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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA

Dipartimento di Studi Umanistici

Corso di Laurea in Lingue e Culture Moderne

Tesi di Laurea Triennale

L’altro lato della maternità: da Medea di Euripide a


Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci

Relatore:
Prof.ssa Monica Lanzillotta
Candidato:
Giovanna Nardella
Matricola 157748

ANNO ACCADEMICO 2015 - 2016


Ai miei nonni Teresina e Raffaele

Così come quando si viene al mondo,


morendo abbiamo paura dell'ignoto. Ma
la paura è qualcosa d'interiore che non ha
nulla a che vedere con la realtà. Morire è
come nascere: solo un cambiamento.

(I. Allende, La casa degli spiriti)

2
INDICE

Introduzione…………………………………………………………………...4

I. La raffigurazione materna nella Medea di Euripide


I.1 Esempio di madre narcisistica…………………………………………….5
I.2 La necessità di un padre e la sindrome di Medea…………………..……10
I.3 Medea nell’attualità della battaglia femminista……………...……..…14

II. Oriana Fallaci, lo scrittore


II.1 Vita, formazione e produzione letteraria di Oriana Fallaci………….18
II.2 Oltre la macchina da scrivere………………………………………...…24
II.3 Gli eroi di fronte alla morte………………………………………..……28
II.3.1 Se il sole muore………………………………………………..…..29
II.3.2 Niente e così sia………………………………………………..….32
II.3.3 Insciallah……………………………………………………….….35
II.4 Alekos Panagulis, l’uomo……………………………………………….38

III. Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci


III.1 Trama di Lettera a un bambino mai nato: il dialogo……………………45
III.2 Come nasce Lettera a un bambino mai nato ……………………………52
Bibliografia...…………………………………………………………………57
Ringraziamenti.………………………………………………………………61

3
Introduzione
Il presente lavoro ha come scopo quello di indagare il ruolo della donna nella
maternità e, attraverso un approccio anche psicanalitico, di penetrare le complicate
fragilità dell’animo femminile. Come si vedrà più avanti, la maternità non è vissuta
sempre in maniera positiva, cosa che si dà per scontata.

L’idea di tale studio nasce dalle più recenti pubblicazioni sulla maternità, tema da
sempre discusso nei più differenti ambiti ed epoche. L’obiettivo primario è, dunque,
quello di dimostrare che la maternità non è una condizione standard nella vita di una
donna ma piuttosto una scelta.

Ho preso in considerazione il mito di Medea, dove attraverso un gesto tragico la


protagonista cerca di far valere la figura di donna sacrificando quella di madre, e
Lettera a un bambino mai nato, dove in un percorso invertito la protagonista si lascia
sedurre dal pensiero della maternità, in un’altalena di ira e accettazione. Sebbene il
primo testo risalga al V secolo a.C. e il secondo al 1975, entrambi i casi restano attuali:
da un lato una sindrome oscura che lascia tracce nei tempi più recenti; dall’altro la
condizione di tutte le donne che affrontano la paura del mondo che cambia. Ciò che
accomuna le due protagoniste si direbbe essere l’avversità nei confronti di una
società che non accetta la loro posizione, una società creata dall’uomo per l’uomo.
Non è un mistero che una donna valga meno nel mondo rispetto ad un uomo.

A tal proposito, il mio studio si è soffermato in particolar modo sulla vita della
scrittrice e giornalista fiorentina Oriana Fallaci, che si potrebbe considerare come
simbolo del femminismo non ideologico a livello internazionale. I suoi scritti hanno
sempre innalzato polveroni sconvolgendo l’opinione pubblicata, proclamando verità
scomode tra i più potenti del mondo. Una fermezza di pensiero, la sua, che l’ha
portata a godere del rispetto generale. Anche grazie a lei, generazioni di donne – e
non solo - hanno iniziato ad attivarsi per un mondo più paritario partendo
dall’affermazione personale.

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Capitolo primo
La raffigurazione materna nella Medea di Euripide

I.1 Esempio di madre narcisistica


Vasti sono gli studi e le riflessioni sul mito di Medea, personaggio dalla genealogia di
tutto rispetto1, oggi considerata come il simbolo di rivolta contro le oppressioni
sessuali, politiche e razziali.2 Sebbene esistano diverse versioni del mito, è la
rivisitazione di Euripide, risalente al V secondo a. C., quella che ha avuto più
successo e che ha inciso più profondamente nell’immaginario collettivo, tanto che si
annoverano circa seicento riprese del mitema euripideo, come hanno dimostrato
Lochhead e Rodighero:3 per quanto riguarda il teatro, ci limitiamo a ricordare che, in
età moderna, Medea è stata drammatizzata da L. Dolce (1548), da J.-B. De La Péruse
(1555), da P. Corneille (1635), da F.M. Klinger (1786), da Cherubini (1797), F.
Grillparzer (1822), J. Anouilh (1946), da C. Alvaro (1949) e da due delle più belle voci
di tutti i tempi, Leyla Gencer e Maria Callas; per quanto riguarda il cinema
segnaliamo Medea (1969) di Pasolini, Medea (1988) di Lars von Trier, Asì es la vida
(2000) di Arturo Ripstein e Médée miracle (2007) di Tonino De Bernardi; per quanto
riguarda i romanzi ricordiamo La Medea di Porta Medina (1862) di Francesco Mastriani
e Medea. Stimmen (1996) di Ch. Wolf; in pittura La furia di Medea (1838) di E.
Delacroix, Giasone e Medea (1865) di G. Moreau e Medea (1868) di Henri Klagmann.
Le innovazioni principali portate da Euripide sono due: il figlicidio e la peculiare
modalità con cui il tragico greco costruisce il personaggio di Medea, allontanandola
dal profilo negativo di maga colchide e di barbara selvaggia consacrato dalla
precedente tradizione 4 e immortalandola come eroina tragica per la sua inflessibile
determinazione a vendicare il suo onore come fanno gli eroi dell’epica greca (basti
pensare ad Achille e ad Aiace, per i quali la morte è preferibile al disonore). Nella
tragedia di Euripide Medea domina la scena esibendo un'ampia gamma di stati
d'animo, mentre Giasone, al contrario, è una figura declassata ad egoista e meschino. 5
Vediamo una Medea più umana rispetto alla versione di Seneca del I secolo d.C., che,
al contrario, mostra una Medea mossa da uno spirito furente e quasi demoniaco. Ciò

1 Medea, secondo Esiodo, è figlia di Eiduia e Eeta, secondo altre fonti è nipote di Helios e Selene, è
nipote di Circe e figlia o cugina di Ecate: cfr. K. Kerény, Figlie del Sole, Torino, Einaudi, 1949, pp. 24-28.
2 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, Venezia, Marsilio Editori, 2000, p. 7.
3 Cfr. L. Lochhead, Medea After Euripides, London, Nick Herns Books, 2000 e A. Rodighiero, Ne pueros

coram populo Medea trucidet: alcuni modi dell’infanticidio, in Ricerche euripidee, a cura di O. Vox, Manni,
Lecce, 2003, pp. 115-159.
4 Prima di Euripide, il mito di Medea è stato fissato nella IV Pitica di Pindaro, nel VII libro delle

Metamorfosi di Ovidio, nelle Argonautiche di Appolonio Rodio, nella Presa di Ecalia di Creofilo di Samo
e nei Canti Corinzi di Eumelo di Corinto.
5 Nell’animo della Medea di Euripide, come ha rilevato Helene Foley, albergano due distinte realtà

caratteriali, cioè un sé femminile e un sé maschile, ed è quest’ultimo a prevalere ed è legato


all’assunzione del codice eroico degli eroi greci. Il sé maschile prende rilievo quando Medea si mostra
furente per il tradimento della promessa matrimoniale, quando è profondamente convinta che
l’ingiuria subita non si esaurisca nei suoi confronti, ma sia convertibile in un’offesa contro Zeus,
quando rifiuta ogni aiuto divino o umano, quando rivendica il diritto di possesso dei figli, quando si
mostra totalmente restia ad essere clemente con quelli che considera nemici, quando uccide i figli
dopo aver vinto dentro di sé l’amore materno: cfr. H. Foley, Female Acts in Greek Tragedy, Princeton-
Oxford, Princeton University Press, 2001, pp. 253-256.
5
che appare evidente in Euripide, prima ancora di una madre folle e figlicida, è una
donna dai modi eccessivi ed esasperati.
La leggenda di Medea affonda le radici nella Colchide, terra del re Eeta (figlio di Elio
e fratello della maga Circe) e in cui approda Giasone per appropriarsi del vello d’oro,
ovvero la pelle dorata di un ariete alato in grado di curare le ferite. Eeta fa valere le
sue condizioni sfidando il capo degli Argonauti a delle gare, mettendo in gioco la
proprietà sul vello. Giasone, giunto a Iolco, consegna il vello d’oro allo zio Pelia,
rivendicando la restituzione del trono, ma di fronte al diniego dello zio, ricorre alle
arti magiche di Medea, che provoca la morte di Pelia. Medea, riconosciuta colpevole
del delitto, viene cacciata da Iolco assieme a Giasone, suo complice, da Acasto, figlio
di Pelia, per cui le aspirazioni di Giasone al trono di Iolco vengono vanificate per
sempre e i due prendono la strada dell’esilio verso Corinto. Qui i due vivono
dapprima una stagione d’amore serena, allietata dai due figli, ma Giasone è assillato
dalla brama di regalità e precipita in un abisso di meschinità: cede alla proposta di
Creonte, re di Corinto, privo di figli maschi, che gli promette in sposa la propria
figlia Glauce assicurando all’eroe la successione al trono, per cui abbandona Medea,
che viene condannata all’esilio da Creonte, timoroso di vendetta. Su questi
presupposti si dipana la tragedia perché Medea si vendica. Dopo aver ottenuto dal re
di Atene Egeo (di passaggio per Corinto) la promessa di ospitarla nella propria città,
si finge rassegnata e manda come dono nuziale a Glauce una ghirlanda e una veste
avvelenata: la fanciulla, indossatele, muore perché la veste prende fuoco e la
medesima sorte tocca a Creonte, che accorre per aiutarla. Giasone, informato della
tragedia da un messaggero, si reca da Medea per salvare i suoi figli, ma la donna è
sul carro alato del dio e gli mostra i cadaveri dei figli che ha ucciso, per privarlo di
una discendenza. Medea vola verso Atene, mentre Giasone, distrutto dal dolore, la
maledice.

Dal Paleolitico all’antichità greca fino ai nostri giorni, come sostiene Gentili,
«l’immagine femminile si associa costantemente con la sessualità feconda e la
maternità. L’essere donna coincide con l’essere madre. La madre è la figura centrale e
non riducibile della femminilità, il suo specifico, la sua differenza». 6 Medea, invece, è
madre narcisistica, come osserva Recalcati, è colei che in una cultura patriarcale si
oppone all’idea secondo cui una donna debba sacrificarsi al ruolo di madre: in nome
della maternità, della vita che genera vita, la donna diventa madre, diventa l’Altro
«che sa rispondere all’appello della vita che grida».7 Nel campo della psicanalisi è
stato perciò individuato il complesso o sindrome di Medea, definito da Marie-José
Bataille come l’insieme di «pulsioni incoscienti che hanno per oggetto la distruzione
o l’annientamento del figlio (spesso di sesso maschile) da parte di sua madre, e di
reazione contro queste pulsioni in rapporto con l’odio e il disgusto provato verso il
genitore (più generalmente l’uomo) e con il rifiuto incosciente della condizione
generale di donna». 8
Medea è una ribelle perché non riduce il suo essere donna alla vita che lei stessa ha
generato. Recalcati rileva che «dare la vita, generare, esprime una potenza talmente
assoluta che può sconfinare nel suo contrario: uccidere, togliere la vita, distruggere». 9

6 B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 58.


7 M. Recalcati, Le mani della madre, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 23.
8 Ivi, p. 8.
9 M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 132.

6
Così Medea esercita questo suo potere di madre per far prevalere lo spirito della
donna:10 uccide i suoi figli, si vendica del tradimento di Giasone, si rinnega come
madre greca 11, rinnega i suoi figli che, simbolicamente, appartengono solo al padre. 12
Questa sua diversità, la sua «disappartenenza» 13, è evidente quando afferma: «sono
diversa in molte cose da molta gente». 14 L’unica speranza di redenzione della donna
che rifiuta di confinare la propria vita alla maternità, macchiandosi, quindi, di
un’anarchia pericolosa e antisociale, è l’emarginazione sociale.15 In molte società del
mondo greco la donna è subordinata all’uomo 16 persino nella procreazione in cui
assume il ruolo estremamente marginale di contenitore di seme. E anche nello spazio
politico, la figura femminile, ha un ruolo marginale: le era infatti precluso di
praticare personalmente i sacrifici, incompatibili con la sua figura di donna che
emanava una certa pericolosità a cui imporre delle distanze rispetto alla dimensione
maschile.17 È ovvio, perciò, che a una madre che uccide e sacrifica il proprio figlio,
venga associata un’idea di trasgressività e, nell’ideologia greca, di estraneità alla
società.
Giasone sposa Glauce, figlia di re Creonte, mentre il legame con Medea viene
stipulato ricorrendo a un giuramento non scritto, come si evince dal seguente
dialogo:

Medea: Io ti ho salvato […] ho tradito mio padre e la mia casa e sono giunta a Iolco,
alle pendici del Pelio, insieme a te, certo mossa più dalla passione che dalla sapienza.
[…] E dopo aver ricevuto questo da me, tu, infame, mi hai tradito; hai scelto un
nuovo letto.
Giasone: Non per il motivo che ti tormenta, perché fossi preso, per odio del tuo letto,
dal desiderio di una nuova sposa, né per mettere alla prova la mia fertilità: mi
bastano i figli che ho, non mi lamento. L’ho fatto per poter vivere con onore, è il
motivo più importante, e senza privazioni […] per educare i miei figli in modo degno
del mio nome.18

Le parole di Medea sono cariche di risentimento nei confronti di Giasone: il suo


orgoglio è stato ferito. Giasone, che ignora il suo dolore, le offre delle spiegazioni più
“borghesi”, dettate dalla ragione, e non dal sentimento. La morale aristocratica a cui

10 Cfr. ivi, p.100.


11 Si tenga presente che Medea proviene dal Medio Oriente, è una straniera, una barbara.
12 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 54.
13 Ivi, p. 55.
14 Euripide, Medea, a cura di Laura Suardi, Milano, Principato, 2002, v. 579.
15 Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 13.
16 Nella cultura spartana, vista con diffidenza dalle altre regioni greche, la donna veniva riconosciuta

al pari dell’uomo sin dall’infanzia ed entrambi i sessi venivano addestrati a durissime prove fisiche.
Inoltre, le donne spartane sono note per la loro generosa fertilità rispetto alle donne di altre regioni:
ciò lo si deve soprattutto al fatto che contraevano matrimonio in tarda età (21-22 anni). Gli uomini
erano soliti scegliere le future mogli in base alla prestazione fisica e non alla dote, così che la donna
poteva diventare molto ricca percependo l’eredità sia del padre che dello sposo, assumevano il
governo dell’intera comunità quando l’uomo era assente per motivi bellici, divenendo capofamiglia;
infine, in alcuni casi le donne potevano divorziare senza incorrere a penalità finanziarie, e scegliere se
risposarsi o semplicemente intrattenere rapporti sessuali con uomini che non fossero i loro sposi.
17 Cfr. E. Caruso, La donna nella tragedia greca, in «Impresa oggi», 5 settembre 2014.
18 Euripide, Medea, cit., vv. 77-79.

7
è legato gli impedisce di prestare ascolto al dolore che affligge la donna, 19 per cui
parla del matrimonio come di un affare esclusivamente sociale e considera l’amore
che Medea nutre nei suoi riguardi un capriccio.
Medea decide di riscattare il proprio orgoglio subordinando la maternità alla
vendetta, scegliendo cioè di non essere più madre essendo stata ripudiata come
sposa20: uccide i figli che in lei hanno dimorato privando Giasone della discendenza e
uccide, inoltre, Creonte e sua figlia Glauce, negando anche ad essi una futura
discendenza. Rivendica con orgoglio questo suo atto criminale, poiché «a muoverla
non è stata la sua follia gelosa che ha fatalmente pervertito la funzione
dell’accudimento e della protezione della vita che caratterizza la funzione materna,
ma il suo rifiuto di essere messa a tacere come donna, di essere negata come soggetto
di desiderio» 21.
Il sentimento materno, però, non è totalmente assente, perché Medea madre e Medea
donna sembrano appartenere a due universi paralleli: le due non si confrontano mai,
eppure appaiono sempre in conflitto. Medea ha bisogno di sospendere l’essere madre
quel tanto che basta per compiere l’infanticidio:

Su, povera mano mia, prendi la spada,


prendila, incamminati verso la meta dolorosa della vita,
non dimostrarti vile, non ricordarti dei tuoi figli,
che ti sono carissimi, che li hai partoriti, dimentica
che sono nati da te, per questo breve giorno
e poi piangili. Se anche stai per ucciderli,
ti sono cari: io sono una donna sfortunata.22

Nella prima parte del suo monologo, Medea aveva pianto la prospettiva di una
vecchiaia priva del conforto dei figli (v. 1024),23 attestandosi non solo come
personaggio ribelle ad una società che relega la figura femminile alla maternità, «ma,
ancora più radicalmente, mostra che nemmeno la maternità è sufficiente ad appagare
la propria vita, a compensare la perdita dell’amore, che nessuna donna può mai
essere assorbita e abolita dalla madre».24
Sui figli di Medea occorre spendere qualche considerazione. Dalla società vengono
considerati bastardi perché figli di Medea, dunque legati alla discendenza materna,
mentre nella coppia Giasone-Medea non costituiscono un elemento di unione ma
sono «oggetto dell’esplicito odio della madre e della completa indifferenza del
padre».25 Centrale è l’episodio di Egeo: padre privo di discendenza, stipula un
accordo che garantisce a Medea una sistemazione sotto la protezione del re e a lui dei
figli. Giasone viene sostituito da Egeo, così come le nozze che lui ha tradito, ma nel
dialogo tra Egeo e Medea, i suoi figli non vengono mai menzionati, come a voler
nascondere la loro esistenza. Invece Medea fa appello ai suoi figli nel dialogo con
Creonte per suscitare la sua pietà così da rimandare il loro esilio, strumentalizzando i
suoi figli come l’unica parte di sé per la quale può chiedere comprensione. È proprio

19 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 34.


20 Cfr. ivi, p. 58.
21 M Recalcati, Le mani della madre, cit., pp. 135-136.
22 Euripide, Medea, cit., vv. 1238-1244.
23 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 71.
24 M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 133.
25 B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 144.

