della proiezione è molto
pratico, concreto, poco intellettuale:
ogni volta che mi ritrovo sensibile
ai ricordi e al passato, e mi
accomodo in questo sentimento,
contemporaneamente provo a
osservare il mio domani. In questo
modo bilancio due forze – passato e
futuro – nel mio presente. Questa
trasformazione, questa sorta di
esperimento mentale, è cominciata
dopo forti dolori che ho dovuto
affrontare.

M.C. Non ne hai mai voluto parlare


se non in privato. Forse può essere
d’aiuto raccontare cosa è accaduto a
tua figlia. Se te la senti, se no
lasciamo stare.
L.M. Ci sono momenti che
s’imprimono con il loro marchio e
non ti lasciano più. L’arrivo delle
tragedie ad esempio, gli
avvenimenti dolorosi, la coltellata
che non ti aspetti. E ti senti finito.
Sono timbri a fuoco che si
stampano sul cuore e bruciano i
pensieri. Arrivano senza chiederti
permesso, senza avvertire. Te li
trovi davanti come un’accusa.
Quando al telefono mi hanno detto
che mia figlia Giada aveva avuto un
incidente stradale e la stavano
portando in sala operatoria ho
sentito come un’esplosione. Da
subito percepisci che il tuo
equilibrio è compromesso. Mi sono
rannicchiato in un angolo come un
bimbo che voleva nascondersi. È
cominciata così la mia lotta con il
dolore, quello che non vuoi
nemmeno immaginare e che invece
ti è dato di vivere.
Da quel momento ho iniziato a
perdere tutto ciò che avevo. Ogni
cosa ha preso un’altra luce o
assunto nuove ombre. È difficile la
battaglia quando c’è di mezzo la
salute e la vita di un figlio. È
evidente a ognuno di noi questo. Ed
è crudele dover rivivere lo stesso
rischio ogni giorno, per un tempo
interminabile. Fortunatamente lei è
ancora qui, anche se continua la sua
battaglia per le conseguenze di
quell’incidente. Così il rapporto con
il dolore è costantemente rinnovato.
Apri gli occhi e lo trovi seduto
vicino al letto che ti aspetta, pronto
a coricarsi sulle tue spalle,
smanioso di farti compagnia.
Non dimenticherò mai il viaggio
che ho fatto dalla Carnia per
arrivare a Milano dove mia figlia era
ricoverata. Guidavo come fossi in
un film o dentro un sogno. Ma la
mia origine montanara non si
accontentava di queste tecniche di
sopravvivenza e mi spiegava già a
grandi linee quello che mi
aspettava. Forse è lì che ho
cominciato a considerare il futuro
come un passaggio obbligato. Da
quel momento mi sarei sempre
ricordato di buttare un occhio in
avanti e di non considerare solo il
passato. Non è scontato essere
genitori attenti. Siamo così presi
dalle nostre attività che sottraiamo
molte attenzioni ai figli. È terribile
lasciare qualcosa in sospeso con
loro. Non possiamo correre il
rischio di non dare tutto l’affetto
che è dovuto.
Io sono diventato padre
giovanissimo e non avevo la
maturità, la dolcezza che serviva.
Quando mi sono trovato a fare i
conti con la paura di perdere mia
figlia c’è stata una svolta. Facevo
lunghe passeggiate solitarie, il
movimento mi aiutava a sciogliere
qualche nodo. Le lacrime aiutavano
a buttar fuori il mare avvelenato
che girava dentro. Il primo timore
era di non poter offrirle gli abbracci
che le dovevo. È stato come se il
panorama cambiasse. Piano piano
tutto diventava diverso. Cambia
tutto quando ti trovi in situazioni
così. Quello che credevi importante
svanisce come neve al sole d’agosto.
Cresce una delicatezza,
un’attenzione per ogni forma di
fragilità; cresce il rispetto per ogni
singola persona, perché non sai
cosa sta vivendo, se il suo cuore è in
pace, se sta attraversando un
dolore. Guai mancare di rispetto a
chi soffre. Certo, non c’è solo
distruzione, il dolore rende vivo
anche quello che non vedi o a cui
non dai importanza. Il dolore ti
asciuga, ti regala essenzialità, regola
la confusione con cui troppo spesso
ci muoviamo. Rende importante
anche la pietra di scarto di cui
parlavi prima, Mauro.
Quante cose insegna il dolore.
Ma ci vuole positivi, fiduciosi, vuole
che crediamo alla vita, che non la
sottovalutiamo o la banalizziamo.
Certo, avrei fatto davvero a meno di
queste lezioni, ma non si può
decidere. È difficile da dirsi ma
provo anche riconoscenza nei
confronti del dolore. Questa
affermazione è dura, può generare
qualche punto di domanda. Come si
può provare riconoscenza per il
dolore, soprattutto per un dolore di
questo tipo? Il dolore apre ferite ma
nel contempo genera una
consapevolezza. Usa l’accetta, taglia
i rami secchi che crescono nei
nostri sensi, soprattutto i rami di
una crescente insensibilità che
rallenta i sentimenti dell’amore e
della vicinanza. Un forte choc lascia
sempre una voragine, un vuoto
dentro. È come la trave tarmata di
un tetto. Tu la vedi sempre uguale,
solida e stabile, invece i tarli la
stanno divorando. Mese dopo mese
si sbriciola all’interno, perde
consistenza, comincia a sfaldarsi.
Basta una semplice nevicata e cede.
Allora devi mettere assieme tutto e
cercare di recuperare una nuova
serenità.
Il dolore è esplosivo. Ti
annichilisce, ti mette all’angolo, ti
spinge fuori dal tempo. Non hai più
voglia di procedere, poi piano piano
si accomoda dentro di te, tu
sperimenti che fa parte della vita,
che non può esserci conciliazione
con la negatività se non falsificando
le nostre esistenze, e allora arriva
l’accettazione come una sorta di
lasciapassare. Allora rientri nel
tempo della vita con una
consapevolezza più matura. Ecco
cosa intendo quando parlo di
costruire il proprio presente in
questa costante oscillazione tra
memoria e proiezione. Questo è ciò
che mi è accaduto. Se subisci un
dolore o un trauma che ti
schiantano, le persone vicine e
amiche ti suggeriscono di andare in
analisi. È certamente un momento
prezioso e può essere davvero
importante. Quello però che la mia
esperienza mi porta a dire è che
l’analisi dovrebbe essere fatta
prima, per comprendere questa
polarità essenziale della vita. Ci
dovrebbe essere una coscienza
capace di assumere questa verità
fondamentale: domani potresti non
avere fortuna, potresti incappare in
qualcosa di molto clamoroso, un
trauma legato all’affettività, alla
partenza.
Un tempo le madri accettavano
che i figli ancora giovanissimi
partissero in guerra. Pensa che
sforzo incredibile, eppure veniva
affrontato con consapevolezza
sebbene anche con un dolore
profondo. La nostra storia recente è
passata per due guerre in
brevissimo tempo, poi c’è stata
un’emigrazione molto forte, un
quarto della popolazione se ne
andava altrove per lavoro e povertà,
si trattava in pratica di almeno una
persona ogni famiglia, quasi sempre
il capofamiglia. La precarietà era
una condizione naturale. Crescevi
con la sensazione che il mondo
esercitava una resistenza, non era lì
a tua disposizione, da prendere e
basta. Nulla ti era dovuto. Oggi
invece viviamo il movimento
contrario, appena arriva una piccola
difficoltà non siamo capaci di
affrontarla. Se abbiamo fortuna ce
la caviamo, altrimenti finiamo a
pezzi.
Ogni giorno sentiamo discorsi,
prediche appese al vuoto, che non
arrivano dalla terra, da questa fatica
quotidiana del vivere che rende i
pensieri semplicemente reali.
Viviamo di un realismo che non ha
nulla a che fare con la realtà, come
fosse una costruzione astratta e
intellettuale. Un realismo estraneo
ai fatti. Così come nasce una pianta
in un orto se pianti un seme, gli dai
l’acqua, lo curi, allo stesso modo la
vita fiorisce nel bene o nel male a
partire da determinate condizioni
che siamo noi a mettere in atto. Le
persone un tempo sapevano
benissimo cosa voleva dire rischio,
stare soli, guerra, così mettevano in
conto la sofferenza e
contemporanea-mente si
allenavano alla realtà, non la
ingabbiavano in ipotetiche
possibilità astratte. La stessa cosa
vale per quella proiezione al domani
di cui dicevo prima. Perché devi
pensare che tutto domani sarà
meglio? Che tutto si aggiusterà?
Che la felicità ti è dovuta? Per
l’amor di Dio, dobbiamo vivere con
positività, ma se siamo reali, se il
nostro pensiero è davvero in
contatto con il mondo reale, allora
capiamo che vivere comporta una
serie di situazioni che non sempre
vanno come noi vorremmo.
Era la concretezza del fare che un
tempo determinava la mentalità. Io
la chiamo la cultura del fare. Il
modo in cui facciamo una cosa
determina il modo in cui pensiamo
e di conseguenza il nostro
linguaggio. Il dialetto, per esempio,
resta legato a quella cultura del
fare, a quella resistenza che il
mondo esercita su di noi e che noi
quotidianamente sperimentiamo. Il
dialetto esprime pensieri legati al
reale, per questo c’è una
essenzialità di parole che non ha un
corrispettivo nella lingua italiana.
Prendi la parola «amore». La parola
amore in carnico non esiste, è un
italianismo, si dice amôr. L’amore
in carnico era «Ti voi ben», ti voglio
bene, che ora se lo usi con la
fidanzata magari pensa che la stai
fregando e che il sentimento si è
raffreddato. Un tempo non era così.
«Ti voi ben» era l’espressione di un
affetto profondo.
Oggi, quando il nostro umore
non è buono, usiamo diverse parole
per descriverlo: malinconia,
tristezza, depressione, stress,
angoscia. Un tempo la parola era
una, maluserie, che stava a
significare uno scoramento del
corpo e della mente. Ho la
maluserie…

M.C. Prova a far capire oggi a un


ragazzo queste cose qui… sembra
impossibile. Io e te abbiamo avuto
la fortuna di crescere in un’epoca
diventata epopea. C’erano dissidi,
dissapori, durezze, anche violenze,
ma si cercava di praticare al meglio
il buon vivere. Un bambino veniva
educato al saluto, al rispetto per i
vecchi, a dare del voi, a cedere il
passo, ad alzarsi in chiesa per
lasciare il posto all’anziano. Una
parte importante la giocava anche la
fede, eri timorato di Dio, avevi
paura del castigo. Questo io l’ho
spazzato via subito dalla mia
esistenza. Non ho paura di nessun
castigo divino, lo accetto e stop.
Supposto che ci sia. Ma i valori non
costituivano solo una morale, un
codice etico come si dice oggi.
Venivi educato al rispetto perché
rispettando gli altri saresti stato
meglio anche tu. È questa la grande
verità. Eri educato al perdono
perché perdonare è una liberazione,
altrimenti resti schiantato e
abbrutito nel rancore e nella
vendetta. Perdonando stavi meglio.
Ma non tutti perdonavano.
Da mio padre ho ricevuto
l’insegnamento contrario, l’ordine
che bisogna vendicarsi senza pietà,
colpire chi ti ha fatto torto, altro che
perdonare. Lui non diceva occhio
per occhio ma occhio per due occhi,
dente per tutta la mandibola.
Guerra e basta! Così da giovane ho
avuto una fase aggressiva,
vendicativa, ora sono arrivato a non
prendermela, a perdonare nel vero
senso della parola. Sono pacifico, mi
sono addomesticato un poco, non
per comodità o opportunismo ma
perché mi fa stare meglio. Sono
pacifico e Dio benedica questa
apertura che mi è capitata addosso
come un regalo.

L.M. La saggezza montanara


arrivava credo dal guardare sempre
la vita dall’angolazione
dell’essenzialità. I pensieri
scartavano il superfluo, andavano
alla sostanza con un automatismo
che sapeva ponderare ogni cosa e
poi tirava dritto sulla strada del
concreto, apparentato sempre con il
dovere e con la necessità di una
fraterna condivisione comunitaria.
È innegabile che ci fosse una
durezza che poteva sfociare anche
in violenze estreme, soprattutto al
maschile. Le donne erano l’anello
debole ma erano sempre loro a
tenere il tessuto delle relazioni ben
stretto. A fortificarlo ogni volta.
Esistevano piccoli riti che si
svolgevano con grande frequenza,
come il rito del caffè cui più volte
mi è capitato di assistere da
bambino. Guardavo ammirato
quelle creature minute e sofferenti
intorno al tavolo con mia nonna.
Più tardi lei mi raccontò meglio
cosa avveniva, il perché di quelle
riunioni che da piccolo mi
sembravano così misteriose.
Maluserie, questa malinconia
intima. La vedevo sul volto e
l’ascoltavo nelle parole di un’amica
della nonna, la Gjsele, donna di
costituzione debole, incapace di
reazioni o proteste, educata
all’obbedienza, alla mitezza, a non
reagire: accettava la sua sorte con
serena rassegnazione. Una donna
delicata, che sopportava i modi
bruschi del marito, uomo
inflessibile e punitivo. Lui non
aveva tenerezze, ordinava e lei
eseguiva, si imponeva e lei
obbediva.
Gjsele con voce esile raccontava
le fatiche per i troppi lavori che
doveva fare. Il rito del caffè si
svolgeva soprattutto in autunno e in
inverno, l’estate era la stagione dei
lavori all’aperto e ci si vedeva nei
prati. Non era uso bussare alla
porta, ci si chiamava per nome e al
richiamo la nonna rispondeva:
«Sêstu rivade?». Sei arrivata?
Dando così il benvenuto. Il dialetto
regalava all’espressione un
significato più ampio: «Sei
arrivata» era sinonimo di «sono
contenta di vederti».
Una volta entrata, Gjsele si
sedeva sulla panca di legno vicino
allo spolert, la stufa che serviva a
riscaldare la casa e a cuocere il cibo.
Si sistemava il fazzoletto in testa e
lasciava alcuni respiri profondi. La
sua espressione rassegnata
preparava le parole. La nonna
l’anticipava chiedendo se doveva
fare il caffè. La risposta era
scontata. Il caffè era un rito
irrinunciabile. La richiesta
anticipava il piacere che partiva da
lontano, che si assaporava prima
della bevanda. La nonna riempiva di
acqua la cogume e vi lasciava cadere
con parsimonia un cucchiaio di
caffè. Il gusto ne risentiva, infatti
Gjsele diceva che le sembrava di
bere «aghe di carobules». Ne
avevano bevuta tanta di acqua di
carrube durante la guerra,
sbriciolavano il frutto secco che i
soldati davano ai muli. La protesta
era un sarcastico riferimento al
poco caffè usato, ma ognuno sapeva
che quel sapore debole e acquoso
rientrava nel rispetto del principio
che il poco deve bastare.
Gjsele raccontava muovendo le
mani, che partecipavano al discorso
e l’aiutavano a trovare le parole
giuste. Le mani erano abituate a
operare e anche nei momenti di
pausa, nelle più intime confidenze,
non si prestavano a una sosta
completa. Nemmeno durante il rito
del caffè era contemplata
l’immobilità. Poggiate al grembo, le
mani seguivano o anticipavano il
discorso. A momenti si muovevano
lente o con piccoli scatti, con un
tremolio delle dita, in un linguaggio
silenzioso che accomunava i
sentimenti al fare.
Erano mani nodose, deformate
dal lavoro e dalle intemperie.
L’acqua in cui lavavano i panni era
acqua di ruscello, ghiacciata. I
risultati si facevano presto vedere.
Mani cariche di rughe si chiudevano
attorno alla tazza del caffè e pareva
che anche in quel momento
stringessero un attrezzo da lavoro.
La nonna consolava Gjsele.
«Bisugne soportâ», si doveva
sopportare. «Bisugne tegni dûr»,
bisognava tenere duro. Erano là,
vicino al fuoco, ogni tanto
lasciavano il caffè per aggiungere
legna alla stufa. Si confidavano al
caldo, sorseggiando il loro unico
vizio.
Il tempo stava per finire, dietro
casa la mucca le aspettava per il
regi, per accudirla. Dovevano darle
l’ultima manciata di fieno,
dovevano mungerla, dovevano
parlarle con affetto perché anche la
mucca era un’amica con cui
condividere qualche segreto. Le
donne si salutavano con un mandi
carico di vicinanza, la loro amicizia
sarebbe durata senza tradimenti o
trascuranza. La misericordia
indicava la strada: chi aveva
necessità doveva trovare sostegno,
solidarietà, e le donne erano
abituate a curare, ad aiutare. La
giornata si chiudeva, tornavano
ognuna alle proprie incombenze,
sicure di poter contare su di
un’amica fedele, capace di preparare
un caffè speciale, dal sapore incerto
ma con un senso di partecipazione
che le faceva penare per la
condizione di ognuna come fosse la
propria.
Anche la nonna Augusta si
confidava. Svelava circostanze di
una quotidianità insidiosa e
spartana. Ascoltavo la sua
maluserie, le storie di quel teatro
popolare fatto di un vissuto
concreto, abituato a non lamentarsi
troppo, a sopportare, ma che sapeva
liberare un poco di dolore grazie
alla vicinanza e all’amicizia. Lei e
Christine erano scese più volte nella
bassa friulana per scambiare la
resina cotta che si usava per la
preparazione del sapone. La
scambiavano con la farina che
serviva alla preparazione della
pietanza principe di casa: la polenta.
Un giorno, dopo il passaggio delle
merci, trascorsero la notte in un
fienile e alle prime luci dell’alba
ripartirono. Avevano recuperato
anche il sale, merce rara, non
avevano trovato però il tabacco che
avrebbe dato lustro al loro viaggio
nella considerazione dei maschi di
casa.
Vicino Udine due uomini si
offrirono di accompagnarle. Loro
non si fidarono dei modi gentili e
tirarono diritto. Alcuni chilometri
più avanti, in un tratto di campagna,
quando ormai erano sicure di essere
sole, se li ritrovarono davanti. Si
dimostrarono meno teneri e le
costrinsero a entrare in un casolare.
Avevano tentato di toccarle e di
alzare le gonne ma le donne erano
riuscite a liberarsi e la storia per
fortuna era finita così. Però Augusta
e Christine avevano perso gran
parte della merce, quel furto
bruciava nel cuore.
Se ci fosse stata violenza
avrebbero perfino messo sullo
stesso piano le due cose,
assecondando una mentalità che
considerava poco la donna e molto
la merce. Il loro corpo era sempre lì,
nonostante tutto, abituato ai furti,
non era perso, bastava solo tacere
ed era come se non fosse successo
niente. Ma le merci non c’erano più
e a casa il loro viaggio sarebbe stato
considerato un’imperdonabile
perdita di tempo. Il racconto finiva,
ma il finale vero non consisteva di
parole, era carico di maluserie. Non
serviva dire tutto, le altre donne
sedute intorno al tavolo capivano
quello che c’era da capire.
Negli uomini la maluserie
restava celata. Era fatta di silenzi, di
cancellazioni. La nascondevano
dietro l’essere durs, duri, e non ci
pensavano, si allenavano a non
pensare. Lasciavano alle donne lo
scoramento, la lacrima, la fragilità.
A loro non era dato di mostrare
debolezze. Indurirsi era un lavoro
impegnativo e andava fatto bene:
meglio lo facevi e più forza
dimostravi. Era uno dei ponti tra
maschio e femmina; loro stavano
dalla parte della forza e lasciavano
che fossero le lacrime delle donne
ad alimentare il fiume che scorreva
in mezzo. Scrollavano il capo al
chiacchiericcio di casa, ma la
maluserie non faceva distinzioni di
sesso. Mordeva sotto pelle come un
lupo che difende il suo pasto.
Del godersela

Questa mattina la nebbia sembra


coricata sul letto del Vajont.
Partiamo in macchina, direzione
Cimolais, lontano dalle trame degli
uomini, per portare un saluto al
vecchio amico Icio. Dove riposa c’è
silenzio totale, si sente solo il
bramito dei cervi in amore, più in
alto le vette che lo hanno visto
bambino. Ancora qualche giorno e i
cervi saranno quieti. Le nostre
chiacchiere si avventurano in una
breve lista di epitaffi di famosi e
non, davanti alla morte non c’è
differenza. Puoi trovare più vita nei
cimiteri che negli stadi. «Visse
gagliardamente, morì
cristianamente», iscrizione trovata
in un cimitero foresto. Questo è
Georges Brassens, il musicante:
«Mi sono assentato». Il mitico
Franco Califano: «Non è escluso il
ritorno». L’altrettanto mitico
Gianfranco Funari: «Ho smesso di
fumare». Walter Chiari: «Non
piangete, è solo sonno arretrato»,
almeno lui l’avrebbe scritta così, poi
non l’hanno messa. Il fisico premio
Nobel Werner Heisenberg: «Giace
qui, da qualche parte». «Scusate la
polvere», l’inarrivabile epitaffio
della scrittrice Dorothy Parker.
Così salutiamo l’amico Icio e
riprendiamo il filo delle nostre
storie.

