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LA DONNA

NELL’ANTICHITÀ
Archeologia e storia
della condizione femminile
dalla Preistoria al Medioevo

a cura di Carlo Casi


Con la collaborazione di:

SOPRINTENDENZA
ARCHEOLOGICA DEL LAZIO
E DELL’ETRURIA MERIDIONALE

© 2016
Tutti i diritti letterari ed artistici sono riservati.

Editrice LAURUM
Via Brodolini Trav. A, 27
58017 Pitigliano (Gr)
www.editricelaurum.it
info@editricelaurum.it

ISBN: 978-88-

Collana: Kronos

In copertina: “Le Dame” di Cnosso (Isola di Creta)


Questo libro è dedicato a Maria, Sara e Beatrice,
e a tutte le donne che hanno lottato,
che lottano e che lotteranno per un mondo migliore.
La storia dell’Italia non sarebbe stata la stessa senza il
ruolo determinante delle donne: donne dei “margini” e
donne “speciali”, così come le definisce Giampiera Arrigoni
nell’importante volume Le donne in Grecia, che rappresenta, a
trent’anni dalla sua edizione, un caposaldo nella ricostruzione
del ruolo delle donne nell’Antichità.
Più in generale, in tutto il Mediterraneo antico le donne han-
no sempre rappresentato un preciso riferimento per il dialogo tra
culture diverse e dunque un fattore decisivo per il progresso delle
civiltà. Questo fenomeno riguarda essenzialmente le donne “spe-
ciali” appartenenti alle classi preminenti che diventano strumen-
to di alleanze con “lo straniero” attraverso politiche matrimoniali:
emblematico è il caso, narrato dalle fonti letterarie, del corinzio
Demarato, che dopo aver a lungo frequentato i porti dell’Etruria,
essendosi instaurata a Corinto la tirannide dei Cipselidi, si
trasferisce a Tarquinia sposando una nobile donna del luogo.
Spesso dunque i rapporti di amicizia (philia) sono suggellati da al-
leanze matrimoniali. Non solo dai racconti degli scrittori antichi,
ma anche dalle testimonianze archeologiche emergono figure di
donne “speciali”, come quella sepolta a Vulci nel IX secolo a.C.
con un ricco corredo che eccezionalmente conserva tre bronzetti
nuragici, a testimoniare le relazioni tra le diverse culture del Tir-
reno e il ruolo attivo della donna nei rapporti di scambio. Le don-
ne infatti si rivelano più aperte all’introduzione di nuovi modelli
culturali, in quanto non condizionate dall’esigenza di consolidare
una tradizione che è espressione del potere.
Merito di questo volume, curato da Carlo Casi e che si
caratterizza per complessità di contributi e rigore scientifico,
è di fornire uno stimolo per la futura ricerca archeologica in
Italia e, in particolare, in Etruria. È proprio grazie alla collab-
orazione con Carlo Casi, che qui ringrazio, che la Soprinten-
denza ha effettuato importanti scoperte archeologiche relative
a questo tema: da una tomba a camera femminile di Vulci, la
Tomba delle Mani d’Argento, lembi di tessuti, ornamenti, va-
sellame delineano la figura di una “principessa” del VII secolo
a.C. e il suo ruolo di rilievo nella comunità di appartenenza.

Alfonsina Russo Tagliente


Soprintendente per l’Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale
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Le donne sono comunque e sempre un tema attuale, anche
quelle del mondo antico, anche quelle che hanno lasciato testimo-
nianze, quotidiane oppure strabilianti, della loro personalità e del
loro sapere, comunque della loro esistenza.
Quanti operano nel mondo dell’arte, del restauro, della ri-
cerca archeologica e della scoperta scientifica, sanno che un tema
quale quello delle donne dell’antichità è un fiume di immagini,
oggetti e reperti che, sotto le cure delle mani sapienti degli “ad-
detti ai lavori” e attraverso le parole delle menti curiose, vivaci ed
interessate di chi ama comunicare, si trasformano in sensazioni ed
emozioni. Come in questo libro, dove gli autori hanno affrontato
il tema della donna nel mondo antico sotto diversi punti di vista e
da diverse prospettive: sono state indagate epoche diverse, luoghi
lontani e condizioni sociali differenti per giungere a ricostruire più
che fatti storici, le vibrazioni della loro vita.
Si scriverà, fortunatamente, ancora ed ancora sul mondo delle
donne, ma senza illudersi! Non si giungerà mai a scoprire per in-
tero il loro affascinante universo. Eppure sarà, in ogni caso e con
certezza, una nuova e continua scoperta.

Luigi Sepiacci
Direttore Accademia di Belle Arti “Lorenzo da Viterbo”

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Prefazione

D
a bambina divoravo libri d’avventure nei
quali i protagonisti erano solo uomini e tutti
correvano rischi terribili.
Erano sempre sul punto di cadere in qualche agguato,
di essere bolliti in enormi pentole, passati a fil di spada,
privati della cotenna, impalati, impiccati, fucilati, (…).
Ma gli andava sempre bene.
Qualche volta c’era un personaggio femminile, in
queste storie, ma era del tutto marginale. Aspettava
soltanto, sognando il ritorno dell’eroe. La storia im-
portante era una storia di uomini e le donne erano solo
un’appendice trascurabile.

Elena Gianini Belotti

Lo stato delle donne è peggiorato dal potere dispotico


dell’uomo;
secca il tronco se si scempiano i rami
e giù cadono gli alberi se si taglia via la radice

Canzone groenlandese di Attila, 1100 circa


(trad. P. Scardigli, M. Meli)

Singolare, plurale

Questo libro, in ossequio a una consolidata consuetudine,


è intitolato La donna nell’antichità. L’uso di quel singolare sem-
brerebbe riportarci a quella tradizione di studi a carattere anti-
quario che, prima dell’avvento della storia quantitativa, della
storia sociale, della storia di genere erano la sede per tutto ciò
che riguardava usi, costumi, istituzioni, vita quotidiana e, di
conseguenza, la destinazione naturale per quelle ricerche che

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avevano per oggetto coloro che, esclusi in modo più o meno
radicale dalla vita pubblica, hanno lasciato solo tracce indi-
rette: donne, bambini, schiavi... L’insieme dei contributi di
questo libro, scritto in gran parte da archeologi, restituisce al
contrario un’immagine non antiquaria ma varia e aggiornata
e recupera quell’ottica plurale che sola ci può far avvicinare
ai mondi delle donne antiche. L’archeologia, d’altra parte, è
una scienza che, attraverso le fonti materiali, riesce a dare una
voce, sia pure flebile, sia pure indiretta e spezzata, ai soggetti
subalterni: gli spazi delle abitazioni, gli strumenti e i luoghi di
lavoro, i riti funerari, le testimonianze di credenze e di culti, le
rappresentazioni figurate, ma anche le ossa umane e animali e
i resti paleobotanici restituiscono informazioni sull’identità et-
nica, sui ruoli nella famiglia e nella società, sui livelli di censo,
sulla disponibilità e la qualità del cibo, sull’aspettativa di vita
e sulle cause di morte.