8
attraverso questi dialoghi che, scena dopo scena, la protagonista ci prepara alla sua
scelta finale. Sebbene l’infanticidio da parte delle madri appartenga anche ad altri
miti26, è Medea l’infanticida per antonomasia 27 poiché con lucidità premedita il
delitto, come se, in assenza del padre, non avessero più motivo di esistere. Giovanna
Fiume osserva che «è una anomalia della maternità, quella della ragazza madre che
non regga la pressione di un modello sociale che concepisce la maternità solo dentro
la coppia coniugale. Impazziscono appena sanno di una gravidanza illegittima,
prima del parto, o subito dopo, poco importa, impazziscono le donne che seppure
sposate, vengono abbandonate dal marito».28
Medea sembra tradire la sua etimologia: dovrebbe essere una saggia consigliera
perché il suo nome deriva dal verbo greco médomai che significa «pensare»,
«riflettere».29 Inoltre, da alcune fonti letterarie si apprende di una Medea benefica che
salva gli stranieri capitati nella Colchide.30 Come si è detto in precedenza, essa
rappresenta la ribelle in una società patriarcale; una sorta di Grande Madre che,
ovviamente, non riesce ad omologarsi ad un mondo a cui non sente di appartenere. È
lo stesso Giasone che sottolinea la sua estraneità dicendole: «Non c’è donna greca che
l’avrebbe mai osato!».31 Se è la Legge del Padre che stabilisce i ruoli, Medea si muove
autonomamente e per questo è scandalosa, 32 ed è in questa autonomia che risiede la
forza del personaggio. Come la Grande Madre Medea rivendica il suo diritto di vita e
di morte sui figli, sebbene non sia giustificato, invece, l’infanticidio del fratello
Apsirto. Come osserva Gentili, infatti, «Medea non è adeguata all’ordine femminile e
materno che le impedirebbe di uccidere suo fratello».33 Assistiamo al ribaltamento
del suo simbolo: da “figura tramite” in cui vive la forma del matriarcato, ad
assassina, isterica, folle. La sua reazione criminale si traduce in un colpo sferrato al
valore primario della società patriarcale, che «parla di famiglia e di figli nei termini
del diritto e della politica».34 Uno scontro vinto a caro prezzo, che vede la donna
superiore all’uomo.
Si parla quindi di Eros e Thanatos, amore e morte, temi che accompagnano la vicenda
dall’inizio alla fine. L’amore è l’attrazione di una persona nei confronti di un’altra
persona, può essere attrazione sessuale o semplicemente «caldo affetto e devozione
verso familiari (i figli, i genitori) […]. Per quanto riguarda il mondo greco e, con
qualche differenza di sfumatura, quello romano, va ricordato che l’eros era concepito
anzitutto come una forza cosmica, animatrice del mondo e della vita […]». 35 Mentre
per quanto riguarda la morte, sempre presso greci e latini, era fonte di grande timore

26 Nella mitologia greca, di fatti, si parla di altri figlicidi. Un caso è quello di Procne che uccide i propri
figli per vendicarsi del marito Tereo, il quale abusò di sua sorella Filomela e poi le tagliò la lingua. Si
ricorda anche il mito di Altea: alla nascita del primo figlio, Meleagro, le fu predetto che sarebbe morto
quando il ceppo nel suo focolare avesse smesso di ardere. Altea, nascose il tizzone ma quando
Meleagro causò la morte di suo fratello e dei suoi zii, presa dalla rabbia, diede alle fiamme il ceppo,
provocando la morte del figlio e uccidendosi subito dopo.
27 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 46.
28 G. Fiume, Madri. Storia di un ruolo sociale, Venezia, Marsilio Editori, 1995, p.101.
29 Cfr. G. Siviero, Medea non ha ucciso i suoi figli, in «il Post», 1 dicembre 2014.
30 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 86.
31 Euripide, Medea, cit., vv. 1339-1340.
32 Cfr B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 50.
33 Ivi, p. 58.
34 Ivi, p. 60.
35 R. Ceserani, M Domenichelli, P. Fasano, Dizionario dei temi letterari, Torino, Utet, 2007, vol. I, p. 64.

9
ma anche una possibilità, per l’uomo, di iscriversi in un ordine cosmico. 36 Eros e
Thanatos si saldano in Medea, fino a confondersi.

La furia di Medea di E. Delacroix (1838)

I.2 La necessità di un padre e la sindrome di Medea


Nella società patriarcale, la donna ha come destino ineluttabile quello di essere
madre,37è la prigione presso la quale viene detenuto il bambino, mentre il padre
viene configurato come un liberatore necessario. 38 Nel mito di Medea di Euripide la
figura di Giasone ha un ruolo marginale, cioè non è strettamente legato ai figli,
vivendo come testimone il rapporto madre-figlio; è proprio in questo rapporto che
Giasone fa sentire il suo peso perché il «Nome del Padre» 39 rompe l’onnipotenza
materna e induce Medea a rinunciare al potere su ciò che lei stessa ha generato: è
dunque la «Legge del padre» 40 che evita il reciproco assorbimento madre-figlio. La

36 Cfr. ivi, vol. II, pp. 1543-1544.


37 Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 12.
38 Cfr. ivi, p. 15.
39 Ivi, p. 120.
40 Ivi, p. 118.

10
psicanalisi, scrive Recalcati, «mostra come il passaggio all’atto infanticida e, più in
generale, i maltrattamenti infantili di ogni genere abbiano molto spesso come loro
matrice una coppia madre-bambino che prescinda da ogni riferimento a un terzo
capace di assicurare un limite al desiderio materno».41 Il padre è, dunque, una specie
di «ammortizzatore»42 che, simbolicamente, ossigena il rapporto madre-figlio.
Lo psicanalista chiama Legge del padre quella che si interpone nel rapporto madre-
figlio, che rischia di trasformarsi in un rapporto incestuoso. La figura paterna sposta
altrove il desiderio materno, in questo caso sulla vendetta: una Legge interdittoria
spinge perciò la madre a rinunciare al godimento, alla proprietà del figlio. Possiamo
considerare Medea come una «madre del godimento» 43 che si appropria dei figli in
quanto oggetto essenziale del suo piano. Lacan parla del padre come soggetto
anch’esso sottoposto a una Legge della castrazione, il cui compito è mostrare che il
desiderio non va contro la Legge ma vi si può unire, una Legge nel desiderio. 44
Potrebbe verificarsi anche un’anticipazione dell’atto “eroico” del padre come
liberatore: Recalcati infatti osserva che «non è necessario invocare il padre come colui
che libera il figlio dalla sua presa asfissiante […] perché esiste una sublimazione
materna che anticipa, per così dire quella paterna. È la madre stessa – la madre del
desiderio – che contrasta la madre – la madre del godimento – che vorrebbe
appropriarsi del proprio figlio come se fosse un oggetto». 45
Il bambino è, in un certo senso, ostaggio degli affetti materni a cui il Padre è
estraneo.46 Tale rapporto madre-figlio porta il nome di rapporto fusionale, un rapporto,
appunto, in cui il bambino è l’unico in grado di colmare il desiderio materno.
Pertanto, non potendo il Padre reale assolvere il suo ruolo – per così dire – simbolico,
gli psicanalisti ritengono che tale rapporto fusionale sia un surrogato del fallo
maschile. È, tuttavia, l’affermarsi della figura paterna in questo immaginario che
porta alla castrazione. Inevitabile il confronto con un altro mito che gode di grande
fama nella psicanalisi moderna, quello che Freud chiama complesso di Edipo: a
differenza di questo triangolo familiare, però, Medea eccede anche l’immaginario. 47
Quando una donna uccide o abbandona i suoi figli viene qualificata come madre
snaturata in riferimento ad un modello di madre/donna ideale, 48 perché la figura del
padre è spesso assente, pochi sono i suoi legami alla responsabilità morale o sociale.
La natura ha stabilito il ruolo sociale della donna destinata alla procreazione, alla
maternità; ma è la cultura dell’uomo che associa la madre, la generatività, al caos che
solo il padre ha il potere di regolare. 49 Medea soffoca il suo affetto materno perché è
meno forte dell’affetto coniugale o, forse, dell’orgoglio femminile. Quando Giasone
la accusa di aver compiuto un sacrificio «all’amplesso e al letto coniugale» 50, Medea
rivela non il pentimento dell’assassinio, ma il risentimento nei confronti dello sposo

41 Ivi, p. 117.
42 Ivi, p. 65. Cfr. F. Fornari, Il codice vivente. Femminilità e maternità nei sogni della madre in gravidanza, in
Scritti scelti, Milano, Raffaello Cortina, 2011, pp. 299-300.
43 M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 76.
44 Cfr. J. Lacan, Nota sul bambino, in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013, p. 367.
45 M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 33.
46 Cfr. J. Dor, Le père et sa fonction en psychanalyse, Parigi, Éditions érès, 2008, p. 37.
47 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 45.
48 Cfr. G. Fiume, Madri. Storia di un ruolo sociale, cit., p.104.
49 Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 15.
50 Euripide, Medea, cit., v. 1338.

11
che non riesce a comprenderla: «le aberrazioni della maternità derivano da
aberrazioni della mente, scatenate da cause sociali».51
Il dolore di Medea deriva anche dalla privazione sessuale, sofferenza frequentemente
sottolineata nell’opera: il desiderio femminile è del tutto catturato dall’eteros
dell’amore. 52 Nella cultura medica del tempo, il sesso era ritenuto uno dei pilastri
portanti della salute fisica e mentale della donna, al pari della mestruazione.53 Nella
concezione moderna, secondo quanto afferma Giovanna Fiume, il rapporto sessuale
definisce il ruolo dei due genitori, uomo e donna: «il legame tra atto sessuale e
concepimento non è esclusivamente di natura tecnica, ma serve a riprodurre la
genitorialità».54 La studiosa ritiene, inoltre, che il sesso sia alla base della serenità,
non solo coniugale, ma addirittura familiare, ovvero, «il sesso è un simbolo della
naturalità della relazione coniugale, di cui il bambino è considerato una conseguenza
altrettanto naturale»55, rappresenta un impegno.
Con Medea ci chiediamo fino a che punto può diventare importante il rapporto
coniugale, fino a che punto la moglie può sopraffare la madre. Se da un lato i figli
rappresentano una parte essenziale della vita coniugale nella società, dall’altro
incarnano una coniugalità distrutta: spetta a loro pagare l’affronto subito non dalla
loro madre, ma dalla moglie di loro padre. Entra in contrasto, quindi, l’opinione
pubblica di Corinto che era favorevole all’atto compiuto da Medea, considerando
l’infanticidio una giusta punizione per Giasone,56 e anche il Coro la biasima, poiché il
matrimonio porta tante sofferenze alle donne. Ma già nell’incipit del dramma la
nutrice sottolinea che Medea era gradita ai Corinzi dell’esilio, in quanto fece cessare
un’epidemia facendo sacrifici a Demetra (Madre Terra) e alle Ninfe lemnie. 57
Ad aggravare la posizione di Giasone è il fatto che egli rimpianga la paternità come
dipendente dalla donna, dal desiderio: allora se i figli non possono rappresentare un
bene comune, appartengono solo al padre. Giasone abbandona inizialmente i suoi
figli per includerli nella nuova famiglia solo in un secondo momento, ma anche se li
avesse abbandonati sin dall’inizio, l’idea di un figlio senza un padre non provoca lo
stesso scalpore di indignazione morale. Per molte donne questo aspetto è causa di
sofferenza, poiché l’abbandono da parte del padre, per quanto dannoso nei confronti
del bambino, rappresenta per la società una semplice negligenza nel compiere il suo
dovere genitoriale. Non vi è nulla di patologico. Ma la negligenza materna è una
perversione, un oltraggio al fatto naturale.
La punizione appare altrettanto grave per la stessa Medea, per il suo lato materno:
Recalcati infatti afferma che «la madre che sopprime la donna – come accadeva nella
versione patriarcale della maternità – o la donna che nega la madre – come accade
nel tempo ipermoderno – non sono due rappresentazioni della madre, ma due sue
declinazioni egualmente patologiche». 58 Il fatto che nella madre sia conservata la
donna costituisce una salvezza per il bambino quanto per la madre stessa.
L’irrequietezza che nasce nella madre è determinata, talvolta, dal rigetto del sacrificio

51 G. Fiume, Madri. Storia si un ruolo sociale, cit., p. 107.


52 Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 59.
53 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 35.
54 G. Fiume, Madri. Storia di un ruolo sociale, cit., p. 274.
55 Ivi, p. 282.
56 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 86.
57 Cfr. ivi, p. 30.
58 M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 15.

12
da parte della donna che avanza richieste, ma la psicanalisi insegna che non è un
male assoluto, come si è visto. Il miraggio che la cultura patriarcale ha perseguito
compulsivamente è l’annullamento della donna per cancellarne l’eccesso
ingovernabile, miraggio, appunto, perché la presenza materna, che apre spazio
all’incontro con l’alterità, non riduce la presenza femminile, la donna non si risolve
nella cura dei figli.59
L’uccisione di un bambino da sempre ha impressionato la società, soprattutto
quando è la stessa madre a compiere l’atto. Ma cosa spinge una madre a compiere un
gesto tanto estremo? Nel caso di Medea, come si è visto, è stato il tradimento subito.
La sindrome di Medea è solo une delle tante patologie legate al figlicidio, e ne sono
afflitte le donne che soffrono di una gelosia patologica. Già nel 1988 Jacobs definisce
complesso di Medea il comportamento materno finalizzato alla distruzione del
rapporto tra padre e figlio: il bambino rappresenta l’estensione della cattiveria del
proprio partner, per cui l’uccisione diventa simbolica della soppressione del legame
con il padre. Tale sindrome entra in atto con più facilità quando i figli sono ancora
molto piccoli, sia perché vengono considerati dalla madre come un’appendice del
loro corpo, sia perché sono fisicamente più deboli.
Di Renzo definisce il complesso di Medea come una psicopatologia in cui «il genitore
di sesso femminile, posto in situazione di forte stress emotivo e/o conflittuale con il
partner, utilizza il proprio figlio per scaricare la sua aggressività e frustrazione,
arrivando anche all’azione omicidiaria del piccolo, strumento di potere e di rivalsa
sul coniuge». 60 Annalisa Cavallone spiega che «le ragioni che spingono a compiere
un atto così orribile sono tante, si tratta di un insieme di situazioni, di sofferenze, di
violenze psicologiche, di incomprensioni, di abbandoni, di solitudini, di miserie, che
durano chissà quanto tempo» 61, e che esplodono senza un apparente preavviso. Il
volto dell’Altro si oscura rendendo impossibile l’accesso ad un altro mondo, «un
mondo nel mondo».62 Anche se vari specialisti ricordano che esistono diversi motivi
per l’uccisione del proprio figlio da parte della madre, la maggior parte ricorre al
figlicidio come lucido desiderio di vendetta nei confronti del partner e solo una
piccola parte soffre di disturbi mentali. Sembra essere una realtà assai lontana, quasi
mitologica appunto, eppure i casi di cronaca legati a questa sindrome sono più
numerosi di quanto si possa immaginare. Si pensi al caso di Apollonia Angiulli: nel
1988 la donna annega i suoi due bambini nella vasca da bagno, ma si pensa a un
tragico incidente; quando nel 1991 la stessa sorte tocca al terzo bambino, si scopre che
la donna viveva un rapporto di forte tensione con il marito. Si pensi al caso più
recente di Veronica Panarello che, nel 2014, viene accusata di aver ucciso il figlio
Loris. Ognuna di queste madri è una Medea moderna in modo differente, e il Coro
euripideo è rappresentato dall’opinione pubblica. Voglio soffermarmi su un altro
caso eclatante, il delitto di Cogne, avvenuto agli inizi del 2002, che ha avuto
un’enorme risonanza mediatica. Annamaria Franzoni è madre di Davide e Samuele
(6 e 3 anni), moglie di un perito elettronico, Stefano Lorenzi, ed è una semplice
casalinga di Montroz, una fazione di Cogne in Val d’Aosta. La mattina del 30

59 Cfr. ivi, p. 59.


60 G. C. Di Renzo, La sindrome di “Medea” in epoca perinatale. I conflitti materno-fetali, in «Riv. It. Ost.
Gin.», n. 29, 2011, pp. 301-309.
61 A. Cavallone, La sindrome di Medea: cosa spinge una madre ad uccidere il proprio figlio, in «Psychofrenia»,

n. 18, 2008, pp. 123-172.


62 M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 45.

13
gennaio 2002 richiede l’intervento del pronto soccorso in quanto suo figlio Samuele
vomita sangue e, prima del soccorso sanitario, interviene il medico di famiglia che,
pensando a un’improbabile aneurisma cerebrale, lava il capo del piccolo e lo stende
su di una barella improvvisata fuori casa nonostante il freddo pungente dell’inverno,
compromettendo, quindi, quella che sarà considerata la scena del crimine. Samuele,
con l’arrivo del 118, viene prontamente trasportato in ospedale, dove muore dopo
poche ore. L’autopsia rivela che a causarne la morte, in realtà, sono stati dei violenti
colpi alla testa, almeno diciassette, procuratigli da un oggetto contundente mai
rinvenuto. Le indagini vertono subito alla colpevolezza della Franzoni, rinvenendo
con il luminol tracce di sangue sul suo pigiama e sulle ciabatte, ma anche frammenti
di osso e materia cerebrale della vittima, sospetti rafforzati dal fatto che nulla in casa
lascia pensare che possa essere entrato un intruso, per cui la Franzoni resta l’unica
iscritta nel registro degli indagati. La donna viene condannata inizialmente a 30 anni
di reclusione, poi la pena diminuisce a 16 anni, ma rimane in carcere dal 2008 al 2014,
soli sei anni, perché viene scarcerata in seguito a una perizia psichiatrica che esclude
il rischio di recidiva, concedendole gli arresti domiciliari. L’arma del delitto mai
rinvenuta, la continua proclamazione d’innocenza della donna, la sua propaganda
mediatica per la conquista dell’opinione pubblica a suo favore fanno del delitto di
Cogne un mistero. Ammesso che sia stata davvero Annamaria Franzoni, cosa ha
scatenato in lei la furia omicida? La donna con l’aiuto dei familiari, come rivelano le
intercettazioni, ha sempre cercato di incastrare qualcun altro, ha sempre modificato
le sue versioni. Se, inizialmente, ha commosso la coscienza pubblica grazie alla sua
propaganda, apparendo in diversi talkshow, l'immagine che restituiscono le indagini è
quella di una donna subdola, come subdolo è l’appoggio dei familiari. E un evento in
particolare ha destato molti sospetti: mentre il piccolo Samuele era stato trasportato
con urgenza in ospedale su un elicottero, la Franzoni e suo marito erano rimasti a
casa per essere interrogati dalle forze dell’ordine e ciò che aveva colpito un
carabiniere presente era che la donna continuasse a chiedere al marito di fare un
figlio. L’anno successivo era nato Gioele Lorenzi, terzo figlio della coppia. La
richiesta che, in uno scenario simile, appare inquietante e disperata, potrebbe far
pensare a una richiesta di attenzione da parte di una donna che si sentiva trascurata
dal marito. Che Annamaria Franzoni sia un’altra Medea del nostro secolo non ci è
dato saperlo, ma se così fosse, sarebbe solo un’altra dimostrazione che l’antico non è
solo un modello, un archetipo, ma è qualcosa che si fonde con la contemporaneità,
annullando il tempo. 63

I.3 Medea nell’attualità della battaglia femminista


Un altro aspetto da prendere in considerazione nel mito di Medea è il valore
femminista. Ricordiamo ad esempio che le suffragette londinesi di fine Ottocento
usarono come motto le parole di Medea: «è cento volte meglio imbracciare lo scudo
piuttosto che partorire una sola volta».64 Anche Gentili coglie nelle parole di Medea

63 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 189.