M.C. Che ridere Gigi, che frasi


memorabili per l’ultimo addio. Ora
però è importante che io dica una
cosa: non vorrei mai che quando
questa chiacchiera finirà in un libro
si equivocasse e si pensasse che
sono un predicatore buono. Io sono
un delinquente, un lazzarone. Ho
fatto la parte di Giuda per vent’anni
la notte del Venerdì Santo durante
la processione qui a Erto. Come il
grande Bela Lugosi, attore, mitico
interprete di Dracula, che si era
talmente immedesimato nel ruolo
da aggredire le persone per strada
succhiandogli il sangue, anch’io, a
furia di fare la parte di Giuda, mi
sono immedesimato tanto che ho
continuato a tradire. Però ho la
lealtà di confessarlo. Cerco di
migliorarmi, ma resto un
delinquente. Sono inaffidabile,
anche se negli ultimi anni ho
mollato il ruolo di Giuda. Ho
cercato di farmi meno male
possibile, so di essere l’ultimo della
fila, il più miserabile, pieno di
difetti. Ma, come diceva Bepi Baldo:
«Quando daranno l’altolà e il
dietrofront sarò il primo». Bepi
sognava la rivoluzione, io non più.
Se dessero il Nobel alla vanità lo
vincerei di sicuro. Ma lo
vincerebbero tutti, sia chiaro. La
mia vita è piena di rimorsi, so che
ho creato problemi e provocato
dolore, spesso senza volerlo, ma ho
seguito l’istinto. La mia indole
diceva fai così, non sono stato a
calcolare cosa dovevo fare per non
far star male qualcun altro. Così è
capitato. La vita, un po’ come l’arte,
accade. Arrivato a questo punto, con
questa consapevolezza, voglio
morire cercando di far meglio, di
essere meno vanitoso, meno
estetico e più etico.
Qui tra queste valli dicono: «Dal
ceppo nasce la scheggia». Sono
figlio di mio padre, non lo
dimentico. Ma una persona si può
ravvedere e migliorare. La bellezza
dell’uomo è che può modificare il
suo carattere. Ogni tanto però
tornano i vecchi istinti, fantasmi
acuminati, per cui lungi da me
l’idea di fare il predicatore. Mi sono
accadute delle cose, ho provocato
dolore e questo non viene estinto,
può essere perdonato ma non sarà
mai dimenticato. Le ferite infatti
lasciano sempre la cicatrice. In una
tua bellissima canzone, Mago
Tiraca, racconti di un uomo che ha
perso la gamba dopo essere stato
travolto da un tronco. La gamba
non ce l’ha più e nonostante questo
lui sente dolore al piede. Come una
memoria biologica che abbiamo
dentro di noi.
Lord Byron diceva: «Il ricordo
della felicità non è più felicità ma il
ricordo del dolore rimane sempre
dolore». Per questo dico che sono
stato un lazzarone, però bonario,
non un criminale. Siccome ho
capito che c’è una sola possibilità
nella vita, e la vita me la volevo
godere almeno un po’, quando mi si
son presentate delle occasioni le ho
sfruttate. Quasi sempre d’istinto e
senza pensarci troppo, provocando
conseguenze e problemi agli altri.
«Dobbiamo andar via da questo
paese» mi diceva Elvezio, un
carissimo amico. Era stato
maltrattato. «E dove andiamo?»
rispondevo. Lui replicava: «In un
altro paese. E appena cominciano a
dirci “ciao” ce ne andiamo anche da
quello». Grande cosa questa, me la
sono sempre ricordata. Sto cercando
di recuperare, di costruire una
persona migliore, non per senso di
colpa, non mi pento di nulla, avrei
preferito non fare alcune cose, con i
miei genitori, gli amici, con la
famiglia, i figli eccetera. Ma le
azioni adesso sono lì, le ferite
rimangono e non sono così ipocrita
da metterci una garza e andarmene
in giro facendo l’anima bella.
Questo voglio dirlo chiaro. Però
gli ultimi anni della vita vorrei, se
posso, essere migliore, almeno un
po’. Ci sto provando e qualcosa,
giuro, mi sta riuscendo. Le ferite
che ricevi da piccolo, da grande si
trasformano in moti di crudeltà.
Quando il candore e l’innocenza di
un bambino vengono frantumati,
resta dentro un richiamo ancestrale
che finirà per scatenare qualcosa di
crudele. Credo che il termine giusto
sia proprio crudeltà. L’ho praticata,
adesso la sto facendo sparire. Non
cerco scusanti né attenuanti né
giustificazioni. Ma ho l’obbligo
morale di dire che ciò che mi ha
dato la spinta nella vita è stato
l’egoismo, sebbene sia stato, credo,
un uomo generoso. Nei miei
confronti ho praticato un egoismo
leale, non ipocrita. È l’egoismo puro
che ha segnato la mia vita. E cosa
sarebbe questo egoismo puro e leale
se non voglia di vivere, di godersi la
vita, di non trattenersi, di seguire la
propria indole e le proprie passioni
senza pastoie né regole? Ho voglia
di stare qui. Voglio godermi la vita.
Ecco un’altra verità. Abbiamo detto
tante cose giuste e non banali però
alla fine ciò che conta veramente è
che vogliamo stare qui. Lo dico
proprio io che sono così schifato
dalla vita. Perché allora non mi tiro
una revolverata?
Dovrei essere coerente. Invece, al
di là delle chiacchiere, mi piace
stare qui. Non per avere grandi
cose, per il successo, per i soldi, per
la notorietà. No, non è questo,
anche se quelle cose le ho cercate. Il
valore della vita lo percepisci
quando la mattina ti svegli e pensi:
«Ci sono ancora». Come il gallo del
pollaio che canta con la testa rivolta
al cielo e i piedi impantanati nella
merda. Ho paura di non esserci più,
ma non per andare in tv a dire che
sono qui. No! Per le camminate, le
scalate, per incontrare un amico,
bere un bicchiere di vino, un caffè,
leggere il giornale al mattino. Per
stare semplicemente a questo
mondo che sembra miserabile ma è
bellissimo. Così capisco che mi
contraddico, ma la vita è fatta di
contraddizioni. Chi viaggia sul
binario fisso alla fine batte il muso.
Per questo ho il terrore della morte.
Diceva Pessoa: «La morte è la
curva della strada. Morire è solo
non essere visto, ma se ascolto
sento i tuoi passi esistere come io
esisto». La morte mi terrorizza. Per
esorcizzarla, la sfido. Per cercarla
prima, forse, inconsciamente,
magari con una scivolata durante
una scalata. Ecco un’altra
contraddizione. Ma un uomo onesto
e leale è contraddittorio. Ho scritto
un saggio che non ho mai fatto
vedere a nessuno, s’intitola
Contraddizioni borgesiane.
Contiene tutto ciò che, leggendo
interviste e conversazioni, ho
trovato di contraddittorio nelle sue
affermazioni. La contraddizione
non mi spaventa perché siamo
contraddittori. Io ho il terrore di
non esserci più, di non poter
gustare le piccole cose semplici:
oziare all’osteria con un bicchiere,
seguire le stagioni, vedere i figli che
s’impegnano, crescono, farmi una
passeggiata o una chiacchiera come
quella che stiamo facendo adesso.
Ho paura di una morte in lunga
sofferenza, come è capitato a molti
miei cari amici. Vorrei
addormentarmi nel sonno, come è
successo a mio padre e mia madre.
Oppure cadere da una montagna,
ma è un regalo che forse non mi è
dovuto.
La malattia mi terrorizza. Voglio
evitare la consapevole attesa della
morte, quando sai che non c’è più
niente da fare. Frequento il Cro
(Centro di riferimento oncologico)
di Aviano e mi capita qualche volta
di andare a parlare ai malati
terminali. È un’idea del primario
Umberto Tirelli. Cosa dici a quella
gente, soprattutto ai ragazzi? Arrivo
con una pila di libri e provo a fare il
barzellettiere ma loro non ridono
perché sanno di essere ai ferri corti
con la vita. La morte mi terrorizza al
punto che vorrei darmela io. Come
fa il bambino quando vede l’adulto
che si traveste da mostro per
spaventarlo: si rifugia in un angolo
e cerca di farsi sempre più piccolo
fino a quando non ne può più,
quando sente che non ha via
d’uscita. In quel preciso istante si
butta contro, diretto nelle fauci del
mostro. Così faccio io con la morte.
Ho paura di non esserci più, ecco
perché ogni lamentela, ogni
delusione diventa zero di fronte alla
voglia di vivere. Prova a pensarti
malato di cancro. Cancelli in un
istante la rabbia e il rancore verso
chi ti ha lasciato, chi ti ha offeso,
chi ti ha vilipeso. Siamo vivi e in
buona salute, allora abbracciamoci,
stiamo in pace. Ecco il valore della
vita: non sono i successi o i premi
eclatanti ma le cose piccole di tutti i
giorni. Come Carlo Pezzin, il
boscaiolo-artigiano, classe 1932, che
mi porta un sacchettino di patate,
dei fagioli dal suo orto e dell’uva
selvatica. Domani lo rivedo, si beve
un caffè insieme, un bicchiere di
vino. Mi racconta le sue magagne.
Siamo lì. Io sono un lamentoso, a
volte insopportabile, però me ne
accorgo e quando penso a queste
cose, alla possibilità reale che da un
minuto all’altro potrei non esserci
più, mi ritiro come fanno le corna
delle lumache quando le sfiori.
Diceva la scrittrice Susan Ertz:
«Sono milioni gli esseri umani che
sognano l’immortalità, e poi non
sanno che fare la domenica
pomeriggio se piove». Le cose
semplici ma fondamentali non
riusciamo più a vederle, di
conseguenza a goderne. Non
sappiamo più goderci la vita. Tutta
una rabbia, una tensione, uno
stress, una perenne guerra con se
stessi e con gli altri. In questi mesi
autunnali, per esempio, inizia un
po’ a pesarmi stare qui perché non
c’è nulla, l’osteria chiude presto. Poi
penso: ho la vita! Se passo e il bar
non è aperto, pazienza. Osservo,
leggo, cammino. Diceva Borges:
«Amo le minute sapienze che in
ogni morte scompaiono». Di cosa
mi lamento!
Ti faccio un esempio Gigi,
racconto un episodio che mi ha
segnato. Una notte Marianna, una
delle mie figlie, mi diede una
lezione che non dimentico. Era
rientrata tardi con alcuni amici,
stavano facendo baldoria al piano di
sopra. Io che già dormo poco,
mosso dall’istinto, mi scatenai,
andai su gridando: «Basta!». Non
ricordo se portavo con me la scure o
il fucile. «Basta! Son stufo di sentir
casino! Sono le quattro del
mattino!». Marianna, che mi
conosce bene, non si spaventò. Mi
venne incontro e disse: «Prova a
immaginarti, pa’, se per una
disgrazia o un incidente non facessi
più questi rumori». Rimasi muto,
mi si gelò il sangue, quella frase mi
aveva schiantato. Dopo un po’
replicai: «Ragazzi, cantate e ballate!
Avanti così tutta la notte!». Ho
preso la fiasca, mi sono messo a
tracannare anch’io: «Ballate fino a
domani, ballate sempre, io sto qui
con voi!».
Viviamo meglio se pensiamo a
quello che ci può succedere. Di bene
e di male. Allora godiamo della vita.
Prima, davanti alla tomba di Icio,
ricordavamo alcuni ultimi addii e
famosi epitaffi. Ne conosco uno che
non sta scritto in nessuna lapide ma
che ho avuto la fortuna di ascoltare
dalla viva voce di chi era presente.
La frase è del mio caro amico Mario
Rigoni Stern. Era ormai costretto a
letto, molto malato, erano i suoi
ultimi giorni in questo mondo. La
moglie Anna che si è occupata di lui
fino alla fine andò a portargli alcune
copertine di libri, probabilmente
erano nuove copertine per ristampe
dei suoi capolavori immortali.
«Guarda Mario» disse per regalargli
un po’ di piacere. Lui si voltò e si
limitò a una sola espressione: «Ana,
se tuto gnènt», Anna, è tutto niente.
Il miglior addio, il miglior epitaffio,
la più bella dipartita, perché questa
grande frase è un omaggio alla vita.
Non arriva dalla paura della morte.
Neanche per idea! Mario non aveva
paura della morte, l’aveva vista in
faccia sul Don durante la guerra,
quando l’alpino semplice gli aveva
chiesto: «Sergente maggiore, ghe
rivarem a baita?», arriveremo a
casa? Sul letto di morte, prima
dell’ultimo grande passo, lui che
nella vita non si era mai arrabattato,
che aveva vissuto con dolcezza e
passione, fotografa così l’inutilità
delle cose materiali che possono
essere tutto quel che ci riempie la
vita ma sono niente. Se tuto gnènt.
Mario amava la vita di un amore
puro e profondissimo di fronte al
quale re, spazzini, papi, libri, premi,
copertine hanno lo stesso valore:
gnènt, niente. Tutti dobbiamo fare i
conti con l’aldilà e con l’ultima
partita. L’ultima partita a carte,
titolo di un suo libro. Lui l’ha fatto
attraverso questa frase che
andrebbe scolpita nel bronzo. Io
vivo con questa sua frase. È una
lezione che va applicata soprattutto
da vivi perché se sai che tuto è
gnènt allora ti risparmi le
coglionate, non ti disperi perché
non sei ricco o famoso, te ne freghi
di cosa pensano gli altri di te e
finalmente fai la tua vita, con
semplicità, dignità e assoluta lealtà.
Questo è stato Mario Rigoni Stern.
La mattina, appena aprite gli
occhi, prima di alzarvi prendetevi
un momento e dite: «Cazzo, sono
ancora vivo!». Aiuta a star meglio.
Gigi facciamo una suonata, io
con l’armonica a bocca e tu con la
chitarra, come i musicanti di un
tempo, come Pakai e Genesio,
grandi personaggi.

L.M. Hai ragione Mauro, stai sicuro


che loro non si sono mai lasciati
andare allo scoramento. Pakai
diceva: «Cjale ce biei regai ch’a nus
fâs ogni di la vite!», guarda che bei
regali ci fa ogni giorno la vita! Ho
imparato da lui che l’allegria può
commuovere ed essere contagiosa.
Lo sai meglio di me, ogni paese
custodisce le sue storie, molte
restano nascoste e si perdono.
Silenzio e tempo hanno buon gioco
a cancellare le persone invisibili.
Una storia di montagna però
insiste, si affida al buon senso della
memoria, al bene che ha lasciato
attorno a sé. Un nome, un luogo, un
fatto e appaiono come d’incanto
quei piccoli eroi, gli artisti di
montagna, con la loro arte popolare
votata allo stare insieme.
Le persone crescevano con
l’odore di stalla appiccicato addosso
e i legami conoscevano un
isolamento territoriale ma mai
senza umanità. La nostra era una
terra povera di beni ma generosa di
umanità. La vita non era facile
eppure le persone godevano
nell’incontrarsi al ritmo del
musicante di turno. Il buonumore
dava a ogni incontro un’andatura
sempre un po’ esagerata. Non era
solo l’abilità musicale a rallegrare,
era anche il modo di agire di questi
strani personaggi, erano la simpatia
e quel tanto di bonaria follia
montanara che si portavano
appresso come un vento foriero di
buoni auspici. L’importante era non
concedere spazio alla solitudine:
essere soli, ieri come oggi,
significava essere deboli. La musica
allenava alla compagnia e
all’amicizia.
Amato Matiz detto Pakai è stato
il musicante di Carnia più
conosciuto di sempre. Il
soprannome, ereditato dal padre,
suona un po’ come una beffa: pachê
in carnico vuol dire lento, uomo che
si muove lentamente, Pakai era
proprio l’opposto. L’amico
inseparabile con cui ha condiviso la
sua avventura di artista popolare si
chiamava Genesio Puntel, hanno
suonato insieme per tanti anni. Con
Paolo Morocutti hanno fondato uno
straordinario trio. Una sera accadde
un fatto strano: il trio si esibiva a
Resia, durante una pausa salì sul
palco un cantante di nome Stefano
Paletti con un amico fisarmonicista.
Pakai lo sentì e si precipitò di nuovo
sulla scena: voleva essere lui ad
accompagnarlo. Da quella sera
Stefano diventò il cantante del trio
Pakai.
Stravagante, irresistibile, ironico,
Pakai si era inventato persino un
mostro preistorico e molti ci
avevano creduto, persuasi dalle sue
doti di affabulatore. Era stato così
convincente da finire in copertina
sulla «Domenica del Corriere».
Riuscì a portare in zona gente da
ogni dove. Si disse che voleva fare
pubblicità alle nostre montagne
isolate, altri assicurano che fu solo
un modo per godere delle reazioni
dei paesani. Comunque la voce
prese a diffondersi e il lungo rettile
che si aggirava in località Laghetti
divenne una storia vera.
Era stato un articolo sul mostro
di Lochness a fargli venire l’idea di
un mostro dei poveri. La
concretezza dei carnici difficilmente
poteva dar credito a una storia di
quel tipo. Invece Pakai convinse
tutti. Nascosto nella palude
produceva misteriosi suoni con uno
zufolo di sambuco. Qualcuno nelle
sere di ottobre si immaginò delle
ombre, altri testimoniarono rumori
e la fantasia fece il resto. Il fatto
venne riportato dai giornali locali e
ogni volta che si parlava di
montagna appariva uno speciale
dedicato al mostro dei Laghetti. Poi
la notizia sconfinò e la «Domenica
del Corriere» mandò un inviato a
verificare quanto si vociferava sui
monti di Carnia. Seguì un
lunghissimo articolo, il mostro
apparve addirittura in copertina.
L’inviato si era inoltrato nella
palude sul far della sera. Pakai gli
aveva assicurato fosse quello il
momento migliore, poi aveva messo
in atto il suo piano con l’uso di
suoni e rumori provocati dal
trascinamento di una pertica. Il
giornalista non vide niente ma finì
per credere che qualcosa di strano e
misterioso c’era eccome.
Ogni suono, per Pakai, era
motivo di interesse e fonte di nuove
scoperte. Ma la cosa che più
sorprendeva di lui era l’abilità che
aveva di potenziare la musica con il
suo spirito e la sua irregolarità.
Pakai era proprietario di un’osteria
a Cleulis, nel comune di Paluzza,
dove la gente arrivava numerosa
soprattutto la domenica e
s’intratteneva fino a tardi. L’osteria
esiste ancora, è stata data in
gestione. Una volta ricordo che si
fermò una corriera di gitanti
austriaci. Doveva essere una sosta
breve invece la festa indossò l’abito
delle grandi occasioni. Inutili
risultarono gli inviti dell’autista,
nessuno voleva rinunciare a quella
musica scatenata. Solo verso le due
di notte i più si decisero a salire in
corriera. Per convincere gli ostinati,
Pakai e Genesio li accompagnarono
suonando. Salirono anche loro per
un’ultima stravaganza: un ballo tra i
sedili. Le richieste però ripresero.
Un po’ per l’insistenza un po’
perché doveva essere così, la festa si
trasferì a bordo e l’autista, che non
poteva più rimandare, partì
portandosi dietro anche loro due.
Rientrarono dall’Austria dopo
quattro giorni durante i quali
passarono da una famiglia all’altra.
Se li contendevano a suon di cibo e
birre artigianali.
Pakai era molto amico di mio
nonno Pio, entrambi erano
specialisti nell’esagerazione. Veniva
spesso a casa nostra, anche in anni
recenti, dopo la paresi che colpì il
nonno accentuando la sua indole
fanciullesca. «Nissun ch’al lassi
nissun», nessuno lasci nessuno,
diceva con la sua voce acuta. Suonò
un intero pomeriggio per lui e,
nonostante i limiti della malattia, il
nonno si adoperava ad
accompagnarlo battendo il tempo
con la mano sul tavolo, senza
precisione. Pakai sorrideva fingendo
di non accorgersi dei fuori tempo e
lo incitava a insistere. Il nonno
allora batteva più forte, l’abilità lo
aveva abbandonato, il male si era
portato via la coordinazione, la loro
festa sembrava una rivincita nei
confronti della vita. Io applaudivo e,
senza saperlo, protestavo contro
quel destino ingiusto. Le risate
rispedivano indietro le lacrime e i
sorrisi si alzavano a esaltare il
motto che un musicante non
doveva cedere né arrendersi mai. Si
suonava ancora insieme, senza
badare ai limiti, alle mancanze, si
suonava comunque.
Solo un anno prima, all’albergo
Marconi di Paluzza, Pio e Pakai
avevano strappato calorosi consensi
durante una festa di matrimonio.
C’era anche mia madre quel giorno,
desiderosa di aggiungersi a loro.
Quando suonava con Pakai, il
nonno sembrava un’altra persona.
Migliorava, si muoveva, era più
energico. Pakai lo incoraggiava con
grida di approvazione. Quegli
incitamenti lo portavano a caricare
ancora di più il ritmo e Pio lo
seguiva dando il meglio di sé.
Ricordo ancora la volta in cui,
mentre suonavano insieme, Pakai
accelerò all’improvviso. Il nonno
faticava a adeguarsi ma come un
bambino prese a rincorrerlo
esaltandosi agli strappi sempre più
veloci del maestro. E ridevano e se
la godevano come ragazzi che
stavano combinando uno scherzo. Il
ritmo correva sempre più veloce,
spinto dalle voci impazzite che si
alzavano in sala. Fu un momento di
eccitazione che colpì anche me che
li guardavo avanzare come se
stessero dando alla vita la loro
impronta di bambini inguaribili.
«Evviva!» dissi a voce alta, ed ero
un ragazzino timido che di solito
non apriva bocca. «Evviva!»,
«Evviva!» si sentiva da più punti
della sala. Pakai continuava a
suonare e il nonno a rincorrerlo.
Bastava chiudere gli occhi, si saliva
sulla fisarmonica di Pakai e si
volava. Sembrava che anche le
montagne ascoltassero quei figli
indisciplinati.

M.C. Lo conosco bene il trio Pakai,


li portò qui a Erto il mio amico
Silvio, il rabdomante delle acque.
Era andato per lavoro dalle parti di
Cleulis e li aveva sentiti suonare.
Organizzò subito qualcosa e fu una
grande festa. In seguito portò anche
Sdrindule, altro geniale artista di
strada. Ma dimmi una cosa:
Genesio è ancora vivo?
L.M. No, è morto da poco,
all’improvviso. Aveva novantadue
anni.

M.C. Dimmi del funerale di


Genesio.

