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Le Grandi Scrittrici
7
MARY SHELLEY
Frankenstein
Edizione originale del 1818
introduzione di
Nadia Fusini
traduzione di
Alessandro Fabrizi
Le Grandi Scrittrici
a cura di Daniela Pagani
Titolo originale:
Frankenstein. The 1818 Text
First published in Great Britain 1818
This edition with an introduction by Charlotte Gordon
published in Penguin Books 2018
Frankenstein
Edizione originale del 1818
Note
1. John Wilson Croker, recensione di Frankenstein, di Mary Shelley, Quarterly Review 18 (gennaio
[posticipata al 12 giugno] 1818), pp. 379-385, riprodotta in “Reviews”, Romantic Circle, Mary Shelley
Chronology and Resource Site,
https://www.rc.umd.edu/reference/chronologies/mschronology/reviews/qrrev.html.
2. Il visconte Dillon a Mary Wollstonecraft Shelley (MWS), 18 marzo 1829, in The Life and Letters of
Mary Wollstonecraft Shelley, di Julian Marshall, vol. 2 (Londra, Richard Bentley and Son, 1889), p.
197. Si veda anche Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon (New York, Random House, 2015), pp.
499-500.
3. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. xvii.
4. A Father’s Legacy to His Daughters di John Gregory (Londra, 1774) citato in A Vindication of the
Rights of Woman and The Wrongs of Woman; or Maria di Mary Wollstonecraft, a cura di Anne Mellor,
Longman Cultural Editions (Pearson, 2007), p. 124.
5. A Vindication of the Rights of Woman and The Wrongs of Woman; or Maria di Mary Wollstonecraft,
pp. 105-106.
6. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 172.
7. A Vindication of the Rights of Woman and The Wrongs of Woman; or Maria di Mary Wollstonecraft,
p. 65.
8. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. xvi.
9. Horace Walpole a Hannah More, 24 gennaio 1795, in The letters of Horace Walpole: Fourth Earl of
Oxford, a cura di Helen Toynbee e Paget Toynbee, vol. 15 (Oxford, Clarendon, 1905), p. 337.
10. Citato in Shelley: The Pursuit di Richard Holmes (New York, New York Review of Books, 1974,
1994), p. 172.
11. Percy Bysshe Shelley a Thomas Jefferson Hogg, 4 ottobre 1814, in The Letters of Percy Bysshe
Shelley, a cura di Frederick Jones, vol. I (Oxford, Clarendon Press, 1964), p. 403.
12. Enquiry Concerning Political Justice di William Godwin, terza edizione, vol. 2 (Londra, Robinson,
1798), p. 75.
13. Byron a John Cam Hobhouse, 11 novembre 1818, in Lord Byron’s Correspondence, a cura di John
Murray, vol. 2 (New York, Charles Scribner’s Sons, 1922), p. 89.
14. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 162.
15. The Life of Byron, with His Letters and Journals, di Thomas Moore (Londra, John Murray, 1851),
p. 319. Mary Shelley era la fonte di Moore per quanto riguarda l’estate a Ginevra con gli Shelley.
16. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 192.
17. Nel suo “Making a ‘Monster’. An Introduction to Frankenstein”, in A Cambridge Companion to
Mary Shelley, a cura di Esther Schor (Cambridge, Cambridge University Press, 2003), p. 19, Anne
Mellor sostiene che «la quest di Victor è precisamente finalizzata al tentativo di usurpare alla natura il
potere femminile della riproduzione biologica».
18. Nel presente volume, p. 204.
19. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 213.
20. Nel presente volume, p. 190.
21. Ivi, p. 154.
22. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 213.
23. “Blake’s Chimney Sweep and Shelley’s Creature” di Gabrielle Watling, non pubblicato, Endicott
College, gennaio 2017.
24. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 217.
25. MWS a Leigh Hunt, 3 maggio 1817, in The Letters of Mary Wollstonecraft Shelley, a cura di Betty
Bennett, vol. 1 (Baltimora, John Hopkins University Press, 1980), p. 32. Si veda anche Romantic
Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 242.
26. Anne Mellor fornisce un’analisi di queste date in “Making a ‘Monster’. An Introduction to
Frankenstein”, p. 12, e in Mary Shelley: her Life, her Fiction, her Monsters (New York, Routledge,
1989), pp. 54-55.
27. Sempre in Mary Shelley, pp. 54-55, Anne Mellor osserva: «Il romanzo è scritto dall’autrice per un
pubblico composto da una sola persona, lei stessa». Si veda anche Romantic Outlaws, di Charlotte
Gordon, p. 243.
28. Si veda anche Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 244.
29. Ivi, p. 470.
30. Si veda nel presente volume l’Introduzione di Mary Shelley a Frankenstein, terza edizione (1831),
p. 330.
31. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 188. Per un ulteriore analisi del “sogno” di Shelley si
veda Mary Shelley, di Miranda Seymour (New York, Grove, 2000), p. 157.
32. Si veda nel presente volume l’Introduzione di Mary Shelley a Frankenstein, terza edizione (1831),
p. 330.
33. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 189.
34. Nel presente volume, pp. 94-95.
Frankenstein
Edizione originale del 1818
Prefazione
L’evento su cui si basa questo racconto di finzione è stato ritenuto, dal dottor
Darwin e da alcuni trattatisti tedeschi di fisiologia, di non impossibile
evenienza. Non si creda che io presti alcuna fede, finanche la più remota, a
una simile ipotesi; e tuttavia, nel partire da questa per sviluppare un’opera
dell’immaginazione, ho cercato di non limitarmi all’intreccio di una serie di
terrori soprannaturali. L’evento su cui poggia l’interesse di questa storia non
presenta gli svantaggi di una semplice vicenda di spettri e incantesimi. È stato
scelto per la novità delle situazioni che genera e perché, anche se impossibile
come fatto fisico, offre all’immaginazione una prospettiva più ampia e
incisiva nel delineare le passioni umane di quella che possono concedere le
ordinarie relazioni tra eventi reali.
Ho quindi cercato di preservare la verità dei principi elementari della
natura umana, ma senza farmi scrupoli nel combinarli in modo innovativo.
L’Iliade, la poesia tragica greca, Shakespeare nella Tempesta e nel Sogno
d’una notte di mezza estate, e specialmente Milton, nel Paradiso perduto, si
rifanno a questa regola; ma anche il più umile romanziere, che desideri dare o
ricevere diletto dal suo lavoro, può, senza presunzione, applicare alla
narrazione in prosa una licenza, o meglio una regola, adottando la quale si
sono prodotte così tante squisite combinazioni di sentimenti umani negli
esempi più fulgidi della poesia.
La circostanza che originò la mia storia scaturì da una conversazione
informale. Cominciai a scriverla un po’ per divertimento, un po’ come
espediente per esercitare delle risorse mentali ancora inesplorate. Con il
procedere del lavoro, altri motivi si mescolarono a questi. Non sono in alcun
modo indifferente all’effetto che avrà sul lettore qualsivoglia tendenza morale
insita nei sentimenti o nei personaggi che la storia presenta; ma la mia
preoccupazione principale a questo riguardo si è limitata a evitare gli
snervanti effetti dei romanzi dei giorni nostri e a mostrare l’amabilità degli
affetti famigliari e l’eccellenza della virtù universale. Non si pensi che io
condivida sempre le opinioni dell’eroe di questa storia, che sprigionano, in
modo naturale, dal suo carattere e dalle situazioni in cui si trova. Né si deve
trarre, dalle pagine che seguono, qualsivoglia conclusione che risulti in
contrasto con una dottrina filosofica di qualunque genere.
È motivo di ulteriore interesse per l’autore che questa storia sia stata
concepita nella maestosa regione dove, per la maggior parte, si svolge la
trama, e in compagnia di persone che non si può cessare di rimpiangere.
Trascorsi l’estate del 1816 nei dintorni di Ginevra. La stagione era fredda e
piovosa e la sera ci radunavamo intorno alla legna scoppiettante del
caminetto, di tanto in tanto intrattenendoci con divertenti racconti tedeschi di
fantasmi finiti nelle nostre mani. Queste storie stimolarono in noi un giocoso
desiderio di imitazione. Altri due amici (e dalla penna di uno di loro una
storia sarebbe molto più gradita al pubblico di qualunque cosa io possa mai
sperare di realizzare) e io accettammo di scrivere ognuno una storia basata su
qualche fatto soprannaturale.
Il tempo però d’un tratto si fece sereno; così i miei due amici mi
lasciarono per andare a fare un giro tra le Alpi, e nel magnifico scenario
offerto da queste persero ogni memoria delle loro visioni spettrali. La storia
che segue è la sola che fu completata.
Frankenstein
ovvero
Il moderno Prometeo
Volume primo
Prima lettera
Come passa lento il tempo qui, circondato come sono da gelo e neve. Ma un
secondo passo è stato fatto in direzione della mia impresa. Ho noleggiato una
nave e mi sto occupando di radunare i miei marinai; quelli che ho già
reclutato mi sembrano uomini su cui fare affidamento, e sono certamente
dotati di indomito coraggio.
Eppure sento ancora un vuoto che non sono mai riuscito a colmare, e la
mancanza di quel che potrebbe riempirlo mi tocca come un male gravoso.
Non ho un amico, Margaret: se un successo mi rende raggiante di
entusiasmo, non v’è nessuno che partecipi alla mia gioia; se vengo assalito
dalla delusione, nessuno cercherà di farmi forza nel mio sconforto. Affiderò i
miei pensieri alla carta, è vero; ma è ben povera cosa per la comunicazione
dei sentimenti. Desidero la compagnia di un uomo che possa simpatizzare
con me, i cui occhi rispondano al mio sguardo. Mi stimerai romantico, cara
sorella, ma soffro in modo pungente della mancanza di un amico. Non ho
nessuno accanto a me, che sia gentile eppure coraggioso, con una mente
istruita e al tempo stesso aperta, dai gusti come i miei, che approvi o corregga
i miei piani. Un tale amico davvero potrebbe emendare gli errori del tuo
povero fratello! Io sono troppo ardente nell’azione, e troppo impaziente nei
contrattempi. Ma è un male ancora più grande per me che io sia un
autodidatta: i primi quattordici anni della mia vita non ho fatto che
scorrazzare per prati, senza leggere altro che i libri di viaggi di nostro zio
Thomas. A quell’età ho conosciuto i celebri poeti della nostra nazione; ma
solo quando era ormai troppo tardi perché potessi trarne i benefici più
importanti, mi convinsi della necessità di conoscere più lingue, oltre a quella
del mio paese natio. Ora ho ventotto anni, e in verità sono più ignorante di
molti scolari di quindici. Vero è che ho riflettuto di più e che i miei sogni a
occhi aperti sono più estesi e grandiosi; ma necessitano di fissaggio (come
direbbero i pittori), e ho tanto bisogno di un amico che abbia l’intelligenza di
non disdegnarmi in quanto romantico e abbastanza affetto per me da aiutarmi
a organizzare le mie idee.
Bene, questi sono lamenti inutili; sicuramente non troverò un amico nel
vasto oceano, né qui ad Arcangelo, tra mercanti e uomini di mare. Ciò non
vuol dire che anche in questi rozzi petti non palpitino sentimenti inalterati
dalle scorie della natura umana. Il mio luogotenente, ad esempio, è un uomo
di straordinario coraggio e iniziativa, follemente desideroso di gloria. È un
inglese e ha in sé, mescolate alle caratteristiche tipiche della sua nazionalità e
della sua professione, non mitigate dall’educazione, alcune delle più nobili
doti del genere umano. L’avevo incontrato la prima volta a bordo di una
baleniera, e trovandolo senza impiego in questa città mi è stato facile
arruolarlo con me in questa impresa.
Il nostromo è una persona di indole eccellente: a bordo si distingue per i
suoi modi cortesi e la mitezza con cui mantiene la disciplina. La sua naturale
dolcezza è tale che si rifiuta di cacciare (l’intrattenimento preferito,
praticamente l’unico, qui) perché non sopporta lo spargimento di sangue. E la
sua generosità ha qualcosa di eroico. Anni fa era innamorato di una giovane
donna russa di moderate fortune; poiché lui aveva accumulato una
considerevole somma in premi di viaggio, il padre della ragazza acconsentì
alle nozze. Ma prima del giorno stabilito per la cerimonia lui incontrò una
volta ancora la sua futura signora e lei, in un mare di lacrime, si gettò ai suoi
piedi supplicandolo di risparmiarla e confessandogli al contempo di amare un
altro, che però era povero e pertanto suo padre non avrebbe mai approvato la
loro unione. Il mio generoso amico rassicurò la supplice e, una volta saputo il
nome dell’uomo da lei amato, rinunciò immediatamente alla sua richiesta.
Con i propri soldi aveva già acquistato una fattoria, dove aveva progettato di
passare il resto della vita, ma donò tutto al rivale, insieme a quel che restava
del denaro dei premi di viaggio, affinché acquistasse il bestiame. Dopodiché
lui stesso invitò il padre della giovane donna ad acconsentire al matrimonio
con il suo amato. Il vecchio oppose un fermo rifiuto, ritenendo doveroso
onorare il patto con il mio amico, il quale, di fronte all’inamovibilità
dell’uomo, abbandonò il suo paese e non vi ritornò finché non venne a sapere
che quella che un tempo era stata la sua fidanzata si era sposata secondo i
suoi desideri. «Che nobile uomo!» dirai tu. E lo è. Però da allora ha trascorso
l’intera vita a bordo di una nave, e non pensa a niente altro che a corde e
sartie.
Ora tu non dedurre dalle mie piccole lamentele, o dal fatto che io
contempli la possibilità di non ricevere mai ricompensa per le mie fatiche,
che la mia determinazione stia vacillando. È salda come il destino, e il mio
viaggio è per il momento rimandato solo fino a quando le condizioni
atmosferiche renderanno possibile il mio imbarco. L’inverno è stato
orribilmente duro, ma la primavera promette bene e si presume che arrivi con
notevole anticipo, quindi è possibile che io salpi prima di quanto credessi.
Non farò nulla di avventato; mi conosci abbastanza da confidare nella mia
prudenza e premura quando da me dipende la sicurezza altrui.
Non so descriverti i miei sentimenti al cospetto dell’imminente partenza.
È impossibile darti un’idea della trepidazione, metà piacevole e metà
spaventosa, con la quale mi appresto a salpare. Sto andando verso regioni
inesplorate, nella “terra di nebbia e di neve”, ma non ucciderò alcun albatro,
quindi non preoccuparti per la mia sicurezza.
Ti incontrerò di nuovo dopo avere solcato mari immensi e di ritorno dalle
estremità più meridionali dell’Africa o delle Americhe? Non oso contare su
un tale successo, ma l’altra faccia della medaglia non riesco neanche a
guardarla. Tu continua a scrivermi a ogni occasione; c’è sempre la possibilità
(per quanto incerta) che io riceva le tue lettere proprio quando ne avrò più
bisogno per rinfrancare il mio spirito. Provo per te il più tenero bene. Se non
dovessi ricevere più mie notizie, ricordami sempre con affetto.
7 luglio 17**
Il tuo affezionato
R.W.
Quarta lettera
5 agosto 17**
Ci è accaduta una cosa così strana che non posso fare a meno di riportarla,
per quanto sia molto probabile che tu mi riveda prima che questi fogli
giungano in tuo possesso.
Lunedì scorso (il 31 luglio) eravamo praticamente circondati dal ghiaccio,
che accerchiava la nave da ogni lato, lasciandole a malapena lo spazio per
galleggiare. La nostra situazione era piuttosto pericolosa, soprattutto essendo
avvolti da una fitta nebbia.
Di conseguenza lasciammo la barca in stallo, in attesa di qualche
mutamento del clima e dell’atmosfera.
Verso le due la foschia si diradò e davanti a noi scorgemmo, in ogni
direzione, vaste e frastagliate distese di ghiaccio, apparentemente infinite. A
quella vista alcuni dei miei compagni non trattennero un gemito e nella mia
testa iniziarono ad agitarsi pensieri di allerta, quando la nostra attenzione
venne attratta da una strana visione che ci distolse dall’ansia per la nostra
situazione. A mezzo miglio di distanza scorgemmo un ingombro legato a una
slitta trainata da cani, in direzione nord, e seduto sulla slitta, a guida dei cani,
un essere di forma umana, ma di dimensioni gigantesche. Con i nostri
cannocchiali potemmo osservare il rapido passaggio di quel viaggiatore, fino
a che scomparve tra le irregolarità del ghiacciaio, in lontananza.
Questa apparizione suscitò la nostra assoluta meraviglia. Avevamo
motivo di credere di essere a molte centinaia di miglia di distanza da
qualsivoglia terraferma e quello che avevamo visto sembrava invece indicarci
che la terra non fosse poi in realtà così distante come pensavamo. Ma,
imprigionati com’eravamo dal ghiaccio, ci era impossibile continuare a
seguirne il tragitto, che avevamo osservato con la più grande attenzione.
Passate un paio d’ore da questo avvenimento, sentimmo gonfiarsi il mare;
prima di notte il ghiaccio si ruppe e lasciò libera la nostra nave.
Noi tuttavia restammo fermi fino al mattino, temendo di scontrarci al buio
con una di quelle grandi masse che galleggiano libere alla deriva quando il
ghiacciaio si spacca. Mi presi così il tempo di riposare qualche ora.
Ma con le prime luci del mattino mi recai sul ponte, dove trovai tutti i
marinai su un lato della nave, occupati a parlare, così pareva, con qualcuno in
mare. V’era in effetti una slitta, come quella che avevamo visto in
precedenza, che durante la notte era stata trasportata verso di noi sopra un
grande frammento di ghiaccio. Solo uno dei cani era ancora vivo, ma la slitta
portava con sé anche un essere umano, che i marinai stavano cercando di
convincere a salire a bordo. Questi non era, come ci era sembrato l’altro
viaggiatore, il selvaggio abitante di un’isola inesplorata, ma un europeo.
Quando feci la mia comparsa sul ponte, il nostromo disse: «Ecco il nostro
capitano, lui non vi lascerà morire in mare aperto».
Lo sconosciuto, vedendomi, mi parlò in inglese, pur se con accento
straniero. «Prima ch’io salga sulla vostra barca» disse, «potete farmi la
gentilezza di informarmi su dove siete diretti?»
Capirai il mio stupore nel sentirmi rivolgere una tale domanda da un
uomo sull’orlo della fine, e al quale la mia nave avrei supposto si dovesse
offrire come un’occasione da non scambiare con tutto l’oro del mondo. A
ogni modo gli risposi che eravamo in viaggio di esplorazione verso il Polo
Nord.
Al sentire questo si mostrò soddisfatto e acconsentì di salire a bordo.
Buon Dio! Se tu lo avessi visto, Margaret, quell’uomo che così aveva
negoziato per la sua salvezza, la tua sorpresa sarebbe stata smisurata. Le sue
membra erano quasi congelate, e il suo corpo orribilmente deperito dalla
fatica e dalla sofferenza. Non ho mai visto un uomo ridotto così male.
Cercammo di portarlo in cabina, ma appena gli mancò l’aria fresca svenne.
Quindi lo riportammo sul ponte, e lo rianimammo frizionandolo con il brandy
e costringendolo a mandarne giù un goccio. Non appena diede segni di vita lo
avvolgemmo nelle coperte e lo sistemammo vicino alla canna fumaria dei
fornelli della cucina. Si riprese lentamente, poco a poco, e mangiò un po’ di
zuppa, che lo rifocillò a meraviglia.
Passarono così due giorni prima che fosse in grado di parlare, durante i
quali temetti spesso che le sue sofferenze lo avessero privato di
comprendonio. Quando si fu in certa misura ripreso, lo trasferii nella mia
cabina e lo assistetti personalmente per tutto il tempo che i miei altri compiti
me lo permettevano. Non ho incontrato mai una creatura così interessante: di
solito i suoi occhi hanno un’espressione selvaggia, quasi folle; poi ci sono
momenti in cui, se qualcuno compie un atto gentile nei suoi confronti, o gli
rende anche il più futile servizio, tutto il suo volto si illumina, irradiando una
benevolenza e una dolcezza di cui non ho mai visto l’eguale. Ma in generale
è malinconico e afflitto; a volte digrigna i denti, insofferente al peso dei
dolori che lo opprimono.
Quando il mio ospite si riprese un po’ ho avuto un bel daffare a tenere
lontani gli uomini che volevano fargli migliaia di domande; non potevo
permettere che lo tormentassero con la loro futile curiosità, in una condizione
fisica e mentale la cui ripresa dipendeva unicamente dal riposo. Tuttavia una
volta il luogotenente riuscì a chiedergli come mai si fosse spinto così lontano
sui ghiacci con quel veicolo così strano.
Il suo volto prese all’istante l’aspetto della più profonda tristezza e lui
rispose: «Al seguito di qualcuno che scappava via da me».
«E l’uomo che inseguivate viaggiava con gli stessi mezzi?»
«Sì».
«Allora immagino che lo abbiamo visto, perché il giorno prima di tirarvi a
bordo abbiamo veduto dei cani che trascinavano sui ghiacci una slitta con un
uomo sopra».
Questo accese l’attenzione dello sconosciuto, che fece una marea di
domande sul tragitto del demone, come lui lo chiamava. Poco dopo, quando
fu di nuovo da solo con me, disse: «Ho senz’altro stimolato la vostra curiosità
e quella di questa brava gente, ma siete troppo rispettoso per fare domande».
«Certamente, sarebbe davvero molto impertinente e disumano da parte
mia disturbarvi con la mia curiosità».
«Eppure mi avete messo in salvo da una situazione insolita e pericolosa, e
benevolmente mi avete riportato alla vita».
Poco dopo volle sapere da me se ritenessi che la rottura dei ghiacci avesse
distrutto l’altra slitta. Risposi che non ero in grado di rispondere con nessuna
certezza; certo il ghiaccio si era rotto solo poco prima della mezzanotte, e
quindi il viaggiatore poteva già essere arrivato in un luogo sicuro, ma questo
io non ero in grado di accertarlo.
Da questo momento lo sconosciuto sembrò molto impaziente di trovarsi
sul ponte, per vigilare e scorgere la slitta che ci era apparsa; l’ho tuttavia
convinto a rimanere in cabina, perché era decisamente troppo debole per
sopportare il rigore del clima. Ma gli ho promesso che qualcuno sarebbe stato
di vedetta per lui e gli avrebbe portato immediata notizia di qualunque nuovo
oggetto si fosse palesato alla vista.
Questo è il mio rapporto aggiornato di quanto concerne questo strano
avvenimento fino a oggi. Lo stato di salute dello sconosciuto è gradualmente
migliorato, ma è molto silenzioso, e mostra un certo disagio quando qualcuno
entra nella cabina, a parte me. Ma v’è che i suoi modi sono così concilianti e
gentili che tutti i marinai si interessano a lui, anche se hanno avuto
scarsissima occasione di comunicare con lui. Per quanto mi riguarda,
comincio ad amarlo come un fratello, e il suo costante e profondo dolore
genera in me grande simpatia e compassione. Nei suoi giorni migliori
dev’essere stato una nobile creatura, dal momento che persino ora, che è a
pezzi, è così attraente e amabile.
In una delle mie lettere, cara Margaret, ti dissi che non avrei certo trovato
un amico nel vasto oceano; eppure ho trovato un uomo che sarei stato felice
di avere come fratello del cuore, prima che il suo spirito fosse spezzato dalla
sciagura.
Riprenderò a intervalli il mio diario in merito allo sconosciuto,
ogniqualvolta ci sarà un qualche nuovo avvenimento da annotare.
13 agosto 17**
Il mio affetto per il mio ospite cresce di giorno in giorno. Suscita in me, a un
livello strabiliante, al tempo stesso ammirazione e compassione. Come faccio
a vedere una creatura così nobile distrutta dalla sciagura senza provare il più
acuto dolore? Lui è tanto gentile e al tempo stesso saggio; ha una mente così
raffinata, e quando parla le sue parole, pur scelte con arte squisita, fluiscono
rapide e con impareggiabile eloquenza.
Si è molto ripreso dal suo malore e sta sempre sul ponte, a quanto pare
cercando di scorgere la slitta che precedeva la sua. Per quanto sia infelice non
è totalmente assorbito dai suoi guai, anzi si interessa moltissimo delle
occupazioni degli altri. A me ha fatto molte domande sul mio progetto e io gli
ho raccontato con franchezza la mia piccola storia. Ha mostrato di gradire la
mia confidenza e mi ha suggerito diverse modifiche al piano che mi
torneranno estremamente utili. Nei suoi modi non v’è pedanteria; tutto quello
che fa sembra sgorgare solo dall’interesse che istintivamente prova per il
benessere di chi gli sta intorno. È spesso sopraffatto dalla tristezza e a quel
punto si siede in disparte, per conto suo, cercando di debellare quanto v’è di
torvo o asociale nel suo umore. Queste crisi gli passano come una nuvola
passa davanti al sole, per quanto lo sconforto non lo abbandoni mai. Mi sono
prodigato per guadagnarmi la sua fiducia e credo di esservi riuscito. Un
giorno gli ho parlato del desiderio che ho sempre avuto di trovare un amico
che mi comprendesse e potesse indirizzarmi con le sue opinioni. Gli ho detto
di non appartenere a quella classe di uomini che si sentono offesi dai consigli
degli altri. «Sono un autodidatta. Desidero dunque un compagno più saggio e
più esperto di me, per darmi forza e incoraggiarmi, e non ho mai ritenuto
impossibile incontrare un vero amico».
«Sono d’accordo con voi» replicò lo sconosciuto «nel ritenere l’amicizia
un bene non solo desiderabile ma possibile e mi sento autorizzato a
esprimermi al riguardo perché io l’ho avuto un amico, una volta, ed era la più
nobile delle creature umane. Voi siete pieno di aspettative, avete tutto il
mondo davanti e nessuna causa di disperazione. Invece io... io ho perso tutto
e non posso cominciare una nuova vita».
Mentre diceva queste parole il suo volto si fece espressione di un dolore
composto e radicato che mi raggiunse il cuore. Ma lui restò in silenzio e in un
momento si ritirò nella sua cabina.
Per quanto sia distrutto nello spirito, nessuno come lui sa percepire con
altrettanta intensità le bellezze della natura. Il cielo stellato, il mare, ogni
spettacolo offerto da queste regioni meravigliose sembra avere ancora il
potere di elevare la sua anima dalle cose terrene. Un uomo così ha una doppia
vita: può subire sciagure ed essere travolto dalle delusioni, ma dentro di sé
sarà come uno spirito celeste, con intorno un’aura nel cui cerchio nessun
dolore o follia può fare breccia.
Riderai dell’entusiasmo che esprimo nei riguardi di questo divino
vagabondo? Se così fosse, devi avere certamente perso quella semplicità che
un tempo costituiva il tuo speciale fascino. Ma se vuoi, sorridi pure al calore
delle mie espressioni, mentre ogni giorno io trovo nuove occasioni per
rinnovarle.
19 agosto 17**
Ieri lo sconosciuto mi ha detto: «Vi sarà facile intuire, capitano Walton, che
ho patito grandi e ineguagliabili sventure. Avevo deciso, un tempo, che la
memoria di questi mali sarebbe morta con me; ma voi mi avete indotto a
cambiare decisione. Voi ricercate conoscenza e saggezza, come ho fatto io un
tempo, e spero ardentemente che la gratificazione dei vostri desideri non
diventi per voi un serpente avvelenato, come è stato per me. Non so se il
racconto delle mie disgrazie vi sarà utile; tuttavia, se ne avete voglia,
ascoltate la mia storia. Credo che le straordinarie occorrenze a questa
collegate offrano un quadro della natura che potrebbe stimolare le vostre
facoltà e ampliare la vostra comprensione. Mi udirete parlare di poteri e di
avvenimenti che siete abituato a ritenere impossibili, ma non ho dubbi che lo
svolgimento della mia storia porti con sé l’intrinseca prova della veridicità
degli eventi di cui è composta».
Capirai bene quanto fossi gratificato dalla confidenza che mi veniva
offerta; e tuttavia non potevo sopportare che rinnovasse il suo dolore con la
narrazione delle sue disgrazie. Avevo una gran voglia di ascoltare quel
racconto promesso, in parte per curiosità, in parte per il grande desiderio di
migliorare la sua sorte, se questo fosse stato in mio potere. Gli risposi
esprimendo queste mie sensazioni.
«Vi ringrazio» replicò «per la vostra empatia, che a ogni modo è inutile;
la mia sorte è oramai quasi compiuta. Attendo un unico evento, dopodiché
riposerò in pace. Capisco quello che provate» proseguì, notando che stavo per
interromperlo, «ma vi sbagliate, amico mio, se così mi permetterete di
chiamarvi, perché nulla può alterare il mio destino. Ascoltate la mia storia, e
vi accorgerete di quanto sia irrevocabilmente segnata». Mi disse quindi che
avrebbe dato inizio al suo racconto il giorno seguente, quando ne avessi avuto
tempo e voglia. Questa promessa ha fatto scaturire da me i più calorosi
ringraziamenti. Ho deciso di trascrivere, ogni sera, quando non ho altri
impegni, le cose che mi avrebbe riferito durante il giorno, il più possibile con
le sue parole. Se fossi occupato, prenderò comunque degli appunti. Sono
sicuro che questo manoscritto ti darà grande piacere; in quanto a me, che
conosco quest’uomo e che sentirò il racconto dalle sue stesse labbra... con
quanto interesse e partecipazione lo leggerò in futuro!
Capitolo primo
Fu in una tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche.
Con un’ansia che rasentava l’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti per
infondere vita e instillarne una scintilla nella cosa inanimata che giaceva ai
miei piedi. Era già l’una di notte; una lugubre pioggia batteva contro i vetri e
la mia candela era quasi del tutto consumata quando, nel barlume di quella
luce che moriva, vidi aprirsi i giallastri occhi opachi di quella creatura; aveva
il respiro affannato e le membra agitate da un moto convulso.
Come dar conto delle mie emozioni di fronte a questa catastrofe? Come
descrivere lo sciagurato individuo a cui mi ero tanto impegnato a dare forma,
con infiniti sforzi, cura e pene? Le sue membra erano proporzionate e avevo
scelto le sue fattezze in base alla bellezza. Bellezza! Buon Dio! La sua pelle
giallognola copriva a malapena il sottostante intreccio di muscoli e arterie; i
suoi capelli neri erano lucidi e folti; i denti di un bianco perlaceo... Ma questi
pregi formavano solo un contrasto ancora più raccapricciante con i suoi occhi
acquosi, che parevano quasi dello stesso colore delle orbite grigiastre in cui
erano collocati, la pelle avvizzita e le labbra strette e nere.
I vari casi della vita non sono mutevoli quanto i sentimenti di una natura
umana. Avevo lavorato sodo per quasi due mesi all’unico scopo di infondere
la vita in un corpo inanimato. Per fare questo mi ero privato di sonno e salute.
L’avevo desiderato con un ardore più che smodato eppure, ora che avevo
finito, la bellezza del sogno svanì e il mio cuore era colmo di un orrore e un
disgusto che mi toglievano il fiato. Non riuscendo più a guardare quell’essere
che avevo creato, corsi fuori dalla stanza e per lungo tempo continuai ad
attraversare avanti e indietro la mia camera da letto, nell’incapacità di
calmarmi e prendere sonno. Finalmente la spossatezza si avvicendò
all’inquietudine che mi aveva travolto, e mi buttai a letto vestito, sperando di
trovare qualche attimo di oblio. Fu tutto vano; dormii, senz’altro, ma
disturbato dai sogni più agitati. Mi parve di vedere Elizabeth, nel fiore della
salute, camminare per le strade di Ingolstadt. Felice e sorpreso, la
abbracciavo. Ma appena posavo le mie labbra sulle sue per baciarla, queste
diventavano del livido colore della morte; i suoi lineamenti apparivano mutati
e mi sembrava di avere tra le braccia il cadavere di mia madre; il suo corpo
era avvolto da un sudario e io vedevo i vermi infiltrarsi tra le pieghe del
tessuto. Mi svegliai di soprassalto in preda all’orrore; la mia fronte era
bagnata di sudore freddo, battevo i denti, i miei arti avevano le convulsioni e,
alla pallida luce gialla della luna, che si faceva strada attraverso le persiane,
vidi lo sciagurato, il miserabile mostro che avevo creato. Teneva sollevate le
cortine del letto e gli occhi, se così si possono chiamare, fissi su di me. Aprì
le ganasce e sbiascicò suoni inarticolati, con un ghigno che gli aggrinziva le
gote. Forse parlò, ma non lo udii; una mano era tesa in avanti, come per
trattenermi, ma io sfuggii alla sua presa e corsi di sotto. Mi rifugiai nel cortile
della casa in cui abitavo, dove rimasi per il resto della notte, camminando su
e giù per la grande agitazione, con le orecchie tese a cogliere ogni rumore,
temendo che annunciasse l’arrivo del cadavere demoniaco a cui avevo così
sciaguratamente dato vita.