Nei periodi più antichi, e nella preistoria in primo luogo,


resta in ogni caso difficile ricostruire quadri coerenti relativa-
mente alla vita delle donne. Lo dimostra bene il primo testo di
Carlo Casi che tenta una sintesi a dir poco coraggiosa su pre-
istoria e protostoria, muovendosi lungo un arco cronologico
da vertigine: dall’australopiteco Lucy ai poemi omerici. Il ri-
corso a un ricco corredo di confronti etnografici permette di
verificare i possibili rapporti fra azioni e resti materiali, mentre
appare prudente – come fa notare Casi – non spingere troppo
nel senso di trasformare somiglianze in identità interpreta-
tive. La soggezione delle donne appare tuttavia una costante,
sia pure in forme e misure diversissime, per tutto il periodo
considerato; all’ipotesi un po’ positivista che vede il ruolo sot-
tomesso delle donne legato alla minore forza fisica e attitudi-
ne alla guerra si affianca con chiarezza un’altra motivazione
centrale: la necessità da parte della componente maschile già
nelle comunità pre- e protostoriche di assicurare la continu-
ità del gruppo attraverso il controllo della fecondità, cioè delle
donne. Se situazioni radicalmente differenti e lontanissime nel
tempo – nel Paleolitico in un quadro dominante di predazione,
nel Neolitico con il passaggio all’agricoltura e all’allevamento,
nelle età dei metalli in contesti sociali sempre più complessi e
caratterizzati da una dominante attività bellica – restituiscono
in gran numero figure femminili, plastiche, dipinte o graffite,
dai caratteri sessuali più o meno accentuati o esplicitamente

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incinte, è evidente l’importanza sociale della fertilità delle
donne, responsabili della riproduzione della comunità. Ma c’è
un ulteriore dato che, con infinite varianti nel tempo e nello
spazio, si deve sottolineare: le donne, portatrici del mistero del
ciclo mestruale, del concepimento e della nascita, in tempi più
e meno remoti hanno rappresentato l’irrazionale da tenere sot-
to controllo. Questo ha assicurato alle donne spazi importanti
nel culto, che erano spesso anche spazi di libertà, come è am-
piamente dimostrato dalle fonti di età storica. Negli altri campi
della vita invece la soggezione era la norma: la necessità de-
gli uomini di assicurarsi la certezza della propria discendenza
impose il controllo delle donne. Quando questo sia accaduto
è difficile dirlo, ma già nella protostoria, quando la trasmis-
sione del potere e poi l’affermazione della proprietà privata
acquistarono un ruolo cruciale nei gruppi sociali, la situazione
delle donne doveva essere già definita nel senso che abbiamo
già detto. Si tratta di fenomeni che in età storica sono già in
atto e che si possono leggere nel sistema onomastico, patrilin-
eare e gentilizio, che si afferma fra i popoli italici. L’immagine
della giovane vedova sacrificata con il cranio sfondato nella
tomba del marito, insieme con il cane, presumibilmente sacrifi-
cato anch’esso (Tomba della Vedovella, necropoli di Ponte San
Pietro, Ischia di castro, VT), pur essendo un unicum nel pan-
orama dell’Eneolitico italiano, testimonia con una evidenza
che colpisce ancora oggi lo status della donna come proprietà
del marito.
Carlo Casi conclude con l’immagine delle donne omeriche
che, anche se figlie sorelle e mogli di principi, dedicavano le
loro giornate alla filatura e alla tessitura. Su questo tema sarà
necessario tornare in conclusione.

etrusche

Passando a età più recenti è d’obbligo ricordare la sorte che


la storia ha riservato alle donne etrusche: vittime della faziosità
e dello sciovinismo degli scrittori greci, spesso abituati alla tran-
quillizzante pratica di segregare le donne nel gineceo, le etrus-
che appaiono, nonostante il progresso negli studi, ancora sfug-
genti e certamente più enigmatiche dei loro conterranei maschi.
I documenti a nostra disposizione sono in modo pressoché es-
clusivo archeologici: rappresentazioni figurate, testimonianze di

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culti, resti di case e tombe, cultura materiale illustrano, spesso
da angolazioni del tutto parziali, aspetti e momenti della vita
delle donne. Ma le voci che ci giungono ancora oggi rischiano
di essere sovrastate dall’eco di quelle duecento parole di Teo-
pompo, responsabili di aver inquinato per millenni la percezione
dell’immagine delle donne etrusche.
Se poi consideriamo che la storia degli etruschi si è svilup-
pata su un arco di tempo di circa mille anni, l’insufficienza dei
dati appare sconfortante: la condizione della donna deve essere
stata influenzata profondamente dai mutamenti politici e so-
ciali talvolta drammatici che hanno caratterizzato l’Etruria nel
lungo periodo (si pensi solo al passaggio epocale dalla protos-
toria alla storia, con l’abbandono di una organizzazione tribale
della società, l’affermazione della proprietà privata e la nascita
dei centri protourbani e poi delle città), ma di tutto questo ci è
giunto solo un quadro frammentario e approssimativo.
Ogni ricostruzione troppo ambiziosa è perciò tuttora un
rischio, e dobbiamo accontentarci di poche risposte certe e
di molte domande ancora senza riscontro. La chiave scelta
da Simona Rafanelli, nell’affrontare l’argomento, è prudente
e corretta: l’integrazione fra fonti latine e greche (a partire
dall’ineludibile Teopompo) e documentazione archeologica e
il confronto con mondi vicini agli etruschi ma più noti, fanno
da filo conduttore nell’esame delle testimonianze più dispa-
rate - dall’abbigliamento alla cucina, dalla capacità giuridica
alla gestualità all’onomastica - e distribuite lungo un periodo
che va dall’età arcaica di Tanaquilla, moglie di Lucumone-
Tarquinio Prisco, al II secolo a.C. della dama chiusina Larthia
Seianti.
Alla fine della rassegna, la folla di immagini di coppie dis-
tese a banchetto, dal Sarcofago degli Sposi di Cerveteri alle
scene rappresentate nella pittura funeraria di Tarquinia, carat-
terizzate dal reciproco atteggiamento affettuoso e protettivo,
riesce forse a mettere a tacere Teopompo che, evidentemente,
non era in grado di capire e apprezzare relazioni fra uomo e
donna basate sull’amore e sulla possibilità di condividere
momenti importanti della vita. Anche l’insinuazione che gli
etruschi allevassero tutti i bambini ignorando chi ne fosse il
padre potrebbe significare che gli etruschi non praticassero
l’infanticidio alla nascita, tanto diffuso nel mondo greco e ro-
mano.

