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NERI POZZA

Le Grandi Scrittrici

7
MARY SHELLEY

Frankenstein
Edizione originale del 1818

introduzione di
Nadia Fusini
traduzione di
Alessandro Fabrizi
Le Grandi Scrittrici
a cura di Daniela Pagani

Titolo originale:
Frankenstein. The 1818 Text
First published in Great Britain 1818
This edition with an introduction by Charlotte Gordon
published in Penguin Books 2018

Introduzione © 2018 by Charlotte Gordon


Cronologia e Suggerimenti bibliografici © 2008 by Charles E. Robinson

© 2018 Neri Pozza Editore, Vicenza


ISBN 978-88-545-1769-1
www.neripozza.it
Indice

Introduzione all’edizione italiana


di Nadia Fusini
Introduzione
di Charlotte Gordon

Frankenstein
Edizione originale del 1818

Come leggere Frankenstein


di Charles E. Robinson
Cronologia
di Charles E. Robinson
Suggerimenti bibliografici
di Charles E. Robinson
Suggerimenti bibliografici
di Charlotte Gordon
Introduzione di Mary Shelley
a Frankenstein, terza edizione (1831)
La creazione di Eva, da Genesi 2:18-25 nella versione della Bibbia di re
Giacomo
George Gordon, Lord Byron, Prometeo
Lettera I di Mary Shelley,
Hôtel de Sécheron, Ginevra, 17 maggio 1816
Estratti da Rivendicazione dei diritti della donna
di Mary Wollstonecraft
Dal diario di Mary Shelley
Introduzione all’edizione italiana
di Nadia Fusini

Chi è l’ebreo, chi è il mercante? Entrando nell’aula del tribunale a Venezia –


ricordate? – Porzia fa questa domanda. Dovrebbe essere in grado di capirlo
valutando l’apparenza: uno è vestito da ebreo usuraio, l’altro da mercante
veneziano. Uno è evidentemente Antonio, il mercante di Venezia, l’altro è
evidentemente Shylock, l’ebreo di Venezia. Che bisogno c’è di
quell’interrogativo? Che spiazza il lettore, intaccando alla radice il nocciolo
stesso dell’identità. Chi è chi? è in effetti sempre una domanda perturbante.
Lo stesso turbamento ci prende di fronte a Frankenstein. Chi è
Frankenstein? Lo scienziato o il mostro? Tanto profondo e confusivo è il
legame tra il creatore e la sua creatura, che quel nome finisce per nominare
indifferentemente l’uno e l’altro.
Già negli anni Quaranta dell’Ottocento Frankenstein era di fatto diventato
il nome del “mostro”. Quasi si volesse scaricare nel riso l’angoscia che
comunicava la storia, il mostro esagerato in chiave caricaturale era diventato
il protagonista assoluto delle rappresentazioni teatrali parodiche, burlesche –
che contribuiranno per l’appunto a decretare la fortuna dell’opera. Sì, era
proprio il mostro che piaceva o scandalizzava; era il mostro ad avere un
successo insperato.
A dire il vero, quando – dopo vari tentativi – Percy e Mary Shelley
finalmente trovarono una casa editrice minore, la Lackington, disposta a
stampare Frankenstein in una edizione commerciale di nessun pregio e di
sole cinquecento copie, ed effettivamente il 1o gennaio 1818 il libro uscì, le
vendite furono esigue. Quasi nulle. Il romanzo non vendeva. Era però
costume al tempo che i drammaturghi liberamente attingessero a storie che
incontravano il loro gusto e le portassero a teatro, e così accadde con
Frankenstein. Nelle mani di adattatori abili, la creazione di Mary perse forse
la sua ricchezza ambigua, diventò più semplicemente la storia del mostro, ma
sarà senz’altro il teatro a rendere popolare la figura dell’essere abominevole,
malvagio, reietto, ma capace di suscitare una entusiasmante simpatia. È a
teatro che Frankenstein, il moderno Prometeo – come recita il sottotitolo –
diventò il mito del mostro e dello scienziato pazzo. Confusi nello stesso
nome.
Nel 1848 perfino Elizabeth Gaskell si sbaglierà, quando nel suo romanzo
Mary Barton cita il personaggio di Frankenstein, intendendo con tale nome la
creatura infelice che, se sbaglia e fa il male, non è per colpa sua; semmai la
colpa è di chi gli ha dato la vita, ma gli ha sottratto i modi e i mezzi perché
possa viverla in modo civile. Frankenstein secondo lei è «un mostro con
molte qualità umane». Non diversamente dal suo operaio, John Barton, il
quale, se non un mostro, diventerà però un selvaggio e visionario comunista.
E proprio per le medesime ragioni: e cioè per l’infelicità e per la miseria. È
colpa della società, che non è stata una buona madre. Né un buon padre, se è
per quello. E produce figli ribelli. Ingrati. Quella di Gaskell è un’attitudine
benevola, non troppo diversa dalla comprensione di Mary Shelley per la sua
“creatura”, senz’altro più “umana” del creatore.
È anche così che le due scrittrici donne rovesciano la mitologia romantica
e virile dell’“io”. L’avessero scritto Byron o Shelley, il racconto di come lo
scienziato Frankenstein crea la sua creatura, sarebbe stata tutta un’altra storia.
Senz’altro dai toni epici. Eroici. Come si evince leggendo il Manfred di
Byron. O il Prometeo di Shelley. Perché nella stessa estate del 1816 in cui
Mary scrive il suo racconto, i due poeti romantici stanno lavorando intorno a
temi non troppo diversi, e inventano figure di protagonisti dalla personalità
per l’appunto eroica. Dotati di empiti sublimi.
Mary Shelley invece è al riguardo molto ambivalente. Creare la vita, la
sua esperienza di figlia e di madre le insegna, è un rischio mortale: in quanto
figlia lei nasce, e la madre muore; in quanto madre partorisce, e muore la
creatura. Questa è la sua esperienza “naturale”: creare la vita è facoltà che
non si trasforma in potenza. Né in potere. D’altro lato, che cosa accadrà,
qualora l’uomo (scienziato) usurpi alla donna questa potenza – nel senso di
facoltà, tutta e solo femminile? Che cosa accadrà a chi, in modo artificiale,
per delirio di potenza, assecondato dalla tecnica e dalla ragione scientifica,
riesca a creare la vita? Davvero la vita – il bene più grande, dono di una
potenza mistica e misteriosa – potrà essere prodotta in laboratorio? E che ne
sarà dell’idea stessa di Dio? Dell’idea di Natura?
Mary Wollstonecraft Godwin, che nel dicembre 1816 sostituirà quei nomi
illustri con il nome Shelley, è in tutto e per tutto una donna romantica. È la
figlia orgogliosa di Mary Wollstonecraft, che nel 1792 aveva scritto A
Vindication of the Rights of Woman, e il 10 settembre del 1797, dieci giorni
dopo avere dato alla luce la figlia, era morta di parto, sì, proprio lei, la
vendicatrice dei diritti delle donne. Di parto. Il ritratto della madre troneggia
nella casa in cui Mary cresce col padre William Godwin, famoso filosofo e
scrittore, che educa l’erede nel culto della madre. Mary legge e rilegge i libri
dell’altra Mary, li sa a memoria. In quei libri risuona con forza una
dichiarazione di indipendenza femminile, e un assioma: la libertà delle donne
cambierà il mondo. È un principio politico e filosofico. Insieme all’altro
fondamentale ideale, che celebra l’amore come l’alto principio che ispira le
azioni degli uomini (maschi e femmine) nobili. L’amore è il concetto che
guida l’azione della madre morta e ispira il suo romanzo Maria; or, The
Wrongs of Woman. È il credo che fonda l’Enquiry Concerning Political
Justice del padre, Godwin. Solo se legati dall’amore e dal sentimento di
un’alleanza fraterna, gli uomini e le donne potranno insieme costruire un
mondo giusto. Figlia di tanto illustri genitori, amante e poi moglie di Percy
Shelley, fanciulla istruita – legge in cinque lingue, compreso il greco e il
latino –, Mary Shelley è una giovane donna radicale e progressista che per
tradizione di famiglia difende tali ideali. Crede, non ha dubbi, che la natura
possa beneficiare della cultura, e la società migliorare l’uomo naturale. Con
buona pace di Rousseau.
A scrivere Frankenstein è dunque una ragazza giovanissima: è il romanzo
di una adolescente al suo primo tentativo di scrittura, e il cuore le detta con
l’irruenza e l’assoluto candore della giovinezza un racconto sensazionale, che
provocherà una svolta nella tradizione del romanzo gotico, o del terrore.
Nello stesso fatidico anno 1818 esce postumo L’abbazia di Northanger di
Jane Austen. E L’abbazia degli incubi di Thomas Love Peacock. Sono
entrambi, tra le molte altre cose, una presa in giro del genere, che già sapeva
di stantio – era passato di moda. Fatto sta che rivisitando il “gotico”, e
incrementando il tono del terrore, Mary Shelley apre una vena del tutto
nuova, fantascientifica. Al centro del racconto qui non c’è un’eroina
perseguitata e piena di coraggio che scappa attraverso foreste infestate di
banditi, finisce in prigioni tenebrose, in camere segrete, in castelli
inaccessibili. Nella letteratura “nera” così finivano le giovinette ignare, che
incorrevano nel male per volontà di sfuggirgli. L’immagine della fanciulla in
fuga, della dolcezza molestata, della debolezza tormentata, dell’innocenza
vilipesa era centrale nel romanzo gotico, dove per gotico si intendeva
precisamente questo gusto horroroso. Qui invece, a finire in spazi tenebrosi,
è un uomo di toppe e stracci, creato artificialmente da un altro uomo,
sfruttando l’energia elettrica della Natura che s’accende in una notte di
tempesta.
Frankenstein è senz’altro il “romanzo famigliare” di Mary Shelley;
senz’altro la metafora ossessiva della nascita ne presiede la genesi. La
fantasia di Mary continua a ricamare l’evento mortuario che ha segnato
l’inizio della vita per lei, con quella istantanea contiguità di vita e morte che
torna in piena evidenza nel tema della nascita della “creatura”, per la cui
creazione vengono impiegati organi e arti rubati ai cadaveri, materiali morti
che nell’incredibile metamorfosi si trasformano in corpora produttori di
energia viva.
Una donna per esperienza conosce quel modo della creazione che consiste
nel mettere al mondo una creatura generandola dalle proprie viscere. Qui
invece a partorire è un maschio e il gesto, osservato dal punto di vista
femminile, introduce alla prima e fondamentale e imperdonabile
trasgressione dei confini di genere: che un uomo dia la vita non è
nell’esperienza comune della specie umana, dove la prima fondamentale
divisione si ordina per l’appunto in rapporto alla differenza della prestazione
sessuale, che destina la donna, e non l’uomo, a farsi grembo della
riproduzione.
In più lo scienziato e creatore, una volta compiuta la sua stupefacente
impresa, è preso dal terrore, e rifiuta la creatura che ha messo al mondo. Di
conseguenza, per il dolore del rifiuto, la creatura si tramuta in un terrificante
agente di distruzione che, con metodo e ostinazione e passione, addirittura, si
dedica all’annientamento del perfetto e felice gruppo famigliare del suo
creatore. Se la famiglia umana non lo vuole, il neonato mostro distruggerà la
famiglia. Se chi lo ha messo al mondo ve lo abbandona inerme, il mostro
senza nome non potrà fare altro che parlare la lingua del risentimento. E
incolpare chi gli ha ritirato l’aiuto dovuto, e negato il calore della protezione
attesa e il bene civile dell’educazione. Il creatore, da parte sua, riconoscerà di
essere colpevole, perché come si fa a disconoscere il fondamentale dovere nei
confronti di chi si è generato? Quello cioè di metterlo in grado di vivere?
L’atto di negligenza perseguiterà il novello Prometeo; come conseguenza lo
renderà vittima di un odio immenso, in cui si scatenerà la dipendenza
misconosciuta della creatura.
Più che tragica, dalla parte della creatura, la vicenda è patetica.
Romanticamente il mostro vorrebbe comunanza, società: vorrebbe
appartenere a una comunità, essere come tutti gli altri. La sua eccezionalità
gli pesa. La sua unicità è un danno. Gli rende impossibile la vita. E
impraticabile la bontà. Come può essere buono chi è solo al mondo, privo di
un altro simile in cui specchiarsi e amarsi? Chi venga abbandonato, rifiutato?
Come stupirsi che diventi malvagio colui al quale per nascita la felicità è
negata? Il mostro è una vittima.
A un certo punto del racconto, Mary Shelley inequivocabilmente prende
le sue parti: smette di scrivere dal punto di vista del creatore e si cala nella
parte della creatura. Che mai una volta chiama mostro. Non assume mai il
pregiudizio dello scienziato Victor Frankenstein. Non chiede mai a noi lettori
di schierarci contro la creatura.
Rifiutata da tutti gli esseri umani che incontra, la creatura sola al mondo
si mette in cerca del padre che l’ha rifiutata. (E viene alla mente come allo
stesso modo Mary era stata allontanata dal padre suo, Godwin, che non le
perdonò la fuga d’amore con Shelley.) Oltraggiata, ferita, la creatura rinnega
ogni affetto se non l’odio. E quando il suo creatore gli nega una compagna,
dichiara che si vendicherà.
È con la creatura rifiutata che Mary ci chiede di solidarizzare – la creatura
che sempre più si presenta come un figlio abbandonato, che diventa cattivo
perché non è amato. Una storia sovrannaturale si trasforma così in uno studio
psicologico. E dall’esplorazione gloriosa dei poteri dell’uomo maschio –
tema caro a Shelley e Byron – precipitiamo nell’inferno della natura umana
universale. Frankenstein non è la storia di un brillante inventore e della sua
invenzione; è la storia di ciò che accade nell’atto della creazione. Delle
conseguenze dell’atto di Victor Frankenstein. Delle sue responsabilità. E
soprattutto di quello che accade alla creatura. Della sua “gettatezza”.
La creatura invidia la bellezza e la bontà. Di per sé il neonato non è
cattivo, chiede simpatia; se gliela mostrassero, sarebbe buono. Ma perché gli
altri gli dimostrino amore, dovrebbe dissolversi la platonica confusione di
bene e di bello, che perciò stesso condanna il brutto (e cattivo) a patire
l’alienazione dal mondo dei belli (e buoni). Il “brutto” dovrebbe, in altri
termini, educare i propri contemporanei ad aprire gli occhi fino a cogliere in
lui un’altra bellezza, che offende le proporzioni, che trasgredisce le vecchie
armonie: una bellezza inaspettata, diversa, nuova. Sublime.
C’era in verità chi s’era già impegnato in tale impresa, chi da tempo
cercava di forzare il concetto limite della bellezza, fino a includere l’orrore, la
deformità, la follia – una bellezza sublime. Se tale teoria avesse prevalso, il
mostro avrebbe trovato accoglienza nel mondo comune degli uomini comuni,
e si sarebbe potuto accreditare almeno l’inizio di un raccomandabile pedigree
per entrare nell’album di famiglia dei romantici.
Se ciò non accade, è perché nessuno al mondo tra la brava gente vede la
sua bellezza, nessuno crede alla sua bontà. Solo il vecchio cieco lo accoglie
in casa e gli parla, in pagine tra le più struggenti del racconto al capitolo sette
del secondo volume. Ma anche questo legame gli altri “vedenti” – ma cosa
vedono i vedenti, se non vedono la dedizione, l’affezione generosa del
mostro? – gli precludono; e così l’amore filiale della creatura si perverte in
odio, la dedizione tramuta in aggressività, la gratitudine volge in invidia.
Finché l’unico abbraccio con chi l’ha creato sarà quello mortale. Proprio alla
fine, quando il mostro si getta sul cadavere del suo creatore, svelando infine il
grande, travolgente affetto che lo lega al corpo esanime di chi gli ha dato la
vita; solo allora il mostro potrà manifestare la passione – odio, amore, che
differenza fa? – che avvince la creatura al suo creatore.
Ma Frankenstein non è solo un romanzo famigliare. È anche un romanzo
sociale. Sempre Elizabeth Gaskell, scrittrice tanto diversa da Mary Shelley,
ma sua autentica lettrice, coglie con intelligenza e perspicacia la risonanza
politica che si cela dietro la figura della creatura, tramandando una lettura
politica del testo, che alla fine dell’Ottocento risorgerà nel linguaggio fabiano
di Sidney Webb.
Non v’è dubbio che, consapevolmente o meno, alla gestazione del
romanzo concorre la tensione politica degli anni in cui il romanzo viene
concepito. Vigile e attiva è nella mente di Mary l’angoscia per la violenza che
macchia la vita politica del suo paese. Dal 1811 al 1817 l’Inghilterra è scossa
dalle proteste degli operai che si ribellano all’impiego delle macchine,
strumenti maledetti della strategia maligna dei padroni, che così tolgono loro
il lavoro. Quasi fossero robot messi al posto del loro corpo vivo, gli operai
luddisti aggrediscono, distruggono quell’invenzione diabolica, frutto della
scienza meccanica. «The monster is on the loose» titolano i giornali
dell’epoca: senza freni, disinibita, la violenza scuote le fondamenta
dell’ordine sociale, dello status quo. E l’impersona il mostro di un
proletariato incolto e violento, perché disperato. Un proletariato anonimo,
umiliato e offeso viene descritto come una massa oscura di lupi assetati di
violenza; e dietro il fantasma della folla acefala, affiora lo stesso terrore che
non molti anni prima aveva contagiato la Francia. Viene addirittura rievocato
un significato del termine mostro che è Lear nella sua tragedia a suggerire:
mostri sono per Lear le due figlie “ingrate”. Di “ingratitudine” parla
l’establishment conservatore. Mostri ingrati e pericolosi sono gli operai;
perché se non c’è riconoscenza, né gratitudine, se il padre-padrone si ritrova
davanti uno schiavo ribelle, il legame sociale crolla. Sui rotocalchi all’epoca
si fa un ampio uso della parola mostro in questa accezione: quello francese è
uno Stato-mostro, la Francia è madre di mostri. Di ingratitudine è accusato
l’operaio luddista, e la popolazione affamata dall’ingiustizia sociale.
Naturalmente non la vedono così né Byron né Shelley, che sono
philosophes e poeti illuminati, veggenti. Già William Godwin e Mary
Wollstonecraft avevano insegnato che le condizioni di vita materiale hanno
un’influenza determinante sul carattere di un uomo. E la violenza è semmai il
frutto dell’ingiustizia, questa sì mostruosa, che offende e umilia la
convivenza sociale. Mary Shelley senz’altro condivide tale credo. E quando
la notte del 16 giugno del 1816, a Villa Diodati, dove insieme con Percy è
ospite di Byron, quest’ultimo lancia all’allegra brigata l’idea di scrivere un
racconto di fantasmi, è subito pronta a raccogliere la sfida. Non lo sa ancora,
ma è preparata perché nella sua mente, in sordina, in silenzio, da tempo
covano immagini e fantasie e fantasmi che hanno a che fare con tutto questo.
Siamo a Ginevra, sul lago Lemano, dove Byron, un soggetto assai
chiacchierato, forse ancora più degli Shelley – un tipo la cui esistenza è uno
scandalo – si intrattiene con una “banda di incestuosi”. Così vengono
chiamati lui e i suoi ospiti. Il clima è spaventoso. È il famoso “anno senza
estate”. Il 10 aprile dell’anno prima il vulcano Tambora, nell’isola di
Sumbawa, in quella che oggi chiamiamo Indonesia, erutta: è una delle
peggiori eruzioni che l’umanità ricordi, sconvolge il ritmo delle stagioni in
Europa, in America, in Asia. In Asia il Fiume Azzurro straripa. Da Mosca a
New York la carestia affama il mondo. In Italia cade la neve, ed è rossa. In
Svizzera il freddo è glaciale, la pioggia incessante. La banda di incestuosi è
chiusa in casa da giorni, e s’annoia; tanto per ingannare il tempo, in una sera
più di altre tempestosa, ecco l’idea: perché non inventare storie di fantasmi?
Racconti da brivido? Sono in quattro, ma a portare a termine l’impresa
saranno soltanto lei, Mary, e il medico John Polidori, che scriverà Il vampiro.
La storia di Byron rimarrà un “frammento” che pubblicherà alla fine del
poema Mazeppa. Shelley, più portato a tradurre idee e sentimenti in immagini
poetiche, alla fine lascerà perdere.
Mary invece è diligente, ha promesso, e si dedica con slancio a pensare
una storia che possa rivaleggiare con le fiabe tedesche che nel loro ritiro gli
incestuosi hanno appena letto insieme e che ora li spingono all’emulazione.
Sì, vuole proprio inventare una storia simile a quelle fiabe, che come quelle
colga la meccanica profonda della violenza, una vera e propria storia di
fantasmi degna del nome. Ecco l’idea. Al tempo stesso, Mary si sente impari
all’invenzione e, animata da una specie di vuota inanità, si dispera. Si
mortifica di fronte all’incapacità creativa: a lei piace creare, donare, offrire,
rispondere, corrispondere; è una fanciulla prodiga, è una donna oblativa. È
cresciuta nell’habitat fecondo di pensieri, idee, accese discussioni che intorno
a lei, fin da piccola, afferravano la vita nella trama delle parole nel tentativo
nobilissimo, tutto umano, di dare senso a ogni esperienza. E ora è qui, sul
lago di Ginevra, e se manca Rousseau, ci sono però Byron e Shelley e
Polidori e le conversazioni lunghe e vigorose e vivaci, cui assiste spesso in
silenzio, epperò devotamente attenta. Si affrontano varie dottrine filosofiche,
tra cui la natura del principio vitale, e se mai potrà venire scoperto e
divulgato tale soffio. Si parla degli esperimenti di Darwin. In particolare, le
rimane impresso un esperimento dello scienziato: il quale pare avesse
conservato a lungo in un vaso di vetro una sezione di lombrico, finché per
qualche ragione straordinaria quello cominciò a muoversi di moto spontaneo.
Si può dunque creare la vita? Rianimare un corpo? La teoria di Luigi Galvani
sull’elettricità intrinseca al corpo animale dà speranze in questo senso; forse
le componenti di un essere vivente si possono fabbricare, assemblare, per poi
infondervi il calore vitale.
La sera del 16 giugno 1816, in particolare, a Villa Diodati la discussione
si fa animata, ed è passata l’ora stregata della mezzanotte, quando gli amici si
separano per andare a letto. Mary posa la testa sul cuscino, ma non si
addormenta. La fantasia inquieta dona alle immagini tra il sonno e la veglia
una vividezza di gran lunga superiore alla percezione normale. In uno stato di
acutissima vigilanza le compare davanti il volto pallido dello studioso di arti
profane inginocchiato vicino alla creatura che ha appena assemblato,
l’orrenda sagoma di un corpo disteso che, grazie all’entrata in funzione di un
qualche potente macchinario, comincia a fremere con un movimento
impacciato, automatico, come fosse vivo solo a metà. È una visione
spaventosa.
D’altra parte, non può che essere spaventevole lo sforzo umano di imitare
lo stupefacente meccanismo del Creatore del mondo. Al confronto, non può
che risultarne un’imitazione patetica, non una veridica mimesi, ma una
parodia grottesca, sinistra. Non solo: una volta conseguito lo scopo, il
successo terrorizza l’artista-scienziato, che fugge colmo d’orrore per l’orrido
manufatto, sperando che, lasciata a se stessa, la flebile scintilla di vita che ha
acceso si spenga e quella “cosa”, che ha ricevuto solo un’imperfetta
animazione, torni allo stato di materia inerte. E il silenzio della tomba
soffochi per sempre la breve esistenza dell’orrido patchwork di pezzi di
cadavere a cui lo scienziato ha per un attimo guardato come alla culla della
vita.
Il creatore si rifugia in camera sua e prende sonno. Poi qualcosa lo
sveglia, apre gli occhi e vede l’orrida cosa a fianco del letto, che lo guarda
con i suoi occhi gialli e acquosi, pieni di domande. (L’episodio è narrato nel
capitolo quarto del primo volume del romanzo.)
In una inquietante confusione delle parti, quegli occhi gialli che fissano il
loro creatore svegliano Mary dall’incubo. Mary è effettivamente terrorizzata.
La fantasia si è impossessata a tal punto della sua mente che rabbrividisce. È
sveglia o dorme? Come per appoggiarsi alla consistenza della realtà che la
circonda, si guarda intorno: la stanza è quieta, il parquet scuro, le imposte
chiuse, la luce della luna entra a fatica, non si vede, ma si sente la presenza
del lago ghiacciato e delle cime bianche delle Alpi. E il terrore non cessa.
Finché Mary pensa: ecco, la storia di fantasmi, l’ho trovata! Quel che
terrorizza me, terrorizzerà gli altri.
Il mattino dopo annuncia a tutti che “ha” il suo racconto, le è giunto per
vie oniriche. E subito comincia a scrivere. Le prime parole sono: «Fu in una
tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche», che
diventeranno l’inizio del quarto capitolo del primo volume. E va avanti
sicura: trascrive parola per parola l’incubo a occhi aperti. Inizialmente pensa
alla misura di un racconto breve, di poche pagine, ma Shelley la spinge a
sviluppare l’idea, ad arricchire le movenze dell’intreccio. A Shelley non deve
il suggerimento di un solo evento, né ha bisogno che le fornisca lui gli spunti
emotivi; ma se non fosse stato per la sua vicinanza, riconosce, il libro non
avrebbe preso la forma che prenderà. La prefazione che accompagna
l’edizione del 1818 la scrive lui. È con lui accanto che licenzia al mondo la
creatura che, lui partecipe, ha generato. Passano le settimane. Intanto, a
settembre, nasce Clara, che morirà dopo appena un anno. E a pochi mesi di
distanza muore anche William, il primo figlio. In mezzo a queste morti,
presenti o a venire, Frankenstein vedrà la luce della stampa il 1o gennaio
1818. Come non pensare che alla sua opera Mary non affidi il carico di
morte, la pena, il dolore di quei giorni? E anche le proprie mortifere fantasie?
Ma soprattutto, come non sentire nel racconto il controcanto femminile
all’ideale prometeico maschile, virile? Come non cogliervi l’esposizione del
lato controverso del razionalismo umanista? E il profondo accordo con
l’intonazione malinconica del sentimento romantico della nascita come
esperienza della “gettatezza”? Per la creatura nascere non significa forse
essere espulsa, abbandonata?
Prima di immedesimarci con quell’astronauta di 2001: Odissea nello
spazio che vediamo staccarsi dall’astronave e per sempre cadere nello spazio
infinito, noi ci siamo identificati con la creatura di Frankenstein. Se le
mitologie eroiche di Shelley e di Byron mascherano con l’euforia dello
slancio maniacale del pathos, Mary svela il bathos di quella medesima verità:
nel mondo si è gettati, e si è soli. Intendo dire: il romanzo di Mary Shelley
cresce all’ombra della fede romantica nelle infinite capacità dell’uomo, e ne
custodisce in ombra, nelle pieghe più segrete, le contraddizioni. Dejection, an
ode aveva scritto nel 1802 Coleridge, poeta che Mary Shelley ben conosce. Il
termine dejection, ovvero “sconforto”, o più precisamente “deiezione”,
compare più volte nel testo di Mary.
Sono passati gli anni, ben due secoli, abbiamo provato ben altri terrori,
altre maschere maligne hanno solleticato e insieme catarticamente liberato le
nostre più intime paure, ma Frankenstein rimane uno dei più agghiaccianti
romanzi neri o gotici mai scritti. Può colpire nella scrittura un tono a volte
scolastico, antiquato, irritare una certa indulgenza all’iperbole, annoiare una
certa tendenza a disseminare qua e là citazioni forse fin troppo dotte; può
sembrare poco credibile, addirittura farci sorridere l’idea che il mostro si
istruisca fino a rendersi capace di leggere gli stessi libri che sta leggendo
Mary, e cioè il Paradiso perduto, le Vite di Plutarco, I dolori del giovane
Werther. Ma al di là del tono a volte enfatico che lo allontana dal nostro
gusto moderno, il romanzo di Mary Shelley è, in realtà, modernissimo. E più
forte degli echi miltonici, o alla Coleridge, più forte ancora vibrano in esso
anticipazioni di accordi nuovi, alla Poe, alla Melville, che aprono alla science
fiction a venire, alla scienza e alla narrativa moderna.
Sì, Frankenstein darà inizio a qualcosa di assolutamente nuovo, ovvero al
tipo di favola fantascientifica che diventerà nel Novecento un genere
letterario di grande rispetto. Certo, qui nell’insieme predomina ancora la
concezione dell’overreacher, del trasgressore di faustiana memoria, e l’orrore
non è soltanto sociale, né soltanto politico, non attiene soltanto al fatale
sviluppo tecnologico della civiltà: è morale, religioso. La nota dell’orrore qui
risuona con accenti che evocano il patto ignominioso col diavolo, non tanto
connubi infami tra scienza e potere.
Ma la nota più alta e profonda è psicologica, ed è la scoperta che “la cosa
di tenebra” è dentro di noi.
Introduzione
di Charlotte Gordon

Alla prima pubblicazione di Frankenstein, nel 1818, molti lettori rimasero


scioccati. Vi poteva essere qualcosa di più terribile della storia di uno
scienziato pazzo che crea la vita? Che genere di persona poteva avere mai
scritto una storia così orrenda? I critici ritennero il romanzo contrario alla
religione, per la sua rappresentazione di un essere umano che tenta di
appropriarsi del ruolo di Dio. Uno scrittore dell’epoca si lamentò che il libro
fosse «orribile e disgustoso». Dichiarò che il suo autore doveva essere «pazzo
quanto il suo protagonista»1. Ma non poteva accusare nessuno in particolare
poiché l’identità dell’autore era sconosciuta. Il libro era stato pubblicato
anonimo e quando la gente scoprì il nome dell’autore, la verità sembrò ancora
più scandalosa della “orribile” storia in sé. L’autore era una donna, il suo
nome Mary Godwin Shelley.
Nel diciannovesimo secolo alle donne non era dato scrivere romanzi,
meno che mai un romanzo come Frankenstein. Dalle donne del ceto medio ci
si aspettava che si limitassero a essere buone mogli, figlie e madri. Che una
donna uscisse dal campo d’azione a lei proprio era contrario a tutte le regole
della società. I critici brontolavano: Mary Shelley era un essere mostruoso e
immorale quanto la sua storia. Ma quando la incontrarono, si sorpresero a
scoprire che Mary era una donna signorile e riservata. Un nuovo conoscente
disse di avere immaginato che l’autore di Frankenstein fosse una persona
«indiscreta e persino stravagante», ma di averla invece trovata «posata,
taciturna, femminile». Era difficile per i contemporanei di Mary far quadrare
l’audacia dell’opera con la persona che l’aveva creata. Perché invece di
essere “sconveniente” o “mascolina”, lei si rivelò come l’incarnazione delle
loro idee su come doveva essere una donna2.
Purtroppo questi principi misogini erano idee condivise a quel tempo. Gli
esperti dichiaravano che le donne erano inferiori agli uomini in ogni campo
dello sviluppo umano e che non potevano ricevere un’istruzione oltre un
certo livello rudimentale. Se le menti degli uomini avevano il giusto
potenziale per il ragionamento e la rettitudine etica, le donne erano invece
considerate sciocche, volubili, egoiste, credulone, maliziose, inaffidabili e
infantili. Le mogli non potevano disporre di proprietà o chiedere il divorzio. I
figli erano proprietà del padre. E non solo per un marito era legale picchiare
la moglie, ma tutti gli uomini erano invitati a punire qualunque donna
ritenessero ribelle. Se una donna tentava di scappare da un marito crudele o
violento, veniva considerata una fuorilegge, e suo marito aveva il diritto
legale di farla finire in prigione3.
Questo sistema oppressivo cominciava dall’infanzia. Ai ragazzi veniva
insegnato che loro erano superiori alle ragazze. Alle ragazze veniva ordinato
di sottomettersi ai fratelli, padri e mariti. L’istruzione delle giovani donne del
ceto medio e alto si limitava ad attività come suonare il piano, parlare
francese, ricamare e cantare: abilità decorative che avrebbero permesso di
risultare attraenti ai futuri mariti, ma che non avrebbero insegnato a pensare
con la propria testa. Qualunque forma di seria erudizione era fortemente
scoraggiata, perché il troppo studio sembrava un progetto pericoloso, non
tanto per il mondo quanto per le donne stesse. La loro costituzione era
abbastanza forte per sostenere un tale sforzo? Avrebbero dovuto acquisire
ulteriori abilità oltre a quella di saper scrivere il proprio nome, fare le
addizioni e le sottrazioni e leggere dei passi molto semplici? La maggior
parte della gente pensava che la risposta fosse no; data la loro fragilità, le
donne non andavano messe a troppo dura prova. Inoltre, un’eccessiva cultura
libresca poteva distruggere la vita di una donna e mandare all’aria le sue
aspettative di matrimonio. Un padre ammonì: «Se il caso vuole che tu abbia
una qualche istruzione, tienila segreta»4.
Persino un grande difensore della libertà individuale come Jean-Jacques
Rousseau non poteva concepire che le ragazze avessero gli stessi diritti
naturali dei ragazzi. Sosteneva che le donne fossero state create per essere di
aiuto agli uomini:
L’educazione delle donne dovrebbe sempre essere in relazione agli uomini. Per compiacerci, per
esserci utili, per farsi amare e stimare da noi, per educarci da bambini e prendersi cura di noi
quando cresciamo, per consigliarci, consolarci, rendere le nostre vite facili e gradevoli: questi sono
i compiti delle donne in tutti i tempi e quel che gli dovrebbe essere insegnato nella loro infanzia5.
L’ironia è che, proprio mentre i ceti alti discutevano le idee di Rousseau nei
loro saloni eleganti, i loro bisogni quotidiani venivano soddisfatti dal duro
lavoro della servitù di sesso femminile. Nessuno pensava che la ragazza che
trasportava la legna al caminetto del piano superiore fosse troppo delicata per
tali faccende. Semmai, la servitù era trattata indistintamente, uomini e donne,
come bestie da soma. E questo fino a che tale diseguaglianza sociale avrebbe
portato la classe dei lavoratori a insorgere e a proclamare i propri diritti. Nel
1789 le classi inferiori assaltarono la Bastiglia, la famigerata prigione di
Parigi, dando inizio alla Rivoluzione francese. I radicali inglesi sostennero gli
obiettivi della rivoluzione. Molti hanno connesso la rivoluzione con la nascita
del Romanticismo, un movimento che promuoveva i diritti dell’individuo e la
libertà di tutti gli esseri umani, donne, schiavi, lavoratori e lavoratrici inclusi.
Tuttavia in Inghilterra vi fu una reazione contraria agli eccessi della
rivoluzione. Per quanto i poeti romantici inglesi (Wordsworth, Coleridge,
Byron, Keats e Shelley) fossero ispirati da ideali romantici, molta gente
temeva che troppe idee “francesi” avrebbero disgregato la stabilità della vita
inglese. Di conseguenza le persone comuni, invece di lamentare
l’oppressione delle classi lavoratrici, o sempre a tal riguardo sentirsi
oltraggiate dalle restrizioni imposte alle donne, accettavano queste condizioni
come la norma di quei tempi. Le donne del ceto medio coltivavano la loro
“delicatezza” e valutavano la debolezza come una dote vantaggiosa nella
ricerca di un marito, ma al tempo stesso rivendicavano la loro superiorità
sulle proprie cameriere. Se una donna era facile agli svenimenti, non
sopportava gli insetti, aveva paura dei temporali, dei fantasmi e dei banditi,
ingeriva solo piccole porzioni di cibo, era stremata dopo una breve
passeggiata e piangeva se le toccava mettere dei numeri in colonna, era
considerata l’ideale femminile6.
Fortunatamente l’autrice di Frankenstein, Mary Godwin Shelley (1797-
1851), poco tollerava questi principi. Era la figlia orgogliosa della famosa
radicale Mary Wollstonecraft (1759-1797), autrice di A Vindication of the
Rights of Woman (Rivendicazione dei diritti della donna) (1792). Anche se
Wollstonecraft morì dieci giorni dopo averle dato vita, Mary fu comunque
profondamente influenzata dalle idee di sua madre. Sulla parete della sua casa
d’infanzia era appeso un grande ritratto di Wollstonecraft. La ragazza lo
studiava, e si metteva a confronto con la madre in cerca di somiglianze. Il
padre di Mary, William Godwin (1756-1836), un rinomato filosofo e
romanziere, portava Wollstonecraft ad esempio di virtù e amore, lodandone il
genio, il coraggio, l’intelligenza e l’originalità. Arrivò al punto di insegnare a
leggere a Mary con le lettere incise sulla lapide tombale di sua madre. Ed
escludendo WOLLSTONECRAFT, il nome della madre era identico al suo: Mary
Godwin.
Crescendo, Mary lesse e rilesse la Rivendicazione scritta da sua madre e
studiò gli altri libri di Wollstonecraft, inclusa la sua celebrazione della
Rivoluzione francese, spesso imparandone le frasi a memoria.
Wollstonecraft disdegnava l’idea che le donne fossero esseri umani
inferiori agli uomini. Le donne, sosteneva, non erano per natura meno
ragionevoli degli uomini, né carenti di fibra morale. Per il bene di tutta
l’umanità le donne avrebbero dovuto ricevere un’istruzione rigorosa ed essere
incoraggiate a esercitare le loro abilità di ragionamento. «Una rivoluzione nel
comportamento delle donne» dichiarò «[potrà] cambiare il mondo»7.
Impregnata com’era delle idee della madre e cresciuta da un padre
segnato dal dolore per la morte della moglie, Mary cercò di vivere
seguendone i principi filosofici. Nel corso della sua vita cercò di far risorgere
Wollstonecraft diventando, se non la stessa madre, la sua figlia ideale.
Quando scrisse i suoi libri reinventò il passato e riplasmò il futuro in un fatale
sforzo di resuscitare i morti, rivolgendosi a ciò che non avrebbe mai potuto
riottenere ma che cercò di duplicare in occasioni molto diverse. Sapeva che
era impossibile ricongiungersi a sua madre, e tuttavia è a lei che anelava, e il
modo migliore che conoscesse per esserle vicina era quello di vivere secondo
la sua filosofia, anche se questo significava rompere con tradizioni consacrate
dal tempo8.
Era un’ambizione pericolosa, questa, perché le idee di Wollstonecraft
contrastavano completamente con le convenzioni sociali. Dopo la
pubblicazione di Rivendicazione, i suoi nemici l’avevano chiamata puttana e
«iena in sottoveste»9. Quando lei morì, suo marito, Godwin, pubblicò un
memoriale di rivelazioni che elencava le relazioni sessuali illecite di
Wollstonecraft, compresa la figlia avuta al di fuori del vincolo nuziale prima
di incontrare lui. Godwin dichiarò che con questo libro voleva rendere
omaggio alla defunta moglie e che era fiero della vita non convenzionale di
Wollstonecraft. Riteneva che il pubblico dovesse conoscere i dettagli della
sua vita poco ortodossa, ma le conseguenze del suo memoir furono di vasta
portata e nocive.
La reputazione di filosofa politica di Wollstonecraft era adesso oscurata
dai suoi atti sessuali impropri. E invece di venire considerata una voce che
dava un contributo importante al pubblico dibattito, era vista come una
“puttana” e una fuorilegge del sesso. I suoi scritti furono ampiamente
trascurati fino agli anni Settanta del Novecento e lei stessa quasi scomparve
dalla nostra memoria storica. La sua piccola figlia illegittima, Fanny Imlay
Godwin, divenne la più nota bastarda dell’epoca. Godwin aveva cercato di
proteggere Fanny dall’ostracismo della società adottandola quando sposò
Wollstonecraft. Ma per quanto lei e Mary fossero cresciute nello stesso
nucleo famigliare, che includeva la seconda moglie di Godwin, Mary Jane
Clairmont, e i suoi due figli Jane e Charles, Fanny non si riprese mai dalla
perdita dell’amata madre. Avrebbe infatti passato il resto della vita sentendosi
indesiderata e non amata, l’intrusa in quella famiglia dove nessuno dei cinque
figli aveva la stessa coppia di genitori.
Per niente scoraggiata dal furore che aveva destato il memoir del padre,
Mary era determinata non solo a scrivere libri come la madre ma anche a
vivere con lo stesso tipo di libertà. Anche lei avrebbe infranto le regole della
società. Anche lei avrebbe condotto la vita di una donna indipendente. La
prima occasione di seguire le tracce della madre arrivò quando incontrò per la
prima volta il poeta ventunenne Percy Shelley.
Alla sedicenne Mary, Shelley sembrò la quintessenza del poeta
romantico, con i capelli al vento e lo sguardo pensoso. Così lo descriveva il
suo amico Thomas Jefferson Hogg: «sfrenato, intellettuale, di un altro
mondo; come uno spirito appena disceso dal cielo; come un demone emerso
dalla terra proprio in quel momento»10.
Dal canto suo, Shelley rimase immediatamente colpito dall’aria
drammatica di Mary. Pallida, con una vampa di capelli rosso-oro, Mary era
una giovane taciturna, ma quando parlava le sue frequenti citazioni e allusioni
letterarie rivelavano la sua erudizione. Shelley ne fu sbalordito. Non aveva
mai incontrato nessuno come Mary Godwin.
Sfortunatamente Shelley era già sposato, e pochi tabù erano tanto potenti
quanto quello della relazione con un uomo sposato. Ma Mary non si fece
inibire dalle convenzioni sociali. Dichiarò di amarlo e si gettò nelle sue
braccia. Nei ricordi di Shelley, Mary fu ispirata «da uno spirito che scruta
nella verità delle cose»11.
Insofferenti alle restrizioni che incontravano, Mary e Shelley scapparono
insieme in Europa. La cosa bizzarra è che si portarono dietro la sorellastra di
lei, Jane, che cambiò il suo nome in Claire e non tornò più alla vita borghese
che la madre aveva tentato di imporle a Londra. Sia Mary che Percy erano
convinti di agire in accordo con il più alto dei principi morali: se due persone
erano innamorate, nulla doveva ostacolarle. Dopotutto questo era uno dei
principi guida dell’ultimo romanzo di Wollstonecraft, Maria; or, The Wrongs
of Woman ed era un punto fondamentale nel famoso volume di Godwin
Enquiry Concerning Political Justice, nel quale intonava che «il possesso di
una donna» legalizzato nel matrimonio fosse «odioso egoismo»12.
In considerazione di questa critica al matrimonio, la coppia felice era
convinta che Godwin avrebbe approvato la loro relazione. Invece, al loro
ritorno Godwin smise di parlare con la figlia; e questo fu un brutto colpo per
Mary, dal momento che il padre era la persona che lei più amava e ammirava
sulla terra. La società era spietata. Mary venne definita una puttana, Percy un
mascalzone. I vecchi amici gli voltarono le spalle. La matrigna di Mary si
accodò a Godwin e si rifiutò di parlarle, anche quando lei perse la sua prima
figlia, morta dopo solo tre giorni di vita. Fanny, l’altra figlia di
Wollstonecraft, riusciva a svignarsela di nascosto per andare a trovare la
sorellastra, ma le sue visite furono poche e molto distanti l’una dall’altra.
Claire Clairmont rimase fedele alla coppia ma il dono della sua presenza
prese un risvolto negativo poiché l’intimità fra Claire e Shelley giunse al
punto di far sentire Mary a disagio. Sospettò che tra i due si fosse sviluppato
un legame romantico e lei voleva Shelley tutto per sé.
Per tutto questo tumultuoso periodo, Mary si attenne a un rigoroso
programma di letture e scrittura. Voleva vivere all’altezza del lascito materno
e scrivere libri importanti, ma non era ancora sicura di quali dovessero essere
le sue tematiche. Nel gennaio del 1816 mise al mondo un maschietto sano,
William, che proteggeva con cura, temendo che anche lui le potesse venire
portato via. Giunse una primavera piovosa e William si prese una tosse che
non voleva passare. Sollecitati da Claire, Mary e Percy decisero di fare una
vacanza a Ginevra, dove si riteneva che l’aria fosse salubre. C’era anche il
beneficio di essere vicini a Lord Byron, con cui Claire aveva una storia.
Byron era il più noto poeta dell’epoca. Le sue poesie erano famose per le
loro franche descrizioni di storie d’amore illecito e le loro ambientazioni
esotiche. Anche lui, come gli Shelley, era stato emarginato da Londra per il
suo comportamento scandaloso, inclusa la relazione incestuosa con la
sorellastra. Byron aveva affittato una grande casa, Villa Diodati, e gli Shelley
ne presero una più piccola lì vicino. Quando alla stampa giunse questa voce,
il gruppetto venne etichettato come “banda di incestuosi”13. Ma lontani
dall’Inghilterra, Mary, Percy e Byron si sentivano al sicuro dai loro detrattori,
ispirati ed entusiasti della reciproca compagnia.
L’unico problema era il clima, perché il 1816 rimase noto come l’anno
senza estate. L’eruzione di un vulcano in Indonesia, l’anno precedente, aveva
spruzzato dense ceneri per l’atmosfera, scombinando tutti i pattern climatici
in Europa, Asia e persino nell’America del Nord. Il Fiume Azzurro straripò.
In Italia cadde neve rossa. La carestia si diffuse da Mosca a New York. Il
grano gelò e il frumento appassì14.
In Svizzera, il tempo fu insolitamente freddo e tempestoso per la stagione,
e dopo settimane di pioggia continua i giovani erano molto irrequieti. Finché
Byron sfidò i suoi amici a chi sarebbe riuscito a scrivere la storia di fantasmi
più paurosa. Si era stufato di leggere le stesse, non memorabili, storie.
Qualcuno tra loro, senz’altro, poteva fare di meglio15.
Byron e Shelley si cimentarono con le loro penne nell’impresa, ma
tornarono presto a lavorare agli altri loro progetti. Il medico personale di
Byron, John Polidori, scrisse la bozza di una storia che sarebbe poi diventata
Il vampiro, una delle fonti di ispirazione per il famoso Dracula di Bram
Stoker. Ma a fare centro fu Mary. La prima frase che scrisse – «Fu in una
tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche» – sembrò
dare la stura a tutto ciò che era a venire, come se la storia fosse pronta a
riversarsi sulla pagina16. Passò i due anni successivi ad ampliarla e a
revisionarla, pubblicando il romanzo nel 1818, quando aveva solo ventun
anni.
Quando Mary mostrò a Percy le prime pagine, Shelley la incoraggiò ad
ampliare la storia e lei seguitò a elaborare la prima stesura quando in autunno
tornarono in Inghilterra. Attinse alle proprie esperienze di figlia la cui madre
era morta dopo averla messa al mondo, di donna ripudiata dal padre e
condannata dalla società in cui viveva per essere andata a vivere con l’uomo
che amava, e trovò una brillante chiave di volta nella trama, quella sorpresa
che avrebbe distinto la sua storia dalle altre e l’avrebbe resa uno degli autori
più famosi nella storia della letteratura inglese: il suo giovane inventore,
invece di apprezzare con fierezza la propria opera, la rinnega, abbandonando
orripilato il «compimento» delle sue fatiche.
Se questa storia fosse stata scritta da un altro poeta romantico, da Shelley
o Byron, sembra improbabile che uno dei due avrebbe immaginato tale
situazione. In effetti, nei lavori cominciati quell’estate, il Manfred di Byron e
il Mont Blanc e il Prometheus Unbound di Shelley, entrambi i poeti
inventarono dei protagonisti creatori le cui abilità li fanno sembrare eroici.
Mary invece assumeva una posizione ambivalente sulla prospettiva che gli
uomini creassero la vita. Aveva fatto nascere un bambino che amava, ma ne
aveva anche perso uno, nonché perso la sua stessa madre in seguito al parto.
Se gli uomini avessero potuto gestire la vita e la morte, lei non avrebbe patito
queste tragedie. D’altra parte, si domandava cosa ne sarebbe stato del ruolo
delle donne se fosse stato possibile creare la vita con metodi artificiali17. Era
anche preoccupata di cosa ne sarebbe stato di Dio, o del concetto di Dio: il
misterioso, se non mistico potere che soggiaceva alla natura.
Questi pensieri la inquietavano e Mary smise di scrivere dal punto di vista
del creatore e spostò il suo punto d’osservazione su quello dell’essere creato.
Non lo chiamò mostro nemmeno una volta, rifiutandosi di rinforzare i
pregiudizi di Frankenstein e chiedendo ai lettori di usare le proprie capacità di
giudizio nel valutare il comportamento della creatura.
La creatura di Victor Frankenstein, respinta dagli esseri umani che
incontra, lamenta la condizione di essere solo al mondo e si mette a cercare il
padre che lo ha abbandonato. Quando poi la creatura lo trova, il giovane
scienziato allontana il “figlio”, così come Godwin aveva allontanato Mary.
Offesa e ferita, la creatura dice: «Finché non avrò legami né affetti, mi nutrirò
di odio e cattiveria». Dichiara che continuerà la sua azione di feroce
rappresaglia a meno che il suo creatore non gli faccia una compagna: «Sono
solo e infelice. L’essere umano non si accompagnerà mai a me. Ma una
creatura altrettanto deforme e orribile non si negherebbe alla mia compagnia,
se fosse della stessa specie e avesse i miei stessi difetti. Devi creare questo
essere»18.
Nel descrivere la sofferenza della creatura con dettagli così tangibili,
Mary chiede al lettore di simpatizzare con lui. Nelle sue mani, lui diventa un
figlio abbandonato, cresciuto male a causa del cattivo trattamento ricevuto
dal suo creatore.
L’attenzione di Mary al punto di vista della creatura trasforma il romanzo
da una storia soprannaturale a un complesso studio psicologico. Si discosta
dall’esplorazione del potere creativo dell’umanità – un tema caro a Shelley e
a Byron – per scandagliare gli abissi della natura umana. Frankenstein non è
semplicemente la storia di un geniale inventore e della sua invenzione; è la
storia di quanto accade dopo l’atto di creazione. Quali sono le conseguenze
dell’invenzione di Victor Frankenstein? Quali le sue responsabilità? Cosa
accade a tutti gli altri a causa della sua creazione? E, più importante di tutto,
cosa accade alla sua creazione abbandonata, la creatura?
Quell’autunno Mary, Shelley e Claire si trasferirono a Bath, dove Mary
continuò a lavorare al suo romanzo. Claire era incinta del figlio di Byron e,
come da copione, le voci locali decretarono che il padre fosse Shelley.
Ostracizzata e odiata dai loro vicini, Mary si immerse nella sua storia.
Aggiunse un nuovo personaggio, Robert Walton, un esploratore artico in
rotta verso il Polo Nord, che narra la storia di Frankenstein in una serie di
lettere indirizzate alla sorella, Margaret Walton Saville, fornendo al lettore
ancora un’altra versione della storia.
Come Frankenstein, Walton è ossessionato dal desiderio di dimostrare il
proprio genio, agendo contro i desideri dell’amata sorella, che ha “sinistri
presagi” sulla sua impresa. Quando finalmente Walton rinuncia alla sua
quest, la sua decisione offre una promettente alternativa alle scelte disastrose
fatte da Frankenstein e la sua creatura. Walton si dispera per la perduta gloria,
ma sa che la sorella verrà rincuorata dal fatto che lui sia sopravvissuto.
L’unica voce della ragione del romanzo, Margaret, si rivela un personaggio
importante, nonostante le sue parole vengano udite solo indirettamente,
attraverso le lettere del fratello: un’eco strutturale del ruolo che la maggior
parte delle donne era costretta a giocare nelle vite degli uomini. La sua
ostilità all’ambizione del fratello è un importante contrappunto all’egoismo
dei personaggi maschili, ricordando al lettore l’importanza dell’amore e delle
relazioni. L’importanza di Margaret, e quanto Mary si sentisse a lei vicina, è
sottolineata dal fatto che Mary diede a Margaret le iniziali che sarebbero state
le sue se fosse stata sposata con Shelley: MWS.
Mary organizza la narrazione su tre piani, inserendo una storia nell’altra a
mo’ di matrioska, e così facendo fornisce al lettore tre versioni diverse della
stessa serie di eventi. Questo era un audace discostarsi dai romanzieri
didattici della generazione precedente (come Samuel Richardson o il suo
stesso padre) e diede a Mary l’opportunità di creare una narrazione complessa
che richiedeva al lettore molto più di quanto avrebbe fatto una semplice
parabola contro i pericoli dell’inventività. Attenta a non sbilanciare la storia a
favore né del creatore né della creatura, Mary attivò un senso di sospensione
morale in cui le convenzionali domande “Chi è l’eroe? Chi è il malvagio?”
non si potevano formulare. La creatura e Walton inficiano la versione degli
eventi di Frankenstein, permettendoci di vedere quello che lui non ammette
mai: che era nel torto perché non ha dato alla sua creazione amore e
istruzione. I mostri, dice Mary, siamo noi a farli19.
Mary dedicò il Frankenstein a suo padre, nel tentativo di riguadagnarsi il
suo affetto. Ma il libro esprimeva in ampia misura un sentimento di
mancanza della madre. Anche lei, come la creatura, era stata abbandonata:
«Ero solo... [Il mio creatore] mi aveva abbandonato»20. Suo padre le aveva
voltato le spalle. Non aveva una madre. Era sicura che se Wollstonecraft
fosse vissuta, lei non avrebbe mai reciso la loro relazione, come aveva fatto
Godwin. Nell’articolare le conseguenze del rifiuto di Frankenstein verso la
sua creazione, lei era in grado di dimostrare la tragedia che segue quando i
genitori non amano e non guidano i loro figli. Persino Victor si sente in colpa
per le sue mancanze, confessando di non avere tenuto fede alle
«responsabilità di un creatore verso la sua creatura»21. In un mondo privo di
relazioni amorevoli, regna la devastazione, e il male trionfa22.
La preoccupazione di Mary per l’abbandono dei figli derivava dalle sue
esperienze, ma scaturiva anche dal credo condiviso con altri romantici che i
bambini fossero i “sacerdoti della natura”. Quindi non solo gli adulti
dovevano proteggere i bambini, ma dovevano guardare ai bambini come
fonte di saggezza, equilibrio e salute spirituale. I romantici credevano che i
bambini maltrattati dalla società si sarebbero corrotti e guastati e sarebbero
divenuti degli adulti violenti e instabili, proprio come accade alla creatura in
Frankenstein23.
Mary dovette sopportare due colpi devastanti mentre scriveva
Frankenstein: il suicidio della sorellastra Fanny e quello di Harriet Shelley, la
prima moglie di Percy. Queste tragedie confermarono ciò che Mary sapeva
già: le madri non sposate e i figli illegittimi erano odiati dalla società
esattamente come la creatura di Frankenstein. Mettendo al mondo Fanny,
Wollstonecraft era divenuta una reietta. Fanny fu una reietta dal momento in
cui nacque. E questo, secondo Mary, era profondamente ingiusto. Fanny era
innocente, e anche sua madre lo era. Wollstonecraft si era innamorata, tutto
qui, e non avrebbe dovuto essere ostacolata. Né, a tal proposito, doveva
esserlo lei. Il suo crimine consisteva soltanto nel fatto di amare Shelley24. Era
preoccupata per Claire e per il figlio di Claire, che presto si sarebbero uniti a
questo sfortunato gruppo di donne reiette e bambini ripudiati.
Per quanto riguarda la morte di Harriet, questo era un peso ancora più
gravoso da sostenere. Era rimasta incinta di un altro uomo e si era uccisa non
sentendosi in grado di affrontare la vita con un figlio illegittimo, e Mary si
accusava di avere preso parte alla rovina di Harriet scappando con Shelley.
Ora Harriet era nel pantheon delle donne respinte dal mondo.
Ironia della sorte, Mary beneficiò della morte di Harriet, perché ora lei e
Shelley si potevano sposare, e lo fecero nel dicembre del 1816. Mary era di
nuovo incinta e lavorava più in fretta che poteva per finire il suo romanzo,
scrivendone gli ultimi paragrafi nel marzo 1817. Quell’inverno aveva letto
dei resoconti sul maltrattamento degli schiavi nelle piantagioni di zucchero in
Giamaica e si era basata su questi racconti per descrivere alcuni degli stenti
patiti dalla creatura. Si può supporre che, una volta riversato nel romanzo il
suo sentimento di indignazione nei confronti dell’ingiustizia sociale, abbia
provato un certo sollievo quando portò finalmente a termine la stesura. In
ogni caso, era agitata da incubi di “morti che erano in vita”: la sua bimba,
Fanny, sua madre e, più terrificante di tutti, Harriet, con i capelli bagnati, che
fissava la donna che le aveva rubato il marito25.
Mary passò l’estate del 1817 ad approntare la stesura per la pubblicazione
del romanzo, creando una bella copia del manoscritto che è la base di questa
edizione. Terminò appena prima di partorire, a settembre. Il significato della
gestazione del romanzo non sfuggì a Mary. Si riferì spesso al libro come al
suo “parto” e legò la storia alla sua stessa nascita. Il racconto ha inizio l’“11
dicembre 17**” e finisce il “17 settembre 17**”. Mary Wollstonecraft
concepì all’inizio del dicembre 1796 e partorì Mary il 30 agosto 1797, per
morire il 10 settembre 179726.
Connettendo Frankenstein con la sua stessa genesi, Mary allude ai molti
legami che sentiva con il romanzo. Come la creatura, lei si sentiva
abbandonata da chi l’aveva creata, e rifiutata dalla società. Come
Frankenstein, si sentiva costretta alla creazione. La sua nascita aveva causato
la morte della madre, ma aveva anche dato vita ai suoi personaggi. Poiché il
romanzo è incorniciato dalle lettere di Walton a Margaret, le cui iniziali erano
adesso le stesse di Mary (MWS), è come se avesse scritto la storia per se
stessa, divenendo sia autore che pubblico, creatore e creato, madre e figlia,
inventore e distruttore27.
Quando lei e Shelley inviarono Frankenstein agli editori, il libro venne
respinto da due prestigiose case editrici e fu solo ad agosto che la Lackington,
una casa editrice minore con in catalogo una lista di scribacchini, acconsentì
a una stampa limitata a cinquecento copie, utilizzando i materiali più
economici a disposizione28. Frankenstein venne pubblicato nel gennaio del
1818 e, in una delle grandi bizzarrie della storia dell’editoria, non avrebbe
guadagnato diritti. Le vendite furono così scarse che non si poteva certo
prevedere che il romanzo sarebbe diventato uno dei maggiori best seller della
narrativa inglese di tutti i tempi.
Furono infine le versioni teatrali del libro a rendere famosa la sua storia.
Nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo i commediografi potevano
saccheggiare liberamente dai romanzi senza citare l’autore originale. Nelle
mani degli adattatori, la sfaccettata creazione di Mary venne spesso appiattita
a una sola dimensione. Un altro sviluppo singolare fu che con il tempo il
dottor Frankenstein e la sua hybris scomparvero quasi del tutto dalla mente
del pubblico. Nel 1940 la parola “Frankenstein” era divenuta sinonimo di
“mostro”. Per la gente, il nome di Mary si intrecciò inestricabilmente con
quello di un demone omicida. Con il crescere della sua fama, vennero
dimenticati i molti livelli e le diverse prospettive del romanzo29.
Dopo la pubblicazione di Frankenstein, Mary scrisse altri cinque romanzi,
insieme a molti racconti brevi e altri scritti non narrativi. Nel 1831 tornò al
suo primo romanzo e ne revisionò e ampliò il testo, rendendo la storia più
nera e ancora più distopica.
Nell’introduzione dichiarò di aver faticato a trovare l’idea per il romanzo.
Fu solo quando ebbe la visione del «pallido studente di arti sacrileghe
inginocchiato davanti alla cosa che aveva assemblato» che poté cominciare a
scrivere30. E tuttavia non vi sono altre indicazioni che questo sia vero. Non vi
sono ulteriori riferimenti, né da parte sua né dei suoi amici o della sua
famiglia, su difficoltà incontrate nella composizione del romanzo. In verità,
dalle testimonianze di chi era lì e dalla revisione dei taccuini su cui Mary lo
scrisse, tutto sembra indicare che la stesura avvenne con fluidità e velocità
non comuni. Perché dunque Mary avrebbe dichiarato questa difficoltà nel
trovare l’idea?
La risposta più plausibile è che volesse tenere le distanze dal
concepimento di un’opera che i critici avevano definito perversa e
immorale31. Quindi la sua storia della composizione di Frankenstein non è
altro che questo: un ulteriore piano di finzione in un libro con diversi livelli
di lettura. Erano passati molti anni dalla scrittura della prima edizione di
Frankenstein, erano morti sia Byron che Shelley e lei si trovava ad affrontare
enormi pressioni economiche e sociali come madre single. Sapeva bene che
le donne artiste erano considerate un’aberrazione, perché le donne erano fatte
per creare bambini, non arte. Se poteva migliorare le vendite e la sua
reputazione affermando di non avere creato la storia consciamente, lo
avrebbe fatto, inventando una menzogna che allontanasse le critiche che
doveva affrontare quando la gente scopriva che lei era l’autrice di
Frankenstein. Da narratrice dotata qual era, descrisse il suo “sogno” con
un’accuratezza di dettagli che lo fanno sembrare vero:
Quando posai la testa sul cuscino non mi addormentai ma neanche potrei dire che pensassi. La mia
immaginazione, non richiesta, si impossessò di me e mi guidò, donando alla successione di
immagini che sorsero nella mia mente una vividezza che andava ben oltre gli abituali confini della
rêverie32.

Ma in quello che sembra un modo di sminuire il suo talento è nascosta


un’altra dichiarazione, più orgogliosa, con la quale Mary sta affermando le
proprie qualità di autentico poeta, così come aveva fatto Samuel Taylor
Coleridge nel dare un vivido resoconto delle allucinazioni che avevano
portato al Kubla Khan, il suo famoso frammento per un poema pubblicato
nell’autunno del 1816. Una visione onirica era il segno distintivo di un vero
artista romantico. I sogni straordinari non erano democraticamente a portata
di tutti; solo i grandi artisti ricevevano delle visioni. Così, mentre
minimizzava la sua consapevole iniziativa, al tempo stesso affermava le sue
credenziali di artista33.
Per anni l’edizione del 1831 è stata la più popolare ma recentemente molti
studenti e insegnanti hanno scelto di leggere quella del 1818, perché è in
questa prima versione che il lettore può incontrare la Mary Shelley più
giovane. Nel 1818 Mary scrisse con il candore e la velocità della giovinezza.
Doveva ancora perdere tre dei figli che partorì e patire la scomparsa del
marito in un tragico incidente in mare. In questa versione lei offre a Victor la
libertà di scegliere se seguire o meno la propria ambizione. Qui, quando lui fa
la scelta sbagliata, è la sua decisione a portarlo alla rovina; come il
personaggio di una tragedia greca, le sue azioni determinano il suo futuro.
Tuttavia, con tutte le differenze, v’è una costante nelle due versioni. Sia in
quella del 1818 che in quella del 1931 Mary pone l’accento sui rischi
dell’ambizione. Come quando Frankenstein avverte Walton di «quanto sia
pericolosa l’acquisizione della conoscenza, e quanto sia più felice quell’uomo
che ha per mondo la sua città natale, di colui che aspira a una grandezza
maggiore di quella che la sua natura gli concede»34.
Frankenstein è famoso per essere il primo romanzo di fantascienza e
anche un horror psicologico. Quello che invece spesso non si coglie è quanto
il romanzo corrobori il lascito materno, quello di Mary Wollstonecraft, la
madre di Mary Shelley. A prima vista non si direbbe che Frankenstein abbia
molto in comune con la Rivendicazione dei diritti della donna, né sembra
condividere molti degli ideali di Wollstonecraft; ma è proprio da quegli
elementi che non sono presenti nel romanzo che si può evincere l’influenza di
quest’ultima. Dove sono i grandi personaggi femminili? Con l’eccezione di
Margaret Saville, in questo romanzo le donne non sono in grado di esercitare
alcuna influenza sugli uomini. Ma infine è proprio l’assenza di donne forti
che offre la chiave di accesso ai temi più importanti di Frankenstein. Se alle
donne non viene permesso di avere una voce, o di giocare un ruolo di rilievo
nella società, ne consegue una perdita, questo sottintende Mary.
Un’incontrollata ambizione maschile porterà alla distruzione, all’ingiustizia e
alla devastazione.
Frankenstein è la storia dell’ossessione di un uomo per la creazione della
vita e del successivo abbandono della sua creazione. È uno studio sulla colpa
e l’innocenza, la creatività e la distruzione. Ma è anche un racconto con una
morale. Con la paura dell’estraneo e maltrattando i più vulnerabili e i reietti,
la società crea i suoi mostri.

Note

1. John Wilson Croker, recensione di Frankenstein, di Mary Shelley, Quarterly Review 18 (gennaio
[posticipata al 12 giugno] 1818), pp. 379-385, riprodotta in “Reviews”, Romantic Circle, Mary Shelley
Chronology and Resource Site,
https://www.rc.umd.edu/reference/chronologies/mschronology/reviews/qrrev.html.
2. Il visconte Dillon a Mary Wollstonecraft Shelley (MWS), 18 marzo 1829, in The Life and Letters of
Mary Wollstonecraft Shelley, di Julian Marshall, vol. 2 (Londra, Richard Bentley and Son, 1889), p.
197. Si veda anche Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon (New York, Random House, 2015), pp.
499-500.
3. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. xvii.
4. A Father’s Legacy to His Daughters di John Gregory (Londra, 1774) citato in A Vindication of the
Rights of Woman and The Wrongs of Woman; or Maria di Mary Wollstonecraft, a cura di Anne Mellor,
Longman Cultural Editions (Pearson, 2007), p. 124.
5. A Vindication of the Rights of Woman and The Wrongs of Woman; or Maria di Mary Wollstonecraft,
pp. 105-106.
6. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 172.
7. A Vindication of the Rights of Woman and The Wrongs of Woman; or Maria di Mary Wollstonecraft,
p. 65.
8. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. xvi.
9. Horace Walpole a Hannah More, 24 gennaio 1795, in The letters of Horace Walpole: Fourth Earl of
Oxford, a cura di Helen Toynbee e Paget Toynbee, vol. 15 (Oxford, Clarendon, 1905), p. 337.
10. Citato in Shelley: The Pursuit di Richard Holmes (New York, New York Review of Books, 1974,
1994), p. 172.
11. Percy Bysshe Shelley a Thomas Jefferson Hogg, 4 ottobre 1814, in The Letters of Percy Bysshe
Shelley, a cura di Frederick Jones, vol. I (Oxford, Clarendon Press, 1964), p. 403.
12. Enquiry Concerning Political Justice di William Godwin, terza edizione, vol. 2 (Londra, Robinson,
1798), p. 75.
13. Byron a John Cam Hobhouse, 11 novembre 1818, in Lord Byron’s Correspondence, a cura di John
Murray, vol. 2 (New York, Charles Scribner’s Sons, 1922), p. 89.
14. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 162.
15. The Life of Byron, with His Letters and Journals, di Thomas Moore (Londra, John Murray, 1851),
p. 319. Mary Shelley era la fonte di Moore per quanto riguarda l’estate a Ginevra con gli Shelley.
16. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 192.
17. Nel suo “Making a ‘Monster’. An Introduction to Frankenstein”, in A Cambridge Companion to
Mary Shelley, a cura di Esther Schor (Cambridge, Cambridge University Press, 2003), p. 19, Anne
Mellor sostiene che «la quest di Victor è precisamente finalizzata al tentativo di usurpare alla natura il
potere femminile della riproduzione biologica».
18. Nel presente volume, p. 204.
19. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 213.
20. Nel presente volume, p. 190.
21. Ivi, p. 154.
22. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 213.
23. “Blake’s Chimney Sweep and Shelley’s Creature” di Gabrielle Watling, non pubblicato, Endicott
College, gennaio 2017.
24. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 217.
25. MWS a Leigh Hunt, 3 maggio 1817, in The Letters of Mary Wollstonecraft Shelley, a cura di Betty
Bennett, vol. 1 (Baltimora, John Hopkins University Press, 1980), p. 32. Si veda anche Romantic
Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 242.
26. Anne Mellor fornisce un’analisi di queste date in “Making a ‘Monster’. An Introduction to
Frankenstein”, p. 12, e in Mary Shelley: her Life, her Fiction, her Monsters (New York, Routledge,
1989), pp. 54-55.
27. Sempre in Mary Shelley, pp. 54-55, Anne Mellor osserva: «Il romanzo è scritto dall’autrice per un
pubblico composto da una sola persona, lei stessa». Si veda anche Romantic Outlaws, di Charlotte
Gordon, p. 243.
28. Si veda anche Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 244.
29. Ivi, p. 470.
30. Si veda nel presente volume l’Introduzione di Mary Shelley a Frankenstein, terza edizione (1831),
p. 330.
31. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 188. Per un ulteriore analisi del “sogno” di Shelley si
veda Mary Shelley, di Miranda Seymour (New York, Grove, 2000), p. 157.
32. Si veda nel presente volume l’Introduzione di Mary Shelley a Frankenstein, terza edizione (1831),
p. 330.
33. Romantic Outlaws, di Charlotte Gordon, p. 189.
34. Nel presente volume, pp. 94-95.
Frankenstein
Edizione originale del 1818
Prefazione

L’evento su cui si basa questo racconto di finzione è stato ritenuto, dal dottor
Darwin e da alcuni trattatisti tedeschi di fisiologia, di non impossibile
evenienza. Non si creda che io presti alcuna fede, finanche la più remota, a
una simile ipotesi; e tuttavia, nel partire da questa per sviluppare un’opera
dell’immaginazione, ho cercato di non limitarmi all’intreccio di una serie di
terrori soprannaturali. L’evento su cui poggia l’interesse di questa storia non
presenta gli svantaggi di una semplice vicenda di spettri e incantesimi. È stato
scelto per la novità delle situazioni che genera e perché, anche se impossibile
come fatto fisico, offre all’immaginazione una prospettiva più ampia e
incisiva nel delineare le passioni umane di quella che possono concedere le
ordinarie relazioni tra eventi reali.
Ho quindi cercato di preservare la verità dei principi elementari della
natura umana, ma senza farmi scrupoli nel combinarli in modo innovativo.
L’Iliade, la poesia tragica greca, Shakespeare nella Tempesta e nel Sogno
d’una notte di mezza estate, e specialmente Milton, nel Paradiso perduto, si
rifanno a questa regola; ma anche il più umile romanziere, che desideri dare o
ricevere diletto dal suo lavoro, può, senza presunzione, applicare alla
narrazione in prosa una licenza, o meglio una regola, adottando la quale si
sono prodotte così tante squisite combinazioni di sentimenti umani negli
esempi più fulgidi della poesia.
La circostanza che originò la mia storia scaturì da una conversazione
informale. Cominciai a scriverla un po’ per divertimento, un po’ come
espediente per esercitare delle risorse mentali ancora inesplorate. Con il
procedere del lavoro, altri motivi si mescolarono a questi. Non sono in alcun
modo indifferente all’effetto che avrà sul lettore qualsivoglia tendenza morale
insita nei sentimenti o nei personaggi che la storia presenta; ma la mia
preoccupazione principale a questo riguardo si è limitata a evitare gli
snervanti effetti dei romanzi dei giorni nostri e a mostrare l’amabilità degli
affetti famigliari e l’eccellenza della virtù universale. Non si pensi che io
condivida sempre le opinioni dell’eroe di questa storia, che sprigionano, in
modo naturale, dal suo carattere e dalle situazioni in cui si trova. Né si deve
trarre, dalle pagine che seguono, qualsivoglia conclusione che risulti in
contrasto con una dottrina filosofica di qualunque genere.
È motivo di ulteriore interesse per l’autore che questa storia sia stata
concepita nella maestosa regione dove, per la maggior parte, si svolge la
trama, e in compagnia di persone che non si può cessare di rimpiangere.
Trascorsi l’estate del 1816 nei dintorni di Ginevra. La stagione era fredda e
piovosa e la sera ci radunavamo intorno alla legna scoppiettante del
caminetto, di tanto in tanto intrattenendoci con divertenti racconti tedeschi di
fantasmi finiti nelle nostre mani. Queste storie stimolarono in noi un giocoso
desiderio di imitazione. Altri due amici (e dalla penna di uno di loro una
storia sarebbe molto più gradita al pubblico di qualunque cosa io possa mai
sperare di realizzare) e io accettammo di scrivere ognuno una storia basata su
qualche fatto soprannaturale.
Il tempo però d’un tratto si fece sereno; così i miei due amici mi
lasciarono per andare a fare un giro tra le Alpi, e nel magnifico scenario
offerto da queste persero ogni memoria delle loro visioni spettrali. La storia
che segue è la sola che fu completata.
Frankenstein
ovvero
Il moderno Prometeo
Volume primo
Prima lettera

A Mrs. Saville, Inghilterra

San Pietroburgo, 11 dicembre 17**

Ti allieterà sapere che nessun disastro ha accompagnato l’avvio di un’impresa


da te valutata con tanti sinistri presagi. Sono arrivato qui ieri e il mio primo
compito è quello di rassicurare la mia cara sorella delle mie buone condizioni
e della mia crescente fiducia nel successo della mia iniziativa.
Sono già molto a nord di Londra, e camminando per le strade di San
Pietroburgo la fredda tramontana che soffia sulle mie guance dà vigore al mio
spirito e mi colma di gioia. Conosci questa sensazione? Questa brezza, che
proviene dalle zone verso cui sono diretto, mi reca un assaggio di quelle
latitudini ghiacciate. È un vento pieno di promesse, che stimola i miei sogni a
occhi aperti, rendendoli più vividi e ferventi. Cerco invano di convincermi
che il Polo è la sede del gelo e della desolazione; continua a presentarsi alla
mia immaginazione come un luogo di bellezza e delizie. Là, Margaret, il sole
è sempre visibile; il suo ampio disco lambisce l’orizzonte diffondendo
perpetuo splendore. Là (permettimi, cara sorella, di prestare fede ai naviganti
che mi hanno preceduto), il gelo e la neve sono banditi; e veleggiando su un
placido mare, potremo venire trasportati dal vento in una terra che sorpassa in
meraviglie e in bellezza qualunque regione finora scoperta sul globo
abitabile. È probabile che non vi sia niente di paragonabile ai suoi prodotti e
alla sua conformazione, come senza dubbio deve essere per i fenomeni dei
corpi celesti in quelle inesplorate solitudini. Cosa non aspettarsi in una terra
di luce perenne? Forse lì potrei scoprire la portentosa energia magnetica che
attrae l’ago della bussola; forse potrei mettere in ordine le migliaia di
osservazioni sui fenomeni celesti, le cui apparenti irregolarità potrebbero
essere inquadrate in un tutto coerente, e una volta per tutte, solo grazie a un
viaggio come questo. Soddisferò la mia ardente curiosità vedendo una parte
del mondo che nessuno ha mai visto, e metterò piede su un terreno dove mai
si è posata l’impronta dell’uomo. L’attrazione che queste cose esercitano su
di me è sufficiente a farmi vincere tutte le paure relative ai possibili pericoli o
alla morte e mi porta a lanciarmi in questo complicato viaggio con la stessa
eccitazione che prova un bambino nel salire a bordo di una barchetta, con i
suoi compagni di gita, per andare alla scoperta del fiume del suo paese natale.
Ora, ammettiamo pure che tutte le mie ipotesi si rivelino infondate, non potrai
negare che farò un gran bene all’umanità, da qui fino all’ultima generazione,
se scoprirò un passaggio vicino al Polo per quelle terre al momento
raggiungibili solo con molti mesi di viaggio; o svelerò il segreto del magnete,
una cosa che, se mai fosse possibile, lo sarà solo attraverso un’impresa come
la mia.
Questi pensieri mi hanno fatto passare l’ansia con cui ho cominciato la
mia lettera, e sento il cuore accendersi di un entusiasmo che mi innalza al
cielo; non v’è contributo migliore di un fermo proposito per tranquillizzare la
mente, di un obiettivo, cioè, su cui l’anima fissi il suo sguardo intellettivo.
Questa spedizione è stata il mio sogno prediletto fin dalla prima infanzia. Ho
letto con passione i resoconti dei numerosi viaggi fatti con lo scopo di
raggiungere l’Oceano Pacifico del Nord attraverso i mari che circondano il
Polo. Ricorderai che le cronache dei viaggi di esplorazione costituivano
l’intera biblioteca del nostro buon zio Thomas. E per quanto fosse trascurata
la mia istruzione, ero molto appassionato di lettura. Questi volumi li studiavo
giorno e notte e più mi diventavano familiari più cresceva il dispiacere
provato, da bambino, nel venire a sapere dell’ingiunzione con cui mio padre,
in punto di morte, aveva proibito a mio zio di lasciarmi intraprendere una vita
di viaggi per mare.
Tali visioni svanirono quando, per la prima volta, mi dedicai alla lettura
delle opere di quei poeti che dischiusero per me qualcosa che incantò la mia
anima, facendola librare fino al cielo. Divenni anche io poeta e per un anno
vissi in un paradiso creato da me stesso, dove immaginavo di ottenere a mia
volta una nicchia nel tempio che consacra i nomi di Shakespeare e Omero.
Sai bene del mio fallimento, e quanto mi pesò la delusione. Ma proprio allora
ereditai il patrimonio di mio cugino e i miei pensieri ripresero il corso della
loro iniziale inclinazione.
Sono passati sei anni da quando ho deciso di intraprendere questa strada.
Ricordo ancora adesso il momento esatto in cui ho iniziato a dedicarmi a
questa grande impresa. Ho cominciato abituando il mio corpo alle fatiche. Ho
accompagnato i pescatori di balene in diverse spedizioni nel Mare del Nord;
mi sono sottoposto, volontariamente, al freddo, alla carestia, alla sete e alla
mancanza di sonno; di giorno ho lavorato più duramente dei comuni marinai
e ho consacrato le notti allo studio della matematica, della teoria medica e di
quei rami della fisica da cui chi si avventura per mare può trarre i più grandi
vantaggi pratici. Per due volte mi sono arruolato come semplice marinaio su
una baleniera groenlandese, cavandomela al meglio nell’ammirazione
generale. Ammetto di avere provato un certo orgoglio, quando il capitano mi
offrì il ruolo di secondo sulla nave e in tutta serietà mi pregò di restare, tale
era la sua considerazione dei miei servizi.
E a questo punto, cara Margaret, non merito forse di realizzare un grande
progetto? Avrei potuto condurre una vita nell’agio e nel lusso; ma ho
preferito la gloria a qualunque lusinga che la ricchezza ha posto sul mio
cammino. Oh, se solo una voce di incoraggiamento potesse rispondermi
affermativamente! Il mio coraggio e la mia risoluzione sono saldi; le mie
speranze invece vacillano e il mio spirito è spesso depresso. Sto per
intraprendere un viaggio lungo e difficile, i cui imprevisti richiederanno tutta
la mia forza d’animo: non solo dovrò tenere alto il morale degli altri, ma a
volte sollevare anche il mio, quando il loro si spegne.
Questo è il periodo migliore per viaggiare in Russia. Qui tutti sfrecciano
veloci con le loro slitte sulla neve; l’andatura è piacevole, la preferisco a
quella di una carrozza inglese. Il freddo non è eccessivo, se ti avvolgi nelle
pellicce, e questo abbigliamento io l’ho già adottato perché v’è grande
differenza tra il camminare sul ponte di una nave o restare seduti immobili
per ore, senza nessuna attività fisica che impedisca al sangue di gelarsi
letteralmente nelle vene. Non ambisco a perdere la vita sulla strada tra San
Pietroburgo e Arcangelo.
Partirò per quest’ultima città tra quindici giorni o tre settimane; una volta
lì è mia intenzione noleggiare una nave (si può fare facilmente pagando
l’assicurazione per il proprietario) e reclutare tutti i marinai che ritengo
necessari tra quelli abituati alla caccia delle balene. Non ho in programma di
prendere il mare prima di giugno. Quando tornerò? Ah, cara sorella, come
rispondere a questa domanda? Se riuscirò nella mia impresa, passeranno
molti, molti mesi, forse anni, prima che io e te ci possiamo incontrare. Se
fallisco, mi rivedrai presto, o mai più.
Addio, mia cara, ammirevole Margaret. Che il cielo riversi su di te ogni
benedizione e tenga in salvo me, affinché possa sempre e ancora darti segno
della mia gratitudine per tutto il tuo amore e la tua premura.