Oh, nessun essere umano potrebbe sostenere l’orrore del suo aspetto! Una
mummia rianimata non sarebbe altrettanto ripugnante. Il mio sguardo era
stato a lungo posato su di lui mentre lo completavo, e già era brutto. Ma
quando i muscoli e le articolazioni furono resi capaci di muoversi, divenne
una cosa che neanche Dante avrebbe potuto concepire.
Passai una notte d’inferno. A volte il mio battito cardiaco era così forte e
veloce che ne sentivo le pulsazioni in ogni arteria; altre, quasi crollavo a terra
per la stanchezza e l’estrema debolezza. Mista all’orrore, sentivo l’amarezza
della delusione: proprio quei sogni di cui mi ero nutrito così a lungo, e in cui
mi ero piacevolmente cullato, erano adesso un incubo per me; e quel
cambiamento era stato così rapido, la disfatta così completa!
Finalmente albeggiò e quell’umido e triste mattino mostrò ai miei occhi
insonni e doloranti la chiesa di Ingolstadt, il suo bianco campanile e
l’orologio che segnava le sei. Il custode aprì il portone del cortile, che era
stato il mio asilo notturno, e io mi lanciai nelle strade, percorrendole a passi
veloci, come per sfuggire a quell’individuo che temevo di trovarmi davanti a
ogni angolo. Non osavo tornare indietro, al mio alloggio; sentivo l’urgenza
impellente di andare sempre avanti, zuppo com’ero per la pioggia che si
rovesciava da un cielo nero e inaccogliente.
Continuai a camminare così per un po’, nel tentativo di alleviare, col
movimento fisico, il peso che mi schiacciava l’anima. Percorrevo le strade
senza sapere bene dove mi trovassi, o cosa stessi facendo. Il mio cuore
batteva di una paura febbrile e procedevo avanzando veloce, con passi
irregolari, non osando guardarmi intorno:
Come colui che su una strada deserta
cammina nel timore e nel terrore,
e dopo essersi voltato, riprende ad andare
senza voltarsi più perché sa bene
che un demone terribile lo segue1.
Continuando così, dopo un bel po’ mi ritrovai di fronte alla locanda dove si
fermavano di solito le varie diligenze e le carrozze. Qui mi arrestai, senza
sapere perché, e restai qualche minuto a fissare una vettura che veniva verso
di me dall’altra estremità della strada. Quando si fece più vicina, mi resi
conto che era la diligenza svizzera; si fermò proprio davanti a me e quando si
aprì lo sportello riconobbi Henry Clerval che, vedendomi, saltò fuori
all’istante. «Mio caro Frankenstein» esclamò, «come sono contento di
vederti! Che caso fortunato che tu sia qui, proprio al momento del mio
arrivo!»
Nulla potrebbe equivalere alla mia gioia nel vedere Clerval; la sua
presenza riportò nei miei pensieri mio padre, Elizabeth e tutte quelle scene
casalinghe così care al ricordo. Gli afferrai la mano e in un momento
dimenticai l’orrore che provavo e la mia disgrazia; sentii, improvvisamente, e
per la prima volta da molti mesi a quella parte, una gioia calma e serena.
Diedi dunque il benvenuto al mio amico, nel modo più cordiale, e ci
incamminammo verso la mia università. Per un po’ Clerval continuò a parlare
dei nostri comuni amici e di quant’era fortunato che gli fosse stato permesso
di venire a Ingolstadt. «Non farai fatica a immaginare» disse «quanto è stato
difficile persuadere mio padre che non era assolutamente indispensabile per
un mercante non capire niente altro che questioni di contabilità; sono
convinto, comunque, di averlo lasciato incredulo fino alla fine, perché la sua
costante risposta alle mie infaticabili suppliche era sempre la stessa del
rettore olandese nel Vicario di Wakefield: “Guadagno diecimila fiorini l’anno
senza sapere il greco, mangio a sazietà senza sapere il greco”. Ma il suo
affetto per me alla lunga ha prevalso sulla sua avversione allo studio e mi ha
dato il permesso di intraprendere un viaggio esplorativo nella terra del
sapere».
«Vederti mi dà la gioia più grande! Ma dimmi: come hai lasciato mio
padre, i miei fratelli ed Elizabeth?»
«Molto bene e molto felici. Solo un po’ a disagio perché ricevono così
raramente tue notizie. E a proposito, per quanto riguarda loro ho intenzione di
farti io stesso una ramanzina. Ma... mio caro Frankenstein» continuò,
fermandosi un momento a osservarmi bene in volto, «non mi ero ancora reso
conto della tua brutta cera, sei così magro e pallido; sembra che tu abbia
vegliato per notti e notti».
«Hai indovinato; di recente sono stato così preso da un’unica occupazione
senza concedermi il giusto riposo, come vedi. Ma spero, sinceramente lo
spero, che tutte queste occupazioni siano giunte al termine, e di essere
finalmente libero».
Tremavo in modo eccessivo; non potevo sopportare di pensare, e
tantomeno di alludere, agli avvenimenti della notte passata. Camminai a
passo svelto e presto arrivammo all’università. A quel punto riflettei, e il
pensiero mi diede i brividi, che la creatura che avevo lasciato nel mio
appartamento potesse aggirarsi ancora lì. E se temevo di vedere quel mostro,
ancora di più temevo che lo vedesse Henry. Lo pregai dunque di restare
qualche minuto in fondo alle scale e mi precipitai di sopra, verso la mia
stanza. Avevo già la mano sulla maniglia della porta quando tornai in me. Mi
trattenni un momento e venni sopraffatto da un brivido gelato. Poi spalancai
la porta, con impeto, come fanno i bambini quando si aspettano di trovare
uno spettro dall’altra parte ad attenderli. Ma non apparve nulla. Mi introdussi
nella stanza, timoroso. L’appartamento era vuoto, e anche nella mia camera
da letto non v’era più traccia del suo ripugnante inquilino. Stentavo a credere
che mi fosse capitata una simile fortuna, ma una volta certo che il mio
nemico era effettivamente sparito, battei le mani per la gioia e corsi giù da
Clerval.
Salimmo su, nella mia stanza, e il maggiordomo di lì a poco ci servì la
colazione. Io però non riuscivo a contenermi. Non ero solo in preda alla
gioia; sentivo sulla pelle un formicolio che le dava un eccesso di sensibilità, e
il cuore mi batteva svelto. Non riuscivo a fermarmi un istante nello stesso
posto; saltavo da una sedia all’altra, battevo le mani e ridevo forte. All’inizio
Clerval attribuì la mia insolita esuberanza alla felicità per il suo arrivo, ma
quando ebbe modo di osservarmi più attentamente scorse un che di folle nel
mio sguardo di cui non sapeva capacitarsi; e la mia risata fragorosa,
incontrollata, agghiacciante lo sconcertava.
«Mio caro Victor» gridò, «in nome di Dio, dimmi, cosa c’è? Non ridere a
quel modo. Tu stai molto male! Da che dipende tutto questo?»
«Non chiedermelo!» gridai, coprendomi gli occhi con le mani perché mi
parve di vedere lo spaventoso spettro vagare per la stanza. «Potrà dirtelo lui.
Oh, salvami! Salvami!» gridavo, mentre mi dibattevo furiosamente
immaginando che il mostro mi avesse afferrato. E caddi a terra svenuto.
Povero Clerval! Che cosa avrà provato? La gioia di quell’incontro tanto
atteso s’era, in modo così strano, mutata in amarezza. Del suo dolore, però,
non fui testimone; avevo perso i sensi e mi rianimai solo dopo molto, molto
tempo.
Fu quello l’inizio di una febbre nervosa che mi tenne recluso per diversi
mesi, durante i quali Henry fu il mio unico badante. Appresi in seguito che, in
considerazione dell’età avanzata di mio padre e dell’inopportunità di fargli
affrontare un viaggio così lungo, e di quanto Elizabeth si sarebbe addolorata
per la mia malattia, gli risparmiò questo dolore celandogli l’entità del mio
disturbo. Sapeva che non avrei potuto ricevere cure più affettuose e attente
delle sue e, saldo nella speranza che nutriva per la mia guarigione, non dubitò
che quel gesto, lungi dal recare danno, sarebbe stato quello più premuroso nei
loro confronti.
Ma ero davvero molto malato, e di sicuro niente altro che le illimitate e
infaticabili attenzioni del mio amico avrebbe potuto riportarmi alla vita.
Avevo sempre davanti agli occhi le fattezze del mostro che avevo portato
all’esistenza e deliravo su di lui continuamente. Non v’è dubbio che le mie
parole sorpresero Henry, e inizialmente lui le considerò vaneggiamenti della
mia immaginazione sconvolta. Ma l’insistenza con cui tornavo sempre sopra
lo stesso argomento lo persuase che il mio disturbo dovesse la sua origine a
qualche evento insolito e terribile.
Per gradi molto lenti, e con frequenti ricadute che allarmavano e
addoloravano il mio amico, mi ristabilii. Ricordo la prima volta in cui riuscii
a osservare gli oggetti intorno a me con un qualche piacere, e mi accorsi che
le foglie morte erano scomparse e che sugli alberi che davano ombra alla mia
finestra spuntavano nuovi germogli. Era una divina primavera e la stagione
contribuì notevolmente alla mia convalescenza. Sentii rinascere nel petto
sentimenti di gioia e affetto, la mia oscura tristezza svanì e in poco tempo
divenni altrettanto gioviale di quanto lo ero prima di venire colpito da quella
passione fatale.
«Carissimo Clerval» esclamai, «quanto mi sei prezioso, quanto affetto mi
dai! Hai consumato tutto questo inverno al mio capezzale, al chiuso nella mia
stanza, invece di impiegarlo nello studio, come ti eri ripromesso. Come potrò
mai ripagarti di questo? Provo il più grande rimorso per la delusione di cui
sono stato la causa. Ma so che mi perdonerai».
«Sarò pienamente ripagato se, invece di agitarti, ti rimetterai più alla
svelta che puoi. E dal momento che mi sembri ben disposto, vorrei parlarti di
una cosa, posso?»
Tremai. Una cosa! E che poteva essere? Forse alludeva a quella cosa a cui
non osavo neanche pensare?
«Calmati» disse Clerval, che mi vide cambiare colore. «Non ne farò
parola, se ti agita così. Il punto è che tuo padre e tua cugina sarebbero tanto
felici di ricevere una lettera scritta di tuo pugno. Non sanno molto di quanto
sei stato male, e sono inquieti per il tuo lungo silenzio».
«Tutto qui? Mio caro Henry! Come potevi pensare che il mio primo
pensiero non sarebbe volato a quei cari, carissimi affetti che amo e che così
tanto meritano il mio amore».
«Se questo è adesso il tuo stato d’animo, amico mio, sarai forse lieto di
vedere una lettera che ti aspetta qui da qualche giorno. Credo sia da parte di
tua cugina».
«A V. Frankenstein
Elizabeth Lavenza
Ginevra, 18 marzo 17...»
«Cara, cara Elizabeth!» esclamai, dopo aver letto la lettera. «Le scriverò
immediatamente, per sollevare tutti loro dall’ansia che devono provare».
Scrissi, e lo sforzo mi affaticò alquanto. La mia convalescenza, tuttavia, era
cominciata e procedeva con regolarità. Nel giro di quindici giorni fui in grado
di uscire dalla mia camera.
Una volta ristabilitomi, tra i miei primi doveri v’era quello di presentare
Clerval ai vari professori dell’università. Nel farlo, mi sottoposi a un
trattamento d’urto che non fece bene alle ferite sopportate dal mio animo. Fin
da quella notte fatale che segnò la fine delle mie fatiche e l’inizio delle mie
disgrazie, avevo sviluppato una violenta antipatia perfino nei confronti del
termine filosofia naturale. Una volta guarito, poi, la sola vista di uno
strumento chimico bastava a rinnovare l’agonia del mio sistema nervoso.
Henry se ne era accorto e aveva sottratto al mio sguardo tutta la mia
apparecchiatura. Mi aveva anche fatto cambiare appartamento, perché aveva
percepito il mio crescente disagio per la stanza che era stata il mio
laboratorio. Ma tutte queste cure da parte di Clerval non servirono a nulla
quando andai a trovare i miei professori. Monsieur Waldman mi inflisse la
tortura di elogiare, con gentilezza e calore, gli straordinari progressi da me
compiuti nelle scienze. Si rese conto presto che l’argomento non mi piaceva
ma, non conoscendone le cause, attribuì il mio disagio alla modestia; quindi
cambiò argomento, passando dai miei progressi a quella scienza in sé, con
l’evidente desiderio di tirarmi fuori d’impaccio. Che potevo fare? Voleva
compiacermi, e mi tormentava. Per me era come se lui stesse disponendo
davanti a me, uno dopo l’altro, tutti quegli strumenti che a un certo punto
sarebbero serviti a condurmi a una morte lenta e crudele. Mi dimenavo sotto
le sue parole, sforzandomi di non mostrare quello che sentivo. Clerval, che
aveva uno sguardo e una sensibilità sempre pronti a discernere con chiarezza
le sensazioni provate dagli altri, lasciò cadere quell’argomento di
conversazione portando come scusa la sua totale ignoranza al riguardo, e la
conversazione prese una piega più generica. Ringraziai il mio amico dal
profondo del cuore, ma non dissi una parola. Vedevo bene che era sorpreso,
ma mai tentò di estorcere il mio segreto; io, per quanto lo amassi con un
misto di affetto e ammirazione che non aveva limiti, non potei mai
persuadermi di metterlo al corrente di quell’evento che così spesso riaffiorava
vivo nella mia memoria e che temevo mi avrebbe bruciato ancora di più se
condiviso nei dettagli con un altro.
Monsieur Krempe non fu altrettanto docile; e nelle mie attuali condizioni,
di una sensibilità quasi insostenibile, i suoi encomi bruschi e ruvidi mi
facevano soffrire molto più delle benevole congratulazioni di Monsieur
Waldman. «Dannato ragazzo!» diceva. «Che diamine, Monsieur Clerval, vi
assicuro che ci ha superati tutti. Sgrani pure gli occhi, sì, se vuole, ma è
proprio così. Un giovinastro che solo qualche anno fa prestava fede a
Cornelio Agrippa con la stessa fermezza che al Vangelo è diventato il
migliore dell’università, e se non lo tiriamo giù dal suo piedistallo, ci
perderemo la faccia. Ahi, ahi, proprio così» continuò, osservando la
sofferenza espressa dal mio volto. «Monsieur Frankenstein è modesto; qualità
eccellente in un giovane. I giovani dovrebbero diffidare di loro stessi, sapete,
Monsieur Clerval; io lo facevo da giovane, ma passa presto».
Monsieur Krempe a questo punto aveva cominciato a tessere un elogio di
se stesso, spostando la conversazione, per fortuna, su un argomento per me
meno gravoso.
Clerval non era un filosofo naturale. Aveva un’immaginazione troppo
vivida per le minuzie della scienza. Il suo campo di studio erano le lingue;
desiderava acquisirne i rudimenti per continuare a studiarle da solo una volta
tornato a Ginevra. Dopo essere giunto a padroneggiare perfettamente il greco
e il latino, ora la sua attenzione era attratta dal persiano, l’arabo e l’ebraico.
In quanto a me, l’ozio non mi era mai piaciuto e adesso, tanto più che
desideravo distrarmi dai miei pensieri, e odiavo i miei studi passati, provai
grande sollievo nel farmi compagno di corso del mio amico, trovando non
solo istruzione ma anche consolazione nelle opere degli orientali. La loro
malinconia è balsamica e la loro gioia eleva l’animo a un grado di cui non
avevo mai fatto esperienza studiando gli autori di alcun altro paese. Leggendo
i loro scritti, la vita sembra consistere di un sole caldo e un giardino di rose,
dei sorrisi e dell’aggrottar di ciglia di una bella nemica e della fiamma che
arde nel proprio cuore. Che differenza dalla poesia maschia ed eroica della
Grecia e di Roma.
L’estate passò in queste occupazioni e il mio ritorno a Ginevra venne
fissato per la fine dell’autunno. Dovendo però rimandarlo a causa di alcuni
contrattempi, arrivarono inverno e neve, le strade vennero dichiarate
invalicabili e il mio viaggio fu posticipato alla primavera successiva. Per
questo rinvio provai molta amarezza, perché morivo dalla voglia di rivedere
la mia città natale e miei cari tanto amati. Il mio ritorno era stato rimandato
così a lungo per la riluttanza ad abbandonare Clerval in un luogo straniero
prima che avesse fatto amicizia con qualcuno dei suoi abitanti. Tuttavia
l’inverno passò in allegria e, per quanto molto tarda, la primavera, quando
arrivò, fu di una bellezza che ci compensò della sua riluttanza.
Maggio era già cominciato e da un giorno all’altro aspettavo la lettera che
avrebbe fissato la data della mia partenza, quando Henry propose di fare un
giro a piedi per i dintorni di Ingolstadt, affinché io potessi dare un personale
addio al paese in cui avevo abitato così a lungo. Aderii con piacere a questa
proposta: avevo voglia di fare esercizio fisico e Clerval era sempre stato il
mio compagno preferito nelle escursioni di questo tipo che facevamo nel
paesaggio del mio paese natio.
Passammo due settimane a fare queste camminate; la mia salute e il mio
spirito, che da tempo si erano ristabiliti, ricevettero nuove forze dalla salubre
aria che respiravo, dalle occasioni che ci offriva il nostro procedere nella
natura e dalle conversazioni con il mio amico. Fino ad allora lo studio mi
aveva precluso la relazione con i miei simili, rendendomi un essere asociale;
Clerval risvegliò nel mio cuore i sentimenti più belli, insegnandomi ancora
una volta ad amare gli aspetti della natura e i volti allegri dei bambini. Che
amico eccellente! Con quanta sincerità mi amavi e ti impegnavi a elevare il
mio spirito, fino a portarlo a un livello pari al tuo. Io mi ero inaridito nella
morsa di una ricerca egoista, finché la tua gentilezza e il tuo affetto non
riscaldarono i miei sensi, riattivandoli, e tornai a essere quella stessa creatura
felice che pochi anni prima, piena d’amore per tutti e da tutti riamata, non
aveva dolori o preoccupazioni. Quando ero felice, la natura inanimata aveva
il potere di offrirmi le sensazioni più deliziose. Un cielo sereno e dei campi
verdeggianti mi colmavano di estasi. E quella stagione, davvero, era divina; i
fiori primaverili sbocciavano fra le siepi mentre quelli estivi erano già in
boccio; non ero turbato dai pensieri che nell’anno trascorso mi avevano
oppresso con un peso invincibile, nonostante tutti i miei tentativi di scacciarli.
Henry si rallegrava della mia letizia e partecipava del mio sentire con
sincerità: si prodigava nello svagarmi, esprimendo le sensazioni che gli
empivano l’anima. Le risorse della sua mente, in quella occasione, furono
sbalorditive; la sua conversazione era ricca d’immaginazione, e molto spesso,
a imitazione degli scrittori persiani o arabi, si inventava meravigliosi racconti
pieni di fantasia e passione. Altre volte recitava le mie poesie preferite o mi
trascinava in discussioni che sosteneva con grande ingegno.
Tornammo ai nostri alloggi universitari una domenica pomeriggio; i
contadini danzavano, e tutti quelli che incontravamo avevano un’aria felice e
contenta. Io stesso ero di ottimo umore e saltellavo di gioia e allegria
incontenibili.
Capitolo sesto
«A V. Frankenstein
Le ore passarono tristi fino alle undici, quando doveva iniziare il processo.
Mio padre e il resto della famiglia erano obbligati a presenziare come
testimoni, dunque li accompagnai in tribunale. Per tutto il corso di quella
penosa parodia di un processo di giustizia, patii una vera tortura. Si decideva
se il risultato della mia curiosità e della mia illecita invenzione fosse stato la
causa della morte di due miei simili: un bimbo sorridente, pieno di gioia e
innocenza, e una giovane donna uccisa in modo ancora più tremendo, con
tutte le aggravanti di infamia che avrebbero reso quel delitto memorabile per
il suo orrore. Anche Justine era una ragazza meritevole, dotata di qualità che
promettevano di darle una vita felice; ora tutto ciò stava per essere sepolto in
una tomba d’infamia, e io ne ero la causa! Avrei preferito mille volte
confessare di essere il colpevole del crimine ascritto a Justine, ma ero altrove
quando era stato commesso e una simile dichiarazione sarebbe stata presa
come il delirio di un pazzo, senza discolpare colei che soffriva per causa mia.
Justine aveva un’aria calma. Portava il lutto e il suo volto, sempre
attraente, era reso squisitamente bello dalla solennità dei suoi sentimenti.
Sembrava fare pieno affidamento sulla sua innocenza e senza tremore
sosteneva quei mille sguardi che la mettevano all’indice, poiché tutta la
benevolenza che la sua bellezza avrebbe potuto altrimenti provocare era stata
soppiantata, nelle menti del pubblico presente, dalle immagini prodotte al
pensiero dell’atrocità che si supponeva avesse commesso. Era tranquilla, ma
era evidente che se lo imponeva; poiché la sua agitazione era
precedentemente stata considerata una prova della sua colpevolezza, si sforzò
di mostrarsi coraggiosa. Quando entrò nell’aula cercò subito con gli occhi
intorno a sé e rapidamente individuò dove eravamo seduti. Una lacrima
sembrò offuscare i suoi occhi quando ci vide, ma si riprese subito e uno
sguardo di doloroso affetto sembrò attestare la sua completa innocenza.
L’udienza ebbe inizio; il magistrato formulò l’accusa e poi vennero
ascoltati diversi testimoni. Delle curiose circostanze si mettevano contro di
lei, tali da far vacillare chiunque non avesse, come me, l’inconfutabile prova
della sua innocenza. Aveva passato fuori tutta la notte in cui era stato
commesso l’omicidio e verso il mattino una donna del mercato l’aveva scorta
in un luogo non distante da quello in cui venne in seguito trovato il corpo del
ragazzo ucciso. La donna le aveva chiesto cosa ci facesse lì e lei, con un’aria
molto strana, aveva risposto in modo confuso e incomprensibile. Era tornata a
casa intorno alle otto e alla richiesta di dove fosse stata tutta la notte, aveva
risposto di essere andata a cercare il bambino e ansiosamente aveva chiesto se
si fosse saputo qualcosa di lui. Quando le era stato mostrato il corpo aveva
avuto una violenta crisi isterica ed era poi rimasta a letto per diversi giorni. A
quel punto venne mostrata in aula l’immagine che la domestica aveva trovato
nella sua tasca; quando Elizabeth, con voce tremula, dichiarò che si trattava
della stessa che aveva messo al collo del bambino un’ora prima che lui
sparisse, l’aula venne percorsa da un mormorio di orrore e indignazione.
Justine venne chiamata a difendersi. Il suo volto aveva cambiato
espressione nel corso del processo. Ora trasmetteva in modo vivido sorpresa,
orrore e angoscia. A tratti si sforzava di trattenere le lacrime, ma quando le
venne chiesto di perorare la sua causa, raccolse le forze e parlò con voce
sempre udibile, anche se tremula.
«Dio sa» disse «quanto io sia del tutto innocente. Ma non pretendo che sia
la mia dichiarazione a scagionarmi. Affido la dimostrazione della mia
innocenza a una pura e semplice spiegazione dei fatti che sono stati addotti
contro di me, e spero che grazie alla condotta che ho sempre tenuto i giudici
saranno propensi a interpretare favorevolmente quelle circostanze che
potessero apparire dubbie o sospette».
Quindi raccontò che, con il permesso di Elizabeth, aveva trascorso la sera
della notte in cui era stato commesso il delitto a casa di una zia a Chêne, un
villaggio situato a circa una lega da Ginevra. Al suo ritorno, intorno alle
nove, aveva incontrato un uomo che le aveva chiesto se avesse qualche
notizia del bambino smarrito. Si era allarmata al riguardo e aveva trascorso
diverse ore a cercarlo, e quando le porte di Ginevra erano ormai chiuse era
stata costretta a passare buona parte della notte nel fienile di un casolare, non
volendo svegliare i suoi abitanti, che la conoscevano bene. Non riuscendo a
trovare pace né tantomeno a dormire, lasciò il suo rifugio molto presto per
cimentarsi di nuovo nel tentativo di trovare mio fratello. Se era giunta in
prossimità del luogo dove il suo corpo giaceva, questo era avvenuto senza
che lei se ne rendesse conto. Non v’era da sorprendersi che fosse sconvolta
quando la donna del mercato l’aveva interrogata, dato che aveva trascorso
una notte insonne e ancora incerto era il destino del povero William. Per
quanto riguardava il ritratto, non era in grado di dare spiegazioni.
«So bene» continuò l’infelice vittima «quanto questa circostanza pesi
fatalmente contro di me, ma non è in mio potere chiarirla e, una volta
espressa la mia totale ignoranza, non mi resta nient’altro che ipotizzare la
probabilità che mi sia stato messo in tasca. Ma anche su questo sono
perplessa. Credo di non avere alcun nemico su questa terra, e sicuramente
nessuno può essere stato così malvagio da volermi rovinare senza ragione. Ce
l’ha messa l’assassino? Non sono a conoscenza di nessuna occasione che gli
sia stata offerta per farlo; ma anche se l’avessi, perché rubare il gioiello se
doveva sbarazzarsene così presto?
«Mi rimetto al senso di giustizia dei giudici, anche se non riesco a dare
luogo alla speranza. Mi permetto di chiedere che vengano ascoltate delle
testimonianze sul mio carattere, e se queste deposizioni non avranno un peso
maggiore della mia presunta colpa, dovrò essere condannata, anche se potrei
confidare nella salvezza data la mia innocenza».
Vennero interpellati diversi testimoni che la conoscevano da tanti anni e
che dicevano bene di lei, ma la paura e l’odio verso un crimine di cui la
supponevano colpevole, li rese timorosi e indisponibili a farsi avanti. Quando
Elizabeth vide che anche quest’ultima risorsa, vale a dire il suo eccellente
carattere e la sua condotta irreprensibile, stava per venire meno all’accusata,
chiese il permesso di rivolgersi alla corte, nonostante fosse estremamente
scossa.
«Io sono» disse «la cugina dell’infelice ragazzo ucciso, o piuttosto sua
sorella, dal momento che sono stata cresciuta ed educata dai suoi genitori da
molto prima che lui nascesse. Potrebbe essere dunque ritenuto inappropriato
che io mi faccia avanti in questa occasione. Ma poiché un mio simile è sul
punto di perire per la vigliaccheria dei suoi presunti amici, desidero che mi
sia permesso di parlare per dire ciò che so del suo carattere. Conosco molto
bene l’accusata. Ho vissuto nella stessa casa con lei una prima volta per
cinque anni e una seconda per quasi due. In tutto quel periodo mi è apparsa
come la più amabile e benevola delle creature umane. Ha assistito Madame
Frankenstein, mia zia, durante il corso della sua ultima malattia, con il più
grande affetto e la più grande premura; dopodiché si è occupata della propria
madre, per tutto il tempo di una penosa malattia, in un modo che ha destato
l’ammirazione di tutti coloro che la conoscevano. Quindi è tornata a vivere
nella casa di mio zio, dove era amata da tutta la famiglia. Era molto legata al
bambino che ora è morto, e si comportava con lui come la madre più
affettuosa. Per quanto mi riguarda, non esito ad affermare che, nonostante
tutte le prove portate contro di lei, credo e confido nella sua perfetta
innocenza. Non aveva motivo di compiere una simile azione; quel ciondolo
che costituisce il principale capo d’accusa, se lo avesse davvero desiderato,
glielo avrei regalato volentieri, talmente la stimo e la apprezzo».
Eccellente Elizabeth! Si udì un mormorio di approvazione, suscitato però
dalla generosità del suo intervento e non a favore della povera Justine, sulla
quale anzi l’indignazione pubblica si riversò con una violenza rinnovata
dall’accusa di estrema ingratitudine. Lei stessa pianse, mentre Elizabeth
parlava, ma non rispose. Per tutto il processo la mia agitazione e la mia
angoscia furono estreme. Ero convinto della sua innocenza; lo sapevo. Poteva
quello stesso demone che aveva ucciso mio fratello (e di questo non dubitai
un istante), nel suo gioco infernale, avere esposto un’innocente alla morte e
all’ignominia? Non riuscii a sostenere l’orrore della mia situazione e quando
capii che la voce del popolo e il contegno dei giudici avevano già condannato
la mia infelice vittima, corsi fuori dall’aula in preda al tormento. Le
sofferenze inflitte all’accusata non eguagliavano le mie; lei era sostenuta
dalla sua innocenza, io sentivo i denti del rimorso squarciarmi il petto e non
mollare la presa.
Passai una notte di assoluta afflizione. Al mattino mi recai in tribunale,
con le labbra e la gola secche. Non osavo porre la fatale domanda; ma mi
riconobbero e l’ufficiale intuì il motivo della mia visita. Le biglie erano state
gettate: erano tutte nere e Justine era stata condannata.
Non posso nemmeno tentare di descrivere quello che sentii. Avevo già
sperimentato in precedenza sensazioni di orrore; e ho tentato di trovargli
adeguata espressione. Ma le parole non possono dare un’idea della
disperazione che il mio cuore patì in quel momento. La persona a cui mi ero
rivolto aggiunse che Justine aveva già confessato la sua colpa. «In un caso
così lampante» osservò, «di una simile dichiarazione non c’era quasi bisogno,
ma ne sono soddisfatto. E d’altra parte è vero che a nessuno dei nostri giudici
piace condannare un criminale solo in base a prove circostanziali, pur così
determinanti».
Quando tornai a casa, Elizabeth mi domandò il responso con apprensione.
«Cugina mia» risposi, «la decisione è quella che potevi aspettarti.
Qualsiasi giudice preferirebbe far soffrire dieci innocenti piuttosto che un
colpevole la faccia franca. E oltretutto, lei ha confessato».
Questo fu un terribile colpo per Elizabeth, che aveva fermamente contato
sull’innocenza di Justine. «Ahimè» disse, «come potrò mai più credere nella
benevolenza umana? Come ha potuto Justine, che amavo e consideravo come
una sorella, fare mostra di quei sorrisi di innocenza al solo fine di tradire? I
suoi occhi mansueti la mostravano incapace di qualunque asprezza o cattiva
intenzione, e invece ha commesso un omicidio».
Di lì a poco ci fu riferito che la povera vittima aveva espresso il desiderio
di vedere mia cugina. Mio padre non voleva che lei andasse, ma disse che
lasciava la decisione al suo giudizio e ai suoi sentimenti. «Sì» disse
Elizabeth, «andrò, anche se è colpevole; e tu, Victor, mi accompagnerai. Non
posso andare da sola». L’idea di quella visita era per me una tortura, ma non
potevo rifiutare.
Entrammo nell’oscura cella della prigione e trovammo Justine seduta su
un pagliericcio proprio in fondo, con le catene ai polsi e la testa posata sulle
ginocchia. Nel vederci entrare si alzò e quando restammo soli con lei si gettò
ai piedi di Elizabeth, piangendo amaramente. Anche mia cugina si mise a
piangere.
«Oh, Justine!» disse. «Perché mi hai derubata della mia ultima
consolazione? Ero certa della tua innocenza; e per quanto fossi già molto
triste, non ero tanto infelice quanto lo sono adesso».