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Distanza

Nell’area mediterranea - e in Italia soprattutto - il mondo


antico appare vicino e familiare: monumenti, opere d’arte, cul-
tura materiale sembrano ribadire continuamente la profondità
e la robustezza delle radici della nostra civiltà. Questa certezza,
che pure si basa su dati storici incontrovertibili, nasconde però
il rischio di farci esaltare acriticamente i punti di contatto fra
noi e i nostri antenati, perdendo di vista il distacco, la distanza
incolmabile che da quel mondo irreparabilmente ci divide e
che mette in pericolo la possibilità stessa di una comprensione
totale del mondo spirituale degli antichi. “La permanenza ap-
parente di parole e di tipologie relazionali nasconde ad ogni
passo un inganno. L’uso dei medesimi nomi - da una parte e
dall’altra - non serve a designare le medesime cose. L’’amore’
degli antichi non è il nostro amore. Non la loro la nostra ‘pietà’
o la nostra ‘amicizia’, o il nostro esser padri, e figli, e mogli, e
mariti e cittadini. Nemmeno la loro ‘ira’ è la nostra. Né il loro,
il nostro paesaggio interiore” (A. Schiavone, Perché non siamo i
sosia degli antichi, La Repubblica, 10 gennaio 2001).
Quando si affrontano temi legati al mondo delle donne
queste cautele sono ancora più necessarie. Il desiderio di con-
oscenza non deve portarci a semplificare nel tentativo di av-
vicinare a noi il passato: le opere di divulgazione, ma anche,
talvolta, i musei e le mostre cadono in questo errore con il solo
effetto di rafforzare le idee preconcette nel pubblico. Questo
procedimento si rivela rassicurante (“Proprio come noi!”) ma
contribuisce a diffondere immagini false dell’antichità.

Misoginia

L’ avvertenza appena espressa non implica tuttavia una inco-


municabilità assoluta fra noi e i nostri predecessori, anzi. Talvolta
le parole che ci giungono dal passato appaiono fin troppo famil-
iari; è il caso ad esempio della tradizione misogina che attraversa
le letterature classiche: da Esiodo a Simonide, dai presocratici a
Aristotele, da Euripide a Aristofane, alla Commedia Nuova e a
Luciano, da Catone a Lucilio, da Seneca ai Padri della Chiesa –
un elenco, sia ben chiaro, senza alcuna pretesa di completezza –
i pregiudizi contro le donne e il matrimonio sono stereotipi che
non sembrano passare mai di moda. La satira VI di Giovenale è,

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in questo contesto, forse il documento più esteso e significativo:
Giovenale la scrisse per dissuadere l’amico Postumo che aveva
deciso di sposarsi, ma è anche l’occasione di esprimere il rimpi-
anto per quel periodo in cui la cultura ellenistica non aveva an-
cora corrotto i costumi dei Romani, un topos letterario presente
nella cultura e nella letteratura latina almeno da Catone a Rutilio
Namaziano. Per Giovenale “la malvagia psicologia femminile”
diventa la “metafora dello sconquasso subito dalla società ro-
mana” (Giovenale, Satire, a cura di G.Viansino, Milano 1990), una
società in cui il denaro e il lusso avevano allontanato le donne dai
ruoli tradizionali e svirilizzato gli uomini.
L’argomento ispirò a Giovenale il più lungo dei suoi com-
ponimenti: la VI satira conta infatti 661 versi. Qui se ne ripro-
pongono solo una trentina, che pur non contenendo i brani più
crudi, danno un’idea dell’atmosfera dell’opera e conservano,
ai versi 347-8, una delle più note e utilizzate citazioni latine
(Quis custodiet ipsos custodes?).

Io ti credevo saggio: eppure, Postumo mio, prendi moglie!


Dimmi, è la furia Tisìfone con le sue serpi che ti ha reso pazzo?
Con tutte le corde a disposizione,
con tante finestre spalancate lassù da dare le vertigini,
con il Ponte Emilio a due passi,
ti senti di sopportare una moglie?
Ma se fra tanti modi non c’è il suicidio che cerchi,
non ti sembra comunque preferibile portarti a letto un ragazzino?
(…)
Ma se hai la sventatezza di sposarti,
di votarti anima e corpo a una donna sola,
allora giù la testa e preparati al giogo.
Non ne troverai una che rinunzi a tormentare chi l’ama.
(…)
Da dove vengano tali mostruosità, questo vuoi sapere?
Una condizione modesta garantiva un tempo la castità
delle donne latine; le distoglievano dal contagio dei vizi
una casa minuscola, la fatica, il poco sonno,
le mani rovinate dalla lana etrusca,
Annibale alle porte di Roma e i mariti in arme alla Porta Collina.
Ora ci toccano i mali di una pace troppo lunga:
più funesta della guerra incombe su di noi la lussuria
a vendicare il mondo che abbiamo sottomesso.
(…)

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Miei vecchi amici, lo so, da sempre mi dite:
‘Metti il catenaccio e chiudila in casa!’.
Ma chi custodirà poi i custodi?
Mia moglie è prudente e comincerà proprio da quelli.
Nobili e plebee sono tutte affamate di sesso:
quella che batte il sudicio selciato non è migliore
dell’altra che si fa portare a spalle da schiavi siriani.

Giovenale, Satire, VI, vv. 28-34, 206-208, 286-293, 346-352


(trad. M. Ramous, con modifiche).