Il tuo affezionato fratello


R. Walton
Seconda lettera

A Mrs. Saville, Inghilterra

Arcangelo, 28 marzo 17**

Come passa lento il tempo qui, circondato come sono da gelo e neve. Ma un
secondo passo è stato fatto in direzione della mia impresa. Ho noleggiato una
nave e mi sto occupando di radunare i miei marinai; quelli che ho già
reclutato mi sembrano uomini su cui fare affidamento, e sono certamente
dotati di indomito coraggio.
Eppure sento ancora un vuoto che non sono mai riuscito a colmare, e la
mancanza di quel che potrebbe riempirlo mi tocca come un male gravoso.
Non ho un amico, Margaret: se un successo mi rende raggiante di
entusiasmo, non v’è nessuno che partecipi alla mia gioia; se vengo assalito
dalla delusione, nessuno cercherà di farmi forza nel mio sconforto. Affiderò i
miei pensieri alla carta, è vero; ma è ben povera cosa per la comunicazione
dei sentimenti. Desidero la compagnia di un uomo che possa simpatizzare
con me, i cui occhi rispondano al mio sguardo. Mi stimerai romantico, cara
sorella, ma soffro in modo pungente della mancanza di un amico. Non ho
nessuno accanto a me, che sia gentile eppure coraggioso, con una mente
istruita e al tempo stesso aperta, dai gusti come i miei, che approvi o corregga
i miei piani. Un tale amico davvero potrebbe emendare gli errori del tuo
povero fratello! Io sono troppo ardente nell’azione, e troppo impaziente nei
contrattempi. Ma è un male ancora più grande per me che io sia un
autodidatta: i primi quattordici anni della mia vita non ho fatto che
scorrazzare per prati, senza leggere altro che i libri di viaggi di nostro zio
Thomas. A quell’età ho conosciuto i celebri poeti della nostra nazione; ma
solo quando era ormai troppo tardi perché potessi trarne i benefici più
importanti, mi convinsi della necessità di conoscere più lingue, oltre a quella
del mio paese natio. Ora ho ventotto anni, e in verità sono più ignorante di
molti scolari di quindici. Vero è che ho riflettuto di più e che i miei sogni a
occhi aperti sono più estesi e grandiosi; ma necessitano di fissaggio (come
direbbero i pittori), e ho tanto bisogno di un amico che abbia l’intelligenza di
non disdegnarmi in quanto romantico e abbastanza affetto per me da aiutarmi
a organizzare le mie idee.
Bene, questi sono lamenti inutili; sicuramente non troverò un amico nel
vasto oceano, né qui ad Arcangelo, tra mercanti e uomini di mare. Ciò non
vuol dire che anche in questi rozzi petti non palpitino sentimenti inalterati
dalle scorie della natura umana. Il mio luogotenente, ad esempio, è un uomo
di straordinario coraggio e iniziativa, follemente desideroso di gloria. È un
inglese e ha in sé, mescolate alle caratteristiche tipiche della sua nazionalità e
della sua professione, non mitigate dall’educazione, alcune delle più nobili
doti del genere umano. L’avevo incontrato la prima volta a bordo di una
baleniera, e trovandolo senza impiego in questa città mi è stato facile
arruolarlo con me in questa impresa.
Il nostromo è una persona di indole eccellente: a bordo si distingue per i
suoi modi cortesi e la mitezza con cui mantiene la disciplina. La sua naturale
dolcezza è tale che si rifiuta di cacciare (l’intrattenimento preferito,
praticamente l’unico, qui) perché non sopporta lo spargimento di sangue. E la
sua generosità ha qualcosa di eroico. Anni fa era innamorato di una giovane
donna russa di moderate fortune; poiché lui aveva accumulato una
considerevole somma in premi di viaggio, il padre della ragazza acconsentì
alle nozze. Ma prima del giorno stabilito per la cerimonia lui incontrò una
volta ancora la sua futura signora e lei, in un mare di lacrime, si gettò ai suoi
piedi supplicandolo di risparmiarla e confessandogli al contempo di amare un
altro, che però era povero e pertanto suo padre non avrebbe mai approvato la
loro unione. Il mio generoso amico rassicurò la supplice e, una volta saputo il
nome dell’uomo da lei amato, rinunciò immediatamente alla sua richiesta.
Con i propri soldi aveva già acquistato una fattoria, dove aveva progettato di
passare il resto della vita, ma donò tutto al rivale, insieme a quel che restava
del denaro dei premi di viaggio, affinché acquistasse il bestiame. Dopodiché
lui stesso invitò il padre della giovane donna ad acconsentire al matrimonio
con il suo amato. Il vecchio oppose un fermo rifiuto, ritenendo doveroso
onorare il patto con il mio amico, il quale, di fronte all’inamovibilità
dell’uomo, abbandonò il suo paese e non vi ritornò finché non venne a sapere
che quella che un tempo era stata la sua fidanzata si era sposata secondo i
suoi desideri. «Che nobile uomo!» dirai tu. E lo è. Però da allora ha trascorso
l’intera vita a bordo di una nave, e non pensa a niente altro che a corde e
sartie.
Ora tu non dedurre dalle mie piccole lamentele, o dal fatto che io
contempli la possibilità di non ricevere mai ricompensa per le mie fatiche,
che la mia determinazione stia vacillando. È salda come il destino, e il mio
viaggio è per il momento rimandato solo fino a quando le condizioni
atmosferiche renderanno possibile il mio imbarco. L’inverno è stato
orribilmente duro, ma la primavera promette bene e si presume che arrivi con
notevole anticipo, quindi è possibile che io salpi prima di quanto credessi.
Non farò nulla di avventato; mi conosci abbastanza da confidare nella mia
prudenza e premura quando da me dipende la sicurezza altrui.
Non so descriverti i miei sentimenti al cospetto dell’imminente partenza.
È impossibile darti un’idea della trepidazione, metà piacevole e metà
spaventosa, con la quale mi appresto a salpare. Sto andando verso regioni
inesplorate, nella “terra di nebbia e di neve”, ma non ucciderò alcun albatro,
quindi non preoccuparti per la mia sicurezza.
Ti incontrerò di nuovo dopo avere solcato mari immensi e di ritorno dalle
estremità più meridionali dell’Africa o delle Americhe? Non oso contare su
un tale successo, ma l’altra faccia della medaglia non riesco neanche a
guardarla. Tu continua a scrivermi a ogni occasione; c’è sempre la possibilità
(per quanto incerta) che io riceva le tue lettere proprio quando ne avrò più
bisogno per rinfrancare il mio spirito. Provo per te il più tenero bene. Se non
dovessi ricevere più mie notizie, ricordami sempre con affetto.

Il tuo affezionato fratello,


Robert Walton
Terza lettera

A Mrs. Saville, Inghilterra

7 luglio 17**

Mia cara sorella,


ti scrivo in fretta poche righe per dirti che sto bene e già avanti nel viaggio.
Questa lettera giungerà in Inghilterra grazie a un mercante di ritorno da
Arcangelo; più fortunato di me, che forse dovrò aspettare ancora molti anni
prima di rivedere il mio paese natale. E tuttavia sono di buon umore: i miei
uomini sono arditi e a ogni evidenza risoluti nei loro propositi; né sembrano
scoraggiati dalle lastre di ghiaccio galleggiante che continuamente
incrociamo, segnalandoci i pericoli che incontreremo nelle zone verso cui
avanziamo. Siamo già a una latitudine molto alta ma essendo piena estate, per
quanto non faccia caldo come in Inghilterra, i venti del sud che ci sospingono
rapidi verso quelle rive che bramo ardentemente di raggiungere infondono un
certo rigenerante tepore che non mi aspettavo.
Fin qui non ci sono capitati incidenti di cui valga dar conto in una lettera.
Per il marinaio esperto una o due forti burrasche e la rottura di un albero
maestro sono eventi a malapena degni di essere trascritti. Sarò molto contento
se durante il nostro viaggio non ci accadrà niente di più serio.
Addio, mia cara Margaret. Stai pur tranquilla che, tanto per il mio quanto
per il tuo bene, non mi esporrò avventatamente al pericolo. Manterrò la
calma, sarò perseverante e prudente.
Ricordami a tutti i miei amici inglesi.

Il tuo affezionato
R.W.
Quarta lettera

A Mrs. Saville, Inghilterra

5 agosto 17**

Ci è accaduta una cosa così strana che non posso fare a meno di riportarla,
per quanto sia molto probabile che tu mi riveda prima che questi fogli
giungano in tuo possesso.
Lunedì scorso (il 31 luglio) eravamo praticamente circondati dal ghiaccio,
che accerchiava la nave da ogni lato, lasciandole a malapena lo spazio per
galleggiare. La nostra situazione era piuttosto pericolosa, soprattutto essendo
avvolti da una fitta nebbia.
Di conseguenza lasciammo la barca in stallo, in attesa di qualche
mutamento del clima e dell’atmosfera.
Verso le due la foschia si diradò e davanti a noi scorgemmo, in ogni
direzione, vaste e frastagliate distese di ghiaccio, apparentemente infinite. A
quella vista alcuni dei miei compagni non trattennero un gemito e nella mia
testa iniziarono ad agitarsi pensieri di allerta, quando la nostra attenzione
venne attratta da una strana visione che ci distolse dall’ansia per la nostra
situazione. A mezzo miglio di distanza scorgemmo un ingombro legato a una
slitta trainata da cani, in direzione nord, e seduto sulla slitta, a guida dei cani,
un essere di forma umana, ma di dimensioni gigantesche. Con i nostri
cannocchiali potemmo osservare il rapido passaggio di quel viaggiatore, fino
a che scomparve tra le irregolarità del ghiacciaio, in lontananza.
Questa apparizione suscitò la nostra assoluta meraviglia. Avevamo
motivo di credere di essere a molte centinaia di miglia di distanza da
qualsivoglia terraferma e quello che avevamo visto sembrava invece indicarci
che la terra non fosse poi in realtà così distante come pensavamo. Ma,
imprigionati com’eravamo dal ghiaccio, ci era impossibile continuare a
seguirne il tragitto, che avevamo osservato con la più grande attenzione.
Passate un paio d’ore da questo avvenimento, sentimmo gonfiarsi il mare;
prima di notte il ghiaccio si ruppe e lasciò libera la nostra nave.
Noi tuttavia restammo fermi fino al mattino, temendo di scontrarci al buio
con una di quelle grandi masse che galleggiano libere alla deriva quando il
ghiacciaio si spacca. Mi presi così il tempo di riposare qualche ora.
Ma con le prime luci del mattino mi recai sul ponte, dove trovai tutti i
marinai su un lato della nave, occupati a parlare, così pareva, con qualcuno in
mare. V’era in effetti una slitta, come quella che avevamo visto in
precedenza, che durante la notte era stata trasportata verso di noi sopra un
grande frammento di ghiaccio. Solo uno dei cani era ancora vivo, ma la slitta
portava con sé anche un essere umano, che i marinai stavano cercando di
convincere a salire a bordo. Questi non era, come ci era sembrato l’altro
viaggiatore, il selvaggio abitante di un’isola inesplorata, ma un europeo.
Quando feci la mia comparsa sul ponte, il nostromo disse: «Ecco il nostro
capitano, lui non vi lascerà morire in mare aperto».
Lo sconosciuto, vedendomi, mi parlò in inglese, pur se con accento
straniero. «Prima ch’io salga sulla vostra barca» disse, «potete farmi la
gentilezza di informarmi su dove siete diretti?»
Capirai il mio stupore nel sentirmi rivolgere una tale domanda da un
uomo sull’orlo della fine, e al quale la mia nave avrei supposto si dovesse
offrire come un’occasione da non scambiare con tutto l’oro del mondo. A
ogni modo gli risposi che eravamo in viaggio di esplorazione verso il Polo
Nord.
Al sentire questo si mostrò soddisfatto e acconsentì di salire a bordo.
Buon Dio! Se tu lo avessi visto, Margaret, quell’uomo che così aveva
negoziato per la sua salvezza, la tua sorpresa sarebbe stata smisurata. Le sue
membra erano quasi congelate, e il suo corpo orribilmente deperito dalla
fatica e dalla sofferenza. Non ho mai visto un uomo ridotto così male.
Cercammo di portarlo in cabina, ma appena gli mancò l’aria fresca svenne.
Quindi lo riportammo sul ponte, e lo rianimammo frizionandolo con il brandy
e costringendolo a mandarne giù un goccio. Non appena diede segni di vita lo
avvolgemmo nelle coperte e lo sistemammo vicino alla canna fumaria dei
fornelli della cucina. Si riprese lentamente, poco a poco, e mangiò un po’ di
zuppa, che lo rifocillò a meraviglia.
Passarono così due giorni prima che fosse in grado di parlare, durante i
quali temetti spesso che le sue sofferenze lo avessero privato di
comprendonio. Quando si fu in certa misura ripreso, lo trasferii nella mia
cabina e lo assistetti personalmente per tutto il tempo che i miei altri compiti
me lo permettevano. Non ho incontrato mai una creatura così interessante: di
solito i suoi occhi hanno un’espressione selvaggia, quasi folle; poi ci sono
momenti in cui, se qualcuno compie un atto gentile nei suoi confronti, o gli
rende anche il più futile servizio, tutto il suo volto si illumina, irradiando una
benevolenza e una dolcezza di cui non ho mai visto l’eguale. Ma in generale
è malinconico e afflitto; a volte digrigna i denti, insofferente al peso dei
dolori che lo opprimono.
Quando il mio ospite si riprese un po’ ho avuto un bel daffare a tenere
lontani gli uomini che volevano fargli migliaia di domande; non potevo
permettere che lo tormentassero con la loro futile curiosità, in una condizione
fisica e mentale la cui ripresa dipendeva unicamente dal riposo. Tuttavia una
volta il luogotenente riuscì a chiedergli come mai si fosse spinto così lontano
sui ghiacci con quel veicolo così strano.
Il suo volto prese all’istante l’aspetto della più profonda tristezza e lui
rispose: «Al seguito di qualcuno che scappava via da me».
«E l’uomo che inseguivate viaggiava con gli stessi mezzi?»
«Sì».
«Allora immagino che lo abbiamo visto, perché il giorno prima di tirarvi a
bordo abbiamo veduto dei cani che trascinavano sui ghiacci una slitta con un
uomo sopra».
Questo accese l’attenzione dello sconosciuto, che fece una marea di
domande sul tragitto del demone, come lui lo chiamava. Poco dopo, quando
fu di nuovo da solo con me, disse: «Ho senz’altro stimolato la vostra curiosità
e quella di questa brava gente, ma siete troppo rispettoso per fare domande».
«Certamente, sarebbe davvero molto impertinente e disumano da parte
mia disturbarvi con la mia curiosità».
«Eppure mi avete messo in salvo da una situazione insolita e pericolosa, e
benevolmente mi avete riportato alla vita».
Poco dopo volle sapere da me se ritenessi che la rottura dei ghiacci avesse
distrutto l’altra slitta. Risposi che non ero in grado di rispondere con nessuna
certezza; certo il ghiaccio si era rotto solo poco prima della mezzanotte, e
quindi il viaggiatore poteva già essere arrivato in un luogo sicuro, ma questo
io non ero in grado di accertarlo.
Da questo momento lo sconosciuto sembrò molto impaziente di trovarsi
sul ponte, per vigilare e scorgere la slitta che ci era apparsa; l’ho tuttavia
convinto a rimanere in cabina, perché era decisamente troppo debole per
sopportare il rigore del clima. Ma gli ho promesso che qualcuno sarebbe stato
di vedetta per lui e gli avrebbe portato immediata notizia di qualunque nuovo
oggetto si fosse palesato alla vista.
Questo è il mio rapporto aggiornato di quanto concerne questo strano
avvenimento fino a oggi. Lo stato di salute dello sconosciuto è gradualmente
migliorato, ma è molto silenzioso, e mostra un certo disagio quando qualcuno
entra nella cabina, a parte me. Ma v’è che i suoi modi sono così concilianti e
gentili che tutti i marinai si interessano a lui, anche se hanno avuto
scarsissima occasione di comunicare con lui. Per quanto mi riguarda,
comincio ad amarlo come un fratello, e il suo costante e profondo dolore
genera in me grande simpatia e compassione. Nei suoi giorni migliori
dev’essere stato una nobile creatura, dal momento che persino ora, che è a
pezzi, è così attraente e amabile.
In una delle mie lettere, cara Margaret, ti dissi che non avrei certo trovato
un amico nel vasto oceano; eppure ho trovato un uomo che sarei stato felice
di avere come fratello del cuore, prima che il suo spirito fosse spezzato dalla
sciagura.
Riprenderò a intervalli il mio diario in merito allo sconosciuto,
ogniqualvolta ci sarà un qualche nuovo avvenimento da annotare.

13 agosto 17**

Il mio affetto per il mio ospite cresce di giorno in giorno. Suscita in me, a un
livello strabiliante, al tempo stesso ammirazione e compassione. Come faccio
a vedere una creatura così nobile distrutta dalla sciagura senza provare il più
acuto dolore? Lui è tanto gentile e al tempo stesso saggio; ha una mente così
raffinata, e quando parla le sue parole, pur scelte con arte squisita, fluiscono
rapide e con impareggiabile eloquenza.
Si è molto ripreso dal suo malore e sta sempre sul ponte, a quanto pare
cercando di scorgere la slitta che precedeva la sua. Per quanto sia infelice non
è totalmente assorbito dai suoi guai, anzi si interessa moltissimo delle
occupazioni degli altri. A me ha fatto molte domande sul mio progetto e io gli
ho raccontato con franchezza la mia piccola storia. Ha mostrato di gradire la
mia confidenza e mi ha suggerito diverse modifiche al piano che mi
torneranno estremamente utili. Nei suoi modi non v’è pedanteria; tutto quello
che fa sembra sgorgare solo dall’interesse che istintivamente prova per il
benessere di chi gli sta intorno. È spesso sopraffatto dalla tristezza e a quel
punto si siede in disparte, per conto suo, cercando di debellare quanto v’è di
torvo o asociale nel suo umore. Queste crisi gli passano come una nuvola
passa davanti al sole, per quanto lo sconforto non lo abbandoni mai. Mi sono
prodigato per guadagnarmi la sua fiducia e credo di esservi riuscito. Un
giorno gli ho parlato del desiderio che ho sempre avuto di trovare un amico
che mi comprendesse e potesse indirizzarmi con le sue opinioni. Gli ho detto
di non appartenere a quella classe di uomini che si sentono offesi dai consigli
degli altri. «Sono un autodidatta. Desidero dunque un compagno più saggio e
più esperto di me, per darmi forza e incoraggiarmi, e non ho mai ritenuto
impossibile incontrare un vero amico».
«Sono d’accordo con voi» replicò lo sconosciuto «nel ritenere l’amicizia
un bene non solo desiderabile ma possibile e mi sento autorizzato a
esprimermi al riguardo perché io l’ho avuto un amico, una volta, ed era la più
nobile delle creature umane. Voi siete pieno di aspettative, avete tutto il
mondo davanti e nessuna causa di disperazione. Invece io... io ho perso tutto
e non posso cominciare una nuova vita».
Mentre diceva queste parole il suo volto si fece espressione di un dolore
composto e radicato che mi raggiunse il cuore. Ma lui restò in silenzio e in un
momento si ritirò nella sua cabina.
Per quanto sia distrutto nello spirito, nessuno come lui sa percepire con
altrettanta intensità le bellezze della natura. Il cielo stellato, il mare, ogni
spettacolo offerto da queste regioni meravigliose sembra avere ancora il
potere di elevare la sua anima dalle cose terrene. Un uomo così ha una doppia
vita: può subire sciagure ed essere travolto dalle delusioni, ma dentro di sé
sarà come uno spirito celeste, con intorno un’aura nel cui cerchio nessun
dolore o follia può fare breccia.
Riderai dell’entusiasmo che esprimo nei riguardi di questo divino
vagabondo? Se così fosse, devi avere certamente perso quella semplicità che
un tempo costituiva il tuo speciale fascino. Ma se vuoi, sorridi pure al calore
delle mie espressioni, mentre ogni giorno io trovo nuove occasioni per
rinnovarle.

19 agosto 17**
Ieri lo sconosciuto mi ha detto: «Vi sarà facile intuire, capitano Walton, che
ho patito grandi e ineguagliabili sventure. Avevo deciso, un tempo, che la
memoria di questi mali sarebbe morta con me; ma voi mi avete indotto a
cambiare decisione. Voi ricercate conoscenza e saggezza, come ho fatto io un
tempo, e spero ardentemente che la gratificazione dei vostri desideri non
diventi per voi un serpente avvelenato, come è stato per me. Non so se il
racconto delle mie disgrazie vi sarà utile; tuttavia, se ne avete voglia,
ascoltate la mia storia. Credo che le straordinarie occorrenze a questa
collegate offrano un quadro della natura che potrebbe stimolare le vostre
facoltà e ampliare la vostra comprensione. Mi udirete parlare di poteri e di
avvenimenti che siete abituato a ritenere impossibili, ma non ho dubbi che lo
svolgimento della mia storia porti con sé l’intrinseca prova della veridicità
degli eventi di cui è composta».
Capirai bene quanto fossi gratificato dalla confidenza che mi veniva
offerta; e tuttavia non potevo sopportare che rinnovasse il suo dolore con la
narrazione delle sue disgrazie. Avevo una gran voglia di ascoltare quel
racconto promesso, in parte per curiosità, in parte per il grande desiderio di
migliorare la sua sorte, se questo fosse stato in mio potere. Gli risposi
esprimendo queste mie sensazioni.
«Vi ringrazio» replicò «per la vostra empatia, che a ogni modo è inutile;
la mia sorte è oramai quasi compiuta. Attendo un unico evento, dopodiché
riposerò in pace. Capisco quello che provate» proseguì, notando che stavo per
interromperlo, «ma vi sbagliate, amico mio, se così mi permetterete di
chiamarvi, perché nulla può alterare il mio destino. Ascoltate la mia storia, e
vi accorgerete di quanto sia irrevocabilmente segnata». Mi disse quindi che
avrebbe dato inizio al suo racconto il giorno seguente, quando ne avessi avuto
tempo e voglia. Questa promessa ha fatto scaturire da me i più calorosi
ringraziamenti. Ho deciso di trascrivere, ogni sera, quando non ho altri
impegni, le cose che mi avrebbe riferito durante il giorno, il più possibile con
le sue parole. Se fossi occupato, prenderò comunque degli appunti. Sono
sicuro che questo manoscritto ti darà grande piacere; in quanto a me, che
conosco quest’uomo e che sentirò il racconto dalle sue stesse labbra... con
quanto interesse e partecipazione lo leggerò in futuro!
Capitolo primo

Sono ginevrino di nascita e la mia famiglia è tra le più illustri di quella


repubblica. Per molti anni i miei avi sono stati consiglieri e amministratori
cittadini e mio padre ha ricoperto varie cariche pubbliche guadagnandosi
onori e stima. Era rispettato da tutti coloro che lo conoscevano per la sua
integrità e la sua infaticabile diligenza nella cura degli affari pubblici. Ha
dedicato la sua gioventù a occuparsi perennemente degli affari del suo paese
e solo con gli anni in cui inizia il declino della vita pensò a sposarsi e a dare
allo Stato dei figli che potessero tramandare ai posteri il suo nome e le sue
virtù.
Poiché le circostanze del suo matrimonio illustrano il suo carattere, non
posso astenermi dal riportarle. Uno dei suoi più intimi amici era un mercante
che, per via di numerose sfortune, da una florida condizione finì in miseria.
Quest’uomo, di nome Beaufort, era d’animo orgoglioso e inflessibile, e non
poteva sopportare di vivere poveramente nell’ombra in quello stesso paese
dove si era precedentemente distinto per il suo rango e la sua magnificenza.
Quindi, una volta pagati i suoi debiti nel modo più onorevole, si ritirò con sua
figlia nella città di Lucerna, dove visse ignoto e povero. Mio padre amava
Beaufort con la più sincera amicizia e fu profondamente addolorato dal suo
appartarsi in queste sfortunate circostanze. Soffriva anche per la mancanza
della sua compagnia e decise di andare a cercarlo e adoperarsi a persuaderlo
di ritornare nel mondo, offrendogli sostegno e assistenza.
Beaufort aveva preso misure efficaci per nascondersi; ci vollero dieci
mesi prima che mio padre trovasse la sua dimora. Colmo di gioia per la
scoperta, si affrettò a raggiungere la casa, che si trovava in una strada
malfamata vicino al fiume Reuss. Ma quando vi entrò lo accolsero solo
miseria e disperazione. Dal tracollo delle sue fortune Beaufort aveva salvato
soltanto una piccolissima somma di denaro, appena sufficiente al
sostentamento di alcuni mesi; sperava dunque di procurarsi, nel frattempo, un
impiego rispettabile in un’azienda mercantile. In questo intervallo di
conseguente inattività, avendo l’agio per riflettere, il suo dolore si fece solo
più profondo e amaro, e con l’andare del tempo si impadronì così saldamente
del suo spirito che dopo tre mesi l’uomo giaceva a letto malato, incapace di
qualunque sforzo.
Sua figlia lo assisteva con la più grande tenerezza, mentre si rendeva
conto con disperazione che il loro piccolo fondo si estingueva rapidamente, e
che non v’erano altre prospettive di sostegno. Ma Caroline Beaufort
possedeva un animo di stampo non comune e il suo coraggio le si offrì di
sostegno nelle avversità. Si trovò dei semplici lavori: si mise a intrecciare la
paglia ed escogitò vari modi per racimolare la misera somma appena
sufficiente a sopravvivere.
In questo modo passarono vari mesi. Suo padre peggiorava e lei doveva
dedicare sempre più tempo ad assisterlo mentre i mezzi di sussistenza
scemavano; il decimo mese il padre le morì fra le braccia, lasciandola orfana
e mendicante. Quest’ultimo colpo la sopraffece. Quando mio padre entrò
nella camera la trovò che piangeva lacrime amare, inginocchiata al capezzale
di Beaufort. Per la povera ragazza mio padre arrivò come uno spirito
protettore, e si consegnò alle sue cure; lui, dopo avere seppellito il suo amico,
la condusse a Ginevra e la affidò a una parente. Due anni dopo Caroline
divenne sua moglie.
Quando mio padre diventò marito e padre, si accorse che il suo tempo era
talmente occupato dai doveri di quella nuova condizione che rinunciò a molti
dei suoi incarichi pubblici per dedicarsi all’educazione dei figli. Io tra questi
ero il più grande, destinato a succedergli in tutte le sue occupazioni e
mansioni. Non v’è creatura al mondo che possa aver avuto genitori più
amorevoli dei miei. Si preoccupavano costantemente del mio sviluppo e della
mia salute, soprattutto fino a che rimasi, per alcuni anni, il loro unico figlio.
Ma prima di continuare il mio racconto, devo ricordare un incidente avvenuto
quando avevo quattro anni.
Mio padre aveva una sorella, che amava teneramente e che in giovane età
aveva sposato un gentiluomo italiano. Appena sposata, aveva seguito il
marito nel suo paese natio e per alcuni anni mio padre comunicò molto poco
con lei. Al tempo di cui parlo lei morì e dopo qualche mese mio padre
ricevette una lettera dal marito, in cui lo metteva al corrente della sua
intenzione di sposare una signora italiana e gli chiedeva di prendersi cura
della bambina, Elizabeth, unica figlia della sorella defunta. «Il mio desiderio»
scriveva «è che voi la consideriate come una vostra figlia e la educhiate in
quanto tale. Il patrimonio di sua madre è destinato a lei e lascerò a voi la
custodia dei relativi documenti. Riflettete su questa proposta e decidete se
preferite che vostra nipote sia educata da voi o venga cresciuta da una
matrigna».
Mio padre non ebbe esitazioni e andò subito in Italia per accompagnare la
piccola Elizabeth nella sua futura casa. Ho sentito spesso mia madre dire che
a quel tempo lei era la più bella bambina che avesse mai visto e che fin da
allora dava prova di un carattere gentile e affettuoso. Questi segni, insieme al
desiderio di stringere nel modo più intenso i legami dell’amore domestico,
portarono mia madre a considerare Elizabeth la mia futura moglie; un
progetto su cui non ebbe mai motivo di ricredersi. Da questo momento
Elizabeth Lavenza divenne la mia compagna di giochi e, crescendo, la mia
amica. Aveva un carattere docile e affabile, e al tempo stesso era allegra e
giocosa come un insetto estivo. Ma per quanto vivace e animata, provava
sentimenti forti e profondi ed era di indole straordinariamente affettuosa.
Nessuno come lei sapeva godere della libertà e con altrettanta grazia accettare
le restrizioni e gli imprevisti. Aveva un’immaginazione lussureggiante e al
tempo stesso una grande capacità di concentrazione. La sua persona era
l’immagine del suo spirito: i suoi occhi nocciola, per quanto vividi come
quelli di un volatile, possedevano un’incantevole dolcezza. La sua figura era
agile ed eterea, ma pur sembrando la più fragile creatura del mondo era
capace di sostenere grandi fatiche. Io ammiravo la sua intelligenza e il suo
estro, e mi piaceva avere cura di lei come avrei fatto con il mio animale
preferito; non ho mai visto tanta grazia nel corpo e nell’animo di qualcuno
combinata a così poca presunzione.
Tutti adoravano Elizabeth. Se la servitù aveva una qualche richiesta da
fare, sempre arrivava per sua intercessione. Io e lei non conoscevamo dispute
o discordie: per quanto diversi i nostri caratteri, v’era armonia in quella
differenza. Io ero più calmo e filosofo della mia compagna, ma di carattere
meno remissivo. La mia concentrazione durava più a lungo, ma con un rigore
meno costante del suo. A me piaceva esplorare i fatti del mondo vero; lei era
tutta presa dalle impalpabili creazioni dei poeti. Il mondo per me era un
segreto che desideravo scoprire; per lei era uno spazio da popolare con
immagini di sua creazione.
I miei fratelli erano considerevolmente più giovani di me, ma avevo un
amico tra i compagni di scuola che compensava questa carenza. Henry
Clerval era il figlio di un mercante di Ginevra intimo amico di mio padre. Era
un ragazzo dotato di singolare talento e fantasia. Ricordo che a nove anni
scrisse una favola che deliziò e divertì tutti i suoi compagni. I suoi studi
preferiti erano i libri di cavalleria e i racconti romanzeschi; e mi ricordo che
da piccoli mettevamo in scena i copioni che lui traeva dai suoi libri preferiti, i
cui personaggi principali erano Orlando, Robin Hood, Amadigi e san
Giorgio.
Non vi sarebbe potuta essere una prima giovinezza più felice della mia. I
miei genitori erano comprensivi, i miei compagni amabili. Non eravamo mai
forzati allo studio ma ci veniva stimolata la passione di perseguirlo
indicandoci sempre, in un modo o nell’altro, un obiettivo da raggiungere. In
questa maniera, e non per antagonismo, venivamo esortati all’applicazione.
Elizabeth non veniva incitata a impegnarsi nel disegno per non farsi superare
dalle compagne, ma suscitando in lei il desiderio di far piacere alla zia con la
raffigurazione fatta di suo pugno di alcune scene da lei predilette.
Imparammo il latino e l’inglese per leggere le opere scritte in quelle lingue; e
siccome lo studio non ci era reso odioso con la punizione, a noi piaceva
dedicarci a quello che per gli altri ragazzi costituiva una fatica, ma era per noi
divertimento. Forse non leggemmo tanti libri o apprendemmo le lingue tanto
rapidamente come coloro che seguivano una disciplina secondo i metodi
ordinari, ma ciò che apprendevamo si impregnava più profondamente nella
nostra memoria.
Includo Henry Clerval nel quadro della nostra cerchia famigliare perché
stava sempre con noi. Veniva a scuola con me e generalmente passava il
pomeriggio a casa nostra; essendo figlio unico e dunque privo di compagni in
famiglia, suo padre era ben contento che lui socializzasse a casa nostra; in
quanto a noi, non eravamo mai del tutto contenti se non c’era Clerval.
Provo piacere a dilungarmi nei ricordi d’infanzia, quando la sventura non
mi aveva ancora avvelenato la mente, e trasformato le sue radiose visioni di
diffusione di benefici in cupe e introverse riflessioni. Ma nel dipingere il
quadro dei miei primi anni di vita non devo omettere di ripercorrere quegli
eventi che, a passi impercettibili, portarono alla mia successiva miserevole
vicenda: perché quando cerco di rendere conto a me stesso della nascita di
quella passione che in seguito governò il mio destino, la vedo sorgere, come
un ruscello di montagna, da fonti trascurabili e quasi rimosse; ma poi,
ingrossandosi lungo il tragitto, divenne quel torrente che con il suo corso ha
spazzato via tutte le mie speranze e le mie gioie.
Il mio destino è stato assoggettato al genio della filosofia naturale. Nel
mio racconto voglio quindi stabilire i fatti che mi portarono a prediligere
quella scienza. Quando avevo tredici anni, andammo tutti in gita ai bagni nei
pressi di Thonon e l’inclemenza del tempo ci costrinse a rimanere un intero
giorno chiusi nella locanda. In questo albergo mi capitò di trovare un volume
delle opere di Cornelio Agrippa. Lo aprii svogliatamente, ma la mia iniziale
indifferenza si tramutò in entusiasmo per la teoria che lui tenta di dimostrare
e i meravigliosi fatti di cui parla. Mi sembrò che una nuova luce albeggiasse
nel mio spirito e comunicai la mia scoperta a mio padre facendo salti di gioia.
E qui non posso esimermi dall’osservare quanto i precettori trascurino
completamente le tante opportunità che avrebbero di indirizzare l’attenzione
dei loro discepoli verso una conoscenza utile. Mio padre gettò un’occhiata
sbadata al frontespizio del libro e disse: «Ah! Cornelio Agrippa! Mio caro
Victor, non sprecarci il tuo tempo; è scadente ciarpame».
Se invece di questo commento mio padre si fosse preso la briga di
spiegarmi che i principi di Agrippa erano del tutto screditati e che a loro era
subentrato un moderno sistema scientifico che aveva molta più efficacia di
quello antico, perché le potenzialità di quello erano chimeriche, mentre di
questo avevano reale e pratica attuazione, io, in quel caso, avrei certamente
buttato via Agrippa e, con l’immaginazione così accesa, mi sarei
probabilmente applicato alla più razionale teoria della chimica che si è
prodotta con le scoperte moderne. O, addirittura, forse il corso delle mie idee
non avrebbe mai ricevuto la spinta fatale che portò alla mia rovina. Invece il
frettoloso sguardo che mio padre gettò al libro non mi convinse affatto che lui
ne conoscesse il contenuto e io continuai a leggerlo con la più grande avidità.
Tornato a casa, per prima cosa mi occupai di procurarmi l’intera opera di
questo autore, e poi di Paracelso e Alberto Magno. Trovai grande diletto a
leggere e studiare le scatenate fantasie di questi autori, che mi parevano tesori
conosciuti a pochi oltre a me; e per quanto spesso desiderassi condividere con
mio padre questi segreti anditi di conoscenza, il suo superficiale biasimo del
mio caro Agrippa mi trattenne sempre dal farlo. Così rivelai le mie scoperte a
Elizabeth, previa promessa di massima segretezza; ma a lei quell’argomento
non interessava, e mi lasciò proseguire i miei studi per conto mio.
Sembrerà molto strano che nel diciottesimo secolo possa nascere un
discepolo di Alberto Magno; ma la mia famiglia non aveva cultura scientifica
e io non avevo mai frequentato le lezioni che si tenevano nelle scuole di
Ginevra. I miei sogni erano dunque indisturbati dalla realtà e mi avviai con
grande diligenza alla ricerca della pietra filosofale e dell’elisir di lunga vita.
Ed è quest’ultimo, in ogni caso, che si guadagnò la mia attenzione più
esclusiva. La ricchezza non era un fine elevato. Quanta gloria avrebbe invece
incontrato una scoperta che avrebbe permesso di bandire la malattia dal corpo
umano, rendendo l’uomo invulnerabile a tutto tranne che a una morte
violenta!
E le mie visioni non si limitavano a questo. I miei autori preferiti si
facevano a profusione garanti della possibilità di evocare spettri e demoni,
una cosa che io desideravo ardentemente realizzare, e se i miei incantesimi
non funzionavano mai, attribuivo il fallimento alla mia inesperienza e ai miei
errori piuttosto che a una mancanza di talento o sincerità nei miei maestri.
Non sfuggivano alla mia osservazione i fenomeni naturali che
quotidianamente accadono davanti ai nostri occhi. Processi come la
distillazione, o i meravigliosi effetti del vapore, completamente ignorati dai
miei autori preferiti, eccitavano il mio stupore; ma a suscitare la mia più
grande meraviglia furono alcuni esperimenti con una pompa pneumatica che
vidi compiere a un signore che avevamo l’abitudine di andare a trovare.
L’ignoranza degli antichi filosofi su questi e molti altri punti servì a
sminuire il mio credito verso di loro, ma non avrei potuto mai accantonarli
del tutto finché un altro sistema non avesse occupato il loro posto nella mia
mente.
Avevo circa quindici anni e ci eravamo ritirati nella nostra casa vicino a
Belrive, dove assistemmo a un violentissimo e spaventoso temporale. Veniva
da dietro le montagne del Giura e il tuono prorompeva, con orrido baccano,
da diverse parti del cielo simultaneamente. Restai a osservarne gli sviluppi,
con gusto e curiosità, per tutta la sua durata. E mentre ero lì, in piedi sulla
soglia, a un tratto vidi una vampata di fuoco sgorgare da una vecchia e
bellissima quercia che si ergeva a circa venti iarde dalla nostra casa, e non
appena quella luce abbagliante svanì la quercia era sparita e non restava
null’altro che un ceppo bruciato. Quando il mattino seguente andammo a
vedere, trovammo l’albero frantumato in maniera curiosa. L’impatto del
fulmine non lo aveva spaccato, ma ridotto in sottili strisce di legno. Non
avevo mai visto niente di così completamente distrutto.
La rovina di quell’albero destò in me un’estrema meraviglia e interrogai
ansiosamente mio padre sulla natura e l’origine del tuono e del lampo. Lui
rispose: «L’elettricità» e mi descrisse i vari effetti di quell’energia. Costruì un
piccolo congegno elettrico e mi fece vedere alcuni esperimenti; costruì anche
un aquilone, dotato di cavo d’acciaio e cordicella, che dalle nuvole attirava
quel fluido.
Quest’ultimo colpo spodestò definitivamente Cornelio Agrippa, Alberto
Magno e Paracelso, che così a lungo avevano regnato signori della mia
immaginazione. Ma per qualche fatalità non mi sentii incline a intraprendere
lo studio di un qualche sistema moderno e questa avversione venne
influenzata dalle seguenti circostanze.
Mio padre espresse il desiderio che seguissi una serie di lezioni sulla
filosofia naturale, e io acconsentii di buon grado. Il caso volle che non
riuscissi a frequentare le lezioni finché il corso non era già quasi terminato e
la lezione che mi trovai a seguire, essendo una delle ultime, mi risultò del
tutto incomprensibile. Il professore discorreva con grande scioltezza di boro e
potassio, di ossidi e solfiti, tutti termini a cui io non associavo alcun concetto,
e quindi provai repulsione per la scienza della filosofia naturale, nonostante
leggessi ancora con piacere Plinio e de Buffon, autori, secondo me, di quasi
equivalenti interesse e utilità.
Le mie occupazioni a questa età erano prevalentemente la matematica e la
maggior parte dei rami di studio connessi a quella scienza. Mi dedicavo
molto all’apprendimento delle lingue; il latino mi era già familiare e
cominciai a leggere alcuni tra gli autori greci più accessibili con l’aiuto di un
dizionario. Inoltre capivo perfettamente l’inglese e il tedesco. A tanto
ammontava la lista delle mie competenze all’età di diciassette anni;
immaginerete quanto il mio tempo fosse interamente impiegato a perseguire e
trattenere la conoscenza di questa variegata letteratura.
Un altro compito ricadde su di me quando divenni l’istruttore dei miei
fratelli. Ernest aveva sei anni meno di me ed era il mio allievo principale. Era
stato soggetto a cattiva salute fin dall’infanzia, durante la quale io ed
Elizabeth lo avevamo costantemente assistito; aveva un carattere gentile ma
era incapace di una rigorosa applicazione. William, il più giovane della
famiglia, era ancora un bambino, e il più bel fanciullo del mondo: i suoi
vivaci occhi azzurri, le fossette delle guance, i modi adorabili ispiravano il
più tenero affetto.
Questa era la nostra cerchia domestica, dalla quale preoccupazioni e
sofferenza sembravano bandite per sempre. Mio padre seguiva i nostri studi e
mia madre prendeva parte ai nostri divertimenti. Nessuno di noi si avvaleva
della più vaga forma di preminenza sull’altro; tra di noi non si udiva mai la
voce del comando, mentre eravamo impegnati, dal mutuo affetto, ad
assecondare e rispettare il più piccolo desiderio dell’altro.
Capitolo secondo

Quando giunsi all’età di diciassette anni, i miei genitori decisero di mandarmi


a studiare all’università di Ingolstadt. Fino ad allora avevo frequentato le
scuole di Ginevra ma mio padre stimò necessario che, per completare la mia
istruzione, venissi a contatto con usanze diverse da quelle del mio paese
natale. Venne dunque fissata la data della mia imminente partenza, ma prima
che arrivasse il giorno stabilito accadde la prima sventura della mia vita,
come un presagio delle mie sciagure a venire.
Elizabeth aveva contratto la scarlattina, ma non in forma violenta e quindi
si riprese presto. Durante il suo isolamento cercammo in tutti i modi di
convincere mia madre ad astenersi dall’assisterla. Lei in un primo momento
cedette alle nostre preghiere, ma quando seppe che la sua diletta si stava
rimettendo, non riuscendo più a privarsi della sua compagnia, entrò nella sua
camera molto prima che il pericolo di infezione fosse sventato. Le
conseguenze di questa imprudenza furono fatali. Tre giorni dopo mia madre
si ammalò; la sua infezione era molto maligna e lo sguardo di chi la assisteva
pronosticava il peggio. Nel suo letto di morte, a questa donna mirabile non
vennero meno forza e bontà d’animo. Congiunse le mani di Elizabeth con le
mie e disse: «Figli miei, le mie più salde speranze di una futura felicità si
affidavano al pensiero della vostra unione. Questa speranza ora sarà la
consolazione di vostro padre. Mia amata Elizabeth, dovrai prendere il mio
posto con i tuoi cugini più piccoli. Ahimè! Mi addolora staccarmi da voi; con
voi sono stata tanto felice, mi sono sentita così amata: potrebbe non essere
dura lasciarvi? Ma questi non sono pensieri degni di me; riuscirò a
rassegnarmi alla morte di buon grado, nutrendo la speranza di incontrarvi di
nuovo in un altro mondo».
Morì serena e anche nella morte il suo volto esprimeva affetto. Non v’è
bisogno ch’io descriva i sentimenti di coloro a cui i legami più cari vengono
strappati dal più irreparabile dei mali, il vuoto che si apre nell’anima e la
disperazione che emana dai volti. Ci vuole così tanto tempo prima che la
mente riesca a persuadersi che proprio colei che vedevamo ogni giorno e la
cui esistenza sembrava essere così parte della nostra possa essere andata via
per sempre; che la luce di uno sguardo amato si possa essere estinta e che il
suono di una voce così familiare e cara all’orecchio possa essere silenziato
per non essere udito mai più. I primi giorni i pensieri sono questi, ma quando
il passare del tempo dimostra la realtà di quel male, è allora che ha inizio
l’amara esperienza del lutto. E tuttavia, a chi non ha strappato un legame
prezioso quella mano screanzata? Perché dovrei descrivere un dolore che tutti
hanno provato, e devono provare? Poi, a lungo andare, arriva il momento in
cui il cordoglio è più un privilegio che una necessità e il sorriso che smuove
le labbra, per quanto sacrilego lo si possa ritenere, da queste non più è
bandito. Mia madre era morta, ma restavano dei doveri da compiere;
dobbiamo continuare la strada insieme agli altri e imparare a ritenerci
fortunati fintanto che rimanga a noi qualcuno che la grande saccheggiatrice
non abbia agguantato.
Il mio viaggio per Ingolstadt, che era stato rinviato in seguito a questi
eventi, venne di nuovo deliberato. Ottenni da mio padre una proroga di
qualche settimana. Questo periodo passò tristemente; la morte di mia madre e
la mia sollecita partenza ci mettevano di malumore. Ma Elizabeth si prodigò
a tirare su il morale della nostra ridotta compagnia. Dalla morte di sua zia, lei
aveva acquisito una nuova fermezza e vigore di spirito. Decise di adempiere
ai suoi compiti con la massima precisione; e si accorse che era in lei cresciuto
il senso di un dovere imperativo, quello di rendere felici suo zio e i suoi
cugini. Consolò me, intrattenne lo zio, istruì i miei fratelli; e non la vidi mai
così incantevole come in questo periodo, quando era costantemente
impegnata a contribuire alla felicità degli altri, del tutto dimentica di sé.
Infine arrivò il giorno della mia partenza. Avevo salutato tutti i miei amici
tranne Clerval, che passò l’ultima sera con noi. Si lamentò amaramente di
non poter venire con me, ma non era stato possibile convincere il padre a
separarsi da lui. Questi intendeva farne un futuro socio di affari, e in
conformità con la sua teoria preferita e cioè che studiare era cosa superflua
nelle contingenze della vita di tutti i giorni. Henry era una mente raffinata;
non aveva alcun desiderio di starsene in panciolle ed era ben contento di
diventare socio di suo padre; tuttavia credeva che un uomo potesse essere un
ottimo commerciante anche se in possesso di una cultura sviluppata.
Restammo svegli fino a tardi, ad ascoltare le sue lamentele, e facendo
tanti piccoli piani per il futuro. La mattina dopo, sul presto, partii. Le lacrime
sgorgavano dagli occhi di Elizabeth, prodotte in parte dal dispiacere per la
mia partenza, in parte al pensiero che quello stesso viaggio avrebbe dovuto
avere inizio tre mesi prima, quando sarei stato accompagnato dalla
benedizione di una madre.
Mi lasciai cadere nel calesse che mi avrebbe portato via e mi abbandonai
ai pensieri più malinconici. Io, che da sempre avevo avuto intorno degli amici
adorabili, ciascuno dei quali si prodigava di trovare il modo di procurare
benessere agli altri, ora ero solo. All’università, verso la quale mi dirigevo,
avrei dovuto trovarmi degli amici e diventare io stesso il mio custode. Fino a
quel momento avevo condotto una vita appartata e casalinga e questo aveva
prodotto in me un’invincibile ripugnanza per le facce nuove. Amavo i miei
fratelli, Elizabeth e Clerval: questi erano i “vecchi volti familiari”, ed ero
convinto di essere totalmente inadatto per la compagnia di estranei. Con
questi pensieri cominciai il mio viaggio, ma con il procedere di questo il mio
spirito si rinfrancò e le mie speranze crebbero. Desideravo ardentemente
acquisire conoscenza. In fin dei conti, quando ero a casa, avevo spesso
trovato pesante la prospettiva di rimanere ingabbiato in un unico posto per
tutta la giovinezza e avevo bramato di andare nel mondo a prendere il mio
posto tra gli altri esseri umani. Ora i miei desideri si compivano e sarebbe
stato veramente sciocco rammaricarsene.
Durante il viaggio per Ingolstadt, che fu lungo e stancante, ebbi tutto il
tempo necessario per dedicarmi a questi e a molti altri pensieri. Poi
finalmente i miei occhi si posarono sull’alto campanile bianco della città.
Scesi dal calesse e venni condotto al mio appartamento solitario per passare
la serata a mio piacimento.
Il mattino seguente inviai le mie lettere di presentazione e feci visita ad
alcuni dei professori più importanti, tra i quali Monsieur Krempe, professore
di filosofia naturale. Mi ricevette cortesemente e mi fece svariate domande
relative ai miei progressi nei differenti rami della scienza attinenti alla
filosofia naturale. Io feci il nome, a dire il vero con paura e tremore, degli
unici autori che avessi mai letto su quegli argomenti. Il professore sgranò gli
occhi. «Davvero» mi disse «avete passato il vostro tempo a studiare tali
insensatezze?»
Risposi affermativamente. «Ogni minuto» continuò con veemenza
Monsieur Krempe, «ogni istante che avete sprecato su quei libri è del tutto e
irrimediabilmente perduto. Avete intasato la vostra memoria di sistemi
screditati e nomi inutili. Buon Dio! In che landa deserta avete vissuto, in cui
nessuno è stato abbastanza gentile da informarvi che queste fantasie, di cui vi
siete imbevuto con tanta avidità, sono vecchie di mille anni, e tanto
ammuffite quanto superate? Poco mi sarei aspettato di trovare in quest’epoca
illuminata e scientifica un discepolo di Alberto Magno e Paracelso. Mio caro
signore, dovete cominciare i vostri studi totalmente da capo».
Così dicendo si allontanò, buttò giù una lista di vari testi di filosofia
naturale che desiderava mi procurassi e mi licenziò, dopo avermi ricordato la
sua intenzione, con l’inizio della settimana seguente, di avviare una serie di
lezioni sulle connessioni generali della filosofia naturale, e che un professore
suo collega, Monsieur Waldman, avrebbe tenuto delle lezioni di chimica
sostituendolo nei giorni in cui lui sarebbe stato assente.
Non ero deluso quando tornai a casa, perché da tempo consideravo inutili
quegli autori che il professore aveva così biasimato; ma non avevo molta
voglia di studiare i libri che mi procurai dietro sua raccomandazione.
Monsieur Krempe era un ometto tarchiato dalla voce roca e l’aspetto
scostante, quindi l’insegnante non mi dispose a favore della sua materia.
Inoltre, provavo un certo disprezzo per gli usi della filosofia naturale
moderna. Quando i maestri della scienza erano alla ricerca di immortalità e
potenza, era diverso; quelle prospettive, per quanto futili, erano grandiose.
Ora la scena era cambiata. L’ambizione del ricercatore sembrava limitarsi al
disfacimento di quelle visioni su cui si basava principalmente il mio interesse
per la scienza. Mi veniva richiesto di scambiare chimere di illimitata
grandezza con realtà di scarso valore.
A questo pensai nei primi due o tre giorni trascorsi pressoché in
solitudine. Dopodiché, con l’inizio della settimana seguente, pensai alle
informazioni che Monsieur Krempe mi aveva dato sulle sue lezioni. E se
proprio non me la sentii di andare ad ascoltare quel piccolo individuo
presuntuoso sputare sentenze dal suo pulpito, quando da lì a poco seppi che si
trovava fuori città, mi ricordai di quello che aveva detto di Monsieur
Waldman, che invece non avevo mai visto.
Un po’ per curiosità, un po’ perché non avevo nulla da fare, mi recai
nell’aula dove poco dopo fece il suo ingresso Monsieur Waldman. Questo
professore era molto diverso dal suo collega. Sembrava avere circa
cinquant’anni, ma il suo aspetto esprimeva la più grande benevolenza; sulle
tempie aveva pochi capelli grigi, ma quelli sulla nuca erano quasi neri. Era
basso ma notevolmente diritto e la sua voce era la più dolce che avessi mai
udito. Cominciò la lezione ricapitolando la storia della chimica e i vari
progressi fatti da diversi uomini sapienti, pronunciando con fervore i nomi di
quelli che si erano maggiormente distinti per le loro scoperte. Dopodiché
passò in rapida rassegna lo stato attuale della scienza e spiegò una buona
parte della sua terminologia basilare. Dopo aver fatto alcuni esperimenti
preparatori, concluse la lezione con un panegirico sulla chimica moderna di
cui non dimenticherò mai le parole.
«Gli antichi maestri di questa scienza» disse «promisero cose impossibili
e non ne misero in pratica nessuna. Quelli moderni promettono ben poco;
sanno che i metalli non si possono trasmutare e che l’elisir di lunga vita è una
chimera. Però questi filosofi, le cui mani sembrano fatte solo per sguazzare
nel fango, e gli occhi per strabuzzare su un microscopio o un crogiuolo, in
verità hanno compiuto miracoli. Costoro penetrano nei recessi della natura e
mostrano come si comporti nelle sue zone più recondite. Volano alto: hanno
scoperto come funziona la circolazione del sangue e il comportamento
dell’aria che respiriamo. Hanno acquisito poteri nuovi e quasi illimitati;
possono dominare i tuoni del cielo, simulare i terremoti e persino
scimmiottare il mondo invisibile e le sue ombre».
Me ne andai molto soddisfatto del professore e della sua lezione e gli feci
visita quella sera stessa. In privato i suoi modi erano ancora più miti e
affascinanti che in pubblico, perché quel non so che di solenne che
manteneva nel suo portamento durante la lezione a casa sua lasciava spazio
alla più grande affabilità e gentilezza. Ascoltò con attenzione il breve
racconto che gli feci dei miei studi, e sorrise ai nomi di Cornelio Agrippa e
Paracelso, ma senza il disprezzo esibito da Monsieur Krempe. Disse che
«questi sono gli uomini al cui instancabile zelo i moderni filosofi sono
indebitati per la maggior parte dei fondamenti della loro conoscenza. Hanno
lasciato a noi il compito più semplice di dare nomi nuovi e classificare in
modo coerente quei fatti che in grande misura grazie a loro sono stati portati
alla luce. È raro che le fatiche degli uomini di genio, per quanto erroneamente
indirizzate, non finiscano per risultare infine di sostanziale utilità per la razza
umana». Ascoltai la sua dichiarazione, rilasciata senza alcuna presunzione o
affettazione; poi aggiunsi che la sua lezione mi aveva liberato dai pregiudizi
contro la chimica moderna e che, al tempo stesso, gli chiedevo consiglio sui
libri che mi sarei dovuto procurare.
«Sono contento» disse Monsieur Waldman «di avere acquisito un
discepolo, e se la vostra dedizione sarà pari all’abilità, non ho dubbi sul
vostro successo. La chimica è quel ramo della filosofia naturale in cui si sono
fatti e si potranno fare i più grandi passi avanti; è per questo che ne ho fatto il
mio specifico campo di studi, senza però per questo trascurare gli altri rami
della scienza. Sarà un cattivo chimico quell’uomo che si dedichi solo a quel
campo del sapere umano. Se il vostro desiderio è quello di diventare
veramente un uomo di scienza, e non un mero sperimentatore di poco conto,
il mio consiglio è di applicarvi a ogni ramo della filosofia naturale, inclusa la
matematica».
A quel punto mi portò nel suo laboratorio e mi spiegò gli usi dei suoi vari
strumenti; mi diede istruzione su quali dovessi procurarmi e mi promise di
lasciarmi usare i suoi, quando avessi raggiunto la competenza necessaria per
non danneggiarne i meccanismi. Mi diede anche la lista dei libri che gli avevo
richiesto e presi congedo.
Così terminò una giornata per me memorabile, che decretò il mio destino
a venire.
Capitolo terzo

Da quel giorno la filosofia naturale, e in particolare la chimica, nel più ampio


senso del termine, divenne quasi la mia esclusiva occupazione. Lessi con
passione quelle opere che i ricercatori moderni avevano scritto su questi
argomenti, così piene di genio e discernimento. Frequentai le lezioni, e
coltivai i rapporti con gli uomini di scienza dell’università, trovando persino
in Monsieur Krempe una notevole dose di profondo senno e di informazioni
reali; il fatto che si combinassero, è vero, a modi e aspetto respingenti, non li
rendeva meno validi. In Monsieur Waldman trovai un vero amico. La sua
gentilezza non aveva mai traccia di dogmatismo e i suoi insegnamenti
venivano impartiti con un tono franco e bonario che bandiva qualunque
forma di pedanteria. Inizialmente forse fu soprattutto il carattere amabile di
quest’uomo a indirizzarmi verso il ramo della filosofia naturale che lui
insegnava, più che una intrinseca passione per quella scienza in sé. Ma questa
mia disposizione d’animo contò solo per il tempo dei miei primi passi verso
la conoscenza; più pienamente mi addentravo in quella scienza, più mi ci
dedicavo esclusivamente per il suo specifico valore. Quella dedizione che
all’inizio era fatta di senso del dovere e determinazione divenne a quel punto
così avida e ardente che spesso ero ancora impegnato nel mio laboratorio
quando la luce delle stelle si dissolveva in quella del mattino.
Si potrà facilmente immaginare che, con una applicazione così assidua,
feci rapidi progressi. Gli altri studenti stupivano alquanto del mio fervore, i
maestri dei miei risultati. Il professor Krempe mi chiedeva spesso, con un
sorrisetto sornione, come andasse con Cornelio Agrippa, mentre Monsieur
Waldman esprimeva il più sincero entusiasmo per i miei progressi. In questo
modo passarono due anni, durante i quali non feci mai visita a Ginevra e mi
dedicai, anima e cuore, al conseguimento di alcune scoperte che speravo di
fare. Chi non ne ha avuto esperienza non ha idea di quali siano le seduzioni
della scienza. Negli altri studi cerchi di metterti al passo con chi ti ha
preceduto, dopodiché non v’è altro da sapere; ma nella ricerca scientifica v’è
continuo alimento per la scoperta e la meraviglia. Una mente di moderate
capacità che si concentri su un’unica disciplina non può fare a meno di
ottenere grandi risultati e io, che non mi staccavo mai dal conseguimento di
un unico oggetto di ricerca, ed ero immerso solo in questo, progredii così
rapidamente che, passati due anni, feci delle scoperte sul miglioramento di
alcuni strumenti di chimica che mi procurarono grande stima e ammirazione
all’università. Arrivato a questo punto e avendo assimilato tutto quello che si
poteva assimilare, della teoria e della pratica della filosofia naturale, dalle
lezioni di ogni professore di Ingolstadt, considerato che la mia permanenza in
quella città non mi avrebbe più condotto a ulteriori progressi, stavo pensando
di ritornare dai miei cari e nella mia città natale, ma accadde qualcosa che
prolungò la mia permanenza.
Uno dei fenomeni che aveva maggiormente attratto la mia attenzione era
la struttura del corpo umano e, a dire il vero, di qualunque animale dotato di
vita. Mi chiedevo spesso: da dove proviene il principio vitale? Una domanda
audace, su quanto da sempre è considerato un mistero; ma quante cose
potremmo essere in procinto di conoscere se non venissimo limitati dalla viltà
o dalla trascuratezza? Riflettei su queste cose tra me e me e infine decisi di
dedicarmi ancor più specificamente a quei rami della filosofia naturale che
riguardano la fisiologia. Se non fossi stato animato da un entusiasmo quasi
sovrannaturale, la dedizione a questi studi sarebbe risultata seccante, quasi
insopportabile. Per esaminare le cause della vita dobbiamo innanzitutto
rivolgerci alla morte. Non bastava avere preso familiarità con l’anatomia;
dovevo osservare da vicino il naturale decadimento e la corruzione del corpo
umano. Nel crescermi, mio padre si era enormemente prodigato affinché la
mia mente non venisse turbata da orrori sovrannaturali. Non ricordo d’essere
mai rabbrividito al racconto di una storia di credenze superstiziose o di avere
temuto l’apparizione di un fantasma. Il buio non aveva alcun effetto sulle mie
fantasie; il camposanto per me era solo il ricettacolo dei corpi privi di vita,
che da sede di forza e bellezza erano divenuti cibo per i vermi. Ora mi
trovavo a dover studiare attentamente la causa e il corso di questo
decadimento, ed ero costretto a passare giorni e notti nelle cripte e negli
ossari. La mia attenzione era rivolta proprio a tutte quelle cose che sono
maggiormente insopportabili per la delicatezza dei sentimenti umani. Davanti
ai miei occhi si svolgevano il degrado e la rovina della bella forma umana;
assistevo alla vittoria della corruzione della morte sulle fiorenti guance della
vita; vedevo i vermi ereditare le meraviglie dell’occhio e del cervello. Mi
soffermai a esaminare e analizzare i dettagli di tutti i passaggi che si
verificano nei processi di causa ed effetto che portano dalla vita alla morte, e
dalla morte alla vita, finché nel mezzo di questa oscurità irruppe dentro me
una luce improvvisa, tanto brillante e portentosa quanto semplice, per cui se
da una parte fui stordito dalle prospettive che offriva, dall’altra mi sorpresi
che, fra tanti uomini di genio che avevano indirizzato le loro ricerche in
quella stessa scienza, soltanto a me si rivelasse la scoperta di un segreto così
stupefacente.
Tenete presente che non vi sto raccontando le visioni di un pazzo. Quello
che qui dichiaro è vero quanto è vero che il sole splende in cielo. Forse era
stata prodotta da un qualche miracolo, ma le fasi che avevano condotto a
quella scoperta erano nette e verosimili. Dopo giorni e notti di lavoro
incredibilmente spossante, riuscii a scoprire la causa della generazione e della
vita. No, di più: divenni io stesso capace di animare la materia inerte.
Allo sbalordimento che inizialmente provai per questa scoperta
subentrarono il piacere e l’entusiasmo. Dopo tutto quel tempo di arduo
lavoro, arrivare d’un tratto alla vetta dei miei desideri fu il più gratificante
coronamento delle mie fatiche. La scoperta era talmente grande e travolgente
da cancellare il ricordo di tutti i passi che, uno dopo l’altro, mi ci avevano
portato; vedevo solo il risultato. Ora avevo in pugno ciò che era stato
l’oggetto degli studi e dei desideri degli uomini più sapienti dai tempi della
creazione del mondo. Non è che tutto si svelò per me come una visione
magica: quello che ora sapevo avrebbe indirizzato i miei sforzi più
rapidamente verso l’oggetto delle mie ricerche, ma non mi permetteva di
esibire l’oggetto bell’e pronto. Ero come l’arabo sepolto con i morti che trova
la strada per tornare tra i vivi grazie a un solo, e apparentemente
insignificante, barlume di luce.
Dalla curiosità, lo stupore e l’aspettativa che esprimono i vostri occhi,
amico mio, capisco che desideriate venire informato del segreto che possiedo.
Questo non è possibile. Se ascolterete la mia storia con pazienza fino alla
fine, dedurrete facilmente il motivo del mio riserbo al proposito. Non intendo
condurvi, disarmato e appassionato come ero allora, alla vostra distruzione e
inevitabile miseria. Imparate da me, se non dai miei precetti, almeno dal mio
esempio, quanto sia pericolosa l’acquisizione della conoscenza, e quanto sia
più felice quell’uomo che ha per mondo la sua città natale, di colui che aspira
a una grandezza maggiore di quella che la sua natura gli concede.
Quando mi ritrovai tra le mani un potere così strabiliante, esitai a lungo
sul modo di impiegarlo. Anche se possedevo la capacità di infondere la vita,
quello di preparare un corpo che la ricevesse, con tutto il suo intreccio di
fibre, muscoli e vene, restava un lavoro inconcepibilmente laborioso e
difficile. In un primo momento mi chiesi se avrei dovuto tentare la creazione
di un essere a mia somiglianza o piuttosto di qualcuno di più semplice
struttura; la mia immaginazione, però, era troppo esaltata dal primo successo
da permettermi di dubitare della mia abilità di dare vita a un animale tanto
complesso e meraviglioso quanto l’uomo. I materiali di cui disponevo al
momento sembravano scarsamente adeguati per un’impresa tanto ardua,
eppure non dubitavo di farcela, alla fine. Mi preparai ad affrontare una
moltitudine di fallimenti; le mie operazioni sarebbero potute venire
costantemente frustrate e il mio lavoro alla fine risultare imperfetto. Ma se
pensavo ai passi avanti che si compiono ogni giorno nella scienza e nella
meccanica, ero portato a sperare che i miei tentativi del momento avrebbero
potuto quantomeno gettare le basi per successi futuri. E non riuscivo a
considerare la grandezza e la complessità del mio piano come elementi della
sua impraticabilità. In questo stato d’animo, dunque, cominciai a creare un
essere umano. Poiché assemblare delle membra minute avrebbe reso il lavoro
molto più lento, stabilii – contrariamente alla mia intenzione iniziale – di
creare un essere di statura gigantesca, vale a dire alto circa due metri e mezzo
e di corporatura proporzionata all’altezza. Giunto a questa decisione e dopo
avere passato alcuni mesi a raccogliere e organizzare, con successo, il
materiale, cominciai.
Non si può immaginare la varietà di sentimenti che, con la forza di un
uragano, mi spronavano al lavoro per l’iniziale entusiasmo che avevo di
farcela. Quello tra la vita e la morte mi appariva adesso come un confine
astratto nel quale io per primo avrei fatto breccia, per riversare sul nostro
mondo all’oscuro un torrente di luce. Una specie a venire mi avrebbe
benedetto, riconoscendomi come suo creatore, come la sua origine: molti
esseri felici e di egregia natura avrebbero dovuto a me la loro esistenza.
Nessun padre potrebbe pretendere la gratitudine di un figlio così pienamente
quanto io avrei meritato la loro. E sviluppando questi pensieri arrivai a
concepire che se potevo infondere la vita alla materia inerte, avrei potuto, col
passare del tempo (per quanto ancora mi sembrasse impossibile), ridare vita a
quei corpi che la morte sembrava avere consegnato alla putrefazione.
Questi pensieri tenevano alto il mio spirito mentre procedevo nella mia
impresa con ardore incessante. Intanto il mio volto si faceva smorto per tutte
quelle ore di studio, e il corpo emaciato per il protratto isolamento. A volte,
proprio sul punto di afferrare una certezza, fallivo; ma mi aggrappavo sempre
alla speranza per quello che si sarebbe realizzato il giorno successivo, o l’ora
dopo. La speranza a cui mi affidavo stava in quel segreto che io solo
conoscevo, mentre la luna vegliava sulle mie notti di fatica, in cui, con ardore
indefesso e spasmodico, cercavo di stanare la natura dai suoi nascondigli. Chi
potrebbe immaginare gli orrori del mio duro e appartato lavoro, quando
rovistavo nell’umido delle tombe profanate, o quando torturavo gli animali
vivi per animare l’argilla senza vita? Mi tremano le membra al ricordo, mi si
offusca la vista; allora, invece, ero spinto da un impulso irresistibile, quasi
convulso. Anima e corpo non sentivano altro che questo richiamo. A dire il
vero, fu solo l’effetto di una trance passeggera; quando il suo innaturale
stimolo cessò di avere effetto e ritornai alle mie vecchie abitudini, mi ritrovai
con una nuova e acuita sensibilità. Raccoglievo ossa dagli ossari e violavo,
con dita profane, i tremendi segreti del corpo umano. Avevo allestito il mio
laboratorio per quella immonda creazione all’ultimo piano della casa, in una
stanza isolata, o piuttosto una cella, separata da una galleria e una rampa di
scale dal resto degli ambienti; lì, con gli occhi fuori dalle orbite, mi dedicavo
ai dettagli del mio lavoro. Il materiale con cui operavo veniva dalle aule di
anatomia e dai mattatoi; e mentre mi accingevo a portare a compimento il
mio lavoro, spinto da una brama sempre crescente, spesso la mia natura
umana si ritraeva con disgusto da quello che facevo.
Rimasi assorbito in quell’unica ricerca, con il cuore e con l’anima, per
tutta l’estate. La stagione fu magnifica; i campi non avevano mai prodotto
messi più abbondanti, o i vigneti una vendemmia più lussureggiante. Ma i
miei occhi erano insensibili agli incanti della natura. E la stessa passione per
cui trascuravo lo spettacolo che si svolgeva intorno a me mi fece dimenticare
anche i miei cari a tante miglia di distanza, che non vedevo da così tanto
tempo. Sapevo che il mio silenzio li inquietava; ricordavo bene le parole di
mio padre: «So che finché sarai soddisfatto di te, penserai a noi con affetto e
riceveremo regolarmente tue notizie. Devi comprendere, invece, che riterrò
qualunque interruzione della tua corrispondenza come la prova che starai
trascurando anche gli altri tuoi doveri».
Dunque sapevo bene cosa provasse mio padre, ma non riuscivo a staccare
i miei pensieri da quel lavoro che, in sé ripugnante, si era impadronito
irresistibilmente della mia immaginazione. Era come se volessi tenere in
sospeso tutto ciò che riguardava la sfera affettiva fino a che il grande oggetto,
che si inghiottiva tutte le mie naturali consuetudini, fosse stato completato.
A quel tempo pensavo che mio padre sarebbe stato ingiusto ad ascrivere
quella mia negligenza al vizio o a qualche colpa da parte mia; ora invece sono
convinto che aveva ragione a supporre che io non fossi del tutto privo di
colpa. Un essere umano in condizioni ottimali dovrebbe sempre avere un
animo calmo e sereno e non permettere mai alla passione o a un desiderio del
momento di disturbare la sua quiete. Non credo che la ricerca della
conoscenza sia un’eccezione a questa regola. Se lo studio a cui ci si applica
porta a indebolire i propri affetti e a rovinare il gusto per quei semplici piaceri
che non vanno mescolati a nient’altro, significa che quello studio è
certamente illecito, vale a dire non adatto all’animo umano. Se questa legge
venisse sempre osservata, se nessun uomo permettesse ad alcun altro
proposito di interferire con la tranquillità dei suoi affetti famigliari, la Grecia
non sarebbe stata ridotta in schiavitù, Cesare avrebbe risparmiato la sua
patria, l’America sarebbe stata scoperta più gradualmente e gli imperi del
Messico e del Perù non sarebbero stati distrutti.
Ma mi accorgo che sto facendo la morale nella parte più interessante del
mio racconto; e il vostro sguardo mi sollecita a proseguire.
Mio padre non mi fece alcun rimprovero nelle sue lettere; segnalò il mio
silenzio solo facendo domande più dettagliate di prima sulle mie occupazioni.
L’inverno, la primavera e l’estate mi videro ancora intento al mio lavoro; ne
ero talmente assorbito che non mi accorsi dei germogli né dello spuntare delle
foglie, cose che fino ad allora mi avevano sempre riempito di gioia. Le foglie
di quell’anno appassirono prima che il mio lavoro si avvicinasse al suo
compimento, ma adesso ogni giorno mi mostrava sempre più chiaramente
quanto fosse certo il mio successo. Ma il mio entusiasmo era frenato
dall’ansia, e avevo l’aria di uno schiavo costretto a lavorare in miniera, o a
qualche altro malsano mestiere, piuttosto che quella di un artista coinvolto
nella sua attività prediletta. Ogni notte ero preda di una leggera febbre e
sviluppai un nervosismo di dolorosa intensità; un malessere tanto più
fastidioso per me, in quanto fino ad allora avevo sempre goduto di ottima
salute e mi ero sempre vantato della solidità dei miei nervi. Ma ero convinto
che l’esercizio fisico e un po’ di svago mi avrebbero presto liberato di quei
sintomi, così mi ripromettevo di praticare entrambi, una volta completata la
mia creazione.
Capitolo quarto

Fu in una tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche.
Con un’ansia che rasentava l’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti per
infondere vita e instillarne una scintilla nella cosa inanimata che giaceva ai
miei piedi. Era già l’una di notte; una lugubre pioggia batteva contro i vetri e
la mia candela era quasi del tutto consumata quando, nel barlume di quella
luce che moriva, vidi aprirsi i giallastri occhi opachi di quella creatura; aveva
il respiro affannato e le membra agitate da un moto convulso.
Come dar conto delle mie emozioni di fronte a questa catastrofe? Come
descrivere lo sciagurato individuo a cui mi ero tanto impegnato a dare forma,
con infiniti sforzi, cura e pene? Le sue membra erano proporzionate e avevo
scelto le sue fattezze in base alla bellezza. Bellezza! Buon Dio! La sua pelle
giallognola copriva a malapena il sottostante intreccio di muscoli e arterie; i
suoi capelli neri erano lucidi e folti; i denti di un bianco perlaceo... Ma questi
pregi formavano solo un contrasto ancora più raccapricciante con i suoi occhi
acquosi, che parevano quasi dello stesso colore delle orbite grigiastre in cui
erano collocati, la pelle avvizzita e le labbra strette e nere.
I vari casi della vita non sono mutevoli quanto i sentimenti di una natura
umana. Avevo lavorato sodo per quasi due mesi all’unico scopo di infondere
la vita in un corpo inanimato. Per fare questo mi ero privato di sonno e salute.
L’avevo desiderato con un ardore più che smodato eppure, ora che avevo
finito, la bellezza del sogno svanì e il mio cuore era colmo di un orrore e un
disgusto che mi toglievano il fiato. Non riuscendo più a guardare quell’essere
che avevo creato, corsi fuori dalla stanza e per lungo tempo continuai ad
attraversare avanti e indietro la mia camera da letto, nell’incapacità di
calmarmi e prendere sonno. Finalmente la spossatezza si avvicendò
all’inquietudine che mi aveva travolto, e mi buttai a letto vestito, sperando di
trovare qualche attimo di oblio. Fu tutto vano; dormii, senz’altro, ma
disturbato dai sogni più agitati. Mi parve di vedere Elizabeth, nel fiore della
salute, camminare per le strade di Ingolstadt. Felice e sorpreso, la
abbracciavo. Ma appena posavo le mie labbra sulle sue per baciarla, queste
diventavano del livido colore della morte; i suoi lineamenti apparivano mutati
e mi sembrava di avere tra le braccia il cadavere di mia madre; il suo corpo
era avvolto da un sudario e io vedevo i vermi infiltrarsi tra le pieghe del
tessuto. Mi svegliai di soprassalto in preda all’orrore; la mia fronte era
bagnata di sudore freddo, battevo i denti, i miei arti avevano le convulsioni e,
alla pallida luce gialla della luna, che si faceva strada attraverso le persiane,
vidi lo sciagurato, il miserabile mostro che avevo creato. Teneva sollevate le
cortine del letto e gli occhi, se così si possono chiamare, fissi su di me. Aprì
le ganasce e sbiascicò suoni inarticolati, con un ghigno che gli aggrinziva le
gote. Forse parlò, ma non lo udii; una mano era tesa in avanti, come per
trattenermi, ma io sfuggii alla sua presa e corsi di sotto. Mi rifugiai nel cortile
della casa in cui abitavo, dove rimasi per il resto della notte, camminando su
e giù per la grande agitazione, con le orecchie tese a cogliere ogni rumore,
temendo che annunciasse l’arrivo del cadavere demoniaco a cui avevo così
sciaguratamente dato vita.
Oh, nessun essere umano potrebbe sostenere l’orrore del suo aspetto! Una
mummia rianimata non sarebbe altrettanto ripugnante. Il mio sguardo era
stato a lungo posato su di lui mentre lo completavo, e già era brutto. Ma
quando i muscoli e le articolazioni furono resi capaci di muoversi, divenne
una cosa che neanche Dante avrebbe potuto concepire.
Passai una notte d’inferno. A volte il mio battito cardiaco era così forte e
veloce che ne sentivo le pulsazioni in ogni arteria; altre, quasi crollavo a terra
per la stanchezza e l’estrema debolezza. Mista all’orrore, sentivo l’amarezza
della delusione: proprio quei sogni di cui mi ero nutrito così a lungo, e in cui
mi ero piacevolmente cullato, erano adesso un incubo per me; e quel
cambiamento era stato così rapido, la disfatta così completa!
Finalmente albeggiò e quell’umido e triste mattino mostrò ai miei occhi
insonni e doloranti la chiesa di Ingolstadt, il suo bianco campanile e
l’orologio che segnava le sei. Il custode aprì il portone del cortile, che era
stato il mio asilo notturno, e io mi lanciai nelle strade, percorrendole a passi
veloci, come per sfuggire a quell’individuo che temevo di trovarmi davanti a
ogni angolo. Non osavo tornare indietro, al mio alloggio; sentivo l’urgenza
impellente di andare sempre avanti, zuppo com’ero per la pioggia che si
rovesciava da un cielo nero e inaccogliente.
Continuai a camminare così per un po’, nel tentativo di alleviare, col
movimento fisico, il peso che mi schiacciava l’anima. Percorrevo le strade
senza sapere bene dove mi trovassi, o cosa stessi facendo. Il mio cuore
batteva di una paura febbrile e procedevo avanzando veloce, con passi
irregolari, non osando guardarmi intorno:
Come colui che su una strada deserta
cammina nel timore e nel terrore,
e dopo essersi voltato, riprende ad andare
senza voltarsi più perché sa bene
che un demone terribile lo segue1.