«Credete anche voi che io sia così tanto, così tanto malvagia? Vi unite al
coro dei miei nemici nell’annientarmi?» La sua voce era soffocata dai
singhiozzi.
«Alzati, mia povera ragazza» disse Elizabeth, «perché ti inginocchi, se sei
innocente? Io non sono uno dei tuoi nemici. Ti ho creduta senza colpa,
nonostante tutte le prove, finché non ho saputo che tu stessa ti eri dichiarata
colpevole. Ora dici che quel che ci è stato detto è falso; e stai certa, cara
Justine, che nulla può far vacillare la mia fiducia in te anche per un solo
istante, se non la tua confessione».
«Ho confessato; ma ho confessato una bugia. Ho confessato per ottenere
l’assoluzione. E invece adesso quella menzogna pesa sul mio cuore più di
tutti gli altri miei peccati. Il Dio del Cielo mi perdoni! Da quando sono stata
condannata, il mio confessore mi ha dato l’assedio: mi ha spaventata e
minacciata, al punto che ho iniziato io stessa a credere di essere il mostro che
lui diceva io fossi. Mi ha prospettato la scomunica e le fiamme dell’inferno
nei miei ultimi momenti di vita, se continuavo nella mia ostinazione. Mia
cara signora, non avevo nessuno a sostenermi; mi guardavano tutti come una
disgraziata destinata all’ignominia e alla perdizione. Cosa potevo fare? In
un’ora funesta ho sottoscritto una menzogna, e solo adesso sono davvero
miserabile».
Fece una pausa, piangendo, poi riprese: «Ho pensato con orrore, mia
dolce signora, che voi poteste credere che la vostra Justine, che aveva
ricevuto tanto onore dalla vostra zia benedetta, e che voi amavate, fosse una
creatura capace di un crimine che solo il diavolo in persona poteva
perpetrare. Caro William! Carissimo, benedetto bambino! Ti rivedrò presto in
paradiso, dove saremo tutti lieti; questo mi consola, mentre mi accingo a
patire la morte e l’ignominia».
«Oh, Justine! Perdomani se anche solo per un momento ho perso la mia
fiducia in te. Perché hai confessato? Ma non ti affliggere, mia cara ragazza. Io
proclamerò ovunque la tua innocenza e imporrò che vi si creda. Eppure, devi
morire. Tu, la mia compagna di giochi, la mia amica, la mia più che sorella.
Non potrò mai sopravvivere a una disgrazia così orribile».
«Cara, dolce Elizabeth, non piangete. Dovreste invitarmi a innalzare i
miei pensieri verso una vita migliore e ad affrancarmi dalle misere
occupazioni di questo mondo di ingiustizia e dissidio. Non siate voi, egregia
amica, a portarmi alla disperazione».
«Cercherò di darti conforto, anche se temo che questo sia un male troppo
profondo e intenso per ammettere consolazione, perché non v’è speranza. E
tuttavia che il Cielo ti benedica, mia carissima Justine, con la rassegnazione e
una fiducia che si innalzi al di là di questo mondo terreno. Oh! Quanto
detesto le sue pompe e le sue farse! Una creatura viene assassinata e subito
un’altra viene privata della vita per mezzo di una lenta tortura; dopodiché i
carnefici, con le mani ancora fumanti di sangue innocente, sono convinti di
avere compiuto un grande gesto. E lo chiamano giusto castigo. Che odiosa
espressione! Quando viene pronunciata, so che verranno inflitte punizioni più
grandi e più orribili di quelle che abbia mai escogitato il più funesto tiranno
per saziare la sua estrema sete di vendetta. Ma questa non è, mia cara Justine,
una consolazione per te, a meno che in effetti tu non possa gloriarti di
sfuggire da un così deplorevole covo. Ahimè! Come vorrei trovare la pace
accanto a mia zia e al mio caro William, libera da un mondo che mi è odioso
e dalle facce di uomini che aborro».
Justine accennò un languido sorriso. «Questa è disperazione, mia cara
signora, non rassegnazione. Non apprenderò la lezione che volete insegnarmi.
Parlate di qualcos’altro, qualcosa che rechi pace, non che accresca il dolore».
Nel corso della conversazione io mi ero rifugiato in un angolo della cella
per nascondere l’orribile angoscia che mi possedeva. Disperazione! Chi
osava parlarne? La povera vittima, che al mattino avrebbe valicato il triste
confine tra la vita e la morte, non provava ciò che io provavo, un’agonia così
profonda e amara. Digrignavo i denti in una morsa serrata, emettendo un
gemito che proveniva dal più profondo della mia anima. Justine ebbe un
soprassalto. Quando si accorse di chi si trattava, si avvicinò e mi disse: «Caro
signore, siete molto gentile a farmi visita; spero che voi non crediate che io
sia colpevole».
Non potevo rispondere. «No, Justine» disse Elizabeth, «lui è ancora più
convinto della tua innocenza di quanto lo fossi io; persino quando gli è stato
detto che avevi confessato, non l’ha creduto».
«Lo ringrazio di cuore. In questi ultimi momenti provo la più sincera
gratitudine per chi ha buoni pensieri per me. Com’è dolce l’affetto altrui per
una sventurata come me! Mi allevia più della metà del peso della mia
disgrazia e mi sembra di poter morire in pace ora che voi, cara signora, e
vostro cugino, riconoscete la mia innocenza».
Così quella povera vittima cercava di confortare gli altri e se stessa. E in
effetti conquistò la rassegnazione che desiderava. Io, invece, il vero
assassino, sentivo agitarsi nel petto quel tarlo vivo e immarcescibile che non
concedeva nessuna speranza o consolazione. Anche Elizabeth piangeva ed
era infelice; ma anche la sua era la tristezza di un’innocente che, come
quando una nuvola passa davanti alla splendida luna, per un momento la
nasconde ma non può offuscarne lo splendore. L’angoscia e la disperazione
erano penetrate al centro del mio cuore; mi portavo dentro un inferno che
niente avrebbe potuto estinguere. Restammo diverse ore con Justine; e fu
molto penoso per Elizabeth strapparsi da lei. «Vorrei» esclamò «poter morire
con te; non riuscirò più a vivere in questo mondo di dolore!»
Justine assunse un’aria lieta, mentre si sforzava di trattenere lacrime
amare. Abbracciò Elizabeth e disse, con la voce rotta da emozioni solo a metà
soffocate: «Addio, dolce signora, carissima Elizabeth, mia amata e unica
amica; che il cielo misericordioso vi benedica e vi preservi; possa questa
essere l’ultima digrazia che mai abbiate a patire. Vivete, siate felice e rendete
tali gli altri».
Mentre tornavamo a casa, Elizabeth disse: «Non puoi sapere, caro Victor,
quanto sollievo mi dia credere nuovamente all’innocenza di questa sfortunata
ragazza. Non avrei più trovato pace se mi fossi ingannata nel darle fiducia.
Quel momento in cui l’ho creduta colpevole, ho provato un’angoscia che non
avrei potuto sostenere a lungo. Ora il mio cuore è più leggero.
Quell’innocente soffre, ma colei che ho ritenuto amabile e buona non ha
tradito la fiducia che avevo posto in lei, e questo mi consola».
Amabile cugina! Questi erano i tuoi pensieri, pacati e gentili quanto i tuoi
cari occhi e la tua voce. Ma io... io ero un miserabile, e nessuno ha mai
saputo del tormento che provai allora.
Non v’è nulla di più doloroso per l’animo umano di quella calma mortale che
segue alla grande agitazione di sensazioni e sentimenti provocata da una
rapida successione di eventi, quel misto di impotenza e rassegnazione che si
produce quando al cuore mancano sia la speranza che il timore. Justine era
morta. Lei riposava, e io vivevo. Il sangue circolava libero nelle mie vene, ma
sul mio cuore pesavano disperazione e rimorso, un peso che nulla poteva
alleviare. Il sonno rifuggiva dai miei occhi e girovagavo come uno spirito
maligno, perché avevo commesso malefici così orribili da non potersi dire e
ancora molto, molto (ne ero convinto) era a venire. Eppure il mio cuore
traboccava di bontà e amore per la virtù. Avevo iniziato la mia vita con
intenzioni benevole, assetato di un’occasione per metterle in pratica,
rendendomi utile ai miei simili. Adesso era andato tutto in fumo: al posto di
una coscienza serena, che permetta di guardare al passato soddisfatti di sé, e
da lì trarre promesse di nuove speranze, ero in pugno al rimorso e al senso di
colpa e venivo scaraventato in un inferno di intense torture che nessuna
lingua potrebbe descrivere.
Questo stato d’animo mi divorava la salute, che si era totalmente
ristabilita dalla prima violenta emozione che aveva sostenuto. Evitavo lo
sguardo degli uomini; qualunque espressione di gioia o di soddisfazione era
per me una tortura; la mia unica consolazione era la solitudine, una solitudine
profonda, buia, simile alla morte.
Mio padre notò, soffrendone, le percettibili alterazioni del mio carattere e
delle mie abitudini, e si sforzò di farmi ragionare sull’insensatezza di
abbandonarsi a un dolore così smodato. «Non credi, Victor» mi disse, «che io
soffra quanto te? Nessuno potrebbe amare un bambino quanto io amavo tuo
fratello» e mentre parlava aveva le lacrime agli occhi, «ma non è forse
compito di chi sopravvive astenersi dall’accrescere l’altrui infelicità facendo
mostra di un dolore smodato? È un dovere che hai anche verso te stesso: un
eccesso di cordoglio ostacola ogni miglioramento, ogni possibile gioia,
impedisce persino lo svolgimento di quelle mansioni quotidiane senza le
quali nessun essere umano è utile alla società».
Questo era un buon consiglio, ma del tutto inadatto al mio caso; sarei
stato il primo a celare il dolore e consolare i miei cari, ma ogni mio
sentimento era avvelenato dal rimorso. Ora potevo soltanto rispondere a mio
padre con uno sguardo disperato e cercare di sottrarmi al suo.
All’incirca in quel periodo ci ritirammo nella nostra casa di Belrive. Il
cambiamento mi fu particolarmente gradito. La puntuale chiusura delle porte
alle dieci, e la conseguente impossibilità di rimanere sul lago oltre quell’ora,
aveva reso la nostra residenza entro le mura di Ginevra molto seccante per
me. Qui invece ero libero. Spesso, quando il resto della famiglia era andato a
dormire, prendevo la barca e trascorrevo molte ore sull’acqua. Talvolta, a
vele spiegate, mi facevo portare dal vento; altre volte, dopo aver remato fino
al centro del lago, lasciavo la barca alla deriva e davo libero corso ai miei
tristi pensieri. Ero tentato spesso, quando tutto intorno a me era pace, e io
l’unico elemento inquieto in una scena così bella e celestiale, a parte qualche
pipistrello, o delle rane di cui udivo il roco e intermittente gracidio solo
avvicinandomi alla riva, spesso, ripeto, ero tentato di gettarmi in quel lago
silenzioso, affinché le acque si richiudessero per sempre sopra di me e le mie
calamità. Mi tratteneva il pensiero di Elizabeth, eroica e sofferente, che
amavo teneramente e la cui esistenza era legata alla mia. Pensavo anche a
mio padre e al mio fratello sopravvissuto: avrei potuto disertare così vilmente
e lasciarli esposti e indifesi alla cattiveria del nemico che avevo scatenato in
mezzo a loro?
In quei momenti piangevo amare lacrime e desideravo che la pace
tornasse nel mio animo solo per poter offrire loro consolazione e felicità. Ma
questo non era possibile. Il rimorso uccideva ogni speranza. Ero l’autore di
mali irreversibili e vivevo nella quotidiana paura che il mostro da me creato
potesse perpetrare qualche nuova malvagità. Avevo l’oscura sensazione che
non fosse finita lì, e che avrebbe commesso ancora un crimine che con la sua
enormità avrebbe quasi cancellato il ricordo del precedente. V’era sempre
luogo per la paura fino a che al mondo restava qualcuno che fosse oggetto del
mio amore. La mia ripugnanza per questo nemico non si può concepire.
Quando pensavo a lui, digrignavo i denti, i miei occhi si infiammavano e
desideravo ardentemente far cessare quella vita che così sconsideratamente
avevo donato. Quando pensavo ai suoi crimini e alla sua cattiveria, il mio
odio e il mio desiderio di vendetta facevano saltare i limiti imposti dalla
moderazione. Sarei andato in pellegrinaggio fin sulla più alta cima delle
Ande, se da lassù avessi potuto scaraventarlo a valle. Volevo incontrarlo di
nuovo per sfogare sul suo capo tutta la mia infinita rabbia e vendicare le
morti di William e Justine.
La nostra casa era a lutto. La salute di mio padre era stata messa a dura
prova dagli ultimi eventi. Elizabeth era triste e abbattuta, non traeva più alcun
piacere dalle sue occupazioni quotidiane, perché ogni piacere le sembrava un
sacrilegio contro i morti e riteneva che il giusto tributo da offrire
all’innocenza stroncata e distrutta fossero dolore e lacrime perenni. Non era
più la creatura felice che nella prima giovinezza passeggiava con me sulle
rive del lago, parlando estatica dei nostri progetti per il futuro. Si era fatta
austera e i suoi discorsi vertevano spesso sulla incostanza della fortuna e
l’instabilità della vita umana.
«Quando rifletto, caro cugino» diceva «sulla miserabile morte di Justine
Moritz, il mondo e le sue opere non mi appaiono più come un tempo. Allora
per me quei racconti di malvagità e ingiustizia che leggevo nei libri o
ascoltavo da altre persone mi sembravano storie di altri tempi, o mali
immaginari. O quantomeno li sentivo distanti, più familiari alla ragione che
all’immaginazione; ora invece l’infelicità ci è entrata in casa, e gli uomini mi
appaiono dei mostri, ciascuno assetato del sangue dell’altro. Anche se so di
essere ingiusta. Tutti credevano colpevole quella povera ragazza; e se così
fosse stato, se lei fosse stata capace di commettere il crimine per cui ha
pagato, non v’è dubbio che sarebbe stata la più depravata delle creature
umane. Uccidere, per un piccolo gioiello, il figlio di un amico, nonché il
proprio benefattore, un ragazzo che lei stessa aveva allevato dalla nascita e
che sembrava amare come fosse suo! Io non darei il mio consenso alla morte
di nessun essere umano, ma certamente una creatura simile non la riterrei
degna di restare nella società degli uomini. Lei però era innocente. Lo so, lo
sento che era innocente; tu sei della stessa opinione e questo rafforza la mia.
Ahimè! Victor, quando il falso è così simile al vero, chi mai potrà contare su
una felicità stabile? Mi sembra di camminare sull’orlo di un precipizio verso
il quale si radunano migliaia di persone che vogliono gettarmi nell’abisso.
William e Justine vengono uccisi e l’assassino scappa; cammina libero per il
mondo, magari rispettato. E tuttavia, se avessi commesso quei crimini, non
vorrei essere al posto di quello scellerato. Preferirei venire condannata al
patibolo».
Il suo discorso provocò in me un’estrema angoscia. Ero io, non nei fatti
ma negli effetti, il vero assassino. Elizabeth si accorse del tormento sul mio
volto e prendendomi gentilmente la mano disse: «Carissimo cugino, devi
calmarti. Questi eventi hanno avuto su di me un effetto che solo Dio sa
quanto è profondo. Ma non sono tanto a pezzi quanto te. V’è sul tuo volto
un’espressione disperata, a volte vendicativa, che mi fa tremare. Resta calmo,
mio caro Victor; darei la mia vita per la tua pace. Saremo senz’altro felici: se
ce ne staremo tranquilli nel nostro paese natale, senza disperderci nel mondo,
cosa potrà disturbare la nostra quiete?»
Le lacrime che scendevano dai suoi occhi, mentre diceva queste parole,
tradivano il sollievo che lei voleva comunicare; ma sorrideva, anche, come
per scacciare il nemico che stava in agguato nel mio cuore. Mio padre, che
vedeva nella tristezza dipinta sul mio volto solo un’esagerazione del dolore
che naturalmente mi era dato sentire, pensò che una qualche distrazione
adatta ai miei gusti sarebbe stata il mezzo migliore per riportarmi alla mia
abituale serenità. Per questo si era trasferito in campagna e, spinto dalle stesse
motivazioni, ci propose ora di fare una gita nella valle di Chamonix. Io v’ero
già stato, ma Elizabeth ed Ernest mai; entrambi avevano espresso un grande
desiderio di vedere il paesaggio di quei luoghi, che gli era stato decritto come
meraviglioso e sublime. Ci mettemmo così in viaggio da Ginevra intorno alla
metà del mese di agosto, circa due mesi dopo la morte di Justine.
Il clima era particolarmente bello, e se il mio fosse stato un dolore che
poteva essere fugato da una qualche circostanza passeggera, questa gita
avrebbe senz’altro ottenuto l’effetto desiderato da mio padre. Per come
stavano le cose, provai un certo interesse nel paesaggio, che a tratti leniva il
mio dolore, ma non poteva estinguerlo. Il primo giorno viaggiammo in
carrozza. Al mattino avevamo visto in lontananza le montagne verso le quali
stavamo gradualmente avanzando. Ci accorgemmo che la valle che stavamo
risalendo, formata dal fiume Arve di cui seguivamo il corso, si richiudeva
gradualmente su di noi. E quando il sole fu tramontato, vedemmo montagne
immense e precipizi incombere su di noi da ogni lato e udimmo il rumore del
fiume che si infrangeva contro le rocce e il fragore delle cascate tutt’intorno.
Il giorno seguente continuammo il nostro viaggio a dorso di mulo e
mentre salivamo la valle assunse un aspetto ancora più magnifico e
stupefacente. I castelli in rovina si affacciavano sui precipizi di monti coperti
dai pini; l’impetuoso Arve e i casolari che facevano capolino qua e là tra gli
alberi formavano una scena di singolare bellezza, resa più intensa e sublime
dalle possenti Alpi, coi loro picchi e i loro dossi scintillanti che torreggiavano
su tutto, come se fossero di un altro mondo, abitato da un’altra razza.
Valicammo il ponte di Pelissier, da cui vedemmo spalancarsi la gola
formata dal fiume, e cominciammo a salire la montagna sovrastante. Poco
dopo entrammo nella valle di Chamonix, più conturbante e sublime di quella
del Servox, che avevamo appena attraversato, ma non altrettanto bella e
pittoresca. I monti alti e innevati sono i suoi immediati confini, ma non
vedemmo più castelli in rovina e campi fertili. Sul percorso si affacciavano
immensi ghiacciai; udimmo il tonante fragore di una valanga e notammo la
scia che sollevava al suo passaggio. Il Monte Bianco, il supremo e magnifico
Monte Bianco, si ergeva dalle aiguilles circostanti e la sua formidabile dome
dominava la valle.
Durante questo tratto di viaggio, ogni tanto mi affiancavo a Elizabeth e mi
adoperavo a intrattenerla indicandole le varie bellezze del paesaggio. Più
spesso trattenevo il mio mulo indietro, e mi abbandonavo all’angoscia delle
mie riflessioni. Altre volte spronavo la bestia a sorpassare i miei compagni
per dimenticare: loro, il mondo e, soprattutto, me stesso. Quando ero ormai
lontano, smontavo e mi lasciavo cadere sull’erba, accasciandomi per il dolore
e la disperazione. Arrivai a Chamonix alle otto di sera. Mio padre ed
Elizabeth erano molto stanchi; Ernest, che ci accompagnava, era tutto eccitato
e contento; l’unica cosa che smorzasse il suo piacere era il vento del sud che
prometteva pioggia per il giorno seguente.
Ci ritirammo presto nelle nostre camere, anche se non per dormire; o
perlomeno, io non dormii. Restai parecchie ore alla finestra a guardare lo
spettacolo dei deboli lampi sopra il Monte Bianco e ad ascoltare il rapido
fluire dell’Arve che scorreva sotto la mia finestra.
Capitolo secondo
Era quasi mezzogiorno quando giunsi in cima alla salita. Per un po’ restai
seduto sulla roccia che si affaccia sul mare di ghiaccio. Era coperto di nebbia,
come le montagne circostanti. Ma di lì a poco una brezza dissipò le nubi e io
scesi sul ghiacciaio. La superficie è molto irregolare, ora si alza come le onde
di un mare agitato, ora si abbassa ed è incisa da crepe che scendono profonde.
Il campo di ghiaccio ha un’ampiezza di circa una lega, ma impiegai quasi due
ore a traversarlo. La montagna all’altra sponda è una roccia nuda a
strapiombo. Dal lato in cui mi trovavo adesso, Montanvert era all’esatto
opposto, e a una lega di distanza. Al di sopra si ergeva, in tutta la sua
spaventosa maestà, il Monte Bianco. Mi fermai in un anfratto di roccia ad
ammirare questo paesaggio meraviglioso e stupendo. Il mare, o meglio
l’ampio fiume di ghiaccio, si dipanava tra le montagne del massiccio, le cui
aeree cime incombevano su tutti i suoi recessi. Le vette ghiacciate e
scintillanti riflettevano la luce del sole, al di sopra della coltre di nubi. Il mio
cuore, fino ad allora dolente, ora si gonfiò di qualcosa di simile alla gioia, ed
esclamai: «Spiriti erranti, se è vero che vagate, invece di riposare nei vostri
angusti letti, concedetemi questa tenue felicità, o altrimenti portatemi con voi,
vostro compagno, lontano dalle gioie della vita!»
Appena pronunciate queste parole, scorsi improvvisamente la figura di un
uomo, a qualche distanza, che avanzava verso di me con una velocità
sovrumana. Saltava sui crepacci del ghiacciaio sui quali io mi ero mosso con
tanta cautela; e più si avvicinava più la sua statura mi appariva abnorme
rispetto a quella di un uomo. Mi sentii male, mi si annebbiarono gli occhi e
stavo per svenire, ma mi ripresi subito grazie al vento freddo delle montagne.
Mentre quella forma si avvicinava, percepii (visione tremenda e aborrita!)
che si trattava dello scellerato che io avevo creato. Rabbrividii di rabbia e di
orrore, scegliendo di attendere il suo arrivo per ingaggiare poi con lui una
lotta mortale. Si avvicinava; il suo volto esprimeva un’angoscia pungente
mista a sdegno e cattiveria, mentre la sua bruttezza ultraterrena lo rendeva
quasi troppo orribile per occhi umani. Ma ci feci caso appena; la rabbia e
l’odio in un primo momento mi ammutolirono, e la facoltà di parola mi tornò
solo per ricoprirlo di espressioni di furiosa avversione e disprezzo.
«Demonio!» esclamai. «Come osi avvicinarti a me? Non temi che la
feroce vendetta del mio braccio si abbatta sopra il tuo miserabile capo?
Vattene, insetto schifoso! Oppure resta, che ti riduco in polvere! Oh, se solo
potessi, ponendo fine alla tua miserabile esistenza, riportare alla vita le
vittime che tu hai ucciso così diabolicamente!»
«Mi aspettavo questa accoglienza» disse il demone. «L’umanità odia gli
sciagurati. Quanto sarò odiato io, dunque, la più miserabile delle cose
viventi! Persino tu, che sei il mio creatore, detesti e sdegni me, la tua
creatura, alla quale sei unito da vincoli che potranno sciogliersi solo
eliminando uno di noi due. Ti riprometti di uccidermi. Come ti permetti di
giocare così con la vita? Adempi ai tuoi doveri verso di me e io adempirò ai
miei verso di te e il resto dell’umanità. Se accetterai le mie condizioni, vi
lascerò tutti in pace, gli altri uomini e te. Ma se rifiuti, saturerò le fauci della
morte finché il suo stomaco verrà saziato con il sangue dei tuoi amici
rimasti».
«Mostro aborrito! Sei un demone, nient’altro! Le torture dell’inferno sono
una vendetta troppo blanda per i tuoi crimini. Diavolo scellerato! Tu mi
rimproveri di averti creato. Fatti avanti, allora: spegnerò la scintilla che ti ho
così avventatamente donato».
La mia rabbia era sconfinata; mi lanciai contro di lui, con tutti i
sentimenti che possono armare un essere contro l’esistenza di un altro.
Mi schivò facilmente, e disse: «Stai calmo! Ti imploro di ascoltarmi,
prima di dare sfogo al tuo odio sul mio capo! Non ho sofferto abbastanza?
Perché cerchi di aumentare la mia miseria? La vita mi è cara, per quanto forse
non sia nient’altro che un accumulo di afflizioni, e la difenderò. Ricorda: mi
hai creato più forte di te. Di te sono più alto, le mie giunture sono più agili.
Ma non sarò tentato a mettermi contro di te. Sono la tua creatura, sarò perfino
mite e docile con il mio naturale signore e sovrano, se anche tu farai la tua
parte, e questo me lo devi. Oh, Frankenstein, non puoi essere equo con tutti e
calpestare solo me, con cui non solo devi, più che con gli altri, essere giusto
ma anche clemente e affezionato. Ricorda che sono la tua creatura; dovrei
essere il tuo Adamo e invece sono l’angelo caduto che, per nessuna sua colpa,
tu hai strappato dalla gioia. Vedo beatitudine dovunque, e solo io ne sono
irrevocabilmente escluso. Ero pacifico e buono; il dolore mi ha reso
diabolico. Rendimi felice, e io sarò di nuovo virtuoso».
«Vattene! Non voglio ascoltarti. Non ci può essere alcun patto fra noi;
siamo nemici. Vattene, oppure mettiamo alla prova la nostra forza in una lotta
nella quale uno di noi dovrà soccombere».
«Come posso commuoverti? Nessuna preghiera ti porterà a volgere uno
sguardo favorevole sulla tua creatura che implora bontà e compassione?
Credimi, Frankenstein, io ero buono, la mia anima ardeva d’amore e umanità,
ma non vedi quanto sono solo, miserabilmente solo? Tu stesso, il mio
creatore, mi ripudi; che speranza posso trovare nei tuoi simili, che non mi
devono nulla? Mi sdegnano, mi odiano. Il mio rifugio sono le montagne
deserte e i tristi ghiacciai. In questi luoghi ho vagato molti giorni; la mia
dimora sono le caverne di ghiaccio, che solamente io non temo e che l’uomo
non mi contende. Rendo grazie a questi cieli cupi che sono più gentili dei tuoi
simili con me. Se l’umana moltitudine sapesse della mia esistenza, farebbe
come te e si armerebbe per la mia distruzione. Non dovrei dunque odiare chi
mi aborre? Non scenderò a patti con i miei nemici. Sono miserabile e loro
dovranno spartire la mia sciagura. Eppure è in tuo potere ricompensarmi, e
liberarli da un male che solo tu puoi rendere così esteso da risucchiare nel
vortice della sua rabbia non soltanto la tua famiglia ma migliaia di altri.
Muoviti a compassione, non mi disdegnare. Ascolta la mia storia; e dopo
averla ascoltata, giudica tu se merito abbandono o commiserazione da parte
tua. Ma ascoltami. La legge degli uomini permette a tutti i colpevoli, anche ai
più sanguinari, di parlare in loro difesa prima di essere condannati.
Ascoltami, Frankenstein. Tu accusi me di omicidio eppure saresti pronto a
distruggere la tua stessa creatura, sentendoti con la coscienza a posto. Oh, sia
lodata l’eterna giustizia degli uomini! Io comunque non ti chiedo di
risparmiarmi, ma di ascoltarmi, e solo dopo avermi ascoltato, se ci riesci e se
ancora lo vuoi, distruggerai l’opera delle tue stesse mani».
«Perché richiami alla mia memoria circostanze che mi fanno rabbrividire,
al solo pensiero d’essere stato io la loro sciagurata origine e l’autore? Sia
maledetto il giorno, detestato demonio, in cui tu hai visto la luce per la prima
volta! Siano maledette (e maledico me stesso) le mani che ti hanno dato
forma! Mi hai reso infelice in modo indescrivibile. Non mi hai lasciato alcuna
facoltà di decidere se io sia giusto o meno nei tuoi confronti. Vattene!
Liberami dalla vista della tua odiata forma».
«Ecco, così ti libero, mio creatore» disse, ponendo sui miei occhi le sue
odiose mani, che mi strappai di dosso con violenza, «così ti proteggo dalla
vista di qualcosa che tu aborri. Ma puoi sempre ascoltarmi e concedermi la
tua compassione. Te lo richiedo in nome delle virtù che un tempo possedevo.
Senti la mia storia. È lunga e strana e la temperatura di questo luogo non si
confà alla tua sensibilità delicata; vieni nella capanna sulla montagna. Il sole
è ancora alto in cielo; prima che scenda a nascondersi dietro a quei precipizi
innevati laggiù per portare la luce a un altro mondo, avrai ascoltato la mia
storia e potrai decidere. Dipende da te, se me ne andrò per sempre dalla vista
degli uomini per vivere una vita innocua, o diventerò il flagello di tutti i tuoi
simili e l’autore della tua precipitosa rovina».
Così dicendo mi fece strada attraverso il ghiacciaio. Lo seguii. Il cuore mi
scoppiava, non risposi, ma procedendo soppesavo i vari argomenti che aveva
addotto, e decisi di ascoltare quantomeno la sua storia. In parte ero sospinto
dalla curiosità, in parte fu la compassione a farmi decidere. Fino a quel
momento l’avevo ritenuto l’assassino di mio fratello e bramavo una conferma
o una smentita di questa opinione. Inoltre per la prima volta sentii quali erano
le responsabilità di un creatore verso la sua creatura e che avrei dovuto
renderlo felice prima di lamentarmi della sua malvagità. Queste ragioni mi
esortarono ad acconsentire alla sua richiesta. Quindi attraversammo il
ghiacciaio e scalammo la roccia all’altra estremità. L’aria era fredda e
cominciò di nuovo a scendere la pioggia. Entrammo nella capanna, il demone
con un’aria di esultanza, io con il cuore pesante e lo spirito avvilito. Ma
accettai di ascoltarlo e, una volta sedutomi vicino al fuoco che il mio odioso
compagno aveva acceso, lui cominciò il suo racconto.
Capitolo terzo
«È con notevole difficoltà che ricordo la prima era della mia esistenza; tutti
gli eventi di quel periodo mi appaiono confusi e indistinti. Ero in preda a una
strana molteplicità di sensazioni; ci volle davvero molto tempo prima che
imparassi a distinguere le operazioni dei miei diversi sensi: la vista, il tatto,
l’udito e l’olfatto, che si erano attivati tutti insieme. Ricordo che
gradualmente una luce più forte costrinse i miei nervi a chiudere gli occhi.
Quando mi avvolse l’oscurità, provai turbamento; ma subito dopo riaprii gli
occhi e, come ora suppongo, la luce si riversò nuovamente su di me.
Camminai e, immagino, scesi; ma immediatamente provai una grande
alterazione nelle mie sensazioni. Prima ero stato circondato da corpi scuri e
opachi, inaccessibili al mio tatto e alla mia vista; ora invece scoprivo di
potermi muovere liberamente e che non v’erano ostacoli che non potessi
scavalcare o schivare. La luce poi si fece sempre più opprimente, per me, e
camminando il caldo mi stremava, così cercai un luogo dove potessi
ripararmi, all’ombra. Lo trovai nella foresta vicino a Ingolstadt; qui giacqui
sulle rive di un ruscello, a riposare dalle mie fatiche, finché non provai i
morsi della fame e della sete. Questo mi risvegliò dal dormiveglia e mangiai
delle bacche che trovai attaccate ai rami degli alberi o sparse a terra. Placai la
mia sete al ruscello, mi ridistesi e mi riprese il sonno.
«Era già buio quando mi svegliai, sentivo freddo; e una certa paura
istintiva, nel trovarmi così solo. Prima di lasciare il tuo alloggio, provando
quella stessa sensazione, mi ero coperto di alcuni indumenti; ma ora non
bastavano a proteggermi dalla brina notturna. Ero un povero disgraziato,
indifeso e avvilito. Non sapevo niente, non riuscivo a distinguere niente; e
sentendomi invaso dal dolore, da ogni parte, mi sedetti e piansi.