E qui viene naturale rinviare al testo di Alessandra Lazzer-


etti che con puntiglio esamina la controversa figura di Agrippi-
na Minore, madre di Nerone, rileggendo le fonti e la storiogra-
fia contemporanea nel tentativo di rintracciare echi di quella
autobiografia che questa donna di potere sentì il bisogno di
scrivere per salvaguardare la propria immagine, tramandando
la sua versione dei fatti. Per sua e nostra sfortuna nulla di quel-
la opera ci è pervenuto, ed è facile pensare che il pregiudizio
abbia reso impossibile la tradizione degli scritti autobiografici
di Agrippina.
Ma tornando a Giovenale, va infine considerato, per contes-
tualizzare ulteriormente le sue parole inquietanti, che i primi
due secoli dell’età imperiale avevano prodotto un profondo
mutamento nella morale pagana e quindi nei rapporti fra uomo
e donna. Con il principato la figura del paterfamilias, capo incon-
trastato e onnipotente del gruppo familiare, subì un forte ridi-
mensionamento. L’esistenza di un potere nuovo limitava infatti
la tradizionale arroganza e autorità del paterfamilias riducendolo
alla posizione di suddito e funzionario imperiale, uguale e non
più in antagonismo con i suoi parigrado. Le regole etiche dif-
fuse dagli stoici e dal cristianesimo poterono così attecchire in
una società dove già autonomamente si diffondeva un bisogno
di rispettabilità e di rassicurazione e dove una nuova morale di
coppia cominciava timidamente ad ammettere fra gli sposi la
fedeltà e il rispetto reciproco, la comunione di intenti, l’affetto.
Alla fine del II secolo d. C. l’affermazione delle nuove regole
di vita aveva portato vantaggi alle donne, che però restavano
giuridicamente subordinate ed escluse da qualsiasi attività pub-
blica. L’affermazione definitiva del Cristianesimo fu poi accom-
pagnata da un cambiamento della visione cristiana, in origine
paritaria, dei rapporti uomo-donna. Le donne andavano guar-

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date con diffidenza; erano inferiori, fragili, infantili, ma soprat-
tutto erano tentazione e peccato: “Tu sei la porta del diavolo”
scrive Tertulliano in un famoso passo dell’opera Sugli ornamenti
delle donne. Il matrimonio di conseguenza è un male da consi-
gliare solo ai deboli, come già aveva affermato lapidariamente
San Paolo.
Tutto considerato, la cultura romano-pagana non era mai
stata così misogina.

Una conclusione legata a un filo

Un filo di lana percorre buona parte dei testi di questo libro:


dalle donne omeriche (Ettore ad Andromaca: “Ritorna a casa,
occupati dei tuoi lavori, del telaio, della conocchia...”), alle
etrusche (Tanaquilla “summa lanifica”), alle romane (“domum
servavit, lanam fecit”, “pudica, lanifica, domiseda”), l’impegno do-
mestico quotidiano era quello della filatura e della tessitura,
che veniva diretto e coordinato dalla domina, a sua volta par-
tecipe in prima persona del lavoro. Lucrezia, moglie di Tar-
quinio Collatino, destinata a un tragico suicidio dopo aver
perso, senza sua colpa, l’onore a seguito della violenza di Sesto
Tarquinio, si fa sorprendere, nel testo di Livio, mentre a notte
fonda, alla luce delle lucerne, continua a filare nell’atrio della
sua casa insieme con le sue schiave. Potremmo aggiungere, ci-
tando di nuovo Giovenale, “con le mani rovinate dalla lana
etrusca”.
La produzione domestica di filati e di tessuti è una costante
di lunga durata nel mondo antico, e non c’è da meravigliarsi
nel trovare questo tema così ossessivamente presente e non
solo nella letteratura e nelle iscrizioni: oltre alle rappresentazi-
oni sul trono di legno di Verucchio o sul tintinnabulum di Bo-
logna (per il periodo etrusco) oppure, molto più tardi, a Roma
sul fregio del foro di Nerva, bisogna ricordare la frequenza con
cui in qualsiasi scavo di abitato si trovino a centinaia i pesi da
telaio e a decine le fuseruole, talvolta caduti nel luogo stesso
dove per anni ignote donne avevano perso la vista notte e gior-
no a filare e tessere.

Ma c’è forse un altro filo che unisce molti dei testi di questo
libro. Lo possiamo riconoscere nella già sottolineata importanza
delle donne nella riproduzione e nella perpetuazione nel tempo

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del gruppo etnico o sociale di appartenenza. I figli, futuri sol-
dati o potenziale forza-lavoro, principi ereditari o schiavi, erano
la materia prima per la costruzione di qualsiasi sopravvivenza,
che si parli dei nomadi paleolitici, dei contadini neolitici, dei
guerrieri dell’età del Bronzo, degli etruschi, dei Romani alla
conquista del mondo. Gli ex-voto che invadono l’Italia centrale
fra IV e II secolo a.C., attribuibili a contadini etruschi e italici ma
anche a coloni romani inviati a romanizzare territori incogniti e
ingrati, ripetono all’infinito l’alfabeto della fertilità: uteri, falli,
mammelle, bambini in fasce con cuffie e amuleti. Accumulati nei
pressi di sorgenti di acque salutari o accanto alle grotte lattaie,
talvolta frequentate ininterrottamente dalla protostoria all’età
contemporanea, dove lo stillicidio dell’acqua ricordava per
magica analogia il fluire del latte materno, dimostrano l’eterna
ansia per la sopravvivenza della prole, sia pure destinata a una
vita di fatica e incertezza.
Viene da chiedersi: le società antiche e preindustriali, ap-
prezzavano forse il ruolo della donna come unico tramite della
riproduzione più della attuale? Verrebbe naturale rispondere di
sì dopo aver letto le storie narrate in un recente libro (C. Valen-
tini, O i figli o il lavoro, Bari 2011) in cui si dimostra come oggi, nel
2015 d.C., una intera generazione di donne sia posta di fronte a
un aut aut innaturale e crudele, mentre la società sembra subire
questo danno collettivo senza averne coscienza, né reagire.
Ma anche questo rischia di essere un tentativo di ras-
sicurazione privo di giustificazione storica: la coscienza
dell’importanza della riproduzione non indica in modo au-
tomatico che il ruolo delle donne fosse valorizzato. Anche
nell’antichità le cose, per le donne, non erano mai così semplici
come ci piacerebbe immaginare.