64 Euripide, Medea, cit., v. 251.
14
forti accenti «che, in termini moderni, definiremmo femministi». 65 Rivolgendosi alle
donne corinzie, Medea afferma che le donne sono gli esseri più sventurati («la
creatura più disgraziata fra tutti gli esseri dotati di vita e di intelletto» 66), poiché nel
matrimonio è la donna ad essere l’anello debole: lo sposo diviene padrone del loro
corpo, e nell’eventualità di un cattivo matrimonio sarebbe meglio morire. Per Medea
invece sarebbe preferibile andare in guerra che partorire anche una sola volta. 67
Medea si scaglia contro il valore primario della società patriarcale che vuole soffocare
la sua natura di donna, donna indipendente, libera di voler amare. La si può
considerare come la prima – piccola – conquista umana, ma soprattutto femminile,
della separazione della sessualità dalla procreazione. Diventa un simbolo del riscatto
della donna all’interno della coppia, in cui solo l’uomo ha il diritto di disertare i
doveri coniugali senza troppe conseguenze. La società attuale favorisce il divorzio tra
la figura materna e la figura femminile, sovvertendo questa rappresentazione
patriarcale, e annulla il legame tra maternità e capacità generativa,68 per cui,
sessualità e procreazione non rappresentano più un binomio indissolubile, e lo si
deve al progresso scientifico ma anche – e soprattutto – a una presa di coscienza
morale. La prima a formulare le tesi secondo cui Medea è una femminista ante
litteram è la tedesca Christa Wolf. Nel suo romanzo Medea. Voci del 1996, Medea
proviene da una società matriarcale da cui fugge per questioni politiche; tuttavia, nel
trasferirsi in una società patriarcale, le cose non cambiano: a Corinto viene bandita
dal palazzo reale poiché scopre che Creonte ha sacrificato la vita di sua figlia Ifinoe,
sorella di Glauce poiché temeva gli intrighi politici di sua moglie Merope. A tutto ciò
Medea vuole opporre la sua libertà di donna libera, motivo per cui viene fatta
spargere la voce che in Colchide abbia ucciso suo fratello Apsirto e inizia una
persecuzione nei suoi confronti che culmina, infine, con la lapidazione dei due
bambini da parte dei Corinzi. Di fronte a un tale odio Medea non si abbatte, ma anzi
si ricostruisce una vita: trova un amante e aiuta Glauce nella sua malattia e per
liberarla dal dannoso influsso paterno. Quest’ultima diventa la protagonista della
tragedia modernizzata: Glauce soffre di epilessia, che Medea cerca di curare con
metodi psicanalitici; ma seppur affascinata dalla sua figura, Glauce non vuole
seguirla nella sua rivolta, risolvendo la sua sofferenza nel suicidio:

Due rapidi passi e fu sul bordo. Poi un altro passo nel vuoto, nell’abisso. Pare che non
abbia proferito lamento.69

Perciò la tragedia di Medea è secondaria rispetto a quella di Glauce, che diventa


simbolo dell’umanità innocente, vittima dell’oscurità propria dell’animo umano. 70
Medea, nel romanzo, non viene rappresentata né come maga né come barbara,
perché la Colchide è descritta come una società matriarcale in cui le donne sono
emancipate e libere. Già all’inizio del romanzo si accenna al legame di Medea con il

65 B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 31.


66 Euripide, Medea, cit., vv. 230-231.
67 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., pp. 31-32.
68 Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 13.
69 C. Wolf, Medea. Voci, traduzione di Anita Raja, Roma, Edizioni e/o, 1996, p. 211.
70 Cfr. B. Gentili, Medea nella letteratura e nell’arte, cit., p. 192.

15
mondo delle Madri, e si mostra come sia un personaggio innanzitutto «politico e
raziocinante, la cui vicenda è un apologo sul potere che trascende il tema delle
differenze sessuali», come afferma Giorgio Ieranò. 71
Euripide crea una donna la cui furia viene alimentata dall’odio del tradimento
subito, che si vendica sull’unica sfera di controllo femminile: la famiglia. La versione
della Wolf va aldilà di Euripide, ricongiungendosi alle versioni che lo precedono,
facendo di Medea un personaggio del tutto innocente e non solo: non uccide suo
fratello Apsirto, né Glauce, né i suoi figli; il motivo erotico è totalmente assente, ma
soprattutto non è una maga, operando con razionalità, strumenti e linguaggio
scientifici.72 Christa Wolf distrugge lo stereotipo creando una Medea femminista e
attivista, che non si lamenta di essere donna, come se fosse una connotazione
infelice, ma riconosce il male nella società patriarcale e nella politica che questa
esercita, cercando di sradicarla.
La teoria della Wolf viene confermata dall’iconografia del tempo. Si osservi il
seguente lekythos:

Risalente al 530 a. C. e conservato al British Museum, il vaso raffigura Medea tra due
serpenti. Comunemente e, talvolta, erroneamente, i serpenti vengono associati al
malvagio, alle arti oscure, ma in questo caso, però, la critica concorda nell’assegnare
ai serpenti una connotazione positiva, da collegare all’arte della medicina antica.73

71 Ivi, p. 191.
72 Cfr. ivi, pp. 189-191.
73 Cfr. F. Marenco, Il personaggio nelle arti della narrazione, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007, p.

4.
16
Medea(?). Anfora ceretana (tecnica “rosso su bianco”), 660-640 a.C. (Allard Pierson Museum di Amsterdam,)

Medea fra due serpenti. Lekythos attica, ca 530 a.C. (Wagner-Museum di Würzburg)

Ma tornando alla versione euripidea, non bisogna dimenticare che Medea viene
messa sotto una luce diversa, una luce di meschinità, seppure sia la versione
letteraria più favorevole della sua figura. Se con Creonte utilizza i figli per suscitare
la pietà, poi si serve della sua condizione di donna insoddisfatta, infelice, per
muovere la pietà delle donne sue pari. Sebbene menta per favorire i suoi interessi,
appare comunque forte e attuale il suo messaggio, incarnando il dolore di
innumerevoli donne, non maghe.

17
Capitolo secondo
Lo scrittore Oriana Fallaci

L’intelligenza non basta, l’erudizione non basta.


Per dare senso al viaggio della vita ci vuole passione,
la forza della passione.74

II.1 Vita, formazione e produzione letteraria di Oriana Fallaci

Il 29 giugno1929, a Firenze, nacque la più famosa penna femminile del giornalismo


fiorentino. È bene specificare che Oriana amava definirsi fiorentina prima che
italiana.

[…] Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso,
fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando
mi chiedono a quale paese appartengo, rispondo: Firenze. Non Italia. Perché non è la
stessa cosa.75

La prima di quattro figlie per Edoardo e Tosca, e in quanto tale si assunse grandi
responsabilità fin da bambina. La famiglia non godeva di grandi agiatezze: il padre
possedeva una piccola bottega artigiana i cui guadagni servivano in parte per pagare
i pochi operai. Una parte di quei guadagni, però, venivano spesi per l’acquisto di
libri. I genitori ricoprirono un ruolo fondamentale nella sua formazione, tant’è che
sin da bambina non riusciva a concepire un altro mestiere se non quello dello
scrittore. Giovanissima, all’età di 14 anni, partecipò alla Resistenza partigiana, in
prima linea come per il resto della sua vita (fisicamente e ideologicamente). Del
resto, suo padre Edoardo fu un acceso antifascista che la coinvolse con il ruolo di
staffetta per il movimento Giustizia e Libertà 76. Oriana sviluppò così un forte senso
del dovere, della giustizia, oltre che un disprezzo viscerale per la guerra.

La guerra insomma la vissi e la soffrii in pieno malgrado la mia giovane età.


Proprio nel periodo in cui mio padre era in carcere, la mia casa venne
bombardata. Tra i ricordi più cupi della mia infanzia e della adolescenza v’è
quello delle bombe che cadono, delle corse folli sotto le bombe. Non mi persi
un bombardamento: uno scherzo del destino mi faceva trovare sempre, per

74 O. Fallaci in una lettera a Monsignor R. Fisichella, 6 ottobre 2005, in D. De Pace, Con Oriana, Firenze,
Le Lettere, 2009, p. 136.
75 O. Fallaci, Io sono, in «L’Europeo», n. 4, 2007.
76 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, Firenze, Agemina, 2015, p. 24.

18
l’appunto, nel luogo colpito. Non mi successe mai nulla. Nel pericolo ho
sempre avuto una straordinaria fortuna. Ma in quegli anni imparai a odiare la
guerra, le bome, i fucili, tutto ciò che spara. Imparai a comprendere la
illogicità, la imbecillità, la follia.77

Si ebbe una “premonizione” circa la sua carriera sin dalle scuole superiori: con due
anni di anticipo, arrivò alla maturità presso il Liceo Classico Galileo Galilei,
rivelando una particolare attrazione per le materie umanistiche; tuttavia decise di
iscriversi alla facoltà di medicina, che lascerà poco più tardi per problemi economici e
per seguire le orme giornalistiche dello zio Bruno Fallaci, lavorando inizialmente per
«Il Mattino dell’Italia Centrale», un quotidiano locale. Anche le sorelle Neera e Paola
intrapresero la stessa carriera, rispettivamente per i giornali «Oggi» e «Tempo».
Oriana passò dalla cronaca nera a quella giudiziaria, toccando anche fatti di costume
dedicandosi alla moda. Ottenne una piccola svolta nel 1951, quando scrisse un
articolo sulla morte di un uomo comunista la cui sepoltura era stata negata dalla
Chiesa, inviandolo all’«Europeo». Un rapporto duraturo, seppur saltuario. Intanto
venne licenziata dal «Mattino»: Oriana era molte cose, ma non democristiana e ciò
comportò un punto di rottura con il quotidiano.
Lavorò fino al 1954 nella redazione di «Epoca», il giornale dello zio Bruno che, per
paura di essere accusato di nepotismo, non concesse mai alcun privilegio alla
nipote78. Nello stesso anno si trasferì a Roma, dove venne assunta all’«Europeo» da
Arrigo Benedetti. È in quegli anni che la Fallaci iniziò a definire quel suo modo di
intervistare, pungente e a volte spietato, che la renderà celebre; Intervista con la storia,
pubblicato per la prima volta nel 1974, un catalogo delle sue interviste ai politici più
irraggiungibili del mondo, ne è l’esempio più lampante. Nel ’55 venne spostata alla
redazione milanese del giornale, grazie a cui vide realizzarsi il viaggio di una vita: gli
Stati Uniti. Nel nuovo continente intervistò i grandi divi di Hollywood, ma anche i
grandi politici, scrivendo, poi, nel ’58 I sette peccati di Hollywood.
Nel 1961 scrisse il suo primo libro-inchiesta, Il sesso inutile, risultato dei suoi viaggi in
Oriente e che sancì una lunga relazione con la casa editrice Rizzoli. Libro che
anticipa, in qualche modo, il movimento femminista circa la condizione della donna
in Oriente, raccontandone usi e costumi. Attraverso le donne intervistate, la Fallaci
racconta sé stessa; è «un viaggio per scoprire se le donne possono essere felici, ma è
anche un percorso iniziatico all’interno del potere e dei suoi meccanismi» 79. Oriana
conquista un ruolo che fino ad allora era appartenuto ai suoi colleghi maschi: le
donne sognavano di essere come lei per dimostrare che valevano tanto quanto gli
uomini.
Cao Ky accolse Oriana Fallaci sul confine cambogiano come la più famosa giornalista
del mondo. Come ammette Mario Graziano Parri, «la verità della cronaca, però, non
le era sufficiente, voleva essere riconosciuta come scrittore della verità inventata: uno
scrittore prestato al giornalismo. […] Come Hemingway». 80 Lei stessa non nascose
mai che il giornalismo sia stato un mezzo di approccio alla letteratura:

77 O. Fallaci, Io sono, cit.


78 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 24.
79 O. Fallaci, Il sesso inutile, prefazione di G. Botteri, Milano, Bur, 2015, p. V.
80 M. G. Parri, Donna come me, in «Caffè Michelangiolo», n. 2, 2006, p. 3.

19
[…] sebbene [al giornalismo] abbia dedicato la maggior parte della mia esistenza, […]
i miei anni più felici li ho vissuti non quando giravo il mondo e scrivevo per i giornali
ma quando stavo sola con me stessa e scrivevo i miei romanzi.81

Ed ecco cosa confessa a Maria Antonietta Cruciata in un’intervista:

[…] al giornalismo io devo molto. L’esercizio dello scrivere, ad esempio. […]


Un’esistenza ricca di vantaggi che un altro mestiere non avrebbe potuto
procurarmi. […] oggi posso affermare che da me il giornalismo ha preso più di
quanto m’abbia dato. […] Intellettualmente il giornalismo non mi ha mai
soddisfatto. Mi è sempre stato stretto come una giacca stretta, scomodo come
un paio di scarpe scomode, e la sua verità non mi è mai bastata. È così
incompleta, la verità vera della cronaca.82

Quindi pubblicò, nel 1962, il suo primo romanzo Penelope alla guerra: è la storia di una
giovane scrittrice, Giò, che «rifiuta di essere come Penelope che tesse la tela, mentre
aspetta a casa Ulisse partito per la guerra. Desidera, invece, come Ulisse vivere nuove
esperienze e viaggiare alla scoperta di paesi, per lei sconosciuti e misteriosi, come
l’America»83; “lo scrittore” rivendica l’indipendenza della donna nelle sue scelte
sessuali, economiche, nella sua inclinazione audace e disinibita. Per assurdo - o forse
no – qualcuno si azzarda ad ipotizzare che quella stessa Giò sarà la voce narrante di
Lettera a un bambino mai nato. Michele Prisco, nella nota introduttiva per l’edizione
Bur del ’76, parla di questo romanzo come l’evidente tentativo di «cogliere la poesia
della vita moderna».84
Nel ’65, dopo essersi cimentata perlopiù in fatti di costume, divertendosi a
ridicolizzare i grandi divi, Oriana ebbe l’opportunità di scrivere di un grande
avvenimento per l’intera umanità: il viaggio dell’uomo sulla Luna. Si stabilì per
qualche tempo alla Nasa, a contatto con scienziati e astronauti impegnati nei progetti
Gemini e Apollo. Da questa esperienza nacque il romanzo Se il Sole muore, in cui
viene dedicato ampio spazio alle personalità degli astronauti. 85 Grazie a
quest’esperienza ricavò articoli e interviste, pubblicati su «L’Europeo», raccolte
cinque anni più tardi nel libro Quel giorno sulla luna. L’ammirazione nutrita nei
confronti del coraggio di questi uomini subisce un cambiamento nel 1967, quando le
venne affidato l’incarico di recarsi in Vietnam come inviata sul fronte, dove assistette
in prima persona all’odio tra gli uomini. È in questi anni, ovvero tra il 1967 e il 1975,
che si «consacra l’immagine mitica della Fallaci, che diventa un’icona di

81 O. Fallaci, Oriana Fallaci intervista sé stessa. L’Apocalisse, in «La Trilogia di Oriana Fallaci», New York,
Rizzoli International, 2004, p. 11.
82 M. A. Cruciata, Il soffio dell'interiorità, intervista a Oriana Fallaci, in «Caffè Michelangiolo», n. 2, 2006,

p. 10.
83 N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 40.
84 M. Prisco, Nota introduttiva, in O. Fallaci, Penelope alla guerra, Milano, Bur, 1976, p. IX.
85 Cfr. L. D’Angelo, Oriana Fallaci. Scrittore, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, p. 45.