«Di lì a poco una luce gentile si fece largo in cielo, recandomi una
sensazione di piacere. Saltai in piedi e vidi una forma radiante salire tra gli
alberi. La fissai con una sorta di meraviglia. Si muoveva lentamente, ma
illuminava i miei passi; e mi misi nuovamente in cerca di bacche. Faceva
ancora freddo quando trovai, ai piedi di un albero, un enorme mantello, con il
quale mi coprii e mi sedetti a terra. La mia mente era piena di idee indistinte,
era tutto confuso. Sentivo la luce, la fame, la sete, il buio; suoni innumerevoli
rimbombavano nelle mie orecchie, e da tutte le parti mi venivano incontro gli
odori più vari: l’unica cosa che riuscivo a distinguere era la luna splendente,
sulla quale fissai il mio sguardo con piacere.
«Si susseguirono vari passaggi tra il giorno e la notte e quando l’arco
della notte si era molto accorciato cominciai a distinguere le mie sensazioni
l’una dall’altra. Gradualmente vidi con chiarezza il ruscello trasparente che
mi dava da bere e gli alberi che mi facevano ombra con le loro foglie. Mi
deliziò la scoperta che il piacevole suono che di frequente giungeva alle mie
orecchie proveniva dalle gole di quegli animaletti alati che spesso si
frapponevano tra la luce del cielo e i miei occhi. Cominciai anche a osservare
con maggiore accuratezza le forme tutt’intorno a me e a percepire i limiti di
quel radioso tetto di luce che si stendeva sopra di me. A volte tentavo di
imitare il piacevole canto degli uccelli, ma non ci riuscivo. A volte
desideravo anch’io esprimere, a modo mio, le mie sensazioni, ma i suoni
rozzi e inarticolati che prorompevano da me mi spaventavano, riportandomi
al silenzio.
«La luna era scomparsa dalla notte e poi di nuovo si mostrò, in forma più
piccola, nel tempo in cui restai nella foresta. A questo punto le mie sensazioni
si erano fatte distinte, e la mia mente ogni giorno accoglieva nuove idee. I
miei occhi si abituarono alla luce e a percepire le cose nelle loro forme esatte;
ora distinguevo un insetto da un filo d’erba e, piano piano, anche un tipo di
erba da un altro. Scoprii che il passero emetteva soltanto note aspre, mentre
quelle del merlo e del tordo erano dolci e ammalianti.
«Un giorno, oppresso dal freddo, trovai un fuoco lasciato acceso da
qualche mendicante vagabondo e venni sopraffatto dal piacere per il calore di
cui facevo esperienza. Dalla gioia infilai le mani nelle braci ardenti, ma
subito le tirai fuori con un grido di dolore. Che strano, pensai, che la stessa
causa abbia effetti così diversi! Esaminai gli elementi di cui era fatto il fuoco
e con gioia scoprii che era composto di pezzi di legno. Mi misi subito a
raccogliere dei rami; ma erano bagnati e non bruciavano. Mi dispiacque e mi
sedetti a guardare il lavorio del fuoco. La legna bagnata che avevo posato
accanto al focolare si seccò e prese fiamma. Riflettei sull’accaduto e toccando
i vari rami capii il motivo, quindi mi diedi da fare per raccogliere una grande
quantità di legna per essiccarla e farmi un’abbondante riserva di fuoco.
Quando giunse la notte, portando il sonno con sé, avevo una grande paura che
il mio fuoco potesse spegnersi. Lo ricoprii con cura di legna secca e foglie, e
sopra vi misi dei rami bagnati; poi mi distesi a terra, sopra il mio mantello, e
sprofondai nel sonno.
«Mi svegliai ch’era mattino, e il mio primo pensiero fu quello di andare a
controllare il fuoco. Lo scoprii e il soffio di una brezza leggera rapidamente
ne riaccese la fiamma. Nell’osservare anche questo fenomeno, costruii un
ventaglio di fronde per ravvivare le braci quando si stavano spegnendo.
Tornò la notte e vidi, con piacere, che il fuoco dava luce oltre che calore, e
che la scoperta di questo elemento mi era utile per il mio nutrimento, perché
mi resi conto che alcuni avanzi del cibo lasciato dai viaggiatori erano arrostiti
e avevano un sapore molto più gustoso delle bacche che raccoglievo dagli
alberi. Cercai dunque di trattare il mio cibo allo stesso modo, mettendolo
sulle braci ardenti. Così scoprii che in questo modo le bacche si rovinavano,
mentre le noci e le radici ne guadagnavano molto.
«In ogni caso il cibo cominciò a scarseggiare e spesso passavo l’intera
giornata a cercare invano qualche ghianda per mitigare i morsi della fame.
Prendendone atto decisi di abbandonare il luogo dove avevo fino a quel
momento abitato per cercarne uno dove i pochi bisogni di cui avevo fatto
esperienza potevano venire soddisfatti più facilmente. Durante questa
migrazione mi mancò enormemente quel fuoco che avevo ottenuto per caso e
non sapevo come riprodurre. Dedicai diverse ore a riflettere molto seriamente
su questa difficoltà, ma fui costretto a rinunciare a qualunque tentativo di
procurarmelo. Così mi avvolsi nel mio mantello e mi misi a battere il bosco
in direzione del punto in cui il sole tramontava. Trascorsi tre giorni in questi
vagabondaggi e infine mi trovai in aperta campagna. La notte precedente era
caduta molta neve e i campi erano di un bianco uniforme; era uno spettacolo
desolante e io mi ritrovai con i piedi gelati da quella fredda sostanza umida
che ricopriva il terreno.
«Erano circa le sette del mattino e anelavo a un po’ di cibo e a un riparo;
alla fine scorsi una piccola capanna su un rialzo del terreno, costruita
senz’altro a uso di qualche pastore. Era la prima volta che ne vedevo una e ne
esaminai la struttura con grande curiosità. Trovando la porta aperta, entrai.
C’era un uomo anziano seduto vicino al fuoco, sul quale preparava la sua
colazione. Si voltò al rumore e quando mi scorse lanciò un grido fortissimo e
scappò dalla capanna, correndo per i campi con una rapidità difficilmente
immaginabile per il suo corpo debilitato. La sua figura, diversa da qualunque
altra avessi visto fino ad allora, e la sua fuga in qualche modo mi sorpresero.
Ma rimasi incantato dall’aspetto della capanna: lì la neve e la pioggia non
potevano penetrare, il suolo era asciutto; quel luogo mi apparve un rifugio
altrettanto splendido e divino quanto dovette apparire il Pandemonio ai
demoni dell’inferno dopo le sofferenze nel lago di fuoco. Divorai con avidità
i resti della colazione di quel pastore, che consisteva di pane, formaggio, latte
e vino; quest’ultimo, tuttavia, non mi piacque. Dopodiché, sopraffatto dalla
stanchezza, mi distesi su un pagliericcio e mi addormentai.
«Mi svegliai a mezzogiorno e, allettato dal tepore del sole che splendeva
brillante sul terreno imbiancato, decisi di riprendere il viaggio; misi quel che
restava della colazione del contadino in una bisaccia che avevo trovato lì e
procedetti attraverso i campi per diverse ore, finché al tramonto arrivai a un
villaggio. Che miracolo mi sembrò! Le capanne, le casette (più graziose) e le
sontuose ville attirarono a turno la mia attenzione. La verdura negli orti e il
latte e il formaggio alle finestre di alcune case stuzzicarono il mio appetito.
Entrai in una delle più belle, ma avevo appena messo un piede oltre la porta
che i bambini si misero a strillare e una delle donne svenne. L’intero villaggio
si mise in agitazione: chi scappava, chi mi attaccava, finché, gravemente
contuso dai colpi delle pietre e dei molti altri oggetti che mi vennero lanciati
contro, scappai in aperta campagna e in preda alla paura mi rifugiai in una
bassa catapecchia, molto disadorna e molto poco attraente in confronto agli
edifici del villaggio. Questa catapecchia era in effetti addossata a un casolare
dall’aspetto comodo e pulito, ma dopo il caro prezzo pagato nella mia recente
esperienza, non osai entrarvi. Il mio rifugio era costruito in legno ma era così
basso che mi era difficile starvi seduto con la schiena diritta. Il terreno che
faceva da pavimento non era ricoperto di legno, però era asciutto, e per
quanto il vento entrasse da innumerevoli fessure, lo ritenni un buon riparo
dalla neve e dalla pioggia.
«Qui dunque mi rifugiai, e mi distesi a terra felice di aver trovato un tetto,
anche se misero, per proteggermi dalla stagione inclemente e ancor di più
dalla barbarie degli uomini.
«Appena si fece mattino, sgusciai fuori da quella mia cuccia per vedere
l’adiacente casolare e capire se potevo restare in quell’abitacolo che avevo
trovato. Era addossato al retro della casa; a fianco dei due lati esposti v’erano
un recinto per porci e una pozza d’acqua limpida. Vi era un altro lato libero, e
da quello mi ero intrufolato; però adesso otturai, con pietre e legna, ogni
fessura attraverso la quale mi si poteva vedere, anche se in modo da poterle
rimuovere quando volevo uscire; tutta la luce mi arrivava dal lato del recinto,
e mi bastava.
«Finito di sistemare in tal modo la mia abitazione, e ricoperto il terreno di
paglia pulita, tornai dentro perché vidi in lontananza una forma umana, e
ricordando fin troppo bene il trattamento ricevuto la sera prima, non mi
fidavo di mettermi nelle sue mani. Prima però avevo fatto provviste per la
giornata, rubando una pagnotta rafferma e una tazza per bere, meglio che con
le sole mani, l’acqua pura che scorreva accanto al mio rifugio. Il pavimento
era leggermente rialzato, così da mantenersi perfettamente asciutto e, grazie
alla vicinanza con il camino del casolare, abbastanza caldo.
«Stando così le cose decisi di risiedere in questo capanno fino a che non
fosse accaduto qualcosa che mi facesse cambiare idea. In effetti, a confronto
con il mio precedente alloggio, l’inospitale foresta, coi rami grondanti di
pioggia e il terreno umido, questo era un paradiso. Mi gustai la mia colazione
e mentre mi accingevo a rimuovere un’asse per procurarmi un po’ d’acqua,
sentii dei passi; quindi guardai attraverso una stretta fessura e vidi una
giovane creatura che passava davanti al mio capanno portando un secchio
sulla testa. Era una giovane dal portamento aggraziato, diversa dalle
contadine e dalle domestiche che ho avuto modo di incontrare da allora.
Eppure era vestita poveramente, il suo abbigliamento consisteva soltanto in
una lisa sottana azzurra e un giacchetto di lino. Non v’erano ornamenti fra le
sue trecce bionde; sembrava avere un’indole paziente, ma aveva un’aria
triste. La persi di vista. Poi tornò, nel giro di un quarto d’ora circa, sempre
con il secchio, che ora era in parte riempito di latte. Mentre procedeva, con
l’evidente incomodo di quel peso, le si fece incontro un giovane uomo, il cui
volto esprimeva il più profondo sconforto. Emise alcuni suoni con un’aria
malinconica e le tolse il secchio dalla testa per portarlo nel casolare. Lei lo
seguì e scomparvero. Di lì a poco rividi il giovane attraversare il campo
dietro il casolare con alcuni strumenti in mano; anche la ragazza aveva da
fare, a volte in casa, a volte nel cortile.
«Esaminando la mia dimora mi accorsi che un tempo vi affacciava una
delle finestre del casolare, i cui riquadri erano stati otturati con assi di legno.
In una di queste v’era una sottile, quasi impercettibile fessura, attraverso la
quale l’occhio poteva sbirciare. Attraverso questa crepa si vedeva una piccola
stanza, imbiancata e pulita ma arredata in modo molto spoglio. In un angolo,
vicino a un piccolo fuoco, sedeva un vecchio con la testa tra le mani, in
atteggiamento sconsolato. La ragazza era occupata a rassettare il casolare, ma
a un certo punto tirò fuori da un cassetto qualcosa che impegnava le sue mani
e si sedette accanto al vecchio. Lui prese uno strumento, cominciò a suonare
e produsse dei suoni più dolci della voce del tordo e dell’usignolo. Una scena
incantevole, persino per me – povero disgraziato! – che non avevo visto mai
nulla di bello. I capelli argentati e il volto benevolo di quel vecchio mi
ispirarono rispetto, mentre i graziosi modi della ragazza suscitarono in me
grande affetto. Lui suonava un’aria dolce e triste che, mi accorsi, faceva
sgorgare le lacrime dagli occhi della sua amabile compagna, anche se il
vecchio non lo notò, finché lei non cominciò a singhiozzare in modo udibile;
a quel punto l’uomo emise alcuni suoni e la bella creatura posò il suo lavoro
per inginocchiarsi ai suoi piedi. Lui la tirò su e sorrise con tale dolcezza e
affetto che io provai delle sensazioni di una natura molto peculiare e
prepotente, un misto di dolore e di piacere, che non avevo mai provato prima,
quando avevo sentito fame o freddo, o trovato calore o cibo. Mi scostai dalla
finestra, non riuscivo a sostenere queste emozioni.
«Poco dopo il giovane tornò, portando sulle spalle un carico di legna. La
ragazza gli andò incontro all’ingresso, lo aiutò a disfarsi del peso e portando
un po’ di quel combustibile all’interno lo mise sul fuoco. Dopodiché lei e il
ragazzo si appartarono in un angolo dell’abitazione e lui le mostrò una grande
pagnotta e un pezzo di formaggio. Lei ne sembrò contenta e andò in giardino
a prendere delle radici e delle piante, che mise nell’acqua e poi sul fuoco.
Quindi riprese il suo lavoro mentre il giovane andò in giardino e si diede da
fare a scavare ed estrarre radici. Continuò a farlo per un’ora, poi la giovane lo
raggiunse e insieme tornarono dentro.
«Nel frattempo il vecchio era rimasto pensieroso, ma all’arrivo dei suoi
compagni assunse un’aria più allegra e si sedettero a mangiare. Il pasto fu
consumato rapidamente. La giovane donna era adesso di nuovo occupata a
rassettare; il vecchio fece due passi al sole, davanti al casolare, al braccio del
giovane. Non poteva esserci niente di più bello del contrasto fra queste due
eccelse creature. Uno era anziano, coi capelli argentati e un volto che
irradiava benevolenza e amore; il più giovane era snello e aggraziato, i
lineamenti forgiati nel modo più armonioso, ma i suoi occhi e il suo
atteggiamento esprimevano grande tristezza e sconforto. Il vecchio tornò
dentro e il giovane, con strumenti diversi da quelli che aveva usato al
mattino, diresse i suoi passi nei campi.
«Calò presto il buio, ma con mia grande meraviglia scoprii che gli abitanti
del casolare conoscevano un modo per protrarre la luce facendo uso di
candele; mi deliziò scoprire che il tramonto del sole non avrebbe posto fine al
piacere che provavo nell’osservare i miei umani vicini. Durante la serata, la
ragazza e il suo compagno furono occupati in varie attività che non
comprendevo; il vecchio prese nuovamente lo strumento che produceva i
suoni divini che mi avevano incantato al mattino. Appena ebbe finito, toccò
al giovane, che invece di suonare iniziò a emettere suoni più monotoni che
non somigliavano né alle armonie dello strumento del vecchio né al canto
degli uccelli; più avanti capii che quello era leggere ad alta voce, ma allora
non sapevo niente della scienza delle parole e della letteratura.
«Quella famiglia, dopo essersi intrattenuta così per un breve tempo,
spense le luci e se ne andò, immaginai, a dormire.
Capitolo quarto
«Mi stesi sul pagliericcio ma non riuscivo a dormire. Pensavo alle cose
accadute quel giorno. Quello che mi aveva più colpito erano i modi gentili di
queste persone. Desideravo unirmi a loro, ma non ne avevo il coraggio.
Ricordavo troppo bene il trattamento subito la sera prima dai barbari abitanti
del villaggio e decisi che, qualunque comportamento avessi in seguito trovato
giusto adottare, per il momento sarei rimasto tranquillo nella mia tana a
osservarli e a cercare di scoprire i moventi che dirigevano le loro azioni.
«Il mattino seguente gli abitanti del casolare si alzarono prima che
sorgesse il sole. La giovane donna mise in ordine e preparò da mangiare;
finita la colazione, il giovane andò via.
«La giornata trascorse secondo lo schema della precedente. Il giovane
rimase occupato all’aperto, la ragazza in varie laboriose faccende all’interno.
Il vecchio, che presto capii essere cieco, passò il tempo a suonare o a pensare.
Non vi potrebbero essere amore e rispetto più grandi di quelli che i due
giovani mostravano per il loro venerabile compagno. Tutti i loro gesti
d’affetto o le mansioni di accudimento erano svolti per lui con gentilezza, che
lui ripagava con i suoi benevoli sorrisi.
«Non erano del tutto felici. Spesso il giovane e la sua compagna si
appartavano e sembrava che piangessero. Io non vedevo motivo per la loro
infelicità, ma ne ero profondamente toccato. Se delle creature così amabili
erano tristi, non era poi così strano che lo fosse un essere imperfetto e solo
come me. Ma perché questi esseri così gentili erano infelici? Avevano una
casa deliziosa (tale era ai miei occhi) e ogni lusso; se avevano freddo avevano
un fuoco per scaldarsi, se avevano fame squisite vivande per cibarsi; i loro
indumenti erano in ottimo stato e, ancora più importante, godevano della
reciproca compagnia e delle loro conversazioni, scambiandosi ogni giorno
sguardi di affetto e di bontà. Cosa implicavano le loro lacrime? Erano
effettivamente espressione di dolore? Dapprincipio non fui in grado di
rispondere a queste domande; ma una costante attenzione e il tempo mi
spiegarono molte di quelle cose che ai miei occhi risultavano enigmatiche.
«Passò un bel po’ di tempo prima che scoprissi una delle cause del
disagio di quell’amabile famiglia. Era la povertà, di cui subivano il malessere
a un livello molto profondo. Il loro nutrimento consisteva unicamente della
verdura del giardino e del latte di un’unica mucca, che ne produceva ben
poco durante l’inverno, quando i padroni potevano a malapena procurarsi il
cibo per sostenerla. Credo che spesso patissero i morsi della fame, molto
acutamente, specialmente i due giovani, perché di frequente davano da
mangiare al vecchio senza tenere niente per loro.
«Questo aspetto della loro generosità mi commosse alquanto. Durante la
notte ero solito rubare un po’ delle loro provviste per il mio consumo, ma
quando scoprii che così facendo procuravo loro sofferenza, smisi di farlo e mi
accontentai delle bacche, delle noci e delle radici che raccoglievo in un bosco
nei paraggi.
«Scoprii anche un altro modo che mi permetteva di aiutarli nelle loro
fatiche. Mi accorsi che il giovane impiegava buona parte della giornata a
raccogliere legna per il focolare, così durante la notte spesso prendevo i suoi
attrezzi, che imparai presto a usare, e gli procuravo legna da ardere
sufficiente al consumo di diversi giorni.
«Ricordo che, la prima volta che lo feci, quando la giovane donna aprì la
porta al mattino, parve molto stupita nel vedere una grande catasta di legna lì
fuori. Pronunciò a voce alta alcune parole e il giovane la raggiunse,
esprimendo sorpresa a sua volta. Notai con piacere che quel giorno non andò
nella foresta, ma restò a casa a fare dei lavoretti di manutenzione e a coltivare
l’orto.
«A poco a poco feci una scoperta ancora più importante. Capii che quelle
persone possedevano un metodo per comunicare fra loro esperienze e
sentimenti attraverso dei suoni articolati. Mi accorsi che le parole che
dicevano procuravano, a seconda, piacere o dolore, sorrisi o tristezza
nell’animo e nel volto di chi le ascoltava. Questa era proprio una scienza
divina e desideravo ardentemente conoscerla. Ma ogni mio tentativo in quella
direzione veniva frustrato. Parlavano rapidamente e, non avendo le parole che
dicevano un legame per me visibile con oggetti concreti, non riuscivo a
trovare la chiave di accesso a quel misterioso modo di comunicare. Tuttavia,
con grande applicazione e nel corso di vari cicli lunari trascorsi nella mia
tana, individuai i nomi che venivano dati ad alcuni degli oggetti più frequenti
nei loro discorsi: imparai e capii a cosa connettere le parole fuoco, latte, pane
e legna. Appresi anche i nomi degli abitanti del casolare. Il giovane e la sua
compagna avevano più di un nome ciascuno, mentre il vecchio ne aveva uno
solo, ed era padre. La ragazza veniva chiamata sorella oppure Agatha; il
giovane Felix, fratello o figlio. Non posso descrivere la gioia che provai
quando appresi a quali concetti si riferivano questi suoni e fui in grado di
pronunciarli. Distinsi varie altre parole, senza essere ancora in grado di
capirle o adoperarle, come buono, carissimo, infelice.
«Passai l’inverno in questa occupazione. I modi gentili e la bellezza dei
miei vicini me li resero molto cari: quando erano infelici, mi sentivo
depresso; quando si rallegravano di qualcosa, io partecipavo della loro
allegria. Vedevo pochi esseri umani oltre a loro e se capitava che arrivasse
qualcun altro, le maniere scortesi e il portamento rude non facevano che
esaltare ai miei occhi la superiore qualità delle doti dei miei amici. Mi accorsi
che il vecchio si prodigava a incoraggiare i suoi figli – come notai che a volte
li chiamava – a scacciare la loro malinconia. Parlava con tono allegro,
esprimendo una bontà che donava piacere anche a me. Agatha ascoltava con
rispetto, e quando a volte gli occhi le si riempivano di lacrime, cercava di
asciugarle di nascosto; in generale, però, mi accorgevo che l’espressione del
suo viso e il tono della sua voce si facevano più lieti dopo aver ascoltato le
esortazioni del padre. Con Felix non era così. Lui era sempre il più triste del
gruppo; persino alla mia sensibilità non sviluppata lui sembrava quello che
avesse sofferto di più e più profondamente dei suoi cari. Ma se il suo volto
aveva l’espressione più dolente, la sua voce era più allegra di quella della
sorella, specialmente quando si rivolgeva al vecchio.
«Potrei indicare innumerevoli episodi che, per quanto piccoli, mi
mostrarono il carattere di questi amabili esseri. In tanta povertà e bisogno,
Felix trovava il piacere di portare alla sorella il primo fiorellino bianco che
spuntava dal terreno ancora innevato. Di primo mattino, prima che lei si fosse
alzata, lui spazzava la neve che avrebbe ostruito il percorso di lei verso la
stalla, tirava su l’acqua dal pozzo e portava la legna dalla rimessa che, con
suo continuo stupore, trovava sempre rifornita da una mano invisibile. Credo
che durante il giorno lavorasse per un contadino vicino, poiché spesso se ne
andava e non tornava fino a cena, senza portare legna con sé. Altre volte
lavorava l’orto; ma quando gelava, non si poteva fare granché. E allora
leggeva a voce alta per il vecchio e per Agatha.
«Questa faccenda della lettura a voce alta all’inizio mi sconcertò
alquanto; poi, per gradi, mi resi conto che leggendo il giovane pronunciava
molti dei suoni che emetteva quando conversava. Supposi, dunque, che sulla
carta lui trovasse e capisse dei segni che servivano a parlare, e anch’io
desideravo ardentemente comprenderli; ma come fare, se non capivo
nemmeno le parole di cui quelli erano i simboli? Tuttavia feci notevoli
progressi in questa scienza, anche se non sufficienti a seguire qualsivoglia
tipo di conversazione. Mi impegnai con tutto me stesso perché mi era molto
chiaro che, desiderando ardentemente presentarmi agli abitanti del casolare,
non avrei dovuto arrischiarmici prima di essermi impadronito del loro
linguaggio; quella conoscenza, speravo, mi avrebbe permesso di offrirmi al
loro sguardo in modo che potessero andare oltre il mio aspetto deforme, di
cui ormai ero pienamente consapevole, avendo sempre davanti agli occhi il
contrasto offerto da loro.
«Avendo ammirato le forme perfette dei miei vicini, la loro grazia,
bellezza, la carnagione delicata, quanto mi spaventavo quando vedevo la mia
immagine in una pozza trasparente! Le prime volte sobbalzai arretrando,
incredulo che fossi proprio io riflesso in quello specchio. Quando mi convinsi
appieno di essere davvero il mostro che sono, mi colmai delle più amare
sensazioni di sconforto e mortificazione. Ahimè! Ancora non sapevo fino in
fondo quali sarebbero stati gli effetti fatali di questa miserabile deformità.
«Quando il sole cominciò a farsi più caldo, e le giornate si allungarono, la
neve sparì e vidi gli alberi nudi e la terra bruna. Da questo momento Felix fu
maggiormente impegnato e si allontanò la penosa minaccia della fame. Il loro
cibo era grezzo ma sano, e riuscivano a procurarsene a sufficienza. Dall’orto
spuntavano diversi nuovi generi di piante, che loro preparavano; questi segni
di benessere aumentarono di giorno in giorno con il procedere della stagione.
«Quotidianamente, a mezzogiorno, il vecchio passeggiava appoggiandosi
al figlio. Questo se non pioveva, come scoprii che si diceva quando l’acqua
cade dal cielo. Ciò accadeva di frequente, ma subito dopo un vento forte
asciugava la terra e il tempo era ancora più bello di prima.
«La mia vita nel rifugio aveva un andamento regolare. Di mattina seguivo
i movimenti dei miei vicini e quando si separavano, ciascuno intento alle sue
occupazioni, io dormivo; il resto del giorno lo passavo a osservarli. Dopo che
erano andati a dormire, se c’era un po’ di luna o era una notte stellata, andavo
nel bosco a procurare il cibo per me e la legna per loro. Al mio ritorno, ogni
qualvolta fosse necessario, ripulivo il loro sentiero dalla neve e svolgevo le
mansioni che avevo visto fare a Felix. In seguito mi accorsi del loro grande
stupore nello scoprire quei lavori svolti da una mano invisibile; un paio di
volte, in tali occasioni, li sentii pronunciare le parole spirito benigno,
meraviglioso, senza capirne, allora, il significato.
«Cominciai a ragionare più attivamente, desiderando capire i moventi e i
sentimenti di quelle amabili creature; mi domandavo perché Felix avesse
quell’aria così abbattuta e Agatha fosse così triste. Pensavo (che idiota!) che
potesse essere in mio potere ridare la felicità a quella gente così meritevole.
Quando dormivo, o ero altrove, le figure del venerabile padre cieco, della
gentile Agatha e dell’eccellente Felix mi tornavano sempre davanti. Li
vedevo come esseri superiori, che sarebbero stati gli arbitri del mio destino a
venire. Nella mia immaginazione mi figuravo migliaia di scene in cui mi
presentavo a loro e la loro reazione nel vedermi. Immaginavo il loro disgusto,
fino al momento in cui io, con i miei modi gentili e le mie parole concilianti,
avrei dapprima ottenuto il loro favore e poi l’affetto.
«Questi pensieri mi esaltavano e mi portarono ad applicarmi con
rinnovato ardore all’apprendimento dell’arte del linguaggio. Certo i miei
organi erano rozzi, ma agili; la mia voce era molto diversa dalla dolce
melodia delle loro intonazioni, ma riuscivo a pronunciare le parole che
conoscevo con discreta fluidità. Era una situazione simile a quella della
favola dell’asino e del cagnolino da compagnia, ma certamente l’asino gentile
meritava, per le sue affettuose intenzioni, di essere trattato molto meglio che
a calci e insulti.
«Le gradite piogge e il dolce tepore della primavera alterarono di molto la
faccia della terra. Gli uomini, che fino a quel mutamento sembrava fossero
nascosti in caverne, si sparsero ovunque, occupati in varie tecniche di
agricoltura. Gli uccelli cantavano note più allegre, e agli alberi iniziavano a
spuntare le foglie. Terra felice, felice! Quel luogo che poco fa era tetro,
umido e insalubre, ora era la degna dimora degli dei. L’incantevole aspetto
della natura innalzò il mio spirito; il passato era cancellato dalla mia
memoria, il presente sereno e il futuro indorato da luminosi raggi di speranza,
e promesse di gioia.
Capitolo quinto
«Ora mi appresto a narrare la parte più toccante della mia storia. Riferirò di
quegli eventi la cui esperienza ha avuto su di me l’effetto di mutarmi da
quello che ero a quello che ora sono.
«La primavera avanzava rapida; il tempo si fece bello e il cielo senza
nuvole. Mi sorprese che ciò che prima era desolato e cupo adesso fosse
rigoglioso di splendidi fiori e vegetazione. I miei sensi venivano gratificati e
ravvivati da migliaia di delizie olfattive e bellissime visioni.
«Fu in uno di quei giorni, quando periodicamente i miei vicini si
riposavano dal lavoro (il vecchio suonava la chitarra e i figli lo ascoltavano)
che notai in Felix un’indicibile aria malinconica; sospirava di frequente e a un
certo punto il padre smise di suonare e dai suoi modi immaginai chiedesse al
figlio il perché di quell’amarezza. Felix rispose con tono più lieto e dunque il
padre stava per rimettersi a suonare quando qualcuno bussò alla porta.
«Era una signora a cavallo, accompagnata da un contadino che le faceva
da guida. La donna indossava un abito scuro ed era coperta da uno spesso
velo nero. Agatha fece una domanda e l’estranea rispose soltanto con il nome
di Felix, pronunciato con dolce accento. Aveva una voce melodiosa, ma
diversa da quella dei miei amici. Udendo il suo nome, Felix si affrettò a
raggiungere la signora che, nel vederlo, si tolse il velo, e a quel punto scorsi
un volto di una bellezza e una espressione angeliche. I suoi capelli erano di
un lucente nero corvino e insolitamente acconciati; i suoi occhi scuri ma
dolci, per quanto vivaci; i suoi lineamenti regolari e proporzionati e la sua
carnagione straordinariamente chiara, con guance di un tenue color rosa.
«Felix apparve rapito dalla gioia quando la vide, ogni segno di amarezza
svanito dal suo viso, che non avrei mai creduto potesse esprimere quella
estatica felicità; gli brillarono gli occhi e arrossì di piacere. E in quel
momento mi sembrò tanto bello quanto la straniera. Lei pareva in preda a
molti sentimenti diversi: versando alcune lacrime dai begli occhi, tese la
mano a Felix, che la baciò deliziato e si rivolse alla donna chiamandola, per
quanto potei comprendere, la sua dolce araba. Lei sembrava non capirlo, ma
sorrise. Lui la aiutò a smontare da cavallo e, licenziando la guida, la fece
entrare nel casolare. Ci fu uno scambio di parole tra lui e il padre, e la
giovane straniera si inginocchiò ai piedi del vecchio; voleva baciargli la mano
ma lui la fece alzare e la abbracciò con affetto.
«Presto capii che nonostante la straniera pronunciasse suoni articolati, e
sembrasse possedere un suo linguaggio, non veniva compresa dai miei vicini,
né lei capiva loro. Fecero molti gesti per me indecifrabili, ma mi era chiaro
che la sua presenza diffondeva contentezza nella casa, dissipando il dolore
dei suoi abitanti come fa il sole con la nebbia del mattino. Felix sembrava
particolarmente felice e accoglieva la sua araba con sorrisi di gioia. Agatha,
la dolcissima Agatha, baciò le mani della cara straniera e indicando il fratello
fece dei segni che per me volevano dire che lui era stato tanto triste fino a che
non era arrivata lei. In questo modo passarono alcune ore, durante le quali i
loro visi continuavano a esprimere gioia, una gioia di cui non capivo la
ragione. Mi accorsi presto, dal fatto che la straniera spesso ripeteva dopo di
loro lo stesso suono ricorrente, che lei stava cercando di imparare la loro
lingua; così mi venne subito in mente di approfittare di quelle istruzioni allo
stesso fine. Alla prima lezione la straniera imparò circa venti parole; la
maggior parte già le conoscevo, ma ne trassi vantaggio per le altre.
«Con il calare del buio, Agatha e l’araba si ritirarono prima degli altri.
Nel salutarsi, Felix baciò la mano della straniera e disse: “Buonanotte, dolce
Safie”. Poi lui rimase alzato molto più a lungo, a parlare con il padre; dalla
frequente ripetizione del nome di lei, capii che quell’amabile ospite era
l’argomento della loro conversazione. Avrei voluto tanto comprendere cosa
dicevano e impiegai ogni mia facoltà a tale scopo, ma mi risultò del tutto
impossibile.