Mariagrazia Celuzza
Direttrice Museo Archeologico e d’Arte della Maremma

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ParTe PriMa
iL TeMPo
La PreiSToria DeLLe Donne
di Carlo Casi

“L
’evoluzione umana è stata sempre letta attraverso il
ruolo dell’uomo cacciatore: la creazione di armi ed
utensili per catturare e macellare le prede; l’appren-
dimento della postura eretta, necessaria per scorgere la preda al
di sopra della savana, rispetto agli animali, il suo successo nella
caccia perché collaborava con altri uomini, apprendendo così il
valore della cooperazione. E che cosa faceva la donna nel frattem-
po? Rimaneva forse seduta in casa a girarsi i pollici, aspettando
che l’uomo procacciasse il cibo e diventasse così più abile fino a
trasformarsi in Homo sapiens sapiens?” (Ehrenberg 1992).
Alcuni recenti studi sull’argomento sembrano dimo-
strare che nelle epoche più antiche della storia umana esi-
stesse in realtà una sostanziale parità tra i sessi, dovuta ad
un probabile equilibrio delle mansioni relative al comune
sostentamento. Difficile è pensare che l’attività di raccol-
ta della donna fosse meno importante di quella svolta
dall’uomo cacciatore, come avviene ancora oggi tra gli Ya-
mana e i Bambuti per i quali alcuni autori hanno parlato
addirittura di “uguaglianza tra i sessi” (Grottanelli 1964).
Certamente l’idea risulta molto suggestiva anche se
forse è applicabile solamente a quelle popolazioni che,
secondo Marvin Harris (Harris 1977), hanno in comune
la totale mancanza di attività bellica come gli Andamane-
si (India), i Mission (California), gli Shoshoni (California
e Nevada), gli Yahgani (Patagonia), i Tasaday (Filippine)
e i Semai (Malasya). Dobbiamo comunque precisare che
i dati relativi alle popolazioni attuali provengono essen-
zialmente da indagini etnologiche e come precisa Alber-
to Cazzella (Cazzella 1989) “… la documentazione su socie-
tà osservate dal vivo fornisce elementi diretti sul rapporto tra
azioni e resti materiali che producono, mentre sulle corrispon-
denze nel significato di tali azioni fornisce soltanto spunti.”

21
C arlo C asi

Non è escluso che anche nelle prime fasi della preistoria


possano essersi verificate condizioni tali da presentare
un quadro non troppo dissimile da quanto sopra roman-
ticamente descritto, anche se è più probabile che si debba
pensare a situazioni episodiche o particolari. Infatti an-
dando ad analizzare un aspetto cruento quanto però si-
gnificativo, relativo alle politiche di riduzione dei tassi di
crescita demografica, e cioè l’infanticidio, possiamo no-
tare che questa pratica era riservata quasi esclusivamen-
te alle femmine; facevano eccezione i maschi con mal-
formazioni fisiche evidenti. Veniva quindi incoraggiato
l’allevamento dei maschi, esaltandone la virilità nella
preparazione alla guerra, svalutando così il ruolo delle
femmine che non combattevano. Il successo militare, e
quindi la sopravvivenza stessa della comunità, dipende-
va essenzialmente dal numero di forti combattenti messi
in campo. Per questo i maschi divennero socialmente più
importanti delle femmine. Ma le differenze fisiologiche
tra uomo e donna sono causa anche dell’infanticidio
preferenziale delle femmine, anche in assenza di guerra
come avviene in molti gruppi di Esquimesi. Questi han-
no bisogno della massima forza muscolare per cacciare e
sopravvivere nell’ambiente artico onde poter garantire
la sussistenza al loro clan. In habitat favorevoli invece,
le donne, per molti aspetti sono più importanti degli uo-
mini perché non solo possono fare gran parte delle cose
che fanno i maschi ma solo loro possono generare e nu-
trire i bambini. Alle donne però è stato sempre precluso
l’addestramento per renderle più robuste e preparate
nella guerra, facendo diventare celebri quelle che invece
si sono così distinte. Il caso più antico e più famoso dal
punto di vista storiografico è sicuramente quello riguar-
dante le Amazzoni: le mitologiche guerriere a cavallo ci-
tate già nell’Iliade (III. 189-90 e VI. 186) che tanta fortuna
hanno avuto nell’arte. L’amazzonomachia è infatti un
tema iconografico dell’arte greca e da qui passata anche
all’arte etrusca, consistente nella rappresentazione della
lotta tra Greci e Amazzoni. Quest’ultime non potevano
che essere considerate nemiche dei Greci in quanto, in
una società maschilista come quella greca, l’esistenza di
donne guerriere non era neanche concepibile e quindi le
Amazzoni rappresentavano la barbarie che si contrappo-
22
L a Donna neLL ’a ntichità

neva all’ordine della civiltà ellenica. Le donne in questo


caso erano quindi viste come barbare e assassine, fattori
questi che si ritrovano nell’immaginario greco anche nel-
le Menadi e nelle Tracie.
Le Menadi (pazze) sono ballerine che danzano frene-
ticamente nei culti dionisiaci sino a raggiungere lo stato
di trance; questo stato fa a volte esplodere la loro violen-
za e diventano capaci di fare a pezzi con le proprie mani
gli animali selvatici, come ben raffigurato su una lèkythos
da Siracusa.
Ma anche le donne tracie si distinguono in crudeltà:
nel mito di Orfeo, infatti, questo viene ucciso da loro per
gelosia, rivelando così la violenza assassina che le con-
traddistingue, come rappresentato su uno stamnos del
Louvre.
Questi due modelli mitici della donna, selvaggia e
barbara insieme, vengono avvicinati in maniera esem-
plare su un alabastron, un vaso femminile per profumi,
nel quale sono rappresentati i due caratteri principali:
Menade e Amazzone. La prima, vestita di pelle di pan-
tera e alti stivali traci, porta in una mano un serpente e
nell’altra una lepre e dall’iscrizione sappiamo che è The-
raichme (la Cacciatrice); la seconda è armata con l’ascia
e con l’arco e porta l’elmo ed è nominata Pentesilea (la
famosa regina delle Amazzoni che partecipò alla guerra
di Troia, come descritto da Arctino di Mileto nell’Etiopi-
de, un poema epico del VII sec. a.C.). La decorazione di
questo vaso propone in maniera mirabile la visione che
hanno i greci nel loro immaginario mitico della donna e
della doppiezza a lei riconosciuta.
Ma le Amazzoni danno il nome anche al più grande
fiume d’America ed è ovviamente un’acquisizione più
recente a seguito della scoperta di questo continente.
Siamo infatti nel XVI secolo quando i primi esploratori
spagnoli guidati da Francisco de Orellana vengono ber-
sagliati da frecce e dardi di cerbottana, scagliati da delle
donne guerriere dalle rive del fiume Maranon, che per
l’appunto da allora viene chiamato Rio delle Amazzoni.
Nel XVIII secolo in Africa e più precisamente nel Da-
homey, sotto il regno di Houégbadja, venne istituito un
corpo militare femminile che si doveva occupare di cac-
ciare gli elefanti e della sicurezza personale del re. Il figlio
23
C arlo C asi