Continuando così, dopo un bel po’ mi ritrovai di fronte alla locanda dove si
fermavano di solito le varie diligenze e le carrozze. Qui mi arrestai, senza
sapere perché, e restai qualche minuto a fissare una vettura che veniva verso
di me dall’altra estremità della strada. Quando si fece più vicina, mi resi
conto che era la diligenza svizzera; si fermò proprio davanti a me e quando si
aprì lo sportello riconobbi Henry Clerval che, vedendomi, saltò fuori
all’istante. «Mio caro Frankenstein» esclamò, «come sono contento di
vederti! Che caso fortunato che tu sia qui, proprio al momento del mio
arrivo!»
Nulla potrebbe equivalere alla mia gioia nel vedere Clerval; la sua
presenza riportò nei miei pensieri mio padre, Elizabeth e tutte quelle scene
casalinghe così care al ricordo. Gli afferrai la mano e in un momento
dimenticai l’orrore che provavo e la mia disgrazia; sentii, improvvisamente, e
per la prima volta da molti mesi a quella parte, una gioia calma e serena.
Diedi dunque il benvenuto al mio amico, nel modo più cordiale, e ci
incamminammo verso la mia università. Per un po’ Clerval continuò a parlare
dei nostri comuni amici e di quant’era fortunato che gli fosse stato permesso
di venire a Ingolstadt. «Non farai fatica a immaginare» disse «quanto è stato
difficile persuadere mio padre che non era assolutamente indispensabile per
un mercante non capire niente altro che questioni di contabilità; sono
convinto, comunque, di averlo lasciato incredulo fino alla fine, perché la sua
costante risposta alle mie infaticabili suppliche era sempre la stessa del
rettore olandese nel Vicario di Wakefield: “Guadagno diecimila fiorini l’anno
senza sapere il greco, mangio a sazietà senza sapere il greco”. Ma il suo
affetto per me alla lunga ha prevalso sulla sua avversione allo studio e mi ha
dato il permesso di intraprendere un viaggio esplorativo nella terra del
sapere».
«Vederti mi dà la gioia più grande! Ma dimmi: come hai lasciato mio
padre, i miei fratelli ed Elizabeth?»
«Molto bene e molto felici. Solo un po’ a disagio perché ricevono così
raramente tue notizie. E a proposito, per quanto riguarda loro ho intenzione di
farti io stesso una ramanzina. Ma... mio caro Frankenstein» continuò,
fermandosi un momento a osservarmi bene in volto, «non mi ero ancora reso
conto della tua brutta cera, sei così magro e pallido; sembra che tu abbia
vegliato per notti e notti».
«Hai indovinato; di recente sono stato così preso da un’unica occupazione
senza concedermi il giusto riposo, come vedi. Ma spero, sinceramente lo
spero, che tutte queste occupazioni siano giunte al termine, e di essere
finalmente libero».
Tremavo in modo eccessivo; non potevo sopportare di pensare, e
tantomeno di alludere, agli avvenimenti della notte passata. Camminai a
passo svelto e presto arrivammo all’università. A quel punto riflettei, e il
pensiero mi diede i brividi, che la creatura che avevo lasciato nel mio
appartamento potesse aggirarsi ancora lì. E se temevo di vedere quel mostro,
ancora di più temevo che lo vedesse Henry. Lo pregai dunque di restare
qualche minuto in fondo alle scale e mi precipitai di sopra, verso la mia
stanza. Avevo già la mano sulla maniglia della porta quando tornai in me. Mi
trattenni un momento e venni sopraffatto da un brivido gelato. Poi spalancai
la porta, con impeto, come fanno i bambini quando si aspettano di trovare
uno spettro dall’altra parte ad attenderli. Ma non apparve nulla. Mi introdussi
nella stanza, timoroso. L’appartamento era vuoto, e anche nella mia camera
da letto non v’era più traccia del suo ripugnante inquilino. Stentavo a credere
che mi fosse capitata una simile fortuna, ma una volta certo che il mio
nemico era effettivamente sparito, battei le mani per la gioia e corsi giù da
Clerval.
Salimmo su, nella mia stanza, e il maggiordomo di lì a poco ci servì la
colazione. Io però non riuscivo a contenermi. Non ero solo in preda alla
gioia; sentivo sulla pelle un formicolio che le dava un eccesso di sensibilità, e
il cuore mi batteva svelto. Non riuscivo a fermarmi un istante nello stesso
posto; saltavo da una sedia all’altra, battevo le mani e ridevo forte. All’inizio
Clerval attribuì la mia insolita esuberanza alla felicità per il suo arrivo, ma
quando ebbe modo di osservarmi più attentamente scorse un che di folle nel
mio sguardo di cui non sapeva capacitarsi; e la mia risata fragorosa,
incontrollata, agghiacciante lo sconcertava.
«Mio caro Victor» gridò, «in nome di Dio, dimmi, cosa c’è? Non ridere a
quel modo. Tu stai molto male! Da che dipende tutto questo?»
«Non chiedermelo!» gridai, coprendomi gli occhi con le mani perché mi
parve di vedere lo spaventoso spettro vagare per la stanza. «Potrà dirtelo lui.
Oh, salvami! Salvami!» gridavo, mentre mi dibattevo furiosamente
immaginando che il mostro mi avesse afferrato. E caddi a terra svenuto.
Povero Clerval! Che cosa avrà provato? La gioia di quell’incontro tanto
atteso s’era, in modo così strano, mutata in amarezza. Del suo dolore, però,
non fui testimone; avevo perso i sensi e mi rianimai solo dopo molto, molto
tempo.
Fu quello l’inizio di una febbre nervosa che mi tenne recluso per diversi
mesi, durante i quali Henry fu il mio unico badante. Appresi in seguito che, in
considerazione dell’età avanzata di mio padre e dell’inopportunità di fargli
affrontare un viaggio così lungo, e di quanto Elizabeth si sarebbe addolorata
per la mia malattia, gli risparmiò questo dolore celandogli l’entità del mio
disturbo. Sapeva che non avrei potuto ricevere cure più affettuose e attente
delle sue e, saldo nella speranza che nutriva per la mia guarigione, non dubitò
che quel gesto, lungi dal recare danno, sarebbe stato quello più premuroso nei
loro confronti.
Ma ero davvero molto malato, e di sicuro niente altro che le illimitate e
infaticabili attenzioni del mio amico avrebbe potuto riportarmi alla vita.
Avevo sempre davanti agli occhi le fattezze del mostro che avevo portato
all’esistenza e deliravo su di lui continuamente. Non v’è dubbio che le mie
parole sorpresero Henry, e inizialmente lui le considerò vaneggiamenti della
mia immaginazione sconvolta. Ma l’insistenza con cui tornavo sempre sopra
lo stesso argomento lo persuase che il mio disturbo dovesse la sua origine a
qualche evento insolito e terribile.
Per gradi molto lenti, e con frequenti ricadute che allarmavano e
addoloravano il mio amico, mi ristabilii. Ricordo la prima volta in cui riuscii
a osservare gli oggetti intorno a me con un qualche piacere, e mi accorsi che
le foglie morte erano scomparse e che sugli alberi che davano ombra alla mia
finestra spuntavano nuovi germogli. Era una divina primavera e la stagione
contribuì notevolmente alla mia convalescenza. Sentii rinascere nel petto
sentimenti di gioia e affetto, la mia oscura tristezza svanì e in poco tempo
divenni altrettanto gioviale di quanto lo ero prima di venire colpito da quella
passione fatale.
«Carissimo Clerval» esclamai, «quanto mi sei prezioso, quanto affetto mi
dai! Hai consumato tutto questo inverno al mio capezzale, al chiuso nella mia
stanza, invece di impiegarlo nello studio, come ti eri ripromesso. Come potrò
mai ripagarti di questo? Provo il più grande rimorso per la delusione di cui
sono stato la causa. Ma so che mi perdonerai».
«Sarò pienamente ripagato se, invece di agitarti, ti rimetterai più alla
svelta che puoi. E dal momento che mi sembri ben disposto, vorrei parlarti di
una cosa, posso?»
Tremai. Una cosa! E che poteva essere? Forse alludeva a quella cosa a cui
non osavo neanche pensare?
«Calmati» disse Clerval, che mi vide cambiare colore. «Non ne farò
parola, se ti agita così. Il punto è che tuo padre e tua cugina sarebbero tanto
felici di ricevere una lettera scritta di tuo pugno. Non sanno molto di quanto
sei stato male, e sono inquieti per il tuo lungo silenzio».
«Tutto qui? Mio caro Henry! Come potevi pensare che il mio primo
pensiero non sarebbe volato a quei cari, carissimi affetti che amo e che così
tanto meritano il mio amore».
«Se questo è adesso il tuo stato d’animo, amico mio, sarai forse lieto di
vedere una lettera che ti aspetta qui da qualche giorno. Credo sia da parte di
tua cugina».

1. Da La ballata del vecchio marinaio di S.T. Coleridge.


Capitolo quinto

E a questo punto Clerval pose la lettera nelle mie mani.

«A V. Frankenstein

«Mio caro cugino,


non so descriverti l’inquietudine che tutti noi abbiamo provato riguardo alla
tua salute. Non possiamo fare a meno di immaginare che il tuo amico Clerval
ci nasconda l’entità del tuo malessere. È infatti ormai da diversi mesi che sei
costretto a dettare le tue lettere a Henry e non ci è dato leggere niente di tuo
pugno. Non v’è dubbio, Victor, che devi essere stato estremamente malato, e
questo ci rende tutti molto tristi, quasi come dopo la morte di tua madre. Mio
zio era pressoché convinto che tu fossi in pericolo di vita ed è stato molto
difficile trattenerlo dall’intraprendere il viaggio per Ingolstadt. Clerval ci
scrive sempre che le tue condizioni stanno migliorando e spero ardentemente
che potrai presto confermare questa notizia di tua mano. Perché davvero,
davvero, Victor, al riguardo siamo tutti molto angosciati. Sollevaci da questo
timore e tutti noi saremo le creature più felici del mondo. La salute di tuo
padre è adesso così vigorosa da sembrare ringiovanito di dieci anni dallo
scorso inverno. Anche Ernest è tanto migliorato, lo riconosceresti a
malapena. Ha quasi sedici anni e ha perso quell’aspetto malaticcio di alcuni
anni fa; è venuto su molto robusto e vivace.
«Ieri sera io e lo zio abbiamo parlato a lungo di quale carriera dovrebbe
intraprendere Ernest. La sua perenne salute cagionevole da bambino lo ha
privato di una abituale applicazione allo studio e ora che gode di buona salute
sta sempre all’aria aperta, a scalare colline o remare sul lago. Per questo ho
proposto che divenisse un fattore; sai bene, cugino, che questo è uno dei miei
progetti preferiti. Quella del contadino è una vita molto salubre e la
professione meno nociva, anzi la più benefica di tutte. Lo zio aveva concepito
per lui un’istruzione da avvocato, così che grazie al suo interessamento possa
diventare giudice. Ma, al di là del fatto che non è per niente adatto a una
simile occupazione, è certamente più degno di stima coltivare la terra per il
sostegno dell’uomo che essere il confidente, e a volte il complice, dei suoi
vizi, cosa che la professione di avvocato comporta. Ho detto che gli impieghi
di un prospero contadino, se non più onorevoli, sono almeno un tipo di
occupazione più gioiosa di quella di un giudice, che ha la disgrazia di trovarsi
sempre invischiato con il lato oscuro della natura umana. Lo zio ha sorriso e
ha detto che l’avvocato sarei dovuta essere io, mettendo fine alla
conversazione sull’argomento.
«Ora devo raccontarti una breve storia che ti piacerà, e forse ti darà un po’
di svago. Rammenti Justine Moritz? Probabilmente no; quindi ti ricordo in
poche parole la sua vicenda. Madame Moritz, sua madre, era una vedova con
quattro figli, di cui Justine era la terza. Questa era sempre stata la favorita del
padre, mentre la madre, per una strana forma di perversità, non poteva
sopportarla e quando Monsieur Moritz morì, cominciò a trattarla molto male.
Mia zia se ne accorse e quando Justine compì dodici anni convinse sua madre
a darle il permesso di venire a vivere a casa nostra. Le istituzioni
repubblicane del nostro paese hanno generato delle modalità di
comportamento più semplici e felici di quelle che prevalgono nelle grandi
monarchie che lo circondano. Qui si fa meno distinzione tra le varie classi
sociali dei cittadini e non essendo quelle di ordine inferiore né tanto povere
né tanto disprezzate, le loro maniere sono più raffinate e virtuose. Essere un
servo a Ginevra non è come esserlo in Francia e in Inghilterra. Una volta che
Justine fu ricevuta nella nostra famiglia, apprese i doveri della serva che, nel
nostro fortunato paese, non la mettevano in una condizione che implicasse
ignoranza e sacrificio della dignità dell’essere umano.
«Dopo averti detto questo, oso pensare che ti sarai ricordato bene l’eroina
della mia breve storia, perché Justine ti piaceva molto; ricordo che una volta
osservasti che, se eri di cattivo umore, ti bastava uno sguardo di Justine per
dissiparlo, per lo stesso motivo che adduce Ariosto in merito alla bellezza di
Angelica: aveva un’aria così schietta e beata. Mia zia nutriva grande affetto
per lei e questo la spinse a farle avere una educazione superiore a quella che
aveva immaginato in un primo momento. Justine ripagò pienamente questo
beneficio con l’essere la più grata creaturina del mondo; non che lo
professasse a parole, non gliene ho mai sentita uscire una dalla bocca al
riguardo, ma le si leggeva negli occhi che lei provava qualcosa di simile
all’adorazione per la sua protettrice. Per quanto di disposizione allegra, e per
certi aspetti avventata, lei prestava la più grande attenzione a ogni gesto che
compisse la zia. La considerava un modello di eccellenza, e cercava di
imitare il suo modo di parlare e i suoi modi, tanto che ancora oggi spesso me
la ricorda.
«Quando la mia cara zia morì, ognuno di noi era così preso dal proprio
dolore che nessuno fece caso a Justine, che si era presa cura di lei durante la
malattia con l’affetto più premuroso. La povera Justine si era molto
ammalata; ma la attendevano altre prove.
«Uno dopo l’altro, morirono i suoi fratelli e sua sorella, e sua madre, a
eccezione di quella sua figlia trascurata, era rimasta senza prole. La coscienza
di quella donna ne fu turbata; cominciò a pensare che la morte dei suoi
preferiti fosse un castigo del cielo a giudizio della sua parzialità. Era una
cattolica romana e sono convinta che il suo confessore convalidò l’idea che
lei si era fatta. Conseguentemente, pochi mesi dopo la tua partenza per
Ingolstadt, Justine venne richiamata a casa dalla sua pentita madre. Povera
ragazza! Piangeva quando lasciò la nostra casa; era molto cambiata dalla
morte di mia zia; il dolore aveva conferito ai suoi modi, fino ad allora di una
spiccata vivacità, una dolcezza tenera e seducente. E i giorni trascorsi a casa
della madre non favorirono certo il recupero della sua gaiezza. Quella povera
donna vacillava sovente nel suo pentimento. A volte implorava Justine di
perdonare la sua scortesia, ma molto più spesso la incolpava di essere causa
della morte dei fratelli e della sorella. La perpetua afflizione consumò
Madame Moritz, e il suo declino innanzitutto accrebbe la sua irritabilità; ora
ha però raggiunto la pace eterna. Morì con l’arrivo del primo freddo,
all’inizio dello scorso inverno. Justine è tornata da noi e ti assicuro che io la
amo teneramente. È molto intelligente, gentile ed estremamente graziosa;
come dicevo prima, il suo contegno e le sue espressioni mi ricordano sempre
la zia.
«Devo anche rivolgerti, caro cugino, alcune parole sul caro piccolo
William. Vorrei che lo vedessi: è molto alto per la sua età, gli occhi azzurri,
dolci e ridenti, le ciglia scure e i capelli riccioluti. Quando sorride gli
vengono le fossette alle guance, che sono rosee di salute. Ha già avuto un
paio di piccole mogli, ma la sua preferita è Louisa Biron, una graziosa
bambina di cinque anni.
«E adesso, caro Victor, suppongo tu sia curioso di sapere un po’ di fatti
riguardanti la brava gente di Ginevra. La graziosa Miss Mansfield ha già
ricevuto le visite di felicitazioni per il suo imminente matrimonio con un
giovane inglese, John Melbourne, Esquire. La sua brutta sorella, Manon, si è
sposata con Monsieur Duvillard, il ricco banchiere, lo scorso autunno. Al tuo
compagno di scuola preferito, Louis Manoir, sono capitate varie sfortune da
quando Clerval è partito da Ginevra. Ma si è già ripreso e si dice che sia sul
punto di sposare una signora francese molto vivace e graziosa, Madame
Tavernier. È una vedova molto più grande di Manoir, ma è molto ammirata e
gradita da tutti.
«Per quanto mi riguarda, ti ho scritto con animo lieve, caro cugino, ma
non posso fare a meno di concludere rinnovando caldamente una richiesta di
notizie sulla tua salute. Caro Victor, se non sei troppo malato, scrivi di tuo
pugno, rendendo felici tuo padre e tutti noi. Altrimenti... non oso pensare
all’altra eventualità, già mi scorrono le lacrime dagli occhi. Adieu, mio
carissimo cugino

Elizabeth Lavenza
Ginevra, 18 marzo 17...»

«Cara, cara Elizabeth!» esclamai, dopo aver letto la lettera. «Le scriverò
immediatamente, per sollevare tutti loro dall’ansia che devono provare».
Scrissi, e lo sforzo mi affaticò alquanto. La mia convalescenza, tuttavia, era
cominciata e procedeva con regolarità. Nel giro di quindici giorni fui in grado
di uscire dalla mia camera.
Una volta ristabilitomi, tra i miei primi doveri v’era quello di presentare
Clerval ai vari professori dell’università. Nel farlo, mi sottoposi a un
trattamento d’urto che non fece bene alle ferite sopportate dal mio animo. Fin
da quella notte fatale che segnò la fine delle mie fatiche e l’inizio delle mie
disgrazie, avevo sviluppato una violenta antipatia perfino nei confronti del
termine filosofia naturale. Una volta guarito, poi, la sola vista di uno
strumento chimico bastava a rinnovare l’agonia del mio sistema nervoso.
Henry se ne era accorto e aveva sottratto al mio sguardo tutta la mia
apparecchiatura. Mi aveva anche fatto cambiare appartamento, perché aveva
percepito il mio crescente disagio per la stanza che era stata il mio
laboratorio. Ma tutte queste cure da parte di Clerval non servirono a nulla
quando andai a trovare i miei professori. Monsieur Waldman mi inflisse la
tortura di elogiare, con gentilezza e calore, gli straordinari progressi da me
compiuti nelle scienze. Si rese conto presto che l’argomento non mi piaceva
ma, non conoscendone le cause, attribuì il mio disagio alla modestia; quindi
cambiò argomento, passando dai miei progressi a quella scienza in sé, con
l’evidente desiderio di tirarmi fuori d’impaccio. Che potevo fare? Voleva
compiacermi, e mi tormentava. Per me era come se lui stesse disponendo
davanti a me, uno dopo l’altro, tutti quegli strumenti che a un certo punto
sarebbero serviti a condurmi a una morte lenta e crudele. Mi dimenavo sotto
le sue parole, sforzandomi di non mostrare quello che sentivo. Clerval, che
aveva uno sguardo e una sensibilità sempre pronti a discernere con chiarezza
le sensazioni provate dagli altri, lasciò cadere quell’argomento di
conversazione portando come scusa la sua totale ignoranza al riguardo, e la
conversazione prese una piega più generica. Ringraziai il mio amico dal
profondo del cuore, ma non dissi una parola. Vedevo bene che era sorpreso,
ma mai tentò di estorcere il mio segreto; io, per quanto lo amassi con un
misto di affetto e ammirazione che non aveva limiti, non potei mai
persuadermi di metterlo al corrente di quell’evento che così spesso riaffiorava
vivo nella mia memoria e che temevo mi avrebbe bruciato ancora di più se
condiviso nei dettagli con un altro.
Monsieur Krempe non fu altrettanto docile; e nelle mie attuali condizioni,
di una sensibilità quasi insostenibile, i suoi encomi bruschi e ruvidi mi
facevano soffrire molto più delle benevole congratulazioni di Monsieur
Waldman. «Dannato ragazzo!» diceva. «Che diamine, Monsieur Clerval, vi
assicuro che ci ha superati tutti. Sgrani pure gli occhi, sì, se vuole, ma è
proprio così. Un giovinastro che solo qualche anno fa prestava fede a
Cornelio Agrippa con la stessa fermezza che al Vangelo è diventato il
migliore dell’università, e se non lo tiriamo giù dal suo piedistallo, ci
perderemo la faccia. Ahi, ahi, proprio così» continuò, osservando la
sofferenza espressa dal mio volto. «Monsieur Frankenstein è modesto; qualità
eccellente in un giovane. I giovani dovrebbero diffidare di loro stessi, sapete,
Monsieur Clerval; io lo facevo da giovane, ma passa presto».
Monsieur Krempe a questo punto aveva cominciato a tessere un elogio di
se stesso, spostando la conversazione, per fortuna, su un argomento per me
meno gravoso.
Clerval non era un filosofo naturale. Aveva un’immaginazione troppo
vivida per le minuzie della scienza. Il suo campo di studio erano le lingue;
desiderava acquisirne i rudimenti per continuare a studiarle da solo una volta
tornato a Ginevra. Dopo essere giunto a padroneggiare perfettamente il greco
e il latino, ora la sua attenzione era attratta dal persiano, l’arabo e l’ebraico.
In quanto a me, l’ozio non mi era mai piaciuto e adesso, tanto più che
desideravo distrarmi dai miei pensieri, e odiavo i miei studi passati, provai
grande sollievo nel farmi compagno di corso del mio amico, trovando non
solo istruzione ma anche consolazione nelle opere degli orientali. La loro
malinconia è balsamica e la loro gioia eleva l’animo a un grado di cui non
avevo mai fatto esperienza studiando gli autori di alcun altro paese. Leggendo
i loro scritti, la vita sembra consistere di un sole caldo e un giardino di rose,
dei sorrisi e dell’aggrottar di ciglia di una bella nemica e della fiamma che
arde nel proprio cuore. Che differenza dalla poesia maschia ed eroica della
Grecia e di Roma.
L’estate passò in queste occupazioni e il mio ritorno a Ginevra venne
fissato per la fine dell’autunno. Dovendo però rimandarlo a causa di alcuni
contrattempi, arrivarono inverno e neve, le strade vennero dichiarate
invalicabili e il mio viaggio fu posticipato alla primavera successiva. Per
questo rinvio provai molta amarezza, perché morivo dalla voglia di rivedere
la mia città natale e miei cari tanto amati. Il mio ritorno era stato rimandato
così a lungo per la riluttanza ad abbandonare Clerval in un luogo straniero
prima che avesse fatto amicizia con qualcuno dei suoi abitanti. Tuttavia
l’inverno passò in allegria e, per quanto molto tarda, la primavera, quando
arrivò, fu di una bellezza che ci compensò della sua riluttanza.
Maggio era già cominciato e da un giorno all’altro aspettavo la lettera che
avrebbe fissato la data della mia partenza, quando Henry propose di fare un
giro a piedi per i dintorni di Ingolstadt, affinché io potessi dare un personale
addio al paese in cui avevo abitato così a lungo. Aderii con piacere a questa
proposta: avevo voglia di fare esercizio fisico e Clerval era sempre stato il
mio compagno preferito nelle escursioni di questo tipo che facevamo nel
paesaggio del mio paese natio.
Passammo due settimane a fare queste camminate; la mia salute e il mio
spirito, che da tempo si erano ristabiliti, ricevettero nuove forze dalla salubre
aria che respiravo, dalle occasioni che ci offriva il nostro procedere nella
natura e dalle conversazioni con il mio amico. Fino ad allora lo studio mi
aveva precluso la relazione con i miei simili, rendendomi un essere asociale;
Clerval risvegliò nel mio cuore i sentimenti più belli, insegnandomi ancora
una volta ad amare gli aspetti della natura e i volti allegri dei bambini. Che
amico eccellente! Con quanta sincerità mi amavi e ti impegnavi a elevare il
mio spirito, fino a portarlo a un livello pari al tuo. Io mi ero inaridito nella
morsa di una ricerca egoista, finché la tua gentilezza e il tuo affetto non
riscaldarono i miei sensi, riattivandoli, e tornai a essere quella stessa creatura
felice che pochi anni prima, piena d’amore per tutti e da tutti riamata, non
aveva dolori o preoccupazioni. Quando ero felice, la natura inanimata aveva
il potere di offrirmi le sensazioni più deliziose. Un cielo sereno e dei campi
verdeggianti mi colmavano di estasi. E quella stagione, davvero, era divina; i
fiori primaverili sbocciavano fra le siepi mentre quelli estivi erano già in
boccio; non ero turbato dai pensieri che nell’anno trascorso mi avevano
oppresso con un peso invincibile, nonostante tutti i miei tentativi di scacciarli.
Henry si rallegrava della mia letizia e partecipava del mio sentire con
sincerità: si prodigava nello svagarmi, esprimendo le sensazioni che gli
empivano l’anima. Le risorse della sua mente, in quella occasione, furono
sbalorditive; la sua conversazione era ricca d’immaginazione, e molto spesso,
a imitazione degli scrittori persiani o arabi, si inventava meravigliosi racconti
pieni di fantasia e passione. Altre volte recitava le mie poesie preferite o mi
trascinava in discussioni che sosteneva con grande ingegno.
Tornammo ai nostri alloggi universitari una domenica pomeriggio; i
contadini danzavano, e tutti quelli che incontravamo avevano un’aria felice e
contenta. Io stesso ero di ottimo umore e saltellavo di gioia e allegria
incontenibili.
Capitolo sesto

Al mio rientro, trovai la seguente lettera di mio padre:

«A V. Frankenstein

«Mio caro Victor,


avrai probabilmente atteso impaziente una lettera che stabilisse la data del tuo
ritorno qui da noi, e dapprima sono stato tentato di scrivere solo poche righe
che ti comunicassero giusto il giorno in cui ti aspettavo. Ma sarebbe
un’accortezza ben crudele, e non me la permetto. Quale sarebbe la tua
sorpresa, figlio mio, quando aspettandoti un benvenuto lieto e felice trovassi
invece lacrime e tristezza? E ora, Victor, riuscirò a riferirti della nostra
disgrazia? La lontananza non può averti reso insensibile alle nostre gioie e ai
nostri dolori; ma come posso infliggere un tale dolore a un figlio assente?
Vorrei predisporti al doloroso annuncio, ma so che è impossibile; so che i
tuoi occhi già scorrono giù per la pagina in cerca delle parole che ti daranno
l’orribile notizia.
«William è morto! Quel dolce fanciullo, il cui sorriso mi deliziava e
riscaldava il cuore, così gentile e così lieto! Victor, è stato ucciso!
«Non cercherò di consolarti; ti riferirò soltanto le circostanze di quanto è
avvenuto.
«Giovedì scorso (il 7 maggio) siamo andati – io, mia nipote e i tuoi due
fratelli – a fare una passeggiata a Plainpalais. La sera era calda e serena e
abbiamo protratto la nostra passeggiata più in là del solito. Era già
l’imbrunire quando pensammo di tornare indietro e ci accorgemmo di aver
perso di vista William ed Ernest, che si erano spinti avanti. Dunque
decidemmo di sederci a riposare finché fossero tornati. Di lì a poco arrivò
Ernest, chiedendoci se avevamo visto il fratello. Ci disse che stavano
giocando insieme e che William era scappato a nascondersi e lui lo aveva
cercato invano e poi aspettato per tantissimo tempo, ma il fratello non era
tornato.
«Questa storia ci allarmò alquanto e continuammo a cercarlo fino al
cadere della notte, quando Elizabeth ipotizzò che fosse potuto tornare a casa.
Ma a casa non c’era. Tornammo indietro, allora, con delle torce; io non
riuscivo a trovare pace al pensiero che il mio povero dolce ragazzo si fosse
perso e fosse esposto all’umidità e alla brina notturna; anche Elizabeth era in
preda a una intensa angoscia. Erano circa le cinque del mattino quando lo
trovai, il mio adorabile ragazzo, che la sera prima avevo visto scoppiare di
energia e di salute, steso a terra livido e immobile, con impresso sul collo il
marchio delle dita del suo assassino.
«Venne portato a casa, e l’angustia che il mio volto mostrava tradì il mio
segreto a Elizabeth. Volle vedere il cadavere a ogni costo. Dapprima tentai di
impedirglielo, ma lei insistette e, una volta entrata nella stanza dove lui
giaceva, dopo una rapida occhiata al collo della vittima, a mani giunte
esclamò: “Oddio! Ho ucciso il mio bimbo diletto!”
«Svenne, e rianimarla fu estremamente difficile. Quando si riprese, fu
solo per piangere e sospirare. Mi disse che quello stesso pomeriggio William
aveva tanto insistito con lei affinché gli permettesse di indossare come
ciondolo una preziosa miniatura di tua madre che lei possedeva. Questo
ritratto è sparito e non v’è dubbio che abbia costituito la tentazione che ha
spinto all’atto l’omicida. Di costui al momento non abbiamo tracce,
nonostante i nostri mai cessati sforzi di trovarlo che, in ogni caso, non ci
restituiranno mai il mio amato William.
«Vieni, carissimo Victor, solo tu puoi consolare Elizabeth. Piange
continuamente e ingiustamente si accusa di essere lei la causa della sua
morte; le sue parole mi trafiggono il cuore. Siamo tutti infelici, e questo,
figlio mio, non è per te un’ulteriore buona ragione per tornare e darci
conforto? La tua cara madre! Ahimè, Victor! Mi dico adesso: grazie a Dio
non è vissuta fino al punto di dover assistere alla miserevole e crudele morte
del suo tesoro più piccolo!
«Vieni, Victor. Non covando pensieri di vendetta contro l’assassino, ma
con sentimenti di pace e gentilezza che cureranno, invece di inasprire, le
ferite delle nostre anime. Entra nella casa del lutto, amico mio, ma con la
cortesia e l’affetto per coloro che ti amano e non con l’odio per i tuoi nemici.
«Il tuo afflitto e affezionato padre
Alphonse Frankenstein
Ginevra, 12 maggio 17**»

Clerval, che aveva seguito attentamente la mia espressione mentre leggevo


questa lettera, si stupì nel vedere succedere la disperazione alla gioia iniziale
di ricevere notizie dei miei cari. Gettai la lettera sul tavolo e mi coprii il viso
con le mani.
«Mio caro Frankenstein» esclamò Henry, quando si accorse che piangevo
amaramente, «sei destinato a essere sempre infelice? Mio caro amico, che
cosa è accaduto?»
Gli feci cenno di prendere la lettera, mentre andavo avanti e indietro per
la stanza nella più estrema agitazione. Le lacrime sgorgarono anche dagli
occhi di Clerval, quando lesse il racconto della mia disgrazia.
«Amico mio, non v’è consolazione che io possa darti» disse, «la tua
sciagura è irreparabile. Cosa pensi di fare?»
«Andare subito a Ginevra. Accompagnami a ordinare i cavalli, Henry».
Durante il cammino Clerval si industriò per darmi conforto. Non lo fece
con la consueta retorica della consolazione, ma mostrandomi la più sincera
partecipazione. «Povero William!» disse. «Quel caro ragazzo ora riposa
accanto a quell’angelo di sua madre. I suoi cari lo piangono e ne portano il
lutto, ma lui riposa; non sente più la stretta del suo assassino; la terra ricopre
la sua gentile figura e lui non prova alcun dolore. Non può più offrirsi a
oggetto di meritata pietà; chi soffre di più sono coloro che gli sopravvivono, e
per loro l’unica consolazione è nel tempo. Non vale ricorrere alle massime
degli stoici, secondo le quali la morte non era un male, e la mente dell’uomo
dev’essere superiore alla disperazione per l’eterna assenza d’un oggetto
amato. Persino Catone pianse sul cadavere di suo fratello».
Questo diceva Clerval mentre ci affrettavamo per le strade; le sue parole
si impressero nella mia mente e le ricordai, in seguito, in solitudine. Ma per il
momento, appena arrivarono i cavalli, mi lanciai nel calesse e dissi addio al
mio amico.
Il mio viaggio fu molto triste. All’inizio desideravo far presto, perché
sentivo forte il bisogno di rincuorare i miei cari e condividere il loro dolore
standogli vicino; ma avvicinandomi alla mia città natale, rallentai la marcia.
Riuscivo a malapena a sostenere la moltitudine di sentimenti che si affollava
nel mio animo. Ripercorsi quei luoghi che in gioventù mi erano stati
familiari, ma che non vedevo da quasi sei anni. Quanto doveva essere
cambiata ogni cosa durante quel tempo? Un evento aveva determinato un
cambiamento improvviso e desolante, ma forse mille piccole circostanze
avevano prodotto gradualmente altre alterazioni che, anche se verificatesi con
più tranquillità, potevano ben essere decisive. Fui sopraffatto dalla paura; non
osavo andare avanti, nel terrore di mille altri mali senza nome che, per quanto
non riuscissi a definirli, mi facevano tremare.
Mi fermai due giorni a Losanna in questo doloroso stato d’animo.
Contemplai il lago; le acque erano placide, intorno era tutto calmo e le
montagne innevate, i “palazzi della natura”, non erano cambiate.
Gradualmente la calma e il paesaggio paradisiaco mi diedero forza, e ripresi
il mio viaggio verso Ginevra.
La strada correva lungo il lago, e si faceva più stretta avvicinandoci alla
mia città natale. Scorsi più distintamente i fianchi scuri del Giura e la cima
splendente del Monte Bianco. Piansi come un bambino: «Care montagne!
Mio bellissimo lago! Come date il benvenuto al vostro pellegrino? Le vostre
cime sono sgombre, il cielo e il lago azzurri e placidi. Mi annunciano pace o
si prendono gioco della mia infelicità?»
Temo, amico mio, di diventare noioso nel dilungarmi su queste
circostanze preliminari, ma quelli furono giorni di relativa letizia, e li ricordo
con piacere. Il mio paese, il mio amato paese! Solo uno che vi è nato può
capire il diletto che provai nel rivedere i tuoi torrenti, le tue montagne e,
soprattutto, il tuo incantevole lago.
Poi, avvicinandomi a casa, il dolore e la paura presero di nuovo il
sopravvento. Oltretutto si stava facendo notte e nel perdere di vista le scure
sagome delle montagne il mio umore si fece ancora più cupo. Quel paesaggio
adesso mi appariva come lo scenario, vasto e buio, del male ed ebbi l’oscuro
presagio di essere destinato a diventare il più disgraziato degli esseri umani.
Ahimè! La mia profezia era giusta, solo in una cosa mi sbagliai: che in tutta
la miseria che mi immaginai e temetti, non concepii nemmeno la centesima
parte dell’angoscia che ero destinato a sopportare.
S’era ormai fatto completamente buio quando arrivai nei pressi di
Ginevra e le porte della città erano già chiuse. Fui quindi costretto a passare
la notte a Secheron, un villaggio a mezza lega di distanza, a est della città. Il
cielo era sereno e poiché non riuscivo a dormire decisi di andare sul luogo
dove era stato ucciso il mio povero William. Non potendo passare per la città,
fui costretto ad attraversare il lago in barca per arrivare a Plainpalais. Nel
corso di questo breve tragitto vidi i lampi sulla cima del Monte Bianco creare
meravigliose figure. Il temporale sembrava avvicinarsi rapidamente, e giunto
a riva salii su una collinetta per seguirne meglio lo sviluppo. Avanzava; il
cielo era nuvoloso e presto sentii la pioggia cadere lenta a gocce grosse, fino
a che la sua violenza crebbe rapidamente.
Lasciai la mia postazione e mi misi a camminare, nonostante il buio e il
temporale aumentassero a ogni minuto, e i tuoni scoppiassero con un terribile
fragore sulla mia testa. Riecheggiavano tra il Salève, il Giura e le Alpi della
Savoia; vividi lampi di luce mi abbagliavano gli occhi, illuminando il lago e
facendolo apparire come un’ampia lastra di fuoco; poi per un istante ogni
cosa sembrò avvolta dal buio più pesto, finché l’occhio non recuperò le sue
funzioni dopo gli abbagli subiti. Il temporale, come succede spesso in
Svizzera, si mostrava contemporaneamente in diverse parti del cielo. Il grumo
più violento incombeva esattamente a nord della città, su quella parte del lago
che va dal promontorio di Belrive al villaggio di Copét. Un altro temporale
illuminava il Giura con lampi più fievoli; un altro ancora oscurava e a tratti
rivelava la Mole, un’aguzza montagna sul lato est del lago.
Mentre guardavo il temporale, tanto bello quanto terrificante, continuavo
a camminare con passo frettoloso. Questa nobile guerra nei cieli innalzò il
mio spirito; giunsi le mani ed esclamai a gran voce: «William, angelo mio,
questo è il tuo funerale, questo è il tuo canto funebre!» E mentre pronunciavo
queste parole, percepii nell’oscurità una figura che sgattaiolava dietro un
gruppo di alberi vicino a me. Restai immobile, fissandola attentamente: non
mi potevo sbagliare. Il bagliore di un lampo illuminò quella cosa e mi mostrò
chiaramente le sue forme: la gigantesca statura, la deformità dell’aspetto, più
ripugnante di ciò che pertiene all’umano, mi comunicarono all’istante che si
trattava di quell’abominio, di quello sconcio demone a cui avevo dato la vita.
Che ci faceva lì? Poteva essere lui (rabbrividii all’idea) l’assassino di mio
fratello? Ma bastò che quell’idea mi balenasse in mente per convincermi
subito della sua verità; cominciai a battere i denti e fui costretto a poggiarmi a
un albero per tenermi in piedi. La figura mi passò molto rapidamente davanti,
e la persi di vista nell’oscurità. Nessuna forma umana avrebbe potuto
sopprimere quel delizioso bambino. Era lui l’assassino! Non potevo
dubitarne. Il semplice fatto di averlo pensato ne era una inconfutabile prova.
Pensai di inseguire quel demonio, ma capii che sarebbe stato inutile quando
un nuovo lampo me lo rivelò che si arrampicava tra le rocce della parete
quasi perpendicolare del Monte Salève, un’altura al confine sud di
Plainpalais. Raggiunse presto la cima e scomparve.
Restai immobile. I tuoni cessarono, ma la pioggia cadeva ancora e tutta la
scena era avvolta da un buio impenetrabile. Nel mio cervello si agitavano
tutti quegli eventi che fino ad allora avevo cercato di dimenticare: tutto lo
sviluppo del mio percorso verso la creazione; l’apparizione dell’opera, fatta
dalle mie stesse mani, viva accanto al mio letto; la sua fuga. Erano ormai
passati quasi due anni dalla notte in cui aveva ricevuto la vita: questo era
stato il suo primo crimine? Ahimè! Avevo liberato per il mondo un abominio
depravato che godeva di carneficine e dolore; non aveva forse ucciso mio
fratello?
Nessuno può immaginare l’angoscia che provai durante il resto di quella
notte, che trascorsi, infreddolito e bagnato, all’aria aperta. Ma il disagio di
quel clima io non lo sentivo; la mia immaginazione era troppo indaffarata con
visioni di malefici e disperazione. Pensai che quell’essere che avevo gettato
in mezzo agli uomini, e dotato della volontà e del potere di adempiere a
orrendi propositi, come quello compiuto da poco, fosse l’emblema del
vampiro di me stesso, il fantasma del mio essere che, uscito dalla tomba, non
potesse far altro che distruggere tutto ciò che mi era caro.
Albeggiò. Diressi i miei passi verso la città. Le porte erano aperte e mi
affrettai a raggiungere la casa di mio padre. Il mio primo impulso fu quello di
rivelare quanto sapevo dell’assassino e attivare immediate ricerche. Ma mi
bloccai al pensiero della storia che avrei dovuto raccontare. Avevo incontrato
a mezzanotte, tra i precipizi di una montagna inaccessibile, un essere a cui io
stesso avevo dato forma e a cui avevo infuso la vita. Mi tornò in mente anche
la febbre nervosa che mi aveva colto ai tempi della mia creazione, che
avrebbe contribuito a dare parvenza di delirio a una storia già di per sé del
tutto improbabile. Sapevo bene che se qualcun altro mi avesse fatto una
comunicazione del genere, l’avrei presa per le farneticazioni di uno squilibrio
mentale. E oltretutto, la straordinaria natura di quella bestia avrebbe eluso
qualunque inseguimento, ammesso che mi fosse stato dato tanto credito da
convincere i miei parenti a intraprenderlo. E inoltre, a che sarebbe valso un
inseguimento? Chi avrebbe potuto fermare una creatura capace di scalare le
pendici scoscese del Monte Salève? Queste riflessioni mi portarono alla
decisione di non dire niente.
Erano circa le cinque del mattino quando entrai nella casa di mio padre.
Dissi alla servitù di non disturbare la famiglia e andai nella biblioteca ad
aspettare l’ora in cui si sarebbero alzati come d’abitudine.
Erano trascorsi sei anni, passati come un sogno se non fosse stato per
un’unica traccia indelebile, e io mi trovavo lì, proprio dov’ero quando avevo
abbracciato l’ultima volta mio padre prima della mia partenza per Ingolstadt.
Amato e venerabile genitore! Lui c’era ancora, per me. Posai lo sguardo sul
ritratto di mia madre, sopra il caminetto. Era il dipinto, realizzato per
desiderio di mio padre, d’un fatto realmente accaduto: Caroline Beaufort,
devastata dalla disperazione, era in ginocchio accanto al feretro di suo padre.
L’abbigliamento era povero, e le sue gote pallide, ma aveva un’aria di dignità
e bellezza che a stento dava luogo a un sentimento di pietà. Al di sotto, v’era
una miniatura di William, e quando la vidi mi sgorgarono le lacrime. Così mi
trovò Ernest, quando entrò; mi aveva sentito arrivare ed era corso a darmi il
benvenuto. Nel vedermi mostrò una dolorosa gioia: «Benvenuto, carissimo
Victor» disse. «Ah! Vorrei che tu fossi arrivato tre mesi fa, quando ci avresti
trovati tutti allegri e contenti. Ora invece siamo infelici e temo che ad
accoglierti saranno le lacrime piuttosto che i sorrisi. Nostro padre ha un’aria
così dolente; questo orribile evento sembra aver riacceso nel suo animo il
dolore per la morte della nostra mamma. Anche la povera Elizabeth è del
tutto inconsolabile». E nel dire queste parole, Ernest cominciò a piangere.
«Non darmi il benvenuto in questo modo» dissi, «prova a restare più
calmo, affinché io non provi soltanto sconforto nel momento in cui entro
nella casa di mio padre dopo una assenza così lunga. Dimmi, piuttosto, come
riesce mio padre a sopportare le sue disgrazie? E come ci riesce la mia povera
Elizabeth?»
«Lei ha veramente bisogno di essere consolata; si è accusata di aver
provocato la morte di mio fratello, e questo l’ha resa davvero infelice. Ma da
quando è stato scoperto l’assassino...»
«Scoperto l’assassino? Buon Dio! Com’è possibile? Chi ha potuto tentare
di inseguirlo? È impossibile, sarebbe come gareggiare con i venti e
sorpassarli, o con una pagliuzza creare una diga in un ruscello di montagna».
«Non capisco cosa vuoi dire; di certo quando hanno scoperto che era stata
lei ne siamo stati tutti molto infelici. Nessuno ci credeva all’inizio; persino
adesso Elizabeth non ne è convinta, nonostante tutte le prove. E, in effetti, chi
potrebbe credere che Justine Moritz, che era così amabile e affezionata a tutta
la famiglia, potesse tutt’a un tratto diventare così malvagia?»
«Justine Moritz! Povera, povera ragazza; è lei che accusano? Ma non è
giusto, lo sanno tutti, non ci crede nessuno, vero, Ernest?»
«All’inizio nessuno, ma sono emerse poi diverse circostanze che ci hanno
quasi imposto di crederci; e il suo stesso comportamento è stato così confuso
da aggiungere un certo peso alla prova dei fatti che, temo, non lascia spazio al
beneficio del dubbio. Comunque, sarà processata oggi, e sentirai tutto da te».
Mi raccontò che, il mattino in cui venne scoperto l’omicidio del povero
William, Justine cadde ammalata e fu messa a letto; dopo qualche giorno, una
domestica, trovandosi a frugare nell’abito che lei indossava la sera
dell’omicidio, scoprì in una tasca il ritratto di nostra madre, che si riteneva
essere l’oggetto che aveva tentato l’omicida. La domestica lo fece subito
vedere a un’altra che, senza farne parola ad alcuno della famiglia, andò da un
magistrato; così, in base a quella testimonianza, Justine venne arrestata.
Accusata del fatto, la poveretta alimentò in larga misura i sospetti con il suo
comportamento estremamente confuso.
La storia era ben strana, ma non scosse la mia fede; così, con
convinzione, replicai: «Vi state sbagliando tutti. Io so chi è l’assassino.
Justine, la povera, buona Justine, è innocente».
In quell’istante entrò mio padre. Vidi impressa sul suo volto una profonda
infelicità, ma si sforzò di darmi un lieto benvenuto. Scambiateci le
condoglianze, lui era pronto a portare la conversazione su un argomento
diverso da quello della nostra sciagura, quando Ernest esclamò: «Buon Dio,
papà! Victor dice di sapere chi è l’assassino del povero William!»
«Purtroppo lo sappiamo anche noi» replicò mio padre, «perché avrei
senz’altro preferito non saperlo mai, piuttosto che scoprire tanta depravazione
e ingratitudine in qualcuno che stimavo tanto».
«Mio caro padre, vi sbagliate, Justine è innocente».
«Se lo è, Dio non voglia che venga punita come colpevole. Verrà
processata oggi e spero, sinceramente spero, che venga assolta».
Questo discorso mi acquietò. In cuor mio ero fermamente convinto che
Justine, e a dire il vero qualunque essere umano, fosse innocente di questo
omicidio. Quindi non temevo che si potesse produrre qualsivoglia prova
circostanziale tanto irrefutabile da poterla condannare. Con questa
convinzione mi calmai, nell’impaziente attesa del processo ma senza temere
un infausto risultato.
Di lì a poco ci raggiunse Elizabeth. Il tempo aveva prodotto in lei grandi
cambiamenti dall’ultima volta che l’avevo vista. Sei anni prima era una
graziosa ragazza di buon umore, da tutti amata e coccolata. Adesso era una
donna, nella statura e nell’espressione del volto, che la rendeva
particolarmente attraente. La fronte aperta e ampia rivelava una bella
intelligenza, accompagnata da una forte inclinazione alla franchezza. Gli
occhi nocciola esprimevano una mitezza a cui ora si mescolava l’infelicità
delle recenti afflizioni. I capelli erano di un bel castano scuro, la pelle chiara,
la figura sottile e aggraziata. Mi diede il benvenuto con grandissimo affetto.
«Il tuo arrivo, caro cugino» disse, «mi riempie di speranza. Forse tu riuscirai
a trovare il modo di scagionare la mia povera e innocente Justine. Ahimè!
Chi al mondo potrà mai salvarsi, se viene condannata proprio lei? Sono certa
della sua innocenza quanto lo sono della mia. La nostra disgrazia è due volte
gravosa; non solo abbiamo perso quel ragazzo così caro, ma un fato ancor
peggiore sta per strapparci questa povera ragazza, che io sinceramente amo.
Se venisse condannata, non conoscerò mai più la gioia. Ma non sarà così,
sono sicura che non lo sarà; e io sarò nuovamente felice, anche dopo la triste
morte del mio piccolo William».
«Lei è innocente, mia cara Elizabeth» dissi, «e questo verrà provato. Non
avere paura e lascia che il tuo animo venga rinfrancato dalla certezza della
sua assoluzione».
«Come sei caro! Tutti gli altri la ritengono colpevole, e questo mi ha resa
tristissima. Perché io sapevo che era impossibile, e vedere tutti gli altri
giudicarla in modo così inesorabile mi ha sconfortato e tolto ogni speranza».
E scoppiò a piangere.
«Dolce nipote» disse mio padre, «asciuga le tue lacrime. Se lei è
innocente, come tu credi, confida nell’obiettività dei nostri giudici e nella mia
premura a impedire la pur minima ombra di parzialità».
Capitolo settimo

Le ore passarono tristi fino alle undici, quando doveva iniziare il processo.
Mio padre e il resto della famiglia erano obbligati a presenziare come
testimoni, dunque li accompagnai in tribunale. Per tutto il corso di quella
penosa parodia di un processo di giustizia, patii una vera tortura. Si decideva
se il risultato della mia curiosità e della mia illecita invenzione fosse stato la
causa della morte di due miei simili: un bimbo sorridente, pieno di gioia e
innocenza, e una giovane donna uccisa in modo ancora più tremendo, con
tutte le aggravanti di infamia che avrebbero reso quel delitto memorabile per
il suo orrore. Anche Justine era una ragazza meritevole, dotata di qualità che
promettevano di darle una vita felice; ora tutto ciò stava per essere sepolto in
una tomba d’infamia, e io ne ero la causa! Avrei preferito mille volte
confessare di essere il colpevole del crimine ascritto a Justine, ma ero altrove
quando era stato commesso e una simile dichiarazione sarebbe stata presa
come il delirio di un pazzo, senza discolpare colei che soffriva per causa mia.
Justine aveva un’aria calma. Portava il lutto e il suo volto, sempre
attraente, era reso squisitamente bello dalla solennità dei suoi sentimenti.
Sembrava fare pieno affidamento sulla sua innocenza e senza tremore
sosteneva quei mille sguardi che la mettevano all’indice, poiché tutta la
benevolenza che la sua bellezza avrebbe potuto altrimenti provocare era stata
soppiantata, nelle menti del pubblico presente, dalle immagini prodotte al
pensiero dell’atrocità che si supponeva avesse commesso. Era tranquilla, ma
era evidente che se lo imponeva; poiché la sua agitazione era
precedentemente stata considerata una prova della sua colpevolezza, si sforzò
di mostrarsi coraggiosa. Quando entrò nell’aula cercò subito con gli occhi
intorno a sé e rapidamente individuò dove eravamo seduti. Una lacrima
sembrò offuscare i suoi occhi quando ci vide, ma si riprese subito e uno
sguardo di doloroso affetto sembrò attestare la sua completa innocenza.
L’udienza ebbe inizio; il magistrato formulò l’accusa e poi vennero
ascoltati diversi testimoni. Delle curiose circostanze si mettevano contro di
lei, tali da far vacillare chiunque non avesse, come me, l’inconfutabile prova
della sua innocenza. Aveva passato fuori tutta la notte in cui era stato
commesso l’omicidio e verso il mattino una donna del mercato l’aveva scorta
in un luogo non distante da quello in cui venne in seguito trovato il corpo del
ragazzo ucciso. La donna le aveva chiesto cosa ci facesse lì e lei, con un’aria
molto strana, aveva risposto in modo confuso e incomprensibile. Era tornata a
casa intorno alle otto e alla richiesta di dove fosse stata tutta la notte, aveva
risposto di essere andata a cercare il bambino e ansiosamente aveva chiesto se
si fosse saputo qualcosa di lui. Quando le era stato mostrato il corpo aveva
avuto una violenta crisi isterica ed era poi rimasta a letto per diversi giorni. A
quel punto venne mostrata in aula l’immagine che la domestica aveva trovato
nella sua tasca; quando Elizabeth, con voce tremula, dichiarò che si trattava
della stessa che aveva messo al collo del bambino un’ora prima che lui
sparisse, l’aula venne percorsa da un mormorio di orrore e indignazione.
Justine venne chiamata a difendersi. Il suo volto aveva cambiato
espressione nel corso del processo. Ora trasmetteva in modo vivido sorpresa,
orrore e angoscia. A tratti si sforzava di trattenere le lacrime, ma quando le
venne chiesto di perorare la sua causa, raccolse le forze e parlò con voce
sempre udibile, anche se tremula.
«Dio sa» disse «quanto io sia del tutto innocente. Ma non pretendo che sia
la mia dichiarazione a scagionarmi. Affido la dimostrazione della mia
innocenza a una pura e semplice spiegazione dei fatti che sono stati addotti
contro di me, e spero che grazie alla condotta che ho sempre tenuto i giudici
saranno propensi a interpretare favorevolmente quelle circostanze che
potessero apparire dubbie o sospette».
Quindi raccontò che, con il permesso di Elizabeth, aveva trascorso la sera
della notte in cui era stato commesso il delitto a casa di una zia a Chêne, un
villaggio situato a circa una lega da Ginevra. Al suo ritorno, intorno alle
nove, aveva incontrato un uomo che le aveva chiesto se avesse qualche
notizia del bambino smarrito. Si era allarmata al riguardo e aveva trascorso
diverse ore a cercarlo, e quando le porte di Ginevra erano ormai chiuse era
stata costretta a passare buona parte della notte nel fienile di un casolare, non
volendo svegliare i suoi abitanti, che la conoscevano bene. Non riuscendo a
trovare pace né tantomeno a dormire, lasciò il suo rifugio molto presto per
cimentarsi di nuovo nel tentativo di trovare mio fratello. Se era giunta in
prossimità del luogo dove il suo corpo giaceva, questo era avvenuto senza
che lei se ne rendesse conto. Non v’era da sorprendersi che fosse sconvolta
quando la donna del mercato l’aveva interrogata, dato che aveva trascorso
una notte insonne e ancora incerto era il destino del povero William. Per
quanto riguardava il ritratto, non era in grado di dare spiegazioni.
«So bene» continuò l’infelice vittima «quanto questa circostanza pesi
fatalmente contro di me, ma non è in mio potere chiarirla e, una volta
espressa la mia totale ignoranza, non mi resta nient’altro che ipotizzare la
probabilità che mi sia stato messo in tasca. Ma anche su questo sono
perplessa. Credo di non avere alcun nemico su questa terra, e sicuramente
nessuno può essere stato così malvagio da volermi rovinare senza ragione. Ce
l’ha messa l’assassino? Non sono a conoscenza di nessuna occasione che gli
sia stata offerta per farlo; ma anche se l’avessi, perché rubare il gioiello se
doveva sbarazzarsene così presto?
«Mi rimetto al senso di giustizia dei giudici, anche se non riesco a dare
luogo alla speranza. Mi permetto di chiedere che vengano ascoltate delle
testimonianze sul mio carattere, e se queste deposizioni non avranno un peso
maggiore della mia presunta colpa, dovrò essere condannata, anche se potrei
confidare nella salvezza data la mia innocenza».
Vennero interpellati diversi testimoni che la conoscevano da tanti anni e
che dicevano bene di lei, ma la paura e l’odio verso un crimine di cui la
supponevano colpevole, li rese timorosi e indisponibili a farsi avanti. Quando
Elizabeth vide che anche quest’ultima risorsa, vale a dire il suo eccellente
carattere e la sua condotta irreprensibile, stava per venire meno all’accusata,
chiese il permesso di rivolgersi alla corte, nonostante fosse estremamente
scossa.
«Io sono» disse «la cugina dell’infelice ragazzo ucciso, o piuttosto sua
sorella, dal momento che sono stata cresciuta ed educata dai suoi genitori da
molto prima che lui nascesse. Potrebbe essere dunque ritenuto inappropriato
che io mi faccia avanti in questa occasione. Ma poiché un mio simile è sul
punto di perire per la vigliaccheria dei suoi presunti amici, desidero che mi
sia permesso di parlare per dire ciò che so del suo carattere. Conosco molto
bene l’accusata. Ho vissuto nella stessa casa con lei una prima volta per
cinque anni e una seconda per quasi due. In tutto quel periodo mi è apparsa
come la più amabile e benevola delle creature umane. Ha assistito Madame
Frankenstein, mia zia, durante il corso della sua ultima malattia, con il più
grande affetto e la più grande premura; dopodiché si è occupata della propria
madre, per tutto il tempo di una penosa malattia, in un modo che ha destato
l’ammirazione di tutti coloro che la conoscevano. Quindi è tornata a vivere
nella casa di mio zio, dove era amata da tutta la famiglia. Era molto legata al
bambino che ora è morto, e si comportava con lui come la madre più
affettuosa. Per quanto mi riguarda, non esito ad affermare che, nonostante
tutte le prove portate contro di lei, credo e confido nella sua perfetta
innocenza. Non aveva motivo di compiere una simile azione; quel ciondolo
che costituisce il principale capo d’accusa, se lo avesse davvero desiderato,
glielo avrei regalato volentieri, talmente la stimo e la apprezzo».
Eccellente Elizabeth! Si udì un mormorio di approvazione, suscitato però
dalla generosità del suo intervento e non a favore della povera Justine, sulla
quale anzi l’indignazione pubblica si riversò con una violenza rinnovata
dall’accusa di estrema ingratitudine. Lei stessa pianse, mentre Elizabeth
parlava, ma non rispose. Per tutto il processo la mia agitazione e la mia
angoscia furono estreme. Ero convinto della sua innocenza; lo sapevo. Poteva
quello stesso demone che aveva ucciso mio fratello (e di questo non dubitai
un istante), nel suo gioco infernale, avere esposto un’innocente alla morte e
all’ignominia? Non riuscii a sostenere l’orrore della mia situazione e quando
capii che la voce del popolo e il contegno dei giudici avevano già condannato
la mia infelice vittima, corsi fuori dall’aula in preda al tormento. Le
sofferenze inflitte all’accusata non eguagliavano le mie; lei era sostenuta
dalla sua innocenza, io sentivo i denti del rimorso squarciarmi il petto e non
mollare la presa.
Passai una notte di assoluta afflizione. Al mattino mi recai in tribunale,
con le labbra e la gola secche. Non osavo porre la fatale domanda; ma mi
riconobbero e l’ufficiale intuì il motivo della mia visita. Le biglie erano state
gettate: erano tutte nere e Justine era stata condannata.
Non posso nemmeno tentare di descrivere quello che sentii. Avevo già
sperimentato in precedenza sensazioni di orrore; e ho tentato di trovargli
adeguata espressione. Ma le parole non possono dare un’idea della
disperazione che il mio cuore patì in quel momento. La persona a cui mi ero
rivolto aggiunse che Justine aveva già confessato la sua colpa. «In un caso
così lampante» osservò, «di una simile dichiarazione non c’era quasi bisogno,
ma ne sono soddisfatto. E d’altra parte è vero che a nessuno dei nostri giudici
piace condannare un criminale solo in base a prove circostanziali, pur così
determinanti».
Quando tornai a casa, Elizabeth mi domandò il responso con apprensione.
«Cugina mia» risposi, «la decisione è quella che potevi aspettarti.
Qualsiasi giudice preferirebbe far soffrire dieci innocenti piuttosto che un
colpevole la faccia franca. E oltretutto, lei ha confessato».
Questo fu un terribile colpo per Elizabeth, che aveva fermamente contato
sull’innocenza di Justine. «Ahimè» disse, «come potrò mai più credere nella
benevolenza umana? Come ha potuto Justine, che amavo e consideravo come
una sorella, fare mostra di quei sorrisi di innocenza al solo fine di tradire? I
suoi occhi mansueti la mostravano incapace di qualunque asprezza o cattiva
intenzione, e invece ha commesso un omicidio».
Di lì a poco ci fu riferito che la povera vittima aveva espresso il desiderio
di vedere mia cugina. Mio padre non voleva che lei andasse, ma disse che
lasciava la decisione al suo giudizio e ai suoi sentimenti. «Sì» disse
Elizabeth, «andrò, anche se è colpevole; e tu, Victor, mi accompagnerai. Non
posso andare da sola». L’idea di quella visita era per me una tortura, ma non
potevo rifiutare.
Entrammo nell’oscura cella della prigione e trovammo Justine seduta su
un pagliericcio proprio in fondo, con le catene ai polsi e la testa posata sulle
ginocchia. Nel vederci entrare si alzò e quando restammo soli con lei si gettò
ai piedi di Elizabeth, piangendo amaramente. Anche mia cugina si mise a
piangere.
«Oh, Justine!» disse. «Perché mi hai derubata della mia ultima
consolazione? Ero certa della tua innocenza; e per quanto fossi già molto
triste, non ero tanto infelice quanto lo sono adesso».
«Credete anche voi che io sia così tanto, così tanto malvagia? Vi unite al
coro dei miei nemici nell’annientarmi?» La sua voce era soffocata dai
singhiozzi.
«Alzati, mia povera ragazza» disse Elizabeth, «perché ti inginocchi, se sei
innocente? Io non sono uno dei tuoi nemici. Ti ho creduta senza colpa,
nonostante tutte le prove, finché non ho saputo che tu stessa ti eri dichiarata
colpevole. Ora dici che quel che ci è stato detto è falso; e stai certa, cara
Justine, che nulla può far vacillare la mia fiducia in te anche per un solo
istante, se non la tua confessione».
«Ho confessato; ma ho confessato una bugia. Ho confessato per ottenere
l’assoluzione. E invece adesso quella menzogna pesa sul mio cuore più di
tutti gli altri miei peccati. Il Dio del Cielo mi perdoni! Da quando sono stata
condannata, il mio confessore mi ha dato l’assedio: mi ha spaventata e
minacciata, al punto che ho iniziato io stessa a credere di essere il mostro che
lui diceva io fossi. Mi ha prospettato la scomunica e le fiamme dell’inferno
nei miei ultimi momenti di vita, se continuavo nella mia ostinazione. Mia
cara signora, non avevo nessuno a sostenermi; mi guardavano tutti come una
disgraziata destinata all’ignominia e alla perdizione. Cosa potevo fare? In
un’ora funesta ho sottoscritto una menzogna, e solo adesso sono davvero
miserabile».
Fece una pausa, piangendo, poi riprese: «Ho pensato con orrore, mia
dolce signora, che voi poteste credere che la vostra Justine, che aveva
ricevuto tanto onore dalla vostra zia benedetta, e che voi amavate, fosse una
creatura capace di un crimine che solo il diavolo in persona poteva
perpetrare. Caro William! Carissimo, benedetto bambino! Ti rivedrò presto in
paradiso, dove saremo tutti lieti; questo mi consola, mentre mi accingo a
patire la morte e l’ignominia».
«Oh, Justine! Perdomani se anche solo per un momento ho perso la mia
fiducia in te. Perché hai confessato? Ma non ti affliggere, mia cara ragazza. Io
proclamerò ovunque la tua innocenza e imporrò che vi si creda. Eppure, devi
morire. Tu, la mia compagna di giochi, la mia amica, la mia più che sorella.
Non potrò mai sopravvivere a una disgrazia così orribile».
«Cara, dolce Elizabeth, non piangete. Dovreste invitarmi a innalzare i
miei pensieri verso una vita migliore e ad affrancarmi dalle misere
occupazioni di questo mondo di ingiustizia e dissidio. Non siate voi, egregia
amica, a portarmi alla disperazione».
«Cercherò di darti conforto, anche se temo che questo sia un male troppo
profondo e intenso per ammettere consolazione, perché non v’è speranza. E
tuttavia che il Cielo ti benedica, mia carissima Justine, con la rassegnazione e
una fiducia che si innalzi al di là di questo mondo terreno. Oh! Quanto
detesto le sue pompe e le sue farse! Una creatura viene assassinata e subito
un’altra viene privata della vita per mezzo di una lenta tortura; dopodiché i
carnefici, con le mani ancora fumanti di sangue innocente, sono convinti di
avere compiuto un grande gesto. E lo chiamano giusto castigo. Che odiosa
espressione! Quando viene pronunciata, so che verranno inflitte punizioni più
grandi e più orribili di quelle che abbia mai escogitato il più funesto tiranno
per saziare la sua estrema sete di vendetta. Ma questa non è, mia cara Justine,
una consolazione per te, a meno che in effetti tu non possa gloriarti di
sfuggire da un così deplorevole covo. Ahimè! Come vorrei trovare la pace
accanto a mia zia e al mio caro William, libera da un mondo che mi è odioso
e dalle facce di uomini che aborro».
Justine accennò un languido sorriso. «Questa è disperazione, mia cara
signora, non rassegnazione. Non apprenderò la lezione che volete insegnarmi.
Parlate di qualcos’altro, qualcosa che rechi pace, non che accresca il dolore».
Nel corso della conversazione io mi ero rifugiato in un angolo della cella
per nascondere l’orribile angoscia che mi possedeva. Disperazione! Chi
osava parlarne? La povera vittima, che al mattino avrebbe valicato il triste
confine tra la vita e la morte, non provava ciò che io provavo, un’agonia così
profonda e amara. Digrignavo i denti in una morsa serrata, emettendo un
gemito che proveniva dal più profondo della mia anima. Justine ebbe un
soprassalto. Quando si accorse di chi si trattava, si avvicinò e mi disse: «Caro
signore, siete molto gentile a farmi visita; spero che voi non crediate che io
sia colpevole».
Non potevo rispondere. «No, Justine» disse Elizabeth, «lui è ancora più
convinto della tua innocenza di quanto lo fossi io; persino quando gli è stato
detto che avevi confessato, non l’ha creduto».
«Lo ringrazio di cuore. In questi ultimi momenti provo la più sincera
gratitudine per chi ha buoni pensieri per me. Com’è dolce l’affetto altrui per
una sventurata come me! Mi allevia più della metà del peso della mia
disgrazia e mi sembra di poter morire in pace ora che voi, cara signora, e
vostro cugino, riconoscete la mia innocenza».
Così quella povera vittima cercava di confortare gli altri e se stessa. E in
effetti conquistò la rassegnazione che desiderava. Io, invece, il vero
assassino, sentivo agitarsi nel petto quel tarlo vivo e immarcescibile che non
concedeva nessuna speranza o consolazione. Anche Elizabeth piangeva ed
era infelice; ma anche la sua era la tristezza di un’innocente che, come
quando una nuvola passa davanti alla splendida luna, per un momento la
nasconde ma non può offuscarne lo splendore. L’angoscia e la disperazione
erano penetrate al centro del mio cuore; mi portavo dentro un inferno che
niente avrebbe potuto estinguere. Restammo diverse ore con Justine; e fu
molto penoso per Elizabeth strapparsi da lei. «Vorrei» esclamò «poter morire
con te; non riuscirò più a vivere in questo mondo di dolore!»
Justine assunse un’aria lieta, mentre si sforzava di trattenere lacrime
amare. Abbracciò Elizabeth e disse, con la voce rotta da emozioni solo a metà
soffocate: «Addio, dolce signora, carissima Elizabeth, mia amata e unica
amica; che il cielo misericordioso vi benedica e vi preservi; possa questa
essere l’ultima digrazia che mai abbiate a patire. Vivete, siate felice e rendete
tali gli altri».
Mentre tornavamo a casa, Elizabeth disse: «Non puoi sapere, caro Victor,
quanto sollievo mi dia credere nuovamente all’innocenza di questa sfortunata
ragazza. Non avrei più trovato pace se mi fossi ingannata nel darle fiducia.
Quel momento in cui l’ho creduta colpevole, ho provato un’angoscia che non
avrei potuto sostenere a lungo. Ora il mio cuore è più leggero.
Quell’innocente soffre, ma colei che ho ritenuto amabile e buona non ha
tradito la fiducia che avevo posto in lei, e questo mi consola».
Amabile cugina! Questi erano i tuoi pensieri, pacati e gentili quanto i tuoi
cari occhi e la tua voce. Ma io... io ero un miserabile, e nessuno ha mai
saputo del tormento che provai allora.