L.M. C’erano tutti ovviamente,


insieme alle figlie, c’erano i
familiari di Pakai. Erano
inseparabili quei due. Bevitori
micidiali…

M.C. Per questo erano in gamba…

L.M. Durante il funerale le due


figlie di Genesio si sono avvicinate e
mi hanno detto: «Poi passi un
momentino da Pakai?». Ci siamo
ritrovati tutti all’osteria a bere un
bicchiere alla sua memoria.

M.C. Erano forti! Una coppia mitica.

L.M. Ti stendevano… Io ero


giovanissimo, ho anche suonato con
lui. Suonare con Pakai mi sembrava
come adesso fare un libro con
Mauro Corona, una roba così…
Suonavo il basso all’epoca. Il
bassista, come un buon gregario,
deve esaltare lo strumento
principale. Il leader deve sentire che
tu gli mordi il culo, che lo incalzi e
lo sostieni. Io lo vedevo dalle sue
espressioni che gli piaceva, lo
caricavo e lui si alzava, iniziava a
muoversi, a danzare con la
fisarmonica, la gente impazziva.
Allora continuavo, però sempre
senza troppo volume, senza
esagerare perché non dovevo mai
coprirlo, mai togliergli spazio.
Pakai doveva sentire che le sue
note stavano esaltando anche me.
C’è gloria per tutti, ma il leader è
uno. Oggi si commette un errore
clamoroso, tutti credono di essere
leader. Se tu capisci che il leader è
sempre uno, funzioni meglio, la
gente ti vuol bene. Chi se ne frega
se non sei tu il leader. Io sapevo
come caricare Pakai e lui sai cosa
faceva? Saltava sulla sedia e poi
perfino sul tavolo. In quel momento
in sala le persone esplodevano.

M.C. Era posseduto!

L.M. Una comunicazione fisica


strepitosa. La gente diventava
matta, se non volavano mutande e
reggiseni era solo perché era
un’epoca in cui nessuno voleva
spogliarsi in pubblico. Pakai era
conosciuto in tutto il Friuli. Tutte le
persone, di ogni ceto sociale,
giovani e anziani, erano ammaliati
da Amato Matiz e Genesio Puntel.

M.C. I Led Zeppelin del Friuli!


Silvio portò qui parecchie cassette,
li ho conosciuti così i loro pezzi.
Erano artisti di strada ed eccellenti
bevitori, che non guasta. Amato era
un genio semplice e umile. Già il
nome, trio Pakai, quando lo senti
pronunciare sembra di vedere gli
aironi neri… Amato aveva una
moglie?

L.M. Sì, si chiama Josette, hanno


avuto una figlia, Gina. Nella casa
dove vivono hanno adibito la
mansarda a museo, ci trovi ancora
le sue fisarmoniche, le foto, targhe,
manifesti, coppe, ogni genere di
ricordo…
M.C. Quando è morto?

L.M. È morto giovane, a


cinquantaquattro anni, il 20
settembre 1985. Il 21 giugno 1983
ha avuto un ictus. Sua moglie mi
fece telefonare da un amico comune
per dirmelo. Sono andato di corsa
all’ospedale a trovarlo, Pakai mi
disse: «Visto cosa mi è capitato?
Stavolta è finita…». Piangeva, era la
prima volta che lo vedevo triste,
completamente abbattuto. Poi si è
ripreso, due anni dopo è arrivato un
nuovo attacco e non ce l’ha fatta.

M.C. Una maledizione per uno così.


L.M. Ma erano vite sregolate, ai
limiti! Quando penso ai musicanti
sconosciuti come Pakai, ma dovrei
citare anche Baghét, Nardin, Pane e
molti altri, mi accorgo di quanto
sono stati necessari. Personaggi
semplici, incapaci di strategie
commerciali, che nulla sapevano di
editoria, diritti d’autore, ma utili, e
l’utilità merita considerazione e
gratitudine.
Pakai è sempre stato disponibile,
generoso, altruista. Non ha mai
smesso di far sentire importanti gli
altri. Uomini, donne o ragazzi,
ognuno si sentiva valorizzato,
ognuno si sentiva un po’ speciale.
Lui si metteva allo stesso livello,
mai un moto di vanità. Non faceva
classifiche, considerava la musica e
la compagnia anzitutto un piacere.
Ricordo una volta che andai con lui
a Cividale, in ogni osteria le persone
lo riconoscevano e si avvicinavano
per scambiare qualche chiacchiera o
per salutarlo. Non aveva con sé lo
strumento e questo portò a più di
una protesta. Durante quel viaggio
gli parlai delle cose che scrivevo.
«Non puoi metterci solo dolore in
quello che suoni altrimenti la tua
musica risulterà troppo seria» mi
disse. In modo semplice mi aveva
regalato un consiglio importante.
Era singolare che proprio lui
raccomandasse il senso della
misura, lui che pareva esagerare
sempre. Li sento ancora questi
artisti straordinari, anche se la
maggior parte non ci sono più
fisicamente. Se chiudo gli occhi li
vedo, ognuno con il proprio stile,
acquisito in anni di generosa
attività con l’unico scopo di portare
un momento di ricreazione, di
alleggerire la fatica e liberare un po’
di gioia. Teu era portato per i brani
sconsolati. Aveva un’espressione
tristissima, pareva sempre assorto
in qualche malinconica divagazione
esistenziale. Sachete «Tasca», un
uomo minuto, impacciato, sempre
con una valanga di cose in tasca: un
rotolo di spago, un coltello, un
sacchetto di chiodi, una bottiglietta,
delle noci. Erano le sue tasche piene
di roba che gli avevano procurato
quel soprannome. Una volta,
mentre suonava, gli misero in tasca
una rana. La rana saltò fuori, finì
sul pavimento e un ballerino la
schiacciò. Il tafferuglio che seguì
aiutò a dare il nome al ballo: «Il bal
dai crots», il ballo delle rane.
Agnul murose cantava con tono
malizioso di desiderarla… sia scura
sia chiara; il Doghe perdeva il
tempo e a scusante diceva che nella
vita non ci deve essere fretta; Lino
Clocjat non solo suonava con
metodo, si costruiva da sé gli
strumenti; Milio Luche indugiava
sul tempo per poi recuperarlo con
mirabolanti svisate; Vigjut con il
violino cercava di capire in che
tonalità cantava il gallo di casa;
Agosto componeva poesie per ogni
donna del paese usando spesso le
stesse frasi così da creare diverse
crisi di identità; Garibaldi svisava
sulle note alte del suo violino per
accentuare le stranezze umane e su
quelle basse per avvalorarne la
serietà; Chechi Paluber non lasciava
mai inoperosa la sua tromba,
rientrava a casa sempre in ritardo
per amore della compagnia; Pierin
di Vinai si esibiva persino in groppa
al suo asino, girando da paese a
paese; Rono e Valcos calavano
mezzo litro di vino nel clarinetto del
loro compagno Mano per oliare lo
strumento e il suo stomaco; Amore
non si esibiva mai senza indossare
la sua cravatta; Carete suonava
sdraiato per sbirciare sotto le gonne
di Mariute, la sua preferita; Leonzio
suonava il contrabbasso a occhi
chiusi per impressionare
soprattutto i più giovani; Toni
Cjandot, detto «La bemol» perché
era la sua nota preferita, imponeva
che i brani venissero eseguiti in
quella tonalità, altrimenti si
fermava; e ancora il Barbîr, Tito,
Scosse, Pichi, Socrate, Zata, Bino,
Marieto di Salin, Puto, Barba, e poi
Cecilia, mia mamma, l’unica
musicante donna che arrivava alle
serate a bordo della sua Gilera, con
la fisarmonica legata al sellino, suo
figlio davanti, attaccato al
manubrio… Come dici tu Mauro, se
ci fosse stato Telefono azzurro
l’avrebbero denunciata.
Filosofastri

Un messaggio nella bottiglia: «Ho


rinunciato alla corrente elettrica,
accendo il focolare e la stufa, la
sera accendo le vecchie lampade.
Non ho acqua corrente, pompo
l’acqua dal pozzo, spacco la legna,
cucino. Questi atti semplici rendono
l’uomo semplice: e quanto è difficile
essere semplici!», tratto da Carl
Gustav Jung, Ricordi, sogni,
riflessioni, 1961.

M.C. Si parte ogni giorno; da quello


che resta. Sai quante volte ho
bevuto il caffè la mattina con un
amico e la sera sono venuto a
sapere della sua morte? Ogni
mattina dovremmo partire con la
speranza che ci vada bene.
Dobbiamo imparare a fare le cose
come se fossero le ultime. La nostra
vita è piccolissima, sta nel palmo di
una mano, sta a noi decidere se
chiuderla a pugno o tenerla bene
aperta.
Non parlo del futuro
dell’umanità, parlo della qualità
delle nostre vite che per un
cinquanta per cento dipende da noi.
I miei più cari amici, per esempio,
sono stati maestri del vivere
partendo ogni giorno da ciò che
restava. Forse io l’ho capito troppo
tardi. Loro sono stati per me come
dei filosofi involontari, filosofastri.
Diceva Macedonio Fernández:
«Guarda quello lì, un povero
diavolo, un misto di buffone e
filosofastro». Credevo fossero dei
rinunciatari, oggi finalmente ho
capito che erano loro i vincenti.
Avevano saputo indirizzarsi verso la
«pacifichezza» del vivere,
rifiutavano il combattimento,
hanno vissuto senza bisogno di farsi
vedere, senza dover passare
dall’accettazione degli altri per
guadagnarsi la propria. Io li vedevo
come dei perdigiorno (lo sono stato
anch’io), invece avevano capito
tutto, avevano capito che non serve
questo combattimento perenne. San
Paolo lo chiama «il buon
combattimento». Loro ci avevano
rinunciato e anch’io ho imparato a
capire che in quella lotta non c’è
nulla di buono. Il «buon
combattimento» di san Paolo
oggigiorno è diventato feroce
combattimento.
Tu pensa a quante teste
sarebbero capaci di offrire sapienze
essenziali al genere umano. Se sei
un pensatore, scrittore, filosofo,
cosa devi fare? Devi mettere a
disposizione degli altri quello che
hai acquisito. La tua filosofia e il
tuo pensiero devono essere pratici,
utili a qualcuno. Soprattutto
espressi in modo semplice. Pensa
che soddisfazione se una persona ti
incontra per strada, ti avvicina e ti
ringrazia perché quella cosa che hai
detto oppure hai scritto ha dato
veramente un senso alla sua
esistenza. O un piccolo aiuto.
Invece il meccanismo, anche nel
mondo cosiddetto intellettuale,
finisce quasi sempre per ridursi a
quanto sei telegenico, quanto il tuo
eloquio, la tua immagine brilla a
partire da quello che dici.
Ho sempre creduto che il valore
più grande stia nell’utilità di ciò che
si dice. Certo, se qualcuno mi fa:
«Vuoi più soldi?», non è che me ne
vado schifato voltando le spalle. Ma
come diceva Giovanni Verga: «In
fondo in fondo ci porteremo via
solo ciò che abbiamo dato». Questo
principio è spesso assente nel
mondo della cultura, nella classe
pensante, ed è un impoverimento
inaccettabile. Se i grandi filosofi e
pensatori di oggi non riescono ad
aiutare il prossimo con ciò che
dicono allora non resta che tenere
occhi e orecchie ben aperti per
carpire le lezioni di questi
filosofastri di strada, che non
monetizzano ciò che dicono, non
predicano per vanità o per successo.

L.M. Da quando ti conosco Mauro, e


sono parecchi anni, ti ho sempre
visto come un pirata che scende
dalle sue montagne portando con sé
questa frase: «Ma dove cavolo
stiamo andando?». Questo grido di
protesta arriva a molte persone ed è
una forza che tu trasmetti. Di
questo si sente la mancanza oggi.
Allora uno si accomoda nella
filosofia montanara, perché nelle
cose che dici, anche le più dure, le
più esagerate, e a volte lo sono, si
percepisce comunque un grido di
protesta contro un sistema che ha
dimenticato la centralità dell’uomo.

M.C. Bisognerebbe smetterla di


dare consigli e comportarci in una
certa maniera che riscopra l’etica. A
partire dagli insegnamenti che ho
ricevuto da analfabeti, da persone
semplici, vedo che la filosofia o i
pensatori sono anche altrove. Quelli
che si pigliano sul serio dovrebbero
imparare anzitutto a pensare
semplice, smetterla di creare queste
élite con un linguaggio che solo in
pochissimi capiscono. Così
umiliamo la loro stessa attività. Io
non sono certo un guru, sono un
povero diavolo, ho letto Essere e
tempo di Martin Heidegger e anche
i Quaderni neri. Perché sono
curioso, desidero capire, scoprire
cose nuove. In pratica voglio farmi
male. Ma cosa ha fatto Heidegger
per l’umanità povera e umile?
Complicatissimo, fine a se stesso.
Così per i Quaderni neri. Il
fondatore di una corrente che
hanno chiamato Esistenzialismo e
che dovrebbe raccontarti cos’è
l’esistenza ha scritto un libro
illeggibile, per la gente normale
intendo. Benissimo, lo faccia pure,
ma penso che se vuoi dire qualcosa
di veramente autentico
sull’esistenza allora devi aprire
porte che siano percorribili da tutti.
Devi farlo nella maniera più
semplice possibile, senza vanità,
senza essere contorto e
inaccessibile.
Stimo assai il filosofo Massimo
Cacciari, lo vedi, lo ascolti e capisci
subito che ha dentro un mondo
costruito attraverso anni di studi.
Però ho letto un suo libro di recente
e non sono riuscito a uscirne
indenne. Cacciari può dirmi:
«Perché sei un ignorante, uno che
non è preparato!». Certo! Ma
quanta umanità non è preparata a
camminare su percorsi tortuosi? E
qual è il fine di una filosofia se non
avvicinare il maggior numero
possibile di persone trasmettendo
messaggi profondi e utili?
Soprattutto in linguaggio chiaro.
Wittgenstein disse: «Un filosofo
non dovrebbe avere maggior
prestigio di un idraulico». Allora
siate semplici anche nella scrittura.
Invece molti fanno giochi ardui.
«Negli spazi siderali si sta
verificando lo scontro titanico tra
due forze contrastanti suffragate da
correnti e da elettricità precipitanti
sulla terra.» Dimmi semplicemente
che sta arrivando il temporale! Chi
vuol lanciare qualche indicazione
per migliorare i sentieri impervi
dell’esistenza deve parlare semplice.
Ma forse non interessa a nessuno.
Sta avanzando un nuovo
nichilismo che fa dire: «Chi se ne
frega, morto io morti tutti», perciò
niente rispetto per nessuno. Chi
cerca di aiutarci deve farlo nel modo
più semplice possibile. Sono
argomenti nuovi, che riguardano
tutti e non possono essere chiusi in
un pensiero fine a se stesso. Da
parte mia continuerò a leggere
anche libri di filosofia perché sono
un lettore onnivoro, ma spero di
trovare qualcuno che finalmente
sappia dirmi qualcosa di concreto,
pratico e dunque vero. Soprattutto
percorribile, praticabile, perfettibile.
È un po’ quello che facevano gli
antichi greci: pensavano per aiutarti
a vivere un po’ meglio.

L.M. A volte mi capita di aprire un


libro che m’interessa magari per il
titolo ma poi finisce che lo chiudo
perché mi sento inadeguato.
M.C. Questo sfoggio di cultura
perduta nell’intrico può creare
anche complessi d’inferiorità in chi
legge. E mi domando con un po’ di
malizia se in molti casi non sia
proprio questo il fine di alcuni
pensatori. Mi son sforzato a leggere
i libri di Roberto Calasso e non ci ho
capito granché. Ovviamente è colpa
mia, lui è un eccelso. Ho avuto
l’impressione di un uomo seduto su
una vetta che dice: «Laggiù c’è tutto
il mondo che cammina a quattro
zampe». E poi vantano recensioni
importanti, di grandi scrittori,
editori, politici, critici letterari.
Pochi vantano l’amicizia di un
barbone! Predicano generosità e
non concedono un’ora per stare con
loro a imparare qualcosa. Potrei
fare nomi e cognomi ma preferisco
di no altrimenti mi creo nemici e ne
ho già abbastanza. In questo modo
le persone semplici, ascoltando certi
intellettuali schizzinosi, si sentono
in difetto, ignoranti, fuori luogo.
Anziché dare qualcosa, un po’ di
aiuto e un po’ di luce, i sapienti di
oggi tolgono. Anziché essere di
qualche utilità creano
disorientamento.
La cultura, oggi troppo sofisticata
e contorta, produce
disorientamento. Senza
orientamento non puoi trovare la
strada, sei perso, nessuno ti aiuta.
Credo che sia soprattutto un fatto di
umiltà che come ogni dote non è
naturale, non ce l’hai dalla nascita,
la devi acquisire attraverso una
forma di educazione. Possiamo
imparare. Tutti coloro che magari
come me, leggendo Essere e tempo
di Heidegger, o i Quaderni neri, o
ascoltando un discorso difficile, si
sono sentiti inadeguati e ignoranti
possono sperare. Io sono ignorante,
ho scarsa materia grigia ma mi
alleno.
Prendiamo le automobili, non è
una dote naturale saperle guidare
eppure l’umanità è fatta di auto e di
miliardi di persone che ci saltano
sopra e le guidano. Pensate al
potere del nostro cervello. Conosco
persone che sono di livello
cerebrale quasi a zero e hanno
preso la patente al primo colpo. Noi
diamo per scontato che guidare
l’auto sia ormai un fatto biologico e
naturale, invece se ci pensiamo
bene è una cosa complicatissima
che però abbiamo ormai inserito nel
dna. Capisci cosa vuol dire la testa?
Ieri raccontavi le storie di questi
personaggi scapestrati: quello che
ha perso le due mani e se le è
ricostruite, il cieco che non ha
smesso di suonare dopo che la
pallottola gli è esplosa in faccia,
l’altro che aveva ereditato la
fisarmonica e diceva «noi vediamo
con questa», il falegname-
musicante che aveva perso la
falange del dito indice, il più
importante per un contrabbassista,
e si era ingegnato per costruirsi una
protesi… Tutto questo parte dalla
nostra testa, se davvero lo vogliamo
nessuno è inadeguato. Tutti siamo
in cammino in questa vita, solo che
ci serve un po’ di orientamento,
orientamento facile, accessibile, alla
nostra portata, soprattutto oggi che
sembrano non esserci più radici
culturali. Succede anche qui tra
queste montagne e infatti la cultura
montanara si sta riducendo a queste
nostre rievocazioni di un passato
diventato epopea.
Anche dalla persona in
apparenza molto ignorante puoi
imparare la più alta lezione di
filosofia. Ho conosciuto un vecchio
tornitore che aveva fatto la guerra
d’Africa, torniva con l’elmetto
coloniale in testa. Un personaggio
incredibile, da cui ho imparato
tanto. Era diventato quasi cieco ma
lavorava ancora, faceva ciotole,
candelabri, piatti e scodelle. La cosa
che mi colpì è che praticamente
torniva al buio. Ci vedeva davvero
poco, per cui una volta gli dissi:
«Metti una luce più forte che ti
aiuta a lavorare meglio». Lui
rispose: «No, mi basta questa, io
non lavoro con gli occhi, sento le
forme con le mani. Non ho bisogno
di luce, sento le forme». Pensa che
saggezza. Ma io lo incalzai con
arroganza: «E se devi leggere il
giornale come fai? Lo palpi?».
«Mauro, io non so leggere, non ci
vedo più. Ma se devi carezzare una
donna la guardi o la tocchi con le
mani?» Così un ragazzo impara e fa
tesoro di queste lezioni: questa è
una filosofia spicciola e involontaria
di quelli che mi piace chiamare
filosofastri.
Se per dirmi che sta arrivando il
temporale mi parli di «uno scontro
titanico negli spazi siderali tra due
forze contrastanti e opposte
sostenute dall’elettricità…», io non
capisco che è il temporale. Questo
fanno certi filosofi, in questo caso
sì, «filosofastri». Invece di darci
una mappa per capire cosa conta e
cosa no, ci confondono ancora di
più.