20
spregiudicatezza e talento».86 I suoi reportage inviati alla rivista furono incessanti,
facendo accrescere la sua fama in Italia e all’estero. Al termine del suo primo anno
nel paese asiatico, ne scrisse il resoconto in Niente e così sia pubblicato nel ’69, il cui
successo fu clamoroso: «prima donna italiana calata in un ruolo fino ad allora
prettamente maschile, la Fallaci è testimone di sanguinosi combattimenti come quello
di Dak To e Huè» 87, fu testimone dell’egoismo dei soldati, delle innumerevoli
rappresaglie, criticando sia il comportamento dell’esercito americano e dei
sudvietnamiti sia dei vietcong. L’esperienza in Vietnam fu talmente forte da segnarla
profondamente, cambiando la sua vita e il suo modo di essere. 88 È soprattutto un
libro in cui è presente l’esperienza dell’amore e della morte, vissuta attraverso le
testimonianze dei prigionieri, dei dittatori, dei generali e dei soldati.89
Come sottolinea Letizia D’Angelo, «la qualità di un giornalista è direttamente
proporzionale alla sua tempestività; l’imperativo è esserci: il suo fiuto deve portarlo a
precedere la storia».90 Ebbene, l’aura dello scrittore divenne mitica nel ’68 quando si
recò in Città del Messico per seguire le proteste alla scelta di ospitare le Olimpiadi. Le
autorità compirono una carneficina, sparando dagli elicotteri sulla popolazione
inerme presente nella piazza Tre Culture. Un giornale ne riportò erroneamente la
morte, ma la Fallaci rimase solo ferita. Sebbene non riusciva a scrivere, inviò a
«L’Europeo» un nastro in cui incise il terribile racconto di quel 2 ottobre.
Il successo planetario arrivò nel 1975 con la pubblicazione di Lettera a un bambino mai
nato, vantando 40 edizioni solo in Italia e oltre 24 traduzioni, con settecentomila copie
vendute solo nella prima settimana. 91 Il romanzo nacque nel bel mezzo della
polemica sulla legalizzazione dell’aborto, su cui Oriana avrebbe dovuto scrivere
un’inchiesta per il suo giornale. Un viaggio nell’aspetto doloro della vita che non
sfugge a feroci critiche.
Professionalità e amore si mescolano con l’incontro avvenuto nel ‘73, ad Atene, con
Alexandros (Alekos) Panagulis, leader della resistenza greca contro il regime dei
colonnelli. Dopo il fallito tentativo di uccidere Papadopoulos, capo della giunta
militare, Panagulis venne arrestato e condannato a morte; condanna rimandata più
volte, per essere infine revocata al fine di tener calma l’opinione pubblica. La Fallaci
seguì la vicenda, e alla sua scarcerazione chiese di incontrare il dissidente. La
passione per la libertà che lui nutriva, le fu fatale: nacque sin da subito una grande
intesa che si tramutò ben presto in una storia d’amore, una storia d’amore, però,
tormentata, dalle molte sfaccettature oscure. Era il 1° maggio 1976 quando Panagulis
venne coinvolto in un misterioso incidente stradale che gli costò la vita. Si indagò
molto sulla sua morte, lo fece in special modo la Fallaci. Da questa esperienza tragica,
drammatica, nacque nel ’79 Un uomo, che si configura tra le opere maestre dello
scrittore, in cui si rivolge costantemente a un tu ideale che diventa reale, che è il
compagno scomparso. 92
Fu un successo assoluto per lo scrittore, ormai affermato e ammirato in tutto il
mondo. Le più prestigiose testate internazionali acquistavano i suoi articoli: «The

86 Ivi, p. 47.
87 Ibidem.
88 Cfr. D. Di Pace, Con Oriana, Firenze, Le Lettere, 2009, p. 64.
89 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 113.
90 L. D’Angelo, Oriana Fallaci. Scrittore, cit., p. 47.
91 Cfr. L. D’Angelo, Oriana Fallaci. Scrittore, cit., p. 50.
92 Cfr. ivi, p. 46.

21
New Republic», «New York Time Magazine», «Washington Post», «Le Figaro
Littéraire»; riviste come «Playboy», «Vogue», «Rolling Stones» le dedicarono molto
spazio. La Fallaci venne invitata a tenere numerose conferenze nelle differenti
università americane ed europee. Nel ’77 ricevette la laurea honoris causa in
Letteratura alla Columbia college di Chicago; la Boston University le dedicò un posto
nel prestigioso archivio, raccogliendo e catalogando il suo lavoro. Questo amore
reciproco con l’America la porterà ad un graduale allontanamento dall’Italia.
A undici anni dall’ultimo romanzo, la Fallaci tornò in carica con Insiallah pubblicato
sempre da Rizzoli nel 1990: ancora una volta ci troviamo di fronte ad un romanzo
ispirato all’esperienza di inviata di guerra perché si tratta di un’opera complessa in
cui cerca di descrivere la missione italiana in Libano. La trama è costruita su un
fecondo intreccio tra i pensieri del protagonista, un ex studente di matematica, e le
leggi della fisica e della termodinamica, le citazioni filosofiche e religione. L’opera
più ambiziosa di Oriana, senza alcun riferimento autobiografico, a cui seguirono
dieci anni di ritiro a New York, vinse il prestigioso premio internazionale Antibes,
attribuito dai francesi alle grandi opere.
Gli anni ’90 di Oriana furono segnati da una terribile presenza del nostro millennio,
un cancro ai polmoni: l’Alieno lo chiamava lei, «umanizzando la malattia per
intavolare con lei quella che considera, a tutti gli effetti, una guerra» 93. La malattia
non le impedì di continuare a tenere rapporti con molti esponenti della società
americana, ma il ritiro nell’Upper East Side di Manhattan la isolò dagli eventi
mondiali, soprattutto da quelli dell’Italia. È in questi anni che iniziò a dedicarsi a
quello che lei definì «il mio Bambino»: una monumentale saga sulla sua storia
famigliare; un lavoro dall’ossessione quasi febbrile, in quanto lo scrittore pensava
sarebbe stato il suo ultimo lavoro. In un articolo pubblicato su «il Giornale» Gulli
scrive:

Nel suo romitaggio americano Oriana lavorava a questa storia – la sua, quella della
sua famiglia, di un’epoca – sapendo che sarebbe stata l’ultima […]. Stava nella sua
bella casa di New York da sola, l’Oriana. Senza amici, senza un compagno, senza figli.
Si sapeva prepotente, narcisa, di un egocentrismo senza limiti; e forse per questo,
strada facendo, aveva accettato di buon grado, o suo malgrado, quel che il destino, e
il carattere, avevano apparecchiato per lei: una orgogliosa, spavalda solitudine,
alimentata da un sentimento tragico dell’esistenza. Oriana Fallaci non era una donna
simpatica. E ci teneva.94

Convinta di essersi ammalata a causa dei fumi tossici in Kuwait, lo scrittore spesso
rifiutava le cure ritenute insufficienti e che avrebbero intralciato il suo lavoro,
continuando a fumare ininterrottamente.
Nel 2001, con l’attacco alle Torri Gemelle, si risvegliò da questo “torpore”
distraendosi dal bambino di carta. In un lungo articolo apparso sul «Corriere della
Sera» il 29 settembre 2001, La rabbia e l’Orgoglio, denunciò la debolezza dell’Occidente
di fronte all’invasione dell’Islam integralista, esprimendo immenso cordoglio per le
vittime. L’articolo, che suscitò come al solito non poche polemiche, prese forma

93 Ivi, p. 61.
94 L. Gulli, Vi racconto l’Oriana che non avete mai letto, in «il Giornale», 30 luglio 2008.
22
nell’omonimo libro. All’indomani della strage terroristica alla stazione Atocha di
Madrid, nel 2004, Oriana ritornò alla carica con un ulteriore libro a difesa
dell’Occidente, La Forza della Ragione, che le costò numerose denunce per istigazione
all’odio razziale contro i musulmani. Nello stesso anno, la Fallaci si schierò con forza
contro l’eutanasia intervenendo sul caso Terry Schiavo, prendendo, inoltre, posizione
contro il referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita.95 Ultimo
pamphlet della trilogia “anti-islamica”, è Oriana Fallaci intervista sé stessa. L’Apocalisse,
in cui si mescolano pensieri a riguardo del mondo islamico, degli ultimi attacchi
terroristici e ricordi personali.
Le furono dedicate numerose monografie: la prima si deve all’australiano John Gatt-
Rutter, Oriana Fallaci. The rhetoric of freedom del 1996, una minuziosa illustrazione
delle opere fallaciane messe in relazione «con i più significativi narratori italiani suoi
contemporanei». 96 Una seconda monografia è da attribuire a Santo L. Aricò, Oriana
Fallaci. The woman and the myth pubblicata nel 1998; nell’introduzione viene spiegata
l’ammirazione per lo scrittore, nata dopo la lettura di Niente e così sia. Da allora Aricò
iniziò a studiare i suoi scritti, e nel ’91 strinse con l'intellettuale un rapporto
professionale, tant’è che Oriana gli affidò la stesura di una sua biografia in inglese. I
rapporti cessarono nel 1994, in quanto ad ogni stesura o revisione, la Fallaci
continuava a negargli ogni consenso. 97 Gli scritti dedicati allo scrittore continuarono
anche dopo la sua morte.
Tra il 2005 e il 2006, Oriana Fallaci accolse tutta una serie di riconoscimenti ed
onorificenze: a New York il premio Annie Taylor per il coraggio del Center for the
Study of Popular Culture, grazie alla sua resistenza al fascismo islamico: di fatti,
l’Annie Taylor Award «viene assegnato a individui che hanno mostrato e mostrano
eccezionale coraggio in circostanze pesantemente avverse e di fronte a grave
pericolo»98. Al contempo, a Milano, venne proposto il suo nome per l’Ambrogino
d’oro, premio rivolto ai milanesi che hanno onorato la loro città; a Roma, le venne
proposta dal Ministro della Pubblica Istruzione, Letizia Moratti, la Medaglia d’oro
quale benemerita della cultura.99 Fu insignita del premio Luca de Tena e, a Firenze, il
Consiglio della Regione Toscana, le assegnò la Medaglia d’oro:

Per la giornalista e scrittrice di fama internazionale ed eccellente interprete, per


coraggio e professionalità, del ruolo di inviato di guerra. […] Testimone dei conflitti e
delle tragedie che hanno segnato la storia del secolo Novecento. Autrice di saggi e
romanzi tradotti in più di 30 paesi che hanno ottenuto prestigiosi riconoscimenti.
Come accaduto a molti grandi giornalisti e intellettuali, ha stimolato con le sue
opinioni, dibattiti e confronti di idee.100

Questo riconoscimento le fu più caro degli altri, in quanto questa sua Firenze le
aveva sempre negato il premio più ambito, il Fiorino d’oro. In Polonia, le venne

95 L. D’Angelo, Oriana Fallaci. Scrittore, cit., p. 63.


96 A. Fabrizi, Rassegna critica su Oriana Fallaci, in «La parola del testo», n. 1-2, 2012, p. 213.
97 Cfr. ivi, p. 214.
98 D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 29.
99 Cfr. ivi, p. 33.
100 D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 44.

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attribuito il premio Jan Karski Eagle «per onorare la sua ricerca di verità nel mondo
di oggi».101 Nessuno di questi premi venne personalmente ritirato dallo scrittore:
«l’Alieno» si fece più forte di lei. In condizioni esasperate, intraprese il suo ultimo
viaggio in Italia il 4 settembre 2006.

Oriana fallaci morì il 15 settembre, all’età di 77 anni, nella sua amata Firenze. Fu
sepolta nel cimitero degli Allori nella tomba di famiglia; nella sua bara una copia del
«Corriere della Sera», tre rose gialle e il Fiorino d’oro conferito all’amico Franco
Zeffirelli102. Sulla sua lapide solo tre parole:

Oriana Fallaci, scrittore.

Quando uno scrittore è grande, la sua anima riecheggia nel tempo. Per Oriana, così
innamorata della vita, ciò si deve anche al suo romanzo pubblicato postumo Un
cappello pieno di ciliege. La sua ultima segretaria, Daniela Di Pace, affermò che «era il
suo bambino di carta più amato, quello che non sarebbe mai riuscita a vedere
compiuto, perché sapeva che la morte l’avrebbe afferrata prima. Ma era
determinatissima a farlo pubblicare anche postumo perché, diceva “così mi sembrerà
di morire un po’ meno e di continuare a vivere anche quando non ci sarò più». 103

II.2 Oltre la macchina da scrivere


Nel corso della sua vita strinse numerose amicizie, da quella con l’editore Angelo
Rizzoli a quella con l’attrice Sophia Loren, che Oriana ritenne «una grande donna:
legge, si informa e discute con me di tutto – mi piace molto questa sua curiosità
intellettuale e apprezza sempre ciò che scrivo». 104 Negli ultimi anni della sua vita,
però, legò con due personaggi inaspettati per un ateo anticlericale dichiarato come
Oriana Fallaci: Monsignor Rino Fisichella e Papa Benedetto XVI. In un articolo
pubblicato il 3 giugno 2005 per il «Corriere della Sera», Noi cannibali figli di Medea,
Oriana fece una dura riflessione sull’alterazione delle leggi naturali riprendendo
delle frasi del Papa 105:

Cari miei, Ratzinger ha ragione anche quando dice che in nome della Scienza ai diritti
della Vita vengono inflitte ferite sempre più gravi. Ha ragione anche quando dice che
con gli esperimenti sugli embrioni umani la dignità dell’uomo viene vilipesa anzi

101 Ivi, p. 51.


102 Cfr. L. D’Angelo, Oriana Fallaci. Scrittore, cit., p. 65.
103 D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 21.
104 Ivi, p. 22.
105 Cfr. ivi, p. 14.

24
negata. […] «La scienza non può generare ethos» ha scritto Ratzinger nel suo libro
Europa. «Una rinnovata coscienza etica non può venire dal dibattito scientifico».
Naturalmente Ratzinger lo dice in chiave religiosa, da filosofo anzi da teologo che
non prescinde dalla sua fede nel Dio Creatore. […] Però a dirlo difende la Natura,
Ratzinger. Rifiuta un Uomo inventato dall’uomo. […] È un discorso che va al di là
della religione, un discorso civile, e la bellissima fiaba non c’entra.106

Poco dopo, sempre sul «Corriere della Sera», venne pubblicata un’intervista fatta a
Monsignor Rino Fisichella in cui spiegava perché un’atea cristiana come Oriana e un
papa come Ratzinger avrebbero potuto condividere lo stesso pensiero 107. Da allora la
Fallaci si sentì incuriosita da questa figura e volle incontrarla. Si consolidò presto una
forte amicizia. Fu grazie a Monsignor Fisichella che riuscì ad ottenere un colloquio
privato con Papa Benedetto XVI, che ammirava sin da quando era cardinale e di cui
aveva letto tutti gli scritti. L’incontro fu descritto alla sua segretaria come «un dialogo
molto intenso tra due persone che avevano più o meno la stessa età e che avevano
vissuto nella stessa epoca esperienze diverse». 108
Monsignor Fisichella fu l’amico più caro ad Oriana nell’ultimo periodo della sua vita.
Nell’intervista rilasciata a Riccardo Mazzoni la ricorda così:

Oriana era una donna profondamente viva, innamorata della vita, e come tale vicina
all’idem sentire cristiano. […] Oriana amava moltissimo la vita, non avrebbe mai
voluto morire. È stata una donna che ha indagato a fondo la realtà, una donna in
costante ricerca, con una memoria inimmaginabile, capace di cogliere e indagare gli
aspetti della quotidianità che a molti di noi sfuggono. Sì, Oriana amava la vita fino
all’ultimo, completamente.109

Quando il giornalista gli chiede «Cosa le è rimasto più impresso della figura di
Oriana?», risponde:

Ma io direi Oriana Fallaci stessa, questo dice tutto, dice ciò che lei era, ciò che lei
pensava, dice il suo carattere e i limiti del suo carattere. Però dice anche la sua
profonda generosità, dice il suo desiderio di avere qualcuno con cui parlare e
soprattutto di cui lei si potesse fidare.110

Un altro personaggio che le fu molto legato è François Pelou, direttore della France
Press, che conobbe in Vietnam nel 1967 e con cui ebbe una relazione lunga quasi sette
anni. Dopo la morte di Oriana, un pensiero fu rinvenuto in una sua agenda del 1969:

106 O. Fallaci, Noi cannibali figli di Medea, in «Corriere della Sera», il 3 giugno 2005.
107 Cfr. D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 15.
108 Ivi, p. 27.
109 Ivi, pp. 134.
110 Ivi, pp. 142.

25
2 luglio 1969

A François Pelou
Che mi aiutò a capire perché gli uomini non sono né
angeli né bestie ma angeli e bestie cioè uomini.
E bisogna amarli, impedirne il massacro in un
mondo dove l’insegnamento di Cristo non è servito a
niente. A niente e così sia.111

Si conobbero a Saigon e fin dall’inizio Pelou fu colpito dalla sua femminilità e disse
di lei a Di Pace

ma non usò mai questa sua indole femminile per carpire delle informazioni, invece
utilizzata da molte altre sue colleghe. Lei era diversa, era superiore, voleva conoscere,
capire, aveva un’intelligenza vivace e non lasciava mai nulla al caso. […] Voleva
dimostrare che uomini e donne erano uguali, non importava da chi arrivasse il dono,
ma era importante che fosse fatto col cuore.112

All’epoca Pelou era sposato e non poteva sciogliere il matrimonio in quanto lui e sua
moglie avevano adottato un bambino; ma Oriana – racconta Pelou – voleva sposarsi e
avere figli, così la storia d’amore ebbe fine. Cristina De Stefano, nella sua opera
biografica, descrive così la loro relazione:

François è una cosa nuova e preziosa nella sua vita sentimentale, che per troppi anni è
stata costellata di storie di una notte. […] François è un amante alla pari, un suo
simile. Un uomo tutto d’un pezzo che ha imparato ad apprezzare in Vietnam,
indignato davanti a ogni violenza e in lotta contro ogni ingiustizia, un uomo che
concepisce il giornalismo come una missione, esattamente come lei.113

111 Ivi, p. 64.


112 Ivi, pp. 81-86.
113 C. De Stefano, Oriana, una donna, Milano, Rizzoli, 2013, pp. 171-172.

26
Oriana Fallaci e François Pelou in Vietnam

Gino Nebiolo conobbe Oriana nel ’64 quando fu inviato per «La Stampa» come
corrispondente ad Atene per il matrimonio di Costantino di Grecia e Anna Maria di
Danimarca. Quattro anni più tardi, si trovò in Messico quando fu raggiunto dalla
voce che Oriana Fallaci era morta: «con Tonini feci dapprima il giro degli obitori e in
seguito la cercai anche tra i feriti, ma alla fine fu lei a trovarmi: mi fece telefonare
dicendomi: "Gino, appena sto meglio vieni da me in ospedale e porta un taccuino e
una matita"».114 Ciò, spiega Nebiolo, dimostra che Oriana arrivava dove voleva anche
a costo della vita. Continua affermando:

Noi uomini le riconoscevamo un talento innato e superiore a molti giornalisti di fama


internazionale. […] Si era costruita una notorietà mondiale come giornalista, una
fama che nessuno aveva mai raggiunto né in Italia né all’estero. […] Riuscì a ottenere
interviste che nessun altro giornalista ebbe mai modo di avere, con i grandi della
storia, nel suo modo rivoluzionario di fare giornalismo usava una durezza
inimmaginabile, con domande spietate e mirate che mettevano in grande imbarazzo il
potente di turno, domande alle quali nessuno riusciva a sfuggire. Ma, nonostante
questa sua apparente durezza, aveva anche profonda umanità e sul piano
sentimentale era totalmente disarmata. Di fronte all’amore Oriana cedeva le armi, e
spesso ne rimaneva annientata.115

Grande fu l’amicizia con Pier Paolo Pasolini, di cui diceva avere una mente
eccezionale. Alla sua morte, gli scrisse una lunga lettera che fu pubblicata su
«L’Europeo» il 4 novembre 1975. I rapporti tra i due si erano incrinati poco tempo
prima, quando Oriana gli fece avere una copia di Lettera a un bambino mai nato,
pubblicato all’indomani del suo assassinio e Pasolini gli rispose che la odiava per
quanto aveva scritto. La Fallaci, nella lettera, scrisse che non era morto un uomo, ma
si era spenta una luce. Per l’assassinio fu arrestato quella notte stessa il diciassettenne

114 D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 71.


115 Ivi, p. 73.
27
Pelosi, ma Oriana sapeva che non era stato il solo e per aver taciuto venne
condannata a quattro mesi di reclusione.