FINE DEL VOLUME PRIMO


Volume secondo
Capitolo primo

Non v’è nulla di più doloroso per l’animo umano di quella calma mortale che
segue alla grande agitazione di sensazioni e sentimenti provocata da una
rapida successione di eventi, quel misto di impotenza e rassegnazione che si
produce quando al cuore mancano sia la speranza che il timore. Justine era
morta. Lei riposava, e io vivevo. Il sangue circolava libero nelle mie vene, ma
sul mio cuore pesavano disperazione e rimorso, un peso che nulla poteva
alleviare. Il sonno rifuggiva dai miei occhi e girovagavo come uno spirito
maligno, perché avevo commesso malefici così orribili da non potersi dire e
ancora molto, molto (ne ero convinto) era a venire. Eppure il mio cuore
traboccava di bontà e amore per la virtù. Avevo iniziato la mia vita con
intenzioni benevole, assetato di un’occasione per metterle in pratica,
rendendomi utile ai miei simili. Adesso era andato tutto in fumo: al posto di
una coscienza serena, che permetta di guardare al passato soddisfatti di sé, e
da lì trarre promesse di nuove speranze, ero in pugno al rimorso e al senso di
colpa e venivo scaraventato in un inferno di intense torture che nessuna
lingua potrebbe descrivere.
Questo stato d’animo mi divorava la salute, che si era totalmente
ristabilita dalla prima violenta emozione che aveva sostenuto. Evitavo lo
sguardo degli uomini; qualunque espressione di gioia o di soddisfazione era
per me una tortura; la mia unica consolazione era la solitudine, una solitudine
profonda, buia, simile alla morte.
Mio padre notò, soffrendone, le percettibili alterazioni del mio carattere e
delle mie abitudini, e si sforzò di farmi ragionare sull’insensatezza di
abbandonarsi a un dolore così smodato. «Non credi, Victor» mi disse, «che io
soffra quanto te? Nessuno potrebbe amare un bambino quanto io amavo tuo
fratello» e mentre parlava aveva le lacrime agli occhi, «ma non è forse
compito di chi sopravvive astenersi dall’accrescere l’altrui infelicità facendo
mostra di un dolore smodato? È un dovere che hai anche verso te stesso: un
eccesso di cordoglio ostacola ogni miglioramento, ogni possibile gioia,
impedisce persino lo svolgimento di quelle mansioni quotidiane senza le
quali nessun essere umano è utile alla società».
Questo era un buon consiglio, ma del tutto inadatto al mio caso; sarei
stato il primo a celare il dolore e consolare i miei cari, ma ogni mio
sentimento era avvelenato dal rimorso. Ora potevo soltanto rispondere a mio
padre con uno sguardo disperato e cercare di sottrarmi al suo.
All’incirca in quel periodo ci ritirammo nella nostra casa di Belrive. Il
cambiamento mi fu particolarmente gradito. La puntuale chiusura delle porte
alle dieci, e la conseguente impossibilità di rimanere sul lago oltre quell’ora,
aveva reso la nostra residenza entro le mura di Ginevra molto seccante per
me. Qui invece ero libero. Spesso, quando il resto della famiglia era andato a
dormire, prendevo la barca e trascorrevo molte ore sull’acqua. Talvolta, a
vele spiegate, mi facevo portare dal vento; altre volte, dopo aver remato fino
al centro del lago, lasciavo la barca alla deriva e davo libero corso ai miei
tristi pensieri. Ero tentato spesso, quando tutto intorno a me era pace, e io
l’unico elemento inquieto in una scena così bella e celestiale, a parte qualche
pipistrello, o delle rane di cui udivo il roco e intermittente gracidio solo
avvicinandomi alla riva, spesso, ripeto, ero tentato di gettarmi in quel lago
silenzioso, affinché le acque si richiudessero per sempre sopra di me e le mie
calamità. Mi tratteneva il pensiero di Elizabeth, eroica e sofferente, che
amavo teneramente e la cui esistenza era legata alla mia. Pensavo anche a
mio padre e al mio fratello sopravvissuto: avrei potuto disertare così vilmente
e lasciarli esposti e indifesi alla cattiveria del nemico che avevo scatenato in
mezzo a loro?
In quei momenti piangevo amare lacrime e desideravo che la pace
tornasse nel mio animo solo per poter offrire loro consolazione e felicità. Ma
questo non era possibile. Il rimorso uccideva ogni speranza. Ero l’autore di
mali irreversibili e vivevo nella quotidiana paura che il mostro da me creato
potesse perpetrare qualche nuova malvagità. Avevo l’oscura sensazione che
non fosse finita lì, e che avrebbe commesso ancora un crimine che con la sua
enormità avrebbe quasi cancellato il ricordo del precedente. V’era sempre
luogo per la paura fino a che al mondo restava qualcuno che fosse oggetto del
mio amore. La mia ripugnanza per questo nemico non si può concepire.
Quando pensavo a lui, digrignavo i denti, i miei occhi si infiammavano e
desideravo ardentemente far cessare quella vita che così sconsideratamente
avevo donato. Quando pensavo ai suoi crimini e alla sua cattiveria, il mio
odio e il mio desiderio di vendetta facevano saltare i limiti imposti dalla
moderazione. Sarei andato in pellegrinaggio fin sulla più alta cima delle
Ande, se da lassù avessi potuto scaraventarlo a valle. Volevo incontrarlo di
nuovo per sfogare sul suo capo tutta la mia infinita rabbia e vendicare le
morti di William e Justine.
La nostra casa era a lutto. La salute di mio padre era stata messa a dura
prova dagli ultimi eventi. Elizabeth era triste e abbattuta, non traeva più alcun
piacere dalle sue occupazioni quotidiane, perché ogni piacere le sembrava un
sacrilegio contro i morti e riteneva che il giusto tributo da offrire
all’innocenza stroncata e distrutta fossero dolore e lacrime perenni. Non era
più la creatura felice che nella prima giovinezza passeggiava con me sulle
rive del lago, parlando estatica dei nostri progetti per il futuro. Si era fatta
austera e i suoi discorsi vertevano spesso sulla incostanza della fortuna e
l’instabilità della vita umana.
«Quando rifletto, caro cugino» diceva «sulla miserabile morte di Justine
Moritz, il mondo e le sue opere non mi appaiono più come un tempo. Allora
per me quei racconti di malvagità e ingiustizia che leggevo nei libri o
ascoltavo da altre persone mi sembravano storie di altri tempi, o mali
immaginari. O quantomeno li sentivo distanti, più familiari alla ragione che
all’immaginazione; ora invece l’infelicità ci è entrata in casa, e gli uomini mi
appaiono dei mostri, ciascuno assetato del sangue dell’altro. Anche se so di
essere ingiusta. Tutti credevano colpevole quella povera ragazza; e se così
fosse stato, se lei fosse stata capace di commettere il crimine per cui ha
pagato, non v’è dubbio che sarebbe stata la più depravata delle creature
umane. Uccidere, per un piccolo gioiello, il figlio di un amico, nonché il
proprio benefattore, un ragazzo che lei stessa aveva allevato dalla nascita e
che sembrava amare come fosse suo! Io non darei il mio consenso alla morte
di nessun essere umano, ma certamente una creatura simile non la riterrei
degna di restare nella società degli uomini. Lei però era innocente. Lo so, lo
sento che era innocente; tu sei della stessa opinione e questo rafforza la mia.
Ahimè! Victor, quando il falso è così simile al vero, chi mai potrà contare su
una felicità stabile? Mi sembra di camminare sull’orlo di un precipizio verso
il quale si radunano migliaia di persone che vogliono gettarmi nell’abisso.
William e Justine vengono uccisi e l’assassino scappa; cammina libero per il
mondo, magari rispettato. E tuttavia, se avessi commesso quei crimini, non
vorrei essere al posto di quello scellerato. Preferirei venire condannata al
patibolo».
Il suo discorso provocò in me un’estrema angoscia. Ero io, non nei fatti
ma negli effetti, il vero assassino. Elizabeth si accorse del tormento sul mio
volto e prendendomi gentilmente la mano disse: «Carissimo cugino, devi
calmarti. Questi eventi hanno avuto su di me un effetto che solo Dio sa
quanto è profondo. Ma non sono tanto a pezzi quanto te. V’è sul tuo volto
un’espressione disperata, a volte vendicativa, che mi fa tremare. Resta calmo,
mio caro Victor; darei la mia vita per la tua pace. Saremo senz’altro felici: se
ce ne staremo tranquilli nel nostro paese natale, senza disperderci nel mondo,
cosa potrà disturbare la nostra quiete?»
Le lacrime che scendevano dai suoi occhi, mentre diceva queste parole,
tradivano il sollievo che lei voleva comunicare; ma sorrideva, anche, come
per scacciare il nemico che stava in agguato nel mio cuore. Mio padre, che
vedeva nella tristezza dipinta sul mio volto solo un’esagerazione del dolore
che naturalmente mi era dato sentire, pensò che una qualche distrazione
adatta ai miei gusti sarebbe stata il mezzo migliore per riportarmi alla mia
abituale serenità. Per questo si era trasferito in campagna e, spinto dalle stesse
motivazioni, ci propose ora di fare una gita nella valle di Chamonix. Io v’ero
già stato, ma Elizabeth ed Ernest mai; entrambi avevano espresso un grande
desiderio di vedere il paesaggio di quei luoghi, che gli era stato decritto come
meraviglioso e sublime. Ci mettemmo così in viaggio da Ginevra intorno alla
metà del mese di agosto, circa due mesi dopo la morte di Justine.
Il clima era particolarmente bello, e se il mio fosse stato un dolore che
poteva essere fugato da una qualche circostanza passeggera, questa gita
avrebbe senz’altro ottenuto l’effetto desiderato da mio padre. Per come
stavano le cose, provai un certo interesse nel paesaggio, che a tratti leniva il
mio dolore, ma non poteva estinguerlo. Il primo giorno viaggiammo in
carrozza. Al mattino avevamo visto in lontananza le montagne verso le quali
stavamo gradualmente avanzando. Ci accorgemmo che la valle che stavamo
risalendo, formata dal fiume Arve di cui seguivamo il corso, si richiudeva
gradualmente su di noi. E quando il sole fu tramontato, vedemmo montagne
immense e precipizi incombere su di noi da ogni lato e udimmo il rumore del
fiume che si infrangeva contro le rocce e il fragore delle cascate tutt’intorno.
Il giorno seguente continuammo il nostro viaggio a dorso di mulo e
mentre salivamo la valle assunse un aspetto ancora più magnifico e
stupefacente. I castelli in rovina si affacciavano sui precipizi di monti coperti
dai pini; l’impetuoso Arve e i casolari che facevano capolino qua e là tra gli
alberi formavano una scena di singolare bellezza, resa più intensa e sublime
dalle possenti Alpi, coi loro picchi e i loro dossi scintillanti che torreggiavano
su tutto, come se fossero di un altro mondo, abitato da un’altra razza.
Valicammo il ponte di Pelissier, da cui vedemmo spalancarsi la gola
formata dal fiume, e cominciammo a salire la montagna sovrastante. Poco
dopo entrammo nella valle di Chamonix, più conturbante e sublime di quella
del Servox, che avevamo appena attraversato, ma non altrettanto bella e
pittoresca. I monti alti e innevati sono i suoi immediati confini, ma non
vedemmo più castelli in rovina e campi fertili. Sul percorso si affacciavano
immensi ghiacciai; udimmo il tonante fragore di una valanga e notammo la
scia che sollevava al suo passaggio. Il Monte Bianco, il supremo e magnifico
Monte Bianco, si ergeva dalle aiguilles circostanti e la sua formidabile dome
dominava la valle.
Durante questo tratto di viaggio, ogni tanto mi affiancavo a Elizabeth e mi
adoperavo a intrattenerla indicandole le varie bellezze del paesaggio. Più
spesso trattenevo il mio mulo indietro, e mi abbandonavo all’angoscia delle
mie riflessioni. Altre volte spronavo la bestia a sorpassare i miei compagni
per dimenticare: loro, il mondo e, soprattutto, me stesso. Quando ero ormai
lontano, smontavo e mi lasciavo cadere sull’erba, accasciandomi per il dolore
e la disperazione. Arrivai a Chamonix alle otto di sera. Mio padre ed
Elizabeth erano molto stanchi; Ernest, che ci accompagnava, era tutto eccitato
e contento; l’unica cosa che smorzasse il suo piacere era il vento del sud che
prometteva pioggia per il giorno seguente.
Ci ritirammo presto nelle nostre camere, anche se non per dormire; o
perlomeno, io non dormii. Restai parecchie ore alla finestra a guardare lo
spettacolo dei deboli lampi sopra il Monte Bianco e ad ascoltare il rapido
fluire dell’Arve che scorreva sotto la mia finestra.
Capitolo secondo

Contrariamente alle previsioni delle nostre guide, il giorno seguente il tempo


fu bello, anche se nuvoloso. Visitammo le sorgenti dell’Arveiron, e
cavalcammo per la valle fino a sera. Quegli scenari sublimi e magnifici mi
offrirono tutta la consolazione che ero in grado di accogliere. Mi sollevarono
dall’angustia dei miei sentimenti e anche se non portarono via il mio dolore
lo attenuarono e lo placarono. E in qualche misura distolsero la mia mente da
quei pensieri che aveva covato per tutto il mese precedente. Tornai a sera,
stanco ma meno infelice, e conversai con la mia famiglia con più buonumore
di quanto era stata mia abitudine negli ultimi tempi. Mio padre se ne
compiacque, Elizabeth esultò. «Mio caro cugino» disse, «guarda quanta
felicità diffondi quando sei felice; non avere altre ricadute!»
Il mattino seguente cadeva una pioggia torrenziale e una fitta nebbia
copriva le cime delle montagne. Mi alzai presto, ma mi sentivo più
malinconico del solito. La pioggia mi deprimeva; riaffiorò il mio vecchio
stato d’animo e mi sentivo affranto. Sapevo della delusione che avrebbe
provato mio padre nell’osservare questo improvviso cambiamento in me, e
desideravo evitare di incontrarlo finché non mi fossi tirato un po’ su da
riuscire a nascondere quei sentimenti che mi sopraffacevano. Sapevo che i
miei famigliari quel giorno sarebbero rimasti alla locanda ed essendomi reso
avvezzo a sopportare pioggia, vento e umidità, decisi di andare da solo in
cima al Montanvert. Ricordavo l’effetto che la visione di quell’immane
ghiacciaio, in perpetuo movimento, aveva avuto su di me la prima volta che
l’avevo visto. Mi aveva allora colmato di un’estasi sublime che aveva dato ali
alla mia anima e le aveva permesso di librarsi dall’oscurità a un mondo di
luce e gioia. La vista di ciò che è tremendo e maestoso in natura aveva
sempre, in effetti, risvegliato nel mio spirito un senso di solennità,
provocando l’oblio delle preoccupazioni passeggere della vita. Decisi di
andare senza guida: conoscevo bene il percorso e la presenza di un altro
avrebbe rovinato la maestosa solitudine del luogo.
La salita è molto ripida ma il sentiero si articola in continue e brevi curve
che permettono di affrontare la perpendicolarità della montagna. È una scena
di potente desolazione. In migliaia di punti si possono scorgere tracce delle
valanghe invernali, là dove gli alberi sono spezzati e i loro brandelli sparsi sul
terreno, alcuni interamente distrutti, altri piegati e appoggiati alle rocce
sporgenti della montagna, o di traverso ad altri alberi. Salendo più in alto, il
sentiero è interrotto da burroni di neve, giù per i quali, da sopra, rotolano
pietre; uno di questi è particolarmente pericoloso, perché anche il minimo
rumore, anche parlare ad alta voce, produce uno scossone d’aria sufficiente a
riversare distruzione sulla testa di chi parla. I pini non sono alti o folti, ma
scuri, a dare un altro tocco di severità al paesaggio. Guardai la valle
sottostante; dai fiumi che la attraversavano si levavano vasti banchi di foschia
che avvolgevano in dense spire le montagne dalla parte opposta, con le vette
coperte da nubi uniformi, mentre la pioggia si riversava dal cielo plumbeo,
aumentando l’effetto malinconico che mi facevano gli oggetti intorno a me.
Ahimè! A che pro gli uomini si vantano di una sensibilità superiore a quella
che si vede nelle bestie brute? Li rende solo più bisognosi. Se i nostri impulsi
si limitassero alla fame, alla sete e al desiderio, saremmo quasi liberi; ma
ormai siamo scossi da ogni soffio di vento, da una parola detta a caso o dalle
scene che quella parola può evocare.
Noi riposiamo, e un sogno ha la potenza di avvelenarci il sonno.
Ci alziamo, e un pensiero che passa può inquinare il giorno.
Sentiamo, concepiamo o ragioniamo, ridiamo o piangiamo,
abbracciamo il dolore o scacciamo gli affanni:
è tutto uguale! Che sia gioia o dolore,
è aperta la strada della sua dipartita:
lo ieri dell’uomo non può mai essere come il suo domani;
non v’è niente che duri, tranne la mutevolezza.

Era quasi mezzogiorno quando giunsi in cima alla salita. Per un po’ restai
seduto sulla roccia che si affaccia sul mare di ghiaccio. Era coperto di nebbia,
come le montagne circostanti. Ma di lì a poco una brezza dissipò le nubi e io
scesi sul ghiacciaio. La superficie è molto irregolare, ora si alza come le onde
di un mare agitato, ora si abbassa ed è incisa da crepe che scendono profonde.
Il campo di ghiaccio ha un’ampiezza di circa una lega, ma impiegai quasi due
ore a traversarlo. La montagna all’altra sponda è una roccia nuda a
strapiombo. Dal lato in cui mi trovavo adesso, Montanvert era all’esatto
opposto, e a una lega di distanza. Al di sopra si ergeva, in tutta la sua
spaventosa maestà, il Monte Bianco. Mi fermai in un anfratto di roccia ad
ammirare questo paesaggio meraviglioso e stupendo. Il mare, o meglio
l’ampio fiume di ghiaccio, si dipanava tra le montagne del massiccio, le cui
aeree cime incombevano su tutti i suoi recessi. Le vette ghiacciate e
scintillanti riflettevano la luce del sole, al di sopra della coltre di nubi. Il mio
cuore, fino ad allora dolente, ora si gonfiò di qualcosa di simile alla gioia, ed
esclamai: «Spiriti erranti, se è vero che vagate, invece di riposare nei vostri
angusti letti, concedetemi questa tenue felicità, o altrimenti portatemi con voi,
vostro compagno, lontano dalle gioie della vita!»
Appena pronunciate queste parole, scorsi improvvisamente la figura di un
uomo, a qualche distanza, che avanzava verso di me con una velocità
sovrumana. Saltava sui crepacci del ghiacciaio sui quali io mi ero mosso con
tanta cautela; e più si avvicinava più la sua statura mi appariva abnorme
rispetto a quella di un uomo. Mi sentii male, mi si annebbiarono gli occhi e
stavo per svenire, ma mi ripresi subito grazie al vento freddo delle montagne.
Mentre quella forma si avvicinava, percepii (visione tremenda e aborrita!)
che si trattava dello scellerato che io avevo creato. Rabbrividii di rabbia e di
orrore, scegliendo di attendere il suo arrivo per ingaggiare poi con lui una
lotta mortale. Si avvicinava; il suo volto esprimeva un’angoscia pungente
mista a sdegno e cattiveria, mentre la sua bruttezza ultraterrena lo rendeva
quasi troppo orribile per occhi umani. Ma ci feci caso appena; la rabbia e
l’odio in un primo momento mi ammutolirono, e la facoltà di parola mi tornò
solo per ricoprirlo di espressioni di furiosa avversione e disprezzo.
«Demonio!» esclamai. «Come osi avvicinarti a me? Non temi che la
feroce vendetta del mio braccio si abbatta sopra il tuo miserabile capo?
Vattene, insetto schifoso! Oppure resta, che ti riduco in polvere! Oh, se solo
potessi, ponendo fine alla tua miserabile esistenza, riportare alla vita le
vittime che tu hai ucciso così diabolicamente!»
«Mi aspettavo questa accoglienza» disse il demone. «L’umanità odia gli
sciagurati. Quanto sarò odiato io, dunque, la più miserabile delle cose
viventi! Persino tu, che sei il mio creatore, detesti e sdegni me, la tua
creatura, alla quale sei unito da vincoli che potranno sciogliersi solo
eliminando uno di noi due. Ti riprometti di uccidermi. Come ti permetti di
giocare così con la vita? Adempi ai tuoi doveri verso di me e io adempirò ai
miei verso di te e il resto dell’umanità. Se accetterai le mie condizioni, vi
lascerò tutti in pace, gli altri uomini e te. Ma se rifiuti, saturerò le fauci della
morte finché il suo stomaco verrà saziato con il sangue dei tuoi amici
rimasti».
«Mostro aborrito! Sei un demone, nient’altro! Le torture dell’inferno sono
una vendetta troppo blanda per i tuoi crimini. Diavolo scellerato! Tu mi
rimproveri di averti creato. Fatti avanti, allora: spegnerò la scintilla che ti ho
così avventatamente donato».
La mia rabbia era sconfinata; mi lanciai contro di lui, con tutti i
sentimenti che possono armare un essere contro l’esistenza di un altro.
Mi schivò facilmente, e disse: «Stai calmo! Ti imploro di ascoltarmi,
prima di dare sfogo al tuo odio sul mio capo! Non ho sofferto abbastanza?
Perché cerchi di aumentare la mia miseria? La vita mi è cara, per quanto forse
non sia nient’altro che un accumulo di afflizioni, e la difenderò. Ricorda: mi
hai creato più forte di te. Di te sono più alto, le mie giunture sono più agili.
Ma non sarò tentato a mettermi contro di te. Sono la tua creatura, sarò perfino
mite e docile con il mio naturale signore e sovrano, se anche tu farai la tua
parte, e questo me lo devi. Oh, Frankenstein, non puoi essere equo con tutti e
calpestare solo me, con cui non solo devi, più che con gli altri, essere giusto
ma anche clemente e affezionato. Ricorda che sono la tua creatura; dovrei
essere il tuo Adamo e invece sono l’angelo caduto che, per nessuna sua colpa,
tu hai strappato dalla gioia. Vedo beatitudine dovunque, e solo io ne sono
irrevocabilmente escluso. Ero pacifico e buono; il dolore mi ha reso
diabolico. Rendimi felice, e io sarò di nuovo virtuoso».
«Vattene! Non voglio ascoltarti. Non ci può essere alcun patto fra noi;
siamo nemici. Vattene, oppure mettiamo alla prova la nostra forza in una lotta
nella quale uno di noi dovrà soccombere».
«Come posso commuoverti? Nessuna preghiera ti porterà a volgere uno
sguardo favorevole sulla tua creatura che implora bontà e compassione?
Credimi, Frankenstein, io ero buono, la mia anima ardeva d’amore e umanità,
ma non vedi quanto sono solo, miserabilmente solo? Tu stesso, il mio
creatore, mi ripudi; che speranza posso trovare nei tuoi simili, che non mi
devono nulla? Mi sdegnano, mi odiano. Il mio rifugio sono le montagne
deserte e i tristi ghiacciai. In questi luoghi ho vagato molti giorni; la mia
dimora sono le caverne di ghiaccio, che solamente io non temo e che l’uomo
non mi contende. Rendo grazie a questi cieli cupi che sono più gentili dei tuoi
simili con me. Se l’umana moltitudine sapesse della mia esistenza, farebbe
come te e si armerebbe per la mia distruzione. Non dovrei dunque odiare chi
mi aborre? Non scenderò a patti con i miei nemici. Sono miserabile e loro
dovranno spartire la mia sciagura. Eppure è in tuo potere ricompensarmi, e
liberarli da un male che solo tu puoi rendere così esteso da risucchiare nel
vortice della sua rabbia non soltanto la tua famiglia ma migliaia di altri.
Muoviti a compassione, non mi disdegnare. Ascolta la mia storia; e dopo
averla ascoltata, giudica tu se merito abbandono o commiserazione da parte
tua. Ma ascoltami. La legge degli uomini permette a tutti i colpevoli, anche ai
più sanguinari, di parlare in loro difesa prima di essere condannati.
Ascoltami, Frankenstein. Tu accusi me di omicidio eppure saresti pronto a
distruggere la tua stessa creatura, sentendoti con la coscienza a posto. Oh, sia
lodata l’eterna giustizia degli uomini! Io comunque non ti chiedo di
risparmiarmi, ma di ascoltarmi, e solo dopo avermi ascoltato, se ci riesci e se
ancora lo vuoi, distruggerai l’opera delle tue stesse mani».
«Perché richiami alla mia memoria circostanze che mi fanno rabbrividire,
al solo pensiero d’essere stato io la loro sciagurata origine e l’autore? Sia
maledetto il giorno, detestato demonio, in cui tu hai visto la luce per la prima
volta! Siano maledette (e maledico me stesso) le mani che ti hanno dato
forma! Mi hai reso infelice in modo indescrivibile. Non mi hai lasciato alcuna
facoltà di decidere se io sia giusto o meno nei tuoi confronti. Vattene!
Liberami dalla vista della tua odiata forma».
«Ecco, così ti libero, mio creatore» disse, ponendo sui miei occhi le sue
odiose mani, che mi strappai di dosso con violenza, «così ti proteggo dalla
vista di qualcosa che tu aborri. Ma puoi sempre ascoltarmi e concedermi la
tua compassione. Te lo richiedo in nome delle virtù che un tempo possedevo.
Senti la mia storia. È lunga e strana e la temperatura di questo luogo non si
confà alla tua sensibilità delicata; vieni nella capanna sulla montagna. Il sole
è ancora alto in cielo; prima che scenda a nascondersi dietro a quei precipizi
innevati laggiù per portare la luce a un altro mondo, avrai ascoltato la mia
storia e potrai decidere. Dipende da te, se me ne andrò per sempre dalla vista
degli uomini per vivere una vita innocua, o diventerò il flagello di tutti i tuoi
simili e l’autore della tua precipitosa rovina».
Così dicendo mi fece strada attraverso il ghiacciaio. Lo seguii. Il cuore mi
scoppiava, non risposi, ma procedendo soppesavo i vari argomenti che aveva
addotto, e decisi di ascoltare quantomeno la sua storia. In parte ero sospinto
dalla curiosità, in parte fu la compassione a farmi decidere. Fino a quel
momento l’avevo ritenuto l’assassino di mio fratello e bramavo una conferma
o una smentita di questa opinione. Inoltre per la prima volta sentii quali erano
le responsabilità di un creatore verso la sua creatura e che avrei dovuto
renderlo felice prima di lamentarmi della sua malvagità. Queste ragioni mi
esortarono ad acconsentire alla sua richiesta. Quindi attraversammo il
ghiacciaio e scalammo la roccia all’altra estremità. L’aria era fredda e
cominciò di nuovo a scendere la pioggia. Entrammo nella capanna, il demone
con un’aria di esultanza, io con il cuore pesante e lo spirito avvilito. Ma
accettai di ascoltarlo e, una volta sedutomi vicino al fuoco che il mio odioso
compagno aveva acceso, lui cominciò il suo racconto.
Capitolo terzo

«È con notevole difficoltà che ricordo la prima era della mia esistenza; tutti
gli eventi di quel periodo mi appaiono confusi e indistinti. Ero in preda a una
strana molteplicità di sensazioni; ci volle davvero molto tempo prima che
imparassi a distinguere le operazioni dei miei diversi sensi: la vista, il tatto,
l’udito e l’olfatto, che si erano attivati tutti insieme. Ricordo che
gradualmente una luce più forte costrinse i miei nervi a chiudere gli occhi.
Quando mi avvolse l’oscurità, provai turbamento; ma subito dopo riaprii gli
occhi e, come ora suppongo, la luce si riversò nuovamente su di me.
Camminai e, immagino, scesi; ma immediatamente provai una grande
alterazione nelle mie sensazioni. Prima ero stato circondato da corpi scuri e
opachi, inaccessibili al mio tatto e alla mia vista; ora invece scoprivo di
potermi muovere liberamente e che non v’erano ostacoli che non potessi
scavalcare o schivare. La luce poi si fece sempre più opprimente, per me, e
camminando il caldo mi stremava, così cercai un luogo dove potessi
ripararmi, all’ombra. Lo trovai nella foresta vicino a Ingolstadt; qui giacqui
sulle rive di un ruscello, a riposare dalle mie fatiche, finché non provai i
morsi della fame e della sete. Questo mi risvegliò dal dormiveglia e mangiai
delle bacche che trovai attaccate ai rami degli alberi o sparse a terra. Placai la
mia sete al ruscello, mi ridistesi e mi riprese il sonno.
«Era già buio quando mi svegliai, sentivo freddo; e una certa paura
istintiva, nel trovarmi così solo. Prima di lasciare il tuo alloggio, provando
quella stessa sensazione, mi ero coperto di alcuni indumenti; ma ora non
bastavano a proteggermi dalla brina notturna. Ero un povero disgraziato,
indifeso e avvilito. Non sapevo niente, non riuscivo a distinguere niente; e
sentendomi invaso dal dolore, da ogni parte, mi sedetti e piansi.
«Di lì a poco una luce gentile si fece largo in cielo, recandomi una
sensazione di piacere. Saltai in piedi e vidi una forma radiante salire tra gli
alberi. La fissai con una sorta di meraviglia. Si muoveva lentamente, ma
illuminava i miei passi; e mi misi nuovamente in cerca di bacche. Faceva
ancora freddo quando trovai, ai piedi di un albero, un enorme mantello, con il
quale mi coprii e mi sedetti a terra. La mia mente era piena di idee indistinte,
era tutto confuso. Sentivo la luce, la fame, la sete, il buio; suoni innumerevoli
rimbombavano nelle mie orecchie, e da tutte le parti mi venivano incontro gli
odori più vari: l’unica cosa che riuscivo a distinguere era la luna splendente,
sulla quale fissai il mio sguardo con piacere.
«Si susseguirono vari passaggi tra il giorno e la notte e quando l’arco
della notte si era molto accorciato cominciai a distinguere le mie sensazioni
l’una dall’altra. Gradualmente vidi con chiarezza il ruscello trasparente che
mi dava da bere e gli alberi che mi facevano ombra con le loro foglie. Mi
deliziò la scoperta che il piacevole suono che di frequente giungeva alle mie
orecchie proveniva dalle gole di quegli animaletti alati che spesso si
frapponevano tra la luce del cielo e i miei occhi. Cominciai anche a osservare
con maggiore accuratezza le forme tutt’intorno a me e a percepire i limiti di
quel radioso tetto di luce che si stendeva sopra di me. A volte tentavo di
imitare il piacevole canto degli uccelli, ma non ci riuscivo. A volte
desideravo anch’io esprimere, a modo mio, le mie sensazioni, ma i suoni
rozzi e inarticolati che prorompevano da me mi spaventavano, riportandomi
al silenzio.
«La luna era scomparsa dalla notte e poi di nuovo si mostrò, in forma più
piccola, nel tempo in cui restai nella foresta. A questo punto le mie sensazioni
si erano fatte distinte, e la mia mente ogni giorno accoglieva nuove idee. I
miei occhi si abituarono alla luce e a percepire le cose nelle loro forme esatte;
ora distinguevo un insetto da un filo d’erba e, piano piano, anche un tipo di
erba da un altro. Scoprii che il passero emetteva soltanto note aspre, mentre
quelle del merlo e del tordo erano dolci e ammalianti.
«Un giorno, oppresso dal freddo, trovai un fuoco lasciato acceso da
qualche mendicante vagabondo e venni sopraffatto dal piacere per il calore di
cui facevo esperienza. Dalla gioia infilai le mani nelle braci ardenti, ma
subito le tirai fuori con un grido di dolore. Che strano, pensai, che la stessa
causa abbia effetti così diversi! Esaminai gli elementi di cui era fatto il fuoco
e con gioia scoprii che era composto di pezzi di legno. Mi misi subito a
raccogliere dei rami; ma erano bagnati e non bruciavano. Mi dispiacque e mi
sedetti a guardare il lavorio del fuoco. La legna bagnata che avevo posato
accanto al focolare si seccò e prese fiamma. Riflettei sull’accaduto e toccando
i vari rami capii il motivo, quindi mi diedi da fare per raccogliere una grande
quantità di legna per essiccarla e farmi un’abbondante riserva di fuoco.
Quando giunse la notte, portando il sonno con sé, avevo una grande paura che
il mio fuoco potesse spegnersi. Lo ricoprii con cura di legna secca e foglie, e
sopra vi misi dei rami bagnati; poi mi distesi a terra, sopra il mio mantello, e
sprofondai nel sonno.
«Mi svegliai ch’era mattino, e il mio primo pensiero fu quello di andare a
controllare il fuoco. Lo scoprii e il soffio di una brezza leggera rapidamente
ne riaccese la fiamma. Nell’osservare anche questo fenomeno, costruii un
ventaglio di fronde per ravvivare le braci quando si stavano spegnendo.
Tornò la notte e vidi, con piacere, che il fuoco dava luce oltre che calore, e
che la scoperta di questo elemento mi era utile per il mio nutrimento, perché
mi resi conto che alcuni avanzi del cibo lasciato dai viaggiatori erano arrostiti
e avevano un sapore molto più gustoso delle bacche che raccoglievo dagli
alberi. Cercai dunque di trattare il mio cibo allo stesso modo, mettendolo
sulle braci ardenti. Così scoprii che in questo modo le bacche si rovinavano,
mentre le noci e le radici ne guadagnavano molto.
«In ogni caso il cibo cominciò a scarseggiare e spesso passavo l’intera
giornata a cercare invano qualche ghianda per mitigare i morsi della fame.
Prendendone atto decisi di abbandonare il luogo dove avevo fino a quel
momento abitato per cercarne uno dove i pochi bisogni di cui avevo fatto
esperienza potevano venire soddisfatti più facilmente. Durante questa
migrazione mi mancò enormemente quel fuoco che avevo ottenuto per caso e
non sapevo come riprodurre. Dedicai diverse ore a riflettere molto seriamente
su questa difficoltà, ma fui costretto a rinunciare a qualunque tentativo di
procurarmelo. Così mi avvolsi nel mio mantello e mi misi a battere il bosco
in direzione del punto in cui il sole tramontava. Trascorsi tre giorni in questi
vagabondaggi e infine mi trovai in aperta campagna. La notte precedente era
caduta molta neve e i campi erano di un bianco uniforme; era uno spettacolo
desolante e io mi ritrovai con i piedi gelati da quella fredda sostanza umida
che ricopriva il terreno.
«Erano circa le sette del mattino e anelavo a un po’ di cibo e a un riparo;
alla fine scorsi una piccola capanna su un rialzo del terreno, costruita
senz’altro a uso di qualche pastore. Era la prima volta che ne vedevo una e ne
esaminai la struttura con grande curiosità. Trovando la porta aperta, entrai.
C’era un uomo anziano seduto vicino al fuoco, sul quale preparava la sua
colazione. Si voltò al rumore e quando mi scorse lanciò un grido fortissimo e
scappò dalla capanna, correndo per i campi con una rapidità difficilmente
immaginabile per il suo corpo debilitato. La sua figura, diversa da qualunque
altra avessi visto fino ad allora, e la sua fuga in qualche modo mi sorpresero.
Ma rimasi incantato dall’aspetto della capanna: lì la neve e la pioggia non
potevano penetrare, il suolo era asciutto; quel luogo mi apparve un rifugio
altrettanto splendido e divino quanto dovette apparire il Pandemonio ai
demoni dell’inferno dopo le sofferenze nel lago di fuoco. Divorai con avidità
i resti della colazione di quel pastore, che consisteva di pane, formaggio, latte
e vino; quest’ultimo, tuttavia, non mi piacque. Dopodiché, sopraffatto dalla
stanchezza, mi distesi su un pagliericcio e mi addormentai.
«Mi svegliai a mezzogiorno e, allettato dal tepore del sole che splendeva
brillante sul terreno imbiancato, decisi di riprendere il viaggio; misi quel che
restava della colazione del contadino in una bisaccia che avevo trovato lì e
procedetti attraverso i campi per diverse ore, finché al tramonto arrivai a un
villaggio. Che miracolo mi sembrò! Le capanne, le casette (più graziose) e le
sontuose ville attirarono a turno la mia attenzione. La verdura negli orti e il
latte e il formaggio alle finestre di alcune case stuzzicarono il mio appetito.
Entrai in una delle più belle, ma avevo appena messo un piede oltre la porta
che i bambini si misero a strillare e una delle donne svenne. L’intero villaggio
si mise in agitazione: chi scappava, chi mi attaccava, finché, gravemente
contuso dai colpi delle pietre e dei molti altri oggetti che mi vennero lanciati
contro, scappai in aperta campagna e in preda alla paura mi rifugiai in una
bassa catapecchia, molto disadorna e molto poco attraente in confronto agli
edifici del villaggio. Questa catapecchia era in effetti addossata a un casolare
dall’aspetto comodo e pulito, ma dopo il caro prezzo pagato nella mia recente
esperienza, non osai entrarvi. Il mio rifugio era costruito in legno ma era così
basso che mi era difficile starvi seduto con la schiena diritta. Il terreno che
faceva da pavimento non era ricoperto di legno, però era asciutto, e per
quanto il vento entrasse da innumerevoli fessure, lo ritenni un buon riparo
dalla neve e dalla pioggia.
«Qui dunque mi rifugiai, e mi distesi a terra felice di aver trovato un tetto,
anche se misero, per proteggermi dalla stagione inclemente e ancor di più
dalla barbarie degli uomini.
«Appena si fece mattino, sgusciai fuori da quella mia cuccia per vedere
l’adiacente casolare e capire se potevo restare in quell’abitacolo che avevo
trovato. Era addossato al retro della casa; a fianco dei due lati esposti v’erano
un recinto per porci e una pozza d’acqua limpida. Vi era un altro lato libero, e
da quello mi ero intrufolato; però adesso otturai, con pietre e legna, ogni
fessura attraverso la quale mi si poteva vedere, anche se in modo da poterle
rimuovere quando volevo uscire; tutta la luce mi arrivava dal lato del recinto,
e mi bastava.
«Finito di sistemare in tal modo la mia abitazione, e ricoperto il terreno di
paglia pulita, tornai dentro perché vidi in lontananza una forma umana, e
ricordando fin troppo bene il trattamento ricevuto la sera prima, non mi
fidavo di mettermi nelle sue mani. Prima però avevo fatto provviste per la
giornata, rubando una pagnotta rafferma e una tazza per bere, meglio che con
le sole mani, l’acqua pura che scorreva accanto al mio rifugio. Il pavimento
era leggermente rialzato, così da mantenersi perfettamente asciutto e, grazie
alla vicinanza con il camino del casolare, abbastanza caldo.
«Stando così le cose decisi di risiedere in questo capanno fino a che non
fosse accaduto qualcosa che mi facesse cambiare idea. In effetti, a confronto
con il mio precedente alloggio, l’inospitale foresta, coi rami grondanti di
pioggia e il terreno umido, questo era un paradiso. Mi gustai la mia colazione
e mentre mi accingevo a rimuovere un’asse per procurarmi un po’ d’acqua,
sentii dei passi; quindi guardai attraverso una stretta fessura e vidi una
giovane creatura che passava davanti al mio capanno portando un secchio
sulla testa. Era una giovane dal portamento aggraziato, diversa dalle
contadine e dalle domestiche che ho avuto modo di incontrare da allora.
Eppure era vestita poveramente, il suo abbigliamento consisteva soltanto in
una lisa sottana azzurra e un giacchetto di lino. Non v’erano ornamenti fra le
sue trecce bionde; sembrava avere un’indole paziente, ma aveva un’aria
triste. La persi di vista. Poi tornò, nel giro di un quarto d’ora circa, sempre
con il secchio, che ora era in parte riempito di latte. Mentre procedeva, con
l’evidente incomodo di quel peso, le si fece incontro un giovane uomo, il cui
volto esprimeva il più profondo sconforto. Emise alcuni suoni con un’aria
malinconica e le tolse il secchio dalla testa per portarlo nel casolare. Lei lo
seguì e scomparvero. Di lì a poco rividi il giovane attraversare il campo
dietro il casolare con alcuni strumenti in mano; anche la ragazza aveva da
fare, a volte in casa, a volte nel cortile.
«Esaminando la mia dimora mi accorsi che un tempo vi affacciava una
delle finestre del casolare, i cui riquadri erano stati otturati con assi di legno.
In una di queste v’era una sottile, quasi impercettibile fessura, attraverso la
quale l’occhio poteva sbirciare. Attraverso questa crepa si vedeva una piccola
stanza, imbiancata e pulita ma arredata in modo molto spoglio. In un angolo,
vicino a un piccolo fuoco, sedeva un vecchio con la testa tra le mani, in
atteggiamento sconsolato. La ragazza era occupata a rassettare il casolare, ma
a un certo punto tirò fuori da un cassetto qualcosa che impegnava le sue mani
e si sedette accanto al vecchio. Lui prese uno strumento, cominciò a suonare
e produsse dei suoni più dolci della voce del tordo e dell’usignolo. Una scena
incantevole, persino per me – povero disgraziato! – che non avevo visto mai
nulla di bello. I capelli argentati e il volto benevolo di quel vecchio mi
ispirarono rispetto, mentre i graziosi modi della ragazza suscitarono in me
grande affetto. Lui suonava un’aria dolce e triste che, mi accorsi, faceva
sgorgare le lacrime dagli occhi della sua amabile compagna, anche se il
vecchio non lo notò, finché lei non cominciò a singhiozzare in modo udibile;
a quel punto l’uomo emise alcuni suoni e la bella creatura posò il suo lavoro
per inginocchiarsi ai suoi piedi. Lui la tirò su e sorrise con tale dolcezza e
affetto che io provai delle sensazioni di una natura molto peculiare e
prepotente, un misto di dolore e di piacere, che non avevo mai provato prima,
quando avevo sentito fame o freddo, o trovato calore o cibo. Mi scostai dalla
finestra, non riuscivo a sostenere queste emozioni.
«Poco dopo il giovane tornò, portando sulle spalle un carico di legna. La
ragazza gli andò incontro all’ingresso, lo aiutò a disfarsi del peso e portando
un po’ di quel combustibile all’interno lo mise sul fuoco. Dopodiché lei e il
ragazzo si appartarono in un angolo dell’abitazione e lui le mostrò una grande
pagnotta e un pezzo di formaggio. Lei ne sembrò contenta e andò in giardino
a prendere delle radici e delle piante, che mise nell’acqua e poi sul fuoco.
Quindi riprese il suo lavoro mentre il giovane andò in giardino e si diede da
fare a scavare ed estrarre radici. Continuò a farlo per un’ora, poi la giovane lo
raggiunse e insieme tornarono dentro.
«Nel frattempo il vecchio era rimasto pensieroso, ma all’arrivo dei suoi
compagni assunse un’aria più allegra e si sedettero a mangiare. Il pasto fu
consumato rapidamente. La giovane donna era adesso di nuovo occupata a
rassettare; il vecchio fece due passi al sole, davanti al casolare, al braccio del
giovane. Non poteva esserci niente di più bello del contrasto fra queste due
eccelse creature. Uno era anziano, coi capelli argentati e un volto che
irradiava benevolenza e amore; il più giovane era snello e aggraziato, i
lineamenti forgiati nel modo più armonioso, ma i suoi occhi e il suo
atteggiamento esprimevano grande tristezza e sconforto. Il vecchio tornò
dentro e il giovane, con strumenti diversi da quelli che aveva usato al
mattino, diresse i suoi passi nei campi.
«Calò presto il buio, ma con mia grande meraviglia scoprii che gli abitanti
del casolare conoscevano un modo per protrarre la luce facendo uso di
candele; mi deliziò scoprire che il tramonto del sole non avrebbe posto fine al
piacere che provavo nell’osservare i miei umani vicini. Durante la serata, la
ragazza e il suo compagno furono occupati in varie attività che non
comprendevo; il vecchio prese nuovamente lo strumento che produceva i
suoni divini che mi avevano incantato al mattino. Appena ebbe finito, toccò
al giovane, che invece di suonare iniziò a emettere suoni più monotoni che
non somigliavano né alle armonie dello strumento del vecchio né al canto
degli uccelli; più avanti capii che quello era leggere ad alta voce, ma allora
non sapevo niente della scienza delle parole e della letteratura.
«Quella famiglia, dopo essersi intrattenuta così per un breve tempo,
spense le luci e se ne andò, immaginai, a dormire.
Capitolo quarto

«Mi stesi sul pagliericcio ma non riuscivo a dormire. Pensavo alle cose
accadute quel giorno. Quello che mi aveva più colpito erano i modi gentili di
queste persone. Desideravo unirmi a loro, ma non ne avevo il coraggio.
Ricordavo troppo bene il trattamento subito la sera prima dai barbari abitanti
del villaggio e decisi che, qualunque comportamento avessi in seguito trovato
giusto adottare, per il momento sarei rimasto tranquillo nella mia tana a
osservarli e a cercare di scoprire i moventi che dirigevano le loro azioni.
«Il mattino seguente gli abitanti del casolare si alzarono prima che
sorgesse il sole. La giovane donna mise in ordine e preparò da mangiare;
finita la colazione, il giovane andò via.
«La giornata trascorse secondo lo schema della precedente. Il giovane
rimase occupato all’aperto, la ragazza in varie laboriose faccende all’interno.
Il vecchio, che presto capii essere cieco, passò il tempo a suonare o a pensare.
Non vi potrebbero essere amore e rispetto più grandi di quelli che i due
giovani mostravano per il loro venerabile compagno. Tutti i loro gesti
d’affetto o le mansioni di accudimento erano svolti per lui con gentilezza, che
lui ripagava con i suoi benevoli sorrisi.
«Non erano del tutto felici. Spesso il giovane e la sua compagna si
appartavano e sembrava che piangessero. Io non vedevo motivo per la loro
infelicità, ma ne ero profondamente toccato. Se delle creature così amabili
erano tristi, non era poi così strano che lo fosse un essere imperfetto e solo
come me. Ma perché questi esseri così gentili erano infelici? Avevano una
casa deliziosa (tale era ai miei occhi) e ogni lusso; se avevano freddo avevano
un fuoco per scaldarsi, se avevano fame squisite vivande per cibarsi; i loro
indumenti erano in ottimo stato e, ancora più importante, godevano della
reciproca compagnia e delle loro conversazioni, scambiandosi ogni giorno
sguardi di affetto e di bontà. Cosa implicavano le loro lacrime? Erano
effettivamente espressione di dolore? Dapprincipio non fui in grado di
rispondere a queste domande; ma una costante attenzione e il tempo mi
spiegarono molte di quelle cose che ai miei occhi risultavano enigmatiche.
«Passò un bel po’ di tempo prima che scoprissi una delle cause del
disagio di quell’amabile famiglia. Era la povertà, di cui subivano il malessere
a un livello molto profondo. Il loro nutrimento consisteva unicamente della
verdura del giardino e del latte di un’unica mucca, che ne produceva ben
poco durante l’inverno, quando i padroni potevano a malapena procurarsi il
cibo per sostenerla. Credo che spesso patissero i morsi della fame, molto
acutamente, specialmente i due giovani, perché di frequente davano da
mangiare al vecchio senza tenere niente per loro.
«Questo aspetto della loro generosità mi commosse alquanto. Durante la
notte ero solito rubare un po’ delle loro provviste per il mio consumo, ma
quando scoprii che così facendo procuravo loro sofferenza, smisi di farlo e mi
accontentai delle bacche, delle noci e delle radici che raccoglievo in un bosco
nei paraggi.
«Scoprii anche un altro modo che mi permetteva di aiutarli nelle loro
fatiche. Mi accorsi che il giovane impiegava buona parte della giornata a
raccogliere legna per il focolare, così durante la notte spesso prendevo i suoi
attrezzi, che imparai presto a usare, e gli procuravo legna da ardere
sufficiente al consumo di diversi giorni.
«Ricordo che, la prima volta che lo feci, quando la giovane donna aprì la
porta al mattino, parve molto stupita nel vedere una grande catasta di legna lì
fuori. Pronunciò a voce alta alcune parole e il giovane la raggiunse,
esprimendo sorpresa a sua volta. Notai con piacere che quel giorno non andò
nella foresta, ma restò a casa a fare dei lavoretti di manutenzione e a coltivare
l’orto.
«A poco a poco feci una scoperta ancora più importante. Capii che quelle
persone possedevano un metodo per comunicare fra loro esperienze e
sentimenti attraverso dei suoni articolati. Mi accorsi che le parole che
dicevano procuravano, a seconda, piacere o dolore, sorrisi o tristezza
nell’animo e nel volto di chi le ascoltava. Questa era proprio una scienza
divina e desideravo ardentemente conoscerla. Ma ogni mio tentativo in quella
direzione veniva frustrato. Parlavano rapidamente e, non avendo le parole che
dicevano un legame per me visibile con oggetti concreti, non riuscivo a
trovare la chiave di accesso a quel misterioso modo di comunicare. Tuttavia,
con grande applicazione e nel corso di vari cicli lunari trascorsi nella mia
tana, individuai i nomi che venivano dati ad alcuni degli oggetti più frequenti
nei loro discorsi: imparai e capii a cosa connettere le parole fuoco, latte, pane
e legna. Appresi anche i nomi degli abitanti del casolare. Il giovane e la sua
compagna avevano più di un nome ciascuno, mentre il vecchio ne aveva uno
solo, ed era padre. La ragazza veniva chiamata sorella oppure Agatha; il
giovane Felix, fratello o figlio. Non posso descrivere la gioia che provai
quando appresi a quali concetti si riferivano questi suoni e fui in grado di
pronunciarli. Distinsi varie altre parole, senza essere ancora in grado di
capirle o adoperarle, come buono, carissimo, infelice.
«Passai l’inverno in questa occupazione. I modi gentili e la bellezza dei
miei vicini me li resero molto cari: quando erano infelici, mi sentivo
depresso; quando si rallegravano di qualcosa, io partecipavo della loro
allegria. Vedevo pochi esseri umani oltre a loro e se capitava che arrivasse
qualcun altro, le maniere scortesi e il portamento rude non facevano che
esaltare ai miei occhi la superiore qualità delle doti dei miei amici. Mi accorsi
che il vecchio si prodigava a incoraggiare i suoi figli – come notai che a volte
li chiamava – a scacciare la loro malinconia. Parlava con tono allegro,
esprimendo una bontà che donava piacere anche a me. Agatha ascoltava con
rispetto, e quando a volte gli occhi le si riempivano di lacrime, cercava di
asciugarle di nascosto; in generale, però, mi accorgevo che l’espressione del
suo viso e il tono della sua voce si facevano più lieti dopo aver ascoltato le
esortazioni del padre. Con Felix non era così. Lui era sempre il più triste del
gruppo; persino alla mia sensibilità non sviluppata lui sembrava quello che
avesse sofferto di più e più profondamente dei suoi cari. Ma se il suo volto
aveva l’espressione più dolente, la sua voce era più allegra di quella della
sorella, specialmente quando si rivolgeva al vecchio.
«Potrei indicare innumerevoli episodi che, per quanto piccoli, mi
mostrarono il carattere di questi amabili esseri. In tanta povertà e bisogno,
Felix trovava il piacere di portare alla sorella il primo fiorellino bianco che
spuntava dal terreno ancora innevato. Di primo mattino, prima che lei si fosse
alzata, lui spazzava la neve che avrebbe ostruito il percorso di lei verso la
stalla, tirava su l’acqua dal pozzo e portava la legna dalla rimessa che, con
suo continuo stupore, trovava sempre rifornita da una mano invisibile. Credo
che durante il giorno lavorasse per un contadino vicino, poiché spesso se ne
andava e non tornava fino a cena, senza portare legna con sé. Altre volte
lavorava l’orto; ma quando gelava, non si poteva fare granché. E allora
leggeva a voce alta per il vecchio e per Agatha.
«Questa faccenda della lettura a voce alta all’inizio mi sconcertò
alquanto; poi, per gradi, mi resi conto che leggendo il giovane pronunciava
molti dei suoni che emetteva quando conversava. Supposi, dunque, che sulla
carta lui trovasse e capisse dei segni che servivano a parlare, e anch’io
desideravo ardentemente comprenderli; ma come fare, se non capivo
nemmeno le parole di cui quelli erano i simboli? Tuttavia feci notevoli
progressi in questa scienza, anche se non sufficienti a seguire qualsivoglia
tipo di conversazione. Mi impegnai con tutto me stesso perché mi era molto
chiaro che, desiderando ardentemente presentarmi agli abitanti del casolare,
non avrei dovuto arrischiarmici prima di essermi impadronito del loro
linguaggio; quella conoscenza, speravo, mi avrebbe permesso di offrirmi al
loro sguardo in modo che potessero andare oltre il mio aspetto deforme, di
cui ormai ero pienamente consapevole, avendo sempre davanti agli occhi il
contrasto offerto da loro.
«Avendo ammirato le forme perfette dei miei vicini, la loro grazia,
bellezza, la carnagione delicata, quanto mi spaventavo quando vedevo la mia
immagine in una pozza trasparente! Le prime volte sobbalzai arretrando,
incredulo che fossi proprio io riflesso in quello specchio. Quando mi convinsi
appieno di essere davvero il mostro che sono, mi colmai delle più amare
sensazioni di sconforto e mortificazione. Ahimè! Ancora non sapevo fino in
fondo quali sarebbero stati gli effetti fatali di questa miserabile deformità.
«Quando il sole cominciò a farsi più caldo, e le giornate si allungarono, la
neve sparì e vidi gli alberi nudi e la terra bruna. Da questo momento Felix fu
maggiormente impegnato e si allontanò la penosa minaccia della fame. Il loro
cibo era grezzo ma sano, e riuscivano a procurarsene a sufficienza. Dall’orto
spuntavano diversi nuovi generi di piante, che loro preparavano; questi segni
di benessere aumentarono di giorno in giorno con il procedere della stagione.
«Quotidianamente, a mezzogiorno, il vecchio passeggiava appoggiandosi
al figlio. Questo se non pioveva, come scoprii che si diceva quando l’acqua
cade dal cielo. Ciò accadeva di frequente, ma subito dopo un vento forte
asciugava la terra e il tempo era ancora più bello di prima.
«La mia vita nel rifugio aveva un andamento regolare. Di mattina seguivo
i movimenti dei miei vicini e quando si separavano, ciascuno intento alle sue
occupazioni, io dormivo; il resto del giorno lo passavo a osservarli. Dopo che
erano andati a dormire, se c’era un po’ di luna o era una notte stellata, andavo
nel bosco a procurare il cibo per me e la legna per loro. Al mio ritorno, ogni
qualvolta fosse necessario, ripulivo il loro sentiero dalla neve e svolgevo le
mansioni che avevo visto fare a Felix. In seguito mi accorsi del loro grande
stupore nello scoprire quei lavori svolti da una mano invisibile; un paio di
volte, in tali occasioni, li sentii pronunciare le parole spirito benigno,
meraviglioso, senza capirne, allora, il significato.
«Cominciai a ragionare più attivamente, desiderando capire i moventi e i
sentimenti di quelle amabili creature; mi domandavo perché Felix avesse
quell’aria così abbattuta e Agatha fosse così triste. Pensavo (che idiota!) che
potesse essere in mio potere ridare la felicità a quella gente così meritevole.
Quando dormivo, o ero altrove, le figure del venerabile padre cieco, della
gentile Agatha e dell’eccellente Felix mi tornavano sempre davanti. Li
vedevo come esseri superiori, che sarebbero stati gli arbitri del mio destino a
venire. Nella mia immaginazione mi figuravo migliaia di scene in cui mi
presentavo a loro e la loro reazione nel vedermi. Immaginavo il loro disgusto,
fino al momento in cui io, con i miei modi gentili e le mie parole concilianti,
avrei dapprima ottenuto il loro favore e poi l’affetto.
«Questi pensieri mi esaltavano e mi portarono ad applicarmi con
rinnovato ardore all’apprendimento dell’arte del linguaggio. Certo i miei
organi erano rozzi, ma agili; la mia voce era molto diversa dalla dolce
melodia delle loro intonazioni, ma riuscivo a pronunciare le parole che
conoscevo con discreta fluidità. Era una situazione simile a quella della
favola dell’asino e del cagnolino da compagnia, ma certamente l’asino gentile
meritava, per le sue affettuose intenzioni, di essere trattato molto meglio che
a calci e insulti.
«Le gradite piogge e il dolce tepore della primavera alterarono di molto la
faccia della terra. Gli uomini, che fino a quel mutamento sembrava fossero
nascosti in caverne, si sparsero ovunque, occupati in varie tecniche di
agricoltura. Gli uccelli cantavano note più allegre, e agli alberi iniziavano a
spuntare le foglie. Terra felice, felice! Quel luogo che poco fa era tetro,
umido e insalubre, ora era la degna dimora degli dei. L’incantevole aspetto
della natura innalzò il mio spirito; il passato era cancellato dalla mia
memoria, il presente sereno e il futuro indorato da luminosi raggi di speranza,
e promesse di gioia.
Capitolo quinto

«Ora mi appresto a narrare la parte più toccante della mia storia. Riferirò di
quegli eventi la cui esperienza ha avuto su di me l’effetto di mutarmi da
quello che ero a quello che ora sono.
«La primavera avanzava rapida; il tempo si fece bello e il cielo senza
nuvole. Mi sorprese che ciò che prima era desolato e cupo adesso fosse
rigoglioso di splendidi fiori e vegetazione. I miei sensi venivano gratificati e
ravvivati da migliaia di delizie olfattive e bellissime visioni.
«Fu in uno di quei giorni, quando periodicamente i miei vicini si
riposavano dal lavoro (il vecchio suonava la chitarra e i figli lo ascoltavano)
che notai in Felix un’indicibile aria malinconica; sospirava di frequente e a un
certo punto il padre smise di suonare e dai suoi modi immaginai chiedesse al
figlio il perché di quell’amarezza. Felix rispose con tono più lieto e dunque il
padre stava per rimettersi a suonare quando qualcuno bussò alla porta.
«Era una signora a cavallo, accompagnata da un contadino che le faceva
da guida. La donna indossava un abito scuro ed era coperta da uno spesso
velo nero. Agatha fece una domanda e l’estranea rispose soltanto con il nome
di Felix, pronunciato con dolce accento. Aveva una voce melodiosa, ma
diversa da quella dei miei amici. Udendo il suo nome, Felix si affrettò a
raggiungere la signora che, nel vederlo, si tolse il velo, e a quel punto scorsi
un volto di una bellezza e una espressione angeliche. I suoi capelli erano di
un lucente nero corvino e insolitamente acconciati; i suoi occhi scuri ma
dolci, per quanto vivaci; i suoi lineamenti regolari e proporzionati e la sua
carnagione straordinariamente chiara, con guance di un tenue color rosa.
«Felix apparve rapito dalla gioia quando la vide, ogni segno di amarezza
svanito dal suo viso, che non avrei mai creduto potesse esprimere quella
estatica felicità; gli brillarono gli occhi e arrossì di piacere. E in quel
momento mi sembrò tanto bello quanto la straniera. Lei pareva in preda a
molti sentimenti diversi: versando alcune lacrime dai begli occhi, tese la
mano a Felix, che la baciò deliziato e si rivolse alla donna chiamandola, per
quanto potei comprendere, la sua dolce araba. Lei sembrava non capirlo, ma
sorrise. Lui la aiutò a smontare da cavallo e, licenziando la guida, la fece
entrare nel casolare. Ci fu uno scambio di parole tra lui e il padre, e la
giovane straniera si inginocchiò ai piedi del vecchio; voleva baciargli la mano
ma lui la fece alzare e la abbracciò con affetto.
«Presto capii che nonostante la straniera pronunciasse suoni articolati, e
sembrasse possedere un suo linguaggio, non veniva compresa dai miei vicini,
né lei capiva loro. Fecero molti gesti per me indecifrabili, ma mi era chiaro
che la sua presenza diffondeva contentezza nella casa, dissipando il dolore
dei suoi abitanti come fa il sole con la nebbia del mattino. Felix sembrava
particolarmente felice e accoglieva la sua araba con sorrisi di gioia. Agatha,
la dolcissima Agatha, baciò le mani della cara straniera e indicando il fratello
fece dei segni che per me volevano dire che lui era stato tanto triste fino a che
non era arrivata lei. In questo modo passarono alcune ore, durante le quali i
loro visi continuavano a esprimere gioia, una gioia di cui non capivo la
ragione. Mi accorsi presto, dal fatto che la straniera spesso ripeteva dopo di
loro lo stesso suono ricorrente, che lei stava cercando di imparare la loro
lingua; così mi venne subito in mente di approfittare di quelle istruzioni allo
stesso fine. Alla prima lezione la straniera imparò circa venti parole; la
maggior parte già le conoscevo, ma ne trassi vantaggio per le altre.
«Con il calare del buio, Agatha e l’araba si ritirarono prima degli altri.
Nel salutarsi, Felix baciò la mano della straniera e disse: “Buonanotte, dolce
Safie”. Poi lui rimase alzato molto più a lungo, a parlare con il padre; dalla
frequente ripetizione del nome di lei, capii che quell’amabile ospite era
l’argomento della loro conversazione. Avrei voluto tanto comprendere cosa
dicevano e impiegai ogni mia facoltà a tale scopo, ma mi risultò del tutto
impossibile.
«Il mattino seguente Felix uscì per andare a lavorare e, una volta
terminate le consuete occupazioni di Agatha, l’araba si sedette ai piedi del
vecchio, prese la sua chitarra e suonò delle arie di tale incantevole bellezza
che mi fecero piangere lacrime al contempo di dolore e di letizia. Lei cantava
e la sua voce fluiva, ora piena ora sfumata, in una ricca tessitura, come quella
di un usignolo dei boschi.
«Quando finì porse la chitarra ad Agatha, che dapprima si schermì. Poi
suonò un’arietta semplice, accompagnandola con i dolci accenti della sua
voce, ma nulla a che vedere con lo stupefacente canto della straniera. Il
vecchio aveva un’aria estasiata e disse alcune parole che Agatha cercò di
spiegare a Safie: sembrava voler esprimere che con la sua musica la signora
gli aveva dato grandissimo diletto.
«I giorni continuarono a passare tranquilli come prima, con la sola
differenza che la gioia aveva preso il posto della tristezza sul volto dei miei
amici. Safie era sempre allegra e contenta; sia lei che io facevamo rapidi
progressi nell’apprendimento del linguaggio, tanto che nel giro di due mesi
cominciai a capire la maggior parte delle parole pronunciate dai miei
protettori.
«Nel frattempo anche la terra bruna s’era coperta di erba e le verdi distese
erano punteggiate di innumerevoli fiori, dolci alla vista e all’olfatto, stelle dal
tenue bagliore nella boscaglia illuminata dalla luna; il sole si fece più caldo,
le notti chiare e fragranti e i miei vagabondaggi notturni divennero un grande
piacere per me, nonostante la loro durata si fosse parecchio accorciata, da
quando il sole tramontava così tardi e sorgeva così presto. Perché non osavo
mai uscire alla luce del sole, temendo di incontrare lo stesso trattamento che
mi era toccato nel primo villaggio in cui ero arrivato.
«Passavo le giornate concentrandomi al massimo al fine di impadronirmi
più rapidamente dell’uso del linguaggio; posso vantarmi di aver fatto
progressi più rapidi dell’araba, che capiva molto poco e conversava con
difficoltà, invece io comprendevo e potevo imitare quasi tutte le parole che si
dicevano.
«Mentre progredivo nel parlare, appresi anche la scienza delle lettere,
seguendo le lezioni che venivano impartite alla straniera, e queste mi
dischiusero un campo immenso di meraviglie e diletto.
«Il libro usato da Felix per insegnare a Safie era Le rovine, ossia
meditazioni sulle rivoluzioni degli imperi di Volney. Non avrei potuto capire
il senso e la portata di questo libro se Felix, leggendolo, non avesse dato
minuziose spiegazioni. Disse di avere scelto quell’opera perché lo stile
declamatorio era modellato su quello degli autori orientali. Io ne trassi
un’infarinatura di storia e una visione dei vari imperi attualmente esistenti al
mondo; mi offrì inoltre un quadro dei costumi, dei governi e delle religioni
delle diverse nazioni della terra. Seppi così dell’indolenza degli asiatici, del
grande genio e dell’attività intellettuale dei greci, delle guerre e delle
straordinarie virtù degli antichi romani (nonché della loro successiva
decadenza e del declino di quel potente impero); della cavalleria, della
cristianità, dei re. Seppi della scoperta dell’emisfero americano e piansi con
Safie per lo sventurato destino dei suoi nativi abitanti.
«Quei racconti meravigliosi generarono in me strane sensazioni. Era
l’uomo dunque un essere al tempo stesso così potente, virtuoso, magnifico
eppure maligno e vile? A volte sembrava soltanto l’erede di princìpi malvagi,
altre quanto di più nobile e simile a un dio si possa concepire. Essere un
uomo grande e virtuoso pareva l’onore più alto che potesse capitare a una
creatura sensibile; mentre essere vili e maligni, come è riportato che molti
siano stati, sembrava la più infima degradazione, una condizione più abietta
di quella della cieca talpa o dell’innocuo verme. Per molto tempo non riuscii
a concepire come un uomo potesse arrivare a uccidere un suo simile,
addirittura non capivo il perché di leggi e governi; ma quando appresi quei
fatti di sangue e corruzione il mio stupore cessò e mi ritrassi con disgusto e
ribrezzo.
«Ogni conversazione degli abitanti del casolare ormai mi schiudeva
nuove occasioni di stupore. Ascoltando le nozioni che Felix impartiva
all’araba, mi si chiariva lo strano sistema della società degli uomini. Venni a
sapere della divisione delle proprietà, di immense ricchezze e squallida
miseria; di rango, discendenza e sangue nobile.
«Le parole mi indussero a riflettere su di me. Appresi quali fossero i beni
più stimati dai tuoi simili: una nobile e immacolata discendenza unita a
grande ricchezza. Un uomo poteva ottenere rispetto con una sola di queste
acquisizioni; ma senza nessuna delle due, tranne rare eccezioni, era
considerato un vagabondo e uno schiavo, destinato a sciupare le sue energie
per il profitto di pochi prescelti. E io, che cosa ero io? Ignoravo
completamente le circostanze della mia creazione e chi mi avesse creato;
sapevo in compenso di non avere né denaro, né amici, né alcun tipo di
proprietà. Inoltre, ero dotato di una figura orribilmente deforme e disgustosa;
non ero neanche della stessa natura di un essere umano. Ero più agile degli
uomini e potevo sostenermi con un’alimentazione più grezza; sopportavo gli
eccessi del caldo e del freddo con minori danni per il mio corpo; la mia
statura superava di gran lunga la loro. Se mi guardavo intorno, non vedevo né
sentivo parlare di nessuno come me. Ero dunque un mostro che macchiava la
faccia della terra e da cui tutti fuggivano e che tutti ripudiavano?
«Non posso descriverti l’angoscia che mi arrecavano questi pensieri;
provai a scacciarli, ma la consapevolezza accresceva il dolore. Oh, fossi
rimasto per sempre nel mio bosco natale, e non avessi mai conosciuto o
provato altre sensazioni che la fame, la sete e il caldo!
«Che cosa strana è la conoscenza! Quando afferra la mente, vi si attacca
come un lichene alla roccia. A volte desideravo sbarazzarmi di ogni pensiero
e ogni sentimento, ma sapevo che v’era un solo modo per vincere la
sensazione del dolore, e questo era la morte, una condizione che temevo
anche se ancora non la capivo. Ammiravo la virtù e i buoni sentimenti;
amavo i modi gentili e le amabili qualità dei miei vicini, ma ero escluso
dall’interazione con loro, se non per via di quanto ottenevo di nascosto, non
visto e a loro ignoto; e questo, invece di soddisfarlo, accresceva il mio
desiderio di diventare uno di loro. Le parole gentili di Agatha, i sorrisi vivaci
dell’incantevole araba non erano rivolti a me. Miserabile, infelice sventurato!
«Rimasi ancora più profondamente colpito da altre lezioni. Venni a sapere
della differenza dei sessi, della nascita e della crescita dei bambini; di come
un padre vada matto per i sorrisi del neonato e per le geniali uscite di quando
è già fanciullo; come il prezioso fardello rivesta tutta la vita e le cure di una
madre; come la mente del giovane si espanda e acquisti conoscenze; che cosa
sono un fratello, una sorella e tutti i vari gradi di parentela che uniscono un
essere umano all’altro con mutui legami.
«Ma dov’erano i miei amici e i miei parenti? Nessun padre aveva vigilato
sui giorni della mia infanzia, nessuna madre mi aveva benedetto con sorrisi e
carezze o, se lo avevano fatto, il mio passato era adesso una macchia scura,
un vuoto cieco in cui non distinguevo nulla. Fin dai miei primi ricordi ero
così come allora, per altezza e proporzioni. Non avevo ancora visto un essere
che mi somigliasse, o che desiderasse una qualunque relazione con me. Che
cosa ero? La domanda continuava a presentarsi, per ricevere in risposta solo
gemiti.
«Spiegherò presto verso cosa conducevano questi sentimenti. Ma ora
permettimi di tornare ai miei vicini, la cui storia accese in me una tale varietà
di sentimenti di indignazione, gioia e stupore, che però culminavano tutti in
ulteriore amore e rispetto per quelli che osavo chiamare miei protettori (in
innocente e quasi doloroso autoinganno).
Capitolo sesto