L.M. I filosofastri Mauro, ogni


paese ha i suoi, a Cercivento c’era
Valentino che chiamavamo Tin. Il
suo ricordo risuona ancora oggi
nelle case del paese. Tin celebrava
una ricorrenza davvero particolare.
In un contesto in cui il lavoro era il
principale dei doveri, lui aveva
deciso di non lavorare più. Gli
bastava quello che aveva,
pochissimo per non dire niente, e
non voleva affannarsi o coltivare
aspirazioni. «Al è dut nue fantats, al
è dut nue.» È tutto niente ragazzi, è
tutto niente. Come disse il tuo
amico Rigoni Stern. Pronunciava la
frase sottovoce, quasi non volesse
far fatica. La sua conversione
avvenne nel febbraio del 1962
quando, impegnato nei lavori per la
costruzione di una strada in paese,
un giorno esclamò: «A disin che
fevrâr al è curt? Bisugne provâ a
lavoralu!». Dicono che febbraio è
corto? Bisogna provare a lavorarci!
Appoggiò la pala e se ne andò.
Negli anni a seguire molti dei
suoi giorni li dedicò a non fare
niente restando seduto in
compagnia di Pat, il suo gatto, a
celebrare l’inattività. Possedeva due
vestiari, uno per l’inverno e l’altro
per l’estate. D’inverno indossava un
cappotto di doppia misura rispetto
al suo fisico minuto, d’estate
indossava dei pantaloni corti,
larghissimi: in entrambi i casi
sembrava sparire negli indumenti.
Accettava di fare piccoli lavoretti
solo quando la fame non gli dava
scampo. Mai di febbraio però. Non
voleva soldi, a compenso chiedeva
un pezzo di pane o di polenta, era
l’esempio di come si potesse vivere
con niente.
Un anno nevicò così tanto che il
suo malandato tetto si piegò. Se la
neve era troppa la si toglieva, ma lui
osservò che la pala non era stata
inventata per lavorare sui tetti.
Finché il tetto crollò. A chi chiedeva
conto di quel disastro, Tin ripeteva
che era stato l’ultimo fioc-co di neve
a procurare quel danno: a palare
ogni fiocco sarebbe dovuto
rimanere lassù per sempre. Rimase
l’intero inverno rintanato in un
angolo, dove si era ricavato un
parziale riparo.
Tin in passato era stato
protagonista d’imprese importanti,
non era un fannullone. Durante la
guerra del 1915-18 salvò il paese da
una rappresaglia dialogando con il
graduato tedesco nella sua lingua
con una tale padronanza che riuscì
a convincerlo a desistere. I paesani
non si capacitavano di dove avesse
imparato a parlare il tedesco in quel
modo, lui non lo spiegò mai. Eppure
lo conosceva benissimo. Volevano
sdebitarsi offrendogli dei beni, lui li
rifiutò raccomandando a tutti di
dimenticare quel gesto: meno si
parlava di lui e più felice era.
Nell’ultimo periodo della sua vita
un’inaspettata pensioncina gli portò
quel tanto a cui aveva sempre
rinunciato. Balbettò per qualche
mese, incerto sul da farsi. Nel primo
periodo non ritirò i soldi, quasi li
temesse; e aveva ragione. Poi tutta
la sete accumulata in una vita trovò
improvvisamente consolazione:
ogni mese Tin tramutò la pensione
in vino. C’è chi è convinto che fosse
stanco, che la sua delicata
sensibilità avesse accumulato
troppa solitudine, perciò il vecchio
Tin desiderava andarsene in
anticipo. Altri insistono a dire che
scelse quella strada per dimostrare
la bontà delle sue teorie sottrattive,
che il troppo, come diceva lui, finiva
sempre per «rindi pesants i pinsîrs
e distudâ i desideris», appesantire i
pensieri e spegnere i desideri. Altri
ancora sostengono che non avesse
superato la perdita di Pat, il gatto
morto di vecchiaia.
A Cercivento Tin resta una
leggenda. Una sua scultura ai piedi
del bosco rimane a ricordare la sua
vena creativa, il suo amore per il
paese, il valore di una vita
essenziale contro le insidie di ogni
eccesso. Morì senza un soldo. Se ne
andò durante il suo primo ricovero
in ospedale, a Tolmezzo. Non aveva
parenti e nessuno venne a cercarlo,
così per legge venne sepolto in quel
comune, foresto. Chissà se si
riuscirà a riportarlo al cimitero del
paese. Ci andava spesso al cimitero,
gli piaceva quella posizione
soleggiata, girava tra le tombe a
salutare i paesani che non c’erano
più e a raccontare loro le novità.
«Si salvi chi può, Pat!» è la frase
che si ripete ancora, a ricordo della
rocambolesca fuga di Tin prima che
il tetto crollasse. Lo sentì gemere
sopra la propria testa e vedendo il
gatto con il pelo ritto pronunciò
quelle parole. Pochi secondi e ci fu
il crollo. La casa ondeggiò sotto il
peso delle travi e della massa di
neve depositata a seguito di quel
terremoto, Tin cadde dalle scale e
restò claudicante per diversi mesi. I
più buontemponi si divertivano a
chiedergli del crollo per sentire
l’esortazione alla fuga fatta a Pat. Il
gatto continuava a rizzare il pelo
ogni volta che il suo padrone
pronunciava la frase: «Si salvi chi
può, Pat!». E il povero Pat fuggiva
riprovando quell’attimo di paura.
Il tetto crollato non fu riparato e
non risultò più un pericolo. I soldi
di quella misera pensione
diventarono invece quel tetto
invisibile che gli piombò addosso e
non gli diede possibilità di fuga. Si
salvi chi può, Tin! Ma lui era ormai
troppo stanco per ascoltare.

M.C. Devo dire che anch’io me la


sono costruita un po’ da autodidatta
una filosofia filosofastra. A partire
dalla vita, dalle esperienze e anche
da questa nostra cultura di
montagna. Quando sei solo, durante
una scalata, magari di notte, o
anche mentre fai una passeggiata
tra i boschi, puoi sentire qualcosa
intorno. È qualcosa di indefinibile,
molto presente. Da questo sentire
ho costruito una mia religione.
L’energia dell’universo è potente ed
eterna mentre la Terra non è eterna.
La vita sulla Terra si spegnerà. Noi
ce la stiamo mettendo tutta per
accelerare questo spegnimento.
Domenico Scandella detto
Menocchio, bruciato al rogo dalla
Chiesa cattolica, era convinto che la
vita sulla Terra fosse nata come i
vermi nel formaggio. La sua storia
l’ha raccontata Carlo Ginzburg in
un saggio che s’intitola Il
formaggio e i vermi. Forse è
diventato un film, non ricordo.
Immagina di prendere del latte,
lo cagli, fai il formaggio, dopo un
anno apri la forma del formaggio e
dentro trovi un brulichio di vermi…
Da dove sono nati? Sono vivi, si
muovono! Lui fu messo al rogo
perché ipotizzava una venuta
dell’uomo sulla Terra come il
formaggio e i vermi: fu bruciato
subito! Penso all’anima sua. Sono
convinto che l’anima non è, come
diceva mia nonna, quella
medaglietta che ti porti appresso
contenente tutte le cose che hai
fatto nella vita. E che quando crepi
vola su. Mi piace pensare che
l’anima non è quello che abbiamo
fatto materialmente nella vita ma
quello che abbiamo pensato.
Esiste un corpo animico. Con la
morte quello fisico si decompone, il
corpo animico invece resta da
qualche parte. Il pensiero è energia,
si disperde nel cosmo, nell’infinito.
Questo mi aiuta molto a pensare a
un Dio che non è certo il Dio di
preti e cardinali. Penso spesso al
nostro sistema solare… Immagina
di imbarcarti in un’astronave che
puoi puntare tu in qualsiasi
direzione. Viaggi in eterno, non c’è
mai fine. Questo è impressionante.
Questo è Dio. Marte, Giove, Urano,
Plutone, Nettuno…: passati quelli
non ti sei neanche mosso rispetto
all’immensità dell’universo che non
finisce.
Pensa al vuoto… Anche questo
per me è Dio. Prova a ragionare,
siamo una pallina nel cosmo in una
distanza che non ha mai fine.
Mettiamo pure di riuscire a fare
cinquecento milioni di anni luce,
mille miliardi di anni luce. Non ci
siamo neanche mossi, perché non
esiste fine… Questo per me è Dio.
Una concezione terrificante e
misteriosa. Il resto sono chiacchiere
dei preti. L’uomo deve avere
l’umiltà di non definire Dio perché
non ci è permesso vederlo. Ridurlo
in concetti è inutile, però ci è dato
percepirlo. Avverti qualcosa
d’immenso attorno a te. Nell’aria,
nel mare, sulle montagne. Perciò mi
sembra importante non ridurre
questo mistero grandioso a una
retorica banale. La chiamo retorica
da cartoni animati.
Quando sento parlare della
bellezza della montagna dico: «Sì,
ma togliamoci Heidi», come ha
detto Sergio Reolon, montanaro
doc. Quella non è la montagna
reale. «Vedo Dio in un filo d’erba»,
bellissimo, ma se ti ferisci e in quel
filo d’erba ci ha lasciato la bava la
volpe con la rabbia passi brutti
momenti. La natura materiale è
pericolosa. Quella spirituale è Dio.
Siamo formiche, pulcini sotto la
chioccia: se la natura materiale
sbadiglia o si stiracchia o muove le
ali siamo spazzati via.
Mi va bene la poetica della
montagna ma poi c’è la parte
pratica, reale, è di quella che devi
tener conto se vuoi sopravvivere.
Ho visto gente morire per aver
calpestato la terra con troppa
poesia. La montagna è una roba
seria. Mi va bene la saga di Heidi
ma solo in televisione. Porto
bambini nei boschi a camminare,
cerco d’insegnare loro a riconoscere
alberi e animali, a divertirsi. Ma
nello stesso tempo gli insegno i
pericoli, le attenzioni che si devono
avere a muoversi in un ambiente
che non è cattivo, non è ostile ma è
composto da elementi che se ne
tocchi uno nel momento sbagliato
sei morto. Un conto è la poetica, un
altro è viverci. Pessoa disse una
frase molto azzeccata: «La natura
mai si ricorda e perciò è bella». Se
qui è venuta giù una valanga e ha
fatto dieci morti, il prossimo anno
non è che la neve pensi: «Be’, lì ho
fatto già dieci morti, non vengo più
giù».
Sono vivo perché ho imparato a
muovermi. Ci vuole intuito, istinto
e tanta esperienza. Quelli che
hanno visto la pubblicità in tv di
due giovani che scalano con la corda
di traverso, e una volta in cima
sgranocchiano una cioccolata,
quando vanno davvero in montagna
rischiano di lasciarci la pelle. I
giovani dello spot sono maldestri,
non hanno alcuna sicurezza, il
ragazzo che li vede sullo schermo
penserà che così si va in montagna.
Poi ci provano e sono morti.
Ho rischiato molto, ho avuto
tanti colpi di fortuna, ho imparato a
credere a una forma di
predestinazione. Non che io fossi
importante per l’umanità ma credo
che l’energia di cui abbiamo parlato
prima mi abbia risparmiato. Forse
perché devo assolvere a dei compiti
personali che non posso delegare ad
altri. Altrimenti, penso, com’è
possibile che me la sia cavata ogni
volta e gli altri no?
La vita ha voluto mandarmi
questo messaggio: «Anche se sei un
coglione, devi restare ancora un
po’».
Combattimenti

A Erto si muovono figure


leggendarie. Son lì che sbirciano
dalle finestre aspettando il
momento giusto per saltar fuori.
Parliamo del destino e del rapporto
con le nostre radici ed ecco che
spunta il mitico Santo Corona della
Val Martin. Porta ancora quel
biglietto consumato nel taschino,
dono che gli fece il grande scrittore
Hugo von Hofmannsthal
conosciuto ad Altaussee, tra i
boschi di Stiria e Carinzia: «La
causa dei fatti sta in una
profondità infinita, negli abissi
della mente e del destino. Tutto
dobbiamo capire».

M.C. La vita ti fa rotolare fino a


levigarti come un sasso. Non è che
ti sollevi su un piedistallo e ti porti
in trionfo. Le nostre radici me le
sono sempre rappresentate come
un elastico. Puoi arrivare fino al
confine estremo della Patagonia, a
fare il gaucho, il cercatore di
diamanti, il poeta, lo scultore, però
ti porti dietro queste radici che sono
elastiche. Più ti allontani più loro si
tendono, si assottigliano. A tratti
quasi non le vedi e ti dimentichi di
averle, ma non le recidi, mai
riuscirai a reciderle del tutto. Alla
fine, in un modo o in un altro, molli
la presa e loro ti trascinano al punto
di partenza. Pam!, con uno schiocco
ti riportano a casa.
Santo Corona, il protagonista del
Canto delle manére, torna a casa
per il traino di queste radici. Le
radici elastiche delle nostre vite.
L’infanzia lascia tracce indelebili,
con le quali prima o poi saremo
chiamati a fare i conti.

L.M. Ho amato tantissimo Il canto


delle manére. Santo è un
personaggio epico, usa la scure
meglio di chiunque altro, non è
pratico di strategie, prende la vita di
petto e non ci pensa su due volte a
uccidere un uomo per vendicarsi di
un torto. L’ho riletto a più riprese
ed è difficile non trovarci anche
molto di te. Il nonno di Santo,
l’uomo che lo ha cresciuto, era
boscaiolo, molto rigido, sempre
silenzioso, gli insegnava tutto con
una certa severità, come se il
ragazzo avesse colpe da espiare.
Santo è un uomo con poche
conoscenze se non quella dell’uso
magistrale della manéra. In questo
libro hai trasformato la scure del
boscaiolo nella spada del samurai.
Costruisci tutto lentamente, pagina
dopo pagina regali a Santo
determinazione, passione, volontà.
Lo segui nella formazione del
carattere. Santo è un uomo che sa
poco dell’amore e se da un lato
questo lo limita, dall’altro lo
fortifica, gli trasmette un messaggio
molto netto, cioè che devi bastarti,
non puoi dipendere da altri. Questo
fatto genererà sofferenza, lo capisci
subito, ma forse nella vita vissuta
davvero e non delegata ad altri la
sofferenza non è comunque un
aspetto evitabile.
Così comincia questa camminata
epica. Il lavoro è al centro di tutto,
Santo è un uomo del fare, pratico,
concreto. Non è nato per concetti
fumosi o parole appese agli alberi.
Tutto quel lavorare con le mani a
un tratto comincia a lasciare il
posto ad altro. Santo Corona ha il
limite della conoscenza. Sa usare la
manéra meglio di chiunque ma alla
fine resta un uomo che sa poco.
Nella sua squadra di boscaioli ha
assunto due persone istruite, un
architetto e un medico. Le ascolta,
le osserva, hanno le mani levigate e
la testa piena di libri. Santo capisce
che sanno tante cose e che
impareranno presto a fare i
boscaioli perché con un po’ di
pratica – dice – anche un caprone
impara a fare il boscaiolo. Diverso è
per la conoscenza, e Santo non
conosce nulla al di fuori degli alberi.
Riuscire a tagliarsi i peli di una
gamba con un colpo secco di
manéra diventa un’abilità da poveri
diavoli, se non da coglioni. Santo
deve leggere. Santo vuole
conoscere. Oggi basta che qualcuno
ci pesti un piede che noi ci
blocchiamo, incominciamo a
lamentarci. Basta un pestone al
piede per fermarci, invece si può
camminare comunque, anche con
un piede e mezzo. Santo è la
dimostrazione di questo. E anche
Mago Tiraca.

M.C. Come quasi ogni mio libro, Il


canto delle manére inizia da una
storia vera che è quella di un
fratello di mio nonno. Da lì sono
partito per costruire il romanzo.
Come può un boscaiolo di quei
tempi, siamo negli anni intorno alla
Prima guerra mondiale, conoscere il
principe degli scrittori, l’immenso
Hugo von Hofmannsthal?
Sapevo che all’epoca molti
boscaioli del paese se ne andavano
nei boschi di Stiria e Carinzia a
lavorare. Erano luoghi stupendi,
zone di villeggiatura per scrittori
famosi. Tutti gli anni, d’estate,
letterati e musicisti di fama
abbandonavano gli splendori della
Grande Vienna per nascondersi,
stare in pace e scrivere tra quelle
montagne. Arthur Schnitzler, Stefan
Zweig, Joseph Roth, autori di opere
memorabili. Pensa un boscaiolo che
si trova davanti questi personaggi.
Santo non li aveva mai sentiti
nominare e da principio non gli
fregava niente. Poi scoprì che gli
piacevano. Non era un coglione,
capiva che lo studio e la conoscenza
erano importanti.
Da piccolo non voleva andare a
scuola, preferiva seguire suo nonno
a far legna nei boschi. Fu così che
diventò un mago nell’uso della
manéra. Adesso però che andava
verso l’età matura Santo capiva che
la conoscenza era un affare serio, da
non farsi scappare. Nasce da qui,
nella mia finzione letteraria,
l’amicizia con lo scrittore Hugo von
Hofmannsthal, che gli insegna il
tedesco. Sarà lui a dargli quella
verità sul tema delle radici che io
chiamo elastiche e che porterà
Santo a decidere di tornare a Erto,
suo paese.
Negli anni della guerra questi
grandi scrittori avevano smesso di
trascorrere l’estate ad Altaussee,
vicino al lago, poi però ci tornarono
tutti, compreso Hofmannsthal. Una
volta Santo interrogò l’amico
scrittore sulle ragioni di quel
ritorno. «Sono tornato perché amo
immensamente questa terra e più
passano gli anni e più mi sembra
ricca. Quando sarò vecchio, dai suoi
torrenti, dai suoi boschi e dai suoi
laghi mi verranno incontro i ricordi
dell’infanzia e il cerchio si
chiuderà.» Ecco le radici. Santo
Corona, che era arrivato fin lì per
fuggire dall’accusa di un omicidio
occorso per un fatto di donne, si
trovò all’improvviso di fronte tutti
questi personaggi per lui strani, con
le teste piene di libri da scrivere e i
tavoli pieni di libri da leggere.
Capisce che è un altro mondo, senza
manére, piante, boschi e calli sulle
mani ma fatto di robe che facevano
tremare l’anima. Santo Corona della
Val Martin cercava di migliorarsi,
voleva riscattarsi. Non aveva certo
paura di cambiare. Così nel
romanzo ho deciso di farlo
incontrare con questo principe degli
scrittori, un autore peraltro
difficilissimo.
Ma la cosa che più mi premeva in
questa storia e che credo sia passata
sotto gamba era raccontare la sfida
brutale tra un uomo, il più bravo tra
i boscaioli, e la creatura più innocua
che ci sia sulla terra, un albero. Gli
scrittori hanno sempre fatto
combattere l’uomo contro la belva,
pensa a Salgari o a Melville o
Hemingway. Anche Sepúlveda e il
tigrillo. La tigre inferocita, la
balena, il marlin gigantesco che
trascina per tre giorni la barca di
Santiago, il pescatore protagonista
de Il vecchio e il mare. Sempre un
combattimento feroce uomo-belva,
uomo-animale. Perché «l’uomo non
è fatto per la sconfitta» scrisse
Hemingway. Nel Canto delle
manére, invece, ho voluto
raccontare un combattimento
all’ultimo sangue ma ancora più
estremo, con la cosa meno
pericolosa che ci sia: un albero.
Perché dico ancora più estremo?
Perché in ognuna di queste lotte io
vedo l’uomo in combattimento con
se stesso. C’è tutta l’arroganza, la
tracotanza degli esseri umani. Santo
combatte contro un faggio
centenario. E perde.
Quando tagliavo legna con mio
nonno lui mi diceva: «Sta’ attento,
adesso che tagli l’albero, gli fai le
gambe e cammina. E non sai dove
va». Se interrompi la natura delle
cose, queste si ribellano.
Snaturandolo, cioè tagliandolo, il
faggio diventa una creatura
temibile, non più innocua. Santo si
era preparato fin da bambino, aveva
avuto i migliori maestri, il nonno
Domenico Sebastiano e il
taglialegna Agusto. Il primo
gl’insegnava sapienze necessarie
come affilare la manéra o tagliare le
piante quando opportuno, il
secondo lo istruiva a battersi contro
i demoni, a essere spavaldo e sicuro
di sé. Il nonno lo aveva portato a
Maniago a fargli la scure. Questa è
una parte autobiografica. Mio
nonno mi portò a piedi a Maniago,
la città dei coltelli, dove fanno
anche zappe, falci e asce. Quaranta
chilometri. Avevo dieci anni, lui
ottantadue. L’artigiano mi misurò
l’altezza e il peso e mi fece la scure
da taglio, ce l’ho ancora.
Santo c’era stato una settimana a
preparare la sua guerra, aveva
calcolato tutto, i cunei, i paranchi
per mettere in tiro la pianta e farla
cadere a monte perché dall’altra
parte c’era il burrone. Con quale
risultato? La sconfitta, perché la
natura quando la snaturi
toccandola, provocandola,
stuzzicandola, si ribella, si difende,
protegge la sua vita. Santo credeva
di aver tenuto conto di ogni cosa ma
c’era un particolare che aveva
trascurato, la cosa più inafferrabile,
il vento. Il vecchio boscaiolo non
accettò la sconfitta, abbracciò
l’albero e se ne andò con lui giù per
il burrone.

L.M. Questo mi ha colpito di Santo,


che nonostante i suoi fantasmi, ed
erano tanti, lui ha saputo darsi un
equilibrio, ha saputo mantenere un
rapporto con la vita. Ha vissuto la
sua vita. Io credo che lui sia uno dei
personaggi più potenti che hai
creato. Leggendo Il canto delle
manére spesso mi è capitato di
tornare indietro. Vedevo questa
straordinaria epopea montanara,
gente di montagna annodata alla
cultura della diffidenza e delle
chiusure. Ma Santo stava superando
tutto questo, stava imparando ad
aprirsi, accettava il confronto,
scopriva il nuovo attraverso questa
amicizia eccezionale con scrittori di
prima grandezza che avevano avuto
anche loro vite impossibili, figli
suicidi, alcolismo, disperazione.
Santo sentiva finalmente
vibrargli l’anima e non si
accontentava più solo del destino
che la vita pareva riconoscergli. Ma
il destino è difficile da truccare.
Santo impara a mettersi in
discussione, prende umiltà, capisce
che il tempo e dunque la vita
l’affronti meglio se accetti i
cambiamenti. A volte non puoi
tergiversare, c’è il rischio che ti
perdi. Devi procedere. Se ti pestano
un piede non fermarti. Cambia
passo e prosegui, senza
commiserarti né cercare il conforto
della commiserazione altrui. Questa
è la lezione di Santo. Ma la sua
storia ci dice che è una lotta dura
quella col proprio destino, la nostra
natura torna sempre a chiederci il
conto, e Santo Corona ritroverà
tutto il senso feroce della
competizione che credeva sopito. Lo
ritroverà al ritorno a casa e adesso
capisco cosa vuoi dire quando parli
di radici elastiche che si tirano ma
non vengono mai recise del tutto.
Non è solo un richiamo dovuto alla
nostalgia della terra d’origine ma è
anche una chiamata ancestrale della
propria natura selvaggia con cui
continui a fare i conti. Allora Santo
sfida il faggio secolare che nessuno
aveva mai osato affrontare. Calcola
tutto alla perfezione tranne la
propria superbia.
Questo mi ricorda il grande mito
greco di Prometeo che sfida Zeus
rubando il fuoco degli dei per
regalarlo agli uomini. Ma gli uomini
sono creature limitate, il fuoco degli
dei non è roba per loro. Allora
Prometeo viene punito, incatenato
nudo nel luogo più esposto alle
intemperie, dove un’aquila gli
mangia il fegato che gli ricresce
ogni notte per essere di nuovo
divorato il giorno successivo. Che
tortura infernale! E alla fine chi
uccide l’aquila e salva Prometeo?
Ercole, l’uomo che simboleggia allo
stesso tempo la forza ma anche il
limite dell’uomo: Ercole infatti è
figlio del dio Zeus ma sua mamma è
un essere umano, Alcmena,
bellissima, di cui Zeus si era
invaghito al punto da farsi uomo
anche lui per arrivare a possederla.
Agusto, il maestro di Santo, gli
insegnò presto il colpo più difficile
che è anche quello più folle:
tagliarsi i peli della gamba con un
colpo secco d’ascia senza ferirsi.
Incredibile! Quando Santo riuscì
nell’impresa che avrebbe certificato
la sua grandezza, fai uscire dalla
bocca del maestro un commento
che mi ha ricordato questo antico
mito: «Sei diventato bravo, sei
cresciuto, la vita è tua…». Ma il
nonno di Santo aggiunge: «Invece
adesso comincia i danni! Quando si
è bravi par di essere Dio e si va in
cerca di rogne. Finché sarò vivo ti
aiuterò a non perderti, dopo è affari
tuoi».