Pier Paolo Pasolini e Oriana Fallaci

II.3 Gli eroi di fronte alla morte


Come afferma Donato Bevilacqua, nell’opera narrativa di Oriana Fallaci è possibile
individuare la figura reiterata dell’eroe. 116 Nelle situazioni che ci vengono presentate
la presenza dell’eroe sembra essere il cardine della sua poetica, proponendone
differenti tipologie, dall’astronauta che si appresta a raggiungere un traguardo per
l’intera umanità, al soldato che combatte in territorio di guerra: in ogni caso, l’eroe
fallaciano è posto di fronte a percorsi ignoti che producono una nuova maturità del
personaggio. 117
I romanzi, o libri-reportage, dell’autrice fiorentina spesso ripiegano sulla morte,
anche se indirettamente, è inevitabile il confrontarsi con essa da parte dei personaggi.
Ciò si deve forse al fatto che la Fallaci ha visto la morte da vicino, sin da piccola,
come afferma lei stessa:

La vita non è stata tenera con me fin dall’infanzia, non ho avuto figli, la morte mi ha
strappato due persone che amavo e che mi amavano, infine l’Alieno si è impossessato
del mio corpo, come pensa che possa reagire a tutto questo?118

I suoi eroi, come spiega, sono dunque autobiografici ed Eros e Thanatos convogliano
la sua esperienza di vita:119

116 Cfr. D. Bevilacqua, La prova più dura. Concetto e modelli di eroismo nella narrativa di Oriana Fallaci, in
«Rivista di letteratura italiana», n. 2, 2010, p. 57.
117 Cfr. ibidem.
118 D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 91.
119 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 38.

28
[…] in ciascuno di essi v’è un tema parallelo [alla morte]: il tema della Vita. Più che la
morte, quindi, direi che il tema dei miei libri è l’eterno scontro tra la Vita e la Morte.
[…] Perché ho visto troppe stragi, troppi cadaveri. Perché uno di quei cadaveri era
quello dell’uomo che amavo.120

II.3.1 Se il Sole muore

Agli albori degli anni Sessanta i sogni e le speranze dell’uomo si volsero al cielo; le
tecnologie iniziarono a progredire. In America vi era un clima elettrizzante, una gran
voglia di surclassare i sovietici che per primi fecero il giro orbitale della terra in
novanta minuti, grazie all’astronauta Jurij Gargarin. Nel 1961, con un celebre
discorso al Congresso, il Presidente Kennedy lanciò la corsa alla Luna, una delle
massime sfide tra Est e Ovest. Oriana Fallaci venne inviata da «L’Europeo» negli Stati
Uniti dove visse nella sede Nasa per un anno a stretto contatto con gli astronauti,
pionieri dell’eroismo, i cui nomi erano ormai noti a tutto il mondo. Con alcuni di loro
intrecciò un rapporto di amicizia quasi fraterna, riuscendo a cogliere gli aspetti più
riposti delle loro personalità, i loro vizi e le loro invidie. Da questa esperienza,
nacque nel 1965 il libro-reportage Se il Sole muore, che può essere definito anche un
diario: alle interviste si mescola un lungo dialogo con suo padre, Edoardo Fallaci, che
mostra perplessità su ciò che la Luna può offrire all’uomo:

La sola idea mi riempie di grande fastidio. Andare sulla Luna, a che serve. Gli uomini
avranno sempre gli stessi problemi, sulla Terra come sulla Luna; saranno sempre
malati e cattivi, sulla Terra come sulla Luna. E poi mi si dice che sulla Luna non vi
sono mari né fiumi né pesci, non vi sono boschi né campi né uccelli: non potrei
nemmeno andarci a caccia o a pescare.121

Da un lato, la nuova generazione che guarda con fiducia al futuro, con le sue nuove
tecnologie e ambizioni, dall’altro una generazione che preferisce la sicurezza del già
noto, aggrappato alla tradizione. Ebbene, ciò che interessò maggiormente la
giornalista fu il fattore umano dell’impresa. Si domandava quale fosse il vero scopo
dell’avventura, arrivando a comprendere che l’uomo deve andare nello spazio perché
il Sole potrebbe morire. Questo il tema principale delle sue interviste, la morte: la
morte del Sole, la morte della Terra, la morte delle eventuali vite che popolano i
pianeti, la morte della razza umana. Una ricerca condotta con particolare minuziosità
da cui emerge la debolezza dell’indole umana. 122 Glielo confermò Ray Bradbury,
aggiungendo che l’essere umano è comunque in grado di creare cose meravigliose e
per questo bisogna preservare la vita, non importa sotto quale forma «importa solo
che in qualche modo la vita continui, e con la vita continui la coscienza di ciò che

120 M. A. Cruciata, Il soffio dell'interiorità, intervista a Oriana Fallaci, cit., p. 9.


121 O. Fallaci, Se il Sole muore, Milano, Bur Rizzoli, 2015, p. 10.
122 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 65.

29
fummo e facemmo e imparammo». 123 Naturalmente, questo suo amore per la vita
non può che essere condiviso dalla Fallaci.
A Huston Oriana intervistò i primi sette astronauti scelti per realizzare il programma
Mercury, ideato per mettere in orbita un uomo intorno alla Terra. In queste interviste
sono racchiuse idee sulla morte e sul rischio di morire. Donald Staylon le dice:

Guardi: se uno pensasse al rischio che c’è a fare le cose, non dovrebbe mai uscire di
casa. […] Ma che vita sarebbe? Sarebbe una morte. Una morte che respira. Senta: chi
ha paura di morire non è degno di vivere, secondo me.124

Conversando con Saylon, la Fallaci venne a conoscenza che fu lui uno dei piloti
americani a bombardare Firenze nell’ottobre del 1943, evento di cui conserva ricordi
molto chiari: si stava recando con la sua bicicletta da suo padre, prigioniero a Villa
Triste, quando venne scaraventata a terra da un vuoto d’aria; si fece male a un piede,
dolore che passò rapidamente, ma ciò che non dimenticò mai fu la scena di morte che
l’abbracciava in quello scenario apocalittico. L’astronauta ascoltò con vergogna i suoi
ricordi, ma Oriana gli rispose semplicemente: «Era la guerra, maggiore». 125
Un altro astronauta, John Glenn, risponde a una delle sue domande:

Forse sarà un intero equipaggio a morire. […] accetteremo le perdite, continueremo


con quelli che restano. […] Sì dobbiamo andare lassù, dobbiamo. E un giorno coloro
che sono contrari si guarderanno indietro e saranno contenti di ciò che abbiamo
fatto.126

Vi era dunque in questi uomini una totale consapevolezza e accettazione del rischio
di morire.
Alcuni scienziati del programma nutrivano idee degne di fantascienza: per
Constantine Generales, ad esempio, sarebbe stato possibile, in futuro, procreare
senza l’atto d’amore 127 e vincere la morte:

Ciò che noi definiamo morte non è morte completa, è soltanto il cuore che si ferma
[…]. Se dunque refrigeriamo un corpo morto prima che le cellule si deteriorino, quel
corpo si conserva all’infinito e la morte diviene qualcosa di temporaneo: un’attesa per
resuscitare.128

Lo scienziato Willy Ley le parlò di uomini che avrebbero vissuto su astronavi, in


continuo viaggio verso pianeti ancora sconosciuti e della ipotesi che quei pianeti

123 O. Fallaci, Se il Sole muore, cit., p. 34.


124 Ivi, p. 118.
125 Ivi, p. 116.
126 Ivi, pp. 169-170.
127 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 74.
128 O. Fallaci, Se il Sole muore, cit., p. 310.

30
fossero abitati. Il dottor Wernher von Braun era convinto che fosse volontà di Dio
l’immortalità dell’uomo:

La natura non conosce estinzione, conosce solo la trasformazione: se Dio applica il


suo principio fondamentale a tutto l’universo, e lo applica, non v’è dubbio che
l’immortalità esiste. E in questa coscienza dell’immortalità noi lavoriamo, soggetti
all’eterno ciclo della vita e della morte, vero legame tra il passato e il futuro. Il futuro
delle generazioni a venire dipende da ciò che noi oggi scopriamo, convinti di fare il
bene, con l’aiuto di Dio.129

Nei confronti di Herbert Rosen provò puro sdegno, principalmente per il suo
attaccamento alla tecnologia:

Distruggeremo, ricostruiremo. Porteremo la morte per rifare la vita: esistere è


condizionato a morire, muoiono gli uomini per fare posto ad altri uomini,
muoiono le cose per far posto ad altre cose […]. 130

Uno sdegno che raggiunse il culmine quando affermò che avrebbe distrutto
volentieri le più importanti città mondiali, New York, Parigi, Londra e Firenze, la sua
Firenze.
Quando la Fallaci dovette rientrare in Italia per un malore della madre Tosca, visse
un momento di grande angoscia e, anche, di disinteresse per la Luna. Gli scienziati,
gli stessi che esaltavano l’immortalità, avrebbero dovuto impegnarsi, ai suoi occhi,
per debellare le malattie e proteggere la vita sulla Terra. Dopo che sua madre si fu
ripresa, ripartì per intervistare i nuovi astronauti tra cui Neil Armstrong e Charles
Conrad, detto Pete. Quest'ultimo, divenuto suo amico, portò con sé sulla Luna una
foto di Oriana neonata in braccio alla mamma: «Questa foto di Oriana e Tosca è stata
sulla Luna»131, recita la dedica su di essa. E fu Oriana a suggerire a Pete la frase che
pronunciò una volta atterrato sulla Luna, il 19 novembre 1969, riferendosi alla frase
di Neil Armstrong ma facendo ironia anche sulla sua statura: «Whoopie! Quello può
essere un piccolo passo per Neil, ma può essere lungo per me» 132..
Un altro amico tra i cosmonauti fu senz’altro Teodoro Freeman, il suo corrispondente
al maschile, secondo Oriana. Purtroppo, perse la vita a causa di un incidente, pochi
mesi prima di intraprendere il viaggio spaziale. Fu un evento molto doloroso per la
Fallaci, che si turbò quando, ai funerali, i colleghi di Freeman non mostrarono alcun
sentimento, ma solo indifferenza. Quando si rivolse all’amico Pete, sollevando le sue
perplessità, questo ne rimase offeso:

129 Ivi, p. 360.


130 Ivi, p. 55.
131 D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 66.
132 Ivi, p. 65.

31
Credi davvero che non ci faccia né caldo né freddo saperlo chiuso per sempre
dentro una bara? Domattina, in quella tomba, avrei potuto calarci io. […]
siccome non si baratta la morte, io sono vivo. E siccome sono vivo, non mi
perdo in pianti greci. […] Ridi che t’è andata bene e sei viva!133

Per i cosmonauti la morte appartiene alla vita: non è mancanza di rispetto nei
confronti del collega e amico, ma solo il loro modo di accettare la vita e il suo
corso.134 Idea che ribadisce la Fallaci, scrivendo:

E se la Terra muore, e se il Sole muore, noi vivremo lassù. Costi quel che costi.
Un albero, mille alberi, tutti gli alberi che la vita ci ha dato.135

II.3.2 Niente e così sia


Iniziata nel 1954, la guerra del Vietnam durò vent’anni e fu un conflitto ben diverso
dalla Seconda guerra mondiale o dalla guerra di Corea: innanzitutto, l’intero paese
costituì un fronte di guerra e, inoltre, non fu imposta alcuna censura. I reporter
ebbero carta bianca: libero accesso al trasporto sugli elicotteri, opportunità di parlare
con i soldati, ospitalità presso le basi americane. 136 Niente e così sia, pubblicato nel
1969, è un romanzo-diario che nasce dalla corrispondenza con «L’Europeo» che la
Fallaci intrattenne nel primo anno trascorso in Vietnam. Anche stavolta, Oriana fu
una delle prime donne a recarsi sul fronte di guerra, quello che vide la battaglia di
Dak To, l’assedio di Saigon, l’offensiva del Tet, ma che per lei si concluse quando
venne gravemente ferita a Città del Messico. Seguendo gli americani nel pericolo e
incontrando la popolazione locale, si fece testimone di un’immensa desolazione
dell’animo umano, capace di compiere le più cruente atrocità, e condannò senza
esitazione il conflitto.
Di fronte allo scenario di guerra, testimone anche del coraggio degli uomini, la stima
per gli “eroi della Luna” iniziò a frantumarsi. È la stessa autrice ad affermarlo:
«l’ambiente naturale dell’eroismo è la guerra. Può anche essere un rapporto d’amore,
può anche essere un’avventura rischiosa, un lavoro impossibile […] Ma in nessun
caso l’eroismo esplode come alla guerra dove esso ha un unico insostituibile prezzo:
la morte».137 E ancora:

Io chiamavo eroi gli astronauti. Ma che eroismo ci vuole a sbarcar sulla Luna con un
margine di sicurezza del novantanove virgola novantanove per cento, con
un’astronave collaudata fino all’ultimo bullone, seguita senza sosta da migliaia di
tecnici, scienziati, strumenti infallibili pronti a venire in tuo aiuto? E se va male lo

133 O. Fallaci, Se il Sole muore, cit., pp. 587-588.


134 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 91.
135 O. Fallaci, Se il Sole muore, cit., p. 595.
136 Cfr. L. D’Angelo, Oriana Fallaci scrittore, cit., p. 81.
137 O. Fallaci, Niente e così sia, Milano, Bur Rizzoli, 2015, p. 73.

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stesso, se alla Luna ci muori, che eroismo ci vuole a morire dinanzi agli occhi del
mondo, mentre tutto il mondo ti ammira e ti esalta e piange con te? No: l’eroismo lo
capisco qui, non è il vostro, amici astronauti. È quello del vietcong che va ad
ammazzare e a farsi ammazzare, scalzo, in nome di un sogno. È quello del soldato
che crepa solo come un cane in un bosco, mentre va all’assalto di una collina di cui
non gli importa nulla. È quello di una ragazza o di un bonzo che si danno alle fiamme
rischiando di essere ridicolizzati con un estintore.138

Come il libro precedente, Se il Sole muore, che fu un dialogo con suo padre, qui
vediamo Oriana intraprendere un lungo e complicato discorso con la sorellina
Elisabetta che, con la curiosità tipica di un bambino, le pone domande a cui l’uomo
da sempre cerca di rispondere: «La vita cos’è?», «E la morte cos’è?» 139.
Altro protagonista del libro è François Pelou, direttore del «France Presse» presso cui
si recò la Fallaci una volta arrivata a Saigon. Come si è detto in precedenza, tra i due
non nacque solo un forte legame professionale, ma anche sentimentale.
Paradossalmente, infatti, in uno scenario di guerra e morte fa da sfondo la loro storia
d’amore, che durò a lungo. Fu proprio grazie all’agenzia di Pelou che Oriana poté
vivere fino in fondo la guerra: munita di elmetto e zainetto – i suoi cimeli più cari –
divenne testimone dell’assurda realtà che le si presentava davanti. Assistette a scene
strazianti: madri che piangevano per i figli deceduti, donne che scavavano nelle fosse
comuni in cerca del corpo del marito o di un figlio, bambini che giocavano con i
cadaveri.
Le parole dei soldati, eroi che vennero coinvolti anche contro la loro volontà in
scenari orribili, catapultarono l’autrice nelle pieghe della condizione umana. 140 Il
disgusto per la guerra provato dai soldati emerge, ad esempio, leggendo quanto
disse Donald Scher:

Dio che cosa schifosa è la guerra: lo lasci dire a me che sono un soldato. Dev’esserci
qualcosa di sbagliato nel cervello di quelli che si divertono a fare la guerra, che la
trovano gloriosa o eccitante. Non è nulla di glorioso, nulla di eccitante, è solo una
sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere.141

Toccante è anche quanto affermò il giovanissimo soldato Norman James, che venne
divorato dalla paura di morire in combattimento e per questo implorò il perdono di
Dio per aver ucciso tanti uomini senza sapere nemmeno il perché. 142 Lo scenario di
morte e distruzione fece smarrire anche chi cercò di salvare vite, come il dottor Khan,
che disse alla Fallaci:

138 Ivi, p. 328.


139 Ivi, pp. 7-8.
140 Cfr. D. Bevilacqua, La prova più dura. Concetto e modelli di eroismo nella narrativa di Oriana Fallaci, in

«Rivista di letteratura italiana», cit., p. 59.


141 O. Fallaci, Nulla e così sia, cit., pp. 39-40.
142 Cfr. ivi, p. 45.

33
Non ho visto altro dacché sono al mondo. Sono nato dalla morte. E cosa sia questa
pace di cui parlate tanto, non lo so davvero.143

Il dottor Khan le rivelò che a Saigon erano aumentati i suicidi, sia perché la guerra
uccideva la dignità umana sia perché la disperazione era tale da far credere che il
suicidio fosse l’unica alternativa valida, o l’unico mezzo di protesta contro il governo
e gli americani, e significativo è, al riguardo, la protesta dei buddisti a Saigon che si
suicidarono dandosi fuoco. La giornalista venne a conoscenza di un fatto in
particolare, quello della giovane bonzessa Huyn Thi Mai che si diede fuoco dopo
aver riposto un cesto di frutta e una lettera vicino alla statua di Budda. Senza
scomporsi, furono testimoni della scena la Venerabile Madre, Thich Nhu Hué e molte
altre persone per le strade, tra cui i bambini, che guardarono con indifferenza la
scena, perché abituati alle immagini della morte, e che dichiararono alla Fallaci:

La morte, per noi, non è una tragedia. […] Noi non abbiamo paura della sofferenza
fisica, possiamo dominarla anche se grande. Perché la realtà fisica non conta.144

Un soldato le raccontò di essersi nascosto sotto il cadavere ancora caldo dell’amico e


la stessa Oriana fu protagonista di una macabra avventura: fu costretta a lanciarsi da
un elicottero, in cui si trovava in compagnia del capitano Scher, perché atterrare era
troppo rischioso:

Prima che saltassi il capitano m’ha detto: «Attenta a non cadere lì». Ma io ho calcolato
male le distanze e son caduta proprio lì, affondando su un oggetto molle: il cadavere
di un nordvietnamita, appena coperto di terra. I cadaveri qui sono dovunque, in tre
giorni ne han sepolti appena sessanta.145

L'annientamento psicologico della guerra porta a pensare che l’amore sia percepita
come una cosa lontana, eppure molti soldati scrivevano poesie, lettere d’amore e
pagine di diario intrise di rabbia per le perdite.146 La stessa Fallaci sentì il bisogno di
donare il suo amore, decidendo di adottare un bambino, ma in un paese in guerra
come il Vietnam non era possibile adottare i bambini maschi, poiché avrebbero
dovuto combattere per il proprio paese una volta adulti. Si recò in un orfanotrofio e
vide molti bambini disperati e inconsolabili e decise infine di rinunciare.
Rientrata a New York, nel ’68, non riuscì a rispondere alle domande della piccola
Elisabetta: con l’assassinio di Martin Luther King e quello di Robert Kennedy,
avvenuti in quello stesso anno, le domande sull’uomo, sulla guerra e sulla morte le

143 Ivi, p. 53.


144 Ivi, p. 94.
145 Ivi, p. 38.
146 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 112.

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sembrarono impossibili. 147 Ciò che le accadde poi in Messico la scosse a tal punto da
farle trovare le risposte tanto desiderate.