di Houégbadja, Agadja, ne fece delle vere e proprie guer-


riere cominciando ad usarle nei combattimenti. In segui-
to la loro importanza crebbe fino al punto che arrivarono
a costituire un terzo dell’esercito. Le Amazzoni del Da-
homey erano alte e fisicamente forti (Fig. 1). Indossavano
una tunica e un paio di pantaloni all’altezza del ginocchio
ed avevano varie armi, tra cui spade corte, pugnali, asce,
archi e lance; nel XIX secolo aggiunsero al loro armamen-
to anche i fucili. E. Chaudoin, in “Tre mesi in cattività
nel Dahomey”, nel 1891 le descrisse nel modo seguente:
”Vecchie o giovani, brutte o belle, sono meravigliose da con-
templare. Solidamente muscolose come i guerrieri neri, la loro
attitudine è disciplinata e corretta allo stesso tempo, allineate
come alla corda”. Forgiate per la guerra, per principio a
questa dovevano consacrare la loro vita. “Noi siamo de-
gli uomini, non delle donne” - ripetevano. La conquista del
Dahomey da parte della Francia mise fine all’esisten-
za di queste amazzoni africane. La loro fama raggiun-
se comunque l’Europa ed esse ispirarono alcuni autori
dell’epoca come Emilio Salgari ne La Costa d’Avorio e
Jules Verne in Robur il Conquistatore.
“La pratica della guerra è responsabile di un ampio com-
plesso di istituzioni improntate alla supremazia maschile fra le
società di bande e villaggi” enuncia Marvin Harris (Harris
1977) arrivando a dire che la subalternità della donna non

Fig. 1, Amazzoni del Dahomey, XIX sec.

24
L a Donna neLL ’a ntichità

è certamente collegata a fattori naturali, almeno non più


di quanto non lo sia la guerra. Quest’ultima abbisognava
di una comunità organizzata in tal senso, generando un
controllo della stessa da parte dei principali attori: padri,
fratelli e figli, cioè gli uomini. Da qui la spartizione delle
donne quale ricompensa per l’aggressività maschile e la
poligamia.
E allora anche lo svolgimento dei lavori più umili e
faticosi da parte della donna, compresa la sua prover-
biale sottomissione, non è altro che la necessità di ricom-
pensare il maschio per la sicurezza che le garantisce. Ne-
anche la sua rilevanza nella produzione economica basta
a determinare il suo status giuridico e sociale. Come acu-
tamente rilevato da D. Forde, “la sorte delle donne è dura
e poco dignitosa fra le popolazioni dell’Australia, matrilineari
o patrilineari che siano, quantunque esse procurino una parte
considerevole del rifornimento alimentare. Fra gli Andamanesi
e i Vedda, dove la caccia acquista maggior rilievo, lo status
delle donne è decisamente più alto in molti settori della vita.
Presso gli Hopi e altri popoli Pueblo, dove una discendenza
matrilineare si associa con il controllo femminile sulla terra e
sulle abitazioni, le donne non hanno affatto voce ufficiale nel
governo e pochissimo nel rituale”. Anche tra i pastori Kaza-
ki dell’Asia centrale le donne hanno una condizione più
favorevole di quella relativa alle loro vicine della tribù
dei Sarti, sebbene questi siano coltivatori sedentari. Un
po’ quello che succede tra le donne Tuareg dell’Algeria
interna rispetto a quelle degli Arabo-berberi che godono
di una posizione sociale più elevata pur essendo legate
ad un’economia di tipo pastorale e nonostante le berbere
forniscano un aiuto molto più considerevole nei lavori
agricoli (Grottanelli 1966).
Anche le varie tipologie del matrimonio contribui-
scono a evidenziare il predominio dell’uomo. Nella cul-
tura occidentale, che fonda la propria struttura sociale
sulla tradizione greco-romana e sul cristianesimo, non
è riconosciuta altra possibilità di matrimonio oltre alla
monogamia. Nei popoli primitivi invece si riscontrano
situazioni completamente diverse. Spesso e volentieri è
considerato perfettamente legittimo avere più mogli ed
il numero di queste varia sia dalla volontà dell’uomo sia
dalle sue possibilità. Questa forma di matrimonio è de-
25
C arlo C asi

finita poliginia e le società che accettano tale pratica non


necessariamente obbligano i soggetti al rispetto, bensì
semplicemente la prevedono giuridicamente. Statistica-
mente, infatti, risulta essere pochissimo seguita a fronte
di una netta prevalenza dei matrimoni monogami, come
succede, ad esempio, tra i cacciatori aborigeni d’ Austra-
lia dove solo il 10% ha più di una moglie. In tutte le cul-
ture studiate è emerso che la poliginia è legata sempre
ad una forma di competizione tra gli uomini: l’individuo
che si appropria di più mogli lo fa sempre a danno di
qualcun altro. Le forme della competizione sono le più
diverse a seconda dell’organizzazione propria di ogni
singola società. Così tra i cacciatori australiani che non
conoscono rango né censo il fattore prioritario è l’anzia-
nità, mentre in molte popolazioni asiatiche e africane di
coltivatori e allevatori, nelle quali esiste una maggiore
stratificazione sociale, sono i capi e i ricchi che si accapar-
rano più mogli. Infatti, in molte culture, il numero delle
mogli è addirittura indicativo della ricchezza e/o dello
stato sociale. Il re Munza dei Mangbetu, nel 1870, aveva
ben 50 mogli mentre il re degli Swazi, nel 1950, ne aveva
oltre 40; Vladimiro principe di Kiev, invece nel X secolo,
prima della sua conversione al cristianesimo né aveva
solo 7, ma in compenso recuperava, se così si può dire,
con 800 concubine. Un allievo di Vinigi L. Grottanelli,
appartenente alla tribù dei WaRangi (Tanganyka) ha così
ben definito la poliginia presso le società pastorali: “L’uo-
mo che non possiede bestiame è valutato nulla. Più animali
uno possiede, più uno diventa una personalità, e più mogli può
sposare, non solo perché è in grado di pagarle, ma anche per-
ché ha bisogno di figli per sorvegliare gli armenti. Coloro che
muoiono vecchi, lasciando numerosa discendenza a perpetuare
il loro lignaggio, sono sicuri di un benevolo accoglimento nel
paese dei loro antenati, e di essere a lungo ricordati in terra con
offerte sulla loro tomba” (Grottanelli 1966).
La poliginia è classificata adelfica o sororale quando
le mogli di un uomo sono sorelle, come tra gli Indiani
delle Praterie nordamericane e tra gli Zulu del Natal,
dove, in occasione del matrimonio, le sorelle minori
della sposa venivano considerate anch’esse mogli. Poi
c’è la poliginia libera, cioè quella in totale assenza di
vincoli ed infine la disparata quando una delle mogli,
26
L a Donna neLL ’a ntichità