M.C. Bello il collegamento che fai.


In pochi secondo me hanno tirato
fuori questo aspetto, il
combattimento finale come senso
ultimo del libro. Per me era
importante. Nel libro c’è ad esempio
la storia di uno che viene trafitto
dalla cima di una pianta. Sta
tagliando un larice mentre un
giovane cerca di far crollare a
spintoni un albero secco. La punta
si spezza, cade e infilza l’uomo che
era intento al suo lavoro. Una roba
simile è capitata a me, quasi ci
rimanevo. Non ne sai mai
abbastanza su come la natura, in
questo caso il bosco, può reagire.
Ho rischiato di essere trafitto ma,
nel mio caso, ero stato io a
spintonare l’albero.
Santo si era salvato da tutto, fino
a quell’ultima impresa, perché
poneva un’attenzione certosina.
«Nella vita serve coraggio,
attenzione e precisione» gli
comanda il maestro. «Allora avrai
rispetto da tutti.» Questa voleva
essere una riflessione
sull’inesperienza, soprattutto dei
più giovani. «I boscaioli, specie
quelli vecchi, non era coglioni. Se
no che giovava l’esperienza di anni?
Ma i giovini, quelli che doveva
imparare, rischiava ogni giorno. E
qualcuno ci cascava.» Santo, che
sentiva di avere il massimo
dell’esperienza, si credeva per
questo imbattibile. Non era
necessario che tagliasse il faggio.
Nessuno aveva osato farlo perché
c’era il rischio di cadere nel
burrone. Ecco la sfida di chi si
ritiene invincibile. Come ne Il
vecchio e il mare o Moby Dick.
La natura sembra ferma, magari
dorme, ma se vai a stuzzicarla
risponde. La natura dell’albero è
stare fermo. Può cadere con il
vento, colpito da valanghe o saette,
ma il suo dono è l’immobilità. Santo
era convinto di saperla lunga e, dal
vivo della sua vasta esperienza,
forse aveva anche tenuto conto del
vento. Ma l’esperienza nell’essere
umano non è mai completa e
assoluta. Persino Michelangelo
disse: «Adesso che cominciavo a
imparare qualcosa mi tocca
morire». Lo disse a novant’anni!
Michelangelo! La trama della
natura è talmente intricata che puoi
calcolare tutto ma trascurerai
sempre qualcosa. Il qualcosa
imprevedibile. Santo quel giorno
non aveva calcolato che a quell’ora
veniva il vento a spingere contrario.
Erano anni che non tornava in
quella valle. Così le funi dei
paranchi che aveva messo in tiro si
spezzarono.
Siamo in balia degli elementi,
siamo vulnerabili. Questo era ciò
che m’interessava e speravo che
venisse fuori dal libro. Non lo so se
ci sono riuscito. Nella mia testa la
storia di Santo scorre come un film
muto. C’è quest’uomo che guarda
un albero, vuole buttarlo giù, lo
studia, lo coccola. Lo carezza come
per un’ultima volta, come si carezza
un bue prima del macello. Lo ha
visto fin da piccolo. Poi arriva il
giorno del combattimento. L’albero
sta fermo, non è la tigre che ti salta
addosso. Ma quando lui lo snatura,
l’albero diventa imprevedibile,
mette le gambe e va. Qui entra la
questione del progresso…

L.M. E torniamo a Prometeo, colui


che sfida le regole, proprio il
simbolo del progresso.

M.C. Io non sono contro il


progresso. Va solo tenuto ben
presente che se tu intervieni a
modificare il corso naturale delle
cose qualcosa può capitare e può
non essere indolore. È il peso della
farfalla di cui parla Erri De Luca in
un suo libro bellissimo. Quando
hanno interrotto il corso del Vajont,
che faceva girare mulini, segherie, i
battiferro, i torni degli artigiani, è
successo il finimondo. L’acqua,
inerme e tranquilla, che ci cantava
la ninna nanna nelle notti degli
anni, che brontolava e diceva
«Addormentatevi», quando l’hanno
bloccata è esplosa.
La natura reagisce, preme, si
divincola, urla. Quando Santo ha
tagliato l’albero, lo ha dotato di
gambe, che hanno consentito a
quell’essere innocuo di saltargli
addosso. Santo taglia l’albero non
per necessità, per procurarsi la
legna dell’inverno, no. Lo fa per un
moto di superbia, per spocchia, per
sancire una superiorità. Allora la
natura si ribella, l’albero si mette a
camminare e con una manata si
scrolla di dosso quell’essere inutile
che l’ha sfidato. Ovviamente questa
non è una critica contro il
progresso, è solo la consapevolezza
che se interrompi qualcosa di
naturale da una parte, prima o
dopo, capiterà una reazione
dall’altra. A ogni forza corrisponde
un’altra forza uguale e contraria.
Quando interrompi i cicli della
natura, in qualche luogo si scardina
qualcosa.
Perché Santo deve buttar giù
quel faggio? Perché deve dimostrare
a se stesso e agli altri che lui è il più
bravo. È il problema dell’umanità:
invece che pareggiarci, dire che
siamo bravi uguali, c’è sempre
qualcuno che deve emergere.
Questo succede in letteratura,
pittura, scultura, musica, nel lavoro
in fabbrica, nello sport, a scuola,
con le donne, dappertutto. L’uomo
non è capace di vivere in pace.
Come lo scalatore che vuole scalare
le pareti. Certo, non è male decidere
di salire sulla montagna, ma lo
scalatore vuole salire dalla parte più
difficile, la parte che nessuno è
stato capace di affrontare. L’ho fatto
anch’io, è un meccanismo che
conosco molto bene. Voglio
dimostrare che voi siete degli inetti
e io sono bravo. Questo è il male
dell’uomo: umiliare il suo simile
con vittorie.
Santo rappresenta alla perfezione
il senso di questa celebre frase di
Antonin Artaud: «Nessuno ha mai
scritto, dipinto, scolpito, fatto
musica – e io aggiungo mangiato,
bevuto, tagliato alberi, fatto carriera
– se non per uscire di fatto
dall’inferno». È il tema del mio
libro La via del sole. L’uomo non
vuole essere felice. Pessoa diceva:
«Fermati, siediti al sole. Abdica e sii
re di te stesso». Uno nell’esistenza
vuole arrivare primo, ci sono mille
motivi a spingerlo. Abbiamo voglia
di primeggiare, non è solo una
vanità, è una fragilità, una forma di
debolezza. Chi vince si crea nemici,
invidie, rancori, difficoltà. Si crea
problemi. Bisognerebbe imparare
ad arrivare secondi. Diceva il mio
caro amico che di mestiere faceva
l’autista di camion: «Sono l’ultimo
della fila ma quando daranno
l’altolà e il dietrofront sarò il primo,
e allora saranno cazzi per tutti».
Anche lui, persona semplicissima e
buona, ambiva in qualche modo a
esser primo e farla pagare a quelli
dietro.

L.M. Forse la vecchiaia e l’idea del


tramonto aiutano a fare i conti con
questo desiderio un po’ folle di
primeggiare. Certo, a Santo non è
stata fatta questa grazia. Mi ricordo
un passaggio di un altro tuo libro
che porto nel cuore, I fantasmi di
pietra, a cui ho voluto dedicare una
canzone. Scrivi: «I legni, per
diventare buoni, dovevano guardare
il tramonto, verso dove finisce la
strada. Solo così risultavano
migliori, meno tenaci, meno
aggressivi. La consapevolezza della
fine toglieva loro irruenza e
resistenza. Anche l’uomo se pensa
al tramonto diventa migliore».
Aggiungerei allora: anche l’uomo se
riconosce i suoi limiti finisce col
trovare anche un po’ di
«pacifichezza», come la chiami tu.
Gratificazione

Abbiamo preso un buon ritmo e gli


argomenti ormai si susseguono
uno via l’altro con naturalezza. Ci
si allena anche a parlare, piano
piano si trova un equilibrio e allora
si procede spediti. Ci domandiamo
cosa sarà questo libro, come verrà
fuori, il titolo intanto l’abbiamo
trovato: Quasi niente. Sarebbe bello
se queste pagine riuscissero almeno
a trasmettere qualcosa di utile.

M.C. Gigi abbiamo parlato molto di


infanzia e delle nostre radici
elastiche. Abbiamo parlato di
questo vivere che sembra così poco
naturale: si vive di reazioni a quello
che ci è capitato. Soprattutto
nell’infanzia. Il nostro
comportamento è reattivo, io sono
così perché ho dovuto difendermi
da ciò che mi arrivava da fuori. Solo
oggi, a sessantasei anni, capisco che
questo vivere di sola reazione è
corrosivo. Ti perdi, non sai chi sei.
Ho letto molto e ho avuto il
conforto della scrittura per
addolcire almeno un po’ questo
brutale istinto alla reazione. Da
dove comincia? L’abbiamo forse
detto, non mi ricordo, ma vorrei
tornare al tema dell’educazione. Mi
preme sottolineare una cosa che
può sembrare provocazione ma
nella quale credo molto. I bambini, i
ragazzi, oggi sono saturi di
gratificazione. Ovviamente non
tutti, ma molti sì. Li gratifichiamo
appena proferiscono un vagito che
somiglia a una parolina. Secondo
me questo li indebolisce. Crescendo
cercheranno solo questo, non il
piacere di fare cose che potrebbero
riuscir loro bene. Sentiranno la
gratificazione come un diritto. Il
mondo dovrà accontentarli così
come nell’infanzia sono stati
coccolati a casa. È un rischio serio.
In questo modo non impari a
vivere, non assimili quella
resistenza che la realtà esercita su
ciascuno di noi e che devi imparare
a governare. Non capisci nemmeno
che la gratificazione più grande è
quella che può arrivarti da dentro,
quando vedi che qualcosa ti riesce
un pochino bene. Se poi arrivano i
complimenti degli altri, fanno
piacere, ma non devono essere la
prima cosa. Invece oggi mi sembra
proprio questa la linea. Ci
riconosciamo il diritto alla
gratificazione, soprattutto i più
giovani. Smettiamola di coccolare
eccessivamente i ragazzi! Lasciamo
che facciano cose, che si misurino
col mondo perché la gratificazione
più grande è quella che può
arrivargli dall’esperienza, dal loro
vivere concreto, dal loro mettersi
alla prova nella vita.
Guarda anche i cosiddetti
capisaldi della nostra etica cristiana:
«Gli ultimi saranno i primi».
Aspettano l’altolà e il dietrofront?
Perché devono essere i primi? I
primi in che cosa? Lasciate che i
giovani trangugino la medicina
dell’errore, che possano sbagliare
senza sentirsi schiantati perché
glielo abbiamo fatto pesare. Se non
si sentono annientati dall’errore poi
magari riescono a rialzarsi e a dire:
«Dai che la prossima volta faccio
meglio». Insegniamo ai ragazzi
l’arte di migliorarsi non quella di
primeggiare.
Sono cresciuto con mio nonno
paterno dai sei ai tredici anni; ho
vissuto con lui, mia nonna e una
vecchia zia sordomuta. Ero ancora
ragazzino che lui mi portava nei
boschi a imparare. Quando
cercavamo funghi mi arrabbiavo se
non li trovavo. Il nonno diceva:
«Guardati intorno, contentati che
siamo nel bosco a camminare. Poi
se capitano i funghi…». Il nonno mi
ha insegnato questa etica molto
concreta, mi ha educato a
gratificarmi da me attraverso le
cose che facevo e che vedevo. Ho
avuto anch’io il periodo
dell’esibizionismo, è durato anni.
Anni nei quali l’etica ha lasciato il
posto all’estetica dell’apparire,
dell’esserci a ogni costo. Oggi però
credo di essere un po’ migliorato,
sono quasi uscito dalla dipendenza.
Per anni ho scalato con
l’ambizione di primeggiare.
Sbandieravo le vittorie, mandavo
ogni volta le relazioni al Cai, a
giornali, riviste. Ora ho smesso,
magari ne faccio anche di più
difficili ma le tengo per me.
A Erto abitano due sorelle, Maria
Gaia e Apollonia Gaia, sono
considerate delle guaritrici, ricordo
che mia nonna mi portò da loro per
sanarmi un’infezione al ginocchio.
Sono ancora vive. Fino a qualche
mese fa le vedevi passare con la
gerla carica di erbe e hanno più di
ottant’anni: straordinarie
camminatrici. Adesso a Maria
hanno tagliato una gamba. Transita
soltanto Polonia. Ricordo che una
volta andarono a prendere le capre
in pieno inverno sulla cima del
Porgait in stivali di gomma. Alcuni
sci-alpinisti fecero la discesa
proprio lì qualche anno dopo e la
spacciarono come impresa
invernale.
Ho visto montanari falciare
l’erba in luoghi dove un alpinista si
porta corda e chiodi. Loro sono
abituati al vuoto. Certi boscaioli
tagliano disinvoltamente carpini in
rampe verticali che se sbagliano
mossa finiscono mille metri più in
basso. È anche abitudine ai luoghi,
ci nasci, cresci lì, ti portano in quei
posti che sei ancora un bambino, ti
fai il dna.
Guarda le mie sculture… le ho
fatte certamente per venderle e
mantenere meglio che potevo i miei
figli. Ma, prima di tutto, le ho fatte
per me, perché mi facevano stare
bene, mi sentivo realizzato. Ecco la
gratificazione. Fare le cose per te,
non dipendere dall’elogio altrui.
Prova a pensare alla
soddisfazione di un ragazzo che
prende le sgorbie e vede uscire il
volto di un bambino o di una donna
da un pezzo di legno che potrebbe
andare nella stufa. Non voglio fare
una bella scultura per affermare che
sono il più bravo. La faccio perché
mi appassiona, mi dà soddisfazione,
risponde alla mia natura, al mio
estro. Per questo eviterei le gare tra
bambini, metterli sempre in
competizione li rovina. Fategli fare
le cose, fategli scoprire cosa li
appassiona e li fa sentire bene. Poi,
quando verrà il momento, se uno
vuole competere competa pure. Ma
non serve vincere medaglie, pensa
invece alla soddisfazione di vedere
che una cosa, una costruzione, un
orto, una catasta di legna, un
disegno ti viene bene. Hai scoperto
la passione e questo è
fondamentale.
Sugli altopiani dell’Etiopia gli
uomini correvano, e corrono
ancora, perché gli piaceva. Poi va
be’, hanno monetizzato le gambe.
Penso al grande maratoneta Abebe
Bikila. Da ragazzo era contadino,
poi entrò nell’esercito. Amava
correre prima di ogni altra cosa, era
la sua passione. Nel 1960 alle
Olimpiadi di Roma vinse la
maratona a piedi nudi. Non era
favorito, lo conoscevano in pochi,
ma riuscì a portare sulla pista la
leggerezza delle gazzelle.
C’è un episodio che è molto
misterioso, forse di fantasia, al
quale sono tentato di credere.
Reinhold Messner è stato il primo
uomo che ha scalato i quattordici
ottomila della Terra. Le montagne
oltre gli ottomila metri sono
quattordici in tutto e Messner è
stato il primo a scalarle. Si dice però
che un giapponese lo abbia fatto
molto prima di lui senza rivelare
niente a nessuno. Si racconta pure
che abbia bruciato i diari di quelle
scalate ma qualcosa alla fine si sia
salvato. Non lo ha detto a nessuno,
ha scalato non per raccontarlo ma
perché gli piaceva.
Van Gogh dipingeva per uscire
dal suo inferno, non ci è riuscito e si
è sparato. Ha lasciato più di mille
opere che in seguito si è stabilito
valessero ognuna milioni di euro. A
me delle opere interessa poco o
nulla, vorrei invece prendere in
mano il pennello di Van Gogh, il
mazzuolo di Michelangelo, gli
occhiali di Pessoa, il bastone di
Borges, la stilografica di Joseph
Roth. Ho la certezza che gli antichi
attrezzi, usati per anni dalla stessa
mano, contengano l’anima
dell’uomo che li impugnava. Sogno
appunto il bastone di Borges, le
spatole di Canova, la penna di
Joseph Roth, gli occhiali di Pessoa.
Di Michelangelo non vorrei una
scultura ma il suo mazzuolo. In
quel manico, da lui stretto, ci sono
tutte le sue opere.
Negli oggetti più che nelle opere
c’è la vita di questi personaggi
leggendari. A me interessa la vita
delle persone più dei loro successi,
delle grandi opere il cui valore è
sempre convenuto da altri. Le storie
dei miei romanzi, prima che
finissero nei libri, le raccontavo ai
miei figli. Mi piaceva farlo. A me le
raccontava il nonno o altri vecchi.
Molto di quello che ho scritto ha un
precedente nella voce, perché
funzionava così dalle mie parti, la
tradizione del racconto cosiddetto
orale era molto forte. Se poi questi
romanzi sono stati venduti non mi
viene mica da piangere. Ho
sistemato i figli, li ho fatti laureare,
ho comprato loro una casa. Ma io
non ho mai mandato nessuno dei
miei scritti alle case editrici. Sono
state loro a cercarmi. Quando
vennero la prima volta perché
avevano letto qualcosa su qualche
giornale di questo tizio che scriveva
storie di montagne e boschi, io
avevo alcuni libretti e gliene diedi
un paio. Ecco perché dico che la
prima gratificazione deve arrivarti
dal fare le cose per te, non perché
vengono vendute e ammirate.
Basta allora compiacere i figli
perché altrimenti si abitueranno al
compiacimento e vorranno solo
quello senza impegnarsi. Questa è
secondo me una regola che ogni
genitore dovrebbe tenere presente.
Non voglio dire che sono stato un
padre perfetto, ho fatto un sacco di
errori e continuerò a farne. Posso
dire però che ho insegnato ai miei
figli a scalare, a fare passeggiate nei
boschi, a fare legna. Li ho visti
lavorare il Das e realizzare piccole
sculture e illuminarsi con
espressioni soddisfatte. Si sono
costruiti anche il presepe.
C’è un altro aspetto sul tema
dell’educazione che per me è
importante: non abbiate paura che i
bambini si trovino in difficoltà, è
dalle difficoltà che emerge il
carattere. Da bambino ho avuto la
fortuna di incontrare una donna la
cui ferocia mi ha aiutato a crescere,
a diventare forte. Era una donna del
paese, ormai morta da tempo. Per
anni, fino al Vajont che fu l’evento
che divise la gente di queste parti, la
incontravo tutti i santi giorni. Lei
davanti a me esaltava la bellezza di
suo figlio e diceva che io ero brutto.
Parecchio brutto. Di certo aveva
ragione. Ecco la ferocia di molti
umani. Era una mamma pure lei,
però infieriva su di me
ricordandomi che ero brutto. Io
della mia bruttezza me n’ero fatto
una ragione ma ne pativo. Sono
partito da lì, dalla convinzione di
essere brutto, e lo ero. Perché se a
un bambino dici una cosa cento
volte lui l’assume come verità. Su
quella verità ci ho lavorato, ho
sviluppato doti che mi gratificassero
compensando così quella bellezza
che ritenevo di non avere. E che
non ho. La signora cattiva mi ha
devastato l’infanzia ma mi ha reso
forte. Ecco che da un male può
arrivarti un bene, una forza. Sono
piccoli ricordi che però ti segnano,
costruiscono il tuo carattere.

L.M. Allora ti racconto questa,


Mauro. Mio zio Livio lavorava in un
mobilificio, faceva dalle otto a
mezzogiorno, poi pausa, tornava a
casa a pranzo e ripartiva per il turno
del pomeriggio. Aveva tre figli,
Anita, Laura ed Ettore, e una volta,
prima di uscire per tornare a
lavorare, diede un bacio a loro tre
lasciandomi all’asciutto. Rimasi
malissimo. Lì ho scoperto il sapore
delle lacrime, non si fermavano
più… Però ho capito qualcosa, ho
imparato a pensare che in molti casi
le lacrime servono ad asciugarsi gli
occhi per poi vederci meglio… Si
cresce insomma passando anche dal
dolore e dalla sofferenza.