«Il mattino seguente Felix uscì per andare a lavorare e, una volta
terminate le consuete occupazioni di Agatha, l’araba si sedette ai piedi del
vecchio, prese la sua chitarra e suonò delle arie di tale incantevole bellezza
che mi fecero piangere lacrime al contempo di dolore e di letizia. Lei cantava
e la sua voce fluiva, ora piena ora sfumata, in una ricca tessitura, come quella
di un usignolo dei boschi.
«Quando finì porse la chitarra ad Agatha, che dapprima si schermì. Poi
suonò un’arietta semplice, accompagnandola con i dolci accenti della sua
voce, ma nulla a che vedere con lo stupefacente canto della straniera. Il
vecchio aveva un’aria estasiata e disse alcune parole che Agatha cercò di
spiegare a Safie: sembrava voler esprimere che con la sua musica la signora
gli aveva dato grandissimo diletto.
«I giorni continuarono a passare tranquilli come prima, con la sola
differenza che la gioia aveva preso il posto della tristezza sul volto dei miei
amici. Safie era sempre allegra e contenta; sia lei che io facevamo rapidi
progressi nell’apprendimento del linguaggio, tanto che nel giro di due mesi
cominciai a capire la maggior parte delle parole pronunciate dai miei
protettori.
«Nel frattempo anche la terra bruna s’era coperta di erba e le verdi distese
erano punteggiate di innumerevoli fiori, dolci alla vista e all’olfatto, stelle dal
tenue bagliore nella boscaglia illuminata dalla luna; il sole si fece più caldo,
le notti chiare e fragranti e i miei vagabondaggi notturni divennero un grande
piacere per me, nonostante la loro durata si fosse parecchio accorciata, da
quando il sole tramontava così tardi e sorgeva così presto. Perché non osavo
mai uscire alla luce del sole, temendo di incontrare lo stesso trattamento che
mi era toccato nel primo villaggio in cui ero arrivato.
«Passavo le giornate concentrandomi al massimo al fine di impadronirmi
più rapidamente dell’uso del linguaggio; posso vantarmi di aver fatto
progressi più rapidi dell’araba, che capiva molto poco e conversava con
difficoltà, invece io comprendevo e potevo imitare quasi tutte le parole che si
dicevano.
«Mentre progredivo nel parlare, appresi anche la scienza delle lettere,
seguendo le lezioni che venivano impartite alla straniera, e queste mi
dischiusero un campo immenso di meraviglie e diletto.
«Il libro usato da Felix per insegnare a Safie era Le rovine, ossia
meditazioni sulle rivoluzioni degli imperi di Volney. Non avrei potuto capire
il senso e la portata di questo libro se Felix, leggendolo, non avesse dato
minuziose spiegazioni. Disse di avere scelto quell’opera perché lo stile
declamatorio era modellato su quello degli autori orientali. Io ne trassi
un’infarinatura di storia e una visione dei vari imperi attualmente esistenti al
mondo; mi offrì inoltre un quadro dei costumi, dei governi e delle religioni
delle diverse nazioni della terra. Seppi così dell’indolenza degli asiatici, del
grande genio e dell’attività intellettuale dei greci, delle guerre e delle
straordinarie virtù degli antichi romani (nonché della loro successiva
decadenza e del declino di quel potente impero); della cavalleria, della
cristianità, dei re. Seppi della scoperta dell’emisfero americano e piansi con
Safie per lo sventurato destino dei suoi nativi abitanti.
«Quei racconti meravigliosi generarono in me strane sensazioni. Era
l’uomo dunque un essere al tempo stesso così potente, virtuoso, magnifico
eppure maligno e vile? A volte sembrava soltanto l’erede di princìpi malvagi,
altre quanto di più nobile e simile a un dio si possa concepire. Essere un
uomo grande e virtuoso pareva l’onore più alto che potesse capitare a una
creatura sensibile; mentre essere vili e maligni, come è riportato che molti
siano stati, sembrava la più infima degradazione, una condizione più abietta
di quella della cieca talpa o dell’innocuo verme. Per molto tempo non riuscii
a concepire come un uomo potesse arrivare a uccidere un suo simile,
addirittura non capivo il perché di leggi e governi; ma quando appresi quei
fatti di sangue e corruzione il mio stupore cessò e mi ritrassi con disgusto e
ribrezzo.
«Ogni conversazione degli abitanti del casolare ormai mi schiudeva
nuove occasioni di stupore. Ascoltando le nozioni che Felix impartiva
all’araba, mi si chiariva lo strano sistema della società degli uomini. Venni a
sapere della divisione delle proprietà, di immense ricchezze e squallida
miseria; di rango, discendenza e sangue nobile.
«Le parole mi indussero a riflettere su di me. Appresi quali fossero i beni
più stimati dai tuoi simili: una nobile e immacolata discendenza unita a
grande ricchezza. Un uomo poteva ottenere rispetto con una sola di queste
acquisizioni; ma senza nessuna delle due, tranne rare eccezioni, era
considerato un vagabondo e uno schiavo, destinato a sciupare le sue energie
per il profitto di pochi prescelti. E io, che cosa ero io? Ignoravo
completamente le circostanze della mia creazione e chi mi avesse creato;
sapevo in compenso di non avere né denaro, né amici, né alcun tipo di
proprietà. Inoltre, ero dotato di una figura orribilmente deforme e disgustosa;
non ero neanche della stessa natura di un essere umano. Ero più agile degli
uomini e potevo sostenermi con un’alimentazione più grezza; sopportavo gli
eccessi del caldo e del freddo con minori danni per il mio corpo; la mia
statura superava di gran lunga la loro. Se mi guardavo intorno, non vedevo né
sentivo parlare di nessuno come me. Ero dunque un mostro che macchiava la
faccia della terra e da cui tutti fuggivano e che tutti ripudiavano?
«Non posso descriverti l’angoscia che mi arrecavano questi pensieri;
provai a scacciarli, ma la consapevolezza accresceva il dolore. Oh, fossi
rimasto per sempre nel mio bosco natale, e non avessi mai conosciuto o
provato altre sensazioni che la fame, la sete e il caldo!
«Che cosa strana è la conoscenza! Quando afferra la mente, vi si attacca
come un lichene alla roccia. A volte desideravo sbarazzarmi di ogni pensiero
e ogni sentimento, ma sapevo che v’era un solo modo per vincere la
sensazione del dolore, e questo era la morte, una condizione che temevo
anche se ancora non la capivo. Ammiravo la virtù e i buoni sentimenti;
amavo i modi gentili e le amabili qualità dei miei vicini, ma ero escluso
dall’interazione con loro, se non per via di quanto ottenevo di nascosto, non
visto e a loro ignoto; e questo, invece di soddisfarlo, accresceva il mio
desiderio di diventare uno di loro. Le parole gentili di Agatha, i sorrisi vivaci
dell’incantevole araba non erano rivolti a me. Miserabile, infelice sventurato!
«Rimasi ancora più profondamente colpito da altre lezioni. Venni a sapere
della differenza dei sessi, della nascita e della crescita dei bambini; di come
un padre vada matto per i sorrisi del neonato e per le geniali uscite di quando
è già fanciullo; come il prezioso fardello rivesta tutta la vita e le cure di una
madre; come la mente del giovane si espanda e acquisti conoscenze; che cosa
sono un fratello, una sorella e tutti i vari gradi di parentela che uniscono un
essere umano all’altro con mutui legami.
«Ma dov’erano i miei amici e i miei parenti? Nessun padre aveva vigilato
sui giorni della mia infanzia, nessuna madre mi aveva benedetto con sorrisi e
carezze o, se lo avevano fatto, il mio passato era adesso una macchia scura,
un vuoto cieco in cui non distinguevo nulla. Fin dai miei primi ricordi ero
così come allora, per altezza e proporzioni. Non avevo ancora visto un essere
che mi somigliasse, o che desiderasse una qualunque relazione con me. Che
cosa ero? La domanda continuava a presentarsi, per ricevere in risposta solo
gemiti.
«Spiegherò presto verso cosa conducevano questi sentimenti. Ma ora
permettimi di tornare ai miei vicini, la cui storia accese in me una tale varietà
di sentimenti di indignazione, gioia e stupore, che però culminavano tutti in
ulteriore amore e rispetto per quelli che osavo chiamare miei protettori (in
innocente e quasi doloroso autoinganno).
Capitolo sesto
«Passò un po’ di tempo prima che apprendessi la storia dei miei amici. Era
una storia che non poteva fare a meno di imprimersi a fondo nella mia mente
per la quantità di circostanze che presentava, ognuna delle quali, per uno così
privo di esperienza come me, fonte di interesse e meraviglia.
«Il vecchio si chiamava De Lacey. Veniva da una buona famiglia francese
e in Francia era vissuto molti anni nell’agiatezza, rispettato dai suoi superiori
e benvoluto dai suoi pari. Suo figlio era stato educato a servire la patria e
Agatha era annoverata nel rango delle dame che godevano della più alta
reputazione. Qualche mese prima del mio arrivo vivevano in una grande e
sfarzosa città chiamata Parigi, circondati da amici e godendo di tutti i piaceri
che possono offrire la virtù, la raffinatezza intellettuale e una discreta fortuna.
«Causa della loro rovina era stato il padre di Safie. Era un mercante turco
che viveva a Parigi da molti anni e che a un certo punto, per qualche motivo
che non sono riuscito a sapere, era diventato inviso al governo. Venne
arrestato e messo in prigione proprio il giorno in cui Safie lo aveva raggiunto
da Costantinopoli. Poi venne processato e messo a morte. La sentenza era
così palesemente ingiusta che tutta Parigi se ne indignò, adducendo alla sua
religione e alla sua ricchezza, più che ai crimini di cui era accusato, il motivo
per la sua condanna.
«Felix era presente al processo e quando ascoltò la decisione della corte,
il suo orrore e la sua indignazione furono così incontrollati da ripromettersi,
con un solenne giuramento, che lui lo avrebbe liberato. E cercò il modo per
farlo. Dopo tanti infruttuosi tentativi di essere ammesso alla prigione, scoprì,
in una zona non sorvegliata dell’edificio, una finestra protetta da grosse
sbarre; da questa arrivava la luce nella cella dove lo sfortunato maomettano
attendeva, disperato e in catene, l’esecuzione della barbara sentenza. Felix si
affacciò una notte alla grata e rese noto al prigioniero ciò che intendeva fare
in suo favore. Il turco, sorpreso e contento, si prodigò a incentivare lo zelo
del suo liberatore con promesse di ricompense e ricchezze. A quelle offerte
Felix oppose uno sdegnoso rifiuto e tuttavia, quando vide la bella Safie, a cui
era permesso fare visita al padre, e che a gesti gli espresse la sua viva
gratitudine, il giovane non riuscì a fare a meno di dirsi fra sé che il
prigioniero possedeva un tesoro che avrebbe pienamente ricompensato le sue
fatiche e i suoi rischi.
«Il turco si accorse ben presto dell’effetto che la figlia aveva fatto sul
cuore di Felix e si adoperò a vincolarlo ancora più saldamente alla sua causa,
promettendogli la mano di lei e la celebrazione del matrimonio non appena
lui fosse stato condotto in un luogo sicuro. Felix era troppo cortese per
accettare quell’offerta, ma non poté fare a meno di immaginare quella
possibile evenienza come il coronamento della sua felicità.
«Nei giorni seguenti, mentre procedevano i preparativi per la fuga del
mercante, lo zelo di Felix venne ravvivato da varie lettere inviategli da questa
bella ragazza, che trovò il modo di esprimere i propri pensieri nella lingua del
suo innamorato con l’aiuto di un uomo anziano, un servo del padre che
conosceva il francese. Lo ringraziava nei termini più calorosi per i servigi che
intendeva compiere per il padre e al tempo stesso si lamentava, con toni
pacati, del suo personale destino.
«Di queste lettere ho fatto le copie; nel mio soggiorno in quella tana
riuscii a procurarmi gli strumenti per scrivere, e le lettere erano spesso nelle
mani di Felix o di Agatha. Te le darò, prima di andarmene; saranno le prove
dell’autenticità del mio racconto. Non adesso, però, che il sole è già calato e
avrò soltanto il tempo di fartene un riassunto.
«Safie scriveva che sua madre era un’araba cristiana, fatta prigioniera e
resa schiava dai turchi; grazie alla sua bellezza aveva conquistato il cuore del
padre di Safie, che la sposò. La giovane usava parole di lode ed entusiasmo
per la madre che, nata libera, sprezzava lo stato di sottomissione a cui adesso
era costretta. Aveva educato la figlia secondo i princìpi della sua religione e
le aveva insegnato ad aspirare alle più alte facoltà intellettive e a
un’indipendenza di spirito proibita alle seguaci di Maometto. Questa signora
morì, ma le sue lezioni rimasero impresse in modo indelebile nell’animo di
Safie, che soffriva al pensiero di tornare in Asia per essere rinchiusa fra le
mura di un harem, dove le sarebbe stato permesso di intrattenersi soltanto con
passatempi puerili, che mal si addicevano alle inclinazioni della sua anima,
abituata ormai a grandi ideali e alla nobile emulazione della virtù. La
prospettiva di sposare un cristiano, e di restare in un paese in cui alle donne
era permesso di occupare un ruolo in società, la incantava.
«Venne fissato il giorno dell’esecuzione del turco. Ma questi aveva
abbandonato la prigione la notte precedente, e prima del mattino era già a
molte leghe di distanza da Parigi. Felix si era procurato dei passaporti con i
nomi del padre, della sorella e del suo. Al primo aveva precedentemente
comunicato il suo piano e questi aveva contribuito all’inganno abbandonando
la sua casa, con la scusa di un viaggio, e nascondendosi con la figlia in una
oscura zona di Parigi.
«Felix condusse i fuggiaschi attraverso la Francia fino a Lione, poi
valicarono il Moncenisio e giunsero a Livorno, dove il turco aveva deciso di
aspettare un’occasione favorevole per ritornare in qualche modo in patria.
«Safie decise di restare con il padre fino al momento della sua partenza,
prima della quale, promise ancora una volta il turco, lei e l’uomo che lo aveva
liberato si sarebbero uniti in matrimonio. Anche Felix rimase con loro, in
attesa dell’evento; in questo periodo poté godere della compagnia dell’araba,
che mostrava verso di lui l’affetto più tenero e puro. Comunicavano con
l’aiuto di un interprete e a volte interpretando i propri sguardi. Safie cantava
per lui le divine arie del paese natio.
«Il turco acconsentiva a questa intimità, incoraggiando le speranze dei
giovani innamorati, ma in cuor suo si era formato dei piani diversi.
Deprecava l’idea che la figlia si unisse a un cristiano, ma temeva il
risentimento di Felix se lui si fosse mostrato tiepido al riguardo; sapeva di
essere ancora nelle mani del suo salvatore, che avrebbe potuto denunciarlo
alle autorità dello Stato italiano, dove allora si trovavano. Nella sua mente
elaborò migliaia di piani che gli permettessero di protrarre il suo inganno fino
a che non fosse stato più necessario, quando cioè sarebbe partito e in segreto
avrebbe portato la figlia con sé. I suoi piani vennero molto facilitati dalle
notizie che arrivarono da Parigi.
«Il governo francese, su tutte le furie per la fuga della sua vittima, non si
era risparmiato per individuare e punire chi lo aveva liberato. La
macchinazione di Felix venne presto scoperta e De Lacey e Agatha furono
imprigionati. La notizia giunse a Felix e lo destò dal suo piacevole sogno.
Suo padre, vecchio e cieco, e la sua delicata sorella languivano in una fetida
cella mentre lui si godeva l’aria libera e la compagnia della sua amata. Questa
idea lo torturava. Si accordò rapidamente con il turco: se questi avesse
trovato una buona occasione per scappare prima che Felix riuscisse a tornare
in Italia, Safie sarebbe rimasta a pensione in un convento di Livorno. Quindi,
separandosi dalla bella araba, si affrettò a raggiungere Parigi per consegnarsi
alla vendetta della legge, sperando in questo modo di liberare De Lacey e
Agatha.
«Non gli riuscì. Rimasero agli arresti per cinque mesi, prima che avesse
luogo il processo, la cui sentenza li privò dei loro beni e li bandì per sempre
dal paese natale.
«Trovarono asilo nel miserabile casolare in Germania dove io mi sarei
imbattuto in loro. Felix venne presto a sapere che l’infido turco, a causa del
quale lui e la sua famiglia pativano una tale inaudita oppressione, quando
ebbe scoperto che l’uomo che lo aveva liberato si era, per tale motivo, ridotto
in povertà e impotenza, aveva rinnegato l’onore e tutti i nobili sentimenti e
lasciato l’Italia insieme alla figlia, inviando un’offensiva somma di denaro
come elemosina a Felix per aiutarlo, così disse, a investire sul suo futuro
sostentamento.
«Erano questi gli eventi che straziavano il cuore di Felix rendendolo,
quando lo vidi la prima volta, il più triste della famiglia. Non era la povertà
che gli pesava: se questa disagevole condizione gli fosse toccata per la sua
azione virtuosa, se ne sarebbe potuto anzi gloriare. Erano l’ingratitudine del
turco e la perdita della sua amata Safie le sfortune per lui più dolorose e
irreparabili. Ma l’arrivo dell’araba, adesso, aveva infuso nuova linfa vitale al
suo animo.
«Quando a Livorno giunse la notizia che Felix aveva perso beni e rango,
il mercante ordinò alla figlia di non pensare più al suo innamorato e di
prepararsi a tornare con lui nel loro paese natio. La generosa natura di Safie si
sentì oltraggiata da questo ordine; cercò di discutere con il padre, ma lui si
rifiutò, adirato, reiterando il suo tirannico mandato.
«Pochi giorni dopo il turco entrò nella camera della figlia e le disse, in
fretta e furia, che aveva motivo di credere che si fosse sparsa la voce della sua
residenza a Livorno e che presto sarebbe stato consegnato al governo
francese; di conseguenza, aveva noleggiato un vascello che lo avrebbe
condotto a Costantinopoli e sarebbe partito verso quella destinazione entro
poche ore. Intendeva lasciare la figlia sotto la protezione di un servitore di
fiducia; lei lo avrebbe raggiunto in seguito, con più agio e con quella parte
dei suoi averi, la più ampia, che non era ancora arrivata a Livorno.
«Una volta sola, Safie decise per conto suo qual era il comportamento più
giusto per lei in quella emergenza. L’idea di vivere in Turchia era per lei
intollerabile, vi si opponevano sia la sua religione che i suoi sentimenti. Da
alcune carte del padre finite nelle sue mani venne a sapere dell’esilio del suo
innamorato e il nome del luogo dove allora risiedeva. Esitò qualche tempo,
ma infine concepì la sua decisione. Portando con sé alcuni gioielli che le
appartenevano e una piccola somma di denaro, lasciò l’Italia in compagnia di
una ragazza di Livorno che conosceva la lingua turca e si mise in viaggio per
la Germania.
«Arrivò sana e salva in una città a circa venti leghe dal casolare di De
Lacey, dove la sua accompagnatrice si ammalò gravemente. Safie si prese
cura di lei con il più devoto affetto, ma la povera ragazza morì, e l’araba
rimase sola, senza conoscere la lingua del paese e ignorando completamente
le usanze del mondo. Tuttavia capitò in buone mani. La ragazza italiana
aveva fatto il nome del luogo verso cui erano dirette e così, dopo la sua
morte, la padrona della casa in cui alloggiavano si premurò che Safie
arrivasse sana e salva all’abitazione del suo innamorato.
Capitolo settimo
«Questa era la storia dei miei amati vicini. Mi colpì profondamente. Dalle
scene di vita sociale che presentava imparai ad ammirare le virtù e a
deprecare i vizi del genere umano.
«Il crimine era ancora per me un male distante; sentivo vicine la
benevolenza e la generosità, che accendevano il mio desiderio di essere un
attore sul trafficato palcoscenico dove si richiedeva l’esibizione di tutte quelle
ammirevoli qualità. Ma nel dare conto dello sviluppo del mio intelletto, non
devo omettere una circostanza che si verificò all’inizio del mese di agosto di
quello stesso anno.
«Una notte, durante il mio abituale giro nel bosco circostante, dove mi
procuravo il cibo e raccoglievo la legna per i miei protettori, trovai a terra una
bisaccia di cuoio che conteneva diversi capi d’abbigliamento e dei libri. Mi
impossessai con avidità di quel bottino e lo portai nella mia tana.
Fortunatamente i libri erano scritti nella lingua di cui avevo appreso gli
elementi al casolare: si trattava del Paradiso perduto, un volume delle Vite di
Plutarco e i Dolori del giovane Werther. Il possesso di questi tesori mi donò
grande diletto; ora, quando i miei amici erano impegnati nelle loro ordinarie
occupazioni, passavo il tempo a studiare e a esercitare la mia mente con
quelle storie.
«Mi è difficile descriverti l’effetto di quei libri, che generarono in me
un’infinità di nuove immagini e sensazioni, a volte portandomi all’estasi, più
spesso gettandomi nel più profondo avvilimento. Nei Dolori del giovane
Werther, al di là dell’interesse per la sua semplice e toccante storia, vengono
poste al vaglio così tante opinioni e si fa luce su tante di quelle cose che fino
a quel momento mi erano oscure che vi trovai un’inesauribile fonte di
riflessioni e stupore. Vi sono descritte maniere cortesi e semplici, combinate
a percezioni più alte, relative a qualcosa al di là dei confini personali, che
bene si intonavano alla mia esperienza con i miei protettori e con l’anelito
sempre vivo nel mio stesso petto. Consideravo Werther un essere più divino
di quanti ne avessi potuti incontrare o immaginare; il suo carattere, pur senza
pretese, penetrava in profondità. Le disquisizioni sulla morte e il suicidio
sembravano fatte apposta per riempirmi di meraviglia. Non avevo la
presunzione di entrare nel merito della questione, ma ero incline a
condividere le opinioni dell’eroe, di cui piansi la morte, anche senza
comprenderla bene.
«In ogni caso applicavo molto di quello che leggevo alla mia personale
esperienza e al mio sentire. Mi trovavo simile e al tempo stesso stranamente
diverso dagli esseri di cui leggevo, e da quelli di cui ascoltavo le
conversazioni. Simpatizzavo con loro, in parte li comprendevo, ma la mia
mente era immatura; io non dipendevo da nessuno e con nessuno avevo
legami. “Sgombra era la via della mia dipartita” e nessuno avrebbe lamentato
la mia scomparsa. La mia figura era orrenda, la mia statura gigantesca: cosa
voleva dire tutto questo? Chi ero? Che cosa ero? Da dove venivo? Qual era la
mia destinazione? Queste domande tornavano sempre, ma non riuscivo a
rispondere.
«Il volume delle Vite di Plutarco in mio possesso conteneva le storie dei
primi fondatori delle antiche repubbliche. Questo libro ebbe su di me un
effetto diverso dai Dolori del giovane Werther. Dalle fantasie di Werther
avevo compreso lo sconforto e la tristezza; Plutarco invece mi comunicò
pensieri elevati, portandomi oltre la ristretta sfera delle mie riflessioni, ad
ammirare e amare gli eroi di epoche passate. Molte delle cose che leggevo
erano al di là della mia comprensione e della mia esperienza. Avevo una
cognizione molto confusa di regni, ampie distese di campagna, fiumi possenti
e mari sconfinati. Ma delle città e di altri grandi raggruppamenti di esseri
umani non sapevo proprio nulla. Il casolare dei miei protettori era l’unica
scuola dove avessi studiato la natura umana; questo libro mi dischiudeva
campi d’azione nuovi e più vasti. Lessi di uomini occupati negli affari
pubblici che governavano o massacravano individui della loro stessa specie.
Sentii crescere in me il più grande anelito verso la virtù e la ripugnanza per il
vizio, per quel tanto che capivo del significato di queste parole che, per come
le potevo applicare io, si riferivano solo al piacere e al dolore. Questi
sentimenti mi spingevano ad ammirare i legislatori pacifici come Numa,
Solone e Licurgo, preferendoli a Romolo e a Teseo. Il sistema di vita
patriarcale dei miei protettori permetteva a queste immagini di radicarsi più
saldamente nel mio animo. Se il mio primo contatto con l’umanità fosse
avvenuto attraverso la vita di un giovane soldato, desideroso di gloria e di
stragi, forse sarei stato pervaso da altre sensazioni.
«Ma a provocare in me le emozioni più profonde, e diverse dalle altre, fu
il Paradiso perduto. Lo lessi come avevo letto gli altri volumi finiti nelle mie
mani, cioè come una storia vera. E smosse in me tutto quel senso di
meraviglia e timore che può suscitare l’immagine di un Dio onnipotente in
lotta con le sue creature. Spesso, colpito dalla somiglianza, riportavo le varie
situazioni alle mie. Io, come Adamo, ero stato creato privo di alcun legame
apparente con qualunque altro essere vivente, anche se, a parte questo, la sua
condizione era molto diversa dalla mia: era provenuto dalle mani di Dio come
creatura perfetta, felice e prospera, protetta dalla speciale cura del suo
Creatore; a lui era dato conversare con esseri di natura superiore, e da questi
ricavare conoscenza; io ero miserabile, disperato e solo. Molte volte
considerai che Satana fosse l’emblema più consono alla mia condizione,
perché spesso, come lui, quando osservavo la fortuna dei miei protettori,
sentivo crescere in me l’amaro fiele dell’invidia.
«Un altro episodio rafforzò e confermò questi sentimenti. Poco dopo
essere giunto alla mia tana avevo trovato delle carte nella tasca dell’abito
preso al tuo laboratorio. In un primo momento non vi avevo dato importanza,
ma ora che ero in grado di decifrare i caratteri con cui erano scritte, mi misi a
studiarle attentamente. Era il tuo diario dei quattro mesi che precedettero la
mia creazione. In queste pagine descrivevi con minuzia ogni passo che avevi
compiuto nel corso del tuo lavoro, contrappuntando qua e là la narrazione con
dettagli di vita domestica. Sono sicuro che ricordi queste carte. Eccole. Vi è
riportato tutto quanto concerne la mia maledetta origine; vi è illustrata
dettagliatamente tutta la serie di disgustosi eventi che la produssero; vi è
esposta la più minuziosa descrizione della mia spregevole e ripugnante
persona, con parole che descrivono il tuo orrore e che resero il mio indelebile.
Mi sentivo male nel leggerle. “Infausto il giorno in cui ricevetti la vita!”
esclamai nel tormento. “Maledetto creatore! Perché hai dato forma a un
mostro così orrendo, da cui perfino tu sei rifuggito con disgusto? Dio, nella
sua misericordia, creò l’uomo bello e attraente, a sua immagine e
somiglianza; invece le mie fattezze sono una sconcia versione delle tue, e la
somiglianza le rende ancora più abominevoli. Persino Satana aveva la
compagnia dei suoi diavoli, che lo ammiravano e lo incoraggiavano; io
invece sono solo e detestato”.
«Questi erano i miei pensieri nelle mie ore di sconforto e solitudine. Ma
quando contemplavo le virtù dei miei vicini, dal carattere così amabile e
benigno, mi convincevo che loro, accorgendosi della mia ammirazione per
quelle virtù, avrebbero provato compassione per me, e della mia deformità
non avrebbero tenuto conto. Potevano cacciare via dall’uscio uno che, per
quanto mostruoso, chiedeva soltanto la loro amicizia e pietà? A ogni modo
decisi di non disperare e di prepararmi invece a un incontro con loro che
avrebbe deciso il mio destino. Rimandai ancora di qualche mese, perché davo
una tale importanza al successo del mio tentativo da essere in preda al terrore
all’idea di un fallimento. E poi vedevo che le mie capacità intellettuali
progredivano così tanto con l’esperienza di ogni giorno che non volevo dare
inizio a questa impresa prima che un altro po’ di mesi arricchissero la mia
sapienza.
«Nel frattempo nel casolare v’erano stati alcuni mutamenti. La presenza
di Safie diffondeva felicità tra i suoi abitanti e mi accorsi anche che tra loro
regnava adesso un certo grado di benessere. Felix e Agatha dedicavano più
tempo agli svaghi e alla conversazione ed erano assistiti da inservienti nei
loro lavori. Non sembravano ricchi ma erano soddisfatti e felici, provavano
un senso di serenità e di pace, mentre i miei sentimenti si facevano ogni
giorno più tumultuosi. Con l’accrescersi delle mie conoscenze vedevo
soltanto sempre più chiaramente quant’ero derelitto. Continuavo ad
accarezzare speranze, questo è vero; ma quando vedevo la mia immagine
riflessa sull’acqua, o la mia ombra al chiaro di luna, queste svanivano come
quella fragile immagine e quell’ombra incostante.
«Provai a sconfiggere queste paure e a farmi forte in vista della prova a
cui avevo deciso di sottopormi nel giro di alcuni mesi; a volte lasciavo
persino i miei pensieri liberi di vagare irragionevolmente per campi
paradisiaci e mi spingevo a immaginare creature amabili e dolci che
compativano i miei sentimenti e mi facevano passare la tristezza, alleviandola
con i sorrisi dei loro volti angelici. Ma era solo un sogno: non v’era alcuna
Eva che placasse le mie pene, o con cui condividere i miei pensieri. Ero solo.
Avevo in mente la supplica di Adamo al suo Creatore; ma il mio dov’era? Mi
aveva abbandonato e io, col cuore amaro, lo maledicevo.
«Così passò l’autunno. Vidi, con sorpresa e dispiacere, le foglie appassire
e cadere, e la natura assumere di nuovo l’aspetto arido e tetro che aveva
quando per la prima volta avevo scoperto il bosco e l’amabile luna. Al clima
freddo non facevo troppo caso: la mia conformazione era più adatta a quello
che al caldo. Però provavo un grande diletto alla vista dei fiori, degli uccelli e
di tutti gli allegri ornamenti dell’estate; venendo a mancare questi, prestai più
attenzione agli abitanti del casolare. La loro felicità non diminuiva con la fine
dell’estate. Si amavano e si comprendevano l’un l’altro, la loro gioia
dipendeva da quella dell’altro e non mutava con le transitorie alterazioni del
mondo circostante. Più li vedevo più desideravo chiedere la loro protezione e
il loro affetto; il mio cuore si struggeva d’essere conosciuto e amato da queste
amabili creature, e la mia ambizione più alta era quella di vedere i loro
sguardi rivolti con affetto su di me. Non osavo pensare che li avrebbero
distolti con sdegno e orrore. Non mandavano mai via i poveri che bussavano
alla loro porta. È vero che io chiedevo tesori più preziosi di un po’ di cibo o
riposo; chiedevo gentilezza e simpatia, ma di queste non mi ritenevo del tutto
immeritevole.
«Avanzava l’inverno e così, dal mio risveglio alla vita, si consumava un
intero ciclo di stagioni. In quel periodo ero interamente concentrato sul mio
piano di introdurmi nel casolare dei miei protettori. Valutai molti progetti ma
infine scelsi quello di entrare nell’abitazione quando il vecchio cieco si fosse
trovato da solo. Avevo la sagacia di intuire che la bruttezza innaturale della
mia persona era stato il motivo principale dell’orrore di chi mi aveva
precedentemente incontrato. La mia voce era roca, ma non aveva niente di
terribile; pensai dunque che se in assenza dei suoi figli avessi potuto
conquistare la benevolenza e l’intercessione del vecchio De Lacey, avrei
potuto, grazie a lui, venire tollerato dai miei protettori più giovani.
«Un giorno, quando il sole splendeva sulle foglie rossicce sparse a terra e,
pur negando calore, emanava allegria, Safie, Agatha e Felix andarono a fare
una lunga passeggiata, lasciando il vecchio, per suo desiderio, da solo nel
casolare. Una volta che i figli se ne furono andati, lui prese la sua chitarra e
suonò diverse arie, tristi ma dolci, più dolci e più tristi di quelle che gli avevo
sentito suonare fino ad allora. Dapprima il suo volto era illuminato di letizia
ma, continuando a suonare, le preoccupazioni e la tristezza presero il
sopravvento; infine posò lo strumento e rimase a sedere assorto nei suoi
pensieri.