quasi sempre la prima, proviene da un rango sociale


più elevato delle altre.
Molte popolazioni, studiate in campo etnologico, ac-
cettano la poliginia purché l’uomo sia nelle condizioni
materiali da poterselo permettere, dagli Yamana della Ter-
ra del Fuoco ai pigmei Semang della Malacca, dagli Aeta
delle Filippine ai Pigmei africani ecc. Se ne deduce che
spesso la scelta monogamica degli individui non è lega-
ta tanto a supposti valori o evoluzioni sociali quanto più
prosaicamente alle essenziali capacità di mantenimento.
L’idea degli evoluzionisti che la poliginia e la polian-
dria (insieme anche poligamia) rappresentino una fase
intermedia della scala sociale, seguente la promiscuità
primordiale e precedente la monogamia viene completa-
mente smentita addirittura dall’etologia: la discendenza
dalle scimmie non può essere associata all’idea di una
primordiale vita poligamica giacché alcuni Primati come
il Gorilla vivono in stringente monogamia.
Esistono comunque casi, anche se rari, di popoli che
prevedono l’obbligatorietà della moglie e del marito uni-
ci, soprattutto tra i coltivatori, come gli Hopi e gli Zuni
dei Pueblo degli Stati Uniti, gli Irochesi, i Canella del
Brasile. Anche qui non sono mai state annotate motiva-
zioni economiche o demografiche a giustificazione della
forma di matrimonio ma solamente un grande rispetto
della tradizione.
“Mentre la stragrande maggioranza dei popoli illetterati
ammette in linea di principio la poliginia, e segue prevalente-
mente la monogamia nella prassi concreta, la poliandria rap-
presenta una forma abbastanza rara, per non dire eccezionale,
del matrimonio” (Grottanelli 1966).
Lì dove è applicata, la poliandria (l’unione coniugale
di una donna con più uomini), risulta essere molto fun-
zionante e di soddisfazione per i popoli che, tra l’altro,
sono quasi sempre di cultura abbastanza elevata.
Ancora oggi è osservabile nel Tibet e nella regione
dell’Himalaya in genere e nell’India meridionale ma è
stata segnalata in passato anche a Ceylon, nel nord-est
asiatico fra i Ciukci, i Ghiliachi e alcuni Ainu, fra gli
Eschimesi Netsilik e Nunivak, fra alcuni Athapaschi set-
tentrionali, fra i Cree e i Seneca, fra gli Yaruro del Vene-
zuela, i Warrau della Guiana e i Lenga del Chaco para-
27
C arlo C asi

guyano. Anche la polian-


dria, come la poliginia,
non è mai obbligatoria ma
semplicemente accettata,
spesso insieme alle altre
forme matrimoniali.
Possiamo quindi affer-
mare con certezza che l’es-
sere umano non è istinti-
vamente monogamo né
poligamo, né portato alla
promiscuità ma che anche
la sua stessa eterosessua-
lità è il prodotto di una
lunga formazione cultu-
rale e non di istinto innato
in senso stretto (La Barre
1955).
Per le fasi più antiche
della Preistoria risulta co-
munque difficile se non
impossibile determina-
re la posizione occupata
dalle femmine, spesso si
incontrano notevoli dif-
Fig. 2, scheletro di Lucy (3,2 milioni di anni). ficoltà già ad interpreta-
re il sesso dell’individuo
dai pochi resti ossei rinvenuti. Ebbe grande eco, difatti,
nel 1973, la scoperta in Etiopia di uno scheletro femmi-
nile, risalente a ca. 3,2 milioni di anni fa, conservatosi
miracolosamente per il 40%: la famosissima Lucy (Fig.
2). In maniera un po’ scherzosa ma anche per ricorda-
re il sottile filo che lega l’Australopitecus afarensis (dal
latino australis, “sud”, e dal greco pithekos = scimmia)
all’uomo moderno, Donald Johanson (Johanson 1981),
le mise questo nome dal titolo della canzone dei Beatles
che gli archeologi stavano ascoltando al momento del-
la scoperta. Sappiamo che Lucy è morta probabilmente
in età adulta ed era alta circa 1 metro e 10 centimetri.
Quand’era in vita non deve aver avuto particolari diffi-
coltà a salire sugli alberi, già favorita dalle sue dimen-
sioni ridotte, presentava le ossa dei piedi e delle mani
28
L a Donna neLL ’a ntichità