M.C. Probabilmente si fanno le cose


anche per sostituire i baci che non
abbiamo ricevuto da piccoli, per
compensare qualcosa che non ci è
stato dato. Ho cominciato così a
forgiarmi il carattere. Con mio
padre, come sai, ho avuto un
rapporto difficile, era violento,
menava, voleva avere ragione su
tutto. Neanche Dio avrebbe potuto
dargli torto. Pensa a un bambino
che cresce vicino a una persona del
genere. Gli ho voluto comunque un
po’ di bene, era mio padre. Riuscì,
tramite un suo cugino che faceva
l’avvocato ed era anche deputato
della Dc, a trovarmi un posto fisso
all’Enel. Io sarei morto tra le
scartoffie, lo sapevo, e non mi
andava punto, così rifiutai. Lui non
me lo ha mai perdonato. E io mi
sono difeso, non solo fisicamente,
anche nei romanzi non l’ho
risparmiato. Gli portai una copia di
uno dei miei primi libri, Finché il
cuculo canta, dove c’eravamo io e
lui in copertina. Mio padre neanche
lo prese in mano, si voltò e
guardandomi fisso negli occhi disse:
«Levati dai coglioni, fallito, dovevi
stare all’Enel». Ecco che tornava il
fallimento. Così è nata questa mia
vita di reazione a quello che ho
subito.

L.M. A te, nonostante questi colpi, è


andata bene, pensa quanti al posto
tuo sarebbero crollati.

M.C. Sono crollato nell’alcolismo,


una fuga sbagliata dal dolore. Devi
cercarti una via di fuga dal dolore
senza volerlo dimenticare.

L.M. C’è una bellissima poesia di


Leonardo Zanier, poeta friulano che
oggi vive in Svizzera. Ha subito
diversi interventi al cuore. Al
risveglio dopo un’operazione ha
scritto alcuni versi che danno
questo messaggio secondo me
molto bello. Il poeta si sveglia e si
ritrova in una stanza di ospedale
con tre letti, non lo hanno messo al
centro, che significa incertezza, non
sapere dove andare; non lo hanno
messo vicino alla finestra, cioè
possibilità di farla finita; lo hanno
messo vicino alla porta, cioè
possibilità di fuga. La poesia
s’intitola Collocazione: «Nella
stanza ci sono tre letti: mi hanno
messo in quello vicino alla porta,
possibile fuga; non in mezzo,
incertezza; non alla finestra,
suicidio; meglio di così…». Questa
via di fuga la devi trovare in
qualcosa che abbia a che fare con la
tua passione. La passione la metti
in moto e riesci a sollevarti dal
dolore al di là del risultato finale
che avrai prodotto, al di là del
vincere o del primeggiare.

M.C. Mitico Zanier, di lui ho letto


Sboradura e sanc.

L.M. Quando eravamo bambini il


nostro mondo divideva molto i
grandi dai piccoli e capitava che non
avevi molto affetto e
considerazione. Questo, credo, ha
contribuito a farci crescere sempre
un po’ insicuri, alla ricerca di
un’accettazione e di un’affettività
che non avevamo. Oggi si esagera,
come dicevi tu, nel verso contrario.
Crescendo poi si sistemavano i
piccoli traumi infantili. A me è
andata così. Il tempo porta
aggiustamenti: aggiunge un po’ di
luce, fa sparire qualche tensione,
ripulisce i pensieri da qualche paura
e alla fine l’esperimento riesce. Si
accettano serenamente le piccole
angosce, le mancanze, e anche la
figura di una madre molto
particolare come è stata la mia.
Era esile ma aveva gnerf, come si
dice in carnico, aveva «nervo», era
tenace, un maschio mancato.
Quando arrivò il primo
innamoramento la sua natura
mostrò il suo lato sempre
sbilanciato: a sedici anni rimase
incinta. L’amore fece saltare ogni
mediazione, non ascoltò nessuno e
le conseguenze non tardarono a
vedersi. Si usava il termine gravide
o plene, piene, soprattutto per le
gravidanze illecite, era una sorta di
punizione linguistica che
accomunava le gravidanze fuori dal
matrimonio a quelle degli animali.
La sessualità «illecita» diventava
una macchia, un disonore, e la
gravidanza un aggravante. «E par di
plui cun tun dal tac», e per di più
con uno del tacco, cioè uno del Sud.
«Due danni in uno» diceva mia
nonna.
Lui aveva sedici anni più di lei, si
chiamava Mauro ed era arrivato in
Carnia con l’impresa incaricata
della costruzione dell’asilo di
Zovello, vicino a Ravascletto. Le
situazioni difficili poi spesso capita
che peggiorino e la notizia che
Mauro fosse sposato aumentò il
caos. Fu l’impiegato del comune ad
accorgersene. Dalla carta d’identità
l’impiegato notò che era stata
cancellata la parola «coniugato» e
aggiunto con artigianale ma bella
calligrafia un celibato a lettere
maiuscole. Mia nonna aveva
quarantatré anni e mio nonno
quarantasei, ma Cecilia, mia
mamma, li faceva sembrare più
vecchi.
La nonna diceva che con sua
figlia le aveva tentate tutte, ma era
come battere acqua con un mortaio.
In effetti Cecilia è sempre stata
irregolare, vagava anni luce dalla
normalità e non le dispiaceva per
niente essere considerata una fuori
mano. Trovarsela incinta a quell’età
poi le tolse le forze, la nonna si
arrese.
La casa in cui sono cresciuto era
considerata «la casa della musica»,
mio nonno ha suonato per
sessant’anni, mia madre pure. Da
noi si davano appuntamento un po’
tutti e il carisma e la stravaganza di
questi musicanti li respiravo ogni
momento. Per un bambino è
importante vedere come si muove
l’adulto, così la musica è diventata
anche la mia vita. All’epoca, come
sai, non c’era questa tendenza a
darti un’educazione, a stare con te,
a compiacerti. Tu ti arrangiavi, ed
era un bene sicuramente, anche se
sono convinto che un vuoto di
affettività poi ho dovuto comunque
riempirlo. Per me resta ancora la
musica la mia famiglia. Se sto nel
mio studio, con il fuoco acceso, la
chitarra, silenzio totale, mi sento a
casa. Il bello della casa in cui sono
cresciuto è che lì non si andava solo
a mangiare e a bere, non era quello
l’importante, si ragionava, si
parlava, si stava in compagnia
sviluppando quel sentire comune di
cui abbiamo detto prima.
Ho avuto una mamma bambina
che partiva e se ne andava, un
nonno che era come mio padre ma
aveva tante cose da fare. Una nonna
che doveva occuparsi di cinque
bambine, aveva due mucche, le
galline, i maiali, i prati da curare.
Non c’erano mai, tu venivi su così.
E così mi sono fortificato.

M.C. Racconta un po’ di Cecilia,


questa grande fisarmonicista,
quanti anni ha oggi?

L.M. Mia mamma è del 1937, va per


gli ottant’anni. La nonna diceva che
apparteneva a un’altra stirpe.
Sembrava un maschio rissoso che
non voleva condividere compagnie
femminili. Solo la musica svelava
una ragazza disciplinata, che non
perdeva occasione per esercitarsi. È
sempre stata trasparente, lei non ha
mai messo niente prima della
musica, nemmeno la famiglia.
Con il tempo qualche
ripensamento forse c’è stato, ma
per evitare riflessioni inutili lei
lasciava che eventuali mancanze
restassero nel dimenticatoio. Per lei
era scontato che un figlio
condividesse le sue passioni: la
fisarmonica e la motocicletta. Fin
da piccolo mi portava alle sue
serate. Ci andavamo con la Gilera o
la Iso dello zio. La moto sostituiva
la carrozzina, Cecilia non ne ha mai
avuta una, le nostre passeggiate si
consumavano in spericolati giri su
strade secondarie. In seguito, presa
da qualche scrupolo, cancellò quei
viaggi, mi diceva che non erano mai
avvenuti. Diceva che non si fidava
perché i freni non funzionavano
bene, anche se un amico che con lei
aveva condiviso tanti viaggi
ricordava che era lei che usava poco
i freni. Ma c’era la sua parola contro
la cattiveria delle malelingue. E io
credevo a lei.
Qualche anno dopo è stata una
foto che ha rimesso ordine alle
discussioni e riportato i fatti nei
paraggi della verità. È stata l’amica
a cui l’aveva regalata tanti anni fa a
riportarcela. Si chiamava Enrica. La
foto non lasciava dubbi e raccontava
una storia diversa. Siamo insieme io
e mia mamma, c’è una strada
bianca, polvere che si alza, lei che
sorride e io che mi tengo al
manubrio mentre guardo il
contachilometri. Avevo un anno e
mezzo, davanti a quell’evidenza
Cecilia ci tenne a sottolineare che
ero io a volerci salire, che piangevo
se non mi accontentava. Senza
polemizzare le dissi che forse non
era il caso di prendermi tanto sul
serio.
È il primo atto del nostro viaggio
on the road montanaro fatto
insieme. Lei dalla sua cattedra a due
ruote mi insegnava a guardare la
lancetta del contachilometri e mi
spiegava con la velocità i numeri e
le prime tabelline. All’epoca il casco
non era previsto ma un berretto
almeno ci poteva stare. Neanche
quello. Le dissi, sempre guardando
quella foto, che forse respiravo
tanta polvere e lei di rimando: «Ce
vustû ch’a seti… e chei dal desert
alore?», cosa vuoi che sia… e quelli
del deserto allora?
La sua logica non si perdeva in
chiacchiere o in ragionamenti. Se
una cosa le piaceva andava fatta.
Ancora oggi è così. I rischi non
contavano, diventavano limitazioni,
incertezze, e le incertezze non
avevano nulla a che vedere con il
suo cuore corsaro. Pur consapevole
della poeticità di questa sua logica,
mi sono impegnato a crescere in
fretta secondo il principio che se si
rischia l’annegamento non si sta a
contemplare il panorama riflesso
sull’acqua. La foto portava la data di
un lontano novembre, ma lei si
affrettò a sottolineare che era la
data della dedica; era sicura che in
quell’anno avessimo viaggiato solo
fino a ottobre: «Non ero una madre
snaturata» disse. Aggiunse che
d’inverno mi faceva indossare una
giacca, anzi, un montgomery di
lana. E descrisse perfino i bottoni. A
quel punto, chissà come, i suoi
ricordi diventavano precisi.
Enrica raccontò che il fotografo
si era messo in mezzo alla strada
per scattare la foto e lei gli era
passata tanto vicino da sfiorarlo.
«Se non avesse avuto buoni riflessi
non avrebbe più fatto fotografie in
vita sua.» Ero curioso di sentire
anche stavolta la versione di mia
mamma e poco mancò che tirasse
fuori la teoria di un fotomontaggio.
Non so come la foto arrivò a casa,
lei l’aveva regalata a Enrica che
stava per trasferirsi a Milano. Aveva
voluto lasciarle un ricordo della loro
amicizia, ma ci teneva anche che
portasse con sé una testimonianza
della sua personalità. Doveva
mostrarla in città, dove andava a
servire: che capissero com’erano
fatte le donne di Carnia.
Mia madre correva, non perdeva
tempo a stabilire il buon
funzionamento dei freni. Copriva le
distanze, si avvicinava per cercare
protezione, ma più spesso si
allontanava per il suo bisogno di
fuga. Il movimento incalzava, non
era tempo di stare fermi, per lei era
così. Oggi, guardando la sua figura
indebolita, mi accorgo che resistono
i segni vittoriosi delle sue grandi
passioni. È rimasta una donna
indipendente e le sue quote rosa le
ha strappate con i denti anche
quando significava mettersi dalla
parte del torto senza avere colpe.
Il suo motto lo hai ricordato
prima, Mauro: «Preferisco una
sconfitta alle mie condizioni a una
vittoria alle condizioni degli altri».
Oggi il suo moto perpetuo e
inarrestabile rallenta ma lei non ci
bada, le malinconie le tratta alla
stregua delle incertezze, sono
particolari che non vanno
considerati. Mantiene il passo
deciso, quasi che la vita pretendesse
solo forza fisica, ma le sue gambe
faticano a tenerla in equilibrio,
allora lei supera il problema
dicendo che è un momentaneo
abbassamento di pressione, un poco
di debolezza. Il suo meraviglioso
meccanismo di difesa si è
alimentato con la positività della
musica e si esprime con una bella
melodia. Ogni forma d’arte lascia
dei regali a chi l’asseconda e
l’adopera in modo disinteressato.
Non per primeggiare o aver
successo ma per vivere. Perché ti fa
stare meglio.
Lei non si è tirata mai indietro,
ha partecipato alla vita senza altro
calcolo che il piacere in ogni
esibizione, dalle più grandi alle più
piccole. Per ogni musicante era così.
Era il momento in cui davano il
meglio, dove esibivano la
componente istrionica che da
sempre contraddistingue gli artisti
popolari. Questa è stata mia
mamma. Non ha mai abbandonato
il bambino che aveva dentro, lo ha
sempre difeso ed esibito con
candore. È stata la capostipite in
regione di questa categoria un po’
particolare di persone. Lei ha tanti
anni di esibizioni alle spalle, ha
sempre suonato in modo da arrivare
alle persone con leggerezza, senza
ingombri e senza vanità. La sua
sgangherata anarchia le ha sempre
suggerito che per stare bene ci
doveva essere comunque qualche
imperfezione. Soffre di balbuzie ma
questa cosa non l’ha mai invitata al
ritiro.
Le vicende dure che l’hanno
riguardata le hanno anche cucito
addosso una crescente
autorevolezza, secondo il principio
che l’ammirazione sceglie spesso
chi non si fa piegare dagli
avvenimenti negativi ma, senza
proclami, si adopera per superarli.
Per questo la sua condizione di
ragazza madre a sedici anni le dava i
primi meriti.
Cecilia è del partito della
fisarmonica, delle maternità aperte,
delle moto da corsa, del fare sempre
il contrario di ciò che ci si aspetta da
una donna. Di questo la Carnia
credo sia orgogliosa.

M.C. Ecco allora da dove arriva,


Gigi, la tua modestia… Gli adulti
lasciano tracce sulla neve vergine
dei figli. Tua mamma ne ha lasciate
tante e buone. Fai le cose perché ti
piacciono, non per vanità, non sei
un leccaculo e la tua musica
meriterebbe di essere conosciuta
molto di più. Ecco perché quella
volta a Milano, al Teatro dell’Elfo,
sarà stato dieci anni fa, invece che
parlare dei miei libri, per i quali ero
stato invitato, parlai solo della tua
musica, con grande scandalo e
improperi e insulti dalla casa
editrice.

L.M. Me lo ricordo benissimo


Mauro, teatro strapieno, che
emozione essere lì con te.

M.C. Perché l’amico non è quello


che ti dice ciao, come stai… È quello
che sacrifica qualcosa di suo per
l’altro. Ho conosciuto un cavapietre,
Alvise Lazzareschi, di Colonnata,
persona di una modestia e di una
correttezza uniche. Ha scritto un
libro meraviglioso che però si
teneva per sé. L’ho portato al mio
amico Massimo Turchetta che l’ha
pubblicato, s’intitola La casa del
colonnello e racconta l’epopea dei
cavatori di marmo delle Alpi
Apuane, una storia magnifica,
scritta non per vanità né per
desiderio di successo.
Voglio vedere sempre l’uomo
prima dell’artista, dello scalatore,
del rocciatore o dello scultore. E di
uomini finora ne ho visti pochi. In
politica, rari come mirtilli bianchi.
Matthias Auckenthaler,
spazzacamino di Innsbruck, morto a
trent’anni, nel 1936, era un uomo
che non aveva nulla da perdere.
Prima di fare il rocciatore saltava
con gli sci dal trampolino
(ovviamente cento anni fa erano
trampolini rudimentali). Quando
cadde, non ricordo il nome della
montagna, e capì che era finito volle
mettersi in posizione da saltatore.
Gli amici che erano lì videro tutto.
Guarda che ci vuole freddezza!
E voglio citare qui anche un altro
nome, quello di Walter Flex,
straordinario scrittore morto a
diciannove anni sul fronte russo
durante la Prima guerra mondiale.
Ha scritto un libro bellissimo, Il
viandante fra i due mondi, oggi
introvabile. Racconta l’esperienza
della guerra in modo incredibile:
«Uno stormo di anitre selvatiche va
verso nord, con grida affilate come
coltelli». Quando lo leggo mi
sembra di essere lì, assieme a lui.
«Beato colui che senza odio chiude
le porte del mondo.»
Ma adesso, Gigi, forse è il caso di
tirare un po’ il freno. Non sto
dicendo che dobbiamo schiantarli di
fatiche questi ragazzi per farli
crescere meglio. Sto dicendo che
dobbiamo metterli nella condizione
di misurarsi con le difficoltà.
L’esperienza serve a trovare il
giusto equilibrio tra desideri e
realtà. Secondo me poca esperienza
e poca concretezza hanno
raffreddato questi bambini
trasformandoli in piccoli robot
malinconici che vanno a scuola
trascinandosi lo zaino fin sotto al
sedere.
Fare le cose, esercitarsi, provare,
lavorare con le mani aiuta, è
fondamentale. Jean Giono definiva
il lavoro manuale: «La divina
capacità di fare qualcosa con le
mani». E Borges: «Amo le minute
sapienze, che in ogni morte
scompaiono». Sembra folklore e
retaggio di una cultura antica ma
non è così. Impariamo a osservare
le trasformazioni silenziose che
avvengono nella natura – un seme
che cresce, un orto –,
trasformazioni con tempi lunghi,
che avvengono silenziosamente,
senza clamori. Sono quelle che
accadono nella nostra mente. È la
stessa cosa, solo che con questa
ansia del «tutto e subito» oggi
imperante ce ne siamo dimenticati.
Poi capita magari una sconfitta che
non ci aspettavamo e non ne
usciamo vivi.
Ti dicono che devi andare in
analisi ma sono d’accordo con te,
Gigi, che l’analisi ognuno dovrebbe
farla prima. Dobbiamo tutti
imparare a misurarci con la realtà e
col destino. Dobbiamo insegnarlo ai
ragazzi. Ma siamo presi da mille
attività e non ci rendiamo più conto
di questa mancanza. Poi li vedo
questi bambini che vengono qui
d’inverno a sciare e sembrano
palombari che vanno sott’acqua o
astronauti scafandrati di tutto
punto. A noi ci mandavano fuori
con pochi vestiti, la neve ti entrava
dentro, ti raggelava, ti fasciava, ti
palpava, ti massaggiava, tornavi a
casa, avevi le mani congelate. Poi
subentrava il caldo, sviluppavi una
resistenza che arrivava da un
contatto con la realtà. In pratica
producevi anticorpi. Qui rischio di
essere frainteso… Ci vuole anche
prudenza e intelligenza nella vita,
ma non deve essere troppa perché
altrimenti rischi di non fare niente.
L.M. Noi siamo figli di persone che
arrivano da un’altra epoca, che sono
dovute diventare grandi presto.
Cresciuti in fretta, con infanzie
trascurate e adolescenze eluse come
fossero formalità. Noi arriviamo da
lì. C’era forse una saggezza quasi
involontaria in questo piccolo
mondo antico. Si viveva con poco e
ci si accontentava spesso
considerando quel poco quasi
troppo.
Ti racconto un piccolo aneddoto
che riguarda padre David Maria
Turoldo, grande uomo, nato in
Friuli, a Coderno, nel 1916. Nel 1940
si trasferì a Milano su invito
dell’arcivescovo della città Ildefonso
Schuster. Durante l’occupazione
nazista di Milano collaborò
attivamente con la resistenza
antifascista. Ho a mente sempre
una delle sue frasi più memorabili:
«La realizzazione della propria
umanità è il solo scopo della vita».
Il suo nome di battesimo era
Giuseppe. Da bambino un giorno
tornò a casa dopo la scuola con più
fame del solito. Sua madre gli porse
il piatto di minestra che con veloci
cucchiaiate finì in un lampo. Ne
chiese dell’altra, «Mame indeise
encjemò mignestre?». Non ce n’era
più. Allora la mamma guardando il
figlio con occhi malinconici ma
sereni gli disse: «Frut, bisugne
cressi un pouc par volte». Figliolo,
bisogna crescere un poco alla volta.
È un peccato lasciare andare queste
antiche sapienze, non riconoscerle o
barattarle perché così comanda il
progresso. Mi va benissimo il
progresso, e sono d’accordo con te,
Mauro, ma c’è una forma di
cattiveria nel lasciare che queste
cose muoiano dopo averle rese non
necessarie.
Prima ricordavi Mario Rigoni
Stern. Un altro grande personaggio
è stato Carlo Sgorlon. Negli anni
Ottanta, assieme ad alcuni amici,
avevamo messo in piedi una tv che
trasmetteva solo in paese. Si
chiamava Video Strega. L’amico Edo
faceva miracoli con la parte tecnica,
e con un fai da te fuori dal comune
costruiva ogni attrezzatura. Si
trasmetteva il martedì e il venerdì
in replica. Avevo letto molto di
Carlo Sgorlon e pensai di
intervistarlo. Tutto era più semplice
allora. Presi l’elenco, trovai il suo
numero e gli telefonai. Mi rispose
lui in persona e mi diede
appuntamento per l’indomani.