«Passò un po’ di tempo prima che apprendessi la storia dei miei amici. Era
una storia che non poteva fare a meno di imprimersi a fondo nella mia mente
per la quantità di circostanze che presentava, ognuna delle quali, per uno così
privo di esperienza come me, fonte di interesse e meraviglia.
«Il vecchio si chiamava De Lacey. Veniva da una buona famiglia francese
e in Francia era vissuto molti anni nell’agiatezza, rispettato dai suoi superiori
e benvoluto dai suoi pari. Suo figlio era stato educato a servire la patria e
Agatha era annoverata nel rango delle dame che godevano della più alta
reputazione. Qualche mese prima del mio arrivo vivevano in una grande e
sfarzosa città chiamata Parigi, circondati da amici e godendo di tutti i piaceri
che possono offrire la virtù, la raffinatezza intellettuale e una discreta fortuna.
«Causa della loro rovina era stato il padre di Safie. Era un mercante turco
che viveva a Parigi da molti anni e che a un certo punto, per qualche motivo
che non sono riuscito a sapere, era diventato inviso al governo. Venne
arrestato e messo in prigione proprio il giorno in cui Safie lo aveva raggiunto
da Costantinopoli. Poi venne processato e messo a morte. La sentenza era
così palesemente ingiusta che tutta Parigi se ne indignò, adducendo alla sua
religione e alla sua ricchezza, più che ai crimini di cui era accusato, il motivo
per la sua condanna.
«Felix era presente al processo e quando ascoltò la decisione della corte,
il suo orrore e la sua indignazione furono così incontrollati da ripromettersi,
con un solenne giuramento, che lui lo avrebbe liberato. E cercò il modo per
farlo. Dopo tanti infruttuosi tentativi di essere ammesso alla prigione, scoprì,
in una zona non sorvegliata dell’edificio, una finestra protetta da grosse
sbarre; da questa arrivava la luce nella cella dove lo sfortunato maomettano
attendeva, disperato e in catene, l’esecuzione della barbara sentenza. Felix si
affacciò una notte alla grata e rese noto al prigioniero ciò che intendeva fare
in suo favore. Il turco, sorpreso e contento, si prodigò a incentivare lo zelo
del suo liberatore con promesse di ricompense e ricchezze. A quelle offerte
Felix oppose uno sdegnoso rifiuto e tuttavia, quando vide la bella Safie, a cui
era permesso fare visita al padre, e che a gesti gli espresse la sua viva
gratitudine, il giovane non riuscì a fare a meno di dirsi fra sé che il
prigioniero possedeva un tesoro che avrebbe pienamente ricompensato le sue
fatiche e i suoi rischi.
«Il turco si accorse ben presto dell’effetto che la figlia aveva fatto sul
cuore di Felix e si adoperò a vincolarlo ancora più saldamente alla sua causa,
promettendogli la mano di lei e la celebrazione del matrimonio non appena
lui fosse stato condotto in un luogo sicuro. Felix era troppo cortese per
accettare quell’offerta, ma non poté fare a meno di immaginare quella
possibile evenienza come il coronamento della sua felicità.
«Nei giorni seguenti, mentre procedevano i preparativi per la fuga del
mercante, lo zelo di Felix venne ravvivato da varie lettere inviategli da questa
bella ragazza, che trovò il modo di esprimere i propri pensieri nella lingua del
suo innamorato con l’aiuto di un uomo anziano, un servo del padre che
conosceva il francese. Lo ringraziava nei termini più calorosi per i servigi che
intendeva compiere per il padre e al tempo stesso si lamentava, con toni
pacati, del suo personale destino.
«Di queste lettere ho fatto le copie; nel mio soggiorno in quella tana
riuscii a procurarmi gli strumenti per scrivere, e le lettere erano spesso nelle
mani di Felix o di Agatha. Te le darò, prima di andarmene; saranno le prove
dell’autenticità del mio racconto. Non adesso, però, che il sole è già calato e
avrò soltanto il tempo di fartene un riassunto.
«Safie scriveva che sua madre era un’araba cristiana, fatta prigioniera e
resa schiava dai turchi; grazie alla sua bellezza aveva conquistato il cuore del
padre di Safie, che la sposò. La giovane usava parole di lode ed entusiasmo
per la madre che, nata libera, sprezzava lo stato di sottomissione a cui adesso
era costretta. Aveva educato la figlia secondo i princìpi della sua religione e
le aveva insegnato ad aspirare alle più alte facoltà intellettive e a
un’indipendenza di spirito proibita alle seguaci di Maometto. Questa signora
morì, ma le sue lezioni rimasero impresse in modo indelebile nell’animo di
Safie, che soffriva al pensiero di tornare in Asia per essere rinchiusa fra le
mura di un harem, dove le sarebbe stato permesso di intrattenersi soltanto con
passatempi puerili, che mal si addicevano alle inclinazioni della sua anima,
abituata ormai a grandi ideali e alla nobile emulazione della virtù. La
prospettiva di sposare un cristiano, e di restare in un paese in cui alle donne
era permesso di occupare un ruolo in società, la incantava.
«Venne fissato il giorno dell’esecuzione del turco. Ma questi aveva
abbandonato la prigione la notte precedente, e prima del mattino era già a
molte leghe di distanza da Parigi. Felix si era procurato dei passaporti con i
nomi del padre, della sorella e del suo. Al primo aveva precedentemente
comunicato il suo piano e questi aveva contribuito all’inganno abbandonando
la sua casa, con la scusa di un viaggio, e nascondendosi con la figlia in una
oscura zona di Parigi.
«Felix condusse i fuggiaschi attraverso la Francia fino a Lione, poi
valicarono il Moncenisio e giunsero a Livorno, dove il turco aveva deciso di
aspettare un’occasione favorevole per ritornare in qualche modo in patria.
«Safie decise di restare con il padre fino al momento della sua partenza,
prima della quale, promise ancora una volta il turco, lei e l’uomo che lo aveva
liberato si sarebbero uniti in matrimonio. Anche Felix rimase con loro, in
attesa dell’evento; in questo periodo poté godere della compagnia dell’araba,
che mostrava verso di lui l’affetto più tenero e puro. Comunicavano con
l’aiuto di un interprete e a volte interpretando i propri sguardi. Safie cantava
per lui le divine arie del paese natio.
«Il turco acconsentiva a questa intimità, incoraggiando le speranze dei
giovani innamorati, ma in cuor suo si era formato dei piani diversi.
Deprecava l’idea che la figlia si unisse a un cristiano, ma temeva il
risentimento di Felix se lui si fosse mostrato tiepido al riguardo; sapeva di
essere ancora nelle mani del suo salvatore, che avrebbe potuto denunciarlo
alle autorità dello Stato italiano, dove allora si trovavano. Nella sua mente
elaborò migliaia di piani che gli permettessero di protrarre il suo inganno fino
a che non fosse stato più necessario, quando cioè sarebbe partito e in segreto
avrebbe portato la figlia con sé. I suoi piani vennero molto facilitati dalle
notizie che arrivarono da Parigi.
«Il governo francese, su tutte le furie per la fuga della sua vittima, non si
era risparmiato per individuare e punire chi lo aveva liberato. La
macchinazione di Felix venne presto scoperta e De Lacey e Agatha furono
imprigionati. La notizia giunse a Felix e lo destò dal suo piacevole sogno.
Suo padre, vecchio e cieco, e la sua delicata sorella languivano in una fetida
cella mentre lui si godeva l’aria libera e la compagnia della sua amata. Questa
idea lo torturava. Si accordò rapidamente con il turco: se questi avesse
trovato una buona occasione per scappare prima che Felix riuscisse a tornare
in Italia, Safie sarebbe rimasta a pensione in un convento di Livorno. Quindi,
separandosi dalla bella araba, si affrettò a raggiungere Parigi per consegnarsi
alla vendetta della legge, sperando in questo modo di liberare De Lacey e
Agatha.
«Non gli riuscì. Rimasero agli arresti per cinque mesi, prima che avesse
luogo il processo, la cui sentenza li privò dei loro beni e li bandì per sempre
dal paese natale.
«Trovarono asilo nel miserabile casolare in Germania dove io mi sarei
imbattuto in loro. Felix venne presto a sapere che l’infido turco, a causa del
quale lui e la sua famiglia pativano una tale inaudita oppressione, quando
ebbe scoperto che l’uomo che lo aveva liberato si era, per tale motivo, ridotto
in povertà e impotenza, aveva rinnegato l’onore e tutti i nobili sentimenti e
lasciato l’Italia insieme alla figlia, inviando un’offensiva somma di denaro
come elemosina a Felix per aiutarlo, così disse, a investire sul suo futuro
sostentamento.
«Erano questi gli eventi che straziavano il cuore di Felix rendendolo,
quando lo vidi la prima volta, il più triste della famiglia. Non era la povertà
che gli pesava: se questa disagevole condizione gli fosse toccata per la sua
azione virtuosa, se ne sarebbe potuto anzi gloriare. Erano l’ingratitudine del
turco e la perdita della sua amata Safie le sfortune per lui più dolorose e
irreparabili. Ma l’arrivo dell’araba, adesso, aveva infuso nuova linfa vitale al
suo animo.
«Quando a Livorno giunse la notizia che Felix aveva perso beni e rango,
il mercante ordinò alla figlia di non pensare più al suo innamorato e di
prepararsi a tornare con lui nel loro paese natio. La generosa natura di Safie si
sentì oltraggiata da questo ordine; cercò di discutere con il padre, ma lui si
rifiutò, adirato, reiterando il suo tirannico mandato.
«Pochi giorni dopo il turco entrò nella camera della figlia e le disse, in
fretta e furia, che aveva motivo di credere che si fosse sparsa la voce della sua
residenza a Livorno e che presto sarebbe stato consegnato al governo
francese; di conseguenza, aveva noleggiato un vascello che lo avrebbe
condotto a Costantinopoli e sarebbe partito verso quella destinazione entro
poche ore. Intendeva lasciare la figlia sotto la protezione di un servitore di
fiducia; lei lo avrebbe raggiunto in seguito, con più agio e con quella parte
dei suoi averi, la più ampia, che non era ancora arrivata a Livorno.
«Una volta sola, Safie decise per conto suo qual era il comportamento più
giusto per lei in quella emergenza. L’idea di vivere in Turchia era per lei
intollerabile, vi si opponevano sia la sua religione che i suoi sentimenti. Da
alcune carte del padre finite nelle sue mani venne a sapere dell’esilio del suo
innamorato e il nome del luogo dove allora risiedeva. Esitò qualche tempo,
ma infine concepì la sua decisione. Portando con sé alcuni gioielli che le
appartenevano e una piccola somma di denaro, lasciò l’Italia in compagnia di
una ragazza di Livorno che conosceva la lingua turca e si mise in viaggio per
la Germania.
«Arrivò sana e salva in una città a circa venti leghe dal casolare di De
Lacey, dove la sua accompagnatrice si ammalò gravemente. Safie si prese
cura di lei con il più devoto affetto, ma la povera ragazza morì, e l’araba
rimase sola, senza conoscere la lingua del paese e ignorando completamente
le usanze del mondo. Tuttavia capitò in buone mani. La ragazza italiana
aveva fatto il nome del luogo verso cui erano dirette e così, dopo la sua
morte, la padrona della casa in cui alloggiavano si premurò che Safie
arrivasse sana e salva all’abitazione del suo innamorato.
Capitolo settimo

«Questa era la storia dei miei amati vicini. Mi colpì profondamente. Dalle
scene di vita sociale che presentava imparai ad ammirare le virtù e a
deprecare i vizi del genere umano.
«Il crimine era ancora per me un male distante; sentivo vicine la
benevolenza e la generosità, che accendevano il mio desiderio di essere un
attore sul trafficato palcoscenico dove si richiedeva l’esibizione di tutte quelle
ammirevoli qualità. Ma nel dare conto dello sviluppo del mio intelletto, non
devo omettere una circostanza che si verificò all’inizio del mese di agosto di
quello stesso anno.
«Una notte, durante il mio abituale giro nel bosco circostante, dove mi
procuravo il cibo e raccoglievo la legna per i miei protettori, trovai a terra una
bisaccia di cuoio che conteneva diversi capi d’abbigliamento e dei libri. Mi
impossessai con avidità di quel bottino e lo portai nella mia tana.
Fortunatamente i libri erano scritti nella lingua di cui avevo appreso gli
elementi al casolare: si trattava del Paradiso perduto, un volume delle Vite di
Plutarco e i Dolori del giovane Werther. Il possesso di questi tesori mi donò
grande diletto; ora, quando i miei amici erano impegnati nelle loro ordinarie
occupazioni, passavo il tempo a studiare e a esercitare la mia mente con
quelle storie.
«Mi è difficile descriverti l’effetto di quei libri, che generarono in me
un’infinità di nuove immagini e sensazioni, a volte portandomi all’estasi, più
spesso gettandomi nel più profondo avvilimento. Nei Dolori del giovane
Werther, al di là dell’interesse per la sua semplice e toccante storia, vengono
poste al vaglio così tante opinioni e si fa luce su tante di quelle cose che fino
a quel momento mi erano oscure che vi trovai un’inesauribile fonte di
riflessioni e stupore. Vi sono descritte maniere cortesi e semplici, combinate
a percezioni più alte, relative a qualcosa al di là dei confini personali, che
bene si intonavano alla mia esperienza con i miei protettori e con l’anelito
sempre vivo nel mio stesso petto. Consideravo Werther un essere più divino
di quanti ne avessi potuti incontrare o immaginare; il suo carattere, pur senza
pretese, penetrava in profondità. Le disquisizioni sulla morte e il suicidio
sembravano fatte apposta per riempirmi di meraviglia. Non avevo la
presunzione di entrare nel merito della questione, ma ero incline a
condividere le opinioni dell’eroe, di cui piansi la morte, anche senza
comprenderla bene.
«In ogni caso applicavo molto di quello che leggevo alla mia personale
esperienza e al mio sentire. Mi trovavo simile e al tempo stesso stranamente
diverso dagli esseri di cui leggevo, e da quelli di cui ascoltavo le
conversazioni. Simpatizzavo con loro, in parte li comprendevo, ma la mia
mente era immatura; io non dipendevo da nessuno e con nessuno avevo
legami. “Sgombra era la via della mia dipartita” e nessuno avrebbe lamentato
la mia scomparsa. La mia figura era orrenda, la mia statura gigantesca: cosa
voleva dire tutto questo? Chi ero? Che cosa ero? Da dove venivo? Qual era la
mia destinazione? Queste domande tornavano sempre, ma non riuscivo a
rispondere.
«Il volume delle Vite di Plutarco in mio possesso conteneva le storie dei
primi fondatori delle antiche repubbliche. Questo libro ebbe su di me un
effetto diverso dai Dolori del giovane Werther. Dalle fantasie di Werther
avevo compreso lo sconforto e la tristezza; Plutarco invece mi comunicò
pensieri elevati, portandomi oltre la ristretta sfera delle mie riflessioni, ad
ammirare e amare gli eroi di epoche passate. Molte delle cose che leggevo
erano al di là della mia comprensione e della mia esperienza. Avevo una
cognizione molto confusa di regni, ampie distese di campagna, fiumi possenti
e mari sconfinati. Ma delle città e di altri grandi raggruppamenti di esseri
umani non sapevo proprio nulla. Il casolare dei miei protettori era l’unica
scuola dove avessi studiato la natura umana; questo libro mi dischiudeva
campi d’azione nuovi e più vasti. Lessi di uomini occupati negli affari
pubblici che governavano o massacravano individui della loro stessa specie.
Sentii crescere in me il più grande anelito verso la virtù e la ripugnanza per il
vizio, per quel tanto che capivo del significato di queste parole che, per come
le potevo applicare io, si riferivano solo al piacere e al dolore. Questi
sentimenti mi spingevano ad ammirare i legislatori pacifici come Numa,
Solone e Licurgo, preferendoli a Romolo e a Teseo. Il sistema di vita
patriarcale dei miei protettori permetteva a queste immagini di radicarsi più
saldamente nel mio animo. Se il mio primo contatto con l’umanità fosse
avvenuto attraverso la vita di un giovane soldato, desideroso di gloria e di
stragi, forse sarei stato pervaso da altre sensazioni.
«Ma a provocare in me le emozioni più profonde, e diverse dalle altre, fu
il Paradiso perduto. Lo lessi come avevo letto gli altri volumi finiti nelle mie
mani, cioè come una storia vera. E smosse in me tutto quel senso di
meraviglia e timore che può suscitare l’immagine di un Dio onnipotente in
lotta con le sue creature. Spesso, colpito dalla somiglianza, riportavo le varie
situazioni alle mie. Io, come Adamo, ero stato creato privo di alcun legame
apparente con qualunque altro essere vivente, anche se, a parte questo, la sua
condizione era molto diversa dalla mia: era provenuto dalle mani di Dio come
creatura perfetta, felice e prospera, protetta dalla speciale cura del suo
Creatore; a lui era dato conversare con esseri di natura superiore, e da questi
ricavare conoscenza; io ero miserabile, disperato e solo. Molte volte
considerai che Satana fosse l’emblema più consono alla mia condizione,
perché spesso, come lui, quando osservavo la fortuna dei miei protettori,
sentivo crescere in me l’amaro fiele dell’invidia.
«Un altro episodio rafforzò e confermò questi sentimenti. Poco dopo
essere giunto alla mia tana avevo trovato delle carte nella tasca dell’abito
preso al tuo laboratorio. In un primo momento non vi avevo dato importanza,
ma ora che ero in grado di decifrare i caratteri con cui erano scritte, mi misi a
studiarle attentamente. Era il tuo diario dei quattro mesi che precedettero la
mia creazione. In queste pagine descrivevi con minuzia ogni passo che avevi
compiuto nel corso del tuo lavoro, contrappuntando qua e là la narrazione con
dettagli di vita domestica. Sono sicuro che ricordi queste carte. Eccole. Vi è
riportato tutto quanto concerne la mia maledetta origine; vi è illustrata
dettagliatamente tutta la serie di disgustosi eventi che la produssero; vi è
esposta la più minuziosa descrizione della mia spregevole e ripugnante
persona, con parole che descrivono il tuo orrore e che resero il mio indelebile.
Mi sentivo male nel leggerle. “Infausto il giorno in cui ricevetti la vita!”
esclamai nel tormento. “Maledetto creatore! Perché hai dato forma a un
mostro così orrendo, da cui perfino tu sei rifuggito con disgusto? Dio, nella
sua misericordia, creò l’uomo bello e attraente, a sua immagine e
somiglianza; invece le mie fattezze sono una sconcia versione delle tue, e la
somiglianza le rende ancora più abominevoli. Persino Satana aveva la
compagnia dei suoi diavoli, che lo ammiravano e lo incoraggiavano; io
invece sono solo e detestato”.
«Questi erano i miei pensieri nelle mie ore di sconforto e solitudine. Ma
quando contemplavo le virtù dei miei vicini, dal carattere così amabile e
benigno, mi convincevo che loro, accorgendosi della mia ammirazione per
quelle virtù, avrebbero provato compassione per me, e della mia deformità
non avrebbero tenuto conto. Potevano cacciare via dall’uscio uno che, per
quanto mostruoso, chiedeva soltanto la loro amicizia e pietà? A ogni modo
decisi di non disperare e di prepararmi invece a un incontro con loro che
avrebbe deciso il mio destino. Rimandai ancora di qualche mese, perché davo
una tale importanza al successo del mio tentativo da essere in preda al terrore
all’idea di un fallimento. E poi vedevo che le mie capacità intellettuali
progredivano così tanto con l’esperienza di ogni giorno che non volevo dare
inizio a questa impresa prima che un altro po’ di mesi arricchissero la mia
sapienza.
«Nel frattempo nel casolare v’erano stati alcuni mutamenti. La presenza
di Safie diffondeva felicità tra i suoi abitanti e mi accorsi anche che tra loro
regnava adesso un certo grado di benessere. Felix e Agatha dedicavano più
tempo agli svaghi e alla conversazione ed erano assistiti da inservienti nei
loro lavori. Non sembravano ricchi ma erano soddisfatti e felici, provavano
un senso di serenità e di pace, mentre i miei sentimenti si facevano ogni
giorno più tumultuosi. Con l’accrescersi delle mie conoscenze vedevo
soltanto sempre più chiaramente quant’ero derelitto. Continuavo ad
accarezzare speranze, questo è vero; ma quando vedevo la mia immagine
riflessa sull’acqua, o la mia ombra al chiaro di luna, queste svanivano come
quella fragile immagine e quell’ombra incostante.
«Provai a sconfiggere queste paure e a farmi forte in vista della prova a
cui avevo deciso di sottopormi nel giro di alcuni mesi; a volte lasciavo
persino i miei pensieri liberi di vagare irragionevolmente per campi
paradisiaci e mi spingevo a immaginare creature amabili e dolci che
compativano i miei sentimenti e mi facevano passare la tristezza, alleviandola
con i sorrisi dei loro volti angelici. Ma era solo un sogno: non v’era alcuna
Eva che placasse le mie pene, o con cui condividere i miei pensieri. Ero solo.
Avevo in mente la supplica di Adamo al suo Creatore; ma il mio dov’era? Mi
aveva abbandonato e io, col cuore amaro, lo maledicevo.
«Così passò l’autunno. Vidi, con sorpresa e dispiacere, le foglie appassire
e cadere, e la natura assumere di nuovo l’aspetto arido e tetro che aveva
quando per la prima volta avevo scoperto il bosco e l’amabile luna. Al clima
freddo non facevo troppo caso: la mia conformazione era più adatta a quello
che al caldo. Però provavo un grande diletto alla vista dei fiori, degli uccelli e
di tutti gli allegri ornamenti dell’estate; venendo a mancare questi, prestai più
attenzione agli abitanti del casolare. La loro felicità non diminuiva con la fine
dell’estate. Si amavano e si comprendevano l’un l’altro, la loro gioia
dipendeva da quella dell’altro e non mutava con le transitorie alterazioni del
mondo circostante. Più li vedevo più desideravo chiedere la loro protezione e
il loro affetto; il mio cuore si struggeva d’essere conosciuto e amato da queste
amabili creature, e la mia ambizione più alta era quella di vedere i loro
sguardi rivolti con affetto su di me. Non osavo pensare che li avrebbero
distolti con sdegno e orrore. Non mandavano mai via i poveri che bussavano
alla loro porta. È vero che io chiedevo tesori più preziosi di un po’ di cibo o
riposo; chiedevo gentilezza e simpatia, ma di queste non mi ritenevo del tutto
immeritevole.
«Avanzava l’inverno e così, dal mio risveglio alla vita, si consumava un
intero ciclo di stagioni. In quel periodo ero interamente concentrato sul mio
piano di introdurmi nel casolare dei miei protettori. Valutai molti progetti ma
infine scelsi quello di entrare nell’abitazione quando il vecchio cieco si fosse
trovato da solo. Avevo la sagacia di intuire che la bruttezza innaturale della
mia persona era stato il motivo principale dell’orrore di chi mi aveva
precedentemente incontrato. La mia voce era roca, ma non aveva niente di
terribile; pensai dunque che se in assenza dei suoi figli avessi potuto
conquistare la benevolenza e l’intercessione del vecchio De Lacey, avrei
potuto, grazie a lui, venire tollerato dai miei protettori più giovani.
«Un giorno, quando il sole splendeva sulle foglie rossicce sparse a terra e,
pur negando calore, emanava allegria, Safie, Agatha e Felix andarono a fare
una lunga passeggiata, lasciando il vecchio, per suo desiderio, da solo nel
casolare. Una volta che i figli se ne furono andati, lui prese la sua chitarra e
suonò diverse arie, tristi ma dolci, più dolci e più tristi di quelle che gli avevo
sentito suonare fino ad allora. Dapprima il suo volto era illuminato di letizia
ma, continuando a suonare, le preoccupazioni e la tristezza presero il
sopravvento; infine posò lo strumento e rimase a sedere assorto nei suoi
pensieri.
«Il mio cuore batteva veloce: quella era l’ora, il momento cruciale, che
avrebbe reso decisive le mie speranze, o vere le mie paure. La servitù era a
una fiera nelle vicinanze. V’era solo silenzio, dentro e intorno al casolare.
L’occasione era eccellente eppure, quando mi accinsi all’esecuzione del
piano, mi tremarono le gambe e caddi a terra. Mi rialzai e, esercitando tutta la
fermezza che possedevo, tolsi le tavole che avevo fissato all’ingresso della
mia tana per celare il mio nascondiglio. L’aria fresca mi inebriò e con
rinnovata determinazione mi avvicinai alla porta del loro casolare.
«Bussai. “Chi va là?” disse il vecchio. “Entrate”.
«Entrai e: “Perdonate l’intrusione” dissi, “sono in viaggio e abbisogno di
riposo; mi fareste una grande cortesia, se mi lasciaste restare qualche minuto
vicino al fuoco”.
«“Entrate” disse De Lacey, “proverò a soddisfare i vostri bisogni;
sfortunatamente i miei figli sono via di casa ed essendo io cieco temo che mi
sarà difficile procurarvi del cibo”.
«“Non datevi pena, ospite gentile, il cibo ce l’ho; quello di cui ho bisogno
è un po’ di calore e di riposo”.
«Mi sedetti e poi ci fu silenzio. Sapevo che ogni minuto era per me
prezioso, ma non riuscivo a decidere come iniziare la conversazione, finché
non fu il vecchio a rivolgersi a me.
«“Dal vostro linguaggio, straniero, deduco che siate del mio paese. Siete
francese?”
«“No. Ma sono cresciuto in una famiglia francese, e capisco solo questa
lingua. Intendo chiedere la protezione di alcuni amici che amo sinceramente,
e nutro una certa speranza di ricevere i loro favori”.
«“Sono tedeschi?”
«“No, sono francesi. Ma cambiamo argomento. Sono una creatura
sfortunata e abbandonata; mi guardo intorno e non ho parenti né amici al
mondo. Queste persone amabili, a cui mi rivolgo, non mi hanno mai visto, e
ben poco sanno di me. Ho tanta paura. Se fallisco con loro, sarò per sempre
un reietto”.
«“Non disperate. Non avere amici è certamente una sfortuna. Ma il cuore
degli uomini, se non è prevenuto da qualche evidente interesse personale, è
colmo di amore fraterno e carità. Confidate, dunque, nelle vostre speranze; se
questi amici sono veramente buoni e amorevoli, non c’è da disperare”.
«“Sono gentili, sono le più eccellenti creature del mondo. Ma
sfortunatamente hanno dei pregiudizi su di me. Io ho un buon carattere; fino a
oggi ho condotto una vita innocua e, in qualche modo, benefica; ma v’è un
pregiudizio fatale che gli offusca la vista e invece di vedere un amico
sensibile e gentile, vedono solo un mostro detestabile”.
«“Questa è una vera sfortuna; ma se davvero voi siete innocente, non
potete dimostrargli che si ingannano?”
«“Sto per tentare l’impresa; ed è proprio per questo che provo un terrore
così dirompente. Amo teneramente questi amici; a loro insaputa ho passato
molti mesi a fargli quotidiane gentilezze; ma loro credono che voglia fargli
del male, ed è questo pregiudizio che desidero sconfiggere”.
«“Dove abitano questi amici?”
«“Qui vicino”.
«Il vecchio fece una pausa, poi continuò: “Se mi confiderete senza riserve
i dettagli della vostra storia, forse potrò aiutarvi a farli ricredere. Sono cieco,
non posso giudicare il vostro aspetto. Ma c’è qualcosa nelle vostre parole che
mi induce a credere che siate sincero. Io sono povero, e in esilio; ma mi darà
grande piacere essere in qualche modo di aiuto a una creatura umana”.
«“Uomo eccellente! Vi ringrazio e accetto la vostra generosa offerta. Con
la vostra gentilezza mi sollevate dalla polvere; e confido che con il vostro
aiuto non sarò allontanato dalla comprensione e dalla compagnia dei vostri
simili”.
«“Che il Cielo non voglia! Neanche se foste un vero criminale, perché
questo potrebbe solo condurvi alla disperazione, invece di incitarvi alla virtù.
Anche io sono caduto in disgrazia; io e la mia famiglia siamo stati
condannati, pur essendo innocenti; capirete, dunque, se non posso fare a
meno di compatire le vostre sventure”.
«“Come posso ringraziarvi, mio sommo e unico benefattore? È dalle
vostre labbra che ho sentito per la prima volta rivolgermi parole gentili. Vi
sarò grato per sempre. La vostra comprensione umana mi assicura adesso del
successo con quegli amici che sto per incontrare”.
«“Potrei sapere il nome e il luogo in cui risiedono questi amici?”
«Feci una pausa. Questo, pensai, era il momento decisivo, quello che mi
avrebbe per sempre tolto o donato la felicità. Invano lottai per trovare la
fermezza sufficiente per rispondergli; ma quello sforzo mi privò di tutta
l’energia che mi restava, mi abbandonai su una sedia e scoppiai in singhiozzi.
E in quel momento udii i passi dei miei protettori più giovani. Non avevo un
momento da perdere; afferrai la mano del vecchio e gridai: “Adesso, questo è
il momento! Salvatemi e proteggetemi! Siete voi e la vostra famiglia gli amici
che cerco. Non mi abbandonate nell’ora del giudizio!”
«“Buon Dio!’ esclamò il vecchio. “Chi siete?”
«In quel momento si aprì la porta del casolare ed entrarono Felix, Safie e
Agatha. Chi potrebbe descrivere l’orrore e la costernazione che provarono nel
vedermi? Agatha svenne e Safie, non essendo in grado di soccorrerla, scappò
fuori. Felix balzò in avanti e con una forza soprannaturale mi strappò da suo
padre, alle cui ginocchia ero avvinto; in un impeto di furia, mi scaraventò a
terra e mi colpì violentemente con un bastone. Avrei potuto lacerarlo come il
leone sbrindella l’antilope. Ma mi mancò il cuore, che si affossò nel petto per
l’acuto dolore, e mi trattenni. Quando lo vidi sul punto di riassestare il colpo,
sconvolto da angoscia e dolore, scappai dal casolare e nel tumulto generale
riuscii a rifugiarmi, non visto, nella mia tana.
Capitolo ottavo

«Dannato, dannato creatore! Perché ero ancora vivo? Perché in quell’istante


non si estinse la scintilla di vita che tu, così sconsideratamente, avevi acceso
in me? Non lo so; la disperazione non si era ancora impadronita di me; quello
che provavo era rabbia e desiderio di vendetta. Avrei potuto godere nel
distruggere il casolare con tutti i suoi abitanti, e mi sarei saziato delle loro
grida e dei loro tormenti.
«Quando giunse la notte, lasciai il mio rifugio e vagai per il bosco; ormai
non temevo più di essere scoperto, quindi sfogai la mia angoscia in
spaventosi ululati. Ero come una bestia selvaggia che avesse spezzato le
catene, distruggevo tutto ciò che ostruiva il mio cammino e correvo per il
bosco con la velocità di un cervo. Oh, che notte miserabile passai! Le algide
stelle brillavano beffarde e gli alberi agitavano i loro rami spogli su di me; di
tanto in tanto la dolce voce di un uccello interrompeva quel cosmico silenzio.
Tutto intorno a me godeva del riposo o del piacere, tutto tranne me, che come
l’arcidiavolo portavo dentro l’inferno; non trovando alcuna comunione,
desideravo sradicare gli alberi, spargere intorno a me rovina e distruzione, per
poi sedermi a godere di quelle macerie.
«L’esuberanza di queste sensazioni non poteva durare; mi stancai per la
fatica dell’eccessivo sforzo fisico e sprofondai nell’erba umida in preda alla
malsana impotenza della disperazione. Non v’era nessuno, tra le miriadi di
esseri umani esistenti, che sarebbe stato mosso a compassione per me o mi
avrebbe aiutato; perché avrei dovuto, allora, provare fratellanza per i miei
nemici? No, da quel momento dichiarai guerra eterna alla specie umana, ma
soprattutto a colui che mi aveva dato forma, gettandomi in questa
intollerabile sofferenza.
«Il sole si levò. Udii voci di uomini e capii di non poter tornare al mio
rifugio durante il giorno. Quindi mi nascosi nella fitta boscaglia, determinato
a trascorrere le ore seguenti a riflettere sulla mia situazione.
«La piacevole luce del sole e l’aria pura del giorno ristabilirono in me una
certa tranquillità, e nel ripensare a quanto accaduto al casolare non potei fare
a meno di credere di essere stato troppo avventato nel trarre conclusioni.
Avevo senz’altro agito in modo poco prudente. La mia conversazione aveva
evidentemente suscitato interesse nei miei confronti da parte del padre, ed ero
stato un folle ad avere esposto la mia figura allo sguardo orripilato dei suoi
figli. Avrei dovuto prima familiarizzare con il vecchio De Lacey, e solo col
tempo mi sarei dovuto rivelare al resto della famiglia, quando fossero stati
più pronti all’incontro. Ma quegli errori non mi sembrarono irreparabili, e
dopo averci pensato a lungo decisi di tornare al casolare, cercare il vecchio e
ripresentandomi a lui portarlo dalla mia parte.
«Questi pensieri mi calmarono e nel pomeriggio caddi in un sonno
profondo. Il mio sangue però era in subbuglio e non mi concesse sogni
tranquilli. L’orribile scena del giorno precedente mi si ripresentava sempre: le
donne scappavano e Felix mi strappava via rabbiosamente dai piedi di suo
padre. Mi svegliai che ero esausto e, vedendo che era già notte, sgattaiolai
fuori dal mio nascondiglio e andai in cerca di cibo.
«Placata la fame, indirizzai i miei passi lungo il ben noto sentiero che
portava al casolare. Lì tutto era tranquillo. Mi infilai nella mia tana e restai in
silenziosa attesa dell’ora in cui solitamente la famiglia si alzava. Quell’ora
passò, il sole salì alto nel cielo, ma gli abitanti del casolare non si vedevano.
Tremai al pensiero di una qualche terribile sciagura. L’interno del casolare
era buio e non sentivo muoversi niente; non so descrivere l’ansia di
quell’attesa.
«Di lì a poco passarono due contadini, che si fermarono nei pressi del
casolare e iniziarono a parlare gesticolando con veemenza; io però non capii
cosa dicevano, perché parlavano la lingua del paese, diversa da quella dei
miei protettori. A ogni modo presto arrivò Felix con un altro uomo. Ne fui
sorpreso, perché a me non risultava avesse lasciato il casolare la mattina
addietro ed ero ansioso di scoprire dalle sue parole il motivo di quell’insolita
situazione.
«“Siete consapevole” gli disse il suo compagno “che avrete l’obbligo di
pagare tre mesi di affitto e che perderete i prodotti dell’orto? Non voglio
approfittare ingiustamente di voi e dunque vi prego di prendervi qualche
giorno per riflettere sulla vostra decisione”.
«“È del tutto inutile” replicò Felix, “non possiamo più abitare nel vostro
casolare. La vita di mio padre è in grande pericolo per i terribili fatti che vi ho
raccontato. Mia moglie e mia sorella non si riprenderanno mai dallo
spavento. Vi supplico di non discuterne più con me. Riprendete possesso
della vostra proprietà e lasciatemi andar via da questo posto”.
«Nel dire queste parole Felix tremava. Lui e il compagno entrarono nel
casolare, dove rimasero alcuni minuti, e poi se ne andarono. Non vidi più
nessun membro della famiglia De Lacey.
«Passai il resto della giornata nella mia tana, in uno stato di totale e
instupidita disperazione. I miei protettori se ne erano andati, spezzando
l’unico vincolo che mi legava al mondo. Per la prima volta, sentendo nascere
nel mio petto sentimenti di odio e di vendetta, non tentai di placarli, ma mi
lasciai portare dalla loro corrente, volgendo la mia mente a pensieri di
oltraggio e di morte. Se ripensavo ai miei amici, alla voce pacata di De
Lacey, ai dolci occhi di Agatha e alla squisita bellezza dell’araba, questi
pensieri svanivano, e le lacrime che sgorgavano dai miei occhi mi placavano
un po’. Ma quando poi mi ricordavo che loro mi avevano respinto e
abbandonato, la rabbia tornava, una rabbia furiosa; a quel punto,
nell’impossibilità di nuocere ad alcunché di umano, volgevo la mia ira contro
gli oggetti inanimati. Al calar della notte, disposi vari oggetti combustibili
intorno al casolare e, dopo aver distrutto qualunque traccia di coltivazione
nell’orto, mi imposi di attendere con insofferenza il tramonto della luna per
dare inizio alle mie manovre.
«Con l’avanzare della notte dal bosco salì un forte vento che rapidamente
disperse le nuvole che ingombravano il cielo; le raffiche arrivavano con
l’impeto di una valanga, generando nel mio spirito una sorta di follia che
infranse tutti i limiti della ragione e del buon senso. Accesi il ramo secco di
un albero e mi misi a danzare, con furia, intorno all’amato casolare, con lo
sguardo sempre puntato a ovest, sulla linea dell’orizzonte già lambita dalla
luna. Quando infine una parte della sua orbita era ormai nascosta, agitai il
mio tizzone; poi la luna sparì, e lanciando un fragoroso grido diedi fuoco alla
paglia, agli sterpi e ai cespugli che avevo radunato. Il vento alimentava il
fuoco, e il casolare fu presto avvolto dalle fiamme, che lo assediarono
lambendolo con le loro lingue biforcute e distruttrici.
«Quando fui certo che nessuna parte dell’abitazione potesse essere
salvata, abbandonai la scena e cercai rifugio nel bosco.
«E adesso, con tutto il mondo davanti a me, dove avrei diretto i miei
passi? Scelsi di allontanarmi il più possibile dal luogo delle mie sciagure; ma
per me, un essere odiato e disprezzato, qualunque posto sarebbe stato orribile.
Infine la mia mente fu attraversata dal pensiero di te. Avevo appreso dalle tue
carte che tu eri mio padre, il mio creatore; a chi avrei potuto rivolgermi più
opportunamente che a colui che mi aveva dato la vita? Nelle lezioni impartite
da Felix a Safie non era stata omessa la geografia e da queste avevo appreso
la disposizione dei diversi paesi della terra. Scrivevi che Ginevra era il nome
del tuo paese natale e quindi decisi di andare in quella direzione.
«Ma come potevo orientarmi? Sapevo solo che per raggiungere la mia
destinazione dovevo viaggiare verso sud e solamente il sole poteva farmi da
guida. Non conoscevo i nomi delle città che avrei attraversato, né potevo
chiedere informazioni a un essere umano; eppure non disperai. Solo da te
potevo sperare di ottenere un qualche soccorso, anche se nei tuoi confronti
non provavo altro che odio. Creatore insensibile e senza cuore! Mi avevi
dotato di percezioni e passioni e poi mi avevi gettato via, lasciandomi oggetto
di scorno e di orrore per l’umanità. Ma solamente da te potevo reclamare
compassione e risarcimento, e decisi che avrei cercato in te quella giustizia
che invano tentavo di ricevere da qualunque altro essere che avesse forma
umana.
«Il mio viaggio fu lungo, e intense le sofferenze che sopportai. Era ormai
autunno inoltrato quando me ne andai dalla zona dove avevo risieduto così a
lungo. Viaggiavo solo di notte, per paura di incontrare il volto di un essere
umano. Intorno a me la natura deperiva, mentre il sole perdeva calore; intorno
a me cadevano la pioggia e la neve. I grandi fiumi erano ghiacciati, la
superficie della terra dura e fredda e nuda, e non trovavo riparo. Oh, terra,
quante volte ho imprecato contro la causa della mia esistenza! Dalla mia
natura era svanita ogni mitezza e tutto in me s’era cambiato in fiele ed
amarezza. Più mi avvicinavo alla tua residenza, più sentivo lo spirito della
vendetta infiammare il mio cuore. Cadeva la neve, le acque erano ghiacciate,
ma io non mi fermavo. Di tanto in tanto capitava qualcosa che mi indicava la
via, e con me avevo una mappa del paese; ciononostante spesso vagavo fuori
rotta, allontanandomi dalla mia strada. Lo strazio dei miei sentimenti non mi
dava tregua; non v’era occasione che non fosse di nutrimento alla mia ira e al
mio sconforto. Ma v’è una cosa in particolare, che accadde al mio arrivo ai
confini della Svizzera, quando ormai il sole aveva riacquistato il suo calore e
la terra si era rivestita nuovamente di verde, che confermò in modo speciale
l’amarezza e l’orrore dei miei sentimenti.
«Di solito durante il giorno riposavo e viaggiavo soltanto quando la notte
mi proteggeva dalla vista degli uomini. Una mattina, però, dato che il mio
percorso procedeva per un fitto bosco, mi avventurai a continuare il viaggio
dopo che il sole era sorto; la giornata, una delle prime della primavera,
allietava persino me, grazie all’amabile luce del sole e alla fragranza
dell’aria. Sentivo risvegliarsi emozioni che mi erano parse morte da tempo,
come la dolcezza e il piacere. Mezzo sorpreso dalla novità di queste
sensazioni, mi concessi di abbandonarmici e, dimenticando la mia solitudine
e la mia deformità, osai essere felice. Un pianto sommesso nuovamente irrorò
le mie guance e arrivai persino a sollevare al cielo gli occhi umidi di lacrime,
con gratitudine per quel sole benedetto che dispensava tanta gioia su di me.
«Continuai a seguire i tortuosi sentieri del bosco finché giunsi al suo
limitare, segnato da un fiume rapido e profondo, verso il quale molti alberi
piegavano i loro rami, ora carichi di freschi boccioli primaverili. Qui mi
fermai, non sapendo esattamente quale strada seguire, quando sentii delle
voci che mi indussero a nascondermi all’ombra di un cipresso. Mi ero appena
nascosto che una ragazzina avanzò correndo verso il luogo dove mi celavo,
ridendo, come se per gioco scappasse da qualcuno. Continuava a correre
lungo le rive scoscese del fiume, quando d’un tratto un piede le scivolò e lei
cadde nella corrente impetuosa. Subito mi precipitai dal mio nascondiglio e,
faticando non poco contro la forza della corrente, riuscii a metterla in salvo e
la trascinai a riva. Aveva perso i sensi e io cercai con tutto ciò che era in mio
potere di rianimarla, quando venni interrotto dall’improvviso apparire di un
contadino, probabilmente l’uomo da cui lei stava scappando per gioco.
Vedendomi, si scagliò contro di me e, strappatami la ragazza dalle braccia, si
affrettò verso la zona più folta del bosco. Li rincorsi, senza sapere davvero il
perché; ma quando l’uomo mi vide avvicinarmi, puntò contro il mio corpo il
fucile che portava con sé e sparò. Stramazzai al suolo e l’uomo che mi aveva
ferito scappò, ancora più svelto, nel bosco.
«Questo era dunque il premio per la mia buona azione? Avevo salvato
dalla morte un essere umano e, come ricompensa, ora mi contorcevo per
l’acuto dolore di una ferita che mi aveva dilaniato la carne fino all’osso. A
quei sentimenti di bontà e gentilezza che mi ero concesso fino a pochi minuti
prima, si sostituirono una rabbia infernale e il digrignare dei denti.
Infiammato dal dolore, giurai eterno odio e vendetta al genere umano. Poi lo
strazio della mia ferita mi sopraffece e svenni.
«Per alcune settimane condussi una misera vita nei boschi, tentando di
curare la ferita ricevuta. Il proiettile mi era entrato nella spalla e non sapevo
se l’aveva attraversata o era ancora lì. In ogni caso, non avevo modo di
estrarlo. Le mie sofferenze erano accresciute dall’oppressiva sensazione
dell’ingiustizia e dell’ingratitudine in conseguenza delle quali mi erano state
inflitte. Ogni giorno facevo nuovi voti di vendetta, una vendetta profonda e
mortale, tale da compensare gli oltraggi e il tormento che avevo sopportato.
«Dopo alcune settimane la ferita guarì e ripresi il viaggio. Le mie fatiche
non erano più alleviate dal sole splendente o dalla dolce brezza di primavera;
ogni gioia era solo una beffa, un insulto alla mia desolante condizione, che
riusciva soltanto a farmi sentire più amaramente che non ero fatto per godere
alcun piacere.
«Ma le mie tribolazioni stavano per terminare; e nel giro di due mesi
arrivai nei dintorni di Ginevra.
«Arrivai di sera e mi rifugiai in un nascondiglio nei campi che la
circondano, per meditare su come rivolgermi a te. Ero oppresso da fame e
fatica e troppo infelice per godermi la gentile brezza della sera, o la vista del
sole che tramontava dietro le stupende montagne del Giura.
«Ad alleviare i miei pensieri sopraggiunse a questo punto un sonno
leggero, che venne disturbato dall’arrivo di un bellissimo bambino che
correva con tutta l’esuberanza dell’infanzia verso il rifugio che mi ero scelto.
D’un tratto, mentre lo guardavo, mi venne in mente che quella piccola
creatura potesse essere priva di pregiudizi e avesse vissuto troppo poco per
avere assimilato il senso dell’orrore per la deformità. Se quindi fossi riuscito
a catturarlo e a crescerlo come mio compagno e amico, non sarei stato così
solo su questa popolosa terra.
«Spinto da questo impulso, afferrai il ragazzo che passava e lo tirai a me.
Appena mi vide si mise le mani sugli occhi ed emise un grido acuto; io gli
scostai a forza le mani dal viso e dissi: “Bimbo mio, che vuol dire tutto
questo? Non intendo farti del male, ascoltami”.
«Si dimenava violentemente. “Lasciami andare” gridava. “Mostro! Brutto
cattivo! Mi vuoi mangiare, vuoi farmi a pezzi. Sei un orco. Lasciami o lo dico
a papà”.
«“Ragazzino, tu non vedrai mai più tuo padre. Verrai con me”.
«“Orribile mostro, lasciami! Mio papà è una persona importante, è
Monsieur Frankenstein, ti punirà. Non puoi tenermi con te”.
«“Frankenstein! Appartieni dunque al mio nemico, a colui a cui ho
giurato eterna vendetta. Sarai la mia prima vittima”.
«Il bambino continuava a dimenarsi e mi copriva di insulti che arrecavano
disperazione al mio cuore; afferrai la sua gola per farlo stare zitto e in un
momento me lo trovai steso ai piedi, morto.
«Guardavo la mia vittima e il mio cuore si gonfiava di un esaltante,
infernale trionfo. Battei le mani e dissi: “Anche io posso creare
annientamento. Il mio nemico non è invulnerabile. Questa morte gli recherà
disperazione. E migliaia di altre sciagure lo tormenteranno fino a
distruggerlo”.
«Tenendo gli occhi fissi sul bambino vidi qualcosa di luccicante sul suo
petto. Lo presi. Era il ritratto di una bellissima donna. Nonostante la mia
cattiveria, mi intenerì e mi incantò. Per qualche momento contemplai con
delizia quei suoi occhi scuri ornati di folte ciglia e le sue belle labbra; ma
molto presto la rabbia tornò. Mi ricordai che ero stato privato per sempre
delle gioie che possono arrecare creature così belle e che lei, quella di cui
contemplavo le fattezze, vedendo me avrebbe perso quell’aria di divina
benevolenza per acquistarne una di disgusto e spavento.
«Ti meraviglia che questi pensieri mi portassero all’ira? Io mi meraviglio
soltanto di come, in quel momento, invece di sfogare le mie sensazioni in
esclamazioni di tormento, non mi sia gettato in mezzo agli uomini, per perire
nel tentativo di distruggerli.
«Ancora in preda a questi sentimenti, lasciai il luogo del delitto in cerca
di un nascondiglio più riparato, quando scorsi una donna che mi passava
vicino. Era giovane, non così bella in effetti come quella del ritratto che
portavo con me, ma di aspetto gradevole e nel fiore degli anni e della salute.
Eccone un’altra di quelle i cui sorrisi sono rivolti a tutti tranne che a me,
pensai. Non mi sfuggirà; dalle lezioni di Felix e dalle sanguinose leggi
dell’uomo, avevo appreso a fare il male. Mi avvicinai a lei e senza farmi
accorgere infilai il ritratto in una delle tasche del suo abito.
«Per alcuni giorni mi aggirai nel luogo dove si erano svolti questi
avvenimenti; a volte con il desiderio di incontrarti, a volte deciso a lasciare
per sempre il mondo e le sue miserie. Infine mi diressi verso queste montagne
e ho vagato per tutti i loro immensi recessi, consumato da una passione
cocente che solo tu puoi soddisfare. Non ci potremo separare fino a che non
mi avrai promesso di acconsentire alla mia richiesta. Sono solo e infelice.
L’essere umano non si accompagnerà mai a me. Ma una creatura altrettanto
deforme e orribile non si negherebbe alla mia compagnia, se fosse della
stessa specie e avesse i miei stessi difetti. Devi creare questo essere».
Capitolo nono

Quell’essere finì di parlare, fissando gli occhi su di me, in attesa di risposta.


Io ero scioccato, stupefatto e incapace di organizzare i miei pensieri per poter
comprendere appieno la portata della sua richiesta. Quindi lui ricominciò:
«Devi creare una femmina per me, con la quale io possa vivere nel reciproco
scambio di quegli affetti necessari al mio essere. Questo puoi farlo solo tu. E
io lo richiedo a te come un diritto che non mi devi rifiutare». L’ultima parte
della sua storia aveva riacceso in me la rabbia che si era dissolta nel corso del
racconto della sua vita tranquilla tra gli abitanti del casolare. Così, quando
disse queste parole, non potei più sopprimere l’ira che mi bruciava dentro.
«Mi rifiuto» risposi, «nessuna tortura mi estorcerà il consenso a una cosa
del genere. Puoi farmi diventare il più infelice degli uomini, ma non mi
renderai mai ignobile ai miei stessi occhi. Dovrei creare un altro come te,
perché uniate la vostra malvagità nel devastare il mondo? Sparisci! Ti ho
risposto: torturami se vuoi, ma non acconsentirò mai».
«Hai torto» replicò il demone, «e invece di minacciare io sono disposto a
ragionare con te. Sono malvagio perché sono infelice: non sono forse respinto
e odiato dall’intera umanità? Tu stesso, che mi hai creato, esulteresti nel
farmi a pezzi; allora, tenendo questo a mente, dimmi un po’ perché dovrei
avere pietà dell’uomo più di quanta l’uomo ne abbia per me? Se tu potessi
gettarmi giù da uno di questi crepacci ghiacciati, facendo a pezzi il mio
corpo, opera delle tue mani, non lo chiameresti nemmeno delitto. Dovrei
rispettare l’uomo, quando l’uomo mi condanna? Che viva con me nel mutuo
scambio di gentilezze e io non gli farò più del male, ma lo coprirò di
attenzioni piangendo lacrime di gratitudine per la sua accoglienza. Ma questo
non può essere; i sensi umani sono una barriera insormontabile per la nostra
relazione. Però la mia non sarà l’abietta sottomissione dello schiavo.
Vendicherò le mie offese: se non posso ispirare amore, provocherò paura. E
soprattutto nei tuoi confronti, il mio arcinemico, in quanto mio creatore, giuro
di perpetuare un odio inestinguibile. Fa’ attenzione; lavorerò alla tua
distruzione e andrò avanti fino a devastarti il cuore, fino a farti maledire il
giorno in cui sei nato».
Nel dire questo era animato da una rabbia diabolica che gli straziava il
volto in contorsioni troppo orribili per essere viste da occhio umano; di lì a
poco, però, si calmò, e proseguì: «Volevo ragionare con te. Questi accessi di
passione mi sono nocivi, perché tu non ti rendi conto di esserne la causa. Se
un qualunque essere provasse per me dei moti di benevolenza, io li
ricambierei cento e cento volte; e in nome di quella creatura, farei pace con
tutta la specie! Ma ora mi sto lasciando andare a sogni di gioia che non si
possono realizzare. Quello che ti chiedo è ragionevole e moderato. Reclamo
una creatura dell’altro sesso, ma brutta come me; una piccola gratificazione,
ma è tutto ciò che posso avere, e mi accontenterò. È vero, saremo mostri,
tagliati fuori dal mondo; ma questo ci unirà ancora di più l’uno all’altra. Non
avremo una vita felice, ma indolore, e libera dal tormento che provo adesso!
Oh, mio creatore, fammi felice! Fammi provare, per una volta, gratitudine per
te! Fammi provare l’esperienza di suscitare simpatia in una cosa vivente, non
rifiutare la mia richiesta!»
Mi commosse. Rabbrividivo al pensiero delle possibili conseguenze del
mio consenso, ma sentivo che nel suo ragionamento v’era un che di giusto. Il
suo racconto e i sentimenti che aveva ora espresso dimostravano che era un
essere d’animo sensibile; e io, il suo creatore, non gli dovevo forse quella
porzione di felicità che era in mio potere donargli? Lui si accorse che i miei
sentimenti erano mutati, e continuò: «Se acconsenti, né tu né alcun altro
essere umano ci vedrà mai più. Mi trasferirò nelle ampie terre selvagge del
Sudamerica. Io non mi nutro come gli uomini; non uccido l’agnello e il
capretto per soddisfare la mia gola; ghiande e bacche sono per me nutrimento
sufficiente. La mia compagna avrà la mia stessa natura e si accontenterà della
stessa dieta. Faremo i nostri letti con le foglie secche; il sole splenderà su di
noi come sull’uomo, e renderà maturo il nostro cibo. Il quadro che ti presento
è pacifico, è umano; il tuo rifiuto potrebbe venire soltanto da un capriccio di
potere e crudeltà, dovresti rendertene conto. Sei stato spietato con me, ma ora
vedo la compassione nei tuoi occhi; lascia che colga il momento favorevole e
ti persuada a promettermi quello che desidero così ardentemente».
«Ti proponi» replicai «di allontanarti dai luoghi abitati dall’uomo e
andare a vivere in quelle terre selvagge in cui a farti compagnia saranno solo
le bestie dei campi. Come potrai, tu che tanto brami l’amore e la simpatia
degli uomini, perseverare in questo esilio? Tornerai, nuovamente cercherai la
loro gentilezza, incontrando il loro disprezzo; le tue diaboliche passioni si
riaccenderanno e a quel punto avrai anche qualcuno ad aiutarti nel tuo
mandato di distruzione. No, non può essere; smettila di ragionare su questo
argomento, non posso acconsentire».
«Come sono incostanti i tuoi sentimenti! Solo un momento fa la mia
istanza ti ha commosso e adesso perché ti indurisci di nuovo contro le mie
lamentele? Ti giuro, sulla terra che abito, e su te che mi hai fatto, che con la
compagna che mi procurerai abbandonerò la compagnia degli uomini e vivrò
alla ventura nei luoghi più selvaggi. Le mie diaboliche passioni svaniranno
quando incontrerò la simpatia di qualcuno; la mia vita scorrerà tranquilla e, in
punto di morte, non maledirò il mio creatore».
Le sue parole ebbero uno strano effetto su di me. Avevo compassione per
lui, a volte quasi desideravo consolarlo; ma quando lo guardavo, quando
vedevo quella massa sconcia muoversi e parlare, mi si agghiacciava il cuore e
i miei sentimenti si mutavano in odio e orrore. Cercai di soffocare quelle
sensazioni; mi dissi che il fatto che non potessi provare simpatia per lui non
mi dava il diritto di negargli quella piccola porzione di felicità che era ancora
in mio potere conferirgli.
«Tu giuri» dissi «che non farai del male; ma non hai già dimostrato un
grado di malvagità per cui non dovrei ragionevolmente fidarmi di te? Non
potrebbe essere anche questo un trucco per accrescere il tuo trionfo,
espandendo la portata della tua vendetta?»
«Che cosa dici? Pensavo di averti mosso a compassione e invece ancora ti
rifiuti di concedermi l’unico beneficio che può addolcirmi il cuore e rendermi
innocuo. Finché non avrò legami né affetti, mi nutrirò di odio e cattiveria;
con l’amore di qualcuno scomparirà la causa dei miei crimini, e diventerò una
cosa di cui nessuno conoscerà l’esistenza. I miei vizi sono figli di una
solitudine forzata che aborro; quando vivrò in comunione con un mio simile,
sarà inevitabile che le mie virtù vengano a galla. Proverò gli affetti di un
essere sensibile, e mi connetterò con la catena dell’essere e degli eventi da cui
ora sono escluso».
Mi presi del tempo per riflettere su tutto quello che mi aveva raccontato e
le varie argomentazioni che aveva sostenuto. Pensai alla promessa di virtù
che aveva mostrato all’inizio della sua esistenza e al successivo arrugginirsi
di ogni sentimento gentile a causa del disgusto e del disprezzo che gli
avevano manifestato i suoi protettori. Non trascuravo, nei miei ragionamenti,
la sua notevole forza e le sue minacce: una creatura in grado di sopravvivere
nelle caverne dei ghiacciai e di nascondersi a chi lo insegue tra le creste di
precipizi inaccessibili era un essere che possedeva facoltà con cui era vano
mettersi in competizione. Dopo una lunga pausa di riflessione, conclusi che la
giustizia dovuta sia a lui che ai miei simili mi obbligava ad accogliere la sua
richiesta. Dunque volgendomi a lui dissi: «Acconsento alla tua pretesa,
fidando nel tuo solenne giuramento che lascerai per sempre l’Europa, e
qualunque altro posto nelle vicinanze dei luoghi abitati dall’uomo, appena
affiderò alle tue mani una femmina che ti accompagni nel tuo esilio».
«Giuro» gridò «che se soddisferai la mia preghiera, finché vi saranno il
sole e l’azzurra volta del cielo, non mi vedrai mai più! Avviati verso casa e
comincia il tuo lavoro; ne osserverò il progresso con indicibile ansia; e non
temere di rivedermi prima che tu sia pronto».
Così dicendo mi lasciò immediatamente, temendo forse che cambiassi
idea. Lo vidi scendere dalla montagna più veloce di un’aquila in volo, e
presto lo persi di vista tra le onde di quel mare di ghiaccio.
Il suo racconto aveva preso tutta la giornata e il sole era al limitare
dell’orizzonte quando lui se ne andò. Sapevo di dovermi affrettare a scendere
a valle, perché sarei stato presto avvolto dalle tenebre, ma il mio cuore era
pesante e il mio passo lento. Mi sentivo smarrito per lo sforzo di percorrere
quei sentieri tortuosi tra le montagne, facendo attenzione ad avanzare con
piedi ben saldi al terreno, mentre ero attraversato da tutte le emozioni
generate dai fatti di quel giorno. Era già notte fonda quando giunsi alla
piazzola di riposo, situata a metà strada, e mi sedetti accanto alla fontana. La
luce delle stelle veniva oscurata a tratti dal passaggio delle nuvole; davanti a
me si ergevano i pini scuri, e qui e là v’era un albero spezzato steso a terra.
Quel paesaggio aveva una solennità straordinaria che suscitò in me strani
pensieri. Piansi amaramente e a mani giunte, e in preda all’angoscia esclamai:
«Oh, voi nuvole e stelle, voi venti, sembrate lì a prendervi gioco di me!
Abbiate pietà, annientate i miei sensi e i miei ricordi, riducetemi a un nulla.
Altrimenti, andatevene, andate via e lasciatemi al buio».
Erano pensieri folli e disperati, ma non so dirvi quanto gravasse su di me
l’eterno luccicare delle stelle e come fossi in ascolto di ogni raffica di vento,
quasi fosse un pesante e torbido scirocco in procinto di consumarmi.
Era già l’alba quando arrivai al villaggio di Chamonix. La mia presenza,
con l’aria strana e sparuta che avevo, a malapena placò le paure dei miei
famigliari, che avevano passato la notte nell’ansiosa attesa del mio ritorno.
Il giorno dopo tornammo a Ginevra. Mio padre era partito con
l’intenzione di farmi distrarre e riportarmi alla pace perduta, ma la medicina
era stata fatale. Ora, non riuscendo lui a capire il perché di quell’eccesso di
sconforto che mostravo, affrettò il nostro rientro a casa, nella speranza che la
monotona quiete della vita domestica avrebbe gradualmente alleviato le mie
sofferenze, qualunque fosse la causa da cui sorgevano.
Da parte mia, lasciavo passivamente che fossero loro a prendere decisioni
e il gentile affetto della mia amata Elizabeth non bastava a tirarmi fuori dalla
mia profonda disperazione. La promessa fatta al mostro pesava sulla mia
mente come la cappa di piombo sul capo degli ipocriti nell’Inferno di Dante.
Tutti i piaceri del cielo e della terra mi passavano davanti come in un sogno;
soltanto quel pensiero aveva per me realtà concreta. C’è da stupirsi allora se
talvolta venivo preso da una specie di follia o che vedessi di continuo intorno
a me una moltitudine di bestie rognose che mi infliggevano incessanti torture
e che spesso mi strappavano grida e cupi lamenti?
A poco a poco, tuttavia, questi sentimenti si placarono. Tornai sulla scena
della vita di tutti i giorni, se non con interesse, almeno con un certo grado di
tranquillità.

FINE DEL VOLUME SECONDO


Volume terzo
Capitolo primo

I giorni passavano, passavano le settimane e dal mio ritorno a Ginevra non


riuscivo a trovare il coraggio per rimettermi all’opera. Temevo la vendetta di
quel demone deluso, ma non riuscivo a superare la mia ripugnanza per il
compito che mi era stato ingiunto. Sapevo di non poter comporre una
femmina senza dedicare, nuovamente, parecchi mesi allo studio approfondito
e a laboriose disamine. Avevo sentito di alcune scoperte fatte da un filosofo
inglese, la cui conoscenza era essenziale alla mia riuscita, e ogni tanto
pensavo di chiedere il permesso di mio padre per andare in Inghilterra a
questo scopo. Ma mi attaccavo a ogni pretesto per rinviare; non riuscivo a
decidermi a interrompere lo stato di tranquillità che stavo riacquistando. La
mia salute, così provata fino ad allora, era molto migliorata e con questa il
mio stato d’animo, quando non veniva turbato dal ricordo dell’infelice
promessa da me fatta. Mio padre osservava questo cambiamento con piacere
e rivolgeva i suoi pensieri al modo migliore di sradicare quel che restava
della mia malinconia, che di tanto in tanto mi assaliva inghiottendo nel buio
la luce che si era fatta strada. In quei momenti mi ritraevo in completa
solitudine. Passavo da solo intere giornate in una piccola barca sul lago, a
guardare le nuvole e ad ascoltare l’incresparsi delle onde, in un apatico
silenzio. Ma l’aria fresca e il sole splendente quasi sempre mi riportavano a
una certa padronanza di me, per cui al ritorno ero in grado di rispondere al
saluto dei miei famigliari con un sorriso più pronto e a cuore più leggero.
Fu dopo il mio ritorno da una di queste uscite che mio padre mi chiamò in
disparte e mi disse: «Caro figlio, sono felice di osservare che tu abbia
riconquistato il tuo piacere di vivere e che sembri ritornato in te. Ma vedo che
sei ancora infelice, e ancora eviti la nostra compagnia. Per un po’ mi sono
perso in congetture per scoprire la causa di tutto questo, fino a che ieri mi è
venuto un pensiero che, se fosse fondato, ti imploro di ammettere
apertamente. La riservatezza su una questione del genere non solo sarebbe
inutile ma trascinerebbe tutti noi in una triplice infelicità».
Questo esordio mi fece tremare violentemente. Mio padre proseguì:
«Confesso, figlio mio, di avere sempre guardato al tuo matrimonio con tua
cugina come al consolidamento della nostra serenità domestica e al sostegno
della mia vecchiaia. Avete legato fin dalla tenera infanzia; avete studiato
insieme e siete sempre apparsi, nel carattere e nei gusti, fatti l’uno per l’altra.
Ma è così cieco l’uomo nella sua esperienza che forse proprio quelle che mi
sembravano le condizioni favorevoli alla realizzazione del mio piano sono
quelle che lo hanno distrutto. Tu forse la vedi come una sorella, senza
provare il desiderio che divenga tua moglie. Potresti avere incontrato un’altra
donna che ami, ma ti ritieni stretto a un vincolo di onore con tua cugina; e
questo conflitto in te è l’origine dell’amara tristezza che manifesti di sentire».
«Mio caro padre, rassicuratevi. Amo mia cugina con sincerità e tenerezza.
Non ho mai incontrato una donna che stimolasse, come Elizabeth, la mia più
calda ammirazione e il mio affetto. Ogni mia speranza e progetto futuro sono
riposti nell’attesa della nostra unione».
«L’espressione dei tuoi sentimenti su questo argomento, mio caro Victor,
mi dà il più grande piacere che abbia provato da qualche tempo a questa
parte. Se questo è quello che provi, di sicuro saremo felici, nonostante
l’ombra di tristezza che gli ultimi eventi hanno gettato su di noi. Ma questa
tristezza, che sembra avere preso un così forte possesso del tuo spirito, io la
vorrei dissipare. Dimmi dunque se hai qualcosa in contrario a un’immediata
celebrazione del matrimonio. Abbiamo subito delle sciagure, e i recenti
eventi ci hanno sottratto la tranquillità della vita di tutti i giorni che si addice
alla mia età e ai miei malanni. Tu sei più giovane; tuttavia non per questo
ritengo che, essendo in possesso di una adeguata fortuna, un matrimonio
precoce possa in alcun modo interferire con qualunque progetto futuro tu
possa avere formulato per il conseguimento di onori e lo svolgimento di una
occupazione di pubblica utilità. Non credere, però, che voglia importi la
felicità, o che un rinvio da parte tua possa causarmi alcun serio disagio.
Interpreta le mie parole con imparzialità e rispondimi, ti supplico, con fiducia
e sincerità».
Ascoltavo mio padre in silenzio e per un po’ restai senza risposta. Nella
mia mente si aggirava veloce una moltitudine di pensieri, e mi sforzavo di
arrivarne a capo. Ahimè, l’idea di una immediata unione con mia cugina
generava in me orrore e sgomento. Ero legato a una promessa solenne che
non avevo ancora mantenuto e non osavo rompere; se lo avessi fatto, quali
molteplici sciagure sarebbero cadute su di me e la mia amata famiglia! Non
potevo affrontare una festa con un peso mortale ancora attaccato al collo, e
che mi trascinava a terra. Dovevo realizzare l’impegno preso e lasciare
andare il mostro con la sua compagna, prima di concedermi le gioie di
un’unione dalla quale mi aspettavo la pace.
Era presente nella mia mente anche la necessità che mi imponeva di
andare in Inghilterra o di aprire una lunga corrispondenza con i filosofi di
quel paese la cui conoscenza e le cui scoperte mi erano indispensabili
all’impresa in corso. Quest’ultimo metodo per ottenere le informazioni che
desideravo appariva lento e frustrante; e inoltre, cambiare aria mi faceva
sempre bene e mi deliziava l’idea di passare un anno o due in luoghi diversi e
con altre occupazioni, lontano dalla mia famiglia. In quel periodo sarebbe
potuto accadere qualcosa che mi avrebbe riportato a loro più sereno e felice:
avrei potuto adempiere alla mia promessa e il mostro se ne sarebbe andato; o
poteva succedergli qualcosa che lo distruggesse, e a quel punto la mia
schiavitù sarebbe terminata.
Questi sentimenti dettarono la risposta a mio padre. Espressi il desiderio
di andare in Inghilterra. Però celai le vere ragioni della mia richiesta,
rivestendole del desiderio di viaggiare e vedere il mondo prima di stabilirmi
per sempre all’interno delle mura della mia città natale.
Sostenni la mia supplica con ardore e mio padre si convinse facilmente ad
accoglierla, anche perché un genitore più indulgente e meno dittatoriale di lui
non esisteva sulla faccia della terra. In breve tempo stabilimmo ogni cosa.
Sarei andato a Strasburgo dove mi avrebbe raggiunto Clerval. Avremmo
passato un breve periodo in alcune città olandesi e ci saremmo stabiliti in
Inghilterra. Saremmo ritornati attraverso la Francia; e decidemmo che il giro
sarebbe durato due anni.
A mio padre piacque il pensiero che la mia unione con Elizabeth si
sarebbe compiuta al mio ritorno a Ginevra. «Questi due anni» disse
«passeranno alla svelta, e saranno l’ultimo dei ritardi a frapporsi tra te e la tua
felicità. E io con tutto il cuore desidero che venga quel momento, quando
saremo tutti riuniti e nessuna speranza o paura sorgerà a disturbare la nostra
quiete domestica».
«Sono contento» risposi «di quanto avete stabilito. Quando verrà quel
tempo saremo entrambi divenuti più saggi, e spero più felici, di quanto siamo
ora». Sospirai, ma mio padre cortesemente evitò di fare altre domande sulla
causa del mio sconforto. Sperava che i nuovi orizzonti e il piacere di
viaggiare mi avrebbero ridato tranquillità.
Cominciai allora a organizzare il mio viaggio, ma ero ossessionato da una
preoccupazione che mi procurava paura e agitazione. Durante la mia assenza
avrei lasciato i miei famigliari ignari dell’esistenza del loro nemico ed esposti
ai suoi attacchi, perché la mia partenza avrebbe potuto esasperarlo. D’altro
canto lui aveva promesso di seguirmi dovunque andassi: non mi avrebbe
dunque accompagnato in Inghilterra? Questo pensiero, di per sé orribile, mi
tranquillizzava perché implicava la sicurezza dei miei famigliari. Mi
tormentava invece l’idea che potesse accadere il contrario. Comunque, per
tutto il periodo in cui fui schiavo della mia creatura, mi lasciai guidare dagli
impulsi del momento: ora sentivo fortemente che il demone mi avrebbe
seguito, dispensando la mia famiglia dai pericoli delle sue macchinazioni.
Era la fine di agosto quando partii per stare due anni in esilio. Elizabeth
approvò le ragioni della mia partenza, rimpiangendo soltanto di non avere le
stesse opportunità di allargare le sue esperienze e coltivare il suo intelletto.
Tuttavia pianse quando mi disse addio e mi pregò di tornare felice e
tranquillo. «Tutti noi» disse «dipendiamo da te; se tu sei triste, quali saranno i
nostri sentimenti?»
Mi gettai nella vettura che mi avrebbe portato via, sapendo a malapena
dove andavo e incurante di quanto mi accadeva intorno. Mi ricordai soltanto,
e vi pensai con dolorosa ansia, di dare ordini affinché i miei strumenti chimici
venissero imballati per portarli con me, perché avevo deciso di adempiere alla
mia promessa mentre ero all’estero, per essere, se possibile, un uomo libero
al mio rientro. Attraversai paesaggi splendidi e maestosi, ma le immagini che
si affollavano dentro di me erano così tetre che non vedevo niente, lo sguardo
fisso e assente. Non pensavo ad altro che allo scopo dei miei viaggi e al
lavoro che mi avrebbe occupato per tutta la loro durata.
Dopo alcuni giorni trascorsi in indolente apatia, durante i quali percorsi
molti chilometri, arrivai a Strasburgo, dove restai due giorni in attesa di
Clerval. Arrivò. Ahimè, che grande contrasto fra di noi! Lui veniva stimolato
da ogni nuovo spettacolo che ci si presentasse; gioioso quando ammirava la
bellezza del sole al tramonto, e ancora più felice quando lo vedeva sorgere
per dare inizio a un nuovo giorno. Mi indicava i mutamenti nei colori del
paesaggio e i differenti volti del cielo. «Questo si chiama vivere!» gridava.
«Ora sì che mi godo l’esistenza! Ma tu, mio caro Frankenstein, perché sei
così triste e sconsolato?» Ed era vero, ero colmo di pensieri tetri, e non
badavo né al sorgere della prima stella della sera, né all’oro dell’alba che si
rifletteva sul Reno. E voi, amico mio, vi divertireste molto di più a leggere il
diario di Clerval, con il suo sguardo appassionato e pieno di delizia sul
paesaggio, che ad ascoltare i miei ricordi, che sono quelli di un disgraziato,
perseguitato da una maledizione che ha chiuso la strada a qualunque
godimento.
Eravamo d’accordo che saremmo scesi in barca lungo il Reno, da
Strasburgo a Rotterdam, dove ci saremmo imbarcati per Londra. Durante il
viaggio passammo davanti a numerose isole coperte di salici e vedemmo
molte bellissime città. Sostammo un giorno a Mannheim e il quinto dalla
nostra partenza da Strasburgo giungemmo a Magonza. Il corso del Reno a
sud di Magonza è molto più pittoresco. Il fiume scorre rapido e si insinua tra
colline non alte ma ripide e di bellissima conformazione. Vedemmo molti
castelli in rovina che si ergevano alti e inaccessibili al limitare di precipizi
circondati da scure foreste. Questa parte del Reno offre in effetti un
paesaggio singolarmente variegato. In un tratto si possono osservare aspre
colline e ruderi di castelli che si affacciano su spaventosi precipizi, al di sotto
dei quali il Reno scorre cupo; poi, aggirato un promontorio, improvvisamente
a riempire la scena sono floridi vigneti su verdeggianti pendii, un fiume
sinuoso e popolose città.
Viaggiavamo nel periodo della vendemmia e discendendo la corrente
udivamo il canto dei contadini. Persino io, depresso com’ero e con l’animo
costantemente turbato da cupe sensazioni, persino io ne provai piacere.
Sdraiato sul fondo del battello, guardando quel cielo azzurro senza nuvole, mi
sentivo imbevuto di una tranquillità che mi era stata per lungo tempo
estranea. E se queste erano le mie sensazioni, chi potrebbe descrivere quelle
di Henry? Sembrava si sentisse trasportato nel mondo delle favole e provasse
una felicità raramente gustata dall’uomo. «Ho visto» disse «i paesaggi più
belli del mio paese; ho visitato il lago di Lucerna e Uri, dove le montagne
innevate scendono quasi perpendicolarmente sull’acqua, gettando ombre
scure e imperscrutabili che potrebbero creare un paesaggio triste e funereo, se
non fosse per quegli isolotti talmente verdi che con la loro gaia presenza
alleviano lo sguardo; ho visto quel lago agitato dalla tempesta, quando il
vento strapazzava l’acqua creando mulinelli, a suggerire un’idea di quello che
siano le trombe marine nel vasto oceano, e le onde si abbattevano furiose ai
piedi della montagna, dove il prete e la sua amante furono travolti da una
valanga, e dove si dice si odano ancora le loro voci lamentarsi tra le pause del
vento notturno; ho visto le montagne di La Valais e il Pays de Vaud... ma
questo paese, Victor, mi piace ancora di più di tutte quelle meraviglie. Le
montagne svizzere sono più strane e maestose, ma v’è un incanto sulle rive di
questo fiume divino, di cui non ho mai visto l’uguale. Guarda quel castello
che si erge su un precipizio, e quell’altro sull’isola, che si intravede tra il
fogliame di quei begli alberi; e adesso quel gruppo di braccianti che tornano
su dai loro vigneti; e quel villaggio seminascosto nell’anfratto della
montagna. Oh, non v’è dubbio, lo spirito che abita e protegge questo posto ha
un’anima più in armonia con l’uomo di quelli che formano i ghiacciai o
aleggiano sui picchi inaccessibili delle montagne del nostro paese».
Clerval! Amatissimo amico! Quanto mi piace ancora ricordare le tue
parole e soffermarmi su quelle lodi che tu tanto meriti. Lui era un essere
forgiato nella «poesia stessa della natura»1. La sua immaginazione, sfrenata
ed entusiasta, era temperata dalla sensibilità del suo cuore. La sua anima
traboccava di affetti ardenti e la sua amicizia era di quella natura fedele e
prodigiosa che le persone attaccate alle cose terrene ci insegnano a cercare
solo con la fantasia. Ma non bastavano i sentimenti umani a saziare il suo
animo affamato. Lui amava ardentemente anche i paesaggi naturali per cui gli
altri provavano semplice ammirazione:
...Il fragore delle cataratte
lo penetrava come una passione; le alte rocce,
la montagna, e la selva profonda e oscura,
i loro colori e le loro forme erano allora per lui
un appetito; un sentimento e un amore,
che non necessitavano un recondito incanto
attribuito dal pensiero, o qualunque interesse
che non fosse acquisito dallo sguardo2.