«Il mio cuore batteva veloce: quella era l’ora, il momento cruciale, che
avrebbe reso decisive le mie speranze, o vere le mie paure. La servitù era a
una fiera nelle vicinanze. V’era solo silenzio, dentro e intorno al casolare.
L’occasione era eccellente eppure, quando mi accinsi all’esecuzione del
piano, mi tremarono le gambe e caddi a terra. Mi rialzai e, esercitando tutta la
fermezza che possedevo, tolsi le tavole che avevo fissato all’ingresso della
mia tana per celare il mio nascondiglio. L’aria fresca mi inebriò e con
rinnovata determinazione mi avvicinai alla porta del loro casolare.
«Bussai. “Chi va là?” disse il vecchio. “Entrate”.
«Entrai e: “Perdonate l’intrusione” dissi, “sono in viaggio e abbisogno di
riposo; mi fareste una grande cortesia, se mi lasciaste restare qualche minuto
vicino al fuoco”.
«“Entrate” disse De Lacey, “proverò a soddisfare i vostri bisogni;
sfortunatamente i miei figli sono via di casa ed essendo io cieco temo che mi
sarà difficile procurarvi del cibo”.
«“Non datevi pena, ospite gentile, il cibo ce l’ho; quello di cui ho bisogno
è un po’ di calore e di riposo”.
«Mi sedetti e poi ci fu silenzio. Sapevo che ogni minuto era per me
prezioso, ma non riuscivo a decidere come iniziare la conversazione, finché
non fu il vecchio a rivolgersi a me.
«“Dal vostro linguaggio, straniero, deduco che siate del mio paese. Siete
francese?”
«“No. Ma sono cresciuto in una famiglia francese, e capisco solo questa
lingua. Intendo chiedere la protezione di alcuni amici che amo sinceramente,
e nutro una certa speranza di ricevere i loro favori”.
«“Sono tedeschi?”
«“No, sono francesi. Ma cambiamo argomento. Sono una creatura
sfortunata e abbandonata; mi guardo intorno e non ho parenti né amici al
mondo. Queste persone amabili, a cui mi rivolgo, non mi hanno mai visto, e
ben poco sanno di me. Ho tanta paura. Se fallisco con loro, sarò per sempre
un reietto”.
«“Non disperate. Non avere amici è certamente una sfortuna. Ma il cuore
degli uomini, se non è prevenuto da qualche evidente interesse personale, è
colmo di amore fraterno e carità. Confidate, dunque, nelle vostre speranze; se
questi amici sono veramente buoni e amorevoli, non c’è da disperare”.
«“Sono gentili, sono le più eccellenti creature del mondo. Ma
sfortunatamente hanno dei pregiudizi su di me. Io ho un buon carattere; fino a
oggi ho condotto una vita innocua e, in qualche modo, benefica; ma v’è un
pregiudizio fatale che gli offusca la vista e invece di vedere un amico
sensibile e gentile, vedono solo un mostro detestabile”.
«“Questa è una vera sfortuna; ma se davvero voi siete innocente, non
potete dimostrargli che si ingannano?”
«“Sto per tentare l’impresa; ed è proprio per questo che provo un terrore
così dirompente. Amo teneramente questi amici; a loro insaputa ho passato
molti mesi a fargli quotidiane gentilezze; ma loro credono che voglia fargli
del male, ed è questo pregiudizio che desidero sconfiggere”.
«“Dove abitano questi amici?”
«“Qui vicino”.
«Il vecchio fece una pausa, poi continuò: “Se mi confiderete senza riserve
i dettagli della vostra storia, forse potrò aiutarvi a farli ricredere. Sono cieco,
non posso giudicare il vostro aspetto. Ma c’è qualcosa nelle vostre parole che
mi induce a credere che siate sincero. Io sono povero, e in esilio; ma mi darà
grande piacere essere in qualche modo di aiuto a una creatura umana”.
«“Uomo eccellente! Vi ringrazio e accetto la vostra generosa offerta. Con
la vostra gentilezza mi sollevate dalla polvere; e confido che con il vostro
aiuto non sarò allontanato dalla comprensione e dalla compagnia dei vostri
simili”.
«“Che il Cielo non voglia! Neanche se foste un vero criminale, perché
questo potrebbe solo condurvi alla disperazione, invece di incitarvi alla virtù.
Anche io sono caduto in disgrazia; io e la mia famiglia siamo stati
condannati, pur essendo innocenti; capirete, dunque, se non posso fare a
meno di compatire le vostre sventure”.
«“Come posso ringraziarvi, mio sommo e unico benefattore? È dalle
vostre labbra che ho sentito per la prima volta rivolgermi parole gentili. Vi
sarò grato per sempre. La vostra comprensione umana mi assicura adesso del
successo con quegli amici che sto per incontrare”.
«“Potrei sapere il nome e il luogo in cui risiedono questi amici?”
«Feci una pausa. Questo, pensai, era il momento decisivo, quello che mi
avrebbe per sempre tolto o donato la felicità. Invano lottai per trovare la
fermezza sufficiente per rispondergli; ma quello sforzo mi privò di tutta
l’energia che mi restava, mi abbandonai su una sedia e scoppiai in singhiozzi.
E in quel momento udii i passi dei miei protettori più giovani. Non avevo un
momento da perdere; afferrai la mano del vecchio e gridai: “Adesso, questo è
il momento! Salvatemi e proteggetemi! Siete voi e la vostra famiglia gli amici
che cerco. Non mi abbandonate nell’ora del giudizio!”
«“Buon Dio!’ esclamò il vecchio. “Chi siete?”
«In quel momento si aprì la porta del casolare ed entrarono Felix, Safie e
Agatha. Chi potrebbe descrivere l’orrore e la costernazione che provarono nel
vedermi? Agatha svenne e Safie, non essendo in grado di soccorrerla, scappò
fuori. Felix balzò in avanti e con una forza soprannaturale mi strappò da suo
padre, alle cui ginocchia ero avvinto; in un impeto di furia, mi scaraventò a
terra e mi colpì violentemente con un bastone. Avrei potuto lacerarlo come il
leone sbrindella l’antilope. Ma mi mancò il cuore, che si affossò nel petto per
l’acuto dolore, e mi trattenni. Quando lo vidi sul punto di riassestare il colpo,
sconvolto da angoscia e dolore, scappai dal casolare e nel tumulto generale
riuscii a rifugiarmi, non visto, nella mia tana.
Capitolo ottavo
E adesso dov’è? Questo essere tanto caro e gentile è perduto per sempre?
Quella mente così piena di idee, con una immaginazione tanto fantasiosa e
magnifica che dava corpo a un mondo, che dipendeva unicamente
dall’esistenza del suo creatore; questa mente è perita? Adesso esiste solo nel
mio ricordo? No, non è così; si è corrotto il tuo corpo, così divinamente
scolpito e risplendente di bellezza, ma il tuo spirito ancora fa visita al tuo
infelice amico e lo consola.
Perdonate questo sfogo di dolore. Queste inutili parole sono soltanto un
esile tributo all’incomparabile valore di Henry, ma sono balsamo al mio
cuore che al ricordo trabocca di angoscia. Continuerò il mio racconto.
Superata Colonia, sbarcammo sulle piane olandesi e decidemmo di
proseguire il nostro viaggio in diligenza, perché il vento era contrario e la
corrente del fiume troppo debole per esserci di aiuto.
Qui il nostro viaggio perse l’interesse suscitato dalla bellezza del
paesaggio, ma in pochi giorni arrivammo a Rotterdam, dove prendemmo il
mare verso l’Inghilterra. E fu in un limpido mattino della fine di dicembre
che vidi per la prima volta le bianche scogliere britanniche. Le rive del
Tamigi offrivano un nuovo scenario: erano piatte ma fertili e quasi ogni città
era segnata dal ricordo di un evento storico.
Vedemmo Tilbury Fort e ricordammo l’Armada spagnola; e poi
Gravesend, Woolwich e Greenwich, luoghi di cui avevo sentito parlare anche
nel mio paese.
Infine vedemmo le numerose guglie di Londra, sulle quali svettava quella
di St. Paul, e la famosa Torre della storia d’Inghilterra.
Una sera sedevo nel mio laboratorio; il sole era tramontato e la luna stava
sorgendo dal mare proprio in quel momento. Non avevo abbastanza luce per
lavorare e me ne stavo lì, senza far niente, a riflettere se era il caso di
smettere per quella sera o tener duro e andare avanti, per affrettare la
conclusione dell’opera. Seduto lì, mi ritrovai a seguire un filo di pensieri che
mi portò a considerare le conseguenze di quello che stavo facendo. Tre anni
prima, coinvolto nella stessa occupazione, avevo creato un demonio la cui
ineguagliata barbarie mi aveva straziato il cuore, colmandolo per sempre del
più pungente rimorso. E ora stavo creando un altro essere del cui carattere ero
altrettanto ignaro; lei sarebbe potuta diventare diecimila volte più malvagia
del suo compagno, e deliziarsi di delitti e sciagure per il semplice gusto di
compierli. Lui aveva giurato che avrebbe abbandonato la vicinanza degli
uomini, nascondendosi nei deserti; ma lei no, e lei, che con ogni probabilità
sarebbe divenuta un animale pensante e ragionante, avrebbe potuto rifiutarsi
di adempiere a un patto stabilito prima della sua creazione. Magari si
sarebbero odiati l’un l’altra; la creatura che già esisteva provava ribrezzo per
la propria stessa deformità, non avrebbe potuto provarne ancora di più
trovandosi di fronte alla sua versione femminile? Ma anche lei avrebbe
potuto rifiutarlo con disgusto, paragonandolo alla superiore bellezza
dell’uomo. Lei avrebbe potuto andarsene, e lui si sarebbe trovato di nuovo
solo, esasperato da un nuovo oltraggio, quello di essere stato abbandonato da
una della sua specie.
Ma anche se avessero lasciato l’Europa per vivere nelle zone deserte del
Nuovo Mondo, uno dei primi risultati di quella comunione di cui il demone
era assetato sarebbero stati dei figli, e una razza di diavoli si sarebbe
propagata sulla terra, rendendo precaria e in preda al terrore l’esistenza stessa
della specie umana. Che diritto avevo io di infliggere una condanna simile
alle generazioni di tutti i tempi a venire per un mio vantaggio? Mi ero fatto
commuovere dai sofismi dell’essere da me creato, mi ero fatto stordire dalle
sue demoniache minacce ma adesso, per la prima volta, balenò nella mia
mente la nefandezza della mia promessa e mi vennero i brividi al pensiero
che le età future mi avrebbero maledetto come una peste, come colui che per
egoismo non aveva esitato a comprarsi la sua pace al prezzo, forse,
dell’esistenza dell’intera razza umana.
Presi a tremare e mi sembrò che il cuore si fermasse; a quel punto alzai lo
sguardo e vidi, alla luce della luna, il demone alla finestra. Mi guardava con
le labbra contorte in un orribile ghigno, mentre io sedevo intento al compito
che lui mi aveva assegnato. Sì, mi aveva seguito nei miei viaggi; si era
attardato nelle foreste, nascosto nelle caverne o rifugiato nelle immense e
deserte brughiere; veniva adesso a controllare i miei progressi e a reclamare
l’adempimento della mia promessa.
Quando lo vidi, il suo volto esprimeva la più estrema malvagità e perfidia.
Provai una sensazione di pazzia al pensiero della mia promessa di creare un
altro essere come lui e, tremando di collera, feci a pezzi la cosa a cui stavo
lavorando. L’infame mi osservò distruggere la creatura dalla cui futura
esistenza dipendeva la sua felicità ed emettendo un urlo che esprimeva
diabolica disperazione e desiderio di vendetta, si eclissò.
Uscii dalla stanza, serrai la porta e giurai solennemente, con tutto il mio
cuore, che mai avrei ripreso quel lavoro; quindi, a passi tremanti, mi recai
nella mia camera. Ero solo; non v’era nessuno vicino a me a dissipare
l’angoscia e lenire la malefica oppressione delle più orribili fantasie.
Trascorsi varie ore alla finestra con gli occhi fissi sul mare; era quasi
immobile, perché il vento era calato e tutta la natura riposava sotto lo sguardo
della quieta luna. Le acque erano chiazzate da poche imbarcazioni da pesca e
di tanto in tanto una brezza gentile portava il suono delle voci dei pescatori
che si chiamavano l’un l’altro. Percepivo quel silenzio, senza rendermi conto
di quanto fosse profondo, finché il mio orecchio venne d’un tratto colpito da
un rumore di remi presso la riva e vidi una persona che sbarcava vicino alla
mia casa.
Pochi minuti dopo sentii scricchiolare la porta, come se qualcuno stesse
tentando di aprirla lentamente. Tremai dalla testa ai piedi; avevo il
presentimento di chi potesse essere e mi venne voglia di svegliare uno dei
contadini che abitavano in un casolare non lontano dal mio; ma fui
sopraffatto da una sensazione di impotenza, di quelle che così spesso si
provano nei sogni paurosi, quando cerchi invano di scampare a un pericolo
imminente, e non riuscii a muovermi, restando inchiodato dov’ero.
Di lì a poco udii un rumore di passi nel corridoio, la porta della mia
stanza si aprì e apparve lo sciagurato che temevo di vedere. Chiuse la porta,
mi si avvicinò e disse, con voce soffocata: «Hai distrutto il lavoro che avevi
cominciato. Che intenzioni hai? Osi rompere la tua promessa? Io ho
sopportato fatiche e sofferenza; ho lasciato la Svizzera insieme a te,
furtivamente ho percorso le rive del Reno, sono passato tra le sue isole
verdeggianti o sulla cima dei suoi colli. Ho dimorato per tanti mesi nelle
brughiere dell’Inghilterra e tra le zone disabitate della Scozia. Mi sono
sottoposto a sforzi incalcolabili, e al freddo e alla fame: e tu osi distruggere le
mie speranze?»
«Vattene! Sì, rompo la mia promessa. Non creerò mai un essere come te,
tanto deforme e malvagio».
«Schiavo! Finora ho ragionato con te, ma tu ti sei dimostrato
immeritevole della mia accondiscendenza. Ricorda il mio potere: tu ti ritieni
miserabile, ma io posso renderti così sciagurato da farti odiare la luce del
sole. Tu sei il mio creatore, ma io sono il tuo padrone: obbedisci!»
«Il mio momento di debolezza è passato ed è arrivato il tempo del tuo
potere. Le tue minacce non possono portarmi a compiere un atto così nefasto,
e invece rafforzano la mia decisione di non creare per te una compagna nel
male. Dovrei io, a sangue freddo, scatenare sulla terra un demone che si
diletta di morte e sciagura? Vattene! Sono irremovibile e le tue parole
possono soltanto esasperare la mia ira».
Il mostro vide la determinazione sul mio viso e digrignò i denti per
l’impotenza della rabbia. «Potrà ogni uomo dunque» gridò «stringere al petto
una moglie, ogni bestia accoppiarsi e solo io restare solo? Ho provato
sentimenti di affetto, e sono stati ricambiati da odio e disprezzo. Uomo, tu
puoi anche detestarmi, ma attento! Le tue ore passeranno nel terrore e nel
dolore, e presto cadrà la folgore che ti strapperà per sempre dalla tua felicità.
Tu dovresti essere felice mentre io mi piego al giogo della mia disperazione?
Puoi inaridire le altre mie passioni, ma quella per la vendetta resta, la
vendetta d’ora in poi sarà per me cosa più cara della luce o del cibo! Può
darsi che io muoia, ma prima, tu, mio tiranno e tormento, maledirai il sole che
contempla la tua sventura. Fa’ attenzione, perché io non ho paura, e dunque
sono molto potente. Ti sorveglierò con l’astuzia di un serpente, in attesa del
momento in cui iniettare il mio veleno. Uomo, ti pentirai delle ferite che
infliggi».
«Taci, demonio. Non appestare l’aria con questi suoni di malvagità. Ti ho
reso nota la mia decisione e non sono così codardo da piegarmi alle parole.
Lasciami, sono inesorabile».
«Va bene. Me ne vado. Ma ricorda: sarò con te la tua prima notte di
nozze».
Balzai in avanti, esclamando: «Farabutto! Prima di firmare la mia
condanna a morte, accertati di essere in salvo tu stesso».
Avrei voluto afferrarlo, ma lui riuscì a eludere la mia presa e si precipitò
fuori dalla casa. In pochi attimi lo vidi nella sua barca, lanciarsi sull’acqua
con la velocità di una freccia, e presto scomparve tra le onde.
Di nuovo era tutto silenzio, ma le sue parole mi rombavano in testa.
Bruciavo di rabbia, volevo inseguire chi aveva ucciso la mia pace e affogarlo
nell’oceano. Per l’agitazione camminavo avanti e indietro per la stanza, a
passi svelti, e intanto la mia mente produceva migliaia di immagini che mi
tormentavano e mi ferivano. Perché non lo avevo inseguito, ingaggiando con
lui una lotta mortale? No, l’avevo lasciato fuggire e lui si era diretto verso la
terraferma. Rabbrividivo al pensiero di chi sarebbe stata la prossima vittima,
sacrificata alla sua insaziabile sete di vendetta. E ripensai alle sue parole:
«Sarò con te la tua prima notte di nozze». Era quello dunque il tempo
stabilito per il compimento del mio destino. A quell’ora sarei morto,
soddisfacendo ed estinguendo in un colpo solo la sua malvagità. La
prospettiva non mi spaventava, ma pensando alla mia amata Elizabeth – le
sue lacrime e l’interminabile dolore nel trovare il suo amato così
barbaramente strappato a lei – mi sgorgarono dagli occhi le prime lacrime
versate dopo molti mesi, e decisi di non arrendermi al nemico senza una dura
lotta.
Passò la notte e il sole si levò dall’oceano; i miei sentimenti si calmarono,
se di calma si può parlare quando la violenza della rabbia si inabissa nella
disperazione. Uscii da quella casa, l’odiosa ambientazione dell’alterco della
sera precedente, e mi misi a camminare sulla riva di quel mare che quasi mi
sembrò un’insuperabile barriera tra me e i miei simili; anzi, mi attraversò il
furtivo desiderio che le cose stessero proprio così. Desiderai di poter passare
il resto della mia vita sopra quel nudo scoglio, stentatamente, certo, ma senza
l’improvviso irrompere di traumi devastanti. Se tornavo, ero destinato a
venire sacrificato, o a veder morire coloro che amavo per mano di un demone
che io stesso avevo creato.
Camminavo per l’isola come uno spettro inquieto, separato da tutto ciò
che amavo e sofferente per la separazione. Quando arrivò mezzogiorno, e il
sole si levò più in alto, mi stesi sull’erba e venni sopraffatto da un sonno
profondo. Avevo passato la notte sveglio, i miei nervi erano scossi e i miei
occhi rossi per la veglia e la tristezza. Il sonno in cui sprofondai mi ristorò e
quando mi destai sentii nuovamente di appartenere a una razza di esseri
umani come me e cominciai a riflettere sull’accaduto con più lucidità, per
quanto ancora mi rimbombassero nelle orecchie come campane a morto le
parole del demone; sembravano quelle di un sogno ma erano nitide e
opprimenti come una realtà.
Il sole era calato parecchio e io sedevo ancora sulla riva, sfamando il mio
appetito, che si era fatto vorace, con una focaccia d’avena, quando vidi una
barca di pescatori approdare vicino a me, e uno degli uomini mi portò un
pacchetto; conteneva alcune lettere da Ginevra e una di Clerval, che mi
incitava a raggiungerlo. Diceva che era passato quasi un anno da quando
avevamo lasciato la Svizzera, e non avevamo ancora visitato la Francia. Mi
invitava dunque ad abbandonare la mia isola solitaria per incontrarlo a Perth,
di lì a una settimana, dove avremmo potuto organizzare la rotta dei nostri
spostamenti a venire. Questa lettera mi richiamò in qualche misura alla vita e
decisi di lasciare l’isola allo scadere di due giorni.
Ma prima di partire v’era da assolvere un compito al cui pensiero
rabbrividivo. Dovevo imballare i miei strumenti chimici e per farlo dovevo
entrare nella stanza dove si era svolto il mio odioso lavoro; avrei dovuto
riprendere in mano quegli strumenti la cui sola vista mi faceva stare male. Il
mattino seguente, allo spuntare del giorno, trovai il coraggio sufficiente e
aprii la porta del mio laboratorio. I resti della creatura incompiuta, da me
distrutta, erano sparsi sul pavimento, e quasi mi sembrò di avere straziato la
carne viva di un essere umano. Mi presi un momento per raccogliere le forze
e poi entrai nella stanza. Portai fuori gli strumenti con mani tremanti ma
pensai anche di non poter lasciare lì i resti del mio lavoro che avrebbero
suscitato l’orrore e il sospetto dei contadini, quindi li raccolsi in un cesto,
insieme a una grande quantità di pietre, e li misi da parte, deciso a gettarli in
mare quella notte stessa. Nel frattempo sedetti sulla spiaggia a ripulire e
riordinare la mia strumentazione.
Non potrebbe esservi mutamento più radicale di quello occorso ai miei
sentimenti dalla notte in cui era apparso il demone. Fino ad allora avevo
considerato la mia promessa con triste rassegnazione, come una cosa che
dovesse essere mantenuta a ogni costo; ora invece sentivo che mi era caduto
un velo dagli occhi e che per la prima volta potevo vedere chiaramente. Non
mi passò per la testa neanche per un istante l’idea di rimettermi al lavoro; la
minaccia che avevo ricevuto opprimeva i miei pensieri, ma non ritenni di
potermi opporre con un atto della volontà. Mi era ormai chiaro che creare un
altro demone come quello che avevo già fatto sarebbe stato un atto del più
vile e atroce egoismo e scacciai dalla mia mente qualunque pensiero potesse
portarmi a una conclusione diversa.
La luna sorse tra le due e le tre del mattino; a quel punto misi il mio cesto
su una piccola barca e mi allontanai di circa quattro miglia dalla riva. Era una
scena di perfetta solitudine; v’erano alcune barche che ritornavano a riva, ma
io me ne ero tenuto lontano. Mi sentivo come sul punto di compiere un
crimine orrendo, ed evitavo, con ansia tremante, qualunque incontro con i
miei simili. A un certo punto la luna, limpida fino ad allora, venne
improvvisamente ricoperta da una densa nube e approfittai di quel momento
di buio per gettare il mio cesto nel mare; stetti ad ascoltare il gorgoglio
mentre affondava e poi mi allontanai da lì. Tutto il cielo si annuvolò, ma
l’aria restò pura, per quanto fredda a causa di una brezza di nord-est che si
stava alzando. Mi rinfrescò e mi riempì di sensazioni così gradevoli che
decisi di prolungare la mia permanenza in acqua e, bloccato il timone, mi
distesi sul fondo dell’imbarcazione. Le nubi nascondevano la luna, ogni cosa
era avvolta dalle tenebre e sentivo solo il rumore della barca, la chiglia che
fendeva le onde; quel mormorio mi cullò e molto presto dormivo
profondamente.
Non so quanto restai in quello stato, ma quando mi svegliai mi accorsi
che il sole era già parecchio alto. Il vento era forte e le onde minacciavano
continuamente la mia piccola scialuppa. Mi resi conto che il vento veniva da
nord-est e mi aveva spinto lontano dalla costa da cui ero partito. Cercai di
indirizzare la mia rotta ma presto mi accorsi che se avessi nuovamente tentato
di cambiarla l’imbarcazione si sarebbe riempita d’acqua in un attimo. In
quelle condizioni la mia unica risorsa era lasciarmi portare dal vento.
Confesso di avere provato sensazioni di terrore. Non avevo una bussola e
avevo così poca familiarità con quella parte del mondo che il sole non mi era
di grande aiuto. Sarei potuto finire in pieno Atlantico e lì provare tutti i
crampi della fame o venire inghiottito nelle acque sconfinate che ruggivano e
sferzavano intorno a me. Ero fuori già da molte ore e provavo il tormento di
una sete ardente, preludio delle sofferenze a venire. Guardai il cielo coperto
di nuvole mosse dal vento a cui succedevano altre nuvole; guardai il mare,
sarebbe stato la mia tomba. «Demone» esclamai, «la tua missione si
compie!» Pensai a Elizabeth, a mio padre, a Clerval e venni trasportato in un
flusso di immagini così spaventose e disperate che persino adesso, quando
l’ultimo atto per me si sta chiudendo per sempre, rabbrividisco al pensiero.
Così passarono alcune ore. Poi gradualmente il sole cominciò a calare
all’orizzonte, il vento scemò in una brezza gentile e dal mare scomparvero gli
impetuosi cavalloni. A questi però succedettero grandi onde lunghe: mi venne
il mal di mare e quasi non riuscivo a governare il timone quando d’un tratto
scorsi verso sud la sagoma di una costa scoscesa.
Sfinito com’ero dalla fatica e dalla tremenda tensione che avevo sostenuto
per parecchie ore, sentii quella improvvisa certezza di vita salirmi al cuore
come un caldo flusso di gioia e mi sgorgarono le lacrime dagli occhi.
Quanto sono mutevoli i nostri sentimenti e com’è strano quell’amore con
cui ci abbarbichiamo sempre alla vita, anche nell’estrema sofferenza! Feci
una nuova vela con un pezzo del mio abito e mi diressi con entusiasmo verso
terra. Aveva un aspetto selvaggio e roccioso, ma avvicinandomi potei
facilmente scorgervi tracce di coltivazione. Vidi delle imbarcazioni vicino
alla riva e mi sentii improvvisamente riportato nella società degli uomini
civili. Scrutai attentamente le insenature della costa fino a che scorsi un
campanile che si ergeva da dietro un piccolo promontorio. Nelle mie
condizioni di estrema debolezza, decisi di fare vela direttamente verso la
città, dove più facilmente mi sarei procurato del cibo. Per fortuna avevo del
denaro con me. Superato il promontorio vidi una piccola e graziosa cittadina
e un porto sicuro, nel quale entrai con il cuore pulsante di gioia per la mia
inaspettata salvezza.
Mentre ero occupato a legare la barca e sistemare le vele, si avvicinarono
molte persone. Sembravano molto sorprese di vedermi, ma invece di offrirmi
un qualche aiuto, bisbigliavano tra loro con gesti che in qualunque altro
momento avrebbero prodotto in me una leggera sensazione di allarme. Per
come stavano le cose, badai soltanto al fatto che parlavano inglese, e dunque
in quella lingua mi rivolsi a loro: «Buoni amici» dissi, «sareste così gentili da
dirmi il nome di questa città e informarmi su dove mi trovo?»
«Lo saprete molto presto» replicò un uomo in tono burbero. «Forse siete
giunto in un luogo che non vi sarà molto gradito; ma non vi sarà chiesto dove
desideriate alloggiare, ve lo assicuro».
Fui estremamente sorpreso di ricevere una risposta così rude da un
estraneo e inoltre rimasi sconcertato nel vedere i volti accigliati e arrabbiati
dei suoi compagni. «Perché mi rispondete così sgarbatamente?» gli chiesi.
«Non è certo usanza degli inglesi accogliere in un modo così inospitale gli
stranieri».
«Non so» disse l’uomo «quale sia l’usanza degli inglesi, ma è usanza
degli irlandesi odiare i delinquenti».
Mentre questo strano dialogo proseguiva, mi accorsi che il capannello di
persone si faceva più numeroso. Le loro facce esprimevano un misto di
curiosità e rabbia che mi infastidiva e in una certa misura mi preoccupava.
Chiesi la strada per la locanda, ma nessuno mi rispose. Mi incamminai e un
mormorio si levò dalla folla che, circondandomi, mi veniva dietro. A quel
punto si avvicinò un uomo dall’aria torva, mi batté una mano sulla spalla e mi
disse: «Venite, signore, dovete seguirmi da Mr. Kirwin per dare informazioni
sul vostro conto».
«Chi è Mr. Kirwin? E perché devo dare informazioni sul mio conto? Non
è un paese libero questo?»
«Lo è, signore, per la gente onesta. Mr. Kirwin è un magistrato e voi
dovete rendere conto della morte di un gentiluomo trovato assassinato qui la
notte scorsa».
Questa risposta mi fece trasalire, ma mi ripresi subito. Ero innocente, lo si
poteva provare con facilità. Quindi seguii la mia guida in silenzio e venni
condotto a una delle più belle case della città. Sarei potuto crollare a terra per
la fatica e la fame, ma circondato da quella folla pensai fosse più prudente
raccogliere tutte le mie forze per evitare che la debolezza fisica venisse
interpretata come un indizio di ansia o colpevolezza. In quel momento non
potevo immaginare quale calamità mi avrebbe travolto di lì a poco, e come
ogni paura di morte o ignominia sarebbe stata estinta dall’orrore e dalla
disperazione.
Qui devo fare una pausa. Mi serve tutta la mia forza d’animo per suscitare
il ricordo dei terribili eventi che sto per raccontare in tutti i dettagli.
Capitolo quarto
«A Victor Frankenstein
«Carissimo amico,
mi ha fatto un estremo piacere ricevere una lettera di mio zio da Parigi. Non
siete più a una distanza insormontabile e posso sperare di rivederti in meno di
quindici giorni. Povero cugino mio, quanto devi avere sofferto! Mi aspetto di
trovarti in condizioni di salute peggiori di quando sei partito da Ginevra.
L’inverno è trascorso molto tristemente, per l’ansia e l’attesa che mi hanno
torturata; e tuttavia spero di scorgere pace sul tuo viso e di scoprire che il tuo
cuore non sia del tutto scevro di conforto e tranquillità.
«Pure temo che siano ancora vivi quegli stessi sentimenti che ti
rattristavano tanto un anno fa, forse ancora di più con il tempo. Non ti
disturberei in un momento come questo, così gravoso per le sciagure che hai
passato, se non fosse che una conversazione avuta con mio zio prima della
sua partenza rende necessaria una qualche spiegazione prima che ci
incontriamo.
«Spiegazione! potresti dire tu. Che mai dovrà spiegarmi Elizabeth? Se è
questa la tua reazione, allora le mie domande hanno trovato risposta e non
devo fare altro che firmarmi la tua affezionata cugina. Ma sei distante da me
ed è possibile che questo chiarimento tu lo tema e al tempo stesso lo desideri;
quindi, nella probabilità che così stiano le cose, non posso più permettermi di
rimandare di scrivere ciò che durante la tua assenza ho spesso desiderato
dirti, ma non trovavo mai il coraggio di iniziare.
«Tu sai bene, Victor, che il progetto della nostra unione è stato sempre
accarezzato dai tuoi genitori fin dalla nostra infanzia. Ci è stato comunicato
da piccoli e ci hanno insegnato ad aspettarcelo come una cosa che sarebbe
certamente avvenuta. Da bambini tu e io eravamo affezionati compagni di
giochi e quando siamo cresciuti, io credo, siamo diventati buoni amici, cari
l’uno all’altra. Ma un fratello e una sorella nutrono spesso un caro affetto
l’uno per l’altra senza desiderare per questo una più intima unione; e non
potrebbe essere così anche per noi? Dimmelo, carissimo Victor, rispondimi, ti
prego, in nome della nostra reciproca felicità, in modo sincero: sei
innamorato di un’altra?
«Hai viaggiato, hai passato tanti anni della tua vita a Ingolstadt; ti
confesso, amico mio, che quando lo scorso autunno ti vedevo così infelice, e
rifuggire la compagnia di ogni creatura, in cerca di solitudine, non ho potuto
fare a meno di supporre che il nostro legame ti rincrescesse, sentendoti
vincolato a onorare il desiderio dei tuoi genitori, per quanto fosse contrario
alle tue inclinazioni. Ma è sbagliato ragionare così. Confesso, cugino, di
amarti e che nei miei eterei sogni sul futuro sei sempre stato il mio fedele
amico e compagno. Ma desidero la tua felicità quanto la mia e ti dichiaro che
il nostro matrimonio mi renderebbe infelice per sempre se non fosse dettato
da una tua libera scelta. Piango al pensiero che tu, già provato come sei dalle
sciagure più crudeli, possa soffocare, in nome dell’onore, ogni speranza di
amore e felicità che solo potrebbero ricondurti a te stesso. Io, che per te nutro
tanto affetto, mi troverei a decuplicare la tua afflizione facendo da ostacolo
alla realizzazione dei tuoi desideri. Ah, Victor, sappi per certo che tua cugina
e la tua compagna di giochi prova per te un amore troppo sincero per non
essere affranta a un tale pensiero. Sii felice, amico mio, e se mi obbedirai in
questa unica richiesta, sta’ sicuro che niente al mondo avrà il potere di
interrompere la mia tranquillità.