M.C. Oh Sgorlon, mio grande amico


e sostenitore.
L.M. Gli piaceva l’idea di
un’emittente che trasmetteva solo
per Cercivento, un paese di
ottocento abitanti. Restai a parlare
con lui dalle 14 alle 20, assieme a
Vico che riprese l’incontro. Sgorlon
parlava lentamente con voce
profonda, aveva un suono
cavernoso, profetico, carico di bassi
che davano ancor più spessore alla
parola. Per l’intero pomeriggio
raccolsi emozionato le sue idee, le
sue riflessioni, il suo punto di vista,
così profondo, serio, carico di
rispetto per i valori essenziali.
Non sapeva cosa fossero la
leggerezza e l’ironia, il suo parlato
scendeva continuamente in
profondità, bandiva il superfluo,
mostrava la consapevolezza della
sua anima e quanta serietà
mettesse nelle questioni
dell’umanità. «Archetipi» era un
termine che usava spesso. Erano
tanti architravi della nostra
esistenza, diceva. Più il tempo
passava più tali strutture si
facevano visibili, accendevano una
luce, generavano richiami potenti
anche se sotterranei e sfumati. Ciò
che ci gravita intorno, luoghi, volti,
attrezzi, tornano a portare un
ricordo, a generare un evento. Sono
situazioni che portiamo con noi, che
sonnecchiano da qualche parte ma
tornano a trovarci nel tempo,
perché sono fondamenti, sono basi,
sono le nostre radici.
Descriveva l’epopea contadina, lo
spirito montanaro, la ciclicità del
tempo, il valore della memoria e
delle radici. Li portava come un
bagaglio genetico. Pareva aver
vissuto altre epoche, aver
conosciuto i suoi personaggi, un po’
come capita leggendo i tuoi libri,
Mauro. Molti personaggi portavano
nella loro vita un riverbero di
quanto vissuto in precedenza,
mostravano una conoscenza
naturale, senza studio, come
un’eredità maturata in una vita
precedente.
Sgorlon sosteneva il valore del
mondo contadino, della sua
atavicità portatrice di una solida
tradizione, di qualcosa di
immutabile che teneva insieme
esistenza e natura rendendole unite
come corpo e anima. Tutto era
sicuro in quel mondo, tutto era
sperimentato e solido. Allo stesso
modo sosteneva il valore della
ciclicità, delle cose fatte e rifatte,
che resistevano, davano sicurezza.
La consapevolezza di questo
ripetersi era portatrice di una reale
serenità, ti faceva diventare tutt’uno
con la natura, con il giorno e la
notte, con le stagioni, con il
movimento delle lune.
Molto legato alla montagna,
Sgorlon ricordava che il montanaro
ha una spiccata indole al fare che lo
porta a patire per il tempo sprecato,
lasciato in disparte come un
attrezzo inutile o un recipiente
vuoto. La straciarie, lo spreco di
tempo, generava una sorta di
sofferenza, di irritazione per
chiunque ritenesse il fare elemento
fondamentale della sua opera.
Anche l’emigrazione che aveva
costretto le famiglie a dividersi
tornava come un monito nei suoi
pensieri. Era come un campo di
grano non mietuto, o un albero di
pere o susine lasciate a marcire.
L’emigrazione imponeva il suo
comandamento: il dovere.
Chiamava con voce prepotente, in
ogni parte del mondo, a fare ogni
mestiere, a costruire un ponte o un
edificio o nuove strade. Non
ascoltava lamenti o proteste,
l’emigrazione imponeva e basta.
Non bisognava battere ciglio ma
essere pronti a eseguire gli ordini
come soldati, concepire la vita come
una milizia di cui non si
conoscevano né i capi né la
strategia, soltanto i doveri e i
sacrifici. Questo era capitato a ogni
emigrante.
Ascoltavo le sue parole carico di
ammirazione per quell’uomo fuori
dal tempo, che consegnava la sua
versione dell’animo umano con
tono biblico. Non osavo nemmeno
fargli delle domande, ero confuso
davanti a quel grande personaggio.
Ci spiegò che il popolo scriveva a
suo modo la storia. La scelta degli
eventi era molto diversa da quella
ufficiale. Il popolo cantava la
propria storia, coltivava le leggende,
le favole. Ricordava i fatti legati alla
carestia, alle tempeste, all’amore,
alle grandinate, alla guerra, perché
appartenevano al ciclo naturale
della vita. Non gli interessava
elencare un processo storico,
definirlo, analizzarlo, perché tutto
era destinato a tornare allo stesso
modo, attraverso fatti diversi ma
simili. Perché perdere tempo a
sviscerare quello che era lampante?
Il popolo non credeva alle
quisquilie, alle conclusioni teoriche,
diffidava delle ideologie, credeva
invece nel lavoro, nella famiglia,
nell’amore e nella natura. Dopo un
avvenimento doloroso, il popolo
con la sua infinita pazienza
cominciava a curarsi le ferite.
A ogni pensiero una pausa
dolente muoveva le rughe del suo
volto. Restammo insieme l’intero
pomeriggio, finché mi disse di
essere stanco e di non poter
continuare. Erano le sette di sera.
La moglie, gentilissima, ci invitò a
cena. Sgorlon sedeva a capotavola.
Vicino a lui pareva di essere in un
mondo diverso. Non camminava
con i tempi. Diffidava delle mode,
delle eccessive leggerezze, delle
novità troppo facili. Era un uomo
lento, riflessivo, profondo.
Sospettava di ogni cosa facile,
troppo a portata di mano. Temeva i
trabocchetti di un incedere
frettoloso o disattento. Faceva ogni
cosa con ponderatezza, con
impegno, quasi con sacralità.
A tavola, mentre spezzava il
pane, pareva che eseguisse un rito.
Staccava un piccolissimo pezzo e lo
portava al piatto, quasi per una
forma di rispetto del poco, del
consumare con misura e presenza.
Brindammo con del vino bianco.
Prima di lasciarci disse che uno dei
doveri degli uomini è capire il
proprio destino, cosa non facile
perché gli uomini sono specialisti
nell’alzare barriere tra loro e la
verità. Se ci si lasciava andare al
destino, la vita avrebbe avuto un
senso. Anche se sembrava bizzarro
o impossibile bisognava procedere
con fede. Siamo nati per seguire un
determinato sentiero e dobbiamo
farlo, senza farci domande o
comparazioni, senza valutare
convenienze o altre possibilità.
Non è facile, non è mai facile. Ma
se non segui il tuo destino, con il
tempo le ansie aumentano e un
senso di sconfitta si alza al di sopra
di ogni pensiero. Non assecondare il
proprio destino ci avrebbe resi
inquieti, erranti, sempre in cerca di
qualcosa. Mai pacifici.
Indiani di montagna

La natura ama nascondersi,


dicevano gli antichi greci. Ognuno
di noi ha bisogno di un angolino
dell’anima in cui riparare. Gli
Achilpa erano una piccola
comunità australiana appartenente
alla tribù degli Arunta. Un popolo
migratore, destinato a continui
spostamenti per cercare le giuste
condizioni di sopravvivenza.
Cercavano luoghi per poter
cacciare, per l’allevamento dei
propri animali. In questo continuo
peregrinare avevano escogitato un
metodo per sentirsi sempre a casa,
per non essere dei senzapatria.
Dove arrivavano piantavano un
lungo palo di acacia e stabilivano
ogni volta che quello era il centro
del mondo. Non c’era marginalità.
Non erano foresti da nessuna parte.
Il mondo intero era patria grazie al
simbolo di quel palo di acacia.

M.C. Questa tana nessuno sa dov’è


e non commetterò l’errore di dirlo.
Ci ho messo anni a scovarla, come
vedi c’è solo l’essenziale e si trova
in terra straniera. Ho voluto che la
porta d’ingresso fosse parecchio
bassa, ti devi abbassare per entrare.
Ogni volta questo piegarsi
rappresenta un gesto di umiltà e di
misura che mi aiuta. Sembra un
dettaglio minimo ma è importante.
Devo piegarmi e inchinarmi per
passare, questo movimento mi
infonde un senso di rispetto e
gratitudine per quello che ho
intorno.
Qui c’è tutto quello che mi serve,
quasi niente. Ho portato su ogni
cosa a spalla. Vedi questa stufa?
Pesa trentotto chili, mi hanno
prestato il basto gli alpini per
portarla su, una faticaccia. L’acqua
vado a prenderla qui vicino dove c’è
un filo lento lento che esce dalla
roccia.
Un uomo deve sempre avere un
angolino dell’anima dove
nascondersi. Nascondersi un po’ da
tutto, dalla gente, dal paese, dagli
amici, trovare il tempo di ricordare
e riflettere. Vengo qui anche se non
è la mia casa e ci resto settimane,
un mese, un giorno. L’idea era di
trasferirmi a vita però non ce l’ho
fatta, ho ancora bisogno di visibilità,
non sono ancora pronto al ritiro.
Devo sentire il fiato degli altri sul
collo, il loro odore, la loro stima, il
loro disprezzo. Quando sono stufo
torno in questo posto. Qui scrivo,
leggo, dormicchio, osservo la
natura. Sono in mezzo al bosco,
abbracciato alle Dolomiti, non ho
nemmeno tagliato le frasche che
entrano dalla porta e dalla finestra,
sto bene così.
Pensa che da quello che risulta a
me, dalle ricerche condotte, da
testimonianze di vecchi ormai
scomparsi, saranno
centocinquant’anni che qui non
abita nessuno. Per tutto un secolo e
metà di un altro il silenzio è stato
padrone. Il mistero di muri
abbandonati fa scattare una
curiosità irresistibile. Chi viveva in
questa casa ad alta quota dove non
arrivano macchine né ci sono
sentieri segnati? Che vita facevano?
Facevano l’amore oppure le donne
le violentavano? Pare che l’ultima
persona ad abitarci sia stata una
vecchia. Almeno così mi hanno
raccontato, ma non ci sono
documenti né prove che lo
certificano. Tutto è avvolto dal
mistero.
Una volta, tanti anni fa, mi
fermai in una baita con un amico
bracconiere. Trovammo una
mummia di donna che sembrava
fatta di cuoio, una sagoma piccola
piccola, pareva una bambina.
Scoprimmo per caso
un’intercapedine tra quei muri che
se battevi suonavano vuoti.
Sfondammo la parete per vedere
cosa c’era dentro e la mummia
venne fuori con un balzo, come a
dirci: «Finalmente mi avete
liberata!». «Chiamiamo i
carabinieri» dissi all’amico. Lui
rispose in un ghigno: «Carabinieri
mai». E pochi minuti dopo riprese
l’argomento: «Neanche polizia… La
torniamo dov’era». Da quel
ritrovamento mi è venuta l’idea per
un romanzo che sto scrivendo, dove
immagino la vita della persona che
abitava in quella baita
centocinquant’anni fa.
Pensavo fosse più facile fare gli
eremiti. «Non è niente» mi dicevo.
Invece è difficile, mica perché hai
paura di stare solo. Hai paura dei
ricordi che nel silenzio vengono
fuori tutti. Memorie dolorose di un
passato difficile, rimorsi,
pentimenti, malinconie. Se c’è gente
puoi scaricarli sugli altri o far finta
di niente, se sei da solo te la devi
vedere. D’estate è ancora
accettabile, si resiste, è anche bello.
Ma quando viene l’autunno e poi
l’inverno la faccenda si complica. E
allora torno a far conferenze, che
preferisco chiamare chiacchiere, a
perdere energia tra la gente. Anche
un po’ dimenticare.

L.M. Noi, Mauro, siamo un po’ gli


indiani di oggi. Siamo una
minoranza dimenticata.

M.C. No Gigi, noi siamo abili a


minorare, a creare minoranze.
Tendiamo a crearle anche in
famiglia. Io per esempio ero la
pecora nera e mi hanno messo in
minoranza. Ognuno crede di essere
meglio dell’altro. In Friuli succede
la stessa cosa che accade con più
clamore in Veneto o Lombardia. C’è
un modo di dire nella nostra terra
che mi lascia allibito: «E fasin di
bessoi», facciamo da soli. Ma le
tegole del tetto si passano l’acqua,
altrimenti il tetto crolla.
I friulani sono gente laboriosa,
l’hanno mostrato sempre, e di più
in occasione del terremoto del ’76.
Hanno detto: «Dateci i soldi e fuori
dalle palle, facciamo da soli», e
hanno ricostruito il Friuli. Questo
«facciamo da soli» può andar bene
in alcuni frangenti ma nei rapporti
umani diventa rischioso, tende a
chiuderti nel tuo orto privato, non
c’è più nessuno scambio. Se siamo
tutti migliori allora perché invece
che esserlo uno qua e uno là non
uniamo le forze e ci miglioriamo di
più insieme? Io credo che ci sia
molto da imparare dalle altre
culture, anche quelle più lontane.
L’Africa profonda, ad esempio, è
stata l’incubatrice dell’intero genere
umano, viene tutto da laggiù. L’arte
stessa nasce lì, la creatività,
l’immaginazione. Diceva Macedonio
Fernández: «Non si inventa nulla,
tutto è un continuo ripetersi, perciò
non è il secondo autore che si
macchia di plagio bensì il primo».
Le minoranze siamo noi a
crearle, non è che uno nasca
minoranza. Le creiamo con i nostri
atteggiamenti, le prese di posizione,
quando escludiamo, quando
emarginiamo. Sento spesso gli
insopportabili parolai della politica
che dicono: «Abbiamo a cuore la
montagna povera», «Abbiamo a
cuore le minoranze». Avete a cuore
un cazzo. Non avete a cuore niente,
solo il vostro interesse. L’Europa
cosiddetta civile seguita a fare muri
per bloccare la gente, non hanno
capito che questa è una migrazione
epocale, immensa, che rimarrà nella
storia. Non si può neanche dire
biblica, va molto oltre. Non li fermi,
non solo perché fuggono da guerre,
da situazioni economiche disastrose
o da dittature. Anche questo, certo,
ma non basta. Vogliono venire qui
perché hanno visto brillare la luce
del benessere, hanno udito la voce
di ciò che non hanno. Anche se non
ci fossero le guerre, le dittature,
loro verrebbero qui lo stesso perché
vedono brillare una luce misteriosa:
la novità della scoperta. L’uomo
non sta fermo, scordiamocelo.
Vogliono vedere questo mondo e
non gliene frega niente di morire.
Naturalmente in questo fiume
immenso di anime e di corpi ci sarà
anche il delinquente, questo è
ovvio. Ma ricordiamoci che quelli
che hanno commesso gli ultimi
attentati in Francia erano nati lì,
non sono venuti da fuori. Questo
flusso migratorio eccezionale può
aumentare il rischio per un
semplice fatto numerico, ma è folle
pensare di risolvere la questione
innalzando barriere e muri. Questa
è insulsaggine, è la prova della
mancanza di fantasia, di
intelligenza, di creatività, di
accoglienza.
La mancanza di idee crea muri.
Blocco tutto così evito il rischio che
mi si chieda un’idea, una soluzione,
che non ho, cui non ho mai pensato.
Il muro non mi richiede altre idee,
ho avuto l’idea di fare il muro e
basta così. I muri e i fili spinati
sono la testimonianza
dell’imbecillità feroce e gelida
dell’essere umano, della nostra
cosiddetta civile Europa. Per
fortuna non tutti sono così.

L.M. Non ci sono solo minoranze


linguistiche, etniche, ideologiche.
Oggi si muove un nuovo concetto di
minoranza, quello rappresentato
dalle singole persone che non
accettano di adeguarsi alle
imposizioni di una forzata
modernità. Che non vogliono
adeguarsi a situazioni di comodo, a
convenienze, e che non temono di
muoversi pacificamente in
direzione contraria alla massa.
Minoranze di uomini e donne che
sentono il bisogno di accordare il
proprio comportamento con quanto
batte nel loro cuore, a cui non
importa di conquistare classifiche
ma di difendere una posizione,
anche se ha poca voce, anche se è
fragile. Si accontentano di poco,
quasi niente, e mettono sincerità e
senso di appartenenza al primo
posto.

M.C. Che cos’è un ribelle? È una


persona che ha il coraggio di dire
no. Questo è Camus. Abbiamo
bisogno di più persone che
sviluppino l’istinto di ribellione e il
coraggio di dire no. Gobetti diceva:
«Il sì è la parola dei servi». E
Chamfort: «Sapete perché gli
uomini sono quasi tutti schiavi?
Perché non hanno il coraggio di
pronunciare la parola no». Questo
è.

L.M. La montagna a volte è stufa di


parlare a vuoto, allora grida, perché
è rimasta inascoltata per troppo
tempo. Ci dice che ci sono ragioni
che bisogna difendere, che non
vanno barattate per principi che
non ci appartengono: sono le
ragioni dei piccoli posti, le piccole
valli, quei luoghi dove non nevica
firmato, come piace dire a te,
Mauro. Ricordando Jean Giono: «Il
vero bisogno sta nelle piccole valli
dove ci si può chiamare da una
costa all’altra». Le colpe, credo,
sono anche un po’ nostre, perché
non abbiamo capito, perché ci
siamo fidati, ma soprattutto perché
abbiamo lasciato fare, non ci siamo
opposti, non ci siamo fatti sentire.
La montagna lo sa che non è stato
solo per tornaconto, è stata anche
pigrizia. Siamo stati pigri, ci siamo
fidati, ma chi doveva rappresentarci
aveva stabilito altre direzioni. La
montagna ce lo ricorda che si conta
solo se si vigila, se si è pronti a
protestare quando serve, a dire no.
Ma noi siamo stati troppo occupati
a far quadrare i nostri esigui conti.

M.C. Basterebbe ciò che hai detto a


fare un libro. Questa è la situazione
della montagna, ed è anche colpa
nostra. La montagna ci dice cosa
vorrebbe. E ci dice di vergognarci.
Perché tutti insieme non facciamo
valere i nostri diritti? Andiamo a
Roma a protestare uniti e decisi.

L.M. È colpa anche delle minoranze


quando queste si riducono al
piagnisteo.

M.C. Certo, Gigi, è il «facciamo da


soli», il chiuderci nell’orticello
privato. Ma la montagna manda dei
segnali, ce lo dice cosa vuole.
Questa è una grande verità che fai
bene a dire ma che ti creerà anche
parecchi problemi.

L.M. Perché Mauro?

M.C. Perché i panni sporchi vanno


lavati in casa… Si dice così no?
Invece io li lavo all’aperto! Il primo
assassino della montagna è stato il
montanaro, che si è venduto, che
appena ha visto l’opportunità ha
mandato in malora il lavoro e tutto
il resto. Basta vedere
nell’Ampezzano: non c’è quasi più
un ampezzano. La montagna ormai
è delle multinazionali e dei ricchi.
Cortina, Courmayeur, Corvara
eccetera. E anche il mare, che è una
montagna distesa. Leggi il libro
dell’amico Fabio Genovesi, Morte
dei Marmi (morte sta per Forte,
Forte dei Marmi, la cittadina
balneare della Toscana). Il
montanaro ha pensato: la mia casa
la posso vendere a trentamila euro
al metro quadro? La vendo, prendo
un sacco di soldi, mi compro una
casetta da un’altra parte… e via.
Ecco com’è stata liquidata la
montagna ricca, dove ora nevica
firmato.
Negli ultimi trenta-quarant’anni
il vero killer della montagna è stato
il montanaro che voleva arricchirsi
senza più lavorare. Così ha
barattato la montagna. Si sono
venduti l’anima cambiando usi e
costumi, modo di vivere, tutto per
arricchirsi e farlo in fretta.
Vendiamo il bosco per fare
l’impianto di sci; vendiamo l’acqua
per fare la centralina privata,
succede ogni giorno! E al resto ci
pensa lo Stato: in Carnia hanno
chiuso gli uffici giudiziari; qui da
noi tra poco chiuderanno anche
l’ufficio postale e dovremo andare
altrove per ritirare la posta.

L.M. Sono d’accordo, per fortuna


esistono ancora delle isole di
resistenza. Ti voglio raccontare
questo aneddoto, Mauro. Quando
ero piccolo, mio nonno Pio mi
costruì una pistola di legno, dopo
poco tempo però se ne pentì. Ci
teneva a convertirmi alla causa
degli indiani. Aveva imparato a
conoscere le storie di molte tribù e
ne parlava come di un popolo saggio
a cui era stato portato via tutto. Nei
codici di questo nostro mondo
cosiddetto civile calunnia e
diffamazione sono considerati reati
gravi, ma di quanto è capitato agli
indiani pare che molti non abbiano
visto né sentito nulla. Quando il
potere è legittimato dagli interessi
non va per il sottile e legittima
anche i modi più truci salvo poi
piangere, ma sempre in un secondo
momento.
Grazie ai racconti del nonno, e
anche forse per un mio istinto
naturale, mi sono sempre schierato
dalla parte degli indiani, anche
quando la storia non la conoscevo e
dovevo credere a quanto mi
capitava di vedere al cinema.
Addirittura Augusta, mia nonna,
così predisposta a prendere le parti
dei più deboli, li considerava degli
assassini. Ma Pio mi tranquillizzava
dicendo che le donne spesso sono
troppo sbrigative. Una volta ricordo
che mi disse: «La nostra arma era e
sarà sempre l’arco, un’arma di
minoranza, per guerre piccole ma
essenziali, che certo non può che
arrendersi davanti alla forza dei
fucili, ma lo stesso non smetterà
mai di affermare che non basta
avere potere per essere giusti».

M.C. Certo! Mi ritrovo


perfettamente in questa cosa.
Quando si era bambini e si giocava
ai cowboy e agli indiani io facevo
l’indiano. Anche nella vita poi, non
ho fatto il guardacaccia, ho fatto il
bracconiere. È l’istinto, una biologia
regalata a caso. Non sono mai stato
dietro al bancone di un bar, sempre
davanti. Ho bevuto, non venduto
vino. C’è come un istinto che ti
rende insopportabile vedere il
povero, l’abbandonato, il derelitto, il
«diverso» – oggi lo chiamano così,
ma diverso da cosa? – che
soccombe. C’è un istinto che ti
porta a dire: «Mi schiero con lui, lo
devo difendere», quanto meno
patire al suo fianco. E c’è l’istinto
contrario, l’umanità che resta
indifferente o se la gode a vedere
l’altro soffrire. Non venite a dirmi
che i tedeschi piangevano mentre
facevano fuori sei milioni di ebrei…
C’è un male profondo che è
accompagnato al suo opposto, a
questo istinto di aiuto e di difesa dei
più deboli, così come c’è il giorno e
la notte, l’ordine e il disordine, la
gioia e il dolore. Io non mi sono mai
occupato del colore della pelle o del
luogo di provenienza di una persona
ma di sapere se questa ha un tetto
sulla testa, se ha un pasto al giorno,
una dignità.