Vieni qua, Elisabetta, sorellina mia. Un giorno mi chiedesti cos’è la vita: vuoi ancora
saperlo?
«Si, la vita, cos’è?»
«È una cosa da riempire bene, senza perder tempo. Anche se a riempirla bene si
rompe.»
«E quando è rotta?»
«Non serve più a niente. Niente e così sia.»148

II.3.3 Insiallah
Nel 1982, a seguito dell’invasione israeliana in Libano, un contingente italiano
comandato da Franco Angioni e Corrado Cantatore arrivò a Beirut insieme ai soldati
americani e francesi. Un accordo di pace prevedeva che la missione internazionale
avrebbe favorito l’evacuazione delle forze palestinesi da Beirut. Una volta terminata
l’evacuazione, gli israeliani rispettarono la tregua ma non si ritirano, invadendo a
metà settembre Beirut ovest e rompendo gli accordi con gli americani, le forze
musulmane e la Siria, giustificando tale gesto come un tentativo di protezione dei
palestinesi contro eventuali ritorsioni da parte dei cristiani. La reazione di questi
ultimi fu immediata: uomini armati fecero irruzione in alcuni campi profughi
palestinesi, uccidendo in una sola notte più di 1500 persone, strage rimasta alla storia
con il nome di 'massacro di Sabra e Chatila'. Il 20 settembre 1982 giunsero a Beirut
2500 soldati, a cui venne vietato l’uso delle armi. La missione di pace procedette al
meglio fino ai primi mesi dell’83, quando una pattuglia del Battaglione San Marco
venne sorpresa da uno scontro a fuoco e, successivamente, un kamikaze fece saltare
in aria l’ambasciata americana a Beirut. Il risvolto più tragico si ebbe nell’ottobre
dello stesso anno: due autobombe devastarono il Quartier Generale francese e anche
quello americano: 316 furono i morti e centinaia i feriti. Fu nel 1984 149 che i soldati
italiani fecero ritorno in patria.
Da questo evento venne trasse ispirazione Oriana Fallaci in Insciallah, pubblicato da
Rizzoli nel 1990, un libro pubblicato dopo anni di silenzio dall’ultimo successo, Un
uomo: l’autrice, infatti, dopo la morte dell’uomo amato, Alekos Panagulis, morto nel
’76, e la morte della madre Tosca, deceduta l’anno successivo, si ritirò per tre anni
dalle scene e dagli eventi mondani. Ritornò al fronte, diventando ancora una volta
testimone di una guerra in Medioriente, un viaggio che durò tre mesi. Qui conobbe
Paolo Nespoli, il cui compito era quello di scortarla durante la sua permanenza.
Nonostante la differenza di età (Nespoli aveva ventotto anni in meno), tra i due
nacque l’amore, tenuto nascosto per anni sebbene convivessero nella casa di Oriana a
New York.
La notizia di un nuovo romanzo, che non fosse un reportage, suscitò l’interessa e la
curiosità non solo del pubblico. Padre David Maria Turoldo commenta così il
romanzo in un articolo del «Corriere della Sera»:

147 Cfr. ivi, p. 129.


148 O. Fallaci, Niente e cosi sia, cit., p. 415.
149 Cfr. L. D’Angelo, Oriana Fallaci. Scrittore, cit., pp. 174-178.

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Riassumere qui e anticiparne il contenuto? Impossibile. È come riassumere la storia
del mondo.150

Il romanzo rimase primo in classifica per settimane e l’anno successivo, nel 1991,
ebbe due riconoscimenti importanti: il Premio Ernest Hemingway Lignano
Sabbiadoro per la Narrativa e il Superpremio Bancarella.
La Fallaci, nella dedica che precede la narrazione, afferma che tutti i personaggi sono
frutto di fantasia e che solo gli eventi sono reali. 151 Temi centrali, anche stavolta, la
Vita e la Morte, spiegati attraverso un’equazione: S=K ln W, ovvero, entropia (Caos)
uguale costante di Boltzmann moltiplicata per il logaritmo naturale delle probabilità
di distribuzione. Fu appunto il fisico Ludwig Boltzmann a enunciarla, sostenendo
che il Caos è il fine ultimo di tutte le cose, con uno scopo irreversibilmente
distruttivo; ciò significa che il suo traguardo è la distruzione dell’universo. Alla
Fallaci rimase impressa come la formula della Morte e proprio per questo nel suo
romanzo vediamo un soldato ex studente di matematica, Angelo, alla ricerca
disperata di una formula della Vita.
Innumerevoli sono i personaggi che si muovono in quasi ottocento pagine di storia,
tra cui anche un alter ego dello scrittore, il Professore che indugia su elementi
metanarrativi e riflette sulla vita:

È un arcobaleno inesauribile di colori, un concerto interminabile di rumori, un caos


fantasmagorico di voci e di volti, di creature le cui azioni si intrecciano o si
sovrappongono per tessere la catena di eventi che determinano il nostro personale
destino.152

In Insciallah il tema amoroso fa da cornice alla guerra e prende corpo nella storia di
Angelo, il giovane sergente che ha paura di abbandonarsi all'amore per la libanese
Ninette perché teme di assoggettarsi all’amata,153 mentre Ninette, al contrario, trova
che l’amore sia necessario alla vita,154e nell’incontro tra Fabio e Jasmine, una
prostituta che, per il suo coraggio, gli offre un sentimento molto simile all’amore.

150 D. M. Turoldo, Viaggio nel vulcano “Insciallah, in «Corriere della Sera», 2 agosto 1990.
151 Cfr. O. Fallaci, Insciallah, Milano, Bur Rizzoli, 2015, p. 3.
152 Ivi, p. 438.
153 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 197.
154 Cfr. ivi, p. 198.

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Oriana Fallaci fotografata nel campo dei Marines il giorno precedente la
battaglia di Dak-To, nell’ottobre del 1967.

La morte è il fulcro del romanzo, morte che, a Beirut, si può celare anche dietro i
volti più innocenti, come quello di Khalid-Passepartout, un ragazzino di tredici o
quattordici anni, che si prostituisce e che con il suo Kalashnikov porta la morte anche
a Ninette, me che al contempo suscita un senso di pietà poiché, come precisa
Nicoletta Corsalini, «a Beirut, perfino bambini o ragazzini appena adolescenti sono
reclutati, con la forza o con pressioni psicologiche, per combattere una guerra che
non capiscono, che non possono capire». 155 La guerra è anche una catena
interminabile di vendette: Angelo, perciò, uccide Passepartout, giovane amante del
fondamentalista islamico Rashid. Sarà quest’ultimo a far scontrare la terza nave del
contingente italiano, appena salpata per il rientro in Italia, con un motoscafo carico di
esplosivo.

La guerra trasforma gli uomini e la Fallaci lo sa bene:

[…] si cancella la loro personalità, la loro individualità. Perché il soldato non deve
essere un individuo, una persona: deve essere parte d’un nucleo perfetto che agisce
all’unisono. E lo sai qual è l’ingrediente per ottenere un nucleo perfetto o quasi
perfetto? L’odio.156

A trasformare gli uomini è anche l'esperienza della morte, i vuoti che lascia.
Ferruccio, per esempio, ammette di aver capito cos'è la morte solo sul fronte di
guerra:

Chi l’avrebbe mai immaginato che la morte potesse essere una tale carneficina? In
Italia la morte era la bisnonna che si spenge di vecchiaia e viene composta sul letto
dove sembra dormire tra i fiori e le candele e i parenti che recitano il Requiem

155 Ivi, p. 203.


156 O. Fallaci, Insciallah, cit., p. 133.
37
Aeternum. […] Era un brivido che si dimentica presto, un funerale e una tomba a cui
pensi di rado e con malinconia.157

La morte diventa, inevitabilmente, un volto familiare, come nel massacro di Sabra e


Chantila commesso dai falangisti di Gemayel (noto politico libanese) con l’appoggio
degli israeliani, che viene così descritto dalla Fallaci:

E fortunati gli uomini uccisi subito a raffiche di mitra o a colpi di baionetta, fortunati i
vecchi sgozzati nel letto per risparmiare le munizioni. Le donne, prima di fucilarle e
sgozzarle, le avevano violentate. Sodomizzate. […] I loro bambini, bersaglio per il tiro
a segno all’arma bianca o da fuoco. […] Cataste di uomini fucilati e coperti di topi che
gli mangiavano il naso, gli occhi, gli orecchi.158

Solo l’amore per la vita resta inattaccabile e Angelo termina la sua ricerca della
formula della Vita nella Morte stessa, poiché l’entropia, il Caos, appartiene al ciclo
vitale dell’universo. Il Caos è energia, è la Vita che si serve della Morte.

Ci congediamo da Insciallah con le parole della Fallaci:

È un bel libro, Insciallah. Un libro importante. Un po’ difficile, forse, un po’ troppo
intriso di problemi matematici che possono infastidire il lettore meno preparato.
Infatti alcuni non sono riusciti a leggerlo tutto ed altri non l’hanno capito. Però ha una
struttura narrativa e un’architettura di cui vado assai fiera, ha un pathos che mi
convince, e lo considero il mio romanzo migliore. Il più maturo.159

II.4 Alekos Panagulis, l’uomo


Oriana Fallaci ebbe diverse relazioni sentimentali importanti nella sua vita, come
abbiamo detto, eppure quando si parla della sua vita sentimentale è immediato e
inevitabile il riferimento ad Alekos Panagulis. La loro storia durò tre anni: dall’anno
della scarcerazione all’anno della morte di lui. Dopo la perdita dell'amato, Oriana si
ritirò nella sua casa di campagna in Toscana, nel Chianti, in un isolamento totale che
le permise di partorire il suo romanzo, Un uomo, un’opera biografica e autobiografica

157 Ivi, p. 35.


158 Ivi, p. 58.
159 M. A. Cruciata, Il soffio dell'interiorità, intervista a Oriana Fallaci, cit., p. 10.

38
assai complessa, in cui si dispiega «il punto massimo, nella poetica della Fallaci, della
concezione dell’eroismo».160

Era morto l’uomo che amavo e m’ero messa a scrivere un romanzo che desse senso
alla tragedia. Per scriverlo m’ero esiliata in una stanza al primo piano della mia casa
in Toscana ed era stato come infilarsi in un tunnel di cui non si intravede la fine, uno
spiraglio di luce.161

L’unico avvenimento che la portò ad interrompere momentaneamente il lavoro fu la


morte della madre, Tosca, nel 1977. L’uscita del romanzo, pubblicato nel 1979, fece
molto rumore e non mancarono le critiche e le peggiori, quelle più inaspettate,
furono quelle dei familiari di Panagulis, in particolare di sua madre Athena, la quale
disse che il romanzo distorceva i fatti. Scrivere un libro sulla morte dell’uomo amato
fu uno sforzo immane: non era abituata a perdere le persone che amava e la morte di
Alekos, anche se preannunciata, fu traumatizzante.
Protagonista del libro è un eroe in lotta con sé stesso e con il mondo, e se con l’eroe di
guerra la Fallaci ha mostrato il lato più brutale dell’uomo, qui invece riscatta la sua
dignità.
Il libro si compone di sei parti: la prima parte, la più lunga, ricostruisce la
testimonianza di Panagulis, dall’arresto alle sevizie subite, ed è l’unica parte in cui
non è presente la Fallaci che si inserisce come personaggio a partire dalla seconda
parte, la cui apertura vede il rilascio di Alekos e il loro incontro.
Nel 1967 la Grecia iniziò ad essere governata da un gruppo di militari anticomunisti,
oggi noto come Giunta, a seguito di un colpo di Stato guidato da alcuni colonnelli. La
dittatura dei colonnelli durò fino al 1974, quando venne restaurata una sorta di
democrazia. Tra i colonnelli protagonisti del colpo di Stato vi era Georgios
Papadopoulos, che subì un attentato nel 1968, che fallì e l’attentatore, Alexandros
Panagulis, fu arrestato. Durante la sua detenzione si rifiutò fermamente di
collaborare con la Giunta, coerentemente a quanto aveva fatto anni prima, disertando
il servizio militare proprio per i suoi ideali democratici. Dopo tre mesi passati di
disumane torture fisiche e psicologiche, venne condannato a morte e fu trasferito
sull’isola di Egina per l’esecuzione, che venne ritirata per due ragioni: per l’enorme
pressione da parte delle comunità internazionali e, di conseguenza, per evitare di
farne un martire. Da Egina venne spostato a Boiati dove, dopo due tentativi di
evasione andati male, venne rinchiuso in una cella d’isolamento costruita
appositamente per lui: una stanza di due metri per tre, battezzata la “tomba”, dove
rimase fino al 1973, anno dell’amnistia.
Venne scarcerato il 21 agosto 1973, e il giorno seguente incontrò la giornalista Oriana
Fallaci per rilasciarle un’intervista.

«Alekos, cosa significa essere un uomo?»

160 D. Bevilacqua, La prova più dura. Concetto e modelli di eroismo nella narrativa di Oriana Fallaci, cit., p.
62.
161 O. Fallaci, Intervista con il Potere, Milano, Rizzoli, 2009, p. 5.

39
«Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa
amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E
vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se. E per
te cos’è un uomo?»

«Direi che un uomo è ciò che sei tu, Alekos.»162

L’intesa tra i due fu immediata e anni più tardi Oriana rivelerà alla sua ultima
segretaria, Daniela Di Pace, che da quando incontrò Alekos a «fine agosto del 1973,
non si lasciarono più. Lei aveva visto in lui l’altra parte di sé stessa, […] insomma il
lato maschile di Oriana. Ebbe la consapevolezza di essere innamorata di Alekos
quando gli permise di invadere i suoi spazi […] si rese conto che rinunciare alla sua
solitudine anche in momenti in cui l’avrebbe voluta era un gesto d’amore
grandissimo». 163 Nei suoi occhi aveva visto il riflesso della morte e ciò le fece capire
che sarebbe stato un amore fatto di momenti indimenticabili e di tanta sofferenza. 164

Alekos Panagulis e Oriana Fallaci durante il loro primo incontro

Alekos, che non si era piegato alle torture della Giunta, diventa un eroe in Intervista
con la Storia, ma in Un uomo, come recita il titolo, prevale la sua dimensione umana,
fatta di paure, incertezze e debolezze, che dipendono dalla terribile esperienza della
condanna a morte. Alekos è un uomo che ha creduto nel popolo, nella libertà, un
amore viscerale per la libertà il suo, che gli fece sopportare le torture più impensabili.
Di queste torture, fisiche e psicologiche, l’autrice fa una descrizione dettagliata,
ricordando che ogni parte del suo corpo, ogni lembo della sua pelle, riconduceva ad
una violenza:165

162 Eadem, Intervista con la Storia, Milano, Rizzoli, 1974, p. 403.


163 D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 90.
164 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 169.
165 Cfr. ivi, p. 164.

40
La clava si abbatté sulle piante dei tuoi piedi. Una volta, due volte, decine di volte. La
falanga. La tortura chiamata falanga. Che male. Che dolore intollerabile. […] Ti
mettesti a gridare. E allora accadde qualcosa di peggio, accadde che Teofilojannacos ti
tappò la bocca perché tu non gridassi: la bocca e il naso. […] No, soffocare no. Non lo
sopporto. […] Svenire, mioddio. Fammi svenire, fammi riposare, fammi morire per
un po’, soltanto un po’.166

Alekos si rifiutò di raccontarle le sevizie sessuali:

[…] se ti ponevo domande precise, impallidivi e ti chiudevi in silenzio. Però di una


cosa non facevi mistero, dell’ago nell’uretra. Ti denudavano ti legavano al lettino ti
palpeggiavano il pene finché non si ergeva e, quand’era duro, ci infilavano un ago di
ferro: grande press’a poco quanto un uncinetto. Poi lo infuocavano con l’accendino e
l’effetto era identico a quello di un elettrochoc.167

Ciò che lo aiutò a restare lucido durante gli anni passati in completo isolamento fu la
poesia, in cui trovò consolazione. In seguito fu Oriana a curare la sua raccolta, Vi
scrivo da un carcere in Grecia, con la prefazione di Pier Paolo Pasolini.168 Sono, per lo
più, poesie legate alla morte, come la seguente:

Ho guadagnato una vita

un biglietto per la morte

e viaggio ancora.

In certi momenti

ho creduto d’essere giunto

alla fine del viaggio.

Mi sbagliavo.

Erano solo imprevisti

del cammino.169

Instaurata la pseudo democrazia, Alekos capì che doveva agire per la riconquista
della libertà, perché giustizia venisse fatta. Si diede come obiettivo primario quello di
diventare parlamentare, avventura in cui trascinò la sua compagna Oriana. Una lotta,

166 O. Fallaci, Un uomo, Milano, Bur Rizzoli, 2015, p. 43.


167 Ivi, p. 45.
168 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 167.
169 O. Fallaci, Un uomo, cit., p. 274.

41
quella col Potere, che lo spinse costantemente tra le braccia della morte, un passo
dopo l’altro, tanto che sembrò ricercare quell’incontro:

[…] un uomo che è stato condannato a morte, che ha vissuto tre giorni e tre notti
aspettando la morte, non sarà mai più lo stesso. Si porterà sempre la morte addosso
come una seconda pelle, un desiderio insoddisfatto. Continuerà sempre a inseguirla,
sognarla, magari ricorrendo al pretesto di nobili cause, doveri. Né troverà pace finché
non l’avrà raggiunta.170

Sprezzante del pericolo, si espose sempre di più, rivelando un sofferto travaglio


interiore, che aumentò in seguito alla perdita del bambino che Oriana portava in
grembo, dovuta alla colluttazione tra i due amanti.