E adesso dov’è? Questo essere tanto caro e gentile è perduto per sempre?
Quella mente così piena di idee, con una immaginazione tanto fantasiosa e
magnifica che dava corpo a un mondo, che dipendeva unicamente
dall’esistenza del suo creatore; questa mente è perita? Adesso esiste solo nel
mio ricordo? No, non è così; si è corrotto il tuo corpo, così divinamente
scolpito e risplendente di bellezza, ma il tuo spirito ancora fa visita al tuo
infelice amico e lo consola.
Perdonate questo sfogo di dolore. Queste inutili parole sono soltanto un
esile tributo all’incomparabile valore di Henry, ma sono balsamo al mio
cuore che al ricordo trabocca di angoscia. Continuerò il mio racconto.
Superata Colonia, sbarcammo sulle piane olandesi e decidemmo di
proseguire il nostro viaggio in diligenza, perché il vento era contrario e la
corrente del fiume troppo debole per esserci di aiuto.
Qui il nostro viaggio perse l’interesse suscitato dalla bellezza del
paesaggio, ma in pochi giorni arrivammo a Rotterdam, dove prendemmo il
mare verso l’Inghilterra. E fu in un limpido mattino della fine di dicembre
che vidi per la prima volta le bianche scogliere britanniche. Le rive del
Tamigi offrivano un nuovo scenario: erano piatte ma fertili e quasi ogni città
era segnata dal ricordo di un evento storico.
Vedemmo Tilbury Fort e ricordammo l’Armada spagnola; e poi
Gravesend, Woolwich e Greenwich, luoghi di cui avevo sentito parlare anche
nel mio paese.
Infine vedemmo le numerose guglie di Londra, sulle quali svettava quella
di St. Paul, e la famosa Torre della storia d’Inghilterra.

1. Story of Rimini di Leigh Hunt.


2. “Tintern Abbey” di W. Wordsworth.
Capitolo secondo

Per il momento ci fermammo a Londra; decidemmo di restare alcuni mesi in


quella meravigliosa e celebre città. Clerval desiderava frequentare gli uomini
di genio e di talento che vi fiorivano in quel tempo, mentre per me questo era
solo un obiettivo secondario, la mia occupazione principale essendo quella di
capire come ottenere le informazioni necessarie all’adempimento della mia
promessa. Mi avvalsi subito dunque delle lettere di presentazione che avevo
portato con me, indirizzate ai più importanti filosofi naturali.
Se questo viaggio fosse avvenuto nei giorni felici dei miei studi, mi
avrebbe procurato inestimabile piacere. Ora invece la mia esistenza era
corrosa da un malefico influsso e feci visita a quelle persone solo per ricevere
le informazioni che mi avrebbero potuto fornire sull’argomento per cui
nutrivo un interesse così atrocemente profondo. La compagnia degli altri mi
seccava; quando ero solo potevo inzepparmi la mente di immagini di cielo e
terra, la voce di Henry mi calmava e mi potevo ingannevolmente cullare in
una pace transitoria. Invece i volti affaccendati, insignificanti e giulivi,
riportavano la disperazione nel mio cuore. Vedevo un’insormontabile barriera
tra me e i miei simili, una barriera segnata con il sangue di William e Justine;
pensare agli eventi a cui quei nomi erano legati mi riempiva l’anima di
angoscia.
Invece in Clerval vedevo l’immagine di come ero un tempo; lui era
curioso e ansioso di fare esperienza e acquisire conoscenza. Per lui osservare
le differenze di modi e costumi era una fonte inestinguibile di informazioni e
divertimento. Aveva sempre da fare; unico deterrente al suo godimento era il
mio atteggiamento triste e sconsolato. Io cercavo di mascherarlo quanto più
potevo, per non rovinargli il gusto di quei piaceri che naturalmente prova chi
entra in una nuova scena della vita, scevro da preoccupazioni o amari ricordi.
Mi rifiutavo spesso di accompagnarlo, con la scusa di un altro impegno, per
restarmene solo. Avevo cominciato anche a raccogliere i materiali necessari
alla mia nuova creazione, e questo era per me come la tortura delle gocce
d’acqua che cadono senza sosta sul capo. Ogni pensiero rivolto a quell’opera
era per me straziante, e ogni volta che pronunciavo una parola che vi
alludesse mi tremavano le labbra e il mio cuore palpitava.
Dopo aver trascorso alcuni mesi a Londra, ricevemmo una lettera da un
uomo in Scozia, che in passato ci aveva fatto visita a Ginevra. Scriveva delle
bellezze del suo paese natale e ci chiedeva se queste non fossero attrattive
sufficienti a indurci a prolungare il nostro viaggio a nord, fino a Perth, dove
lui risiedeva. Clerval desiderava ardentemente accettare l’invito e io, per
quanto detestassi la compagnia, volevo vedere altri fiumi e montagne e tutte
le meraviglie con cui la natura sceglie di adornare i suoi posti favoriti.
Eravamo arrivati in Inghilterra all’inizio di ottobre1 e ora era febbraio.
Decidemmo di comune accordo di cominciare il nostro viaggio verso nord
alla fine del mese seguente. Non avevamo intenzione di seguire la grande
strada di Edimburgo, ma di visitare Windsor, Oxford, Matlock e i laghi del
Cumberland, pianificando di arrivare a completare questo giro per la fine di
luglio. Imballai i miei strumenti chimici e gli altri materiali che avevo
raccolto, deciso a terminare le mie fatiche in qualche angolo sperduto negli
altipiani del nord della Scozia.
Lasciammo Londra il 27 marzo e restammo qualche giorno a Windsor, a
passeggiare per la sua bella foresta. Era un paesaggio tutto nuovo per noi
montanari: le querce maestose, l’abbondanza di selvaggina, i branchi di
grandi cervi erano altrettante novità.
Da lì continuammo fino a Oxford. Entrando in questa città avevamo la
mente piena del ricordo degli eventi che si erano svolti lì più di un secolo e
mezzo prima. Era qui che Carlo I aveva radunato le sue truppe. Questa città
gli era rimasta fedele dopo che l’intera nazione aveva abbandonato la sua
causa per abbracciare lo stendardo del parlamento e della libertà. La memoria
di quel re sfortunato, e i suoi compagni, l’amabile Falkland, l’insolente
Gower, la sua regina e il figlio, davano un peculiare interesse a ogni zona
della città in cui si poteva supporre avessero abitato. Qui ancora aleggiava lo
spirito dei tempi passati e ci piaceva seguirne le tracce. Ma anche se queste
sensazioni non avessero gratificato l’immaginazione, la città aveva un aspetto
sufficientemente bello per guadagnarsi la nostra ammirazione. I college sono
antichi e pittoreschi; le strade pressoché magnifiche; e l’amabile Isis, che
lambisce la città attraversando prati di splendida vegetazione, si espande in
placide distese d’acqua che, circondate da alberi secolari, riflettono il
maestoso agglomerato di torri, guglie e cupole della città.
Questo paesaggio riuscivo a godermelo, per quanto il mio piacere fosse
avvelenato dai ricordi e dal pensiero di ciò che era a venire. Io ero fatto per
una quieta felicità. Nei giorni della mia giovinezza non ero mai attraversato
dal malcontento e se mi fosse capitato d’essere preso dall’ennui, la vista di
ciò che v’è di bello in natura o lo studio di quanto è eccelso e sublime nelle
opere degli uomini, sarebbero sempre riusciti a destare interesse nel mio
cuore e a dare slancio al mio spirito. Ma adesso sono un albero stroncato, il
fulmine mi è penetrato dentro fino all’anima; e allora sentivo che sarei
sopravvissuto solo per mostrare quello che presto cesserò di essere: il triste
spettacolo di una umanità distrutta, per gli altri oggetto di pietà, per me di
repulsione.
Ci trattenemmo a Oxford per un periodo considerevole, a girovagare per i
suoi dintorni e cercando di identificare ogni posto che potesse avere qualche
relazione con l’epoca più movimentata della storia d’Inghilterra. Questi nostri
piccoli viaggi esplorativi spesso venivano prolungati per gli ulteriori oggetti
di interesse che ci si presentavano sul cammino. Visitammo la tomba
dell’illustre Hampden, e il campo dove cadde quel patriota. Lì per un
momento la mia anima si elevò dalle sue avvilenti e miserabili paure per
contemplare quelle divine idee di libertà e sacrificio di sé di cui questi luoghi
erano monumento e memoria. Per un istante osai sbarazzarmi delle mie
catene per guardarmi intorno con animo libero e ispirato; ma il ferro mi era
entrato nella carne e ripiombai, tremante e disperato, nel mio io miserabile.
Lasciammo Oxford a malincuore e procedemmo per Matlock, dove
avremmo fatto la prossima sosta. La campagna nei dintorni di questo
villaggio ricordava ancora di più il paesaggio svizzero, anche se in scala più
piccola, e inoltre a quelle verdi colline manca la corona bianca delle Alpi che
in lontananza presiedono sui monti ricoperti di pini del mio paese natale.
Visitammo la meravigliosa grotta e vedemmo le vetrinette di storia naturale,
dove i reperti sono disposti come nelle collezioni di Servox e Chamonix.
Quando Henry pronunciò il nome di quest’ultimo luogo, mi misi a tremare; e
quindi mi affrettai a lasciare Matlock, perché ormai a questo paese associavo
quella terribile scena.
Da Derby, sempre procedendo verso nord, passammo due mesi nel
Cumberland e nel Westmoreland. Qui potevo quasi immaginare di essere tra
le montagne svizzere. Le piccole chiazze di neve che ancora resistevano sui
fianchi settentrionali delle montagne, i laghi e lo scroscio dei torrenti fra le
rocce erano tutte immagini a me care e familiari. Qui facemmo anche qualche
conoscenza che quasi mi illuse di essere felice. Rispetto a me, Clerval si
godeva tutto molto di più; la sua mente si espandeva in compagnia di uomini
di talento, e trovava nella sua natura una maggiore capacità e più risorse di
quante avesse potuto immaginare di possedere frequentando persone di un
livello inferiore al suo. «Potrei passarci la vita qui» mi disse, «e tra queste
montagne a malapena rimpiangerei la Svizzera e il Reno».
Ma scoprì anche che, tra i tanti godimenti, la vita del viaggiatore ha degli
aspetti dolorosi. I suoi sensi sono perennemente sollecitati e proprio quando
sta per distendersi, è costretto ad abbandonare quel luogo divenuto
piacevolmente riposante per andare verso qualcosa di nuovo, che di nuovo
desterà la sua attenzione e che a sua volta abbandonerà per altre cose nuove.
Non avevamo ancora finito di vedere i vari laghi del Cumberland e del
Westmoreland, e iniziavamo a fare amicizia con alcuni abitanti del luogo che,
avvicinandosi il momento stabilito per incontrare il nostro amico scozzese, li
lasciammo per continuare il viaggio. Per quanto mi riguarda non mi
dispiaceva. Avevo messo da parte la mia promessa per un po’ e temevo le
ripercussioni del disappunto del demone. Poteva essere rimasto in Svizzera,
per riversare la sua vendetta sui miei parenti. Quest’idea mi perseguitava e mi
tormentava in ogni momento a cui avrei potuto rubare un po’ di riposo e
pace. Aspettavo la corrispondenza con impazienza febbrile; se era in ritardo
ero avvilito e assalito da mille paure. E quando arrivavano lettere con
l’intestazione di Elizabeth o di mio padre, quasi non osavo leggerle e
conoscere il mio fato. A volte pensavo che il demone mi seguisse e potesse
sollecitare la mia negligenza uccidendo il mio amico. Quando questi pensieri
si impadronivano di me, non mi allontanavo da Henry neanche un istante,
seguendolo come un’ombra per proteggerlo dalla rabbia distruttiva che
immaginavo si potesse riversare su di lui. Mi sentivo come se avessi
commesso un grande crimine che mi rimordeva la coscienza. Ero innocente,
ma è pur vero che avevo attirato sul mio capo una tremenda maledizione,
mortale quanto quella di un crimine.
Visitai Edimburgo con occhi e mente assenti, con tutto che quella città
potrebbe destare interesse nel più disgraziato degli esseri. A Clerval non
piacque quanto Oxford, la cui antichità era a lui più gradita. Ma la bellezza e
l’armonia della nuova città di Edimburgo, il suo romantico castello, i
dintorni, che sono i più piacevoli del mondo, e l’Arthur’s Seat, il St.
Bernard’s Well, le Pentland Hills, lo ripagarono del cambio di prospettiva e
lo riempirono di allegria e ammirazione. Io invece ero impaziente di arrivare
alla destinazione finale del viaggio.
Lasciammo Edimburgo dopo una settimana, passando per Coupar, St.
Andrews e lungo le rive del Tay, fino a Perth, dove il nostro amico ci
aspettava. Ma io non ero proprio dell’umore di chiacchierare e ridere con
degli estranei, o di condividere i loro sentimenti e progetti con il buonumore
che ci si aspetta da un ospite; perciò dissi a Clerval che desideravo fare il giro
della Scozia per conto mio. «Tu divertiti» gli dissi, «e diamoci appuntamento
qui. Potrò assentarmi per un mese o due ma non interferire con i miei
movimenti, ti prego; lasciami alla pace e alla solitudine per un po’. Quando
sarò tornato, spero di avere il cuore più leggero, più in sintonia con il tuo
umore».
Henry avrebbe voluto dissuadermi; ma quando mi vide tanto risoluto
verso questo piano, smise di protestare. Mi supplicò di scrivergli spesso.
«Preferirei seguire te» disse «nei tuoi vagabondaggi solitari, che restare con
questi scozzesi, che sono degli sconosciuti; quindi sbrigati, amico mio, a
ritornare, affinché io mi possa sentire in qualche modo nuovamente a casa,
una cosa impossibile in tua assenza».
Separatomi dal mio amico, decisi di visitare alcuni luoghi remoti della
Scozia dove finire il mio lavoro in solitudine. Non avevo più dubbi che il
mostro mi stesse seguendo e che si sarebbe palesato quando avessi terminato
l’opera, per accogliere la sua compagna.
Con questo proposito attraversai gli altipiani settentrionali e scelsi una
delle più distanti tra le Isole Orcadi come luogo dei miei travagli. Era il posto
giusto per un’operazione simile, poco più di una roccia, i cui alti fianchi
venivano costantemente sferzati dalle onde. Il terreno era sterile, forniva a
malapena il pascolo a poche mucche sparute e avena per i suoi abitanti, che
erano cinque in tutto, dalle membra scarne e ruvide, segno della loro magra
sussistenza. Vegetali e pane, quando potevano permettersene il lusso, e
persino l’acqua fresca dovevano procurarsela in terraferma, a quasi cinque
miglia di distanza.
Su tutta l’isola v’erano soltanto tre misere capanne, e una di queste,
quando arrivai, era vuota. Così la affittai. Consisteva di sole due stanze, che
mostravano tutto lo squallore della più infima penuria. Il tetto di paglia era
crollato, le pareti erano senza intonaco e la porta scardinata. Disposi che fosse
riparata, introdussi della mobilia e ne presi possesso; un fatto che avrebbe
dovuto in effetti causare una certa sorpresa, non fosse che i sensi di tutti gli
abitanti erano ottenebrati dal bisogno e dalla estrema povertà. Stando così le
cose, vissi inosservato e indisturbato, a stento ringraziato per quel poco di
cibo e di abiti che gli donavo. È così che la sofferenza ottunde anche le più
elementari sensazioni umane.
In questo rifugio dedicavo il mattino al lavoro ma la sera, quando il tempo
lo permetteva, passeggiavo sulla spiaggia pietrosa, ad ascoltare il ruggito
delle onde che si infrangevano ai miei piedi. Era una scena monotona, ma in
continuo mutamento. Pensavo alla Svizzera, così diversa da questo paesaggio
desolato e terribile. Lì le colline sono ricoperte di vigneti e numerosi casolari
sono sparsi per le pianure; i bei laghi riflettono un cielo azzurro e mite e
quando le acque sono agitate dal vento, il loro tumulto è simile al gioco di un
bambino vivace a confronto del rombo del gigantesco oceano.
In questo modo avevo organizzato le mie occupazioni al mio arrivo ma,
con il procedere del lavoro, questo mi risultava ogni giorno più orribile e
intollerabile. Capitava quindi che non riuscissi a convincermi a entrare nel
mio laboratorio per diversi giorni; altre volte vi restavo senza sosta giorno e
notte, pur di completare l’opera. Ero coinvolto in un processo davvero
disgustoso. Ai tempi del mio primo esperimento ero stato in preda a una sorta
di entusiastica frenesia che mi precludeva la visione dell’orrore di quello che
facevo; la mente era talmente assorbita dagli sviluppi dei miei sforzi che i
miei occhi non vedevano l’orrore del mio operato. Ora invece mi ci ero
messo a sangue freddo, e spesso il cuore soffriva per quello che facevano le
mani.
Trovarmi in un luogo del genere, impegnato nella più detestabile
occupazione, immerso in una solitudine in cui nulla, neanche per un istante,
potesse distogliere la mia attenzione dalla situazione in cui mi ero cacciato,
mi destabilizzò; divenni irrequieto e nervoso. In ogni momento temevo di
incontrare il mio persecutore. A volte sedevo con gli occhi fissi a terra, con la
paura che se li avessi alzati mi sarei trovato davanti l’oggetto che temevo di
scorgere. Avevo paura di allontanarmi dalla vista dei miei simili perché,
restando solo, lui sarebbe potuto venire a reclamare la sua compagna.
Nel frattempo continuavo a lavorare, e la mia fatica era già in uno stato
considerevolmente avanzato. Guardavo al suo compimento con trepida e
ansiosa speranza, che non osavo mettere in dubbio ma che si mescolava a
oscuri presagi di sciagura che mi stringevano il cuore in petto.
1. Così nel testo originale, anche se a p. 223 Frankenstein ha affermato di aver visto le bianche
scogliere britanniche «in un limpido mattino di dicembre» (N.d.T.).
Capitolo terzo

Una sera sedevo nel mio laboratorio; il sole era tramontato e la luna stava
sorgendo dal mare proprio in quel momento. Non avevo abbastanza luce per
lavorare e me ne stavo lì, senza far niente, a riflettere se era il caso di
smettere per quella sera o tener duro e andare avanti, per affrettare la
conclusione dell’opera. Seduto lì, mi ritrovai a seguire un filo di pensieri che
mi portò a considerare le conseguenze di quello che stavo facendo. Tre anni
prima, coinvolto nella stessa occupazione, avevo creato un demonio la cui
ineguagliata barbarie mi aveva straziato il cuore, colmandolo per sempre del
più pungente rimorso. E ora stavo creando un altro essere del cui carattere ero
altrettanto ignaro; lei sarebbe potuta diventare diecimila volte più malvagia
del suo compagno, e deliziarsi di delitti e sciagure per il semplice gusto di
compierli. Lui aveva giurato che avrebbe abbandonato la vicinanza degli
uomini, nascondendosi nei deserti; ma lei no, e lei, che con ogni probabilità
sarebbe divenuta un animale pensante e ragionante, avrebbe potuto rifiutarsi
di adempiere a un patto stabilito prima della sua creazione. Magari si
sarebbero odiati l’un l’altra; la creatura che già esisteva provava ribrezzo per
la propria stessa deformità, non avrebbe potuto provarne ancora di più
trovandosi di fronte alla sua versione femminile? Ma anche lei avrebbe
potuto rifiutarlo con disgusto, paragonandolo alla superiore bellezza
dell’uomo. Lei avrebbe potuto andarsene, e lui si sarebbe trovato di nuovo
solo, esasperato da un nuovo oltraggio, quello di essere stato abbandonato da
una della sua specie.
Ma anche se avessero lasciato l’Europa per vivere nelle zone deserte del
Nuovo Mondo, uno dei primi risultati di quella comunione di cui il demone
era assetato sarebbero stati dei figli, e una razza di diavoli si sarebbe
propagata sulla terra, rendendo precaria e in preda al terrore l’esistenza stessa
della specie umana. Che diritto avevo io di infliggere una condanna simile
alle generazioni di tutti i tempi a venire per un mio vantaggio? Mi ero fatto
commuovere dai sofismi dell’essere da me creato, mi ero fatto stordire dalle
sue demoniache minacce ma adesso, per la prima volta, balenò nella mia
mente la nefandezza della mia promessa e mi vennero i brividi al pensiero
che le età future mi avrebbero maledetto come una peste, come colui che per
egoismo non aveva esitato a comprarsi la sua pace al prezzo, forse,
dell’esistenza dell’intera razza umana.
Presi a tremare e mi sembrò che il cuore si fermasse; a quel punto alzai lo
sguardo e vidi, alla luce della luna, il demone alla finestra. Mi guardava con
le labbra contorte in un orribile ghigno, mentre io sedevo intento al compito
che lui mi aveva assegnato. Sì, mi aveva seguito nei miei viaggi; si era
attardato nelle foreste, nascosto nelle caverne o rifugiato nelle immense e
deserte brughiere; veniva adesso a controllare i miei progressi e a reclamare
l’adempimento della mia promessa.
Quando lo vidi, il suo volto esprimeva la più estrema malvagità e perfidia.
Provai una sensazione di pazzia al pensiero della mia promessa di creare un
altro essere come lui e, tremando di collera, feci a pezzi la cosa a cui stavo
lavorando. L’infame mi osservò distruggere la creatura dalla cui futura
esistenza dipendeva la sua felicità ed emettendo un urlo che esprimeva
diabolica disperazione e desiderio di vendetta, si eclissò.
Uscii dalla stanza, serrai la porta e giurai solennemente, con tutto il mio
cuore, che mai avrei ripreso quel lavoro; quindi, a passi tremanti, mi recai
nella mia camera. Ero solo; non v’era nessuno vicino a me a dissipare
l’angoscia e lenire la malefica oppressione delle più orribili fantasie.
Trascorsi varie ore alla finestra con gli occhi fissi sul mare; era quasi
immobile, perché il vento era calato e tutta la natura riposava sotto lo sguardo
della quieta luna. Le acque erano chiazzate da poche imbarcazioni da pesca e
di tanto in tanto una brezza gentile portava il suono delle voci dei pescatori
che si chiamavano l’un l’altro. Percepivo quel silenzio, senza rendermi conto
di quanto fosse profondo, finché il mio orecchio venne d’un tratto colpito da
un rumore di remi presso la riva e vidi una persona che sbarcava vicino alla
mia casa.
Pochi minuti dopo sentii scricchiolare la porta, come se qualcuno stesse
tentando di aprirla lentamente. Tremai dalla testa ai piedi; avevo il
presentimento di chi potesse essere e mi venne voglia di svegliare uno dei
contadini che abitavano in un casolare non lontano dal mio; ma fui
sopraffatto da una sensazione di impotenza, di quelle che così spesso si
provano nei sogni paurosi, quando cerchi invano di scampare a un pericolo
imminente, e non riuscii a muovermi, restando inchiodato dov’ero.
Di lì a poco udii un rumore di passi nel corridoio, la porta della mia
stanza si aprì e apparve lo sciagurato che temevo di vedere. Chiuse la porta,
mi si avvicinò e disse, con voce soffocata: «Hai distrutto il lavoro che avevi
cominciato. Che intenzioni hai? Osi rompere la tua promessa? Io ho
sopportato fatiche e sofferenza; ho lasciato la Svizzera insieme a te,
furtivamente ho percorso le rive del Reno, sono passato tra le sue isole
verdeggianti o sulla cima dei suoi colli. Ho dimorato per tanti mesi nelle
brughiere dell’Inghilterra e tra le zone disabitate della Scozia. Mi sono
sottoposto a sforzi incalcolabili, e al freddo e alla fame: e tu osi distruggere le
mie speranze?»
«Vattene! Sì, rompo la mia promessa. Non creerò mai un essere come te,
tanto deforme e malvagio».
«Schiavo! Finora ho ragionato con te, ma tu ti sei dimostrato
immeritevole della mia accondiscendenza. Ricorda il mio potere: tu ti ritieni
miserabile, ma io posso renderti così sciagurato da farti odiare la luce del
sole. Tu sei il mio creatore, ma io sono il tuo padrone: obbedisci!»
«Il mio momento di debolezza è passato ed è arrivato il tempo del tuo
potere. Le tue minacce non possono portarmi a compiere un atto così nefasto,
e invece rafforzano la mia decisione di non creare per te una compagna nel
male. Dovrei io, a sangue freddo, scatenare sulla terra un demone che si
diletta di morte e sciagura? Vattene! Sono irremovibile e le tue parole
possono soltanto esasperare la mia ira».
Il mostro vide la determinazione sul mio viso e digrignò i denti per
l’impotenza della rabbia. «Potrà ogni uomo dunque» gridò «stringere al petto
una moglie, ogni bestia accoppiarsi e solo io restare solo? Ho provato
sentimenti di affetto, e sono stati ricambiati da odio e disprezzo. Uomo, tu
puoi anche detestarmi, ma attento! Le tue ore passeranno nel terrore e nel
dolore, e presto cadrà la folgore che ti strapperà per sempre dalla tua felicità.
Tu dovresti essere felice mentre io mi piego al giogo della mia disperazione?
Puoi inaridire le altre mie passioni, ma quella per la vendetta resta, la
vendetta d’ora in poi sarà per me cosa più cara della luce o del cibo! Può
darsi che io muoia, ma prima, tu, mio tiranno e tormento, maledirai il sole che
contempla la tua sventura. Fa’ attenzione, perché io non ho paura, e dunque
sono molto potente. Ti sorveglierò con l’astuzia di un serpente, in attesa del
momento in cui iniettare il mio veleno. Uomo, ti pentirai delle ferite che
infliggi».
«Taci, demonio. Non appestare l’aria con questi suoni di malvagità. Ti ho
reso nota la mia decisione e non sono così codardo da piegarmi alle parole.
Lasciami, sono inesorabile».
«Va bene. Me ne vado. Ma ricorda: sarò con te la tua prima notte di
nozze».
Balzai in avanti, esclamando: «Farabutto! Prima di firmare la mia
condanna a morte, accertati di essere in salvo tu stesso».
Avrei voluto afferrarlo, ma lui riuscì a eludere la mia presa e si precipitò
fuori dalla casa. In pochi attimi lo vidi nella sua barca, lanciarsi sull’acqua
con la velocità di una freccia, e presto scomparve tra le onde.
Di nuovo era tutto silenzio, ma le sue parole mi rombavano in testa.
Bruciavo di rabbia, volevo inseguire chi aveva ucciso la mia pace e affogarlo
nell’oceano. Per l’agitazione camminavo avanti e indietro per la stanza, a
passi svelti, e intanto la mia mente produceva migliaia di immagini che mi
tormentavano e mi ferivano. Perché non lo avevo inseguito, ingaggiando con
lui una lotta mortale? No, l’avevo lasciato fuggire e lui si era diretto verso la
terraferma. Rabbrividivo al pensiero di chi sarebbe stata la prossima vittima,
sacrificata alla sua insaziabile sete di vendetta. E ripensai alle sue parole:
«Sarò con te la tua prima notte di nozze». Era quello dunque il tempo
stabilito per il compimento del mio destino. A quell’ora sarei morto,
soddisfacendo ed estinguendo in un colpo solo la sua malvagità. La
prospettiva non mi spaventava, ma pensando alla mia amata Elizabeth – le
sue lacrime e l’interminabile dolore nel trovare il suo amato così
barbaramente strappato a lei – mi sgorgarono dagli occhi le prime lacrime
versate dopo molti mesi, e decisi di non arrendermi al nemico senza una dura
lotta.
Passò la notte e il sole si levò dall’oceano; i miei sentimenti si calmarono,
se di calma si può parlare quando la violenza della rabbia si inabissa nella
disperazione. Uscii da quella casa, l’odiosa ambientazione dell’alterco della
sera precedente, e mi misi a camminare sulla riva di quel mare che quasi mi
sembrò un’insuperabile barriera tra me e i miei simili; anzi, mi attraversò il
furtivo desiderio che le cose stessero proprio così. Desiderai di poter passare
il resto della mia vita sopra quel nudo scoglio, stentatamente, certo, ma senza
l’improvviso irrompere di traumi devastanti. Se tornavo, ero destinato a
venire sacrificato, o a veder morire coloro che amavo per mano di un demone
che io stesso avevo creato.
Camminavo per l’isola come uno spettro inquieto, separato da tutto ciò
che amavo e sofferente per la separazione. Quando arrivò mezzogiorno, e il
sole si levò più in alto, mi stesi sull’erba e venni sopraffatto da un sonno
profondo. Avevo passato la notte sveglio, i miei nervi erano scossi e i miei
occhi rossi per la veglia e la tristezza. Il sonno in cui sprofondai mi ristorò e
quando mi destai sentii nuovamente di appartenere a una razza di esseri
umani come me e cominciai a riflettere sull’accaduto con più lucidità, per
quanto ancora mi rimbombassero nelle orecchie come campane a morto le
parole del demone; sembravano quelle di un sogno ma erano nitide e
opprimenti come una realtà.
Il sole era calato parecchio e io sedevo ancora sulla riva, sfamando il mio
appetito, che si era fatto vorace, con una focaccia d’avena, quando vidi una
barca di pescatori approdare vicino a me, e uno degli uomini mi portò un
pacchetto; conteneva alcune lettere da Ginevra e una di Clerval, che mi
incitava a raggiungerlo. Diceva che era passato quasi un anno da quando
avevamo lasciato la Svizzera, e non avevamo ancora visitato la Francia. Mi
invitava dunque ad abbandonare la mia isola solitaria per incontrarlo a Perth,
di lì a una settimana, dove avremmo potuto organizzare la rotta dei nostri
spostamenti a venire. Questa lettera mi richiamò in qualche misura alla vita e
decisi di lasciare l’isola allo scadere di due giorni.
Ma prima di partire v’era da assolvere un compito al cui pensiero
rabbrividivo. Dovevo imballare i miei strumenti chimici e per farlo dovevo
entrare nella stanza dove si era svolto il mio odioso lavoro; avrei dovuto
riprendere in mano quegli strumenti la cui sola vista mi faceva stare male. Il
mattino seguente, allo spuntare del giorno, trovai il coraggio sufficiente e
aprii la porta del mio laboratorio. I resti della creatura incompiuta, da me
distrutta, erano sparsi sul pavimento, e quasi mi sembrò di avere straziato la
carne viva di un essere umano. Mi presi un momento per raccogliere le forze
e poi entrai nella stanza. Portai fuori gli strumenti con mani tremanti ma
pensai anche di non poter lasciare lì i resti del mio lavoro che avrebbero
suscitato l’orrore e il sospetto dei contadini, quindi li raccolsi in un cesto,
insieme a una grande quantità di pietre, e li misi da parte, deciso a gettarli in
mare quella notte stessa. Nel frattempo sedetti sulla spiaggia a ripulire e
riordinare la mia strumentazione.
Non potrebbe esservi mutamento più radicale di quello occorso ai miei
sentimenti dalla notte in cui era apparso il demone. Fino ad allora avevo
considerato la mia promessa con triste rassegnazione, come una cosa che
dovesse essere mantenuta a ogni costo; ora invece sentivo che mi era caduto
un velo dagli occhi e che per la prima volta potevo vedere chiaramente. Non
mi passò per la testa neanche per un istante l’idea di rimettermi al lavoro; la
minaccia che avevo ricevuto opprimeva i miei pensieri, ma non ritenni di
potermi opporre con un atto della volontà. Mi era ormai chiaro che creare un
altro demone come quello che avevo già fatto sarebbe stato un atto del più
vile e atroce egoismo e scacciai dalla mia mente qualunque pensiero potesse
portarmi a una conclusione diversa.
La luna sorse tra le due e le tre del mattino; a quel punto misi il mio cesto
su una piccola barca e mi allontanai di circa quattro miglia dalla riva. Era una
scena di perfetta solitudine; v’erano alcune barche che ritornavano a riva, ma
io me ne ero tenuto lontano. Mi sentivo come sul punto di compiere un
crimine orrendo, ed evitavo, con ansia tremante, qualunque incontro con i
miei simili. A un certo punto la luna, limpida fino ad allora, venne
improvvisamente ricoperta da una densa nube e approfittai di quel momento
di buio per gettare il mio cesto nel mare; stetti ad ascoltare il gorgoglio
mentre affondava e poi mi allontanai da lì. Tutto il cielo si annuvolò, ma
l’aria restò pura, per quanto fredda a causa di una brezza di nord-est che si
stava alzando. Mi rinfrescò e mi riempì di sensazioni così gradevoli che
decisi di prolungare la mia permanenza in acqua e, bloccato il timone, mi
distesi sul fondo dell’imbarcazione. Le nubi nascondevano la luna, ogni cosa
era avvolta dalle tenebre e sentivo solo il rumore della barca, la chiglia che
fendeva le onde; quel mormorio mi cullò e molto presto dormivo
profondamente.
Non so quanto restai in quello stato, ma quando mi svegliai mi accorsi
che il sole era già parecchio alto. Il vento era forte e le onde minacciavano
continuamente la mia piccola scialuppa. Mi resi conto che il vento veniva da
nord-est e mi aveva spinto lontano dalla costa da cui ero partito. Cercai di
indirizzare la mia rotta ma presto mi accorsi che se avessi nuovamente tentato
di cambiarla l’imbarcazione si sarebbe riempita d’acqua in un attimo. In
quelle condizioni la mia unica risorsa era lasciarmi portare dal vento.
Confesso di avere provato sensazioni di terrore. Non avevo una bussola e
avevo così poca familiarità con quella parte del mondo che il sole non mi era
di grande aiuto. Sarei potuto finire in pieno Atlantico e lì provare tutti i
crampi della fame o venire inghiottito nelle acque sconfinate che ruggivano e
sferzavano intorno a me. Ero fuori già da molte ore e provavo il tormento di
una sete ardente, preludio delle sofferenze a venire. Guardai il cielo coperto
di nuvole mosse dal vento a cui succedevano altre nuvole; guardai il mare,
sarebbe stato la mia tomba. «Demone» esclamai, «la tua missione si
compie!» Pensai a Elizabeth, a mio padre, a Clerval e venni trasportato in un
flusso di immagini così spaventose e disperate che persino adesso, quando
l’ultimo atto per me si sta chiudendo per sempre, rabbrividisco al pensiero.
Così passarono alcune ore. Poi gradualmente il sole cominciò a calare
all’orizzonte, il vento scemò in una brezza gentile e dal mare scomparvero gli
impetuosi cavalloni. A questi però succedettero grandi onde lunghe: mi venne
il mal di mare e quasi non riuscivo a governare il timone quando d’un tratto
scorsi verso sud la sagoma di una costa scoscesa.
Sfinito com’ero dalla fatica e dalla tremenda tensione che avevo sostenuto
per parecchie ore, sentii quella improvvisa certezza di vita salirmi al cuore
come un caldo flusso di gioia e mi sgorgarono le lacrime dagli occhi.
Quanto sono mutevoli i nostri sentimenti e com’è strano quell’amore con
cui ci abbarbichiamo sempre alla vita, anche nell’estrema sofferenza! Feci
una nuova vela con un pezzo del mio abito e mi diressi con entusiasmo verso
terra. Aveva un aspetto selvaggio e roccioso, ma avvicinandomi potei
facilmente scorgervi tracce di coltivazione. Vidi delle imbarcazioni vicino
alla riva e mi sentii improvvisamente riportato nella società degli uomini
civili. Scrutai attentamente le insenature della costa fino a che scorsi un
campanile che si ergeva da dietro un piccolo promontorio. Nelle mie
condizioni di estrema debolezza, decisi di fare vela direttamente verso la
città, dove più facilmente mi sarei procurato del cibo. Per fortuna avevo del
denaro con me. Superato il promontorio vidi una piccola e graziosa cittadina
e un porto sicuro, nel quale entrai con il cuore pulsante di gioia per la mia
inaspettata salvezza.
Mentre ero occupato a legare la barca e sistemare le vele, si avvicinarono
molte persone. Sembravano molto sorprese di vedermi, ma invece di offrirmi
un qualche aiuto, bisbigliavano tra loro con gesti che in qualunque altro
momento avrebbero prodotto in me una leggera sensazione di allarme. Per
come stavano le cose, badai soltanto al fatto che parlavano inglese, e dunque
in quella lingua mi rivolsi a loro: «Buoni amici» dissi, «sareste così gentili da
dirmi il nome di questa città e informarmi su dove mi trovo?»
«Lo saprete molto presto» replicò un uomo in tono burbero. «Forse siete
giunto in un luogo che non vi sarà molto gradito; ma non vi sarà chiesto dove
desideriate alloggiare, ve lo assicuro».
Fui estremamente sorpreso di ricevere una risposta così rude da un
estraneo e inoltre rimasi sconcertato nel vedere i volti accigliati e arrabbiati
dei suoi compagni. «Perché mi rispondete così sgarbatamente?» gli chiesi.
«Non è certo usanza degli inglesi accogliere in un modo così inospitale gli
stranieri».
«Non so» disse l’uomo «quale sia l’usanza degli inglesi, ma è usanza
degli irlandesi odiare i delinquenti».
Mentre questo strano dialogo proseguiva, mi accorsi che il capannello di
persone si faceva più numeroso. Le loro facce esprimevano un misto di
curiosità e rabbia che mi infastidiva e in una certa misura mi preoccupava.
Chiesi la strada per la locanda, ma nessuno mi rispose. Mi incamminai e un
mormorio si levò dalla folla che, circondandomi, mi veniva dietro. A quel
punto si avvicinò un uomo dall’aria torva, mi batté una mano sulla spalla e mi
disse: «Venite, signore, dovete seguirmi da Mr. Kirwin per dare informazioni
sul vostro conto».
«Chi è Mr. Kirwin? E perché devo dare informazioni sul mio conto? Non
è un paese libero questo?»
«Lo è, signore, per la gente onesta. Mr. Kirwin è un magistrato e voi
dovete rendere conto della morte di un gentiluomo trovato assassinato qui la
notte scorsa».
Questa risposta mi fece trasalire, ma mi ripresi subito. Ero innocente, lo si
poteva provare con facilità. Quindi seguii la mia guida in silenzio e venni
condotto a una delle più belle case della città. Sarei potuto crollare a terra per
la fatica e la fame, ma circondato da quella folla pensai fosse più prudente
raccogliere tutte le mie forze per evitare che la debolezza fisica venisse
interpretata come un indizio di ansia o colpevolezza. In quel momento non
potevo immaginare quale calamità mi avrebbe travolto di lì a poco, e come
ogni paura di morte o ignominia sarebbe stata estinta dall’orrore e dalla
disperazione.
Qui devo fare una pausa. Mi serve tutta la mia forza d’animo per suscitare
il ricordo dei terribili eventi che sto per raccontare in tutti i dettagli.
Capitolo quarto

Venni presto condotto alla presenza del magistrato, un uomo anziano


dall’aria benevola e i modi calmi e gentili. A me però rivolse uno sguardo
piuttosto severo; poi chiese a quelli che mi avevano accompagnato chi
avrebbe fatto da testimone in quella occasione.
Si fece avanti una mezza dozzina di uomini e quello selezionato dal
magistrato dichiarò di essere stato fuori a pescare, la notte precedente, con il
figlio e il cognato, Daniel Nugent, quando, intorno alle dieci, si erano accorti
che si stava alzando un forte vento da nord e quindi si erano diretti verso
terra. Era una notte molto buia, perché la luna non era ancora sorta; non
attraccarono al porto ma, come d’abitudine, in una insenatura a circa due
miglia di distanza. Lui si incamminò per primo, portando una parte
dell’attrezzatura da pesca; i compagni lo seguivano a una certa distanza.
Mentre procedeva lungo la spiaggia, urtò il piede contro qualcosa e cadde
steso a terra. Arrivarono i compagni ad aiutarlo e alla luce della lanterna
scoprirono che era caduto sul corpo di un uomo che aveva proprio l’aria di
essere morto. Inizialmente pensarono che fosse il cadavere di qualcuno che
era annegato ed era stato rigettato a riva dalle onde ma poi, osservandolo
meglio, si accorsero che i suoi vestiti erano asciutti e che il corpo non era
ancora freddo. Lo trasportarono immediatamente a casa di una vecchia lì
vicino e tentarono, invano, di rianimarlo. Sembrava un giovane uomo di
bell’aspetto, di circa venticinque anni. Probabilmente era stato strangolato,
perché sul corpo non vi erano altri segni di violenza oltre a un’impronta scura
di dita intorno al collo. La prima parte di questo racconto non mi aveva
interessato in alcun modo, ma quando si parlò di impronta delle dita mi
ricordai dell’assassinio di mio fratello e mi prese una grande agitazione; le
membra cominciarono a tremarmi e mi si annebbiò la vista, per cui fui
costretto ad appoggiarmi a una sedia. Il magistrato mi osservava con occhio
attento e ovviamente non trasse una buona impressione dal mio
comportamento.
Il figlio confermò il racconto del padre. Ma quando chiamarono Daniel
Nugent questi giurò con convinzione di avere visto, appena prima che il suo
compagno cadesse, una barca con un solo uomo a bordo a poca distanza dalla
riva; e per quanto fosse in grado di giudicare, alla luce di poche stelle, era la
stessa barca con cui ero approdato io.
Una donna che abitava vicino alla spiaggia dichiarò che mentre era in
piedi sulla porta della sua abitazione, in attesa del ritorno dei pescatori, circa
un’ora prima di sapere del ritrovamento del corpo, aveva visto una barca con
soltanto un uomo dentro allontanarsi da quel punto della riva dove in seguito
era stato trovato il cadavere.
Un’altra donna confermò quanto detto dai pescatori, e cioè che quando
avevano portato il corpo a casa sua non era ancora freddo. Lo avevano messo
in un letto e lo avevano massaggiato; poi Daniel era andato in città in cerca
del medico, ma in quel corpo non v’era ormai più vita.
Parecchi altri uomini vennero interrogati a proposito del mio arrivo.
Erano tutti concordi che, con quel forte vento del nord che si era alzato
durante la notte, con ogni probabilità ero andato per parecchie ore alla deriva
ed ero infine stato costretto a tornare quasi nello stesso punto da cui ero
partito. D’altra parte, osservavano, sembrava che io avessi portato il corpo lì
da qualche altra località ed era probabile, visto che non sembravo conoscere
quella riva, che fossi entrato nel porto senza sapere quanto distava la città di
*** dal luogo in cui avevo deposto il cadavere.
Dopo avere ascoltato queste testimonianze Mr. Kirwin volle che fossi
condotto nella stanza dove il corpo giaceva in attesa di sepoltura, per
osservare l’effetto che quella vista avrebbe prodotto su di me. L’idea gli fu
forse suggerita dalla estrema agitazione che avevo mostrato quando erano
state descritte le modalità dell’omicidio. Venni dunque condotto, dal
magistrato e diverse altre persone, alla locanda. Non avevo potuto fare a
meno di restare colpito dalle strane coincidenze che si erano verificate in
quella notte così movimentata, ma sapendo di aver parlato con varie persone
dell’isola in cui avevo abitato all’incirca alla stessa ora in cui il corpo era
stato trovato, ero perfettamente tranquillo sulle conseguenze della faccenda.
Entrai nella stanza in cui giaceva il cadavere e venni condotto alla bara.
Come posso descrivere quello che provai a quella vista? Mi sento ancora
riarso dall’orrore; non posso pensare a quel terribile momento senza provare
brividi di angoscia, ma è niente rispetto allo strazio che provai nel
riconoscere il corpo. Tutto l’interrogatorio, il magistrato, i testimoni
svanirono come un sogno dalla memoria quando vidi distesa davanti a me la
salma di Henry Clerval. Mi mancò il respiro e gettandomi su di lui esclamai:
«Le mie criminali macchinazioni hanno privato della vita anche te, mio
carissimo Clerval? Ho già annientato due esistenze, altre vittime attendono il
loro destino; ma tu, Clerval, amico mio, mio benefattore...»
Un corpo umano non può sostenere più a lungo di così la spasmodica
sofferenza che pativo; mi portarono fuori dalla stanza in preda a forti
convulsioni.
A queste subentrò la febbre. Giacqui due mesi in punto di morte e i miei
deliri, così seppi dopo, erano spaventosi; mi accusavo dell’omicidio di
William, di Justine e di Clerval. A volte imploravo coloro che mi assistevano
di aiutarmi a distruggere il demone da cui ero tormentato; altre volte sentivo
le dita del mostro che già mi stringevano il collo e urlavo di angoscia e
terrore. Fortunatamente, poiché mi esprimevo nella mia lingua natia, l’unico
a capirmi era Mr. Kirwin; tuttavia i miei gesti e le mie grida rabbiose
bastavano a spaventare le altre persone presenti.
Perché non morii allora? Perché io, l’uomo più miserabile che mai fosse
esistito, non sprofondai nell’oblio e nell’eterno riposo? La morte strappa alla
vita tanti fanciulli in fiore su cui i genitori adoranti ripongono ogni speranza;
quante spose, quanti giovani innamorati hanno vissuto un giorno nel rigoglio
della salute e pieni di speranze per finire il giorno dopo preda dei vermi nella
decomposizione della tomba! Di che sostanza ero fatto io, che potevo
resistere in questo modo a tutte quelle scosse che continuavano a sospingere
la ruota della tortura contro di me?
Ero condannato a vivere. E nel giro di un paio di mesi mi ritrovai, come
svegliandomi da un sogno, in una prigione, disteso su una squallida branda,
circondato da carcerieri, secondini, catenacci e tutto il triste apparato di una
cella. Era mattina, mi ricordo, quando ripresi coscienza; avevo dimenticato i
dettagli di quanto era accaduto, sentivo solo che una grande sciagura mi era
piombata addosso, ma quando mi guardai attorno e vidi le sbarre alle finestre
e lo squallore della stanza in cui mi trovavo, di nuovo mi sovvenne ogni cosa
e gemetti amaramente.
Questo suono disturbò una donna anziana che dormiva su una sedia
accanto a me. Era un’infermiera a pagamento, la moglie di uno dei secondini;
il suo volto esprimeva tutte le brutte caratteristiche che spesso connotano
quella categoria. I lineamenti del suo viso erano duri e scostanti, tipici di chi
ha fatto l’abitudine a guardare in faccia la miseria e non ne prova
compassione. Mi parlava in inglese, con un tono che esprimeva la sua
completa indifferenza; riconobbi la sua voce, era una di quelle che avevo
sentito durante la mia malattia.
«Vi sentite meglio, signore?» mi chiese.
Risposi nella stessa lingua, con voce flebile: «Mi sembra di sì. Ma se tutto
questo è vero, se non me lo sono sognato, mi addolora essere ancora vivo per
provare questa infelicità e questo orrore».
«Quanto a questo» replicò la vecchia, «se intendete il gentiluomo che
avete ammazzato, penso che sarebbe meglio per voi essere morto, perché
immagino che ve la passerete piuttosto male. Comunque sarete impiccato
all’aprirsi della prossima sessione. A ogni modo non sono affari miei, sono
stata mandata ad assistervi e a farvi guarire. Farò il mio dovere
coscienziosamente, come sarebbe bene facessero tutti».
Distolsi con ribrezzo lo sguardo da quella donna che poteva fare un
discorso così insensibile a una persona appena salvata dal baratro della morte.
Mi sentivo debole e non riuscivo a riflettere su quanto era accaduto. Come in
un sogno mi scorse davanti tutta la mia vita; a volte mi chiedevo se fosse
proprio tutto vero, perché non si presentava mai alla mia mente con
l’evidenza della realtà.
Quando le immagini che mi attraversavano si fecero più distinte, mi
venne la febbre; mi sentivo oppresso dall’oscurità, non avevo accanto a me
nessuno che mi desse il conforto di una voce affettuosa, nessuno che mi
tendesse la mano. Venne il dottore, prescrisse le medicine e la vecchia me le
preparò; ma il primo mostrava il più completo disinteresse e la seconda aveva
impresso sul volto il marchio della brutalità. A chi poteva importare del
destino di un assassino se non al boia, che si sarebbe guadagnato la sua paga?
Furono queste le mie prime considerazioni. Ma presto venni a sapere che
Mr. Kirwin mi aveva dimostrato un’estrema gentilezza. Aveva chiesto che
venisse preparata per me la stanza migliore della prigione (e la migliore era
davvero squallida) e lui stesso si era interessato per procurarmi un dottore e
un’infermiera. Certo, veniva a trovarmi molto di rado; per quanto desiderasse
ardentemente alleviare le sofferenze di qualunque creatura umana, non
gradiva assistere ai tormenti e alle penose farneticazioni di un assassino.
Veniva dunque a volte a controllare che non venissi trascurato, ma le sue
visite erano brevi e con lunghi intervalli di tempo tra l’una e l’altra.
Un giorno, quando ormai mi stavo gradualmente rimettendo, ero seduto
su una sedia, con gli occhi socchiusi e le gote livide di un morto. In preda alla
tristezza e allo sconforto, spesso tornavo a pensare che avrei fatto meglio a
cercare la morte piuttosto che restare tristemente imprigionato solo per poi
essere rilasciato in un mondo colmo di sventura. A un certo punto pensai
anche di dichiararmi colpevole e sottopormi alla pena della legge; ero
comunque meno innocente di quanto lo fosse la povera Justine. Ero assorto in
questi pensieri quando la porta della mia cella si aprì ed entrò Mr. Kirwin. Il
suo volto esprimeva simpatia e compassione. Portò una sedia accanto alla
mia e mi parlò in francese. «Temo che ritrovarvi in questo luogo sia stato
sconvolgente; posso fare qualcosa per mettervi più a vostro agio?»
«Vi ringrazio, ma quello di cui parlate è niente per me. Su tutta la terra
non v’è alcun conforto che io possa ricevere».
«Mi rendo conto che la comprensione di un estraneo può dare ben poco
sollievo a chi, come voi, è stato travolto da una così insolita sciagura. Ma
spero che presto lascerete questa malinconica dimora, perché si potranno
facilmente addurre delle prove che vi scagioneranno dall’accusa del crimine».
«Questa è l’ultima delle mie preoccupazioni. Il corso di alcuni
straordinari eventi mi ha portato a essere il più infelice dei mortali.
Perseguitato e torturato come sono e sono stato, potrebbe la morte essere un
male per me?»
«In effetti non potrebbe esserci nulla di più sfortunato e straziante delle
strane coincidenze che si sono verificate di recente. Per un caso sorprendente
siete stato gettato su queste rive note per la loro ospitalità, dove invece siete
stato immediatamente arrestato e accusato di omicidio. La prima cosa che vi
è stata mostrata è stata il cadavere del vostro amico, ucciso in un modo così
inspiegabile e messo sul vostro cammino, a quanto pare, da un qualche
nemico».
Quando Mr. Kirwin disse queste parole, nonostante l’agitazione che mi
provocò il ricordo delle mie sofferenze, provai anche una notevole sorpresa
per le cose che lui sembrava sapere di me. Suppongo che il mio volto mostrò
un certo stupore, perché lui si affrettò ad aggiungere: «Solo un paio di giorni
dopo esservi ammalato, pensai di ispezionare i vostri abiti in cerca di qualche
indicazione che mi permettesse di informare i vostri famigliari della vostra
sventura e del vostro stato di salute. Trovai diverse lettere e, tra le altre, una
che fin dall’inizio capii essere di vostro padre. Scrissi subito a Ginevra e da
quando ho spedito la lettera sono trascorsi quasi due mesi. Ma siete malato,
anche adesso state tremando, non siete in grado di sostenere nessun tipo di
emozione».
«Questa attesa è mille volte peggio dell’evento più terribile; ditemi quale
nuovo atto di morte si è svolto e di chi devo piangere adesso l’assassinio».
«La vostra famiglia è in perfetta salute» disse Mr. Kirwin con gentilezza.
«E qualcuno, un amico, è venuto a trovarvi».
Non so come si fece strada in me l’idea, ma tutto a un tratto mi balenò in
mente che l’assassino fosse venuto a prendersi gioco della mia sciagura e a
provocarmi con la morte di Clerval per incitarmi nuovamente ad acconsentire
ai suoi infernali desideri. Mi coprii gli occhi con una mano e gridai,
disperato: «Oh, portatelo via! Non voglio vederlo. Per l’amor di Dio, non
fatelo entrare!»
Mr. Kirwin mi guardò con un’espressione perplessa. Non poté fare a
meno di cogliere nella mia esclamazione un segno della mia colpa e disse, in
tono piuttosto severo: «Avrei pensato, giovanotto, che la presenza di vostro
padre sarebbe stata benvenuta, invece di provocarvi una tale violenta
ripugnanza».
«Mio padre!» gridai, e in ogni tratto del mio volto, e in ogni muscolo,
l’angoscia si mutò in piacere. «Davvero è venuto mio padre? Quanto mi
vuole bene, quanto è buono. Ma dov’è, perché non corre da me?»
Questo cambiamento nei miei modi fu una gradita sorpresa per il
magistrato; probabilmente pensò che le mie precedenti esclamazioni fossero
un passeggero riaffacciarsi del delirio e quindi recuperò la sua benevolenza.
Si alzò e uscì dalla stanza con la mia infermiera. A quel punto entrò mio
padre.
In quel momento niente avrebbe potuto darmi un piacere più grande del
suo arrivo. Gli tesi la mano ed esclamai: «State bene dunque... Ed Elizabeth?
Ed Ernest?»
Mio padre mi calmò rassicurandomi sulla loro salute e tentò di tirarmi su
il morale parlandomi di quelle persone tanto care al mio cuore. Si rese conto
presto, tuttavia, che nella cella di una prigione non può albergare letizia. «In
che posto sei finito, figlio mio!» disse, osservando con tristezza le sbarre alle
finestre e il miserabile aspetto della cella. «Ti sei messo in viaggio in cerca di
felicità ma sembra che un fato cattivo ti perseguiti. E il povero Clerval...»
Udire il nome del mio sfortunato amico ucciso mi provocò un’agitazione
troppo forte per le mie deboli condizioni e scoppiai a piangere.
«Ahimè, padre mio! Proprio così» replicai, «un orribile destino incombe
su di me ed evidentemente devo vivere perché si compia, altrimenti sarei
morto di sicuro sulla bara di Henry».
Non ci fu permesso di parlare più di tanto perché il mio precario stato di
salute rendeva necessaria ogni precauzione che mi garantisse una certa
tranquillità. Entrò Mr. Kirwin e ribadì che le mie forze non andavano messe
troppo alla prova o sarebbero scemate. Ma l’apparizione di mio padre fu per
me come quella del mio angelo custode e gradualmente recuperai la salute.
Col passare della malattia venivo sempre più assorbito da una profonda e
tetra malinconia che niente riusciva a dissipare. Avevo sempre davanti
l’immagine spettrale di Clerval assassinato e più di una volta i miei pensieri
mi gettarono in uno stato di agitazione che fece temere ai miei amici una
pericolosa ricaduta. Ahimè! Perché si sforzarono di preservare una vita così
meschina e da me detestata? Sicuramente affinché il mio destino giungesse a
compimento; e il momento adesso si avvicina. Presto, oh sì, molto presto, la
morte porrà fine a queste pulsazioni e mi libererà dell’enorme peso
d’angoscia che mi schiaccia e mi riduce in frantumi; a quel punto, pagando il
giusto prezzo alla giustizia, potrò anch’io sprofondare nel riposo. In quei
giorni l’avvento della morte era distante, per quanto il desiderio fosse sempre
vivo nei miei pensieri; sedevo spesso ore e ore senza parlare, immobile,
desiderando che arrivasse un qualche potente cataclisma a seppellire, sotto le
sue macerie, me e il mio distruttore.
Si avvicinava il periodo dell’assise. Avevo passato tre mesi in prigione e,
per quanto fossi ancora debole e in costante rischio di ricadute, fui obbligato
a percorrere quasi cento miglia per raggiungere il capoluogo in cui si riuniva
la corte. Mr. Kirwin si incaricò di radunare i testimoni e organizzare la mia
difesa. Mi venne risparmiata l’onta di comparire in pubblico come un
criminale, perché il caso non fu portato davanti alla corte che decide della
vita e della morte. Il gran giurì respinse l’accusa, essendo stato provato che
ero nelle Isole Orcadi nel momento in cui venne rinvenuto il corpo del mio
amico, e un paio di settimane dopo la mia assoluzione venni scarcerato.
Mio padre era in estasi nel rivedermi libero da ogni accusa e in
condizione di respirare nuovamente l’aria fresca e ritornare nel mio paese. Io
non condividevo con lui questi sentimenti: per me le pareti di una casa o di
una prigione erano altrettanto odiose. La coppa della vita era avvelenata per
sempre: per quanto il sole splendesse su di me come su tutti i puri e i lieti di
cuore, non vedevo altro intorno che tenebre dense e spaventose in cui non
penetrava alcuna luce, se non il bagliore di un paio di occhi intenti a fissarmi.
A volte erano gli occhi espressivi di Henry, nel languore della morte, con le
pupille quasi ricoperte dalle palpebre orlate di ciglia folte; altre volte erano
quelli acquosi e annebbiati del mostro, come li avevo visti la prima volta
nella mia stanza a Ingolstadt.
Mio padre cercò di risvegliare in me sentimenti di affetto. Mi parlava di
Ginevra, dove sarei presto arrivato, di Elizabeth e di Ernest. Ma quelle parole
provocarono in me solo gemiti. A volte, è vero, provavo un desiderio di
felicità e pensavo, con piacere malinconico, alla mia amata cugina; oppure,
preso da una divorante maladie du pays, anelavo di rivedere ancora una volta
il lago azzurro e il rapido Rodano, che tanto cari mi erano stati nella prima
infanzia. Ma il sentimento generale che provavo era quello di un torpore tale
per cui una prigione era dimora altrettanto accogliente del più divino
paesaggio naturale, e questo acuto stato d’animo era interrotto soltanto,
raramente, da parossismi di angoscia e di disperazione. In quei momenti
spesso tentavo di porre fine all’esistenza che detestavo; ed erano dunque
necessarie un’attenzione e una vigilanza costanti per impedirmi di
commettere qualche terribile atto di violenza.
Ricordo che uscendo di prigione sentii un uomo dire: «Sarà pure
innocente dell’omicidio, ma di sicuro ha la coscienza sporca». Queste parole
mi toccarono. La coscienza sporca! Sì, era proprio così. William, Justin e
Clerval erano morti a causa delle mie infernali macchinazioni. «E quale
morte» gridai «porrà fine alla tragedia? Ah! Padre mio, non rimanete in
questo paese maledetto; portatemi dove io possa dimenticare me stesso, la
mia esistenza, il mondo intero».
Mio padre acconsentì docilmente al mio desiderio, e dopo aver salutato
Mr. Kirwin ci affrettammo a raggiungere Dublino. Mi sentii sollevato da un
gran peso, quando il postale salpò sospinto da un bel vento irlandese, e lasciai
per sempre quel luogo che era stato per me il palcoscenico di tanto dolore.
Era mezzanotte. Mio padre dormiva in cabina; io ero sdraiato sul ponte a
guardare le stelle e ad ascoltare lo sciabordio delle onde. Benedicevo
l’oscurità che nascondeva l’Irlanda alla mia vista, e il cuore mi batteva di una
gioia febbrile se pensavo che di lì a poco avrei rivisto Ginevra. Il passato ora
aveva i colori di un incubo spaventoso; eppure la nave dove mi trovavo, il
vento che mi portava via dalle odiate rive d’Irlanda e il mare che mi
circondava mi dichiaravano con fin troppa veemenza che non ero stato
ingannato da un sogno, e che il mio amico, il mio più caro compagno,
Clerval, era caduto vittima di me e del mostro che avevo creato. Con la
memoria ripercorsi tutta la mia vita: la placida felicità di quando vivevo in
famiglia, la morte di mia madre, la mia partenza per Ingolstadt. Mi vennero i
brividi al ricordo del folle entusiasmo che mi aveva spinto verso la creazione
del mio odioso nemico, e rievocai la prima notte in cui lui prese vita. Ma non
riuscivo a seguire il flusso dei miei pensieri, ero in preda a migliaia di
sensazioni, e piansi.
Da quando mi era passata la febbre avevo preso l’abitudine di prendere
ogni sera una piccola quantità di laudano, perché solo grazie a quella droga
riuscivo a ottenere il riposo necessario a preservare la vita. Oppresso com’ero
dal ricordo delle mie numerose disgrazie, quella volta ne presi una dose
doppia e molto presto mi addormentai profondamente. Ma il sonno non offrì
alcuna tregua al pensiero e allo sconforto, perché i miei sogni mi portarono
migliaia di immagini che mi fecero paura. Verso mattina ebbi una specie di
incubo: sentivo la presa del demone sul collo e non riuscivo a liberarmene;
nelle mie orecchie risuonavano gemiti e grida. Mio padre, che vegliava su di
me, avvertendo la mia inquietudine, mi riscosse e mi mostrò il porto di
Holyhead, dove stavamo entrando.
Capitolo quinto

Avevamo deciso di non andare a Londra ma di attraversare il paese fino a


Portsmouth, da dove ci saremo imbarcati per Le Havre. Preferivo questo
piano soprattutto perché non sopportavo l’idea di rivedere i posti in cui avevo
goduto di qualche momento di tranquillità in compagnia del mio amato
Clerval. Mi faceva orrore il pensiero di rivedere le persone che avevamo
l’abitudine di frequentare insieme e che avrebbero potuto farmi domande su
un evento il cui solo ricordo rinnovava la fitta di acuto dolore provata
vedendo il suo corpo senza vita nella locanda di ***. Quanto a mio padre, i
suoi desideri e i suoi sforzi erano tutti rivolti al rivedermi di nuovo in salute e
sereno. La sua delicatezza e le sue attenzioni erano incessanti; il mio dolore e
la mia tristezza erano ostinati, ma lui non disperava. A volte, credendo che mi
pesasse l’offesa di essere stato costretto a rispondere di un’accusa di
omicidio, si sforzava di dimostrarmi la futilità dell’orgoglio.
«Ahimè, padre mio!» dicevo. «Quanto poco sapete di me. Sarebbe
davvero un’offesa al genere umano, ai suoi sentimenti e alle sue passioni, se
un disgraziato come me provasse orgoglio. Justine, la povera, infelice Justine,
che era innocente quanto me, ha subito la stessa accusa e ne è morta; per
causa mia, sono io ad averla uccisa. William, Justine, Henry... sono tutti
morti per mano mia».
Durante la mia prigionia mio padre mi aveva spesso sentito fare le stesse
affermazioni. Quando mi accusavo in questo modo, a volte sembrava
desiderare una spiegazione, altre pareva ritenerlo l’effetto del delirio:
quell’idea doveva essersi formata nella mia immaginazione durante la
malattia e ne conservavo il ricordo anche in convalescenza. Evitavo di dare
spiegazioni e mantenevo il silenzio sull’essere abominevole che avevo creato.
Pensavo che sarei stato preso per matto e questo mi legava la lingua, anche se
avrei dato qualunque cosa pur di confidare quel fatale segreto.
In quell’occasione mio padre disse, con un’espressione di stupore
sconfinato: «Che cosa dici, Victor? Sei impazzito? Mio caro figlio, ti
supplico di non fare mai più una simile affermazione».
«Non sono pazzo» sbottai con veemenza, «il sole e il cielo, che hanno
visto le mie azioni, possono testimoniare che dico il vero. Io sono l’assassino
di quelle vittime innocenti; loro sono morte per le mie macchinazioni. Avrei
preferito mille volte versare il mio sangue, goccia a goccia, per salvare le loro
vite. Ma non ho potuto, padre mio. Non potevo sacrificare tutto il genere
umano».
La conclusione del mio discorso convinse mio padre dello stato
confusionale della mia mente e subito cambiò argomento di conversazione,
cercando di indirizzare altrove i miei pensieri. Desiderava il più possibile
cancellare il ricordo di quanto era accaduto in Irlanda, e non faceva mai
riferimento alle scene vissute lì, né mi permetteva di parlare delle mie
disgrazie.
Con il passare del tempo divenni più calmo; nel mio cuore regnava la
tristezza, ma non parlavo più in quel modo incoerente dei crimini da me
commessi. Mi bastava tenerli a mente. Esercitando su me stesso un’estrema
violenza, zittivo la voce imperiosa della disperazione, che a volte si voleva
far sentire dal mondo intero, e i miei modi erano più calmi e più composti di
quanto fossero mai stati dalla mia escursione al mare di ghiaccio.
Giungemmo a Le Havre l’8 di maggio e da lì subito partimmo per Parigi,
dove alcuni affari di mio padre ci trattennero per alcune settimane. In questa
città ricevetti la seguente lettera da Elizabeth:

«A Victor Frankenstein

«Carissimo amico,
mi ha fatto un estremo piacere ricevere una lettera di mio zio da Parigi. Non
siete più a una distanza insormontabile e posso sperare di rivederti in meno di
quindici giorni. Povero cugino mio, quanto devi avere sofferto! Mi aspetto di
trovarti in condizioni di salute peggiori di quando sei partito da Ginevra.
L’inverno è trascorso molto tristemente, per l’ansia e l’attesa che mi hanno
torturata; e tuttavia spero di scorgere pace sul tuo viso e di scoprire che il tuo
cuore non sia del tutto scevro di conforto e tranquillità.
«Pure temo che siano ancora vivi quegli stessi sentimenti che ti
rattristavano tanto un anno fa, forse ancora di più con il tempo. Non ti
disturberei in un momento come questo, così gravoso per le sciagure che hai
passato, se non fosse che una conversazione avuta con mio zio prima della
sua partenza rende necessaria una qualche spiegazione prima che ci
incontriamo.
«Spiegazione! potresti dire tu. Che mai dovrà spiegarmi Elizabeth? Se è
questa la tua reazione, allora le mie domande hanno trovato risposta e non
devo fare altro che firmarmi la tua affezionata cugina. Ma sei distante da me
ed è possibile che questo chiarimento tu lo tema e al tempo stesso lo desideri;
quindi, nella probabilità che così stiano le cose, non posso più permettermi di
rimandare di scrivere ciò che durante la tua assenza ho spesso desiderato
dirti, ma non trovavo mai il coraggio di iniziare.
«Tu sai bene, Victor, che il progetto della nostra unione è stato sempre
accarezzato dai tuoi genitori fin dalla nostra infanzia. Ci è stato comunicato
da piccoli e ci hanno insegnato ad aspettarcelo come una cosa che sarebbe
certamente avvenuta. Da bambini tu e io eravamo affezionati compagni di
giochi e quando siamo cresciuti, io credo, siamo diventati buoni amici, cari
l’uno all’altra. Ma un fratello e una sorella nutrono spesso un caro affetto
l’uno per l’altra senza desiderare per questo una più intima unione; e non
potrebbe essere così anche per noi? Dimmelo, carissimo Victor, rispondimi, ti
prego, in nome della nostra reciproca felicità, in modo sincero: sei
innamorato di un’altra?
«Hai viaggiato, hai passato tanti anni della tua vita a Ingolstadt; ti
confesso, amico mio, che quando lo scorso autunno ti vedevo così infelice, e
rifuggire la compagnia di ogni creatura, in cerca di solitudine, non ho potuto
fare a meno di supporre che il nostro legame ti rincrescesse, sentendoti
vincolato a onorare il desiderio dei tuoi genitori, per quanto fosse contrario
alle tue inclinazioni. Ma è sbagliato ragionare così. Confesso, cugino, di
amarti e che nei miei eterei sogni sul futuro sei sempre stato il mio fedele
amico e compagno. Ma desidero la tua felicità quanto la mia e ti dichiaro che
il nostro matrimonio mi renderebbe infelice per sempre se non fosse dettato
da una tua libera scelta. Piango al pensiero che tu, già provato come sei dalle
sciagure più crudeli, possa soffocare, in nome dell’onore, ogni speranza di
amore e felicità che solo potrebbero ricondurti a te stesso. Io, che per te nutro
tanto affetto, mi troverei a decuplicare la tua afflizione facendo da ostacolo
alla realizzazione dei tuoi desideri. Ah, Victor, sappi per certo che tua cugina
e la tua compagna di giochi prova per te un amore troppo sincero per non
essere affranta a un tale pensiero. Sii felice, amico mio, e se mi obbedirai in
questa unica richiesta, sta’ sicuro che niente al mondo avrà il potere di
interrompere la mia tranquillità.
«Non permettere a questa lettera di disturbarti. Non rispondere domani, e
nemmeno dopodomani, non rispondere fino a quando non sarai tornato, se ti
dovesse dare pena. Mio zio mi manderà notizie della tua salute. E se quando
ci incontreremo vedrò anche un solo sorriso sulle tue labbra, dovuto a questo
o qualsiasi altro mio tentativo, non chiederò altra felicità.