L.M. Lo sai Mauro che noi


montanari siamo parecchio
diffidenti, specie gli anziani.
L’indole di mia mamma, per
esempio, è generosa, lo sanno i
venditori ambulanti che vanno
spesso a bussare a casa sua. Non
posso dire che lei sia predisposta
verso gli extracomunitari, ma mi
capita spesso di trovarli seduti a
tavola. Quando le domando perché,
lei risponde: «Ho provato la fame,
non sopporto di rivederla».

M.C. Ma certo… Fin da piccolo ho


sentito la povertà, la differenza
sociale. I figli del notaio, del
medico, dell’avvocato avevano tutto,
non era certo colpa loro, erano
ricchi di famiglia e io vedevo la
differenza. E mi chiedevo: «Perché
hanno quello e io non ce l’ho?
Perché loro mangiano e io no?
Perché quello ha una cartella per
andare a scuola e io una borsa di
stracci cucita da mia nonna?». È un
meccanismo elementare che agisce
sempre. Così, istintivamente e
biologicamente, mi sono sempre
schierato con i perdenti, con i più
deboli. Ero dei loro. La povertà mi
ha fatto scegliere bene. Se dovessi
in futuro schierarmi per un partito,
sceglierò un partito che si prende
cura di queste persone. So che non
dovrebbe esserci bisogno di
schierarsi, di scegliere un partito,
ma vedo che la parte malvagia
dell’uomo sta per avere il
sopravvento sull’altra e allora forse
ci sarà bisogno di prendere
posizione in maniera più
organizzata, contro chi va a caccia di
barboni, contro chi disprezza i
perdenti, contro chi infierisce sui
deboli e sugli indifesi che cercano
solo un po’ di serenità per se stessi
e le loro famiglie.

L.M. È l’archetipo di cui parlava


Sgorlon: esiste una responsabilità
collettiva per il dolore e la
sofferenza che c’è nel mondo. Ed
esiste un meccanismo di rimozione
che ci porta a pensare ad altro,
come se quella realtà non ci
riguardasse. Sarebbe bello ricordare
la storia dei quattro alpini di
Cercivento, il mio paese, anche
questa completamente rimossa.

M.C. Li hanno fucilati gratis e


bisognerebbe riabilitarli. Dovrebbe
intervenire il presidente della
Repubblica… Gli alpini di
Cercivento furono accusati di
tradimento ma era tutto falso. Ed
erano solo quattro ragazzi. Non si
può rimuovere una cosa così, non è
giusto.

L.M. Già… Dovevano conquistare


una vetta, il Monte Cellon, che è sul
passo Monte Croce Carnico, lo
stesso passo che aveva attraversato
Anna per raggiungere il paese
austriaco in cui viveva suo marito
Nel.

M.C. So benissimo dov’è. Monte


Croce Carnico, sopra Timau, Prima
guerra mondiale, siamo nel 1915-16.
Mio nonno paterno perse un
fratello sul Pal Piccolo. Si chiamava
Domenico, fu decorato al valor
militare. Era dell’ottavo reggimento
alpini. Nato il 10 giugno 1891, morì
il 29 luglio 1916 per ferite, dice la
storia, «riportate in
combattimento».

L.M. Quel passo ha accolto tante


lacrime, le lacrime di Anna ma
anche di molte madri giovani che
hanno visto i figli cadere in
battaglia. Le madri dei quattro
alpini di Cercivento…

M.C. Dopo tante chiacchiere ecco


che ci ritroviamo al punto da cui
abbiamo cominciato. La storia di
Anna, il passo Monte Croce Carnico,
cento anni fa… Racconta cosa è
accaduto a questi poveri ragazzi…

L.M. Tre dei ragazzi fucilati erano


carnici, il quarto era di Maniago;
soldati dell’ottavo alpini,
battaglione Arvenis. Matiz Basilio,
Ortis Silvio, Coradazzi Giovan
Battista e Massaro Angelo. All’epoca
molti carnici lavoravano in Austria,
nei boschi e nelle segherie, lì
nascevano amicizie, affetti, anche
qualche matrimonio: era difficile
puntare le armi contro persone con
cui avevi lavorato, bevuto e cantato.
Appartenevano a terre simili, stessi
sentieri, stessi sassi, stessi fiumi:
Carnia-Carinzia, persino i nomi del
territorio avevano la stessa radice.
Come fai da un giorno all’altro a
diventare nemico di una nazione
che ti dava il pane, tanto vicina da
sembrare un tutt’uno? Il comando
militare era parecchio prevenuto
proprio perché temeva questi
rapporti di comunanza.
I monti Freikofel, Pal Piccolo e
Pal Grande fanno da confine sopra
il valico di Monte Croce Carnico.
L’inverno tra il 1915 e il 1916
scesero cinque metri di neve, i
morti furono migliaia. La neve, il
freddo e le bombe fecero stragi sia
sul versante italiano che austriaco.
Per far arrivare le merci ai soldati
l’esercito utilizzava le donne, con il
rischio che qualche cecchino le
intercettasse e le uccidesse. Erano
le portatrici, affrontavano ore di
cammino, sotto ogni condizione.
Più di mille quelle ufficiali ma
tantissime si aggregarono
volontariamente perché avevano
parenti o conoscenti tra i monti, o
soltanto per essere utili.
Il controllo di quelle montagne
equivaleva al controllo del valico.
Gli ordini dicevano di procedere
senza preoccuparsi delle perdite.
Nella prima battaglia del maggio
1915 ci furono duecento morti.
Quattrocento a giugno e poi altri in
luglio e altri ancora in agosto. Il
numero saliva continuamente. Si
moriva intravedendo i tetti delle
proprie case, tale era la vicinanza da
una parte e dall’altra del confine.
Per il controllo della zona
bisognava conquistare la vetta del
Cellon. Il compito dell’operazione
fu affidato alla centonovesima
compagnia, con a capo il capitano
Ciofi. Era un’impresa pericolosa e
lui l’aveva organizzata in modo
elementare, esponendo i soldati
oltremisura al fuoco nemico, senza
predisporre la tattica migliore.
Voleva attaccare di primo mattino,
un attacco di sorpresa, ma la
sorpresa sarebbe durata poco. E
poi? Bisognava aspettare il buio,
rinforzare l’artiglieria, servivano
molti più soldati, una sola
compagnia non bastava, l’artiglieria
avrebbe dovuto praticare un fuoco
continuo per impedire di essere a
sua volta vittima di un tiro al
bersaglio. Bisognava stremarli con
ore di battaglia prima di attaccarli.
Erano queste le richieste dei soldati.
Era questa la tattica migliore.
Il capitano Ciofi invece diceva
che bastava solo una parte di
artiglieria ed eventualmente
l’apertura del fuoco due o tre ore
prima, non di più. Ma non era così.
Ci voleva più artiglieria in copertura
e altri plotoni per sostenere
l’attacco. Serviva un massiccio
fuoco per disturbare i cecchini, con
una sola compagnia la morte
avrebbe fatto festa. I soldati
parlavano come garzoni a cui un
padrone aveva dato un ordine
strampalato. Sapevano piegare la
testa e obbedire, non era la prima
volta che lo facevano per un ordine
sbagliato, ma in quel caso ci sarebbe
stata solo la morte ad aspettarli e
non avrebbero comunque
conquistato la vetta. Quel capitano
Ciofi doveva ancora farsi. I soldati
scherzavano, dicevano che se non
gli andava bene poteva licenziarli e
rimandarli a casa. Si rivolsero al
tenente, perché più esperto, erano
sicuri che lui avrebbe capito, ma il
tenente rispose che quella era una
guerra non un cantiere di lavoro. In
guerra gli ordini non si discutevano,
si eseguivano.
I soldati risposero che
naturalmente volevano obbedire,
chiedevano solo delle modifiche per
evitare il peggio. Avrebbero potuto
aspettare il buio o, in alternativa,
una giornata di nebbia fitta.
Mostrarono al tenente il tracciato
che avevano in mente. Basilio lo
aveva fatto diverse volte, conosceva
bene i posti, e quel percorso dava
buone possibilità di riparo. Ma il
tenente frenava, spiegava che
disobbedire a un ordine di quel tipo
poteva significare la corte marziale.
Si adoperò comunque perché il
capitano Ciofi li ascoltasse, ma
l’incontro durò poco e si esaurì alle
prime proteste. Il capitano decise di
sollevare la compagnia e di
escluderla dall’attacco. Il suo
rapporto fu durissimo.
Intanto un altro fatto portò il
quartier generale a sospettare
complotti. In Carnia si tenne una
delle manifestazioni di protesta più
popolate contro la guerra, più di
duemila persone si radunarono a
Villa Santina da tutte le vallate.
Secondo i rapporti, in quella
occasione furono pronunciate
parole vili e contrarie all’amor di
patria. Inoltre, vista la malaparata e
considerato che ormai l’attacco era
deciso, tredici alpini della
centonovesima compagnia
sfruttando rapporti di conoscenza
con soldati austriaci passarono
nelle file nemiche. Il fatto allarmò
lo Stato generale e creò un vero
caso.
L’attacco fu rinviato, tutta la
compagnia doveva restituire le armi
e allontanarsi dal fronte. Per il reato
di rivolta in presenza del nemico, il
codice prevedeva per i complici la
pena della reclusione e la
fucilazione per sobillatori. L’intera
compagnia fu messa sotto accusa; i
quattro ragazzi, che semplicemente
proponevano una strategia che
evitasse la morte sicura, furono
ritenuti i principali colpevoli. Per
ristabilire l’ordine l’attacco doveva
andare a buon fine, così le modalità
furono modificate adottando
proprio alcune delle soluzioni
proposte dai quattro alpini.
Gli ottanta soldati della
compagnia vennero rinchiusi nella
Tor di Nassi, dove solo il parroco,
don Luigi Zuliani, poteva vederli. Il
29 giugno 1916 cominciò il
processo. La chiesa di San Martino
a Cercivento venne sconsacrata per
il tempo necessario. Si coprì l’altare
con un telo e il Santissimo
sacramento fu portato in sacrestia.
Il collegio era formato da otto
ufficiali. Le circolari
raccomandavano severa
repressione, esemplare punizione
dei vigliacchi per reati di quel tipo.
Tutto si svolse velocemente. Li
chiamavano traditori, descrivevano
gli avvenimenti come moti di
rivolta, disobbedienza e
vigliaccheria. Parlavano di loro
come di soldati disonorati. Anche se
quei ragazzi avevano anni di
combattimento alle spalle, nessuno
disse che erano stati soldati
coraggiosi.
Li accusavano di scarso
attaccamento alla bandiera, ma non
era vero, forse volevano spaventarli,
forse li stavano punendo per aver
alzato la testa. Si taceva sulle loro
capacità militari, sull’alto senso del
dovere che li aveva sempre
contraddistinti, sul coraggio
dimostrato in battaglia, non si
diceva niente neppure delle
medaglie ricevute. Intanto il Cellon
era stato conquistato anche grazie
ai loro consigli. Quei ragazzi non
erano abituati a parlare in italiano e
non sapevano far fronte all’ostilità
che li circondava. Le loro frasi
restarono a metà, le risposte
sospese. Non riuscirono nemmeno
a dire che loro volevano combattere,
chiedevano solo un piano più
sicuro. Furono interrogati tutti e
ottanta, dodici ore in totale.
Nessuna perdita di tempo, nessuna
obiezione, una pausa di troppo
determinava la fine
dell’interrogatorio. L’ufficiale
accusatore fu durissimo e chiese la
morte per i quattro soldati.
Non c’era stata nessuna rivolta, i
soldati volevano soltanto salvarsi e
salvare i compagni ma questo grido
restò dentro a ognuno di loro.
Sarebbe sicuramente intervenuto
l’avvocato che li difendeva, lui
avrebbe rimesso le cose a posto,
così credevano. Invece l’avvocato si
affidò alla decisione della corte. Alle
tre del mattino, dopo sole tre ore,
arrivò la sentenza che decretava la
pena di morte per i quattro alpini,
quarantadue assoluzioni e per gli
altri il carcere. La sentenza era da
eseguirsi immediatamente.
Familiari e amici vennero
allontanati. Don Zuliani assicurava
che la grazia sarebbe arrivata. Portò
del vermouth e delle sigarette.
Forse aveva ragione, ci si
aggrappava alla speranza, quel
parroco almeno non li aveva mai
traditi. Alle quattro vennero a
prenderli e li portarono dietro al
cimitero. Li fecero sedere e li
bendarono. Una donna stava
salendo per la fienagione, il sentiero
era bloccato, un carabiniere le disse
di tornare a casa. Lei fece il giro
largo e si fermò sopra una rupe da
dove vide tutto. Don Zuliani
chiedeva ai carabinieri di aspettare,
insisteva, ma non c’era più tempo.
Allora si mise davanti e si offrì di
morire al loro posto. Lo portarono
via con la forza. Assicurava che la
grazia sarebbe arrivata, e quella fu
l’ultima parola prima degli spari: la
grazia.
Non tutti morirono, alcuni
militari avevano mirato alto così
l’ordine venne ripetuto. Basilio era
ancora vivo, tentò di alzarsi ma le
sedie su cui erano legati erano state
fissate al terreno. L’ufficiale si
avvicinò, impugnò la pistola e gli
sparò. Don Zuliani benedì i corpi
con una funzione allucinata, carica
di parole senza senso.

M.C. Questa è una delle tante


vergogne della guerra. E dei
generali. C’è stata una petizione, me
l’ha fatta firmare Paolo Rumiz, e
anche Luciano Santin, affinché sia
reso l’onore a questi ragazzi che
passano ancora per traditori.

L.M. Pensa che don Zuliani non si


riprese più da quella storia,
cominciò a benedire le persone, a
benedire i morti, gli alberi, i fiori.
Capitava che le sue messe e i suoi
sermoni si interrompessero
all’improvviso perché lui aveva
come delle visioni di questi quattro
alpini. Si assentava per parlare con
loro. La chiesa era gremita, persino
fuori c’erano persone e tutti
aspettavano che il parroco
continuasse la messa, ma lui poteva
passare anche mezz’ora a dialogare
con le ombre.

M.C. Sono le anime morte che


tornano. Hai citato il Pal Piccolo…
Come ho già detto, un fratello di
mio nonno morì da eroe sul Pal
Piccolo a venticinque anni. Un’aula
delle vecchie scuole di Erto, oggi
adibite a centro visite, era intitolata
a lui. Corona Domenico detto
«Menin», che vuol dire «piccolo
Domenico» (Domenico in friulano
si dice Meni). Andò a prendere il
capitano ferito oltre la linea nemica
e lo portò in salvo ma mentre
rientrava venne abbattuto da una
scarica di mitraglia.
Mio nonno raccontò che
provarono a salvarlo, lo presero e lo
adagiarono su un carretto per
accompagnarlo giù dal Pal Piccolo.
Non ci fu nulla da fare. Fu sepolto
nel cimitero di Erto, con una croce
di ferro battuta dal fabbro Mano del
Conte. Dopo ottant’anni, era ancora
viva mia mamma, tirarono fuori le
ossa di questo eroe che salvò il
capitano ferito. Nella bara c’erano le
scarpe chiodate con le suole ancora
intatte. Mio padre disse: «Teniamo
le suole per ricordo». Le portò nella
nostra vecchia casa di Erto,
passarono un po’ di giorni e mi
chiamò: «Guarda che qui si sente
passi». «Ma scherzi?» risposi. «È il
soldato.» «Non ci credo!» Allora
informarono il prete e seppellirono
di nuovo le suole al cimitero di
Erto.

L.M. Solo le suole?


M.C. Solo quelle… Le ossa le
avevano messe in una cassettina
dopo la riesumazione.

L.M. Tornano i morti. Come


pensavano gli antichi, la morte non
significa la fine, è solo uno stadio
intermedio. In famiglia mi hanno
trasmesso la convinzione che esista
uno spazio tra i vivi e i morti, dove
le persone scomparse ci sono
sempre. Sono lì, ci vedono,
ascoltano e a volte rispondono pure,
non a parole ma con segnali. Era
consuetudine parlarci, chiedere loro
aiuto, consiglio. Se ne avvertiva la
presenza, si sentiva il respiro, il
calore, e a volte qualcuno le vedeva.
Lo zio Luigi, figlio di Anna e di
Nel, era carabiniere e stava facendo
carriera. Nel momento migliore
però, Aurora, la sua fidanzata,
rimase incinta. Il regolamento non
ammetteva figli al di fuori del
matrimonio. Forse fu per questo
che Luigi venne trasferito, vicino a
Trento. Lì conobbe Vilma, si misero
insieme e anche lei rimase incinta.
Aurora gli impose il matrimonio
altrimenti avrebbe segnalato al
comando la situazione. Lo zio
scriveva lettere tormentate alla
nonna, era straziato, ma il suo
cuore batteva per Vilma. Così il
comando venne informato. Lo zio
ricevette una convocazione urgente
e quella stessa notte si puntò contro
la pistola d’ordinanza e sparò. Per il
nonno fu un colpo terribile. Al
funerale fu uno strazio, il nonno
fuori di sé dal dolore tornò con la
penna stilografica del fratello. A
Luigi era servita negli studi, al
concorso per brigadiere e per
scrivere le tante lettere che inviava.
Con quella penna stilografica aveva
espresso al meglio la sua bella
calligrafia e le sue buone idee.
A casa nessuno poteva
adoperarla, era custodita con grande
attenzione e reverenza, poi
misteriosamente quella penna
sparì. La nonna mi disse che era
stato lo zio che continuava a girare
per casa, lei lo sentiva, diceva che
era stato lui a riprendersela… Forse
gli serviva per scrivere lettere in
paradiso.

M.C. Ma come fai a non scrivere ’ste


robe? Oggi ti danno del pazzo, rischi
che ti ricoverano. Io non ho mai
indagato se mia mamma e mio
padre avessero davvero sentito quei
passi, ricordo però che erano
terrorizzati. Certo, bevevano,
avevano anche allucinazioni, alla
fine non riconoscevano più neanche
me. Una notte rimasi sveglio ad
ascoltare. Mi sarebbe piaciuto
sentirli, ma quella volta Domenico
non camminò.
Mi piace credere che siano vere
certe storie. In questa tana ho
sentito delle voci in una lingua
straniera, non me le sono inventate,
l’ho raccontato anche ai miei amici,
a Erri De Luca per esempio, ma non
sto lì a insistere. Anche a Paolo
Rumiz. Disse che erano kibuk,
anime inquiete che si infilano nelle
case abbandonate. O ci credi o non
ci credi. Io so che le ho sentite e il
mistero è fondamentale per uno che
scrive. Potrei riempire un tomo di
sole voci, di sole presenze. Come
fate a non sentire che c’è qualcuno?
Io sento che c’è. Sento voci,
sussurri, presenze. È quello che
abbiamo detto ieri, il corpo fisico
diventa poltiglia marcia, terra,
cenere, ma il corpo animico circola
e assume le sembianze della
persona. Il bastone di Borges…
Forse sono soltanto suggestioni, io
vivo di questo: suggestioni e
immaginazioni. Probabile che
presto dia di matto, come mio padre
e mia madre.
Gli oggetti rubano l’anima delle
persone che li hanno usati. L’anima
entra negli oggetti e lì rimane. Sarà
una teoria balorda finché vuoi, però
il mazzuolo di Michelangelo
custodisce tutta la sua energia, tutte
le sculture che ha scolpito. La
sgorbia di Stradivari la prendi in
mano e ti trema il polso, senti che ci
sono i violini dentro, gli abeti
bianchi che cantano. Gli occhiali di
Pessoa ancora un po’ unti dietro le
stanghette… Questo è animismo.
Sono appassionato di mummie, mi
piacerebbe avere una mummia inca:
sai quante robe potrebbe ispirarti?
Ti domandi chi era, che vita faceva,
in che luoghi abitava, che lingua
parlava. Pensa che misteri!
Sono attratto da queste storie.
Quando sarò rimbambito, quindi
presto, finalmente non saprò più
nulla. Come un bambino, cercherò
la fantasia. Diceva Borges: «Tutti i
bambini sono geniali finché non
cercano la mediocrità imitando gli
adulti, e nella maggior parte dei casi
la trovano». Io la conservo tuttora,
da adulto. Anzi da vecchio. Sì,
conservo ancora la mediocrità
nonostante l’impegno a
scrollarmela via.
Riferimenti

Riportiamo qui di seguito i libri


citati nel testo con i relativi
riferimenti. La valigia quasi vuota
di Haim Baharier è pubblicato da
Garzanti, Milano 2014. L’ultima
partita a carte di Mario Rigoni
Stern è pubblicato da Einaudi, così
come gli altri classici dell’autore, e
oggi disponibile in edizione
tascabile. Il formaggio e i vermi. Il
cosmo di un mugnaio del
Cinquecento di Carlo Ginzburg è
edito da Einaudi, Torino 2009. Il
viandante fra i due mondi.
Un’esperienza di guerra di Walter
Flex è pubblicato da Edizioni
Herrenhaus, Seregno (MB) 1998.
Ricordi, sogni, riflessioni di Carl
Gustav Jung è pubblicato da Bur,
Milano 2012. Le principali opere di
Carlo Sgorlon sono pubblicate da
Mondadori. Morte dei Marmi di
Fabio Genovesi è pubblicato da
Laterza, Roma-Bari 2012. La casa
del colonnello di Alvise Lazzareschi
è edito da Rizzoli, Milano 2016.
Sommario

Presentazione
Pagina di copyright
Frontespizio

È inutile dire per sempre


L’arte di vivere
Misericordia
Del godersela
Filosofastri
Combattimenti
Gratificazione
Indiani di montagna

Riferimenti
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