[…] un combattimento sordo, muto, cattivo, […] l’unico suono è un ansimare


affannoso, una specie di rantolo, e d’un tratto una mazzata mi squarcia il ventre. Un
dolore acutissimo. […] La mia voce rompe il silenzio per dire ciò che ignori: «Il
bambino.»
Ti intirizzisti come colpito da una fucilata in mezzo alla fronte. Rimasi qualche
secondo a fissarmi con gli occhi sbarrati, le labbra dischiuse. Poi esalasti
l’invocazione. «Oh, Theòs! Theòs mu! Oh, Dio! Dio mio!». […] Ridevi, piangevi,
saltavi, ballavi, applaudivi. Non ti accorgevi nemmeno della mia sofferenza, infatti,
[…] con tenerezza, appoggiavi la testa al mio corpo, gorgogliavi buongiorno
bambino, […] tu non sai chi sono io, io sono te, non lo sai chi sei tu, tu sei me, sei la
vita che non muore. La vita, la vita, la vita. I zoì, i zoì, i zoì.171

Quando Oriana lo informò del tragico epilogo dovuto al loro litigio, esclamò: «Io
sono la morte. Io mi porto addosso la morte e la distribuisco». 172 Un bambino
avrebbe potuto rappresentare l'àncora di salvezza di Alekos, in grado di
riagganciarlo alla vita.
La Fallaci si approcciava in maniera assoluta all’amore, annullando sé stessa per la
persona amata. Come raccontò a Daniela Di Pace, per lui rinunciò a importanti
incarichi173 e si fece sostenitrice dei suoi ideali, divenne «una buona compagna.
L’unica compagna possibile».174 In questo romanzo, che è un dialogo, Oriana
confessa al suo interlocutore che non fu attratta dal suo corpo, che appariva come
una mappa di terribile sventure, quanto piuttosto dalla sua anima:

Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur
essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita […] ti amavo di un amore più forte del
desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che
ormai non potevo più concepire la vita senza di te. […] E l’amore esisteva, non era un

170 Ivi, p. 160.


171 Ivi, p. 244.
172 Ivi, p. 245.
173 Cfr. D. Di Pace, Con Oriana, cit., p. 90.
174 O. Fallaci, Un uomo, cit., p. 427.

42
imbroglio, era piuttosto una malattia. […] Ma un amore simile non era neanche una
malattia, era un cancro.175

Come osserva Nicoletta Corsalini, sono ben noti a Oriana sia il sentimento amoroso
che divora lo spirito, sia la violenza del cancro che devasta il corpo; lo stesso cancro
che le ha portato via le persone amate e che vivrà lei stessa. 176
Nel romanzo, che aveva iniziato a scrivere lo stesso Alekos, isolatosi a Firenze
insieme ad Oriana, che non terminò mai, poiché arrivando alla ventitreesima pagina
rimaneva bloccato dalla descrizione di una scena di morte, la sua, sono frequenti i
simboli, che si presentano per lo più sotto forma di sogno, a cui il protagonista affida
messaggi dai significati profetici; presentì che sarebbe stato inutile opporsi al destino
e non mostrò alcuna fretta il giorno del ritorno in Grecia dall’Italia. La scrittrice
conferma che fu l’ultima volta in cui lo vide in vita e quell’ultima volta si mostrò
particolarmente affettuoso. Cosciente di ciò che lo aspettava, le affidò i documenti
segreti che avrebbero incastrato i suoi carnefici e soprattutto i politici della corrotta
democrazia greca, che erano, in realtà, i rappresentanti della vecchia dittatura,
sorretta allora da Evangelos Averoff, il ministro della difesa.
Per questi documenti sacrificò la sua esistenza. Come aveva previsto, il ritorno in
Grecia gli fu fatale: fu ucciso nella notte tra il 30 aprile e il 1 0 maggio 1976 da due
sicari a bordo di due auto differenti, che inscenarono un incidente stradale. Una
morte violenta, improvvisa, lo portò via alla donna amata, agli amici, a sua madre
Athena, a suo fratello Stathis.
Al suo funerale furono presenti migliaia di persone, accorse ad Atene da ogni parte
della Grecia, una folla descritta come una piovra, come quella che apparve in sogno a
Panagulis: con i suoi tentacoli riempiva le strade della capitale greca. La piovra, per
Alekos, era la morte stessa. Un uomo è Alekos Panagulis che rivive attraverso la sua
biografia, così come lui aveva chiesto ad Oriana, la sua «buona compagna», biografia
che insegna che la libertà «prima che essere un diritto è un dovere». 177 L’intero
romanzo sembra essere un invito a risvegliarsi dal torpore, a valorizzare
l’individualità e la libertà di pensiero.178

Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo,
ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle
dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi
spaventa, da chi vuol sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge
perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro
cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile,
artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un
dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto.179

175 Ivi, pp. 349-350.


176 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 177.
177 O. Fallaci, Un uomo, cit., p. 12.
178 Cfr. D. Bevilacqua, La prova più dura. Concetto e modelli di eroismo nella narrativa di Oriana Fallaci, cit.,

p. 66.
179 O. Fallaci, Un uomo, cit., pp. 11-12.

43
Athena Panagulis e Oriana Fallaci durante i funerali di Alekos Panagulis

Dopo la morte dell'amato, Oriana si ritirerà a New York per elaborare il lutto.

44
Capitolo terzo
Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci

III.1 Trama di Lettera a un bambino mai nato: il dialogo

Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli
occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza:
sì, c’eri. Esistevi.180

La frase che apre il libro racchiude la consapevolezza del tutto femminile di una vita
che cresce nella vita. Una lunga lettera fatta di tormenti e paure, che diventa dialogo
per la presenza del tu. Il dilemma che si presenta immediatamente è: e se questo
bambino non volesse venire al mondo? A questa domanda la protagonista cerca di
rispondere in maniera indiretta, raccontando al bambino le sfaccettature della vita,
positive e negative. Lo fa raccontandogli fiabe, arrabbiandosi con lui, e con sé stessa,
cadendo spesso in contraddizioni. La protagonista è una donna dei tempi moderni,
indipendente e affermata, e confessa di non credere in Dio. Il padre del bambino è
una figura marginale, poiché abbandona la donna proponendole, inizialmente, in
maniera del tutto insensibile di interrompere la gravidanza. E la donna stessa crede
che vivere sia faticoso, paragona la vita ad una guerra continua, e perciò si chiede:
«Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che
non vuoi essere restituito al silenzio?» 181

Rimasta sola cerca ricavare risposte dal dialogo con il bambino a cui pone domande
ben precise:

[…] quando incomincia la vita? Dimmi, ti supplico: è davvero incominciata la tua? Da


quanto? […] Oppure quel momento deve ancora venire e sei solo un motore in
fabbricazione?182

Essendo atea, cerca di comprendere il mistero della vita tramite il figlio, rovesciando
su di esso la responsabilità della sua scelta. Gli chiede di darle un segno della sua
esistenza così come fece lei con sua madre:

180 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 5.


181 Ibidem.
182 Ivi, pp. 22-23.

45
La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di
altrui distrazione. E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell’acqua una medicina.
Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre,
e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via.183

Il segno, però, non arriva e lei decide di farlo nascere poiché non nascere, restare nel
nulla, è peggio di qualsiasi infelicità, 184 anche se ciò significa affrontare molti
problemi. Da donna sola e in carriera le si presenteranno non poche conseguenze per
questa scelta che va contro le convenzioni sociali, tuttavia la futura mamma è
convinta che la famiglia sia «una menzogna costruita da chi organizzò questo mondo
per controllare meglio la gente, sfruttarne meglio l’obbedienza alle regole» 185 e,
riferendosi a ciò che rappresenta la Sacra Famiglia, non concepisce come la società
possa davvero credere che una donna non possa crescere un figlio da sola:

Maria, Gesù, Giuseppe. Perché Giuseppe? […] A chi serve? Tira l’asino che non vuole
camminare? Taglia il cordone ombelicale e si accerta che la placenta sia uscita intera?
Oppure salva la reputazione di una screanzata che rimase incinta senza marito?186

Con il passare delle settimane inizia a nascere in lei la curiosità per il sesso del
bambino, perciò vaglia gli aspetti negativi e positivi sia dell’essere uomo che
dell’essere donna. Dopotutto, la differenza tra i sessi viene spesso ribadita sin dalle
prima pagine del romanzo, soprattutto per quanto concerne la loro sensibilità.
Vorrebbe che fosse una donna perché, nonostante «il nostro è un mondo fabbricato
dagli uomini per gli uomini» 187 e dovrà combattere molto, «battersi è molto più bello
che vincere».188 Tuttavia, sarebbe ugualmente felice se dovesse nascere uomo perché
saranno minori le umiliazioni, minori le paure, i giudizi, le fatiche, anche se ciò non
significa sottrarsi alle ingiustizie: «neanche per un uomo la vita è facile, sai». 189
Indipendentemente dal sesso, ciò che conta è avere cuore e cervello. La donna vuole
essere sincera non per spaventare il bambino, tutt’al più per non ingannarlo, poiché
la vita è un sentiero fatto di «sassi contro cui bisogna proteggerci con scarpe di
ferro»,190 talvolta inutili anch’esse.

Dopo aver cercato di spiegare e di sapere cos’è la vita, la donna arriva a parlare di
amore. Confessa al bambino che non sa, esattamente, cosa possa voler dire:

183 Ivi, p. 6.
184 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 140.
185 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 33.
186 Ivi, pp. 49-50.
187 Ivi, p. 10.
188 Ivi, p. 11.
189 Ivi, p. 12.
190 Ivi, p. 13.

46
Io la odio questa parola che è ovunque e in tutte le lingue. […] Infatti non so se ti
amo. Non penso a te in termini di amore. Penso a te in termini di vita. […] forse è
vero ciò che ha sempre sostenuto mia madre. L’amore è ciò che una donna sente per
suo figlio quando lo prende in braccio e lo sente solo, inerme, indifeso. […] E se
toccasse a te farmi scoprire il significato di quelle cinque lettere assurde? Proprio a te
che mi rubi a me stessa e mi succhi il sangue e mi respiri il respiro?191

La donna vede questo sentimento come l’annientarsi a favore di qualcos’altro, e


capendo che anche l’amore materno può diventare un vincolo, 192 promette al
bambino che apparterrà solo a sé stesso, poiché è stato lui ad imporre la sua
presenza, la sua decisione di venire al mondo. 193 La maternità, dopotutto, significa
anche aprirsi all’Altro, 194 disporsi ad accogliere il mistero di una vita nuova. 195 Ma
una vita che nasce non viene sempre accolta allo stesso modo, e la protagonista si
chiede il perché di questa differenza così assurda: «quando una donna annuncia di
essere legalmente incinta, tutti si mettono a farle festa e toglierle di mano i pacchetti e
supplicarla di non strapazzarsi, restare tranquilla. […] Con me rimangono fermi,
zitti, o fanno discorsi sull’abortire».196 Prima il padre del bambino, poi il medico che
le dà conferma della gravidanza cambiano atteggiamento alla notizia che non è
sposata. Allo stesso modo accade con il farmacista, il sarto e il commendatore.
Quest’ultimo, datore di lavoro della donna, che inizialmente sembra avere un
atteggiamento quasi positivo, dichiarando ammirazione per il coraggio di una tale
decisione, alla fine si rivela come gli altri, insistendo sul fatto che c’è ancora tempo
per cambiare idea: con una carriera ben avviata sarebbe un peccato buttare tutto in
aria «per un sentimentalismo». 197 Quindi la protagonista avvisa il piccolo, dicendogli
che «malgrado i discorsi sui tempi che mutano, una donna che aspetta un figlio senza
esser sposata è vista il più delle volte come una irresponsabile. […] Mai come una
mamma uguale alle altre».198

Dopo alcuni dolori che la donna accusa al ventre, il dottore le impone riposo forzato.
Costretta all’immobilità si dedica ancora di più all’iniziazione del piccolo alla vita,
fantasticando anche su soluzioni alternative:

Ecco, se un’altra donna ti ospitasse, ad esempio una vecchia per cui rimanere
immobile non costituisse uno strazio, nasceresti ugualmente e non starei qui a
tormentarmi. Fare bambini, in fondo, è un’impresa da vecchi. Sono così pazienti, i
vecchi. Ti offenderebbe essere trapiantato in un ventre che non è il mio?199

191 Ivi, pp. 15-16.


192 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 145.
193 Cfr. O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 27.
194 Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre, cit., p. 27.
195 Cfr. ivi, p. 29.
196 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 19.
197 Ibidem, p. 19.
198 Ivi, p. 18.
199 Ivi, p. 29.

47
E poi ci sono altre verità scomode di cui ritiene necessario informarlo: se nel suo buio
e in quel poco spazio gode di piena libertà, una volta nato non lo sarà più, ritenendo
che il mondo è fatto di schiavi e padroni. Il primo padrone, involontariamente e
inevitabilmente, sarà lei con le sue imposizioni, i suoi consigli. Una persona non può
provvedere da sola a sé stessa.200 La parola libertà è abusata quasi quanto la parola
amore secondo la protagonista, che cerca di spiegare come nonostante gli uomini si
battano per essa «a vincere è sempre il più forte, il più prepotente, il meno
generoso», 201 e lo spiega raccontando delle fiabe, che sono, in realtà, suoi ricordi
d’infanzia:

C’era una volta una bambina innamorata di una magnolia. La magnolia stava in
mezzo a un giardino e la bambina stava giornate intere a guardarla. […] Di fronte e
dintorno non c’erano case, solo un muro che si alzava ripido al lato del giardino e
finiva in una terrazza coi panni stesi ad asciugare. Si capiva quand’erano asciutti per
gli schiaffi che davano al vento e allora arrivava una donna che li raccoglieva dentro
una cesta e li portava via. Ma un giorno la donna arrivò e invece di raccogliere i panni
si mise anche lei a guardare la magnolia: quasi studiasse il modo di cogliere un fiore.
Restò lì molto, a pensarci, mentre i panni sbattevano al vento. Poi fu raggiunta da un
uomo che l’abbracciò. […] apparve un altro uomo: molto arrabbiato. Non disse nulla
ma era chiaro che fosse molto arrabbiato perché si gettò immediatamente sui due.
Prima sull’uomo che però fece un balzo e scappò, dopo sulla donna che incominciò a
correre tra i panni. Correva anche lui, per agguantarla, e alla fine l’agguantò. La
sollevo come se non pesasse e la scaraventò giù: sulla magnolia. […] e da quel giorno
la bambina crebbe convinta che per cogliere un fiore una donna dovesse morire.202

È fondamentale che il bambino comprenda ciò, soprattutto se sarà una donna. È


questione di sopravvivenza. È fondamentale che conosca l’ingiustizia «che divide chi
ha e chi non ha». 203 È fondamentale che sappia che «il mondo cambia e resta come
prima».204

Non voglio scoraggiarti, credimi, indurirti a non nascere: voglio solo dividere con te
la mia responsabilità, e chiarire a te stesso la tua. Hai ancora tempo per pensarci,
bambino, anzi ripensarci. […] Ti ho già chiesto se sei disposto a veder scaraventare
una donna su una magnolia, a veder piovere cioccolata su chi non ne ha bisogno. Ora
ti chiedo se sei disposto a correre il rischio di lavare le mutande degli altri e scoprire
che il domani è un ieri. Tu che te ne stai dove ogni ieri è domani, e ogni domani è una
conquista.205

200 Cfr. ivi, pp. 31-32.


201 Ivi, p. 36.
202 Ivi, pp. 35-36.
203 Ivi, p. 40.
204 Ivi, p. 46.
205 Ivi, pp. 45-46.

48
Vi è nuovamente un ribaltamento dei ruoli: come nella scena iniziale la madre chiede
al bambino, che è ancora un embrione, di riflettere sulla responsabilità di venire al
mondo. In seguito ad una minaccia di aborto, si infuria addirittura con lui:

Perché dovrei sopportare una tale agonia? In nome di cosa? Di un reato commesso
abbracciando un uomo? […] Oppure in nome della vita? E va bene, la vita. Ma cos’è
questa vita per cui tu, che esisti non ancora fatto, conti più di me che esisto già fatta?
[…] Non c’è umanità in te… Umanità! Ma sei un essere umano, tu? […] Il mestiere di
mamma non mi si addice. Io ho altri doveri verso la vita. […] Io non ti ammazzo, sia
chiaro: semplicemente, mi rifiuto di aiutarti ad esercitare fino in fondo la tua tirannia
e…206

Ciò che d’abitudine è un evento gioioso diventa, qui, un’altalena di accettazione e ira.
È ciò a cui si riferisce Recalcati quando afferma che

affinché l’utero materno possa ospitare la vita che viene al mondo, è necessario che vi
sia il desiderio da parte della madre di offrire questa ospitalità. […] Più precisamente,
se l’estraneità del corpo del bambino non suscita angoscia ma gioia è perché la sua
vita è attesa da desiderio della madre. Senza questa attesa, la vita rischia di essere
espulsa dalla vita, di venire alla vita come sprovvista di senso, come corpo
estraneo.207

La protagonista, andando contro il consiglio del medico ma con il consenso di una


nuova dottoressa, ritorna alla vita quotidiana intraprendendo un lungo viaggio
lavorativo durante il quale le si presenta la terribile sensazione che il bambino abbia
cessato di vivere:

Gli spasmi sono raddoppiati, non posso più guidare. Se trovassi un motel, se potessi
fermarmi, riposarmi. Col cervello più lucido, forse, scoprirei una soluzione per
salvare il salvabile: non buttare via la mia Luna. Non voglio perder di nuovo la mia
Luna, vederla sparire in fondo a un lavabo. Ma è inutile. Con la stessa certezza che mi
paralizzava la notte in cui sappi che esistevi, ora so che stai cessando di vivere.208

Con grande stupore, la dottoressa le dà conferma che il bambino ha smesso di


crescere, è morto. Il primo pensiero che riesce a formulare la protagonista è: «È
andata come doveva andare. Dunque ci vuole coerenza», 209 ma la sua fermezza si

206 Ivi, pp. 56-58.


207 M. Recalcati, Le mani della madre, cit., pp. 29-30.
208 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 68.
209 Ivi, p. 71.