Elizabeth Lavenza
Ginevra, 18 maggio 17**»

Questa lettera mi ricordò ciò che avevo dimenticato, la minaccia del demone:
«Sarò con te la tua prima notte di nozze». Questa era la mia condanna; quella
notte il demonio avrebbe usato ogni arte per distruggermi e strapparmi da
quell’accenno di felicità che prometteva una parziale consolazione per le mie
sofferenze. Lui aveva stabilito che quella notte avrebbe coronato i suoi
crimini con la mia morte. E allora, che così fosse. Avrebbe certamente avuto
luogo una lotta mortale nella quale, se avesse vinto lui, io avrei trovato pace e
il suo potere su di me sarebbe terminato. Se lui avesse perso, io sarei stato un
uomo libero. Ahimè! Quale libertà? Quella del contadino a cui è stata
massacrata la famiglia davanti agli occhi, bruciata la casa, inaridita la terra e
vaga alla deriva, senza dimora, senza un soldo, solo, ma libero. Questa
sarebbe stata la mia libertà, salvo avere per me un tesoro come Elizabeth ma,
ahimè, controbilanciato dagli orrori del rimorso e della colpa, che mi
avrebbero perseguitato fino alla morte.
Dolce e beneamata Elizabeth! Leggevo e rileggevo la sua lettera e nel mio
cuore s’insinuarono sentimenti più teneri, e osai sussurrare paradisiaci sogni
di amore e gioia; ma la mela era già morsa e la spada sguainata dell’angelo
mi precludeva la via a ogni speranza. Eppure avrei dato la vita per renderla
felice. Se il mostro avesse realizzato la sua minaccia, la morte era inevitabile;
tuttavia, di nuovo, mi domandai se il mio matrimonio avrebbe affrettato il
mio destino. La mia fine sarebbe in effetti potuta arrivare qualche mese
prima; ma se il mio aguzzino avesse sospettato che io la rimandassi
influenzato dalle sue minacce, avrebbe certamente trovato altri mezzi per
vendicarsi, forse anche più terribili. Aveva giurato che sarebbe stato con me
la prima notte di nozze, ma non riteneva quella minaccia un obbligo di pace
nel frattempo; infatti, per mostrarmi che non era ancora sazio di sangue,
aveva ucciso Clerval immediatamente dopo la proclamazione delle sue
minacce. Decisi dunque che se l’immediata unione con mia cugina avrebbe
portato alla sua felicità o a quella di mio padre, i disegni del mio avversario
contro la mia vita non l’avrebbero ritardata nemmeno di un’ora.
Scrissi a Elizabeth con questo stato d’animo. La mia lettera era pacata e
piena d’affetto. «Temo, mia amata ragazza» dissi, «che a noi rimanga ben
poca letizia su questa terra, ma tutta quella che potrò un giorno gustare è
concentrata in te. Spazza via le tue inutili paure; soltanto a te consacro la mia
vita e ogni mio impegno a essere contento. Ho un segreto, Elizabeth, un
segreto terribile; quando te lo rivelerò, tutto il tuo corpo raggelerà d’orrore e a
quel punto, lungi dall’essere sorpresa per la mia disperazione, ti chiederai
soltanto come abbia fatto a sopravvivere a quanto ho sopportato. Ti confiderò
questa storia di tormento e di orrore il giorno seguente al nostro matrimonio
perché, dolce cugina, tra noi ci deve essere totale confidenza. Fino ad allora,
però, ti prego di non parlarne e non alludervi mai. Questa è la mia profonda
supplica e so che la esaudirai».
Circa una settimana dopo l’arrivo della lettera di Elizabeth eravamo a
Ginevra. Mia cugina mi accolse con caloroso affetto, pur con le lacrime agli
occhi nel vedermi così emaciato e consumato dalla febbre. Anche io la vidi
cambiata. Era più magra e aveva perso tanta di quella celestiale vivacità che
un tempo mi aveva incantato. La sua gentilezza, però, e i suoi teneri sguardi
compassionevoli la rendevano una compagna più adatta a un essere distrutto
e miserabile come me.
La tranquillità che per un momento provai non durò a lungo. I ricordi
riaffioravano e con loro la follia; quando pensavo a ciò che era accaduto, ero
preda di un vero squilibrio. A volte ero furioso e ardevo di rabbia, altre
depresso e scoraggiato. Non parlavo, non guardavo: stavo seduto immobile,
sconcertato dalla moltitudine di pene che mi sopraffaceva.
Soltanto Elizabeth aveva il potere di tirarmi fuori da queste crisi: la sua
voce gentile mi placava quando ero in preda alla passione e riaccendeva in
me sentimenti umani quando sprofondavo nel torpore. Lei piangeva con me,
e per me. Quando ritornavo alla ragione mi rimproverava e cercava di
ispirarmi alla rassegnazione. Ah, rassegnarsi va bene per gli sfortunati, ma
per i colpevoli non v’è pace! Gli strazi del rimorso avvelenano anche quel
lusso che talvolta ci si concede abbandonandosi agli eccessi del dolore.
Poco dopo il mio arrivo mio padre parlò dell’imminente matrimonio con
mia cugina. Io rimasi in silenzio.
«Hai dunque qualche altro legame?»
«Nessuno al mondo. Amo Elizabeth e aspetto con letizia che si compia la
nostra unione. Fissiamo il giorno in cui mi consacrerò, nella vita o nella
morte, alla felicità di mia cugina».
«Mio caro Victor, non parlare così. Siamo stati colpiti da gravi sciagure;
possiamo solo aggrapparci un po’ più stretti a quanto ci rimane e indirizzare
l’amore per coloro che abbiamo perduto su quelli che vivono ancora. La
nostra cerchia sarà piccola, ma tenuta insieme da legami di affetto e comune
sventura. E quando il tempo avrà mitigato la tua disperazione, nasceranno
nuovi e cari oggetti per le nostre cure, che rimpiazzeranno quelli di cui siamo
stati così crudelmente privati».
Questi erano i precetti di mio padre. Ma in me riaffiorava il ricordo della
minaccia e non stupirete che, per come il demone si era mostrato onnipotente
nei suoi atti sanguinari, io lo ritenessi invincibile; e che da quando aveva
pronunciato le parole: «Sarò con te la tua prima notte di nozze» ritenessi
inevitabile il compimento di quel maledetto fato. Ma la morte per me non era
un male, in confronto alla perdita di Elizabeth e dunque io, con volto
soddisfatto e persino allegro, concordai con mio padre che, se mia cugina
acconsentiva, la cerimonia avrebbe avuto luogo di lì a dieci giorni, mettendo
così, o così immaginavo, il sigillo sul mio destino.
Buon Dio! Se solo per un istante avessi pensato a quale potesse essere
l’infernale intenzione del mio diabolico avversario, mi sarei costretto a un
esilio perpetuo dal mio paese natale e avrei vagato come un reietto senza
amici per l’intero globo, piuttosto che acconsentire a quello sciagurato
matrimonio. Invece, come se possedesse poteri magici, il mostro mi aveva
reso cieco alle sue reali intenzioni, e mentre pensavo di andare incontro
unicamente alla mia morte, affrettavo quella di una vittima molto più cara.
Con l’avvicinarsi della data del nostro matrimonio, fosse codardia o
un’intuizione profetica, mi sentivo mancare il cuore. Però mascheravo i miei
sentimenti dietro un’apparente ilarità che portò il sorriso e la gioia sul volto
di mio padre, mentre non riuscì a ingannare l’occhio sempre attento e molto
più acuto di Elizabeth. Guardava alla nostra unione con una contentezza
placida, non scevra di un po’ di paura, generata dalle passate disgrazie, che
ciò che adesso ci appariva come gioia tangibile e certa potesse presto
sfilacciarsi in un sogno evanescente che non avrebbe lasciato alcuna traccia
se non un profondo ed eterno rimpianto.
Si fecero i preparativi per l’evento; ricevemmo le visite di auguri e
mostrammo tutti un’aria sorridente. Io tenevo rinchiusa nel mio cuore, come
meglio potevo, l’ansia di cui ero preda e partecipavo con apparente
scrupolosità ai piani di mio padre, per quanto sarebbero forse risultati solo
orpelli alla mia tragedia. Venne comprata per noi una casa nei pressi di
Cologny, dove avremmo potuto godere dei piaceri della campagna restando
tuttavia abbastanza vicini a Ginevra per poter fare visita ogni giorno a mio
padre, che avrebbe abitato ancora all’interno delle mura per permettere a
Ernest di seguitare i suoi studi nelle scuole cittadine.
Nel frattempo presi ogni precauzione per proteggere la mia persona, nel
caso in cui il demone mi attaccasse apertamente. Portavo sempre con me
pistole e pugnale ed ero sempre in guardia nel prevenire tranelli; così facendo
mi sentivo un po’ più tranquillo. A dire il vero, approssimandosi la data, la
minaccia mi sembrava sempre più un’allucinazione da non considerare degna
di disturbare la mia pace, mentre la gioia che mi ripromettevo di ricevere con
il matrimonio si rivestiva sempre più di realtà man mano che si avvicinava il
giorno stabilito per la cerimonia e io ne sentivo continuamente parlare come
di un evento che non poteva venire ostacolato da nessun incidente.
Elizabeth sembrava felice e il mio comportamento tranquillo contribuiva
molto a rasserenarla. Ma il giorno in cui si sarebbero realizzati i miei desideri
e il mio destino, lei era malinconica, pervasa da un cattivo presentimento;
forse pensava anche al terribile segreto che avevo promesso di rivelarle il
giorno seguente. Invece mio padre sprizzava gioia e, nel trambusto dei
preparativi, vedeva nella malinconia della nipote solo la timidezza della
novella sposa.
Celebrata la cerimonia, un numeroso gruppo di persone si radunò a casa
di mio padre, mentre era stato deciso che io ed Elizabeth avremmo passato il
pomeriggio e la notte a Evian, per tornare a Cologny la mattina dopo.
Siccome era una bella giornata e il vento era a favore, decidemmo di andare
via lago.
Furono gli ultimi momenti della mia vita in cui provai il sentimento della
felicità. Attraversammo il lago rapidamente; il sole era caldo ma ci
proteggeva dai suoi raggi una specie di tettuccio, che comunque ci
permetteva di goderci il panorama: ora da quella parte del lago dove si
vedevano il Monte Salève, le graziose rive di Montalègre e a distanza,
sovrastante, il bellissimo Monte Bianco con tutto il gruppo di montagne
ricoperte di neve che invano cerca di emularlo; e ora dall’altra, costeggiando
le rive opposte, dove vedevamo il possente Giura, che oppone il suo versante
scuro all’ambizioso che intenda lasciare il paese natio e che fa da barriera
quasi insormontabile all’invasore che vorrebbe sottometterlo.
Presi la mano di Elizabeth. «Sei triste, amore mio. Ah! Se tu sapessi
quello che ho passato, e quello che potrei dover ancora sopportare, proveresti
a farmi gustare la quiete e l’assenza di disperazione che questo giorno almeno
mi permette di provare».
«Sii felice, mio caro Victor» replicò Elizabeth. «Spero che nulla ti
addolori, e stai certo che, anche se sul mio viso non è dipinta una gioia
vivace, ho il cuore contento. Qualcosa mi suggerisce di non fare troppo
affidamento sul futuro che si offre a noi, ma non voglio ascoltare una voce
tanto sinistra. Guarda come andiamo veloci e come il movimento delle
nuvole, che ora coprono la cima del Monte Bianco, ora si levano sopra di
essa, renda questo splendido paesaggio ancora più attraente. Guarda quanti
pesci nuotano nell’acqua chiara, così chiara da poter distinguere ogni
sassolino sul fondo. Che giornata divina! Come si mostra felice e serena tutta
la natura!»
In questo modo Elizabeth provava a distogliere i suoi pensieri e i miei da
ogni considerazione su argomenti più tristi. Ma il suo umore era fluttuante;
per alcuni istanti la gioia splendeva nei suoi occhi, ma poi lasciava sempre il
posto a un’espressione pensierosa o persa.
Il sole si fece più basso nel cielo; passammo il fiume Drance e ne
osservammo il corso attraverso i crepacci delle montagne più alte e le vallate
delle colline più basse. Qui le Alpi si fanno più vicine al lago e noi ci
avvicinavamo all’anfiteatro di montagne che ne forma il limite orientale. Il
campanile di Evian splendeva tra i boschi che lo circondavano e fra le catene
di monti che lo dominavano.
Il vento, che fino a lì ci aveva sospinti con straordinaria rapidità, al
tramonto divenne una brezza leggera; l’aria dolce increspava appena le onde
e provocava un piacevole movimento tra gli alberi mentre ci avvicinavamo
alla riva, dalla quale arrivava il più delizioso aroma di fiori e fieno. Quando
approdammo il sole scomparve dietro l’orizzonte e mettendo piede a terra
sentii risvegliarsi le mie preoccupazioni e le mie paure, che mi avrebbero di lì
a poco afferrato per non lasciarmi più.
Capitolo sesto

Quando approdammo erano le otto; passeggiammo per un po’ sulla riva,


godendo della luce che finiva, e poi ci ritirammo in albergo per contemplare
il delizioso spettacolo di acqua, bosco e montagna, oscurato dal buio ma
vivido nei suoi neri contorni.
Il vento, calato a sud, si levava ora irruento da ovest. La luna aveva
raggiunto il suo apice in cielo e cominciava a calare; le nuvole le
sfrecciavano davanti più veloci del volo di un avvoltoio, attenuandone la
luce, mentre il lago rispecchiava la scena che si svolgeva in quel cielo
animato, movimentandola ancora di più con le onde inquiete che
cominciavano a sollevarsi. E improvvisamente scoppiò un forte temporale.
Ero stato calmo durante il giorno, ma appena la notte oscurò la forma
delle cose nella mia mente si destarono migliaia di paure. Ero in ansia, in
guardia, con la mano stretta a una pistola nascosta in petto; ogni suono mi
terrorizzava, ma decisi che avrei venduto cara la pelle e nel conflitto
imminente non avrei ceduto finché non si fosse decretata la fine della mia
vita o di quella del mio avversario.
Per un po’ Elizabeth osservò la mia agitazione in timido e costernato
silenzio e infine disse: «Mio caro Victor, cosa ti agita? Di cosa hai paura?»
«Oh, taci, taci, amore mio!» replicai. «Lascia passare questa notte e tutto
si sistemerà, ma questa notte è tremenda, tremenda».
Trascorsi un’ora in questo stato d’animo, quando improvvisamente pensai
a quanto tremendo sarebbe stato per mia moglie il combattimento che mi
aspettavo da un momento all’altro e dunque la scongiurai ardentemente di
ritirarsi, deciso a non raggiungerla fino a che non mi fossi orientato su dove si
trovava il mio nemico.
Lei mi lasciò e io continuai per un po’ a camminare su e giù per i corridoi
dell’edificio, ispezionando ogni angolo che potesse offrire un nascondiglio al
mio avversario. Ma non scovai alcuna traccia di lui e stavo iniziando a
credere che qualche fortunato incidente si fosse frapposto all’esecuzione delle
sue minacce, quando udii un grido acuto e terribile. Veniva dalla stanza dove
si era ritirata Elizabeth. Appena lo udii, tutta la verità mi balenò alla mente,
mi caddero le braccia e si arrestarono le funzioni di ogni mio muscolo e fibra;
sentivo il sangue che mi scorreva nelle vene e un formicolio nelle estremità
degli arti. Questa condizione non durò più di un istante; l’urlo si ripeté e mi
precipitai nella stanza.
Buon Dio! Perché non sono morto allora? Perché sono qui a raccontare la
fine delle più belle speranze e della creatura più pura sulla faccia della terra?
Lei era lì, priva di vita, immobile, gettata sul letto, la testa riversa, il volto
pallido e i lineamenti alterati coperti in parte dai capelli. Dovunque io mi giri
vedo ancora quella figura: le braccia esangui e il corpo inerme gettato
dall’assassino sul suo catafalco nuziale. Potevo vedere tutto questo e
sopravvivere? Ahimè, la vita è ostinata, e si attacca più stretta là dove è più
detestata. Io persi conoscenza solo per un momento; svenni.
Quando rinvenni mi trovai circondato dalla gente dell’albergo; i loro volti
esprimevano un trafelato orrore, ma l’orrore degli altri sembrava solo una
parodia, un’ombra del sentimento che opprimeva me. Fuggii da loro per
andare nella stanza dove giaceva il corpo di Elizabeth, il mio amore, mia
moglie, viva fino a un istante prima, così cara, così preziosa. Era stata
rimossa dalla posizione in cui l’avevo trovata e ora, distesa lì con la testa sul
braccio e un fazzoletto sopra il viso e il collo, avrei potuto credere che
dormisse. Mi gettai verso di lei e la abbracciai con passione, ma l’inerzia
mortale e le membra gelate mi dissero che ciò che ora avevo tra le braccia
non era più la Elizabeth che avevo amato e avuto cara. Sul suo collo v’era il
marchio omicida della stretta del demone; il respiro aveva smesso di esalare
dalle sue labbra.
Ancora chino su di lei, nell’agonia della disperazione, mi capitò di alzare
lo sguardo. Le finestre della stanza prima erano chiuse e ora provai una
specie di panico nel vedere la pallida luce giallognola della luna illuminare la
camera. Le imposte erano state aperte e, provando un indescrivibile orrore,
vidi alla finestra spalancata la figura più orrida e aborrita. Sul volto del
mostro v’era un ghigno; sembrava beffarsi di me, indicando con il dito
diabolico il cadavere di mia moglie. Mi precipitai alla finestra ed estraendo
una pistola dal petto sparai. Lui riuscì a schivare il colpo, con un balzo
abbandonò la sua posizione e, correndo con la rapidità del lampo, si gettò nel
lago.
La detonazione della pistola portò una folla nella stanza. Indicai il punto
dove il mostro era scomparso e ne seguimmo le tracce con le barche; vennero
gettate delle reti, ma invano. Passate molte ore facemmo ritorno, ogni
speranza ormai abbandonata, e la maggior parte di quelli che mi avevano
accompagnato era convinta che si fosse trattato di una figura evocata dalla
mia fantasia. Una volta sbarcati, continuarono a cercare sulla terraferma, con
gruppi che andavano in direzioni diverse tra i boschi e i vigneti.
Io non li accompagnai, ero esausto. Un velo copriva i miei occhi e la mia
pelle scottava del calore della febbre. Mi stesi su un letto in queste
condizioni, a stento consapevole di ciò che era accaduto, muovendo gli occhi
per la stanza come se cercassi qualcosa che avevo perduto.
Alla fine mi sovvenne che mio padre attendeva con ansia il nostro ritorno
e che sarei tornato solo, senza Elizabeth. Questo mi fece venire le lacrime
agli occhi e piansi a lungo, mentre i miei pensieri vagavano da un soggetto
all’altro, considerando le mie disgrazie e la loro causa. Mi sentivo perso,
avvolto da una nube di orrore e sgomento. La morte di William, l’esecuzione
di Justine, l’omicidio di Clerval e infine di mia moglie; in quel momento non
sapevo nemmeno se i miei unici affetti rimasti fossero in salvo dalla
malvagità del demone; poteva essere che proprio in quel momento mio padre
si stesse contorcendo nella stretta della sua morsa ed Ernest giacesse morto ai
suoi piedi. Questa idea mi fece rabbrividire e mi riportò all’azione. Mi alzai,
deciso a tornare a Ginevra il più presto possibile.
Non si trovavano cavalli e sarei dovuto tornare via lago, con un vento
sfavorevole e una pioggia torrenziale. Ma in fondo si stava appena facendo
mattino e quindi potevo ragionevolmente sperare di essere a casa per sera.
Ingaggiai dei vogatori e mi misi anch’io ai remi, perché sempre avevo trovato
sollievo nell’esercizio fisico dai tormenti della mente. Ma adesso ero pervaso
da una tale angoscia ed ero così provato dai parossismi dell’agitazione da
essere incapace di qualunque sforzo. Gettai via il remo e con la testa tra le
mani lasciai libero corso a tutte le più cupe immagini che potessero affiorare.
Se alzavo lo sguardo vedevo i paesaggi a me familiari in tempi più felici, e
che solo il giorno prima avevo ammirato in compagnia di colei che adesso era
solo un’ombra, un ricordo. Le lacrime mi sgorgavano dagli occhi. La pioggia,
per un momento, era cessata; vidi i pesci rincorrersi nell’acqua come
facevano qualche ora prima, quando anche Elizabeth li aveva osservati. Non
v’è niente di più doloroso per l’animo umano di un drastico e immediato
cambiamento. Il sole poteva ben splendere, le nuvole addensarsi... ma niente
poteva apparirmi com’era il giorno prima. Un demone mi aveva strappato
ogni speranza di futura gioia, non v’era stata mai creatura al mondo tanto
infelice quanto me. Un evento così tremendo è unico nella storia dell’uomo.
Ma è inutile indugiare sugli avvenimenti che seguirono a quest’ultimo
evento sconvolgente. La mia storia è stata un susseguirsi di orrori, qui sono
giunto all’acme e quel che resta da dire potrà solo annoiarvi. Sappiate solo
che, uno dopo l’altro, tutti i miei cari mi furono strappati e intorno a me ci fu
la desolazione. Le mie forze si esauriscono, e devo dirvi in poche parole
quello che resta del mio orribile racconto.
Giunsi a Ginevra. Mio padre ed Ernest erano ancora vivi, ma il primo non
resse alle notizie che recavo. Mi sembra di vederlo, adesso, quel grande e
venerabile vecchio! Gli occhi persi nel vuoto, privati di gioia e bellezza: sua
nipote, più di una figlia per lui, che adorava con tutto l’affetto che un uomo
giunto alla fine dei suoi giorni, con pochi cari intorno a sé, quindi ancora più
ardentemente attaccato a quelli rimasti, possa provare. Maledetto, maledetto
il demone che ricoprì di strazio i suoi capelli grigi, condannandolo a
consumarsi di dolore! Non poté sopravvivere agli orrori che si erano
accumulati intorno a lui; lo colse un colpo apoplettico e in pochi giorni spirò
tra le mie braccia.
Che ne fu allora di me? Non lo so; persi ogni sensibilità, provavo solo
un’oppressione di catene e tenebre. Talvolta, è vero, sognavo di passeggiare
per campi fioriti e dolci vallate con gli affetti della mia giovinezza; ma poi mi
svegliavo, ed ero in prigione. A questo seguì uno stato malinconico e poi per
gradi riacquistai la percezione chiara delle mie sciagure e della mia
situazione, finché venni liberato dalla prigionia. Mi avevano dichiarato matto
e per molti mesi, da quanto capii, la mia dimora era stata una cella solitaria.
Ma la libertà sarebbe stata un dono inutile se, una volta tornato alla
ragione, non si fosse al tempo stesso risvegliato in me il desiderio di vendetta.
L’oppressione del ricordo delle passate sfortune mi portò a riflettere sulla
loro causa: il mostro che avevo creato, lo sciagurato demone che avevo
liberato nel mondo perché mi distruggesse. Mi prendeva una rabbia furente
quando pensavo a lui, e desideravo e ardentemente pregavo di averlo fra le
mani per far calare sul suo capo maledetto una vendetta grandiosa ed
esemplare.
E il mio odio non rimase confinato nell’ambito di vani desideri; cominciai
a riflettere su quali fossero i mezzi migliori per catturarlo. A questo scopo,
dopo circa un mese da quando ero stato dimesso, mi rivolsi a un giudice
penale della città e gli dissi che dovevo sporgere denuncia, che sapevo chi
aveva sterminato la mia famiglia e che richiedevo a lui di esercitare tutta la
sua autorità per la cattura dell’assassino.
Il magistrato mi ascoltò con attenzione e cortesia. «Siate certo, signore»
mi disse, «che da parte mia non verranno risparmiati né cure né sforzi per
trovare il malvivente».
«Vi ringrazio» replicai. «Dunque ascoltate la mia deposizione. È in effetti
una storia così strana che potrei temere non la credereste, se non vi fosse
nella verità qualcosa che, per quanto straordinario, costringe a darle credito.
La storia è troppo coerente per essere presa per un sogno, e io non ho motivo
di dire il falso». Il modo con cui mi rivolgevo a lui era deciso, ma calmo. In
cuor mio ero risoluto a dare la caccia al mio distruttore fino alla morte e
questo proposito acquietava la mia ansia riconciliandomi momentaneamente
con la vita. Narrai la mia storia in breve, ma con fermezza e precisione,
sottolineando con accuratezza le date e senza mai lasciarmi prendere da
invettive o esclamazioni.
Il magistrato si mostrò dapprima del tutto incredulo, ma mentre andavo
avanti si fece più attento e interessato. A volte lo vedevo scosso da brividi di
orrore, altre sul suo viso si dipingeva un’espressione di vivace sorpresa, ma
priva di dubbi.
Concluso il mio racconto dissi: «Questo è l’essere che accuso e per la sua
cattura e punizione vi chiedo di esercitare tutto il vostro potere. È il dovere di
un magistrato; credo e spero che la compassione non vi faccia tirare indietro
dallo svolgimento delle vostre mansioni».
Questo discorso provocò un notevole mutamento nella fisionomia del mio
interlocutore. Aveva seguito la mia storia con quella sorta di incredulità che
si presta a un racconto di fantasmi e di eventi soprannaturali. Ma ora che gli
veniva richiesto di agire in conformità del suo ruolo ufficiale, tutto il versante
dell’incredulità si fece strada in lui. E tuttavia rispose con compostezza: «Vi
darei volentieri ogni aiuto al riguardo, ma la creatura di cui parlate sembra
avere poteri che vanificherebbero ogni mio sforzo. Chi può inseguire una
bestia in grado di attraversare il mare di ghiaccio e di abitare in caverne e in
anfratti dove nessun uomo si avventurerebbe a entrare? E inoltre sono passati
diversi mesi dall’esecuzione dei suoi crimini e nessuno può immaginare in
quali luoghi si sia avventurato o in quale regione abiti ora».
«Sono sicuro che si aggiri vicino a dove abito io; se invece avesse già
preso rifugio sulle Alpi, gli si potrebbe dare la caccia come a un camoscio e
ucciderlo come un animale da preda. Ma intuisco i vostri pensieri; voi non
credete alla mia storia e non avete intenzione di inseguire il mio nemico per
punirlo come merita».
Mentre parlavo i miei occhi erano accesi di rabbia e il magistrato ne fu
intimidito. «Vi sbagliate» disse. «Io mi darò da fare. E se sarà in mio potere
di catturare il mostro, state certo che verrà punito in proporzione ai suoi
crimini. Ma dalla vostra stessa descrizione delle sue doti temo che questo si
dimostrerà inattuabile e che, mentre ogni mezzo adatto sarà adoperato, voi
dovrete rassegnarvi alla delusione».
«Questo è impossibile. Ma qualunque cosa io dica non sarà di aiuto. La
mia vendetta non ha importanza per voi. Dal canto mio, per quanto la
consideri un male, vi confesso che è l’unica e divorante passione della mia
anima. La mia rabbia è indicibile se penso che l’assassino, che io stesso ho
messo a piede libero tra gli uomini, è ancora in mezzo a loro. Voi respingete
la mia giusta richiesta. Mi resta un’unica risorsa. Mi immolerò, nella vita o
nella morte, alla sua distruzione».
Nel dire questo tremavo per la troppa agitazione; v’era nei miei modi una
certa frenesia e anche qualcosa, non ne dubito, di quella superba fierezza che
si dice possedessero gli antichi martiri. Ma per un magistrato di Ginevra, i cui
pensieri erano occupati da ben altri concetti che devozione ed eroismo, questo
elevarsi del mio spirito aveva l’aspetto della pazzia. Cercò di calmarmi come
farebbe una balia con il suo bimbo e si riferì alla mia storia come al prodotto
di un delirio.
«Uomo» gridai, «quanto sei ignorante nella tua presunzione di sapere!
Taci, perché non sai quello che dici».
Mi precipitai fuori dalla casa, irato e sconvolto, e mi ritirai a escogitare un
altro piano di azione.
Capitolo settimo

Le condizioni in cui versavo erano di quelle in cui qualunque pensiero


ragionevole veniva risucchiato per perdersi nel nulla. Ero spronato dalla furia.
Solo l’idea di vendicarmi mi dava forza e mi teneva intero; modellava i miei
pensieri e mi rendeva calmo e calcolatore, laddove la mia sorte poteva essere
il delirio o la morte.
La mia prima decisione fu quella di andare via da Ginevra per sempre; il
mio paese, che mi era stato tanto caro quando ero felice e amato, adesso,
nelle avversità, mi era divenuto odioso. Mi procurai una somma di denaro,
insieme ad alcuni gioielli che erano appartenuti a mia madre, e partii.
E qui cominciarono i miei vagabondaggi, che termineranno solo insieme
alla mia vita. Ho traversato una vasta porzione della terra e ho sopportato
tutte le asperità a cui va incontro chi viaggia nei deserti e in terre selvagge.
Non so bene come abbia fatto a sopravvivere; così spesso ho disteso le mie
membra vacillanti su pianure di sabbia e pregato che giungesse la morte. Ma
il desiderio di vendetta mi ha tenuto vivo. Non ho osato morire lasciando in
vita il mio avversario.
Quando partii da Ginevra il mio primo sforzo fu quello di reperire
qualche indizio che mi mettesse sulle tracce del mio diabolico nemico. Ma
non avevo un piano preciso e vagai molte ore intorno ai confini della città,
indeciso sulla strada da prendere. Al calare della notte mi ritrovai all’ingresso
del cimitero dove riposavano William, Elizabeth e mio padre. Entrai e mi
avvicinai al tumulo che segnava il luogo dove erano sepolti. Regnava il
silenzio, se non per le foglie degli alberi, che il vento scuoteva dolcemente;
l’oscurità della notte era quasi completa. La scena sarebbe stata solenne e
toccante anche per un osservatore disinteressato. Le anime dei morti
sembravano aleggiare tutt’intorno e gettare un’ombra, percepita ma non vista,
sul capo di chi li piangeva.
Il profondo dolore che questa scena aveva inizialmente suscitato in me si
mutò rapidamente in rabbia e disperazione. Loro erano morti e io vivevo;
anche il loro assassino viveva, e per distruggerlo dovevo ancora trascinare la
mia sfinita esistenza. Mi inginocchiai sull’erba, baciai la terra e con labbra
tremanti esclamai: «Per il suolo sacro su cui mi inginocchio, per le ombre che
vagano intorno a me, per il profondo ed eterno dolore che provo, io giuro; e
per te, o notte, e per gli spiriti che su di te presiedono, io giuro che inseguirò
il demone che causò questo dolore fino a che o lui o io periremo in mortale
conflitto. Solo per questo mi terrò in vita; per compiere questa vendetta che
mi è cara sosterrò ancora la luce del sole e camminerò sull’erba verde della
terra, cose che altrimenti potrebbero anche sparire per sempre dalla mia vista.
E invoco voi, spiriti dei morti, e voi, ministri erranti di vendetta, per aiutarmi
e indirizzarmi nella mia opera. Lasciate che il mostro maledetto e infernale
beva a grandi sorsi dalla coppa del tormento, fategli sentire la disperazione
che ora corrode me!»
Avevo dato inizio alla mia invocazione con solennità e una certa sacralità
che mi inducevano a credere che la mia preghiera venisse udita e accolta
dagli spiriti dei miei cari assassinati; ma verso la fine le furie si
impossessarono di me e la rabbia mi strozzò la voce in gola.
Nel silenzio della notte mi rispose una sonora e diabolica risata. Mi
rimbombò nelle orecchie a lungo e intensamente; le montagne le facevano
eco e mi sembrò che l’inferno intero mi circondasse ridendo beffardamente di
me. Di sicuro, a quel punto, avrebbe potuto prendermi una frenesia distruttiva
contro la mia miserabile esistenza, ma il mio giuramento era stato udito e io
ero stato risparmiato al fine di vendicarmi. La risata svanì e al suo posto mi
giunse una voce ben nota e aborrita, che bisbigliò al mio orecchio come se
fosse vicina: «Sono soddisfatto, disgraziato miserabile! Sei risoluto a vivere e
io ne sono soddisfatto».
Mi lanciai verso il punto da cui veniva il suono, ma il demone sfuggì alla
mia presa. Tutt’a un tratto apparì il grande disco lunare a illuminare la sua
spaventosa e distorta figura, che fuggiva a velocità sovrumana.
Presi a inseguirlo e questa è stata la mia missione per tanti mesi a questa
parte. Guidato da un debole indizio seguii il tortuoso corso del Rodano, ma
invano. Poi mi apparve l’azzurro del Mediterraneo e per una strana
coincidenza una notte vidi il demone nascondersi su un vascello diretto al
Mar Nero. Mi imbarcai sulla stessa nave ma lui, non so come, scappò.
E continuai a seguire sempre le sue tracce, tra le terre selvagge dei tartari
e della Russia, anche se lui continuava a sfuggirmi. Talvolta i contadini,
spaventati dalla sua orrida apparizione, mi davano indicazioni sul suo
percorso; a volte era lui stesso, temendo che se avessi perso del tutto le sue
tracce mi sarei arreso e ucciso, a lasciare dei segni per guidarmi. La neve mi
cadeva sul capo e vedevo l’impronta del suo enorme passo sul terreno
imbiancato. Ma voi, che vi affacciate adesso alla vita, che siete nuovo agli
affanni e non conoscete lo strazio, come potete capire quello che provavo e
provo ancora? Freddo, privazione e fatica erano le sofferenze minori che ero
destinato a patire; ero tormentato da un diavolo e portavo sempre con me il
mio eterno inferno; eppure sempre uno spirito benigno seguiva e indirizzava i
miei passi, e quando più mi lamentavo mi tirava fuori, d’un tratto, da
difficoltà apparentemente insormontabili. A volte, quando la carne vinta dalla
fame soccombeva allo sfinimento, mi veniva preparato un pasto nel deserto,
per ristorarmi e rimettermi in forze. Era cibo rozzo, certo, di quello che
mangiano i contadini, ma non ho dubbi che fosse stato messo lì dagli spiriti di
cui avevo invocato l’aiuto. Spesso, quando era tutto arido e il cielo senza
nuvole, ed ero riarso dalla sete, una nuvoletta offuscava il cielo, lasciava
cadere qualche goccia per rianimarmi e scompariva.
Quando potevo seguivo il corso dei fiumi, anche se il demone in genere li
evitava, perché era qui che si radunava la maggior parte della popolazione. In
altri luoghi invece raramente si vedevano esseri umani e qui di solito io mi
sostentavo con gli animali selvatici che attraversavano il mio cammino.
Avevo denaro con me e mi guadagnavo l’amicizia degli abitanti dei villaggi
facendogliene dono o portando con me la selvaggina che avevo ucciso e che,
dopo averne preso un pezzetto, regalavo sempre a coloro che mi avevano
provvisto di fuoco e utensili per cucinare.
Trascorrere la vita in questo modo me la rendeva odiosa; solo nel sonno
potevo assaporare qualche gioia. Oh, benedetto sonno! Spesso, quando ero
troppo infelice, mi abbandonavo al riposo e i miei sogni mi cullavano fino a
uno stato estatico. Gli spiriti che vegliavano su di me mi procuravano quei
momenti, o meglio quelle ore, di felicità, affinché potessi recuperare energia
per compiere il mio pellegrinaggio. Privato di queste tregue, sarei crollato per
gli stenti e la fatica. Durante il giorno mi sosteneva e ispirava la speranza che
sarebbe giunta la notte, perché nel sonno vedevo i miei cari, mia moglie, la
mia amata patria; rivedevo il volto benevolo di mio padre, udivo la voce
argentina di Elizabeth e contemplavo Clerval che si godeva salute e
giovinezza. Spesso, quando ero sfinito per una dura marcia, mi convincevo
che quello era il sogno e con la notte avrei goduto della realtà degli abbracci
dei miei affetti più cari. Che amore struggente provavo per loro! Come mi
aggrappavo alle loro care immagini, tanto che a volte mi visitavano anche
nelle ore di veglia, persuadendomi di essere ancora vivi! In quei momenti il
desiderio di vendetta che bruciava in me svaniva dal mio cuore, e continuavo
il cammino verso l’annientamento del demone quasi fosse un compito
ingiuntomi dal cielo, o l’impulso meccanico attivato da una forza di cui non
ero cosciente, più che l’ardente desiderio della mia anima.
Quali fossero i sentimenti di colui che inseguivo, non posso saperlo. A
volte, in effetti, lasciava delle iscrizioni sulle cortecce degli alberi, o incise
nella pietra, che mi guidavano e istigavano la mia furia. «Il mio regno non è
ancora finito» (così si leggeva in una di quelle iscrizioni). «Tu vivi e il mio
potere è completo. Seguimi, mi dirigo verso gli eterni ghiacciai del nord,
dove patirai il freddo e il gelo, ai quali io sono insensibile. Qua vicino, se non
ti attardi, troverai una lepre morta: mangia e ristorati. Avanti, mio nemico.
Dobbiamo ancora lottare per le nostre vite. Ma prima che arrivi quel
momento devi ancora sopportare molte ore difficili e tristi».
Diavolo beffardo! Giuro di nuovo vendetta; di nuovo ti condanno,
demone miserabile, ai tormenti e alla morte. Non smetterò mai di cercare
finché uno di noi due non morirà. Allora con quale estasi raggiungerò la mia
Elizabeth e coloro che già adesso stanno preparando per me la ricompensa
alle mie estenuanti fatiche e al mio orribile pellegrinaggio.
Col procedere del mio viaggio verso nord, la neve aumentava e il freddo
raggiungeva gradazioni insostenibili. I contadini stavano rinserrati nelle loro
capanne e solo pochi dei più arditi si avventuravano fuori a caccia di quegli
animali che la fame aveva costretto ad abbandonare i propri nascondigli in
cerca di prede. I fiumi erano coperti di ghiaccio e non era possibile pescare,
quindi mi era negata la mia principale fonte di sostentamento.
Il trionfo del mio nemico si nutriva della difficoltà dei miei travagli.
Lasciò un’iscrizione con queste parole: «Preparati! Questo è solo l’inizio
delle tue fatiche. Avvolgiti di pellicce e procurati del cibo; stiamo per
intraprendere un viaggio in cui il mio odio eterno verrà appagato dalle tue
sofferenze».
Quelle parole beffarde rinvigorirono il mio coraggio e la mia
perseveranza. Ero deciso a non arrendermi e invocando l’aiuto del cielo
procedetti con incrollabile fervore e attraversai immensi deserti fino a che mi
apparve l’oceano in lontananza come estremo limite dell’orizzonte. Oh,
quanto era diverso dall’azzurro mare del sud! Ricoperto di ghiaccio, si
distingueva dalla terraferma solo per il suo aspetto più aspro e selvaggio. I
greci piangevano di gioia quando vedevano il Mediterraneo dalle colline
dell’Asia, esultando perché segnava la fine delle loro fatiche. Io non piansi;
mi inginocchiai e di tutto cuore ringraziai il mio spirito guida per avermi
condotto sano e salvo al luogo dove speravo di incontrare e sfidare in un
corpo a corpo il mio avversario, nonostante la sua scaltrezza.
Qualche settimana prima mi ero procurato una slitta e dei cani, che mi
permisero di attraversare la neve con incredibile velocità. Non so se il
demone avesse gli stessi mezzi ma scoprii che, mentre prima perdevo ogni
giorno un po’ di terreno nel mio inseguimento, ora lo stavo guadagnando,
tanto che quando vidi per la prima volta l’oceano lui si trovava solo a un
giorno di viaggio avanti a me e speravo di raggiungerlo prima che arrivasse
alla costa. Mi feci animo, quindi, e procedetti spedito con rinnovato coraggio
e in due giorni arrivai a un misero borghetto sulla riva del mare. Chiesi agli
abitanti notizie del demone e ottenni informazioni accurate. Mi dissero che un
mostro gigantesco era arrivato lì la notte precedente, armato di un fucile e
molte pistole, mettendo in fuga gli abitanti di una casupola isolata, spaventati
dalla sua terrificante apparizione. Si era preso la loro riserva di cibo per
l’inverno e l’aveva caricata su una slitta, al cui traino aveva assicurato una
cospicua muta di cani addestrati, e quella notte stessa, per la gioia della gente
del posto inebetita dall’orrore, aveva ripreso il suo viaggio attraverso il mare
in una direzione che non portava a nessuna terra. Loro supponevano che
avrebbe presto trovato la morte in una crepa del ghiaccio o assiderato in un
eterno gelo.
Nel ricevere questa informazione ebbi un momento di sconforto. Mi era
sfuggito. E mi toccava cominciare un viaggio logorante e quasi senza fine tra
le montagne di ghiaccio dell’oceano, esposto a un freddo che pochi degli
stessi abitanti di quei luoghi potevano sopportare a lungo e a cui io, nato e
vissuto in un clima accogliente e assolato, non potevo sperare di
sopravvivere. Ma all’idea che il demone potesse restare in vita e trionfare mi
ripresero la rabbia e il desiderio di vendetta, che come una possente marea
travolsero ogni altro sentimento. Dopo un breve riposo, durante il quale gli
spiriti dei morti mi aleggiarono intorno incitandomi a tenere duro e a
vendicarmi, mi preparai al viaggio.
Cambiai la mia slitta da terra con una più adatta per le superfici irregolari
dell’oceano ghiacciato e, dopo aver comprato un’abbondante scorta di
provviste, lasciai la terraferma.
Non saprei dire quanti giorni siano passati da allora, ma ho sopportato
patimenti che solo il costante desiderio di un giusto castigo che mi bruciava
in petto poteva permettermi di sostenere. Montagne di ghiaccio immense e
accidentate mi sbarravano di frequente la via e spesso sentivo il rombo del
mare sottostante che minacciava il mio annientamento; poi tornava il gelo e il
tragitto sul mare era sicuro.
Dalla quantità di provviste consumate direi di aver viaggiato per tre
settimane; il continuo protrarsi della speranza che, delusa, si ritraeva dal
cuore, strizzava dai miei occhi amare lacrime. La disperazione l’aveva quasi
avuta vinta sulla sua preda e sarei presto crollato sotto il peso di quella
sofferenza quando una volta, dopo che le povere bestie che mi trainavano
avevano guadagnato con sforzi incredibili la cima di una scoscesa montagna
ghiacciata, e un cane era morto per la fatica, rimirando con angoscia la
distesa davanti a me, improvvisamente il mio occhio colse una macchia scura
su quella desolante pianura. Aguzzai la vista per capire cosa fosse e lanciai un
incontrollato grido di gioia quando distinsi una slitta con sopra una ben nota
forma dalle proporzioni distorte. Oh, con quale ardente vampata la speranza
mi tornò nel cuore! Gli occhi mi si riempirono di calde lacrime, che in fretta
asciugai perché non annebbiassero la vista del demone; ma altre ne
tornarono, lacrime ardenti, a offuscarmi la vista, finché, dando libero sfogo
alle emozioni che mi opprimevano, mi misi a singhiozzare.
Ma non era questo il momento di indugiare. Liberai la muta del
compagno morto, diedi ai cani un’abbondante porzione di cibo e dopo un’ora
di riposo, assolutamente necessario anche se per me estremamente seccante,
ripresi la mia strada. La slitta era ancora visibile e non la persi più di vista, se
non quando a tratti veniva nascosta dalle sporgenze di una qualche rupe di
ghiaccio. Guadagnavo terreno, percettibilmente, e quando, dopo circa due
giorni di viaggio, scorsi il mio nemico a non più di un miglio di distanza, il
cuore mi scoppiava in petto.
Ma proprio a questo punto, quando mi parve di avere quasi in pugno il
mio nemico, le mie speranze si smorzarono di colpo e persi del tutto le sue
tracce, come mai prima di allora. Si udì il mare agitarsi dal fondo; il rombo
del suo movimento, con le acque che turbinavano e si gonfiavano sotto di me,
si faceva ogni momento più minaccioso e terribile. Accelerai, ma invano. Si
alzò il vento, il mare ruggiva e, con l’impeto possente di un terremoto, il
ghiaccio si spaccò, aprendosi con un soverchiante e immane fragore. Si
svolse tutto molto rapidamente: in pochi minuti un mare agitato ondeggiava
fra me e il mio nemico, mentre io andavo alla deriva su una lastra di ghiaccio
che continuava a sciogliersi, annunciandomi una morte terribile.
In questo modo passarono molte ore funeste; molti dei miei cani morirono
e io stesso stavo per soccombere al peso dell’angoscia quando vidi la vostra
imbarcazione all’ancora, che mi recava speranza di soccorso e di vita. Non
sapevo che le navi si spingessero tanto a nord e questa vista mi sbalordì.
Distrussi in fretta parte della slitta per farmi dei remi e grazie a loro riuscii,
con infinita fatica, a muovere la mia zattera di ghiaccio verso la vostra nave.
Ero risoluto: se andavate a sud mi sarei nuovamente affidato alla mercé del
mare, piuttosto che abbandonare il mio obiettivo. Speravo di convincervi a
prestarmi una barca con la quale avrei potuto ancora inseguire il mio nemico.
Ma eravate diretti a nord. Mi avete preso a bordo quando avevo esaurito ogni
vigore e presto, sotto l’accumulo delle molteplici fatiche, avrei ceduto alla
morte, che ancora temo perché il mio compito non è stato realizzato.
Oh, quando mi porterà dal demone il mio spirito guida, concedendomi il
riposo che tanto bramo? Dovrò morire io e lui restare in vita? Se così fosse,
giuratemi, Walton, che lui non la farà franca; che voi lo cercherete e che
soddisferete la mia vendetta con la sua morte. Ma come oso chiedervi di
intraprendere un pellegrinaggio come il mio, di sopportare le fatiche che ho
sopportato io? No, non sono così egoista. E tuttavia, quando sarò morto, se
lui dovesse comparire, se i ministri della vendetta vi conducessero a lui,
giuratemi che non resterà vivo, giuratemi che non trionferà sul cumulo dei
miei dolori e che non vivrà per rendere un altro infelice come me. Lui è
eloquente e persuasivo; una volta le sue parole hanno avuto effetto anche sul
mio cuore, ma non fidatevi di lui. La sua anima è infernale quanto il suo
aspetto, colma di inganno e diabolica astuzia. Non prestategli ascolto;
invocate lo spirito di William, di Justine, di Clerval, di Elizabeth, di mio
padre e del povero Victor e affondate la vostra spada nel suo cuore. Io vi sarò
vicino, e guiderò l’acciaio.

Walton, a seguire

26 agosto 17**

Ora che hai letto questa storia così strana e terrificante, Margaret, non ti senti
gelare il sangue per l’orrore, lo stesso orrore che tuttora fa agghiacciare il
mio? A volte lui, in preda a improvvisa angoscia, non riusciva a continuare il
racconto; altre, con voce rotta eppure penetrante, pronunciava con difficoltà
le parole, così cariche di quell’angoscia. Il suo sguardo puro e bello ora si
accendeva di indignazione, ora si spegneva sotto il peso del dolore e
sprofondava in una infinita tristezza. A volte governava le sue espressioni e i
suoi toni e riferiva gli avvenimenti più orribili con voce tranquilla,
soffocando ogni traccia di agitazione, poi, come un vulcano in eruzione, il
suo viso si alterava esprimendo una rabbia incontrollata, mentre gridava
imprecazioni contro il suo persecutore.
Il suo racconto è coerente, e riferito con la sembianza della più semplice
verità, ma non ti nego che siano state le lettere di Felix e Safie, che mi ha
mostrato, e l’apparizione del mostro, visto dalla nostra nave, che mi hanno
persuaso della veridicità della storia ancor più delle sue asserzioni, per quanto
sincere e coerenti. Un tale mostro dunque esiste davvero, non posso
dubitarne, nonostante mi confondano la sorpresa e la meraviglia. Ho cercato
alle volte di ottenere da Frankenstein i particolari relativi alla realizzazione
della sua creatura, ma su questo punto lui è stato impenetrabile.
«Siete pazzo, amico mio?» esclamava. «Dove vi porta la vostra insensata
curiosità? Vorreste anche voi creare un diabolico nemico, per voi e per il
mondo? Dove volete arrivare con le vostre domande? Tacete, tacete!
Imparate dalle mie sventure e non cercate di accrescere le vostre».
Frankenstein si accorse che avevo preso appunti sulla sua storia. Mi
chiese di vederli e lui stesso li corresse e li integrò in molte parti, soprattutto,
devo dire, nel dare vivacità e spirito alle conversazioni avute con il suo
nemico. «Dato che avete preservato il mio racconto» mi disse, «non voglio
che pervenga ai posteri in forma mutilata».
Così è passata una settimana, ascoltando la storia più strana che
l’immaginazione mai concepì. Tutti i miei pensieri e i sentimenti del mio
animo sono stati assorbiti nell’interesse provato per il mio ospite, generato da
questa storia e dai suoi modi nobili e gentili. Vorrei dargli conforto; ma posso
forse esortare a vivere un uomo così infinitamente miserabile, così privo di
ogni speranza di consolazione? Oh, no! L’unica gioia che potrebbe conoscere
adesso sarà quella di ricomporre il suo animo lacerato nella pace della morte.
Eppure c’è qualcosa che gli dà conforto, frutto di solitudine e delirio. Quando
sogna di conversare con i suoi cari, e da quella comunicazione riceve
consolazione per i suoi mali e stimolo alla vendetta, lui non crede che siano
creazioni della sua fantasia ma esseri reali che lo vengono a trovare dalle
regioni di un mondo remoto. Questa fede conferisce ai suoi sogni una tale
solennità che questi si presentano anche a me quasi altrettanto convincenti e
interessanti della verità.
Le nostre conversazioni non si limitano sempre alla sua storia e alle sue
disgrazie. Lui possiede una illimitata conoscenza in ogni campo della cultura,
nonché una intelligenza viva e penetrante. La sua eloquenza è persuasiva e
toccante: quando racconta un avvenimento penoso, o cerca di suscitare le
passioni della pietà e dell’amore, non posso trattenere le lacrime
nell’ascoltarlo. Che creatura gloriosa deve essere stato nei giorni della sua
prosperità, se è così nobile e simile a un dio nella sua rovina. Lui sembra
essere conscio del proprio valore e della propria vertiginosa caduta.
«Quando ero giovane» mi ha detto, «sentivo di essere destinato a qualche
grande impresa. Ho sempre provato dei sentimenti intensi ma ero dotato di
una lucidità di giudizio che mi rendeva adatto a conquiste prestigiose. La
percezione del valore della mia natura mi dava forza, quando gli altri si
sentivano oppressi; io ritenevo un crimine sprecare in un inutile sconforto
quelle doti che potevo mettere al servizio dei miei simili. Quando pensavo
all’opera da me compiuta, niente meno che la creazione di un animale
sensibile e raziocinante, non potevo annoverarmi nel gregge dei comuni
inventori. Ma questa percezione, che mi ha sostenuto all’inizio della mia
carriera, ora serve soltanto a spingermi ancora più a fondo nella polvere.
Tutte le mie elucubrazioni e speranze sono ridotte a nulla, e come l’arcangelo
che aspirò all’onnipotenza, io sono incatenato in un perpetuo inferno.
Possedevo una vivida immaginazione e al tempo stesso un’intensa capacità di
analisi e applicazione; grazie all’unione di queste qualità, concepita l’idea
passai alla creazione di un uomo. Persino ora, se ripenso alle fantasticherie
che facevo quando l’opera non era ancora terminata, non posso fare a meno
di appassionarmi. Nei miei pensieri ero al settimo cielo, esultando dei miei
poteri e fremendo di ardore all’idea dei loro risultati. Fin dall’infanzia ero
stato permeato di grandi speranze e ambizioni elevate ma ecco, quanto sono
caduto in basso! Oh, amico mio, se mi aveste conosciuto un tempo, non mi
riconoscereste in queste condizioni di degrado. Lo sconforto non usava
frequentare il mio cuore, mi sentivo sospinto verso un alto destino... finché
caddi, per non rialzarmi più, mai più».
E dovrò dunque perdere questo essere ammirevole? Ho desiderato tanto
di trovare un amico, ho cercato qualcuno che mi comprendesse e mi amasse e
guarda, l’ho trovato qui, in questi mari deserti. Ma temo di averlo incontrato
solo per conoscerne il valore e dopo perderlo. Vorrei riconciliarlo alla vita,
ma a lui ripugna l’idea.
«Vi ringrazio, Walton» mi ha detto, «per le vostre intenzioni affettuose
nei confronti di un povero disgraziato; ma quando parlate di nuovi legami e
nuovi affetti, credete che qualcuno possa sostituire quelli perduti? V’è un
uomo che potrebbe essere per me ciò che è stato Clerval? O una donna quello
che è stata Elizabeth? Anche quando gli affetti non sono provocati da una
suprema eccellenza, sono sempre i nostri compagni d’infanzia a esercitare un
certo effetto sul nostro animo che raramente gli amici successivi ci possono
fare. Loro conoscono la nostra indole infantile che, per quanto possa in
seguito modificarsi, non si sradica mai; loro possono valutare le nostre azioni
e giudicarle con più precisione in merito all’integrità dei nostri moventi. Una
sorella o un fratello, a meno che certi sintomi non si siano manifestati molto
presto, non potranno mai sospettare l’altro di frode o falsità; un altro amico,
invece, per quanto forte sia il legame, può, suo malgrado, essere assalito dal
sospetto. Io ho avuto la fortuna di godere dell’amicizia di persone care non
solo per consuetudine e familiarità ma per i loro meriti, e dovunque io sia,
continuerò a sentire, come un bisbiglio alle orecchie, la dolce voce della mia
Elizabeth e le conversazioni con Clerval. Loro sono morti; e nella mia
solitudine v’è un unico sentimento che mi può tenere in vita. Se fossi
occupato in una grande impresa o progetto che comportasse una diffusa
utilità per i miei simili, potrei continuare a vivere al fine di realizzarlo. Ma il
mio destino è un altro: devo inseguire e distruggere l’essere a cui ho dato
esistenza e solo allora la mia vicenda terrena sarà compiuta, e io potrò
morire».

2 settembre

Amata sorella,
ti scrivo in balia del pericolo, ignaro se mi sarà dato rivedere la cara
Inghilterra e gli affetti ancora più cari che vi abitano. Sono circondato da
montagne di ghiaccio che non offrono fuga, e minacciano in ogni momento di
mandare in pezzi la mia nave. Quei coraggiosi che ho convinto a essere miei
compagni mi guardano in cerca di aiuto, ma non ne ho da dare. V’è qualcosa
di terribilmente spaventoso nella nostra situazione, pure il coraggio e le
speranze non mi abbandonano. Possiamo sopravvivere. Se così non sarà,
ricorrerò alla lezione del mio Seneca e morirò a cuor contento.
Ma quale sarà, Margaret, il tuo stato d’animo? Non ti giungerà notizia
della mia fine e attenderai con ansia il mio ritorno. Passeranno gli anni e ti
coglieranno momenti di disperazione mentre la speranza continuerà a
tormentarti. Oh, mia amata sorella, per me la dolorosa frustrazione delle tue
accorate aspettative è una prospettiva più terribile della mia stessa morte. Ma
hai un marito e dei figli adorabili, potrai essere felice: che Dio ti benedica, e
tale ti renda!
Il mio sventurato ospite mi guarda con tenera compassione. Si sforza di
nutrirmi di speranza e parla come se la vita fosse un bene a cui dia ancora
valore. Mi ricorda quanto spesso ad altri naviganti che si sono avventurati in
questi mari siano capitati simili incidenti e mio malgrado mi colma di buoni
presagi. La sua eloquenza ha effetto persino sui marinai: quando parla, non
disperano più. Lui riesce a ridestare le loro energie e finché sentono la sua
voce sono persuasi che queste ampie montagne di ghiaccio siano delle inezie
che la risolutezza dell’uomo vanificherà. Ma questi sentimenti sono
passeggeri; ogni giorno che procrastina le loro aspettative li riempie di paura,
e io inizio a temere un ammutinamento causato dalla loro disperazione.

5 settembre

È accaduta una cosa di interesse così straordinario che, per quanto sia del
tutto improbabile che tu riceva queste pagine, non posso fare a meno di
riportarla.
Siamo ancora circondati da montagne di ghiaccio, sempre nell’imminente
pericolo di venire distrutti dall’impatto. Il freddo è eccessivo, e molti dei miei
sfortunati compagni hanno già trovato la loro tomba in questo paesaggio
desolato. La salute di Frankenstein è peggiorata ogni giorno: nei suoi occhi
brilla ancora una fiammella febbrile ma è esausto, e quando viene sollecitato
a un qualunque sforzo improvviso, subito ripiomba in una apparente assenza
di vita.
Nella mia ultima lettera accennavo alla mia paura di un ammutinamento.
Stamattina, mentre sedevo a vegliare il volto esangue del mio amico – gli
occhi socchiusi, le membra abbandonate e immobili – mi ha scosso il
richiamo di una dozzina di marinai, che desideravano essere ammessi nella
cabina. Sono entrati e il loro capo si è rivolto a me. Mi ha detto che lui e i
suoi compagni erano stati incaricati dagli altri marinai di venire in
delegazione da me con una richiesta che, onestamente, non potevo rifiutare.
Eravamo murati dal ghiaccio e con ogni probabilità non saremmo riusciti a
evaderne. Tuttavia il loro timore era che, se il ghiaccio si fosse sciolto, e non
era impossibile, e dunque si fosse aperto un varco, io sarei stato tanto
imprudente da proseguire il mio viaggio e condurli verso nuovi pericoli, dopo
che fortunatamente fossero scampati a quelli presenti. Dunque desideravano
che io mi impegnassi nella solenne promessa che, se la nave fosse riuscita a
liberarsi, avrei immediatamente diretto il mio corso verso sud.
Questo discorso mi turbò. Non avevo perso le speranze né avevo valutato
l’eventualità di tornare indietro, una volta liberi. Ma avevo forse, in tutta
coscienza, il diritto e, se per questo, la possibilità di sottrarmi a quella
richiesta? Esitavo a rispondere, quando Frankenstein, rimasto fino ad allora
in silenzio e in effetti apparentemente privo persino della forza di ascoltare, si
animò e, con gli occhi scintillanti e le gote arrossate da un momentaneo
flusso di vigore, si rivolse a quegli uomini e disse: «Cosa intendete dire?
Cosa chiedete al vostro capitano? Vi basta così poco per tirarvi indietro dal
vostro progetto? Non dicevate che questa era un’impresa grandiosa? E perché
era grandiosa? Non certo perché il tragitto era placido e dolce come il mare
del sud, ma perché era pieno di pericoli e paure; perché a ogni nuovo
incidente la vostra resistenza sarebbe stata messa in gioco, e il vostro
coraggio mostrato; perché tutt’intorno v’erano pericolo e morte e questi
pericoli voi li avreste sprezzantemente sfidati e vinti. Per questo era
grandiosa, per questo era una nobile impresa. Una volta compiuta sareste stati
indicati come benefattori della vostra razza; i vostri nomi adorati, come quelli
di quei coraggiosi che vanno incontro alla morte in nome dell’onore e a
beneficio dell’umanità. E ora, guardatevi! Con le prime avvisaglie di pericolo
o, se volete, alla prima importante e terribile prova del vostro coraggio,
battete la ritirata e vi accontentate di essere ricordati come quegli uomini che
non ebbero la forza necessaria di sopportare il freddo e il rischio. Povere
anime, avevano freddo e sono tornate al tepore dei loro focolari. Caspita! Per
questo non serve tanta preparazione, non c’era bisogno di arrivare così
lontano e trascinare il vostro capitano alla vergogna della sconfitta,
semplicemente per dimostrare di essere dei codardi. Oh, siate uomini, o più
che uomini! Tenetevi saldi ai vostri propositi, irremovibili come la roccia.
Questo ghiaccio non è fatto della stessa materia di cui potrebbero essere fatti i
vostri cuori: è mutevole e non vi si può opporre se decidete che non accadrà.
Non tornate alle vostre famiglie con il marchio della disdetta sulla fronte.
Tornate da eroi che hanno combattuto e vinto e che non sanno cosa voglia
dire voltare le spalle al nemico».
Nel dire queste parole la sua voce modulava così sensibilmente i vari
sentimenti che animavano il discorso, gli occhi accesi da nobili ideali ed
eroismo, che non c’è da stupirsi se quegli uomini ne rimasero colpiti. Si
guardarono l’uno con l’altro e non sapevano che rispondere. Parlai io: gli
dissi di ritirarsi e pensare a quanto era stato detto; che io non li avrei portati
più a nord, se loro desideravano ardentemente il contrario, ma speravo che,
riflettendoci, gli sarebbe tornato il coraggio.
Se ne andarono e io mi voltai verso il mio amico, che però era
sprofondato nel torpore e sembrava quasi privo di vita.
Come andrà a finire, non lo so. Ma io preferirei morire che ritornare con
la vergogna di non avere realizzato il mio proposito. Eppure temo che questo
sarà il mio destino, perché gli uomini, se non li sostengono sogni di gloria e
di onori, non sanno continuare a sopportare soltanto con la volontà le fatiche
che gli si presentano.

7 settembre

Il dado è tratto. Ho acconsentito a ritornare, se non verremo distrutti. Così i


miei sogni vengono infranti da codardia e indecisione. Torno ignorante e
deluso. Per avere la pazienza di sopportare questa ingiustizia, mi ci vorrebbe
molta più filosofia di quella di cui dispongo.

12 settembre

È finita. Sto tornando in Inghilterra. Ho perso ogni speranza di ottenere la


gloria per il bene dell’umanità. E ho perduto il mio amico. Ma mi sforzerò di
narrarti i dettagli di queste amare circostanze, mia cara sorella, e poiché il
vento mi spinge verso l’Inghilterra, e verso di te, non mi farò prendere dallo
sconforto. Il 9 settembre il ghiaccio ha cominciato a muoversi e in lontananza
si udivano rombi simili a tuoni, per i blocchi che si separavano e si
spezzavano da tutte le parti. Ci trovavamo in grave pericolo ma non potendo
farci niente la maggior parte della mia attenzione era rivolta al mio sventurato
ospite, il cui stato di salute si era così aggravato da costringerlo a rimanere
sempre a letto. Il ghiaccio si spezzò dietro di noi e venne spinto con forza
verso nord; una brezza si levò da ovest e il giorno 11 il varco verso sud fu del
tutto libero. Quando i marinai se ne accorsero e videro che il loro ritorno in
patria sembrava assicurato, proruppero in un tumultuoso grido di gioia,
potente e protratto. Frankenstein, che dormicchiava, si svegliò e chiese la
causa di quel tumulto. «Gridano» dissi «perché presto torneranno in
Inghilterra».
«Quindi davvero tornerete indietro?»
«Ahimè, sì. Non posso oppormi alla loro richiesta. Non posso metterli in
pericolo contro la loro volontà. Devo ritornare».
«D’accordo, fatelo, se è così che desiderate. Ma io non lo farò. Voi potete
rinunciare al vostro obiettivo: io non oso farlo, perché il mio mi è assegnato
dal cielo. Sono debole, ma di sicuro gli spiriti che presiedono alla mia
vendetta mi doneranno forza sufficiente». Così dicendo tentò di alzarsi dal
letto, ma lo sforzo fu troppo grande e svenne.
Ci volle molto prima che si riprendesse e in quel tempo pensai spesso che
la vita lo avesse lasciato del tutto. Finalmente aprì gli occhi, ma respirava con
difficoltà e non riusciva a parlare. Il medico gli somministrò una pozione
calmante e ci ordinò di lasciarlo tranquillo, dopo avermi comunicato che il
mio amico di sicuro non aveva molte ore di vita.
La sua ora era arrivata. Io potevo solo piangere ed essere paziente.
Sedevo al suo capezzale, aveva gli occhi chiusi e pensavo dormisse, ma a un
certo punto mi chiamò con voce flebile e pregandomi di avvicinarmi disse:
«Ahimè! La forza su cui facevo affidamento se ne è andata, sento che presto
morirò e lui, il mio nemico e mio persecutore, potrebbe essere ancora vivo.
Non crediate, Walton, che in questi ultimi momenti della mia esistenza io
senta quell’odio cocente e l’ardente desiderio di vendetta che ho espresso una
volta, ma trovo ancora giusto desiderare la morte del mio avversario. Questi
ultimi giorni li ho spesi a esaminare la mia passata condotta e non la trovo
disdicevole. In un accesso di follia entusiasta io ho creato una creatura
raziocinante e questo mi impegnava ad assicurargli, per quanto mi fosse
possibile, felicità e benessere. Era il mio dovere. Ma ve ne era un altro,
superiore a questo. I miei obblighi nei confronti dei miei simili erano ciò a
cui dovevo prestare maggiore attenzione, perché era in gioco una più grande
dose di felicità o sofferenza. Questa prospettiva mi ha spinto a rifiutare, e feci
bene, di creare una compagna alla prima creatura. Lui ha dimostrato una
cattiveria e un egoismo senza pari nel compiere il male. Ha sterminato i miei
cari; ha eliminato dalla faccia della terra degli esseri dotati di una squisita
sensibilità, gioia di vivere e saggezza, e non so se questa sua sete di vendetta
avrà mai fine. Infelice com’è, deve morire, in modo da non rendere infelice
nessun altro. Avevo io il dovere di distruggerlo, ma ho fallito. In un momento
in cui sono stato preso dall’egoismo e dalla malignità, vi ho chiesto di
intraprendere il mio lavoro incompiuto. Quella richiesta io adesso la rinnovo,
spinto però soltanto dalla ragione e dalla virtù.
«Pure non posso chiedervi di abbandonare il vostro paese e i vostri amici
per realizzare il mio scopo e ora che state ritornando in Inghilterra non ci
saranno molte probabilità di incontrare quell’essere. Quindi lascio a voi la
considerazione di questi argomenti e la valutazione di quali possiate stimare
vostri doveri; le mie facoltà di giudizio e le mie idee sono già confuse
dall’imminente arrivo della morte. Non mi azzardo a richiedervi di fare
quello che io ritengo giusto, perché potrei ancora essere fuorviato dalla
passione.
«Io sono ancora molto turbato all’idea che lui continui a vivere per essere
strumento di malefici; ma sotto altri aspetti quest’ora, in cui attendo che da un
momento all’altro giunga la mia liberazione, è l’unica ora felice che abbia
provato da tanti anni. Le figure dei miei amati defunti aleggiano davanti a me
e mi protendo verso il loro abbraccio. Addio, Walton! Cercate la felicità in
una vita tranquilla, rifuggite dall’ambizione, pure se fosse quella
apparentemente innocente di distinguervi nel campo della scienza e delle
scoperte. Ma perché dico questo? Io mi sono bruciato al fuoco delle mie
speranze, ma un altro potrebbe realizzare le sue».
La sua voce si faceva sempre più debole mentre parlava e infine, esausto
per lo sforzo, sprofondò nel silenzio. Mezz’ora dopo tentò di riprendere a
parlare, ma non ci riuscì; strinse appena la mia mano e i suoi occhi si
chiusero per sempre, mentre il riflesso di un dolce sorriso gli sfioriva sulle
labbra.
Che altro aggiungere, Margaret, sulla prematura scomparsa di questo
nobile spirito? Che potrei dire che ti aiuti a capire la profondità del mio
dolore? Qualunque cosa sarebbe inadeguata e flebile. Le mie lacrime
scorrono, la mia mente è oscurata da una nube di sconforto. Ma viaggio verso
l’Inghilterra e forse lì troverò consolazione.
Devo interrompermi. Cosa mi annunciano questi rumori? È mezzanotte,
la brezza spira lieve e la vedetta sul ponte si muove appena. Ma di nuovo v’è
il suono di una voce, sembra umana ma è molto rauca, proviene dalla cabina
dove ancora giacciono le spoglie di Frankenstein. Devo andare a vedere.
Buonanotte, sorella mia.
Buon Dio! Che scena si è svolta poco fa! Sono ancora stordito al solo
pensarci. Non so neppure se sarò in grado di descriverne i particolari, ma la
storia che qui ho riportato sarebbe monca senza questa finale e stupefacente
catastrofe.
Sono entrato nella cabina dove giacciono le spoglie del mio sventurato e
ammirevole amico. China su di lui v’era una figura che non so descrivere a
parole: di gigantesca statura e proporzioni grottesche e deformi. Il suo corpo
era piegato sul feretro, il suo volto era nascosto dalle lunghe ciocche ondulate
dei capelli arruffati, una mano si protendeva in avanti, enorme e simile a
quella di una mummia, nel colore e nella fibra. Quando mi udì avvicinarmi,
interruppe le sue esclamazioni di strazio e di orrore e si lanciò verso la
finestra. Non ho mai visto niente di così orribile come la sua faccia, di una
bruttezza ripugnante e spaventosa. Senza volerlo ho chiuso gli occhi e ho
cercato di ricordare i miei compiti nei confronti di quell’agente di distruzione.
Gli ho ingiunto di restare.
Si è fermato, rivolgendomi uno sguardo stupito. Poi di nuovo si è voltato
verso il corpo senza vita del suo creatore, come se fosse ignaro della mia
presenza, e ogni suo tratto, ogni suo gesto sembrò istigato dalla furia più
feroce di una passione incontrollata.
«Ecco un’altra delle mie vittime!» ha esclamato. «Con la sua morte si
esauriscono i miei crimini e il miserabile ciclo della mia esistenza giunge alla
sua conclusione! Oh, Frankenstein! Essere generoso e pieno di abnegazione!
A che serve che adesso ti chieda perdono? Io, che irrimediabilmente ti ho
distrutto distruggendo tutti coloro che amavi. Ahimè, è freddo! Non può
rispondermi».
La sua voce era come soffocata e il mio primo impulso, che mi veniva
dall’osservanza del compito affidatomi dal mio amico in punto di morte,
quello cioè di distruggere il suo nemico, è rimasto sospeso in un misto di
curiosità e compassione. Mi sono avvicinato a questo essere immane, ma non
ho osato alzare lo sguardo sul suo viso, perché v’era qualcosa di troppo
spaventoso e ultraterreno nella sua bruttezza. Ho provato a parlare, ma le
parole mi sono morte sulle labbra. Il mostro continuava a proferire violente e
incoerenti accuse contro se stesso. Infine ho trovato la determinazione per
parlargli, in una pausa della sua tempestosa passione. «Il tuo pentimento» gli
ho detto «ora è superfluo. Se prima di spingerti a questo estremo con la tua
diabolica vendetta, avessi ascoltato la voce della coscienza e dato retta alle
fitte del rimorso, Frankenstein sarebbe ancora vivo».
«Stai sognando?» ha replicato il demone. «Pensi che fossi impenetrabile
all’angoscia e al rimorso? Lui» ha continuato indicando il cadavere «non ha
sofferto più di quanto abbia sofferto io nel compiere l’atto. Oh, nemmeno la
decimillesima parte del mio tormento durante gli estenuanti dettagli della sua
esecuzione! Mi spingeva uno spaventoso egoismo, mentre il cuore si
avvelenava di rimorso. Credi che i gemiti di Clerval siano stati musica per le
mie orecchie? Il mio cuore era fatto per provare amore e simpatia; quando il
dolore ne ha deformato la natura piegandolo al crimine e all’odio, la violenza
di questa trasformazione è stata una tortura che tu non puoi neanche
immaginare.
«Dopo aver ucciso Clerval tornai in Svizzera con il cuore spezzato e
l’animo abbattuto. Provavo pietà per Frankenstein, e la pietà montava in
orrore: orrore per me stesso. Ma quando scoprii che lui, l’autore della mia
esistenza e al tempo stesso dei suoi indicibili tormenti, si azzardava a nutrire
speranze di felicità e che, mentre riversava su di me dolore e disperazione, si
procacciava il godimento di sentimenti e passioni dalla cui esperienza io ero
bandito per sempre, allora l’invidia impotente e l’amara indignazione mi
hanno colmato di una insaziabile sete di vendetta. Ricordai la mia minaccia e
decisi che andava eseguita. Sapevo che mi sarei sottoposto a una tortura
mortale; ma ero lo schiavo, non il padrone, di un impulso che detestavo, ma a
cui non potevo disobbedire. Eppure, quando lei morì!... No, non provai
tristezza. Avevo bandito ogni sentimento e represso ogni angoscia per dare
libero sfogo agli eccessi della mia disperazione. Da quel momento il male è
diventato il bene per me. Al punto in cui mi ero spinto non avevo altra scelta,
se non quella di adattare la mia natura a un elemento decretato dalla mia
volontà. E il compimento del mio diabolico disegno divenne per me una
passione insaziabile. Ora è finita. Ecco la mia ultima vittima!»
In un primo momento l’espressione del suo dolore mi ha toccato, ma
quando mi sono ricordato di quanto detto da Frankenstein sulle sue facoltà di
eloquenza e persuasione, e quando ho posato nuovamente gli occhi sul corpo
senza vita del mio amico, l’indignazione si è riaccesa in me. «Sciagurato!» gli
ho detto. «Come sei bravo a venire qui a piagnucolare sulla desolazione che
hai creato. Getti una torcia accesa in mezzo a un gruppo di case e quando
sono bruciate ti siedi fra le rovine e ne lamenti il crollo. Demone ipocrita! Se
colui che tu piangi fosse ancora vivo, sarebbe ancora oggetto della tua
infausta vendetta, la tua preda designata. Non è pietà quella che provi. Tu ti
lamenti solo perché la vittima della tua malvagità è stata sottratta al tuo
potere».
«Oh, no, non è così» mi ha interrotto quell’essere, «anche se questa è
l’impressione necessariamente prodotta su di te da ciò che sembra lo scopo
delle mie azioni. Comunque io non cerco compassione nella mia infelicità.
Né mai potrò trovare comprensione. Quando un tempo la cercavo, era per
condividere il mio amore per la virtù, quel senso di gioia e di amore di cui
tutto il mio essere straripava. Ora che la virtù per me è soltanto un’ombra, e
la felicità e l’amore si sono trasformati in una disperazione amara e
rivoltante, che cosa potrei condividere? Mi accontento di soffrire in
solitudine, finché dureranno le mie sofferenze. E quando sarò morto mi starà
bene di essere ricordato con orrore e vituperio. Un tempo mi cullavo in sogni
di virtù, di stima, di gioia. Un tempo erroneamente mi illudevo di incontrare
degli esseri che, perdonando il mio aspetto esteriore, mi avrebbero amato per
le eccellenti qualità che ero capace di mostrare. Mi nutrivo dei nobili pensieri
di onore e devozione. Ma per la mia malignità sono degradato a un livello
inferiore dell’animale più schifoso. Non vi sono al mondo crimini, inganni,
malvagità e disgrazie paragonabili a quello che ho compiuto io. Quando
ripenso allo spaventoso catalogo dei miei misfatti, non riesco a credere di
essere lo stesso individuo i cui pensieri un tempo erano pieni di visioni
sublimi e trascendenti, della bellezza e sovranità del bene. Eppure è così:
l’angelo caduto diventa un demone maligno. E tuttavia, persino quel nemico
di Dio e degli uomini aveva amici e complici nella sua desolazione. Io no, io
sono solo.
«Tu, che chiami Frankenstein tuo amico, sembri conoscere i miei crimini
e le sue sventure. Ma nei particolari che ti avrà fornito non avrà potuto
includere le ore e i mesi di infelicità che ho sopportato io, logorandomi in
passioni impotenti. Perché nel distruggere le sue speranze non ho soddisfatto
i miei desideri, che continuavano a bruciare ardentemente; io continuavo a
desiderare amore e amicizia, e continuavo a essere respinto. Non v’era
un’ingiustizia in questo? Solo io devo essere ritenuto un criminale, quando
tutta l’umanità peccava contro di me? Perché non odi Felix, che ha scacciato
di casa un amico con tanta insolenza? Perché non disprezzi il paesano che ha
tentato di uccidere chi gli aveva salvato la figlia? Per carità, loro sono esseri
virtuosi e puri! Io, infelice e abbandonato, sono un aborto da scacciare a calci
e calpestare. Mi ribolle ancora il sangue al ricordo di questa ingiustizia.
«Eppure è vero che sono una canaglia. Ho assassinato i buoni e gli
indifesi; ho strangolato nel sonno gli innocenti, stringendo a morte la gola di
chi non aveva mai fatto del male né a me né ad altra creatura vivente. Ho
condannato all’infelicità il mio creatore, un raro esempio di persona degna di
amore e ammirazione, e l’ho perseguitato fino a questa irrimediabile rovina.
Eccolo lì, pallido e freddo di morte. Tu mi odi, ma il tuo disprezzo non può
eguagliare quello che io provo per me. Guardo le mani che hanno eseguito,
rifletto sul cuore che ha concepito l’idea e bramo il momento in cui i miei
occhi non vedranno più le mie mani e quell’idea non mi ossessionerà più.
«Non temere che io mi faccia strumento di futuri misfatti. La mia opera è
quasi completa. Non v’è bisogno né della tua morte né di quella di chiunque
altro per chiudere il ciclo della mia esistenza e portare a compimento quello
che va fatto; serve solo la mia. E non credere che mi attarderò nell’eseguire
questo sacrificio. Lascerò la tua nave per tornare sulla zattera di ghiaccio che
mi ha portato qui e mi dirigerò verso l’estremità più settentrionale del globo
terrestre; lì erigerò il mio rogo funebre e ridurrò in cenere questo corpo
miserabile, affinché i suoi resti non accendano l’immaginazione di qualche
curioso e sacrilego sciagurato al punto da fargli creare un altro come me.
Morirò. Non sentirò più lo strazio che ora mi consuma, non sarò più preda di
passioni insoddisfatte e inestinguibili. È morto chi mi ha messo al mondo e
quando anche io non ci sarò più, ben presto svanirà il ricordo di entrambi.
Non vedrò più il sole o le stelle, non sentirò il tocco del vento sulle mie gote.
Non vi saranno più luce, sentimenti, sensi, e in questa condizione troverò la
mia felicità. Anni fa, quando mi si dischiusero davanti per la prima volta le
immagini di questo mondo, quando sentii il confortante calore dell’estate e
udii lo stormire delle fronde e il cinguettio degli uccelli, e tutto questo era lì
per me, avrei pianto al pensiero di dover morire; adesso è la mia unica
consolazione. Corrotto dal crimine e lacerato dal più amaro rimorso, dove
potrei trovare pace se non nella morte?
«Addio! Ti lascio, e con te l’ultimo uomo che i miei occhi avranno visto.
Addio, Frankenstein! Se tu fossi ancora vivo e ancora nutrissi un desiderio di
vendetta contro di me, lo soddisferesti meglio lasciandomi in vita che con la
mia morte. Ma così non è stato, tu hai cercato di estinguermi, affinché non
causassi altro dolore. E se in qualche modo a me sconosciuto tu non avessi
ancora cessato di pensare e sentire, non potresti desiderare altro che la mia
vita per accrescere la mia infelicità. Per quanto tu fossi distrutto, il mio
strazio era maggiore del tuo e i penetranti aculei del rimorso non cesseranno
di rovistare nelle mie ferite, finché la morte non le chiuderà per sempre.
«Ma presto» ha poi gridato, con una esaltazione triste e solenne «io
morirò, e quello che provo adesso non lo proverò più. Presto termineranno
questi brucianti dolori. Salirò trionfalmente sul mio rogo funebre e quando le
fiamme mi tortureranno, io esulterò nello strazio. Poi la luce dell’incendio si
dissolverà e le mie ceneri verranno spazzate dal vento nel mare. Il mio spirito
riposerà in pace. O, se dovesse continuare a pensare, di certo non penserà in
questo modo. Addio».
Così dicendo saltò fuori dalla finestra della cabina e approdò sul blocco di
ghiaccio che galleggiava vicino alla nave. Venne presto portato via dalle onde
e scomparve nel buio, in lontananza.