«Non permettere a questa lettera di disturbarti. Non rispondere domani, e
nemmeno dopodomani, non rispondere fino a quando non sarai tornato, se ti
dovesse dare pena. Mio zio mi manderà notizie della tua salute. E se quando
ci incontreremo vedrò anche un solo sorriso sulle tue labbra, dovuto a questo
o qualsiasi altro mio tentativo, non chiederò altra felicità.
Elizabeth Lavenza
Ginevra, 18 maggio 17**»
Questa lettera mi ricordò ciò che avevo dimenticato, la minaccia del demone:
«Sarò con te la tua prima notte di nozze». Questa era la mia condanna; quella
notte il demonio avrebbe usato ogni arte per distruggermi e strapparmi da
quell’accenno di felicità che prometteva una parziale consolazione per le mie
sofferenze. Lui aveva stabilito che quella notte avrebbe coronato i suoi
crimini con la mia morte. E allora, che così fosse. Avrebbe certamente avuto
luogo una lotta mortale nella quale, se avesse vinto lui, io avrei trovato pace e
il suo potere su di me sarebbe terminato. Se lui avesse perso, io sarei stato un
uomo libero. Ahimè! Quale libertà? Quella del contadino a cui è stata
massacrata la famiglia davanti agli occhi, bruciata la casa, inaridita la terra e
vaga alla deriva, senza dimora, senza un soldo, solo, ma libero. Questa
sarebbe stata la mia libertà, salvo avere per me un tesoro come Elizabeth ma,
ahimè, controbilanciato dagli orrori del rimorso e della colpa, che mi
avrebbero perseguitato fino alla morte.
Dolce e beneamata Elizabeth! Leggevo e rileggevo la sua lettera e nel mio
cuore s’insinuarono sentimenti più teneri, e osai sussurrare paradisiaci sogni
di amore e gioia; ma la mela era già morsa e la spada sguainata dell’angelo
mi precludeva la via a ogni speranza. Eppure avrei dato la vita per renderla
felice. Se il mostro avesse realizzato la sua minaccia, la morte era inevitabile;
tuttavia, di nuovo, mi domandai se il mio matrimonio avrebbe affrettato il
mio destino. La mia fine sarebbe in effetti potuta arrivare qualche mese
prima; ma se il mio aguzzino avesse sospettato che io la rimandassi
influenzato dalle sue minacce, avrebbe certamente trovato altri mezzi per
vendicarsi, forse anche più terribili. Aveva giurato che sarebbe stato con me
la prima notte di nozze, ma non riteneva quella minaccia un obbligo di pace
nel frattempo; infatti, per mostrarmi che non era ancora sazio di sangue,
aveva ucciso Clerval immediatamente dopo la proclamazione delle sue
minacce. Decisi dunque che se l’immediata unione con mia cugina avrebbe
portato alla sua felicità o a quella di mio padre, i disegni del mio avversario
contro la mia vita non l’avrebbero ritardata nemmeno di un’ora.
Scrissi a Elizabeth con questo stato d’animo. La mia lettera era pacata e
piena d’affetto. «Temo, mia amata ragazza» dissi, «che a noi rimanga ben
poca letizia su questa terra, ma tutta quella che potrò un giorno gustare è
concentrata in te. Spazza via le tue inutili paure; soltanto a te consacro la mia
vita e ogni mio impegno a essere contento. Ho un segreto, Elizabeth, un
segreto terribile; quando te lo rivelerò, tutto il tuo corpo raggelerà d’orrore e a
quel punto, lungi dall’essere sorpresa per la mia disperazione, ti chiederai
soltanto come abbia fatto a sopravvivere a quanto ho sopportato. Ti confiderò
questa storia di tormento e di orrore il giorno seguente al nostro matrimonio
perché, dolce cugina, tra noi ci deve essere totale confidenza. Fino ad allora,
però, ti prego di non parlarne e non alludervi mai. Questa è la mia profonda
supplica e so che la esaudirai».
Circa una settimana dopo l’arrivo della lettera di Elizabeth eravamo a
Ginevra. Mia cugina mi accolse con caloroso affetto, pur con le lacrime agli
occhi nel vedermi così emaciato e consumato dalla febbre. Anche io la vidi
cambiata. Era più magra e aveva perso tanta di quella celestiale vivacità che
un tempo mi aveva incantato. La sua gentilezza, però, e i suoi teneri sguardi
compassionevoli la rendevano una compagna più adatta a un essere distrutto
e miserabile come me.
La tranquillità che per un momento provai non durò a lungo. I ricordi
riaffioravano e con loro la follia; quando pensavo a ciò che era accaduto, ero
preda di un vero squilibrio. A volte ero furioso e ardevo di rabbia, altre
depresso e scoraggiato. Non parlavo, non guardavo: stavo seduto immobile,
sconcertato dalla moltitudine di pene che mi sopraffaceva.
Soltanto Elizabeth aveva il potere di tirarmi fuori da queste crisi: la sua
voce gentile mi placava quando ero in preda alla passione e riaccendeva in
me sentimenti umani quando sprofondavo nel torpore. Lei piangeva con me,
e per me. Quando ritornavo alla ragione mi rimproverava e cercava di
ispirarmi alla rassegnazione. Ah, rassegnarsi va bene per gli sfortunati, ma
per i colpevoli non v’è pace! Gli strazi del rimorso avvelenano anche quel
lusso che talvolta ci si concede abbandonandosi agli eccessi del dolore.
Poco dopo il mio arrivo mio padre parlò dell’imminente matrimonio con
mia cugina. Io rimasi in silenzio.
«Hai dunque qualche altro legame?»
«Nessuno al mondo. Amo Elizabeth e aspetto con letizia che si compia la
nostra unione. Fissiamo il giorno in cui mi consacrerò, nella vita o nella
morte, alla felicità di mia cugina».
«Mio caro Victor, non parlare così. Siamo stati colpiti da gravi sciagure;
possiamo solo aggrapparci un po’ più stretti a quanto ci rimane e indirizzare
l’amore per coloro che abbiamo perduto su quelli che vivono ancora. La
nostra cerchia sarà piccola, ma tenuta insieme da legami di affetto e comune
sventura. E quando il tempo avrà mitigato la tua disperazione, nasceranno
nuovi e cari oggetti per le nostre cure, che rimpiazzeranno quelli di cui siamo
stati così crudelmente privati».
Questi erano i precetti di mio padre. Ma in me riaffiorava il ricordo della
minaccia e non stupirete che, per come il demone si era mostrato onnipotente
nei suoi atti sanguinari, io lo ritenessi invincibile; e che da quando aveva
pronunciato le parole: «Sarò con te la tua prima notte di nozze» ritenessi
inevitabile il compimento di quel maledetto fato. Ma la morte per me non era
un male, in confronto alla perdita di Elizabeth e dunque io, con volto
soddisfatto e persino allegro, concordai con mio padre che, se mia cugina
acconsentiva, la cerimonia avrebbe avuto luogo di lì a dieci giorni, mettendo
così, o così immaginavo, il sigillo sul mio destino.
Buon Dio! Se solo per un istante avessi pensato a quale potesse essere
l’infernale intenzione del mio diabolico avversario, mi sarei costretto a un
esilio perpetuo dal mio paese natale e avrei vagato come un reietto senza
amici per l’intero globo, piuttosto che acconsentire a quello sciagurato
matrimonio. Invece, come se possedesse poteri magici, il mostro mi aveva
reso cieco alle sue reali intenzioni, e mentre pensavo di andare incontro
unicamente alla mia morte, affrettavo quella di una vittima molto più cara.
Con l’avvicinarsi della data del nostro matrimonio, fosse codardia o
un’intuizione profetica, mi sentivo mancare il cuore. Però mascheravo i miei
sentimenti dietro un’apparente ilarità che portò il sorriso e la gioia sul volto
di mio padre, mentre non riuscì a ingannare l’occhio sempre attento e molto
più acuto di Elizabeth. Guardava alla nostra unione con una contentezza
placida, non scevra di un po’ di paura, generata dalle passate disgrazie, che
ciò che adesso ci appariva come gioia tangibile e certa potesse presto
sfilacciarsi in un sogno evanescente che non avrebbe lasciato alcuna traccia
se non un profondo ed eterno rimpianto.
Si fecero i preparativi per l’evento; ricevemmo le visite di auguri e
mostrammo tutti un’aria sorridente. Io tenevo rinchiusa nel mio cuore, come
meglio potevo, l’ansia di cui ero preda e partecipavo con apparente
scrupolosità ai piani di mio padre, per quanto sarebbero forse risultati solo
orpelli alla mia tragedia. Venne comprata per noi una casa nei pressi di
Cologny, dove avremmo potuto godere dei piaceri della campagna restando
tuttavia abbastanza vicini a Ginevra per poter fare visita ogni giorno a mio
padre, che avrebbe abitato ancora all’interno delle mura per permettere a
Ernest di seguitare i suoi studi nelle scuole cittadine.
Nel frattempo presi ogni precauzione per proteggere la mia persona, nel
caso in cui il demone mi attaccasse apertamente. Portavo sempre con me
pistole e pugnale ed ero sempre in guardia nel prevenire tranelli; così facendo
mi sentivo un po’ più tranquillo. A dire il vero, approssimandosi la data, la
minaccia mi sembrava sempre più un’allucinazione da non considerare degna
di disturbare la mia pace, mentre la gioia che mi ripromettevo di ricevere con
il matrimonio si rivestiva sempre più di realtà man mano che si avvicinava il
giorno stabilito per la cerimonia e io ne sentivo continuamente parlare come
di un evento che non poteva venire ostacolato da nessun incidente.
Elizabeth sembrava felice e il mio comportamento tranquillo contribuiva
molto a rasserenarla. Ma il giorno in cui si sarebbero realizzati i miei desideri
e il mio destino, lei era malinconica, pervasa da un cattivo presentimento;
forse pensava anche al terribile segreto che avevo promesso di rivelarle il
giorno seguente. Invece mio padre sprizzava gioia e, nel trambusto dei
preparativi, vedeva nella malinconia della nipote solo la timidezza della
novella sposa.
Celebrata la cerimonia, un numeroso gruppo di persone si radunò a casa
di mio padre, mentre era stato deciso che io ed Elizabeth avremmo passato il
pomeriggio e la notte a Evian, per tornare a Cologny la mattina dopo.
Siccome era una bella giornata e il vento era a favore, decidemmo di andare
via lago.
Furono gli ultimi momenti della mia vita in cui provai il sentimento della
felicità. Attraversammo il lago rapidamente; il sole era caldo ma ci
proteggeva dai suoi raggi una specie di tettuccio, che comunque ci
permetteva di goderci il panorama: ora da quella parte del lago dove si
vedevano il Monte Salève, le graziose rive di Montalègre e a distanza,
sovrastante, il bellissimo Monte Bianco con tutto il gruppo di montagne
ricoperte di neve che invano cerca di emularlo; e ora dall’altra, costeggiando
le rive opposte, dove vedevamo il possente Giura, che oppone il suo versante
scuro all’ambizioso che intenda lasciare il paese natio e che fa da barriera
quasi insormontabile all’invasore che vorrebbe sottometterlo.
Presi la mano di Elizabeth. «Sei triste, amore mio. Ah! Se tu sapessi
quello che ho passato, e quello che potrei dover ancora sopportare, proveresti
a farmi gustare la quiete e l’assenza di disperazione che questo giorno almeno
mi permette di provare».
«Sii felice, mio caro Victor» replicò Elizabeth. «Spero che nulla ti
addolori, e stai certo che, anche se sul mio viso non è dipinta una gioia
vivace, ho il cuore contento. Qualcosa mi suggerisce di non fare troppo
affidamento sul futuro che si offre a noi, ma non voglio ascoltare una voce
tanto sinistra. Guarda come andiamo veloci e come il movimento delle
nuvole, che ora coprono la cima del Monte Bianco, ora si levano sopra di
essa, renda questo splendido paesaggio ancora più attraente. Guarda quanti
pesci nuotano nell’acqua chiara, così chiara da poter distinguere ogni
sassolino sul fondo. Che giornata divina! Come si mostra felice e serena tutta
la natura!»
In questo modo Elizabeth provava a distogliere i suoi pensieri e i miei da
ogni considerazione su argomenti più tristi. Ma il suo umore era fluttuante;
per alcuni istanti la gioia splendeva nei suoi occhi, ma poi lasciava sempre il
posto a un’espressione pensierosa o persa.
Il sole si fece più basso nel cielo; passammo il fiume Drance e ne
osservammo il corso attraverso i crepacci delle montagne più alte e le vallate
delle colline più basse. Qui le Alpi si fanno più vicine al lago e noi ci
avvicinavamo all’anfiteatro di montagne che ne forma il limite orientale. Il
campanile di Evian splendeva tra i boschi che lo circondavano e fra le catene
di monti che lo dominavano.
Il vento, che fino a lì ci aveva sospinti con straordinaria rapidità, al
tramonto divenne una brezza leggera; l’aria dolce increspava appena le onde
e provocava un piacevole movimento tra gli alberi mentre ci avvicinavamo
alla riva, dalla quale arrivava il più delizioso aroma di fiori e fieno. Quando
approdammo il sole scomparve dietro l’orizzonte e mettendo piede a terra
sentii risvegliarsi le mie preoccupazioni e le mie paure, che mi avrebbero di lì
a poco afferrato per non lasciarmi più.
Capitolo sesto
Walton, a seguire
26 agosto 17**
Ora che hai letto questa storia così strana e terrificante, Margaret, non ti senti
gelare il sangue per l’orrore, lo stesso orrore che tuttora fa agghiacciare il
mio? A volte lui, in preda a improvvisa angoscia, non riusciva a continuare il
racconto; altre, con voce rotta eppure penetrante, pronunciava con difficoltà
le parole, così cariche di quell’angoscia. Il suo sguardo puro e bello ora si
accendeva di indignazione, ora si spegneva sotto il peso del dolore e
sprofondava in una infinita tristezza. A volte governava le sue espressioni e i
suoi toni e riferiva gli avvenimenti più orribili con voce tranquilla,
soffocando ogni traccia di agitazione, poi, come un vulcano in eruzione, il
suo viso si alterava esprimendo una rabbia incontrollata, mentre gridava
imprecazioni contro il suo persecutore.
Il suo racconto è coerente, e riferito con la sembianza della più semplice
verità, ma non ti nego che siano state le lettere di Felix e Safie, che mi ha
mostrato, e l’apparizione del mostro, visto dalla nostra nave, che mi hanno
persuaso della veridicità della storia ancor più delle sue asserzioni, per quanto
sincere e coerenti. Un tale mostro dunque esiste davvero, non posso
dubitarne, nonostante mi confondano la sorpresa e la meraviglia. Ho cercato
alle volte di ottenere da Frankenstein i particolari relativi alla realizzazione
della sua creatura, ma su questo punto lui è stato impenetrabile.
«Siete pazzo, amico mio?» esclamava. «Dove vi porta la vostra insensata
curiosità? Vorreste anche voi creare un diabolico nemico, per voi e per il
mondo? Dove volete arrivare con le vostre domande? Tacete, tacete!
Imparate dalle mie sventure e non cercate di accrescere le vostre».
Frankenstein si accorse che avevo preso appunti sulla sua storia. Mi
chiese di vederli e lui stesso li corresse e li integrò in molte parti, soprattutto,
devo dire, nel dare vivacità e spirito alle conversazioni avute con il suo
nemico. «Dato che avete preservato il mio racconto» mi disse, «non voglio
che pervenga ai posteri in forma mutilata».
Così è passata una settimana, ascoltando la storia più strana che
l’immaginazione mai concepì. Tutti i miei pensieri e i sentimenti del mio
animo sono stati assorbiti nell’interesse provato per il mio ospite, generato da
questa storia e dai suoi modi nobili e gentili. Vorrei dargli conforto; ma posso
forse esortare a vivere un uomo così infinitamente miserabile, così privo di
ogni speranza di consolazione? Oh, no! L’unica gioia che potrebbe conoscere
adesso sarà quella di ricomporre il suo animo lacerato nella pace della morte.
Eppure c’è qualcosa che gli dà conforto, frutto di solitudine e delirio. Quando
sogna di conversare con i suoi cari, e da quella comunicazione riceve
consolazione per i suoi mali e stimolo alla vendetta, lui non crede che siano
creazioni della sua fantasia ma esseri reali che lo vengono a trovare dalle
regioni di un mondo remoto. Questa fede conferisce ai suoi sogni una tale
solennità che questi si presentano anche a me quasi altrettanto convincenti e
interessanti della verità.
Le nostre conversazioni non si limitano sempre alla sua storia e alle sue
disgrazie. Lui possiede una illimitata conoscenza in ogni campo della cultura,
nonché una intelligenza viva e penetrante. La sua eloquenza è persuasiva e
toccante: quando racconta un avvenimento penoso, o cerca di suscitare le
passioni della pietà e dell’amore, non posso trattenere le lacrime
nell’ascoltarlo. Che creatura gloriosa deve essere stato nei giorni della sua
prosperità, se è così nobile e simile a un dio nella sua rovina. Lui sembra
essere conscio del proprio valore e della propria vertiginosa caduta.
«Quando ero giovane» mi ha detto, «sentivo di essere destinato a qualche
grande impresa. Ho sempre provato dei sentimenti intensi ma ero dotato di
una lucidità di giudizio che mi rendeva adatto a conquiste prestigiose. La
percezione del valore della mia natura mi dava forza, quando gli altri si
sentivano oppressi; io ritenevo un crimine sprecare in un inutile sconforto
quelle doti che potevo mettere al servizio dei miei simili. Quando pensavo
all’opera da me compiuta, niente meno che la creazione di un animale
sensibile e raziocinante, non potevo annoverarmi nel gregge dei comuni
inventori. Ma questa percezione, che mi ha sostenuto all’inizio della mia
carriera, ora serve soltanto a spingermi ancora più a fondo nella polvere.
Tutte le mie elucubrazioni e speranze sono ridotte a nulla, e come l’arcangelo
che aspirò all’onnipotenza, io sono incatenato in un perpetuo inferno.
Possedevo una vivida immaginazione e al tempo stesso un’intensa capacità di
analisi e applicazione; grazie all’unione di queste qualità, concepita l’idea
passai alla creazione di un uomo. Persino ora, se ripenso alle fantasticherie
che facevo quando l’opera non era ancora terminata, non posso fare a meno
di appassionarmi. Nei miei pensieri ero al settimo cielo, esultando dei miei
poteri e fremendo di ardore all’idea dei loro risultati. Fin dall’infanzia ero
stato permeato di grandi speranze e ambizioni elevate ma ecco, quanto sono
caduto in basso! Oh, amico mio, se mi aveste conosciuto un tempo, non mi
riconoscereste in queste condizioni di degrado. Lo sconforto non usava
frequentare il mio cuore, mi sentivo sospinto verso un alto destino... finché
caddi, per non rialzarmi più, mai più».
E dovrò dunque perdere questo essere ammirevole? Ho desiderato tanto
di trovare un amico, ho cercato qualcuno che mi comprendesse e mi amasse e
guarda, l’ho trovato qui, in questi mari deserti. Ma temo di averlo incontrato
solo per conoscerne il valore e dopo perderlo. Vorrei riconciliarlo alla vita,
ma a lui ripugna l’idea.
«Vi ringrazio, Walton» mi ha detto, «per le vostre intenzioni affettuose
nei confronti di un povero disgraziato; ma quando parlate di nuovi legami e
nuovi affetti, credete che qualcuno possa sostituire quelli perduti? V’è un
uomo che potrebbe essere per me ciò che è stato Clerval? O una donna quello
che è stata Elizabeth? Anche quando gli affetti non sono provocati da una
suprema eccellenza, sono sempre i nostri compagni d’infanzia a esercitare un
certo effetto sul nostro animo che raramente gli amici successivi ci possono
fare. Loro conoscono la nostra indole infantile che, per quanto possa in
seguito modificarsi, non si sradica mai; loro possono valutare le nostre azioni
e giudicarle con più precisione in merito all’integrità dei nostri moventi. Una
sorella o un fratello, a meno che certi sintomi non si siano manifestati molto
presto, non potranno mai sospettare l’altro di frode o falsità; un altro amico,
invece, per quanto forte sia il legame, può, suo malgrado, essere assalito dal
sospetto. Io ho avuto la fortuna di godere dell’amicizia di persone care non
solo per consuetudine e familiarità ma per i loro meriti, e dovunque io sia,
continuerò a sentire, come un bisbiglio alle orecchie, la dolce voce della mia
Elizabeth e le conversazioni con Clerval. Loro sono morti; e nella mia
solitudine v’è un unico sentimento che mi può tenere in vita. Se fossi
occupato in una grande impresa o progetto che comportasse una diffusa
utilità per i miei simili, potrei continuare a vivere al fine di realizzarlo. Ma il
mio destino è un altro: devo inseguire e distruggere l’essere a cui ho dato
esistenza e solo allora la mia vicenda terrena sarà compiuta, e io potrò
morire».
2 settembre
Amata sorella,
ti scrivo in balia del pericolo, ignaro se mi sarà dato rivedere la cara
Inghilterra e gli affetti ancora più cari che vi abitano. Sono circondato da
montagne di ghiaccio che non offrono fuga, e minacciano in ogni momento di
mandare in pezzi la mia nave. Quei coraggiosi che ho convinto a essere miei
compagni mi guardano in cerca di aiuto, ma non ne ho da dare. V’è qualcosa
di terribilmente spaventoso nella nostra situazione, pure il coraggio e le
speranze non mi abbandonano. Possiamo sopravvivere. Se così non sarà,
ricorrerò alla lezione del mio Seneca e morirò a cuor contento.
Ma quale sarà, Margaret, il tuo stato d’animo? Non ti giungerà notizia
della mia fine e attenderai con ansia il mio ritorno. Passeranno gli anni e ti
coglieranno momenti di disperazione mentre la speranza continuerà a
tormentarti. Oh, mia amata sorella, per me la dolorosa frustrazione delle tue
accorate aspettative è una prospettiva più terribile della mia stessa morte. Ma
hai un marito e dei figli adorabili, potrai essere felice: che Dio ti benedica, e
tale ti renda!
Il mio sventurato ospite mi guarda con tenera compassione. Si sforza di
nutrirmi di speranza e parla come se la vita fosse un bene a cui dia ancora
valore. Mi ricorda quanto spesso ad altri naviganti che si sono avventurati in
questi mari siano capitati simili incidenti e mio malgrado mi colma di buoni
presagi. La sua eloquenza ha effetto persino sui marinai: quando parla, non
disperano più. Lui riesce a ridestare le loro energie e finché sentono la sua
voce sono persuasi che queste ampie montagne di ghiaccio siano delle inezie
che la risolutezza dell’uomo vanificherà. Ma questi sentimenti sono
passeggeri; ogni giorno che procrastina le loro aspettative li riempie di paura,
e io inizio a temere un ammutinamento causato dalla loro disperazione.
5 settembre
È accaduta una cosa di interesse così straordinario che, per quanto sia del
tutto improbabile che tu riceva queste pagine, non posso fare a meno di
riportarla.
Siamo ancora circondati da montagne di ghiaccio, sempre nell’imminente
pericolo di venire distrutti dall’impatto. Il freddo è eccessivo, e molti dei miei
sfortunati compagni hanno già trovato la loro tomba in questo paesaggio
desolato. La salute di Frankenstein è peggiorata ogni giorno: nei suoi occhi
brilla ancora una fiammella febbrile ma è esausto, e quando viene sollecitato
a un qualunque sforzo improvviso, subito ripiomba in una apparente assenza
di vita.
Nella mia ultima lettera accennavo alla mia paura di un ammutinamento.
Stamattina, mentre sedevo a vegliare il volto esangue del mio amico – gli
occhi socchiusi, le membra abbandonate e immobili – mi ha scosso il
richiamo di una dozzina di marinai, che desideravano essere ammessi nella
cabina. Sono entrati e il loro capo si è rivolto a me. Mi ha detto che lui e i
suoi compagni erano stati incaricati dagli altri marinai di venire in
delegazione da me con una richiesta che, onestamente, non potevo rifiutare.
Eravamo murati dal ghiaccio e con ogni probabilità non saremmo riusciti a
evaderne. Tuttavia il loro timore era che, se il ghiaccio si fosse sciolto, e non
era impossibile, e dunque si fosse aperto un varco, io sarei stato tanto
imprudente da proseguire il mio viaggio e condurli verso nuovi pericoli, dopo
che fortunatamente fossero scampati a quelli presenti. Dunque desideravano
che io mi impegnassi nella solenne promessa che, se la nave fosse riuscita a
liberarsi, avrei immediatamente diretto il mio corso verso sud.
Questo discorso mi turbò. Non avevo perso le speranze né avevo valutato
l’eventualità di tornare indietro, una volta liberi. Ma avevo forse, in tutta
coscienza, il diritto e, se per questo, la possibilità di sottrarmi a quella
richiesta? Esitavo a rispondere, quando Frankenstein, rimasto fino ad allora
in silenzio e in effetti apparentemente privo persino della forza di ascoltare, si
animò e, con gli occhi scintillanti e le gote arrossate da un momentaneo
flusso di vigore, si rivolse a quegli uomini e disse: «Cosa intendete dire?
Cosa chiedete al vostro capitano? Vi basta così poco per tirarvi indietro dal
vostro progetto? Non dicevate che questa era un’impresa grandiosa? E perché
era grandiosa? Non certo perché il tragitto era placido e dolce come il mare
del sud, ma perché era pieno di pericoli e paure; perché a ogni nuovo
incidente la vostra resistenza sarebbe stata messa in gioco, e il vostro
coraggio mostrato; perché tutt’intorno v’erano pericolo e morte e questi
pericoli voi li avreste sprezzantemente sfidati e vinti. Per questo era
grandiosa, per questo era una nobile impresa. Una volta compiuta sareste stati
indicati come benefattori della vostra razza; i vostri nomi adorati, come quelli
di quei coraggiosi che vanno incontro alla morte in nome dell’onore e a
beneficio dell’umanità. E ora, guardatevi! Con le prime avvisaglie di pericolo
o, se volete, alla prima importante e terribile prova del vostro coraggio,
battete la ritirata e vi accontentate di essere ricordati come quegli uomini che
non ebbero la forza necessaria di sopportare il freddo e il rischio. Povere
anime, avevano freddo e sono tornate al tepore dei loro focolari. Caspita! Per
questo non serve tanta preparazione, non c’era bisogno di arrivare così
lontano e trascinare il vostro capitano alla vergogna della sconfitta,
semplicemente per dimostrare di essere dei codardi. Oh, siate uomini, o più
che uomini! Tenetevi saldi ai vostri propositi, irremovibili come la roccia.
Questo ghiaccio non è fatto della stessa materia di cui potrebbero essere fatti i
vostri cuori: è mutevole e non vi si può opporre se decidete che non accadrà.
Non tornate alle vostre famiglie con il marchio della disdetta sulla fronte.
Tornate da eroi che hanno combattuto e vinto e che non sanno cosa voglia
dire voltare le spalle al nemico».
Nel dire queste parole la sua voce modulava così sensibilmente i vari
sentimenti che animavano il discorso, gli occhi accesi da nobili ideali ed
eroismo, che non c’è da stupirsi se quegli uomini ne rimasero colpiti. Si
guardarono l’uno con l’altro e non sapevano che rispondere. Parlai io: gli
dissi di ritirarsi e pensare a quanto era stato detto; che io non li avrei portati
più a nord, se loro desideravano ardentemente il contrario, ma speravo che,
riflettendoci, gli sarebbe tornato il coraggio.
Se ne andarono e io mi voltai verso il mio amico, che però era
sprofondato nel torpore e sembrava quasi privo di vita.
Come andrà a finire, non lo so. Ma io preferirei morire che ritornare con
la vergogna di non avere realizzato il mio proposito. Eppure temo che questo
sarà il mio destino, perché gli uomini, se non li sostengono sogni di gloria e
di onori, non sanno continuare a sopportare soltanto con la volontà le fatiche
che gli si presentano.
7 settembre
12 settembre
FINE
Come leggere Frankenstein
di Charles E. Robinson
28 luglio 1814: Poco dopo essersi dichiarati il loro amore, la sedicenne MWS
(accompagnata dalla sorella poco più giovane, Claire Clairmont) e il
ventunenne PBS (nonostante fosse già coniugato con Harriet Westbrook)
fuggono insieme sul continente per quello che sarà poi definito il loro “Six
Week’s Tour”.
2 maggio 1816: MWS, PBS, il loro figlio William e Claire Clairmont (incinta di
Byron) partono da Londra per la Svizzera, dove incontreranno Byron.
13 maggio: MWS, PBS e il resto del gruppo arrivano sul lago di Ginevra.
27 maggio 1816: PBS e Lord Byron si incontrano per la prima volta (MWS
aveva già incontrato Byron a Londra un mese prima).
15-18 giugno 1816: Byron, PBS e forse il medico di Byron, James William
Polidori, discutono del “principio della vita”; a Villa Diodati comincia la gara
per il racconto di fantasmi; MWS è l’ultima a concepire una storia, che
comincia con queste parole: «Fu in una tetra notte di novembre» (che sarebbe
poi diventata la prima frase del capitolo quarto del volume primo del
romanzo).
22-30 giugno 1816: A quanto pare, mentre MWS scriveva la sua storia, PBS e
Byron facevano un giro in barca del lago di Ginevra.
24 luglio 1816: MWS annota nel diario di Ginevra: «scrivere la mia storia», il
primo evidente riferimento a ciò che poi sarebbe diventato Frankenstein.
21 agosto 1816: MWS e PBS «parlano della [sua] storia» che a questo punto
probabilmente non aveva ancora la cornice esterna o, all’interno, il racconto
di Safie.
26 ottobre 1816: PBS scrive sul diario di Bath di MWS: «Mary sta scrivendo il
suo libro», il primo riferimento a Frankenstein come “libro” o “romanzo”.
5 dicembre 1816: È probabile che MWS abbia completato una versione del
capitolo sull’arrivo di Safie e le lezioni di lingua, anche se inizialmente Safie
si chiamava Maimouna e poi Amina.
3 gennaio 1817: MWS riprende la stesura del romanzo; in quei giorni è già
incinta di un mese.
27 marzo 1817: La Court of Chancery nega a PBS la custodia dei figli (Ianthe
e Charles) avuti con Harriet.
24 settembre 1817: MWS dà carta bianca a PBS nella correzione almeno delle
prime prove di stampa che stanno cominciando ad arrivare.
2 gennaio 1818: PBS invia una copia di Frankenstein a Walter Scott che lo
recensisce nel Blackwood’s Edinburgh Magazine. Si veda anche di seguito la
voce al 20 marzo-1o aprile 1818.
12 marzo 1818: MWS, PBS, Claire Clairmont, tre bambini (William e Clara di
MWS e Allegra, figlia di Claire) e due domestiche (la balia Elise Duvillard e la
cameriera Milly Shields) partono in barca a vela da Dover verso Calais in
direzione dell’Italia.
1o giugno 1818: The Literary Panorama, and National Register pubblica una
recensione negativa di Frankenstein, suggerendo anche che sia stato scritto
da Mary Shelley.
8 luglio 1822: PBS muore annegato in seguito al naufragio della sua barca nel
golfo di La Spezia.
Metà (luglio?) del 1823: In questo periodo MWS presenta la sua copia
personale e corretta di Frankenstein a una certa Mrs. Thomas a Genova; la
copia è ora conservata nella Morgan Library di New York City.
3 luglio 1826: Prima di otto repliche di The Man and the Monster; or, The
Fate of Frankenstein di Henry M. Milner al Royal Coburg Theatre.
9 ottobre 1826: Prima di quattro repliche di The Monster and the Magician;
or, The Fate of Frankenstein di John Kerr al New Royal West London
Theatre.