49
sgretola in un pianto disperato che la pone di fronte ai suoi sensi di colpa. Sono
proprio questi che la inducono ad immaginare o sognare un processo: la donna in
una gabbia, sette sedie di fronte a lei su cui siedono i giudici che la proclameranno
colpevole o innocente. Il dottore, la dottoressa, il padre del bambino, l’amica della
donna, i suoi genitori e il commendatore, che stanno a rappresentare la società con le
sue leggi moralistiche.210

Apre il processo il dottore, accusando la donna di omicidio volontario, scaturito dal


suo rifiuto dei «doveri di madre», 211 ritenendola un’infanticida. Si scaglia anche
contro la dottoressa sostenendo che avrebbe dovuto esserci anche lei nella gabbia. Il
suo giudizio è dunque che è colpevole. La dottoressa controbatte che anche «la
guerra è un infanticidio di massa, rinviato di vent’anni», 212 e proprio per questo la
maternità è un miracolo solo se si svolge con naturalezza, spontaneità:

Se non procede in modo normale, non puoi chiedere a una donna di stare mesi e mesi
distesa in un letto come una paralitica. […] Lo esigi forse da un uomo che con quel
brivido gode altrettanto e forse di più? Evidentemente il mio collega non riconosce
alle donne il diritto che riconosce agli uomini: disporre del proprio corpo.213

Per la dottoressa la donna è non colpevole. Poi è la volta del padre del bambino che
non riesce a proferir parola, solo un esile «colpevole»214 che scatena l’ira dell’amica
della protagonista:

Tanto che vi costa la paternità? Un ventre sfasciato da un ingrossamento ridicolo? La


pena del parto, la tortura dell’allattamento? Il frutto della paternità vi viene
scodellato dinanzi come una minestra già cotta, posato sul letto come una camicia
stirata. […] Signor dottore, qui non si fa il processo a una donna: si fa il processo a
tutte le donne. Ho quindi il diritto di rovesciarlo su di lei e dirle: la maternità non è
un dovere morale. Non è nemmeno un fatto biologico. È una scelta cosciente.215

Il commendatore ammette che questa piega dei fatti andava a suo vantaggio, per
questioni lavorative, e «se la donna avesse accettato, lui l’avrebbe aiutata a disfarsi
dell’inopportuno». 216 Ma i giurati – uomini – che l’hanno preceduto hanno smosso la
sua coscienza, ribaltandola. Anche per lui “l’imputata” è colpevole.

210 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 151.
211 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 73.
212 Ivi, p. 76.
213 Ivi, pp. 77-78.
214 Ivi, p. 79.
215 Ivi, pp. 79-80.
216 Ivi, p. 81.

50
L’ultimo giudizio tocca ai genitori della donna, che esprimono un commovente
appoggio alla figlia:

Non tocca a noi giudicare. Né a voi. Non avete né il diritto di accusarla né quello di
difenderla. Perché non siete né dentro la sua mente né dentro il suo cuore. Nessuna
delle vostre testimonianze ha valore. V’è solo un testimone, qui, che potrebbe
spiegarci come sono andate le cose. Questo testimone è il bambino che non può…217

Per la prima volta entra in scena il destinatario di questo tormentato dialogo, il


bambino che però ha la voce di un uomo adulto, e questo porta la protagonista a
pensare: «Era un uomo, mi condannerà».218 Ma non la condanna, e nemmeno la
scagiona: ritiene che ogni giudizio dettato includa una verità, tuttavia di poco valore
di fronte alla sua testimonianza. È vero che non fu lui a chiedere di nascere, perché
«laggiù nel nulla non v’è volontà» 219, e fu attratto dalla prepotenza con cui sua madre
si approcciava alla vita, dalla sua fede in essa, però, d’un tratto, sentì crescere in lei
l’incertezza e la rabbia nei suoi confronti.

Non mi raccontasti mai che un fiore di magnolia si può cogliere senza morire, che un
gianduiotto si può mangiare senza umiliarsi, che il domani può essere meglio di ieri.
E quando te ne accorgesti era troppo tardi: mi stavo già suicidando. […] Ma io ti
perdono mamma. Non tornare al nulla con me. Nascerò un’altra volta.220

Il suo piccolo cadavere giace ancora nel ventre della donna, che non ha fretta di
sbarazzarsene, forse per l’abitudine a convivere con lui. Ora che può diventare di
nuovo padrona del suo corpo e della sua mente, non le sembra più così interessante
la prospettiva di vita del bambino.

Ecco un’ennesima realtà che hai perso l’occasione di scoprire nascendo, bambino: uno
si consuma per ottenere una ricchezza o un amore o una libertà, si affatica per
conquistare un suo diritto, e, quando lo conquista, non ne gioisce. 221

Vi è un serio rischio di setticemia, ma la donna si ostina tenere il feto dentro di sé,


fino a sentirsi male. Quando il feto viene trasferito in un barattolo di alcool, la donna

217 Ivi, p. 83.


218 Ibidem.
219 Ivi, p. 84.
220 Ivi, pp. 85-87.
221 Ivi, pp. 85-87.

51
si accinge a parlare per l’ultima volta con la creatura, colloquio cui si chiude il
romanzo:

Dove sei? Eri qui, mi sorreggevi, eri grande, eri uomo. E ora non ci sei più. C’è solo
un bicchiere di alcool dentro il quale galleggia qualcosa che non volle diventare un
uomo, una donna, che non aiutai a diventare un uomo, una donna. Perché avrei
dovuto, mi chiedi, perché avresti dovuto? Ma perché la vita esiste, bambino! Mi passa
il freddo a dire che la vita esiste, mi passa il sonno, mi sento io la vita. […]: la vita non
ha bisogno né di te né di me. Tu sei morto. Ora muoio anch’io. Ma non conta. Perché
la vita non muore.222

III.2 Come nasce Lettera a un bambino mai nato


Negli anni ’70 l’Italia stava intraprendendo, a piccoli passi, delle battaglie sociali: la
legge a favore del divorzio nel 1974, la rivoluzione sessuale, il ’68, la guerra in
Vietnam quasi giunta al termine. Tuttavia si restava educatamente attaccati all’idea
della famiglia tradizionale, questione tutt’oggi scottante. Una nuova morale di massa
veniva dettata dal femminismo che sopravviveva, però, sotto una cupola di
vergogna. Tema molto dibattuto in quegli anni era l’aborto, inteso da alcuni come
libertà femminile, e la parità tra marito e moglie nell’ambito della famiglia.
Tommaso Giglio, direttore di «L’Europeo», chiese a Oriana Fallaci di affrontare la
questione dell’aborto in un reportage. Le esperienze personali di Oriana la indussero
ad anticipare i tempi e l’idea, e ciò che ne venne fuori, non fu un reportage ma un
libro, un monologo, una lettera. Lettera a un bambino mai nato nacque in seguito alla
fine della tormentata storia d’amore con Alfredo Pieroni e al primo aborto. 223 Dalla
biografia Cristina De Stefano veniamo a conoscenza del fatto che ci furono altre
esperienze di aborto spontaneo:

In base alle testimonianze di familiari e amici e ai suoi stessi racconti possiamo dire
che è rimasta incinta almeno due volte e ogni volta ha perso il bambino: «È stata una
scelta del destino. Io non ho mai abortito. Li ho sempre perduti. […] Per me il
problema dell’aborto non è mai esistito. Il problema della pillola. Il mio problema è
sempre stato la pillola per farli, i bambini. E l’unica pillola per fare i bambini era una
tranquillità che non ho mai avuto.»224

La storia con Pieroni e l’aborto risalgono almeno al 1958, mentre Lettera a un bambino
mai nato venne pubblicato da Rizzoli nel 1975, quasi vent’anni dopo. La componente
autobiografica è evidente e la stessa Oriana ammise che «l’idea fiorì da un’esperienza

222 Ivi, p. 95.


223 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 136.
224 C. De Stefano, Oriana. Una donna, cit., p. 214.

52
personale»,225 ma non è solo l’aborto che accomuna l’autrice con la donna del libro.
Troviamo, ad esempio, ricordi d’infanzia di Oriana:

Il primo ricordo legato alla casa d’infanzia è un immenso albero di magnolie, nel
giardino, dai fiori profumati e bianchissimi. […] Di fronte c’erano un terrazzo e un
tetto. Una donna una volta va a stendere i panni con una cesta piena e gonfia. «Arriva
un uomo, parlano, si abbracciano, sono allegri, lei si mette a cantare… Poi arriva un
altro uomo, si scambiano battute concitate, litigano… un panno vola giù, proprio
sopra la magnolia».226

L’albero di magnolia rappresenta uno dei passaggi fondamentali in Lettera a un


bambino mai nato. Troviamo altri riflessi di Oriana, per esempio, nell’ateismo della
donna, e ancora in un’altra favola, quella di una «donna che sognava un pezzetto di
Luna».227

Gli uomini che andavano sulla Luna erano uomini sciocchi. Avevano sciocchi volti di
pietra e non sapevano ridere, non sapevano piangere. […] Eppure ce n’era uno che a
me sembrava migliore. […] Incontrandomi brontolava: «Cosa dirò lassù? Io non sono
un poeta, non so dire cose belle e profonde». Pochi giorni prima di andar sulla Luna
venne da me per salutarmi e chiedermi cosa dire sulla Luna. Gli risposi che doveva
dire qualcosa di vero, qualcosa di onesto, ad esempio che era un omino colmo di
paura perché era un omino.228

Potrebbe essere un riferimento alla sua esperienza con gli astronauti negli anni
Sessanta, e in particolare al suo amico Charles Conrad, Pete.

Tuttavia, la Fallaci chiarì che la donna del libro non era lei, ma le somigliava «come
può assomigliarle qualsiasi donna del nostro tempo che vive sola e che lavora e che
pensa», dichiarando, inoltre, che affinché «ogni donna potesse riconoscersi in lei, ho
evitato di darle un volto, un nome, un indirizzo, un’età». 229 Significativa è anche la
dedica che precede la trama:

A chi non teme il dubbio


a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma

225 M. Buttafava, Marina Buttafava intervista Oriana Fallaci, in «Oggi Illustrato», 6 ottobre 1975.
226 F. Felicetti, A Firenze, i bambini di Insciallah, in «Corriere della Sera», 21 dicembre 1990.
227 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 64.
228 Ivi, pp. 65-66.
229 M. Buttafava, Marina Buttafava intervista Oriana Fallaci, cit.

53
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne230

Lettera a un bambino mai nato non solo racconta le difficoltà affrontate dalle donne, in
particolare quelle nubili, in una società maschilista 231, ma racconta anche i pensieri
più torbidi che invadono la gestazione. Nell’intervista rilasciata a Marina Buttafava la
scrittrice descrisse il romanzo come «una tormentata storia d’amore tra una donna e
suo figlio». 232 Eros e Thanatos si accompagnano anche in questa vicenda, risolvendosi
nel valore assoluto dato alla vita.233

Giglio si infuriò parecchio quando Oriana gli confessò di non aver portato a termine
il reportage, e in un’intervista ammise che quel libro le era «scoppiato in testa come
uno starnuto» dopo che aveva riflettuto «sull’aborto, sul dilemma nascere o non
nascere».234 Fu in America che Oriana venne a contatto con il movimento femminista
e, anche se non ne fece un’ideologia, accolse il rifiuto della donna come oggetto
sessuale, del diverso trattamento riservato alle donne rispetto all’uomo nel mondo
economico, lavorativo e sociale in generale. In un Paese ancora troppo chiuso sui
valori perbenisti, un libro incentrato sull’aborto provocò scalpore e non poche
polemiche. Sia i conservatori che i progressisti si scandalizzarono poiché, come
evidenzia Lucia Annunziata, i primi temevano il rifiuto della maternità, mentre ciò
che spaventava i secondi era il sorgere spontaneo del sentimento materno, 235 perché
ciò che compie la Fallaci è un processo inverso: dal rifiuto all’accettazione:

[…] Oriana comincia dicendo al suo bambino «non ti voglio», invece di gioirne, come
tradizione vuole. Per arrivare poi, in un dialogo lacerante per sincerità e bellezza, ad
accettare la seduzione del figlio.236

Inevitabilmente il libro fu un ‘caso editoriale’, che suscitò l’interesse anche delle


donne impegnate in politica. Secondo l’Onorevole Nilde Iotti, vicepresidente della
Camera nel 1975, il libro descrive perfettamente «il dramma delle donne di oggi di
fronte alla loro vita, ai rapporti con l’uomo, alla maternità», 237 sostenendo al
contempo che il gran senso della vita che contraddistingue la protagonista porta la
stessa a vivere «in modo esclusivo, in grande solitudine». 238 La Senatrice Tullia
Carettoni Romagnoli, allora vicepresidente del Senato, considerò il “processo” alla

230 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 3.


231 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 142.
232 M. Buttafava, Marina Buttafava intervista Oriana Fallaci, cit.
233 Cfr. N. Corsalini, Oriana Fallaci. Amore, vita e morte nelle sue opere, cit., p. 155.
234 M. A. Cruciata, Il soffio dell’interiorità, intervista a Oriana Fallaci, cit., p. 11.
235 Cfr. L. Annunziata, Prefazione, in O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. XIII.
236 Ibidem.
237 L’opinione di tre donne parlamentari, in «Oggi illustrato», 6 ottobre 1975, in O. Fallaci, Lettera a un

bambino mai nato, cit., p. 107.


238 Ibidem.

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protagonista come «una aperta condanna dell’ipocrisia, dei luoghi comuni,
dell’egoismo e della superficialità maschile». 239 Infine, l’Onorevole Maria Eletta
Martini lo ritenne «un libro umanissimo, vero, con pagine cariche di delicatezza, di
volontà di vivere e di amare, di speranza e di disperazione, che, anche nel racconto
del delirio e delle favole, ha sempre qualcosa di molto alto da dire». 240

Nel ’93 Rizzoli pubblicò un cofanetto composto da quattro audiocassette in cui


Oriana Fallaci leggeva il suo libro, e una copia del volume. Questa trentasettesima
edizione contiene un cambiamento importante e significativo, seppure sia minimo,
del finale voluto fortemente dall’autrice: «Tu sei morto. Forse muoio anch’io. Ma non
conta. Perché la vita non muore» diventa: «Tu sei morto. Ora muoio anch’io. Ma non
conta. Perché la vita non muore».241 Oriana raccontò che il primo finale glielo suggerì
Alekos Panagulis, suo compagno tra il 1973 e il 1976, storia da cui ebbe un altro
aborto (come abbiamo detto, perse il bambino in un litigio con l’uomo). Oriana
affermò in un’intervista:

«[…]. Le bozze di Lettera a un bambino mai nato non furono corrette in Italia. Furono
corrette ad Atene, nell’appartamento-ufficio dove Alekos Panagulis abitava dopo
essere stato eletto deputato. E questo fu fonte di molti litigi perché Alekos pretendeva
di partecipare alle correzioni. Da buon poeta, e amando la metrica che uso dare al mio
scrivere, sosteneva ad esempio che il libro non andava pubblicato in prosa ma in
versi. Un pomeriggio trovai le bozze tutte scarabocchiate da barrette che
interrompevan le frasi, le trasformavano in versi. […] Oppure interveniva sui verbi,
sugli aggettivi, sulla punteggiatura… non sapevo più dove nasconderle, quelle bozze.
Una volta, uscendo di casa, le ficcai dentro una pentola. E lui le trovò anche lì. Ma,
soprattutto, non gli piaceva il finale. Cioè il fatto che la donna morisse. […] inutile
spiegargli che quella morte rientrava nella logica del racconto […]. Quando giunsi
all’ultima bozza, mi accorsi che aveva cancellato la frase ora-muoio-anch’io. E mi
arrabbiai di brutto. […] M’era parso un atto di violenza, una mutilazione della mia
creatura. […] la sua difesa della vita era così commovente, così esaltante. Capitolai e
pubblicai il libro con la sua frase. Un atto d’amore. […]».242

Così nel testo troviamo l’eco del loro amore. Ma l’autrice non si è mai riconosciuta in
quel forse, e prestando la sua voce al brano gli restituì il finale che concepì sin
dall’inizio. Nella stessa intervista che rilasciò a Francesco Cevasco, Oriana rivelò che i
capitoli più difficili da leggere furono il primo e l’ultimo capitolo: il primo perché
non riusciva a trovare l’intonazione più adatta alle parole che aprono il libro:
«Stanotte ho saputo che c’eri».243 Il motivo per cui le risultò difficile la lettura
dell’ultimo capitolo, dell’ultima scena, era un motivo più personale:

239 Ibidem.
240 Ibidem.
241 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 95.
242 F. Cevasco, Francesco Cevasco intervista Oriana Fallaci, in «Corriere della Sera», 21 settembre 1993.
243 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, cit., p. 5.

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[…]. Sono malata, insomma, e più di quanto racconti agli altri o a me stessa. […] E
dover leggere quel capitolo, quel finale, mi innervosisce. La notte prima di leggerlo
non dormii. […] Fu come leggere la mia morte.244

244 F. Cevasco, Francesco Cevasco intervista Oriana Fallaci, cit.


56
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Ringraziamenti
Grazie ai miei genitori, Nadia e Tonino, i cui sacrifici mi hanno permesso di coronare
questo piccolo traguardo, spronandomi a desiderare sempre il meglio per me sessa.
Ringrazio anche il resto della mia famiglia, i miei fratelli Marco e Andrea, mia
cognata Morena, per il continuo supporto, mio zio Mario.

Grazie a mia sorella Rosanna, pilastro fondamentale della mia vita; per avermi
sopportata, per aver sempre creduto in me, per avermi protetta, a volte, come una
mamma. Soprattutto, la ringrazio per la nostra complicità. Grazie sister.

Grazie a mio zio Antonello, insostituibile e costante nella vita dei suoi cari nipoti, un
secondo padre. Una persona dal cuore buono e gentile, a cui viene naturale voler
bene.

Grazie ai miei nipotini, Giorgio e Michael, che riempiono la mia vita di una gioia
infinita e indissolubile.

Grazie a quei colleghi che hanno lasciato un segno positivo su questo percorso
universitario. E mi rivolgo, in particolare, a Carolina con cui ho condiviso gioie,
dispiaceri ed esperienze, ma soprattutto un’amicizia fatta di stima. Mi rivolgo anche
a Mariangela, in cui ho trovato un’amica leale dai dibattiti interessanti, dispensatrice
di buon umore.

Grazie alle amiche di una vita: Chiara, Giusy, Luigia, Jessica e Marika con cui ho
condiviso gli anni più belli ed esperienze incancellabili. Il nostro rapporto insegna
che nemmeno il mare riesce a separarci e alla fine torniamo più unite di prima.

Merci à la Famille Kleber - Céline, Sébastien, Yanis et Gaëtan – qui m’ont offert
l’expérience milleure de ma vie et sans laquelle, en toute probabilité, je ne serais pas
ici. Merci beaucoup.

Infine, il più grande ringraziamento va al mio ragazzo Amine, esempio di


determinazione, che più di tutti ha creduto nelle mie capacità. Ha sopportato i miei
malumori, ha festeggiato i miei traguardi, ha curato le mie tristezze e mi ha guidato
nelle decisioni. Grazie di cuore.

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