FINE
Come leggere Frankenstein
di Charles E. Robinson

Frankenstein è un romanzo che può essere letto e analizzato da molti punti di


vista: biografico, formalista, psicoanalitico, femminista, marxista,
decostruttivista, new historical, solo per nominarne alcuni. Qui voglio
suggerire che i modi più utili per leggere il romanzo siano due: come la
combinazione di tre miti fondamentali dell’Occidente relativi alle pericolose
conseguenze della ricerca della conoscenza, e come un romanzo incentrato
sulla figura del “doppio” che enfatizza l’interconnessione tra i personaggi.
Entrambe le “letture” si possono applicare ai molti adattamenti
cinematografici che ne sono stati fatti.
Nel romanzo sono immediatamente riscontrabili due dei miti occidentali
dedicati alla ricerca della conoscenza: il fatto che il mostro legga il Paradiso
perduto di Milton ci porta al mito della Genesi e alla punizione dell’uomo per
aver sfidato la proibizione divina di mangiare dall’albero della conoscenza; e
il sottotitolo del romanzo, Il moderno Prometeo, nonché i molti usi del
“fuoco” prometeico nel testo, ci ricordano che Prometeo venne punito per
aver rubato il fuoco, o la conoscenza, a Zeus per donarlo agli uomini. Il terzo
mito non divenne esplicito nel romanzo prima che Mary Shelley revisionasse
il testo per l’edizione del 1831 e alludesse al Simposio di Platone, in
particolare al mito di Aristofane sull’uomo originario, sferico e dagli arti
raddoppiati, che cerca di detronizzare gli dei dal Monte Olimpo. In quella
revisione, Mary Shelley modificò la frase molto generica di Frankenstein
sull’amicizia con Henry Clerval dell’edizione 1818 («Sono d’accordo con
voi... nel ritenere l’amicizia un bene non solo desiderabile ma possibile») in
un giudizio sulla natura umana molto più specifico («Sono d’accordo con
voi... siamo creature grezze, finite solo a metà se non ci tende la mano
qualcuno più saggio, più amabile e migliore di noi – questo dovrebbe essere
un amico – per perfezionare la nostra natura debole e difettosa»).
Questo riferimento alle creature “finite solo a metà” viene dalla
discussione sulla natura dell’amore nel Simposio di Platone, in cui vari
uomini riuniti in un banchetto trattano l’argomento in una serie di discorsi.
Anche se sarà Socrate a vincere l’agone (con l’aiuto di Diotima) spiegando
che Amore è figlio di Penuria e Abbondanza, è Aristofane a offrire la
spiegazione più elaborata e appassionante: che Amore sia il desiderio di
rendere un tutto integro ciò che è già stato un tempo un tutto integro. In una
variazione sul tema di Adamo ed Eva, l’uomo originario (suddiviso in tre
“sessi”: maschio, femmina e androgino), sferico (e presumibilmente poteva
rotolare per una parte della strada verso il Monte Olimpo) e dotato di due
coppie di arti, era in grado di ascendere al cielo e sfidare gli dei. «Irati dalla
presunzione e superbia degli uomini, gli dei divisero in due metà separate
ciascuno dei tre sessi affinché non potessero più essere in grado di penetrare
nella zona riservata agli dei». Amore, spiega Aristofane, è il desiderio del sé
di riunirsi con il suo altro sé, la sua altra metà. È possibile che Mary Shelley
non conoscesse o ricordasse questo mito precedentemente alla pubblicazione
della prima edizione del 1818, ma lo conosceva di certo nel luglio 1818,
quando trascrisse la traduzione di Percy Bysshe Shelley del Simposio.
La divisione dell’uomo in due parti introduce efficacemente la seconda
delle principali modalità di lettura di Frankenstein, quella cioè di un
complesso romanzo incentrato sul “doppio”, nel quale tutti i personaggi
principali possono essere letti come l’altra metà della personalità di Victor
Frankenstein. Non soltanto Frankenstein si vede nel mostro (una cosa
evidenziata fin dal primo adattamento cinematografico del romanzo, quello
prodotto dagli Studi Edison nel 1910), ma possiamo ravvisare alcune sue
caratteristiche riflesse negli altri personaggi: Walton e anche Clerval fungono
da equivalenti di Frankenstein nella loro ambizione e nella loro ricerca della
conoscenza, mentre Elizabeth, e di nuovo Clerval, rappresentano quel cuore
complementare di cui Victor ha bisogno per essere un tutto integro (si noti
che Clerval si dedica alle scienze sociali della politica e della linguistica, in
contrasto con Victor, che si isola nel laboratorio delle scienze esatte). Per cui
quando Victor abbandona Elizabeth e Clerval, il cuore e la casa, per andare
all’università e, per così dire, mangiare dall’albero della conoscenza,
intraprende un viaggio verso il suicidio psichico, rappresentato dal sé
(Frankenstein) che insegue il sé (il mostro) fino a trovare la morte nelle
desolazioni artiche.
Un diagramma ci aiuta a delineare le relazioni di sdoppiamento dei
personaggi del romanzo:

Testa Robert Walton Victor il mostro


Frankenstein
Cuore Margaret Walton Elizabeth & il mostro
Saville Clerval femmina

Si noti come risponde il mostro (uccidendo Elizabeth e Clerval) quando


Frankenstein distrugge il mostro femmina; le due azioni sono identiche ed
entrambe isolano ulteriormente i protagonisti, le cui vite si rispecchiano l’una
nell’altra.
Devo avvertire il lettore che sto chiamando la creazione di Frankenstein
“mostro”; altri critici e sceneggiatori lo chiamano spesso, invece, “creatura”.
Nell’introduzione all’edizione del 1831 Mary Shelley evita entrambi i
termini, adoperando invece “larva”, “manufatto”, “cosa” (tre volte), “orrendo
cadavere”, “spaventosa apparizione”, “spettro”, “progenie”, “parto” per
nominare la sua creazione. Percy Shelley evita ad arte qualunque termine per
nominare la creazione nella prefazione che scrisse per la prima edizione, e
nella sua recensione del romanzo della moglie utilizza in tre punti i termini
“creatura”, “aborto” e “anomalia” ma la chiama ben cinque volte “essere”.
Entrambi gli Shelley sembrano dunque evitare l’uso di un unico termine (a
parte il neutro “essere” di Percy) per nominare la creazione e non v’è un
modello di denominazione definito nel romanzo, dove è chiamata da diversi
personaggi con i diversi nomi di “mostro”, “creatura”, “demone”, “essere”,
“sciagurato” e “diavolo”. Non avendo un unico nome, il mostro viene
inevitabilmente dotato di una qualità universale che comprende tutta
l’umanità, e quando Mary Shelley, per l’appunto, lesse sul programma di sala
della prima performance teatrale del suo romanzo che il ruolo di un semplice
«____» era interpretato da Mr. T. Cooke, osservò, in una lettera a Leigh
Hunt, che «questo modo di nominare l’innominabile privandolo di nome non
è per niente male» (anche se in Presumption; or, the Fate of Frankenstein
Richard Brinsley Peake nomina la creazione “mostro” più spesso che non). In
effetti Mary Shelley costringe ogni lettore (e spettatore) a essere coinvolto
nella scelta di un nome e conseguentemente a esprimere un giudizio morale
sulla creazione di Frankenstein: chi userà il termine “creatura” sarà propenso
a simpatizzare con lui (e a giustificare le sue azioni); chi userà il termine
“mostro” sarà incline a ritenerlo colpevole dei suoi delitti. E inoltre, con
questa cura per il senza nome, Mary Shelley indirettamente chiede al lettore
di prendere in considerazione l’etimologia dei nomi propri e dei cognomi
usati per i personaggi di questo romanzo.
Due dei personaggi che hanno un nome da prendere in considerazione
potrebbero entrambi rappresentare la stessa Mary Shelley, e sono Margaret
Walton Saville (notate le iniziali MWS) e, per omofonia, Safie (se
pronunciamo Saville alla francese). Il primo di questi nomi ci porta alla
cornice più esterna della narrazione, nella quale Robert Walton scrive a sua
sorella, MWS, durante un periodo di 276 giorni (quello della gestazione)
dall’11 dicembre 17[96] al 12 settembre 17[97] (gli anni tra parentesi ci sono
forniti da un calendario perpetuo), che sono grossomodo le date del
concepimento e della nascita di Mary Shelley. Le date del diario di Walton ci
permettono di andare indietro e leggere la creazione del mostro da parte di
Victor in concomitanza con quelle della Rivoluzione francese (1789) e del
Regime del Terrore (1793) o, se è per questo, con la Rivoluzione industriale e
forse, per estensione, con qualunque rivoluzione tecnologica attraverso la
quale l’uomo, pensando di migliorare il mondo, finisce con il rendersi
schiavo e distruggersi.
Il secondo di questi nomi ci porta alla narrazione più interna, in cui Safie
viene introdotta come l’espediente attraverso cui il mostro apprende a parlare
e a scrivere. Il nome Safie, scelto con molta cura (originariamente si
chiamava Maimouna e poi Amina), suggerisce Sophie o Sofia e dunque
conoscenza e sapienza, ricordandoci ancora una volta che Frankenstein è un
romanzo sulle pericolose conseguenze della ricerca della conoscenza. Queste
conseguenze sono esplorate in ciascuna delle cornici del racconto, dove
incontriamo Walton che racconta la sua storia e quella di Victor, Victor che
racconta la sua e quella del mostro e il mostro che racconta la sua e quella di
De Lacey. E al centro di questa, e quindi di tutte le altre, è la storia di Safie,
che per quanto possegga una notevole istruzione non sa vedere al di là
dell’orrido aspetto del mostro, e scappa dal cottage di De Lacey nella sua
ultima scena. Questa fuga di fronte a un “aspetto” sgradevole diviene un
tropo per buona parte del romanzo e senz’altro in tutti gli adattamenti in
pellicola. Tuttavia, ciò che ci fa più orrore non è il mostro ma le reazioni al
mostro. Proprio al centro del romanzo il mostro è respinto da Felix (colui che
è felice), Agatha (che è buona) e Safie (la sapiente). Ancor più orribile è il
disprezzo che il mostro prova per sé nelle sue ultime parole a Walton: «Tu mi
odi; ma il tuo disprezzo non può eguagliare quello che provo io per me». In
fin dei conti, Frankenstein è un romanzo sul disgusto di sé e l’uscita finale
del mostro «nel buio, in lontananza» preannuncia «L’orrore! L’orrore!» del
Cuore di tenebra di Joseph Conrad, un altro racconto a cornici, e strutturato
sulla figura del “doppio”, pubblicato alla fine del diciannovesimo secolo.
Cronologia
di Charles E. Robinson

La maggior parte delle voci di questa cronologia selettiva ricostruisce il


racconto della ideazione, pubblicazione e ricezione del romanzo di Mary
Shelley – rintracciando tra il 1814 e il 1832 il primo concepimento del
“fenomeno” Frankenstein, includendo sia le recensioni tra il 1818 e il 1832,
sia il turbinio di adattamenti teatrali tra il 1823 e il 1826. Per una cronologia
più estesa (con riferimenti bibliografici a ogni voce) si rimanda a Robinson,
The Frankenstein Notebooks, pp. lxxvi-cx. Nelle voci che seguono, MWS e
PBS stanno per Mary Wollstonecraft Shelley e Percy Bysshe Shelley.

28 luglio 1814: Poco dopo essersi dichiarati il loro amore, la sedicenne MWS
(accompagnata dalla sorella poco più giovane, Claire Clairmont) e il
ventunenne PBS (nonostante fosse già coniugato con Harriet Westbrook)
fuggono insieme sul continente per quello che sarà poi definito il loro “Six
Week’s Tour”.

28 dicembre 1814: MWS assiste a Londra alla conferenza di André-Jacques


Garnerin su elettricità, galvanismo, gas e fantasmagoria, rivelando il proprio
interesse per le materie scientifiche e sensazionali prima della concezione e
pubblicazione di Frankenstein.

6 marzo 1815: Muore la figlia di MWS e PBS (nata prematuramente il 22


febbraio).

Fine agosto/primi di settembre 1815: MWS, con il fratellastro Charles


Clairmont, PBS e Thomas Love Peacock, visita Oxford e le stanze dove,
stando a Clairmont, PBS (insieme al compagno di studi Thomas Jefferson
Hogg) «riversava l’instancabile e indefessa applicazione di un alchimista sui
limiti naturali e artificiali della conoscenza umana».

24 gennaio 1816: MWS partorisce William Shelley, che terrà accanto a sé


durante la scrittura di Frankenstein.

Marzo/aprile 1816: Claire Clairmont, sorellastra di MWS, inizia una relazione


con Lord Byron.

2 maggio 1816: MWS, PBS, il loro figlio William e Claire Clairmont (incinta di
Byron) partono da Londra per la Svizzera, dove incontreranno Byron.

13 maggio: MWS, PBS e il resto del gruppo arrivano sul lago di Ginevra.

27 maggio 1816: PBS e Lord Byron si incontrano per la prima volta (MWS
aveva già incontrato Byron a Londra un mese prima).

15-18 giugno 1816: Byron, PBS e forse il medico di Byron, James William
Polidori, discutono del “principio della vita”; a Villa Diodati comincia la gara
per il racconto di fantasmi; MWS è l’ultima a concepire una storia, che
comincia con queste parole: «Fu in una tetra notte di novembre» (che sarebbe
poi diventata la prima frase del capitolo quarto del volume primo del
romanzo).

22-30 giugno 1816: A quanto pare, mentre MWS scriveva la sua storia, PBS e
Byron facevano un giro in barca del lago di Ginevra.

24 luglio 1816: MWS annota nel diario di Ginevra: «scrivere la mia storia», il
primo evidente riferimento a ciò che poi sarebbe diventato Frankenstein.

29 luglio-25 agosto 1816: MWS continua a scrivere la sua storia.

21 agosto 1816: MWS e PBS «parlano della [sua] storia» che a questo punto
probabilmente non aveva ancora la cornice esterna o, all’interno, il racconto
di Safie.

29 agosto-10 settembre 1816: Gli Shelley lasciano Ginevra, tornano in


Inghilterra e MWS si stabilisce a Bath con Claire Clairmont, che è incinta.
16 settembre 1816: In questo periodo MWS riprende la stesura del romanzo
nella sua forma estesa.

9 ottobre 1816: La sorellastra di MWS, Fanny Imlay Godwin, si suicida.

18 ottobre 1816: MWS riprende la stesura del romanzo.

26 ottobre 1816: PBS scrive sul diario di Bath di MWS: «Mary sta scrivendo il
suo libro», il primo riferimento a Frankenstein come “libro” o “romanzo”.

20 novembre 1816: MWS finisce di scrivere l’episodio di Justine del romanzo.

5 dicembre 1816: È probabile che MWS abbia completato una versione del
capitolo sull’arrivo di Safie e le lezioni di lingua, anche se inizialmente Safie
si chiamava Maimouna e poi Amina.

15 dicembre 1816: MWS e PBS ricevono la notizia del suicidio di Harriet


Westbrook Shelley, prima moglie di PBS, affogata nella Serpentine a Londra.

30 dicembre 1816: MWS e PBS si sposano a Londra.

3 gennaio 1817: MWS riprende la stesura del romanzo; in quei giorni è già
incinta di un mese.

12 gennaio 1817: Nasce Allegra, figlia di Claire Clairmont e Lord Byron.

3 febbraio-9 aprile 1817: MWS continua a scrivere il suo romanzo.

18 marzo 1817: Gli Shelley si trasferiscono ad Albion House a Marlow.

27 marzo 1817: La Court of Chancery nega a PBS la custodia dei figli (Ianthe
e Charles) avuti con Harriet.

10-17 aprile 1817: MWS “corregge” le bozze del romanzo.

18 aprile-10 e 13 maggio 1817: MWS ricopia e ristruttura la bozza (in due


volumi) in una versione finale (in tre volumi) per far pubblicare il romanzo
anonimamente. PBS invia il manoscritto dicendo che si tratta del lavoro di un
suo “amico”.
26 maggio 1817: In questo periodo PBS ha inviato la copia definitiva del
manoscritto all’editore John Murray, al quale il romanzo “piace” anche se
non accetta di pubblicarlo.

3 agosto 1817: PBS chiede al suo editore, Charles Ollier, di pubblicare


Frankenstein, ma Ollier declina l’offerta nel giro di tre giorni.

18-24 agosto 1817: L’editore Lackington, Hughes, Harding, Mavor, and


Jones accetta di pubblicare Frankenstein.

2 settembre 1817: nasce Clara Everina Shelley, figlia di MWS e PBS.

24 settembre 1817: MWS dà carta bianca a PBS nella correzione almeno delle
prime prove di stampa che stanno cominciando ad arrivare.

Metà/fine ottobre 1817: The British Critic annuncia la pubblicazione di un


«lavoro di immaginazione intitolato Frankenstein, ovvero il moderno
Prometeo, in tre volumi».

20 ottobre 1817: MWS visita il monumento di John Hampden vicino a Oxford


e poi revisiona le pagine su Oxford delle bozze di Frankenstein (volume
terzo, capitolo secondo). Per maggiori dettagli su questi cambiamenti, si
vedano la prossima voce e Robinson, Frankenstein Notebooks, pp. xc-xci e
459-461.

28 ottobre 1817: PBS scrivendo da Marlow a «Messrs. Lackington & Co.»


rivela che sono stati fatti cambiamenti all’episodio di Oxford e alla parte in
Olanda (volume terzo, capitolo primo) delle minute di Frankenstein. Per
maggiori dettagli su questi cambiamenti, si veda Robinson, Frankenstein
Notebooks, pp. xc-xci e 459-461.

6 novembre 1817: La data ufficiale della pubblicazione della Storia di un


viaggio di sei settimane degli Shelley. In questo periodo altri membri del
circolo degli Shelley pubblicano libri importanti. Tra questi William Godwin
(Mandeville, dicembre 1817), PBS (Laon and Cythna, dicembre1817, ritirato e
poi ripubblicato come The Revolt of Islam nel gennaio 1818), Thomas Love
Peacock (Rhododaphne, febbraio 1818) e Leigh Hunt (Foliage, febbraio
1818).
24 novembre 1817: William Godwin, padre di MWS, termina la lettura delle
bozze di Frankenstein.

1o dicembre 1817: The Literary Panorama, and National Register annuncia


che un «lavoro di immaginazione intitolato Frankenstein, ovvero il moderno
Prometeo, sarà pubblicato in tre volumi alla fine del corrente mese».

1o gennaio 1818: Frankenstein è pubblicato anonimamente da Lackington,


Hughes, Harding, Mavor, and Jones al costo di 16s. 6d. (circa $ 4,13 nel
1818, quando la sterlina equivaleva a $ 5,00), con un rendimento netto (dopo
le spese) di £ 125 1s. 6d., di cui un terzo (£ 41. 13s. 10d.) sarebbe andato
all’autore.

2 gennaio 1818: PBS invia una copia di Frankenstein a Walter Scott che lo
recensisce nel Blackwood’s Edinburgh Magazine. Si veda anche di seguito la
voce al 20 marzo-1o aprile 1818.

Marzo 1818: La Belle Assemblée, or Bell’s Court and Fashionable Magazine


pubblica una recensione per la maggior parte positiva di Frankenstein.

Marzo 1818: The Edinburgh Magazine and Literary Miscellany; A New


Series of “The Scots Magazine” pubblica una recensione con valutazioni
contrastanti su Frankenstein.

12 marzo 1818: MWS, PBS, Claire Clairmont, tre bambini (William e Clara di
MWS e Allegra, figlia di Claire) e due domestiche (la balia Elise Duvillard e la
cameriera Milly Shields) partono in barca a vela da Dover verso Calais in
direzione dell’Italia.

20 marzo-1o aprile 1818: la Blackwood’s Edinburgh Magazine pubblica la


recensione positiva di Frankenstein di Walter Scott in cui si suggerisce che
l’autore possa essere PBS.

Aprile 1818: The British Critic pubblica una recensione negativa di


Frankenstein, suggerendo che sia stato scritto da Mary Shelley.

Aprile 1818: The Gentleman’s Magazine pubblica una recensione positiva di


Frankenstein.
Aprile 1818: The Monthly Review pubblica una recensione negativa di
Frankenstein.

1o giugno 1818: The Literary Panorama, and National Register pubblica una
recensione negativa di Frankenstein, suggerendo anche che sia stato scritto
da Mary Shelley.

7 giugno 1818: L’Examiner di Leigh Hunt annuncia una recensione di


Frankenstein che non apparirà mai.

12 giugno 1818: la Quarterly Review pubblica la recensione negativa di


Frankenstein di John Wilson Croker.

15 e 26 agosto 1818: The Morning Chronicle pubblica degli annunci


promozionali di Frankenstein da cui si evince che l’editore Lackington e/o
singole librerie hanno ancora copie invendute del romanzo.

Settembre 1818: La recensione di Frankenstein nel numero di aprile del


British Critic è ristampata dal Port-Folio di Philadelphia.

24 settembre 1818: Clara Shelley, figlia di MWS e PBS, muore a Venezia.

1o aprile 1819: ll racconto del vampiro scritto a Ginevra da John William


Polidori esce come Il vampiro: un racconto di Lord Byron nel New Monthly
Magazine, a cui fa da prefazione un “Estratto di una lettera da Ginevra, con
aneddoti di Lord Byron &c”.

7 giugno 1819: William Shelley, figlio di MWS e PBS, muore a Roma.

28 giugno 1819: Il racconto del vampiro scritto a Ginevra da Byron (datato


17 giugno 1816) è pubblicato con il titolo “Un frammento” alla fine di
Mazeppa.

12 novembre 1819: Percy Florence Shelley, figlio di MWS e PBS, nasce a


Firenze.

21 luglio 1821: Prima traduzione: Frankenstein, ou le Prométhée moderne è


tradotto dall’inglese da Jules Saladin e pubblicato in tre volumi da Corréard a
Parigi.

8 luglio 1822: PBS muore annegato in seguito al naufragio della sua barca nel
golfo di La Spezia.

Metà (luglio?) del 1823: In questo periodo MWS presenta la sua copia
personale e corretta di Frankenstein a una certa Mrs. Thomas a Genova; la
copia è ora conservata nella Morgan Library di New York City.

28 luglio 1823: All’English Opera House di Londra va in scena la prima di


Presumption; or, The Fate of Frankenstein di Richard Brinsley Peake. Sono
previste trentasette repliche. Per questa e altre rappresentazioni teatrali si
veda Steven Forry, Hideous Progenies (nei suggerimenti bibliografici).

11 agosto 1823: La seconda edizione di Frankenstein (con il nome di Mary


Wollstonecraft Shelley in copertina) è pubblicata in due volumi da G. and
W.B. Whittaker in cinquecento copie al costo di 14s. Ci sono almeno 123
variazioni in questa edizione, probabilmente introdotte da William Godwin,
che ne aveva curato la realizzazione perché Mary Shelley non era ancora
tornata dall’Italia.

18 agosto 1823: Al Royal Coburg Theatre di Londra va in scena la prima di


otto repliche di Frankenstein; or, The Demon of Switzerland di Henry M.
Milner.

25 agosto 1823: MWS torna in Inghilterra dopo un soggiorno di cinque anni in


Italia.

29 agosto 1823: MWS assiste alla rappresentazione di Presumption; or, The


Fate of Frankenstein di Peake al Lyceum, scopre di essere diventata famosa,
ed è deliziata nel vedere che la locandina presenta il mostro innominabile
come «____».

1o settembre 1823: Prima di sei repliche di Humgumption; or Dr.


Frankenstein and the Hobgoblin of Hoxton al New Surrey Theatre; prima di
due repliche di Presumption and the Blue Demon al Davis’s Royal
Amphitheatre.
11 settembre 1823: The London Literary Gazette riporta che all’English
Opera House «Frankenstein continua a... spaventare i bambini».

20 ottobre 1823: Prima di nove repliche di Another Piece of Presumption di


Richard Brinsley Peake all’Adelphi Theatre.

31 luglio 1824: la Knights Quarterly Magazine pubblica una recensione


sostanzialmente positiva di Frankenstein.

13 dicembre 1824: Prima di quattro repliche di Frank-in-Steam; or, The


Modern Promise to Pay all’Olympic Theatre.

10 giugno 1826: Prima di novantaquattro repliche di Le Monstre et le


magicien di Jean Toussaint Merle e Antoine Nicolas Béraud al Théâtre de la
Porte Saint-Martin di Parigi.

3 luglio 1826: Prima di otto repliche di The Man and the Monster; or, The
Fate of Frankenstein di Henry M. Milner al Royal Coburg Theatre.

9 ottobre 1826: Prima di quattro repliche di The Monster and the Magician;
or, The Fate of Frankenstein di John Kerr al New Royal West London
Theatre.

31 ottobre 1831: La terza edizione di Frankenstein, «rivista corretta e


illustrata», con incisione in copertina e una nuova introduzione, è pubblicata
in un volume unico da Henry Colburn and Richard Bentley in 4020 copie con
il procedimento della stereotipia al costo di 6s, nella serie Standard Novels
(MWS aveva venduto i diritti per la nuova edizione a £ 30). Questa nuova
edizione in stereotipo fu poi nuovamente pubblicata con una nuova copertina
nel 1832, 1839 e 1849.

7 novembre 1831: The Morning Chronicle scrive che «la richiesta del nono
volume degli Standard Novels (che contiene Frankenstein e la prima parte di
Il visionario [di Schiller N.d.T.]) è stata così grande da aver esaurito il primo
giorno tutte le scorte e ci è stato chiesto di informare coloro che siano rimasti
delusi nella ricerca del volume che un’altra stampa è stata realizzata, e altre
copie si possono avere dall’editore o nelle librerie».
19 novembre 1831: The London Literary Gazette pubblica una recensione
positiva della nuova edizione del 1831 di Frankenstein.

10 novembre 1832: La recensione di Frankenstein di PBS del 1817-18 viene


finalmente pubblicata su Athenæum.
Suggerimenti bibliografici
di Charles E. Robinson

I titoli riportati qui di seguito integrano e aggiornano quelli di Maurice


Hindle dell’edizione originale Penguin Classic. Molti di questi riguardano
Frankenstein nella cultura popolare, specialmente in teatro e al cinema. I
titoli più recenti dimostrano quanto Mary Shelley e Frankenstein siano
ancora vivi nel ventunesimo secolo.

Adams, Carol, Douglas Buchanan e Kelly Gesch, The Bedside, Bathtub & Armchair Companion to
Frankenstein (New York, The Continuum International Publishing Group Inc., 2007).
Behrendt, Stephen C. (a cura di), Approaches to Teaching Shelley’s Frankenstein (New York, The
Modern Language Association of America, 1990).
Field, Barbara, Playing with Fire (after Frankenstein) (New York, Dramatists Play Service Inc., 1989).
Originariamente scritto per il Guthrie Theater di Minneapolis, e da questo prodotto.
Forry, Steven Earl, Hideous Progenies: Dramatizations of Frankenstein from Mary Shelley to the
Present (Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1990).
Garrett, Martin, Mary Shelley, British Library Writers’ Lives (New York, Oxford University Press,
2002).
Glut, Donald F., The Frankenstein Catalog: Being a Comprehensive Listing of Novels, Translations,
Adaptations, Stories, Critical Works, Popular Articles, Series, Fumetti, Verse, Stage Plays, Films,
Cartoons, Puppetry, Radio & Television Programs, Comics, Satire & Humor, Spoken & Musical
Recordings, Tapes, and Sheet Music Featuring Frankenstein’s Monster and/or Descended from
Mary Shelley’s Novel (Jefferson, NC, McFarland & Company, Inc., 1984).
Goulding, Christopher, “The real Doctor Frankenstein?” Journal of the Royal Society of Medicine, 95:5
(May 2002): 257-259.
Hitchcock, Susan Tyler, Frankenstein: A Cultural History (New York, W.W. Norton & Company,
2007).
Hoobler, Dorothy e Thomas, The Monsters: Mary Shelley & the Curse of Frankenstein (New York,
Little, Brown and Company, 2006).
Jones, Stephen, The Frankenstein Scrapbook: The Complete Movie Guide to the World’s Most Famous
Monster (New York, Citadel Press, 1995).
Louise, Dorothy, Frankenstein: In a New Adaptation, Plays for Performance (Chicago, Ivan R. Dee,
2004).
Lyles, W.H., Mary Shelley: An Annotated Bibliography (New York, Garland Publishing, Inc., 1975).
Macdonald, D.L., Poor Polidori: A Critical Biography of the Author of “The Vampyre” (Toronto,
University of Toronto Press, 1991).
Morton, Timothy (a cura di), A Routledge Literary Sourcebook on Mary Shelley’s Frankenstein
(London, Routledge, 2002).
Picart, Caroline Joan (“Kay”) S., The Cinematic Rebirths of Frankenstein: Universal, Hammer, and
Beyond (Westport, CT, Praeger, 2002).
———, Remaking the Frankenstein Myth on Film: Between Laughter and Horror (Albany, State
University of New York Press, 2003).
Picart, Caroline Joan (“Kay”) S., Frank Smoot e Jayne Blodgett, The Frankenstein Film Sourcebook,
nota introduttiva di Noël Carroll, Bibliographies and Indexes in Popular Culture, No. 8 (Westport,
CT, Greenwood Press, 2001).
Polidori, John William, The Vampyre: A Tale, and Ernestus Berchtold; or, The Modern Oedipus, a cura
di D.L. Macdonald e Kathleen Scherf (Peterborough, ON, Broadview Editions, 2008).
Robinson, Charles E. (a cura di), Frankenstein or The Modern Prometheus: The Original Two-Volume
Novel of 1816-1817 from the Bodleian Library Manuscripts, by Mary Wollstonecraft Shelley (with
Percy Bysshe Shelley) (Oxford, Bodleian Library, University of Oxford, 2008).
Robinson, Charles E., “Texts in Search of an Editor: Reflections on The Frankenstein Notebooks and
on Editorial Authority”, in Alexander Pettit (a cura di), Textual Studies and the Common Reader:
Essays on Editing Novels and Novelists (Athens, The University of Georgia Press, 2000), pp. 91-
110. Ristampato in Erick Kelemen (a cura di), Textual Editing and Criticism: An Introduction
(New York, Norton, 2008), pp. 363-383.
Schoene-Harwood, Berthold (a cura di), Mary Shelley: Frankenstein, Columbia Critical Guides (New
York, Columbia University Press, 2000).
Schor, Esther (a cura di), The Cambridge Companion to Mary Shelley (Cambridge, Cambridge
University Press, 2003).
Smith, Johanna M., Mary Shelley, Twayne’s English Author Series (New York, Twayne Publishers,
1996).
St. Clair, William, The Reading Nation in the Romantic Period (Cambridge, Cambridge University
Press, 2004).
Stocking, Marion Kingston (a cura di), The Clairmont Correspondence: Letters of Claire Clairmont,
Charles Clairmont, and Fanny Imlay Godwin, 2 voll. (Baltimora, The Johns Hopkins University
Press, 1995).
Stocking, Marion Kingston (a cura di), con la collaborazione di David Mackenzie Stocking, The
Journals of Claire Clairmont (Cambridge, MA, Harvard University Press, 1968).
Wolfson, Susan e Ronald L. Levao (a cura di), The Annotated Frankenstein (Cambridge, Harvard
University Press, 2012).
Suggerimenti bibliografici
di Charlotte Gordon

Bennett, Betty T. (a cura di), Selected Letters of Mary Wollstonecraft Shelley, Baltimora, Johns
Hopkins University Press, 1995. Con Charles E. Robinson, Mary Shelley Reader, New York,
Oxford University Press, 1990.
Buss, Helen M., D.L. Macdonald e Anne McWhir (a cura di), Mary Wollstonecraft and Mary Shelley:
Writing Lives, Waterloo, Ontario, Wilfrid Laurier University Press, 2001.
Feldman, Paula R. e Diana Scott-Kilvert (a cura di), The Journals of Mary Shelley, Baltimora, Johns
Hopkins University Press, 1987.
Gordon, Charlotte, Romantic Outlaws: The Extraordinary Lives of Mary Wollstonecraft and Mary
Shelley, New York, Random House, 2015.
Seymour, Miranda, Mary Shelley, New York, Grove, 2000.
Smith, Andrew (a cura di), The Cambridge Companion to Frankenstein, Cambridge, Cambridge
University Press, 2016.
Introduzione di Mary Shelley
a Frankenstein, terza edizione (1831)

Gli editori delle Standard Novels, scegliendo Frankenstein per una delle loro
collane, hanno espresso il desiderio che io gli riferissi un qualche resoconto
sull’origine della storia. Io ho accettato tanto più volentieri perché questo mi
permetterà di fornire una risposta generale alla domanda che mi viene posta
di frequente: «Come è successo che io, allora una giovane ragazza, abbia
concepito, ed elaborato, un’idea così orribile?» È vero che sono decisamente
contraria a espormi in prima persona sulla carta stampata, ma poiché il mio
racconto sarà solo l’appendice a un’opera precedentemente realizzata, e si
limiterà a questioni legate esclusivamente a me come autrice, non posso
davvero accusarmi di un’intrusione della sfera personale.
Il fatto che io, figlia di due persone di riconosciuta fama letteraria, abbia
pensato molto presto nella mia vita di scrivere, non è strano. Da bambina
scribacchiavo e il mio passatempo preferito nelle ore di ricreazione era quello
di “scrivere storie”. Ma v’era qualcosa che mi dava un piacere ancora più
grande, ed era quello di fare castelli in aria, abbandonarmi a sogni a occhi
aperti, a seguire il filo di pensieri che consistevano nella elaborazione di una
serie di eventi immaginari in successione. I miei sogni erano al tempo stesso
più fantastici e piacevoli dei miei scritti. In questi ultimi ero una pedissequa
imitatrice, facevo quello che avevano fatto altri più che buttar giù quello che
mi suggeriva la mia mente. Ciò che scrivevo era dedicato ad almeno un altro
sguardo, compagno e amico della mia infanzia; invece i miei sogni erano tutti
per me; non dovevo renderne conto a nessuno; erano il mio rifugio quando
stavo male e il mio piacere più grande quando ero libera.
Da ragazza ho vissuto soprattutto in campagna e ho passato molto tempo
in Scozia. Di tanto in tanto visitavo le zone più pittoresche ma la mia
residenza abituale erano le rive cupe e desolate del Tay, vicino a Dundee. Le
definisco cupe e desolate retrospettivamente, perché allora non mi risultavano
tali. Erano per me un nido di libertà, il luogo ameno dove, inosservata, potevo
entrare in contatto con le creature della mia fantasia. A quel tempo scrivevo,
ma in uno stile pieno di luoghi comuni. Fu invece sotto gli alberi del terreno
della nostra casa, o sui fianchi brulli delle spoglie alture circostanti, che
nacquero e si alimentarono le mie autentiche composizioni, gli aerei voli
della mia immaginazione. Non ero mai io l’eroina dei miei racconti. La mia
vita mi sembrava una faccenda troppo banale. Non potevo concepire per me
stessa un destino di romantiche sventure o eventi straordinari; ma non mi
sentivo costretta nei limiti della mia identità e potevo riempire le ore di
creazioni che a quell’età erano per me molto più interessanti di quello che
vivevo io.
Dopodiché la mia vita si fece più indaffarata e la realtà prese il posto della
finzione. Ma mio marito fin da subito fu molto ansioso che io mi dimostrassi
all’altezza dei miei genitori e iscrivessi il mio nome nell’albo della fama. Mi
incitava continuamente a ottenere una reputazione nell’ambito della
letteratura, una cosa che allora interessava anche a me, ma che poi ha finito
per essermi del tutto indifferente. In quei giorni lui desiderava che io scrivessi
non tanto con l’idea che avrei prodotto qualcosa degno di nota, ma in modo
che potesse lui stesso giudicare quanto fosse grande in me la promessa di
cose migliori a venire. Ma io non facevo niente. Il mio tempo era tutto
occupato dai viaggi e dalla cura della mia famiglia; e l’unica attività letteraria
che prendeva la mia attenzione era lo studio, nel senso della lettura, o lo
sviluppo delle mie idee attraverso la comunicazione con una mente molto più
colta come la sua.
Nell’estate del 1816 visitammo la Svizzera, divenendo vicini di casa di
Lord Byron. All’inizio trascorrevamo il nostro tempo in piacevoli ore sul
lago, o passeggiando sulle sue rive, e l’unico di noi che mettesse per iscritto i
suoi pensieri era Lord Byron, che stava scrivendo il terzo canto di Childe
Harold. Questi, quando in seguito ce li presentò, rivestiti di tutta la luce e
l’armonia del verso poetico, conferirono un’impronta divina alle glorie del
cielo e della terra di cui con lui condividevamo le influenze.
Ma quella si dimostrò un’estate umida e inclemente; la pioggia incessante
spesso ci costringeva a restare in casa per giorni. Ci erano capitati tra le mani
dei volumi di storie di fantasmi, tradotti in francese dal tedesco. Una era la
storia dell’Amante Incostante, che quando credeva di abbracciare la sposa a
cui si era solennemente promesso, si trovava nelle braccia del pallido
fantasma di colei che aveva abbandonato. E v’era quella del peccaminoso
capostipite della sua stirpe, il cui infelice destino era quello di dare il bacio
della morte a tutti i figli più giovani della sua maledetta casata, appena questi
raggiungevano l’età della speranza. L’ombra della sua figura gigantesca,
abbigliata come il fantasma di Amleto, con l’armatura e la visiera alzata,
veniva scorta a mezzanotte, ai raggi dell’incostante luna, mentre avanzava
lentamente per il tenebroso viale. La forma si perdeva tra le ombre delle mura
del castello, ma presto un cancello si spalancava, si udiva un passo, si apriva
la porta della camera da letto e lui avanzava verso il giaciglio dei giovanetti
in fiore, cullati dal sonno ristoratore. Sul suo volto regnava un dolore
immortale, mentre si chinava a baciare la fronte dei ragazzi, che da quell’ora
sarebbero appassiti come fiori recisi. Non mi sono più imbattuta in queste
storie da allora, ma i loro eventi sono vividi nella mia mente come se le
avessi lette ieri.
«Ognuno di noi scriverà una storia di fantasmi» disse Lord Byron; e la
sua proposta fu accolta. Eravamo quattro. Il nobile scrittore cominciò una
storia e ne pubblicò un frammento alla fine del suo poema su Mazeppa.
Shelley, più portato a dare corpo a idee e sentimenti nel fulgore di un
immaginario brillante, e nella musica dei versi più melodiosi che adornino la
nostra lingua, che a inventare i meccanismi di una storia, ne cominciò una
basata sulle esperienze dei suoi primi anni di vita. Al povero Polidori venne
l’orribile idea di una donna che aveva un teschio al posto della testa, una
punizione infertale per aver sbirciato dal buco di una serratura; non ricordo
per vedere cosa, ma era qualcosa di scandaloso e sbagliato, ovviamente. Ma
una volta ridotta la donna a una condizione peggiore di quella del rinomato
Tom di Coventry, lui non seppe più che farne e fu costretto a mandarla alla
tomba dei Capuleti, l’unico posto adatto a lei. Ben presto però gli illustri
poeti, seccati dalla piattezza della prosa, abbandonarono quel compito a loro
non congeniale.
Io mi diedi molto da fare per pensare a una storia, una che potesse
competere con quelle che ci avevano stimolato all’impresa. Una storia che
parlasse alle misteriose paure della nostra natura, e risvegliasse fremiti di
orrore, che suscitasse nel lettore la paura di guardarsi attorno, che raggelasse
il sangue, che accelerasse i battiti del cuore. Se non riuscivo in questo, la mia
storia di fantasmi non sarebbe stata degna del suo nome. Così ci pensavo,
ragionavo... ma era inutile. Provavo quella vuota incapacità di invenzione che
è la pena più grande di qualunque autore, quando alle nostre veementi
invocazioni risponde lo scuro Nulla. Ogni mattina mi veniva chiesto: «Hai
pensato a una storia?» e ogni mattina ero costretta a rispondere con una
mortificante negazione.
Per dirla con Sancho [Panza], ogni cosa deve avere un inizio. E
quell’inizio deve essere connesso a qualcosa che è avvenuto prima. Gli indù
posero un elefante a sostegno del mondo, ma l’elefante è a sua volta
sostenuto da una tartaruga. L’invenzione, lo si deve ammettere con umiltà,
non consiste nel creare qualcosa dal nulla ma dal caos. È innanzitutto
necessario procurarsi la materia prima, perché si può dare corpo a sostanze
informi e oscure, ma non si può portare a essere la sostanza stessa. Quando si
tratta di scoperte e invenzioni, anche quelle che appartengono
all’immaginazione, torniamo sempre a confrontarci con la storia dell’uovo di
Colombo. L’invenzione consiste nella capacità di cogliere le potenzialità di
un argomento e nel potere di plasmare e foggiare le idee che questo
suggerisce.
Tra Lord Byron e Shelley vi furono lunghe e numerose conversazioni, che
io ascoltavo con devozione e rimanendo pressoché muta. Nel corso di una di
queste vennero discusse varie dottrine filosofiche, e tra queste la natura del
principio della vita, e se si sarebbe mai verificata la probabilità della sua
scoperta e condivisione. Loro parlarono degli esperimenti del dottor Darwin
(non dico di quello che effettivamente realizzò, o disse di avere realizzato,
ma, più a mio proposito, di quello che all’epoca si diceva che avesse fatto), il
quale conservò un pezzetto di vermicelli in un barattolo di vetro fino a che
questo, per qualche straordinaria ragione, cominciò a muoversi di sua
volontà. Pur non essendo questo il modo per poter infondere la vita, poteva
darsi che si potesse rianimare un cadavere. Il galvanismo aveva fornito
indicazioni in questa direzione; forse si potevano produrre le componenti di
una creatura, combinarle e nutrirle di calore vitale.
La notte passava e la conversazione andava avanti; era passata anche l’ora
delle streghe prima che andassimo a dormire. Quando posai la testa sul
cuscino non mi addormentai ma neanche potrei dire che pensassi. La mia
immaginazione, non richiesta, si impossessò di me e mi guidò, donando alla
successione di immagini che sorsero nella mia mente una vividezza che
andava ben oltre gli abituali confini della rêverie. Vidi, a occhi chiusi ma in
un’acuta visione mentale, io vidi il pallido studente di arti sacrileghe
inginocchiato davanti alla cosa che aveva assemblato. Vidi la ripugnante
larva di un uomo disteso e poi, azionato un congegno potente, dare segni di
vita e animarsi di un moto impacciato, semivitale. Spaventoso, senz’altro:
perché estremamente spaventoso sarebbe l’effetto di qualunque tentativo
dell’uomo di scimmiottare la stupenda meccanica del Creatore del mondo. Il
suo stesso successo avrebbe terrorizzato l’artefice, che sarebbe fuggito via, in
preda all’orrore, dal suo orribile manufatto. Avrebbe sperato che,
abbandonandola a se stessa, quella flebile scintilla di vita da lui infusa
sarebbe svanita; e che quella cosa, che aveva ricevuto un’animazione tanto
imperfetta, tornasse nuovamente a essere materia morta; sarebbe andato a
dormire con la convinzione che il silenzio della tomba avrebbe risucchiato
per sempre la fugace esistenza dell’orrendo cadavere a cui lui aveva guardato
come alla culla della vita. Si addormenta ma viene svegliato; apre gli occhi,
vede l’orrida cosa in piedi accanto al suo letto che sposta le cortine e lo
guarda con i suoi acquosi occhi giallastri ma intelligenti.
A quel punto ho spalancato i miei dalla paura. L’idea era penetrata così a
fondo nella mia mente che venni percorsa da un brivido di terrore, e
desideravo sostituire la spaventosa immagine della mia fantasia con gli
oggetti reali intorno a me. Ancora li vedo: la stanza, il parquet di legno scuro,
le imposte chiuse, e la luce della luna che vi si infiltrava a fatica, e la mia
consapevolezza che al di là v’erano il lago ghiacciato e le alte Alpi innevate.
Ma io non riuscivo a liberarmi tanto facilmente di quella spaventosa
apparizione, che mi ossessionava. Dovevo pensare a qualcos’altro. Tornai
con il pensiero alla mia storia di fantasmi, quell’infelice seccatura della mia
storia di fantasmi! Oh, se solo fossi riuscita a inventarne una che spaventasse
il mio lettore come mi ero spaventata io quella notte!
Veloce come la luce e altrettanto gradita, mi balenò l’idea. «Ho trovato!
Quello che ha terrorizzato me terrorizzerà gli altri; devo solo descrivere lo
spettro che ha visitato il mio guanciale nel mezzo della notte». Il mattino
seguente annunciai che avevo pensato a una storia. E quello stesso giorno
cominciai, scrivendo le parole Fu in una tetra notte di novembre e
limitandomi a buttare giù un appunto sui sinistri terrori suscitati dalla visione
del mio dormiveglia.
All’inizio pensavo soltanto a poche pagine, a un racconto breve; ma
Shelley mi sollecitò a sviluppare l’idea più estesamente. Pur non dovendo in
alcun modo a mio marito lo spunto per alcun episodio né per lo sviluppo di
una scia emotiva, senza il suo incitamento questa storia non avrebbe mai
assunto la forma con cui venne presentata al mondo. Eccetto la prefazione.
Per quanto ricordo, quella fu scritta interamente da lui.
E adesso, ancora una volta, invito la mia ripugnante progenie a continuare
il suo cammino e prosperare. Provo affetto per lei, perché fu il parto di giorni
felici, quando morte e dolore erano solo parole che non avevano alcuna vera
eco nel mio cuore. Nelle sue tante pagine vi sono molte passeggiate, molti
viaggi in carrozza e molte conversazioni del tempo in cui non ero sola e
avevo per compagno un uomo che, in questo mondo, non rivedrò mai più. Ma
queste cose riguardano me sola, per i miei lettori questi ricordi non contano
niente.
Voglio aggiungere solo una parola sulle modifiche che ho apportato. Sono
principalmente nello stile. Non ho cambiato nessuna parte della storia, né
introdotto idee nuove o nuove situazioni. Ho migliorato il linguaggio in quei
punti in cui era tanto arido da interferire con il godimento del racconto, e
questi cambiamenti si trovano quasi esclusivamente nella parte iniziale del
primo volume. In generale si limitano a parti secondarie della storia,
lasciandone il nucleo e la sostanza inalterati.

Londra, 15 ottobre 1831


La creazione di Eva
da Genesi 2:18-25, nella versione della Bibbia di re Giacomo

Il racconto biblico della creazione degli esseri umani mostra il potere di


conferire la vita del Dio biblico, quel potere di cui Victor Frankenstein
tentava di appropriarsi. Nonostante vi siano due versioni diverse della
creazione di Adamo ed Eva, questa è quella che aveva in mente Mary Shelley
quando la creatura di Frankenstein implora di avere una compagna femmina.

18E il SIGNORE IDDIO disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: creerò per lui un aiuto giusto per lui».
19E dalla terra il SIGNORE IDDIO formò ogni bestia dei campi, e ogni uccello dell’aria, e li portò ad
Adamo per vedere come li avrebbe chiamati; e in qualunque modo Adamo chiamasse ogni creatura
vivente, da allora quello è stato il suo nome. 20E Adamo diede i nomi a tutto il bestiame, e ad ogni
uccello in cielo, e a ogni bestia dei campi; ma non v’era ancora per Adamo un aiuto giusto per lui. 21E
il SIGNORE IDDIO fece cadere un sonno profondo su Adamo, e lui dormì; e lui prese una delle sue
costole, e richiuse la carne al suo posto. 22E la costola che il SIGNORE IDDIO aveva preso all’uomo
lui la fece diventare una donna, e la portò dall’uomo. 23E Adamo disse: «Questa è adesso ossa delle mie
ossa, e carne della mia carne, perché da me fu estratta, e sarà chiamata Donna. 24E dunque l’uomo
lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e saranno una sola carne. 25Ed erano nudi
entrambi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.

[Nell’inglese l’idea della donna “estratta” dall’uomo è fortemente sottolineata dai termini Man e Wo-
man (N.d.T.)]
George Gordon Lord Byron
Prometeo

La storia di Prometeo è un tema centrale nelle opere di Lord Byron, Percy


Shelley e Mary Shelley. Nel suo poema Prometeo liberato Percy Shelley
celebra la ribellione di Prometeo contro Zeus. Anche Byron loda Prometeo “il
Titano” per aver resistito con eroico coraggio all’ordine di Zeus. Dal canto
suo Mary Shelley, nel dare a Frankenstein il sottotitolo Un moderno
Prometeo, sembra avere un atteggiamento ambivalente nei confronti di
Prometeo.

Titano! Ai cui occhi immortali


I patimenti della mortalità,
Visti nella loro triste realtà,
Non erano cose disprezzate dagli dei;
Che ricompensa per la tua pietà?
Un soffrire silenzioso e intenso;
La rupe, il vùlture, e la catena,
Tutto ciò che del dolore gli orgogliosi possono provare,
Lo strazio che non mostrano,
Il soffocante senso di sventura,
Che non parla se non in solitudine,
Ed è geloso poi che il cielo
abbia chi l’ascolti, e non emetterà un sospiro
Finché la sua voce non sia priva di eco.

Titano! A te fu data la contesa


Tra sofferenza e volontà,
Che quando non uccidono, torturano;
E il Cielo inesorabile
E la sorda tirannia del Fato,
Il dominante principio dell’Odio,
Che per diletto crea
Le cose che può distruggere,
A te negarono anche il dono della morte:
La tua misera dote fu l’eternità
E tu l’hai sopportata molto bene.
Tutto ciò che il Tonante riuscì a estorcerti
Fu la minaccia che su di lui riversò
I tormenti della tua tortura;
Il fato che prevedesti tanto bene
Ma che non rivelasti per compiacerlo;
E nel tuo Silenzio fu la sua Sentenza,
E nell’Anima un vano pentimento,
E un maligno terrore così mal dissimulato,
Che nella sua mano i lampi tremarono.

Il tuo divino crimine fu di essere gentile,


Fu di ridurre con i tuoi precetti
La somma della sofferenza umana,
E invigorire l’Uomo con il suo arbitrio;
E per quanto dall’alto tu sia stato impedito,
Noi dalla tua paziente energia,
Dalla resistenza, e dal rifiuto opposto
Dal tuo Spirito impenetrabile,
Che Terra e Cielo non riuscirono a scuotere,
Ereditiamo una lezione imponente:
Tu sei simbolo e segno ai Mortali
Del loro fato e della loro forza;
Come te, l’Uomo è in parte divino,
La fonte pura, la corrente torbida;
E anche all’uomo è dato vedere
Scorci del suo funereo destino;
La sua miseria, la sua resistenza,
La sua esistenza triste e senza alleati:
A cui il suo Spirito può opporsi,
Alla pari di tutti i dolori,
E una volontà ferma, e un profondo sentire
Che persino nella tortura sa scorgere
La propria segreta ricompensa;
In trionfo dove osa la sfida,
E della Morte facendo una Vittoria.

Diodati, luglio 1816


Lettera I di Mary Shelley
Hôtel de Sécheron, Ginevra, 17 maggio 1816

In questa lettera la diciottenne Mary Godwin (Shelley) descrive il rischioso


viaggio da Parigi a Ginevra, dove a giugno avrebbe iniziato a scrivere
Frankenstein. Molte delle descrizioni del “sublime” in natura che troviamo
nel suo romanzo vengono da questi primi schizzi del tempestoso panorama
alpino.

La strada a tornanti era molto scoscesa; una parte era dominata da precipizi appena distinguibili, l’altra
era un baratro ricolmo dell’oscurità portata dalle nuvole in transito. Lo scroscio delle invisibili correnti
ci annunciava che avevamo lasciato le pianure della Francia, mentre ascendevamo, in una violenta
tempesta di pioggia e vento, verso Champagnolles, dove arrivammo alla mezzanotte del quarto giorno
dalla nostra partenza da Parigi.
Il mattino seguente procedemmo, sempre salendo tra i burroni e le valli delle montagne. Il
panorama si fa sempre più strabiliante e sublime: foreste di pini di impenetrabile densità e di ampiezze
inesplorate, anzi, inesplorabili, si estendono da ogni lato. A tratti i fitti boschi diradano a valle, e gli
alberi si contorcono abbarbicandosi con le loro nodose radici tra i crepacci più brulli; a volte la strada si
snoda verso l’alto in zone gelate, dove le foreste si sparpagliano e i rami degli alberi sono carichi di
neve, e quegli stessi prodigiosi pini sono per metà sepolti nei cumuli ondulati. Gli abitanti ci hanno
detto che la primavera tardava ad arrivare, ed effettivamente il freddo era estremo; salendo su per la
montagna, le stesse nuvole che ci bagnavano di pioggia nelle valli, ora riversavano grandi fiocchi di
neve, densi e molto frequenti. Tra questi rovesci si infiltrava a volte il sole, illuminando i maestosi
precipizi delle montagne, i cui pini giganteschi erano carichi di neve o avvolti da sbrindellati filamenti
di persistente vapore; altri ancora svettavano i loro pinnacoli contro il cielo assolato, luminoso e
azzurro.
Quando arrivò la sera, e noi stavamo salendo sempre più in alto, la neve, che avevamo visto
imbiancare le rupi a strapiombo, ora invadeva il nostro cammino, e cadeva veloce quando entrammo
nel villaggio di Les Rousses, dove rischiammo di dover passare la notte in una brutta locanda con i letti
sporchi. Perché da lì partono due strade per Ginevra: una attraverso Nion, in territorio svizzero, dove il
percorso tra le montagne è più breve e relativamente più agevole in quel periodo dell’anno, quando la
strada è per molte leghe coperta di neve di enorme profondità; l’altra strada passava per Gex ed era
troppo tortuosa e rischiosa per tentare di farla a un’ora così tarda. Ma il nostro lasciapassare era per Gex
e ci dissero che non potevamo cambiarne la destinazione. Tuttavia queste leggi di polizia, di per sé
tanto severe, sono fatte per essere smussate dalla corruzione e alla lunga questa difficoltà fu superata.
Noleggiammo quattro cavalli e dieci uomini per la vettura, quindi partimmo da Les Rousses alle sei del
pomeriggio, quando il sole era già calato da un pezzo, e la neve che batteva sui finestrini della carrozza
collaborava con il buio che calava a impedirci la vista del lago di Ginevra e delle Alpi in lontananza.
Quello che vedevamo intorno a noi era comunque abbastanza sublime da imporsi alla nostra
attenzione – non vi può essere paesaggio così terribilmente desolato. Da queste parti gli alberi sono
incredibilmente grandi e formano sparsi gruppetti su quelle distese imbiancate la cui vasta espansione
di neve è punteggiata soltanto da questi pini giganteschi e dai pali che segnano la nostra strada; non
v’era un fiume o un praticello circondato dalle rocce a dare sollievo al nostro sguardo, condendo il
sublime con qualcosa di pittoresco. Il naturale silenzio di quel deserto inabitato contrastava stranamente
con le voci degli uomini che ci conducevano, i quali, con toni e gesti animati, si chiamavano l’uno con
l’altro in un gergo misto di francese e italiano, turbando una quiete che, se non fosse stato per loro, era
assoluta.
Estratti da
Rivendicazione dei diritti della donna
di Mary Wollstonecraft

Nel diciottesimo e diciannovesimo secolo alle donne non era permesso


dedicarsi all’istruzione e alla cultura, la maggior parte degli esperti credeva
che le donne fossero di costituzione troppo debole per conseguire obiettivi
artistici o di erudizione. Le donne che invece si impegnavano nello studio
erano definite “depravate” o “mostruose”. Quando scrisse Frankenstein Mary
Shelley sapeva che avrebbe dovuto affrontare critiche severe, ma si fece
guidare dall’esempio di sua madre, scrittrice e filosofa della politica. Se Mary
Wollstonecraft poteva sfidare l’odio della società, allora anche lei era in
grado di farlo.
Mary Shelley aveva letto molte volte la Rivendicazione dei diritti della
donna (1792) prima di scrivere Frankenstein. La strenua difesa di
Wollstonecraft del diritto delle donne all’istruzione le diede il coraggio
necessario per prendere in mano la penna e allo stesso tempo nutrì la
rappresentazione che fece del dottor Frankenstein e della sua creatura. Come
sua madre, Mary Shelley era convinta che tutti i bambini avessero diritto a
essere istruiti e che, se agli individui non veniva insegnato come esercitare la
ragione, la società ne avrebbe pagato le conseguenze. Nel suo romanzo
dipinge il male che deriva dall’abbandono del figlio da parte di Frankenstein,
quando lo priva dell’istruzione “alla Wollstonecraft”, che sarebbe stato il
vero gesto di amore da parte del genitore.
Nei seguenti brani da Rivendicazione dei diritti della donna, Mary
Wollstonecraft, madre di Mary Shelley, critica quegli “esperti”, come il
filosofo politico Jean-Jacques Rousseau, che sostenevano che le donne
fossero di natura inferiori agli uomini e dovessero essere cresciute al solo
scopo di curare la loro bellezza e obbedire a essi. Sollecita i genitori a dare
più spazio all’istruzione delle figlie, asserendo che, se si incoraggia una
ragazza a occuparsi solo della sua bellezza, lei non si interesserà ad altro. Se
vogliamo che la nostra società migliori, dichiara, dobbiamo educare le donne,
spingerle a sviluppare la ragione e a guardare oltre il sentirsi “carine” o
“affascinanti”.

DAL CAPITOLO SECONDO, “DOVE SI DISCUTE L’OPINIONE PREVALENTE DI UN


CARATTERE SESSUALE”

Per spiegare, e anche giustificare la tirannia dell’uomo, sono stati portati avanti molti ragionamenti a
riprova del fatto che i due sessi, nel perseguire la virtù, dovrebbero mirare al raggiungimento di
caratteri molto diversi fra loro; cioè, per essere più espliciti, alle donne non è permesso avere la forza
mentale sufficiente per acquisire ciò che è giusto chiamare virtù. Anche se, ammettendo che le donne
abbiano un’anima, sembrerebbe che ci sia una sola via offerta dalla Provvidenza per guidare il genere
umano verso la virtù o la felicità.
Se le donne non sono uno sciame di frivole nullità, perché dovrebbero essere tenute nell’ignoranza
con il pretesto dell’innocenza? Gli uomini si lamentano, e a ragione, delle follie e dei capricci del
nostro sesso, quando non ridicolizzano le nostre passioni risolute e i nostri vizi esecrabili. Ecco,
risponderei io, guardate il risultato dell’ignoranza! La mente che ha solo pregiudizi su cui basarsi sarà
sempre instabile; e una corrente avrà una furia distruttrice se non ci sono barriere ad arginare la sua
forza. Sin dall’infanzia alle donne viene insegnato, sull’esempio delle loro madri, che per ottenere la
protezione dell’uomo bastano un po’ di conoscenza della debolezza umana, più propriamente chiamata
furbizia, un carattere dolce, una chiara propensione all’obbedienza e un infantile e scrupoloso senso
della proprietà. Se poi le donne sono belle, allora tutto il resto è inutile, almeno per i primi vent’anni.
Così Milton descrive la nostra prima fragile madre; anche se quando dice che le donne sono fatte
per essere miti e avere una grazia dolce e seducente, non capisco cosa voglia dire, a meno che egli non
voglia privarci della nostra anima, secondo la più autentica attitudine maomettana, intendendo che
siamo esseri creati solo per gratificare, con la grazia dolce e seducente e con la docile e cieca
obbedienza, i sensi dell’uomo, quando questi non può più librarsi sulle ali della contemplazione.
Come sono rozzi coloro che ci insultano suggerendoci di essere solo amabili bestie domestiche!
Per esempio la vantaggiosa dolcezza, così spesso e caldamente perorata, che permetterebbe di
governare con l’obbedienza. Che espressione infantile e che essere insignificante – potrà mai essere
immortale? – colui che accetta di comandare con metodi così sinistri! «Di sicuro» dice Lord Bacon
«l’uomo è con il corpo simile alla bestia; e se non fosse per il suo spirito imparentato con Dio, sarebbe
una creatura ignobile e spregevole!» In verità gli uomini mi sembra si comportino in modo molto anti-
filosofico, quando provano a garantirsi la buona condotta delle donne cercando di tenerle sempre in una
condizione infantile.

DAL CAPITOLO TERZO


“DELLO STESSO ARGOMENTO”

Io, per questa ragione, ho il coraggio di affermare che, fino a quando le donne non saranno
ragionevolmente istruite, il progresso della virtù e il miglioramento della conoscenza dell’uomo
dovranno essere sottoposti a continui controlli. E se si dà per scontato che la donna non sia creata
meramente per soddisfare l’appetito dell’uomo o per fare la domestica responsabile dei pasti e della
biancheria, allora ne consegue che la prima preoccupazione di quelle madri o di quei padri che
realmente si prendono cura dell’istruzione delle loro figlie, sia, se non di rafforzare il corpo, almeno di
non rovinare il loro fisico con errate nozioni di bellezza e femminilità; né si dovrebbe permettere alle
ragazze di assimilare, con argomentazioni di tipo scientifico, la perniciosa nozione che un difetto possa
diventare un pregio.
[...]
Se invece si dovesse provare che la donna è di natura più debole dell’uomo, ne sarebbe forse logica
conseguenza che si sforzi di essere ancora più debole di quanto la natura intendesse farla? Argomenti di
questo genere sono un insulto al buon senso e al gusto della passione. Il diritto divino dei mariti, come
quello dei re, in questo secolo illuminato può essere contestato senza pericolo e, anche se la
convinzione non riuscirà a zittire i litigiosi contendenti, quando un comune pregiudizio sarà attaccato,
chi è saggio saprà tenerne conto, lasciando gli intolleranti a inveire con scortese veemenza contro
l’innovazione.
La madre che desidera dare vera dignità di carattere alla figlia deve, senza badare allo scherno
dell’ignoranza, procedere su un piano diametralmente opposto a quello raccomandato da Rousseau...
[...]
In tutto il regno animale le giovani creature hanno bisogno di continuo esercizio, e l’infanzia dei
bambini, in conformità con questa dichiarazione, dovrebbe essere trascorsa saltellando per esercitare le
mani e i piedi, senza che sia necessario un minuzioso controllo della testa, o la costante attenzione della
balia. In effetti, la cura migliore per l’auto-conservazione è il primo naturale esercizio della
comprensione, poiché l’immaginazione si sviluppa con le piccole invenzioni che rallegrano il momento
presente. Questi accorti disegni della natura possono però venire contrastati da un affetto sbagliato o da
un cieco fervore. Al bambino non è mai permesso di orientarsi da solo, in particolare alle bambine, ed è
così reso dipendente – e poi la dipendenza viene chiamata naturale.
Per proteggere la bellezza – gloria della donna! – gli arti e le facoltà mentali sono soffocati peggio
che con le fasce cinesi, e la vita sedentaria a cui sono condannate le bambine, mentre i bambini si
divertono all’aria aperta, indebolisce i muscoli e allenta i nervi. Riguardo alle osservazioni di Rousseau,
ripetute poi da molti scrittori, che le bambine, dalla nascita e indipendentemente dall’educazione,
abbiano una passione per le bambole, per vestirle e parlargli, sono così puerili che non meritano una
seria confutazione. È oltremodo naturale che una bambina, condannata a stare seduta per ore a sentire le
inutili chiacchiere delle docili balie o assistere alla toilette della madre, provi a unirsi alla
conversazione; e che imiti la madre o le zie, e che si diverta ad adornare la bambola inanimata, proprio
come fanno con lei, povera bimba innocente! È indubbiamente una più che naturale conseguenza.
Perché anche gli uomini più dotati raramente hanno la forza di sollevarsi al di sopra dell’atmosfera che
li circonda; e se i pregiudizi del tempo hanno sempre offuscato la pagina del genio, qualche
concessione dovrebbe essere fatta a un sesso che, come i re, vede sempre le cose attraverso il mezzo
sbagliato.
Assecondare certi desideri, come quello per i vestiti, evidente nelle donne, può essere facilmente
spiegato senza supporre che sia la conseguenza del desiderio di piacere al sesso da cui dipendono. In
breve, l’assurdità del supporre che una donna sia naturalmente una civetta e che il desiderio di piacere
connesso all’impulso di riprodursi debba manifestarsi anche prima che un’educazione inadeguata lo
abbia evocato infiammando l’immaginazione, è talmente irragionevole che un osservatore sagace come
Rousseau non l’avrebbe fatta sua se non fosse solito far precedere il desiderio di eccezionalità alla
ragione, e il paradosso alla verità.
[...]
Le sue storie ridicole, che tendono a provare che le ragazze sono per natura dedite alla cura della
propria persona, senza dare alcuna importanza agli esempi quotidiani, non meritano neanche di essere
disprezzate.
[...]
Con molta probabilità, ho avuto modo di osservare più bambine di Jean Jacques Rousseau – posso
ricordare le mie sensazioni, e mi sono costantemente guardata intorno; perciò, lungi dall’avere la sua
stessa opinione sui primi albori del carattere di una donna, ho il coraggio di affermare che una bambina
il cui spirito non sia stato fiaccato dall’inattività, o l’innocenza macchiata di falso pudore, sarà sempre
vivace e scherzosa e le bambole non attireranno la sua attenzione a meno che la reclusione non le lasci
alternative. Bambine e bambini giocherebbero insieme inoffensivamente, se la distinzione dei sessi non
fosse loro inculcata ben prima che si manifesti naturalmente. Voglio spingermi oltre, affermando che,
indiscutibilmente, alla maggioranza delle donne che, nel mio raggio di osservazione, hanno agito come
creature razionali o dato prova di vigore intellettuale, è stato permesso, senza volere, di scatenarsi –
come forse insinuerebbero alcuni degli eleganti inventori del gentil sesso.
La mancanza di attenzione alla salute durante l’infanzia e la giovinezza hanno conseguenze nefaste
che si estendono più di quanto si possa supporre – la dipendenza del corpo provoca naturalmente la
dipendenza della mente; come può una donna essere una brava moglie o madre se la maggior parte del
suo tempo lo passa a prevenire le malattie o a sopportarle? Né ci si può aspettare che una donna decida
di adoperarsi per rafforzare il fisico e di astenersi da vizi fiaccanti, se lo scopo delle sue azioni è stato
da subito imbrigliato in nozioni artificiali di bellezza e false definizioni della sensibilità. Quasi tutti gli
uomini sono costretti a sopportare disturbi del corpo e a patire il rigore degli elementi; ma le donne
raffinate sono, parlando letteralmente, schiave dei loro corpi, e gioiscono della loro sottomissione.
Un tempo conoscevo una donna debole ed elegante, che troppo spesso si autocompiaceva della sua
delicatezza e sensibilità. Pensava che un gusto raffinato e un debole appetito fossero il massimo della
perfezione umana, e si comportava di conseguenza. Ho visto questo essere fiacco e sofisticato
trascurare tutti i doveri della vita, sdraiata su un sofà si vantava compiaciuta della mancanza di appetito
come prova della sua delicatezza e della squisita sensibilità che forse ne era la causa: ma non è facile
rendere comprensibili le sue ridicole chiacchiere. Ebbene, in quel momento, l’ho vista insultare
un’anziana gentildonna che un’inattesa sventura aveva reso dipendente dalla sua ostentata agiatezza e
che, in tempi migliori, aveva avuto occasione di reclamare la sua gratitudine. È possibile che una
creatura umana sia potuta diventare un essere così debole e depravato, se, dissolta nel lusso come i
sibariti, anche l’ultimo brandello di virtù non sia stato eroso, o forse nemmeno mai dato come precetto,
debole sostituto della cura della mente è vero, ma comunque utile come difesa dal vizio?
[...]
Ovunque le donne si trovano in questo deplorevole stato; perché, per poter preservare la loro
innocenza, come è educatamente chiamata l’ignoranza, viene loro nascosta la verità e sono costrette ad
assumere un carattere artificiale ancor prima che le loro facoltà arrivino al pieno sviluppo. Sin
dall’infanzia si insegna loro che la bellezza è lo scettro della donna, la mente prende la forma del corpo
e, vagando nella sua gabbia dorata, ha come unico obiettivo quello di adornare la sua prigione. Gli
uomini hanno molte imprese e obiettivi su cui concentrare la loro attenzione e con cui formare una
mente aperta; ma le donne, relegate a un solo scopo e costrette a indirizzare il pensiero verso le loro
parti più insignificanti, raramente possono aprire i loro orizzonti oltre il trionfo di un momento. Se però
la loro conoscenza si emancipasse, per una volta, dalla schiavitù a cui sono sottomesse dall’orgoglio e
dalla sensualità degli uomini e dai loro desideri miopi, come quelli di dominio dei tiranni, allora
leggeremmo con sorpresa della loro debolezza. Devo però dedicarmi a questo argomento ancora un po’.
[...]
E dunque gli uomini, nell’orgoglio del potere, non usino lo stesso ragionamento dei tiranni e dei
loro ministri corrotti, asserendo ingannevolmente che la donna deve essere sottomessa perché lo è
sempre stata.
[...]
È tempo di attuare una rivoluzione nel comportamento femminile, quella di restituire alle donne la
loro dignità, e, come parte della specie umana, farle lavorare sodo per riformare loro stesse e il mondo.
Dal diario di Mary Shelley

Mary Shelley era ossessionata dall’idea di riportare in vita i morti. Sua madre
era morta undici giorni dopo averla partorita, e si struggeva di riunirsi con lei.
Nel 1815 le morì la prima figlia, pochi giorni dopo che era nata. Mary aveva
solo diciassette anni. Nel suo diario, riportò un sogno molto toccante.

Domenica 19 marzo. Sogno che la mia bambina tornava in vita. Aveva solo preso molto freddo; noi la
massaggiavamo accanto al focolare e lei tornava a vivere. Mi sveglio e non trovo nessuna bambina.
Se vi è piaciuto Frankenstein 1818 di Mary Shelley,

vi consigliamo di non perdere

Charlotte Brontë

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