7 novembre 1831: The Morning Chronicle scrive che «la richiesta del nono
volume degli Standard Novels (che contiene Frankenstein e la prima parte di
Il visionario [di Schiller N.d.T.]) è stata così grande da aver esaurito il primo
giorno tutte le scorte e ci è stato chiesto di informare coloro che siano rimasti
delusi nella ricerca del volume che un’altra stampa è stata realizzata, e altre
copie si possono avere dall’editore o nelle librerie».
19 novembre 1831: The London Literary Gazette pubblica una recensione
positiva della nuova edizione del 1831 di Frankenstein.
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Introduzione di Mary Shelley
a Frankenstein, terza edizione (1831)
Gli editori delle Standard Novels, scegliendo Frankenstein per una delle loro
collane, hanno espresso il desiderio che io gli riferissi un qualche resoconto
sull’origine della storia. Io ho accettato tanto più volentieri perché questo mi
permetterà di fornire una risposta generale alla domanda che mi viene posta
di frequente: «Come è successo che io, allora una giovane ragazza, abbia
concepito, ed elaborato, un’idea così orribile?» È vero che sono decisamente
contraria a espormi in prima persona sulla carta stampata, ma poiché il mio
racconto sarà solo l’appendice a un’opera precedentemente realizzata, e si
limiterà a questioni legate esclusivamente a me come autrice, non posso
davvero accusarmi di un’intrusione della sfera personale.
Il fatto che io, figlia di due persone di riconosciuta fama letteraria, abbia
pensato molto presto nella mia vita di scrivere, non è strano. Da bambina
scribacchiavo e il mio passatempo preferito nelle ore di ricreazione era quello
di “scrivere storie”. Ma v’era qualcosa che mi dava un piacere ancora più
grande, ed era quello di fare castelli in aria, abbandonarmi a sogni a occhi
aperti, a seguire il filo di pensieri che consistevano nella elaborazione di una
serie di eventi immaginari in successione. I miei sogni erano al tempo stesso
più fantastici e piacevoli dei miei scritti. In questi ultimi ero una pedissequa
imitatrice, facevo quello che avevano fatto altri più che buttar giù quello che
mi suggeriva la mia mente. Ciò che scrivevo era dedicato ad almeno un altro
sguardo, compagno e amico della mia infanzia; invece i miei sogni erano tutti
per me; non dovevo renderne conto a nessuno; erano il mio rifugio quando
stavo male e il mio piacere più grande quando ero libera.
Da ragazza ho vissuto soprattutto in campagna e ho passato molto tempo
in Scozia. Di tanto in tanto visitavo le zone più pittoresche ma la mia
residenza abituale erano le rive cupe e desolate del Tay, vicino a Dundee. Le
definisco cupe e desolate retrospettivamente, perché allora non mi risultavano
tali. Erano per me un nido di libertà, il luogo ameno dove, inosservata, potevo
entrare in contatto con le creature della mia fantasia. A quel tempo scrivevo,
ma in uno stile pieno di luoghi comuni. Fu invece sotto gli alberi del terreno
della nostra casa, o sui fianchi brulli delle spoglie alture circostanti, che
nacquero e si alimentarono le mie autentiche composizioni, gli aerei voli
della mia immaginazione. Non ero mai io l’eroina dei miei racconti. La mia
vita mi sembrava una faccenda troppo banale. Non potevo concepire per me
stessa un destino di romantiche sventure o eventi straordinari; ma non mi
sentivo costretta nei limiti della mia identità e potevo riempire le ore di
creazioni che a quell’età erano per me molto più interessanti di quello che
vivevo io.
Dopodiché la mia vita si fece più indaffarata e la realtà prese il posto della
finzione. Ma mio marito fin da subito fu molto ansioso che io mi dimostrassi
all’altezza dei miei genitori e iscrivessi il mio nome nell’albo della fama. Mi
incitava continuamente a ottenere una reputazione nell’ambito della
letteratura, una cosa che allora interessava anche a me, ma che poi ha finito
per essermi del tutto indifferente. In quei giorni lui desiderava che io scrivessi
non tanto con l’idea che avrei prodotto qualcosa degno di nota, ma in modo
che potesse lui stesso giudicare quanto fosse grande in me la promessa di
cose migliori a venire. Ma io non facevo niente. Il mio tempo era tutto
occupato dai viaggi e dalla cura della mia famiglia; e l’unica attività letteraria
che prendeva la mia attenzione era lo studio, nel senso della lettura, o lo
sviluppo delle mie idee attraverso la comunicazione con una mente molto più
colta come la sua.
Nell’estate del 1816 visitammo la Svizzera, divenendo vicini di casa di
Lord Byron. All’inizio trascorrevamo il nostro tempo in piacevoli ore sul
lago, o passeggiando sulle sue rive, e l’unico di noi che mettesse per iscritto i
suoi pensieri era Lord Byron, che stava scrivendo il terzo canto di Childe
Harold. Questi, quando in seguito ce li presentò, rivestiti di tutta la luce e
l’armonia del verso poetico, conferirono un’impronta divina alle glorie del
cielo e della terra di cui con lui condividevamo le influenze.
Ma quella si dimostrò un’estate umida e inclemente; la pioggia incessante
spesso ci costringeva a restare in casa per giorni. Ci erano capitati tra le mani
dei volumi di storie di fantasmi, tradotti in francese dal tedesco. Una era la
storia dell’Amante Incostante, che quando credeva di abbracciare la sposa a
cui si era solennemente promesso, si trovava nelle braccia del pallido
fantasma di colei che aveva abbandonato. E v’era quella del peccaminoso
capostipite della sua stirpe, il cui infelice destino era quello di dare il bacio
della morte a tutti i figli più giovani della sua maledetta casata, appena questi
raggiungevano l’età della speranza. L’ombra della sua figura gigantesca,
abbigliata come il fantasma di Amleto, con l’armatura e la visiera alzata,
veniva scorta a mezzanotte, ai raggi dell’incostante luna, mentre avanzava
lentamente per il tenebroso viale. La forma si perdeva tra le ombre delle mura
del castello, ma presto un cancello si spalancava, si udiva un passo, si apriva
la porta della camera da letto e lui avanzava verso il giaciglio dei giovanetti
in fiore, cullati dal sonno ristoratore. Sul suo volto regnava un dolore
immortale, mentre si chinava a baciare la fronte dei ragazzi, che da quell’ora
sarebbero appassiti come fiori recisi. Non mi sono più imbattuta in queste
storie da allora, ma i loro eventi sono vividi nella mia mente come se le
avessi lette ieri.
«Ognuno di noi scriverà una storia di fantasmi» disse Lord Byron; e la
sua proposta fu accolta. Eravamo quattro. Il nobile scrittore cominciò una
storia e ne pubblicò un frammento alla fine del suo poema su Mazeppa.
Shelley, più portato a dare corpo a idee e sentimenti nel fulgore di un
immaginario brillante, e nella musica dei versi più melodiosi che adornino la
nostra lingua, che a inventare i meccanismi di una storia, ne cominciò una
basata sulle esperienze dei suoi primi anni di vita. Al povero Polidori venne
l’orribile idea di una donna che aveva un teschio al posto della testa, una
punizione infertale per aver sbirciato dal buco di una serratura; non ricordo
per vedere cosa, ma era qualcosa di scandaloso e sbagliato, ovviamente. Ma
una volta ridotta la donna a una condizione peggiore di quella del rinomato
Tom di Coventry, lui non seppe più che farne e fu costretto a mandarla alla
tomba dei Capuleti, l’unico posto adatto a lei. Ben presto però gli illustri
poeti, seccati dalla piattezza della prosa, abbandonarono quel compito a loro
non congeniale.
Io mi diedi molto da fare per pensare a una storia, una che potesse
competere con quelle che ci avevano stimolato all’impresa. Una storia che
parlasse alle misteriose paure della nostra natura, e risvegliasse fremiti di
orrore, che suscitasse nel lettore la paura di guardarsi attorno, che raggelasse
il sangue, che accelerasse i battiti del cuore. Se non riuscivo in questo, la mia
storia di fantasmi non sarebbe stata degna del suo nome. Così ci pensavo,
ragionavo... ma era inutile. Provavo quella vuota incapacità di invenzione che
è la pena più grande di qualunque autore, quando alle nostre veementi
invocazioni risponde lo scuro Nulla. Ogni mattina mi veniva chiesto: «Hai
pensato a una storia?» e ogni mattina ero costretta a rispondere con una
mortificante negazione.
Per dirla con Sancho [Panza], ogni cosa deve avere un inizio. E
quell’inizio deve essere connesso a qualcosa che è avvenuto prima. Gli indù
posero un elefante a sostegno del mondo, ma l’elefante è a sua volta
sostenuto da una tartaruga. L’invenzione, lo si deve ammettere con umiltà,
non consiste nel creare qualcosa dal nulla ma dal caos. È innanzitutto
necessario procurarsi la materia prima, perché si può dare corpo a sostanze
informi e oscure, ma non si può portare a essere la sostanza stessa. Quando si
tratta di scoperte e invenzioni, anche quelle che appartengono
all’immaginazione, torniamo sempre a confrontarci con la storia dell’uovo di
Colombo. L’invenzione consiste nella capacità di cogliere le potenzialità di
un argomento e nel potere di plasmare e foggiare le idee che questo
suggerisce.
Tra Lord Byron e Shelley vi furono lunghe e numerose conversazioni, che
io ascoltavo con devozione e rimanendo pressoché muta. Nel corso di una di
queste vennero discusse varie dottrine filosofiche, e tra queste la natura del
principio della vita, e se si sarebbe mai verificata la probabilità della sua
scoperta e condivisione. Loro parlarono degli esperimenti del dottor Darwin
(non dico di quello che effettivamente realizzò, o disse di avere realizzato,
ma, più a mio proposito, di quello che all’epoca si diceva che avesse fatto), il
quale conservò un pezzetto di vermicelli in un barattolo di vetro fino a che
questo, per qualche straordinaria ragione, cominciò a muoversi di sua
volontà. Pur non essendo questo il modo per poter infondere la vita, poteva
darsi che si potesse rianimare un cadavere. Il galvanismo aveva fornito
indicazioni in questa direzione; forse si potevano produrre le componenti di
una creatura, combinarle e nutrirle di calore vitale.
La notte passava e la conversazione andava avanti; era passata anche l’ora
delle streghe prima che andassimo a dormire. Quando posai la testa sul
cuscino non mi addormentai ma neanche potrei dire che pensassi. La mia
immaginazione, non richiesta, si impossessò di me e mi guidò, donando alla
successione di immagini che sorsero nella mia mente una vividezza che
andava ben oltre gli abituali confini della rêverie. Vidi, a occhi chiusi ma in
un’acuta visione mentale, io vidi il pallido studente di arti sacrileghe
inginocchiato davanti alla cosa che aveva assemblato. Vidi la ripugnante
larva di un uomo disteso e poi, azionato un congegno potente, dare segni di
vita e animarsi di un moto impacciato, semivitale. Spaventoso, senz’altro:
perché estremamente spaventoso sarebbe l’effetto di qualunque tentativo
dell’uomo di scimmiottare la stupenda meccanica del Creatore del mondo. Il
suo stesso successo avrebbe terrorizzato l’artefice, che sarebbe fuggito via, in
preda all’orrore, dal suo orribile manufatto. Avrebbe sperato che,
abbandonandola a se stessa, quella flebile scintilla di vita da lui infusa
sarebbe svanita; e che quella cosa, che aveva ricevuto un’animazione tanto
imperfetta, tornasse nuovamente a essere materia morta; sarebbe andato a
dormire con la convinzione che il silenzio della tomba avrebbe risucchiato
per sempre la fugace esistenza dell’orrendo cadavere a cui lui aveva guardato
come alla culla della vita. Si addormenta ma viene svegliato; apre gli occhi,
vede l’orrida cosa in piedi accanto al suo letto che sposta le cortine e lo
guarda con i suoi acquosi occhi giallastri ma intelligenti.
A quel punto ho spalancato i miei dalla paura. L’idea era penetrata così a
fondo nella mia mente che venni percorsa da un brivido di terrore, e
desideravo sostituire la spaventosa immagine della mia fantasia con gli
oggetti reali intorno a me. Ancora li vedo: la stanza, il parquet di legno scuro,
le imposte chiuse, e la luce della luna che vi si infiltrava a fatica, e la mia
consapevolezza che al di là v’erano il lago ghiacciato e le alte Alpi innevate.
Ma io non riuscivo a liberarmi tanto facilmente di quella spaventosa
apparizione, che mi ossessionava. Dovevo pensare a qualcos’altro. Tornai
con il pensiero alla mia storia di fantasmi, quell’infelice seccatura della mia
storia di fantasmi! Oh, se solo fossi riuscita a inventarne una che spaventasse
il mio lettore come mi ero spaventata io quella notte!
Veloce come la luce e altrettanto gradita, mi balenò l’idea. «Ho trovato!
Quello che ha terrorizzato me terrorizzerà gli altri; devo solo descrivere lo
spettro che ha visitato il mio guanciale nel mezzo della notte». Il mattino
seguente annunciai che avevo pensato a una storia. E quello stesso giorno
cominciai, scrivendo le parole Fu in una tetra notte di novembre e
limitandomi a buttare giù un appunto sui sinistri terrori suscitati dalla visione
del mio dormiveglia.
All’inizio pensavo soltanto a poche pagine, a un racconto breve; ma
Shelley mi sollecitò a sviluppare l’idea più estesamente. Pur non dovendo in
alcun modo a mio marito lo spunto per alcun episodio né per lo sviluppo di
una scia emotiva, senza il suo incitamento questa storia non avrebbe mai
assunto la forma con cui venne presentata al mondo. Eccetto la prefazione.
Per quanto ricordo, quella fu scritta interamente da lui.
E adesso, ancora una volta, invito la mia ripugnante progenie a continuare
il suo cammino e prosperare. Provo affetto per lei, perché fu il parto di giorni
felici, quando morte e dolore erano solo parole che non avevano alcuna vera
eco nel mio cuore. Nelle sue tante pagine vi sono molte passeggiate, molti
viaggi in carrozza e molte conversazioni del tempo in cui non ero sola e
avevo per compagno un uomo che, in questo mondo, non rivedrò mai più. Ma
queste cose riguardano me sola, per i miei lettori questi ricordi non contano
niente.
Voglio aggiungere solo una parola sulle modifiche che ho apportato. Sono
principalmente nello stile. Non ho cambiato nessuna parte della storia, né
introdotto idee nuove o nuove situazioni. Ho migliorato il linguaggio in quei
punti in cui era tanto arido da interferire con il godimento del racconto, e
questi cambiamenti si trovano quasi esclusivamente nella parte iniziale del
primo volume. In generale si limitano a parti secondarie della storia,
lasciandone il nucleo e la sostanza inalterati.
18E il SIGNORE IDDIO disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: creerò per lui un aiuto giusto per lui».
19E dalla terra il SIGNORE IDDIO formò ogni bestia dei campi, e ogni uccello dell’aria, e li portò ad
Adamo per vedere come li avrebbe chiamati; e in qualunque modo Adamo chiamasse ogni creatura
vivente, da allora quello è stato il suo nome. 20E Adamo diede i nomi a tutto il bestiame, e ad ogni
uccello in cielo, e a ogni bestia dei campi; ma non v’era ancora per Adamo un aiuto giusto per lui. 21E
il SIGNORE IDDIO fece cadere un sonno profondo su Adamo, e lui dormì; e lui prese una delle sue
costole, e richiuse la carne al suo posto. 22E la costola che il SIGNORE IDDIO aveva preso all’uomo
lui la fece diventare una donna, e la portò dall’uomo. 23E Adamo disse: «Questa è adesso ossa delle mie
ossa, e carne della mia carne, perché da me fu estratta, e sarà chiamata Donna. 24E dunque l’uomo
lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e saranno una sola carne. 25Ed erano nudi
entrambi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.
[Nell’inglese l’idea della donna “estratta” dall’uomo è fortemente sottolineata dai termini Man e Wo-
man (N.d.T.)]
George Gordon Lord Byron
Prometeo
La strada a tornanti era molto scoscesa; una parte era dominata da precipizi appena distinguibili, l’altra
era un baratro ricolmo dell’oscurità portata dalle nuvole in transito. Lo scroscio delle invisibili correnti
ci annunciava che avevamo lasciato le pianure della Francia, mentre ascendevamo, in una violenta
tempesta di pioggia e vento, verso Champagnolles, dove arrivammo alla mezzanotte del quarto giorno
dalla nostra partenza da Parigi.
Il mattino seguente procedemmo, sempre salendo tra i burroni e le valli delle montagne. Il
panorama si fa sempre più strabiliante e sublime: foreste di pini di impenetrabile densità e di ampiezze
inesplorate, anzi, inesplorabili, si estendono da ogni lato. A tratti i fitti boschi diradano a valle, e gli
alberi si contorcono abbarbicandosi con le loro nodose radici tra i crepacci più brulli; a volte la strada si
snoda verso l’alto in zone gelate, dove le foreste si sparpagliano e i rami degli alberi sono carichi di
neve, e quegli stessi prodigiosi pini sono per metà sepolti nei cumuli ondulati. Gli abitanti ci hanno
detto che la primavera tardava ad arrivare, ed effettivamente il freddo era estremo; salendo su per la
montagna, le stesse nuvole che ci bagnavano di pioggia nelle valli, ora riversavano grandi fiocchi di
neve, densi e molto frequenti. Tra questi rovesci si infiltrava a volte il sole, illuminando i maestosi
precipizi delle montagne, i cui pini giganteschi erano carichi di neve o avvolti da sbrindellati filamenti
di persistente vapore; altri ancora svettavano i loro pinnacoli contro il cielo assolato, luminoso e
azzurro.
Quando arrivò la sera, e noi stavamo salendo sempre più in alto, la neve, che avevamo visto
imbiancare le rupi a strapiombo, ora invadeva il nostro cammino, e cadeva veloce quando entrammo
nel villaggio di Les Rousses, dove rischiammo di dover passare la notte in una brutta locanda con i letti
sporchi. Perché da lì partono due strade per Ginevra: una attraverso Nion, in territorio svizzero, dove il
percorso tra le montagne è più breve e relativamente più agevole in quel periodo dell’anno, quando la
strada è per molte leghe coperta di neve di enorme profondità; l’altra strada passava per Gex ed era
troppo tortuosa e rischiosa per tentare di farla a un’ora così tarda. Ma il nostro lasciapassare era per Gex
e ci dissero che non potevamo cambiarne la destinazione. Tuttavia queste leggi di polizia, di per sé
tanto severe, sono fatte per essere smussate dalla corruzione e alla lunga questa difficoltà fu superata.
Noleggiammo quattro cavalli e dieci uomini per la vettura, quindi partimmo da Les Rousses alle sei del
pomeriggio, quando il sole era già calato da un pezzo, e la neve che batteva sui finestrini della carrozza
collaborava con il buio che calava a impedirci la vista del lago di Ginevra e delle Alpi in lontananza.
Quello che vedevamo intorno a noi era comunque abbastanza sublime da imporsi alla nostra
attenzione – non vi può essere paesaggio così terribilmente desolato. Da queste parti gli alberi sono
incredibilmente grandi e formano sparsi gruppetti su quelle distese imbiancate la cui vasta espansione
di neve è punteggiata soltanto da questi pini giganteschi e dai pali che segnano la nostra strada; non
v’era un fiume o un praticello circondato dalle rocce a dare sollievo al nostro sguardo, condendo il
sublime con qualcosa di pittoresco. Il naturale silenzio di quel deserto inabitato contrastava stranamente
con le voci degli uomini che ci conducevano, i quali, con toni e gesti animati, si chiamavano l’uno con
l’altro in un gergo misto di francese e italiano, turbando una quiete che, se non fosse stato per loro, era
assoluta.
Estratti da
Rivendicazione dei diritti della donna
di Mary Wollstonecraft
Per spiegare, e anche giustificare la tirannia dell’uomo, sono stati portati avanti molti ragionamenti a
riprova del fatto che i due sessi, nel perseguire la virtù, dovrebbero mirare al raggiungimento di
caratteri molto diversi fra loro; cioè, per essere più espliciti, alle donne non è permesso avere la forza
mentale sufficiente per acquisire ciò che è giusto chiamare virtù. Anche se, ammettendo che le donne
abbiano un’anima, sembrerebbe che ci sia una sola via offerta dalla Provvidenza per guidare il genere
umano verso la virtù o la felicità.
Se le donne non sono uno sciame di frivole nullità, perché dovrebbero essere tenute nell’ignoranza
con il pretesto dell’innocenza? Gli uomini si lamentano, e a ragione, delle follie e dei capricci del
nostro sesso, quando non ridicolizzano le nostre passioni risolute e i nostri vizi esecrabili. Ecco,
risponderei io, guardate il risultato dell’ignoranza! La mente che ha solo pregiudizi su cui basarsi sarà
sempre instabile; e una corrente avrà una furia distruttrice se non ci sono barriere ad arginare la sua
forza. Sin dall’infanzia alle donne viene insegnato, sull’esempio delle loro madri, che per ottenere la
protezione dell’uomo bastano un po’ di conoscenza della debolezza umana, più propriamente chiamata
furbizia, un carattere dolce, una chiara propensione all’obbedienza e un infantile e scrupoloso senso
della proprietà. Se poi le donne sono belle, allora tutto il resto è inutile, almeno per i primi vent’anni.
Così Milton descrive la nostra prima fragile madre; anche se quando dice che le donne sono fatte
per essere miti e avere una grazia dolce e seducente, non capisco cosa voglia dire, a meno che egli non
voglia privarci della nostra anima, secondo la più autentica attitudine maomettana, intendendo che
siamo esseri creati solo per gratificare, con la grazia dolce e seducente e con la docile e cieca
obbedienza, i sensi dell’uomo, quando questi non può più librarsi sulle ali della contemplazione.
Come sono rozzi coloro che ci insultano suggerendoci di essere solo amabili bestie domestiche!
Per esempio la vantaggiosa dolcezza, così spesso e caldamente perorata, che permetterebbe di
governare con l’obbedienza. Che espressione infantile e che essere insignificante – potrà mai essere
immortale? – colui che accetta di comandare con metodi così sinistri! «Di sicuro» dice Lord Bacon
«l’uomo è con il corpo simile alla bestia; e se non fosse per il suo spirito imparentato con Dio, sarebbe
una creatura ignobile e spregevole!» In verità gli uomini mi sembra si comportino in modo molto anti-
filosofico, quando provano a garantirsi la buona condotta delle donne cercando di tenerle sempre in una
condizione infantile.
Io, per questa ragione, ho il coraggio di affermare che, fino a quando le donne non saranno
ragionevolmente istruite, il progresso della virtù e il miglioramento della conoscenza dell’uomo
dovranno essere sottoposti a continui controlli. E se si dà per scontato che la donna non sia creata
meramente per soddisfare l’appetito dell’uomo o per fare la domestica responsabile dei pasti e della
biancheria, allora ne consegue che la prima preoccupazione di quelle madri o di quei padri che
realmente si prendono cura dell’istruzione delle loro figlie, sia, se non di rafforzare il corpo, almeno di
non rovinare il loro fisico con errate nozioni di bellezza e femminilità; né si dovrebbe permettere alle
ragazze di assimilare, con argomentazioni di tipo scientifico, la perniciosa nozione che un difetto possa
diventare un pregio.
[...]
Se invece si dovesse provare che la donna è di natura più debole dell’uomo, ne sarebbe forse logica
conseguenza che si sforzi di essere ancora più debole di quanto la natura intendesse farla? Argomenti di
questo genere sono un insulto al buon senso e al gusto della passione. Il diritto divino dei mariti, come
quello dei re, in questo secolo illuminato può essere contestato senza pericolo e, anche se la
convinzione non riuscirà a zittire i litigiosi contendenti, quando un comune pregiudizio sarà attaccato,
chi è saggio saprà tenerne conto, lasciando gli intolleranti a inveire con scortese veemenza contro
l’innovazione.
La madre che desidera dare vera dignità di carattere alla figlia deve, senza badare allo scherno
dell’ignoranza, procedere su un piano diametralmente opposto a quello raccomandato da Rousseau...
[...]
In tutto il regno animale le giovani creature hanno bisogno di continuo esercizio, e l’infanzia dei
bambini, in conformità con questa dichiarazione, dovrebbe essere trascorsa saltellando per esercitare le
mani e i piedi, senza che sia necessario un minuzioso controllo della testa, o la costante attenzione della
balia. In effetti, la cura migliore per l’auto-conservazione è il primo naturale esercizio della
comprensione, poiché l’immaginazione si sviluppa con le piccole invenzioni che rallegrano il momento
presente. Questi accorti disegni della natura possono però venire contrastati da un affetto sbagliato o da
un cieco fervore. Al bambino non è mai permesso di orientarsi da solo, in particolare alle bambine, ed è
così reso dipendente – e poi la dipendenza viene chiamata naturale.
Per proteggere la bellezza – gloria della donna! – gli arti e le facoltà mentali sono soffocati peggio
che con le fasce cinesi, e la vita sedentaria a cui sono condannate le bambine, mentre i bambini si
divertono all’aria aperta, indebolisce i muscoli e allenta i nervi. Riguardo alle osservazioni di Rousseau,
ripetute poi da molti scrittori, che le bambine, dalla nascita e indipendentemente dall’educazione,
abbiano una passione per le bambole, per vestirle e parlargli, sono così puerili che non meritano una
seria confutazione. È oltremodo naturale che una bambina, condannata a stare seduta per ore a sentire le
inutili chiacchiere delle docili balie o assistere alla toilette della madre, provi a unirsi alla
conversazione; e che imiti la madre o le zie, e che si diverta ad adornare la bambola inanimata, proprio
come fanno con lei, povera bimba innocente! È indubbiamente una più che naturale conseguenza.
Perché anche gli uomini più dotati raramente hanno la forza di sollevarsi al di sopra dell’atmosfera che
li circonda; e se i pregiudizi del tempo hanno sempre offuscato la pagina del genio, qualche
concessione dovrebbe essere fatta a un sesso che, come i re, vede sempre le cose attraverso il mezzo
sbagliato.
Assecondare certi desideri, come quello per i vestiti, evidente nelle donne, può essere facilmente
spiegato senza supporre che sia la conseguenza del desiderio di piacere al sesso da cui dipendono. In
breve, l’assurdità del supporre che una donna sia naturalmente una civetta e che il desiderio di piacere
connesso all’impulso di riprodursi debba manifestarsi anche prima che un’educazione inadeguata lo
abbia evocato infiammando l’immaginazione, è talmente irragionevole che un osservatore sagace come
Rousseau non l’avrebbe fatta sua se non fosse solito far precedere il desiderio di eccezionalità alla
ragione, e il paradosso alla verità.
[...]
Le sue storie ridicole, che tendono a provare che le ragazze sono per natura dedite alla cura della
propria persona, senza dare alcuna importanza agli esempi quotidiani, non meritano neanche di essere
disprezzate.
[...]
Con molta probabilità, ho avuto modo di osservare più bambine di Jean Jacques Rousseau – posso
ricordare le mie sensazioni, e mi sono costantemente guardata intorno; perciò, lungi dall’avere la sua
stessa opinione sui primi albori del carattere di una donna, ho il coraggio di affermare che una bambina
il cui spirito non sia stato fiaccato dall’inattività, o l’innocenza macchiata di falso pudore, sarà sempre
vivace e scherzosa e le bambole non attireranno la sua attenzione a meno che la reclusione non le lasci
alternative. Bambine e bambini giocherebbero insieme inoffensivamente, se la distinzione dei sessi non
fosse loro inculcata ben prima che si manifesti naturalmente. Voglio spingermi oltre, affermando che,
indiscutibilmente, alla maggioranza delle donne che, nel mio raggio di osservazione, hanno agito come
creature razionali o dato prova di vigore intellettuale, è stato permesso, senza volere, di scatenarsi –
come forse insinuerebbero alcuni degli eleganti inventori del gentil sesso.
La mancanza di attenzione alla salute durante l’infanzia e la giovinezza hanno conseguenze nefaste
che si estendono più di quanto si possa supporre – la dipendenza del corpo provoca naturalmente la
dipendenza della mente; come può una donna essere una brava moglie o madre se la maggior parte del
suo tempo lo passa a prevenire le malattie o a sopportarle? Né ci si può aspettare che una donna decida
di adoperarsi per rafforzare il fisico e di astenersi da vizi fiaccanti, se lo scopo delle sue azioni è stato
da subito imbrigliato in nozioni artificiali di bellezza e false definizioni della sensibilità. Quasi tutti gli
uomini sono costretti a sopportare disturbi del corpo e a patire il rigore degli elementi; ma le donne
raffinate sono, parlando letteralmente, schiave dei loro corpi, e gioiscono della loro sottomissione.
Un tempo conoscevo una donna debole ed elegante, che troppo spesso si autocompiaceva della sua
delicatezza e sensibilità. Pensava che un gusto raffinato e un debole appetito fossero il massimo della
perfezione umana, e si comportava di conseguenza. Ho visto questo essere fiacco e sofisticato
trascurare tutti i doveri della vita, sdraiata su un sofà si vantava compiaciuta della mancanza di appetito
come prova della sua delicatezza e della squisita sensibilità che forse ne era la causa: ma non è facile
rendere comprensibili le sue ridicole chiacchiere. Ebbene, in quel momento, l’ho vista insultare
un’anziana gentildonna che un’inattesa sventura aveva reso dipendente dalla sua ostentata agiatezza e
che, in tempi migliori, aveva avuto occasione di reclamare la sua gratitudine. È possibile che una
creatura umana sia potuta diventare un essere così debole e depravato, se, dissolta nel lusso come i
sibariti, anche l’ultimo brandello di virtù non sia stato eroso, o forse nemmeno mai dato come precetto,
debole sostituto della cura della mente è vero, ma comunque utile come difesa dal vizio?
[...]
Ovunque le donne si trovano in questo deplorevole stato; perché, per poter preservare la loro
innocenza, come è educatamente chiamata l’ignoranza, viene loro nascosta la verità e sono costrette ad
assumere un carattere artificiale ancor prima che le loro facoltà arrivino al pieno sviluppo. Sin
dall’infanzia si insegna loro che la bellezza è lo scettro della donna, la mente prende la forma del corpo
e, vagando nella sua gabbia dorata, ha come unico obiettivo quello di adornare la sua prigione. Gli
uomini hanno molte imprese e obiettivi su cui concentrare la loro attenzione e con cui formare una
mente aperta; ma le donne, relegate a un solo scopo e costrette a indirizzare il pensiero verso le loro
parti più insignificanti, raramente possono aprire i loro orizzonti oltre il trionfo di un momento. Se però
la loro conoscenza si emancipasse, per una volta, dalla schiavitù a cui sono sottomesse dall’orgoglio e
dalla sensualità degli uomini e dai loro desideri miopi, come quelli di dominio dei tiranni, allora
leggeremmo con sorpresa della loro debolezza. Devo però dedicarmi a questo argomento ancora un po’.
[...]
E dunque gli uomini, nell’orgoglio del potere, non usino lo stesso ragionamento dei tiranni e dei
loro ministri corrotti, asserendo ingannevolmente che la donna deve essere sottomessa perché lo è
sempre stata.
[...]
È tempo di attuare una rivoluzione nel comportamento femminile, quella di restituire alle donne la
loro dignità, e, come parte della specie umana, farle lavorare sodo per riformare loro stesse e il mondo.
Dal diario di Mary Shelley
Mary Shelley era ossessionata dall’idea di riportare in vita i morti. Sua madre
era morta undici giorni dopo averla partorita, e si struggeva di riunirsi con lei.
Nel 1815 le morì la prima figlia, pochi giorni dopo che era nata. Mary aveva
solo diciassette anni. Nel suo diario, riportò un sogno molto toccante.
Domenica 19 marzo. Sogno che la mia bambina tornava in vita. Aveva solo preso molto freddo; noi la
massaggiavamo accanto al focolare e lei tornava a vivere. Mi sveglio e non trovo nessuna bambina.
Se vi è piaciuto Frankenstein 1818 di Mary Shelley,
Charlotte Brontë
http://www.neripozza.it/
NERI POZZA EDITORE