leggermente ricurve per potersi meglio appendere ai


rami ed aveva la parte superiore del suo braccio pra-
ticamente identica alla parte superiore della gamba,
come avviene negli scimpanzé. Camminava in posi-
zione eretta come dimostrato dal quasi contemporaneo
rinvenimento di Laetoli, in Tanzania, dove tre suoi si-
mili si trovarono lì a passeggiare all’indomani dell’eru-
zione, del vulcano Sadiman, di un fitto strato di ceneri,
lasciando così impresse per sempre delle impronte risa-
lenti a più di 3 milioni di anni fa.
Nel 2000, le ricerche condotte da Zeresenay Alemse-
ged (Alemseged et alii 2006) hanno portato alla scoper-
ta di uno scheletro fossile appartenuto ad una giovane
femmina di tre anni, denominato Selam (in amarico =
pace). Vista l’estrema vicinanza allo scavo di Johanson
(solamente quattro chilometri), la bimba di Selam è stata
soprannominata “la figlia di Lucy”(Wong 2006). In real-
tà la datazione di questo scheletro, rinvenuto in buono
stato di conservazione grazie ad un’inondazione che lo
ha coperto di sedimenti, risulta di circa 100.000 anni più
antica.
I dati archeologici possono non essere chiarificatori,
visto che le relazioni sociali non lasciano tracce nei depo-
siti antichi, ma sono certamente indicativi delle principa-
li caratteristiche delle civiltà passate, soprattutto grazie
allo studio delle necropoli.
Nel Paleolitico Medio in Europa, ad esempio, la ten-
denza sembra quella di seppellire le donne senza cor-
redo contrariamente a quanto avviene per l’uomo che
presenta quasi sempre oggetti litici o ossei e a volte
sono addirittura coperti d’ocra rossa. Questa diversi-
tà di trattamento, se confermata, indurrebbe a pensare
ad una posizione di superiorità dell’uomo nella socie-
tà, anche se non si può escludere la presenza di oggetti
di corredo deperibili, come fiori o erbe, nelle sepolture
femminili. Particolarmente suggestivo è il ritrovamento
avvenuto nella grotta di La Ferrassie (Dordogna, Fran-
cia) dove, tra 1909 e 1921 Peyrony e Capitan scoprirono
una serie di 6 sepolture: due fosse vicine contenevano
due scheletri adulti, uno maschile di circa 45 anni e l’al-
tro femminile di 25/30 anni, con le teste avvicinate e i
corpi divergenti; le altre 4 sepolture erano relative ad
29
C arlo C asi

altrettanti bambini morti in tenera età (un bimbo di 3


anni deposto in una fossa ricoperta da pietre decorate a
cuppelle, probabilmente inerenti a qualche rituale fune-
bre, un neonato, un feto a termine ed un feto di 7 mesi).
Altro ritrovamento molto importante, se confermato,
per il Paleolitico Medio, è quello effettuato nel 1981 a
Bérékhat Ram sulle alture settentrionali del Golan (Isra-
ele) (Goren-Inbar – Peltz 1995). Databile intorno a 250-
280.000 anni da oggi, un ciottolo con alcune solcature è
stato interpretato come un idoletto femminile; questa
identificazione, seppur ancora in dubbio, arretrerebbe
l’inizio delle prime manifestazioni artistiche umane di
quasi 200.000 anni indietro, prima di quelle sicuramen-
te attestate nella caverna Blombos nel Sud-Africa (ca.
70.000 a.C.).
Nel Paleolitico superiore (35.000-8.000 a.C.), studian-
do le sepolture, si nota un mutato atteggiamento nei con-
fronti della donna. Essa viene seppellita con elementi di
corredo molto simili a quelli dell’uomo. A Dolni Vesto-
nice (Repubblica Ceca) è stata rinvenuta una sepoltura
femminile con lo scheletro ricoperto di ocra e protetto da
due scapole di mammut (24.000 a.C.). A Grotta Paglicci,
vicino Foggia, nel 1988 è stata scoperta la sepoltura di
una giovane donna che portava sulla testa una sorta di
diadema formato da sette denti di cervo forati ed aveva
un corredo composto da alcuni strumenti in pietra, inol-
tre, tutto il corpo era stato ricoperto di ocra rossa (21.000
a.C.).
Nella Grotta dei Fanciulli ai Balzi Rossi (Ventimiglia,
Imperia), invece, è stata rinvenuta, tra gli altri, una tom-
ba bisoma (con 2 defunti) contenente un adolescente ed
una donna, stretti l’uno all’altro, ed entrambi possedeva-
no degli ornamenti di conchiglie (una corona per il gio-
vane e un braccialetto per la donna). Molto singolare è,
in questo periodo, l’usanza di manipolare le reliquie, in
alcune praticando un foro di sospensione (Grotte di Trois
Frères e La Combe, in Francia) oppure colorandole con
ocra rossa (Grotta Polesini, nel Lazio) a fini sicuramen-
te rituali. Originale, a questo proposito, è il calvario di
un individuo femminile ritrovato a Mas d’Azil (Pirenei
francesi), presentante due placchette d’osso lavorate po-
ste all’interno delle cavità orbitarie e sistemato all’inter-
30
L a Donna neLL ’a ntichità

no di una nicchia della parete a ricordare un altare. Nella


Grotta del Placard (Francia), invece un cranio di donna
era circondato da un corredo di conchiglie. Nel sito russo
di Sungir è stato invece rinvenuto uno scheletro femmi-
nile senza testa ma con un corredo molto ricco, costituito
da perle in avorio, manufatti litici, molluschi e denti fo-
rati; un’altra sepoltura femminile è caratterizzata dalla
presenza del solo cranio, cosparso di ocra e con alcuni
ornamenti di corredo.
Un’altra importantissima fonte documentaria è sicu-
ramente quella legata alle manifestazioni artistiche, nelle
quali la donna risulta legata ad alcuni motivi iconogra-
fici piuttosto ricorrenti. “Un’ampia e ben documentata serie
di incisioni ha come oggetto l’organo sessuale femminile, rap-
presentato in modo schematico ma perfettamente riconoscibile,
raffigurato come tema isolato, avulso dall’unità corporea, come
ideogramma che rimanda – una parte per il tutto – al grande
tema della fertilità e della procreazione. Ideologicamente lega-
ta al medesimo tema dei segni vulvari è la piccola statuaria
antropomorfa del Paleolitico superiore, le cosiddette “Veneri”,
nella quale l’enfatizzazione delle parti anatomiche legate alla
gravidanza è attuata con un procedimento mentale di astra-
zione molto moderno, vale a dire con una scomposizione e
una ricomposizione dei volumi anatomici tese a dare profonda
espressione al tema della fertilità senza perseguire alcun inten-
to ritrattistico.” (Martini 2008).
Raffaele De Marinis (De Marinis 2006/2007), a pro-
posito delle Veneri paleolitiche, scrive: “In queste statuet-
te coesistono elementi naturalistici, sia pure senza rispettare
le proporzioni reali, ed elementi schematici e quasi astratti. I
primi si riferiscono alla fecondità della donna (seno, ventre,
pube), i secondi a tutte le altre parti del corpo: ciò che non è in
relazione con la sfera delle riproduzione è omesso o trattato in
maniera sommaria”. Questo fatto di legare la rappresen-
tazione femminile alla maternità ci autorizza a pensare
che le Veneri siano da considerarsi quali manifestazioni
di un culto dedicato ad una sorta di “dea madre” o del-
la fecondità. Possiamo quindi tranquillamente escludere
l’ipotesi che esse possano rappresentare l’idea della don-
na del Paleolitico. “Ricercare l’immagine della donna paleo-
litica a partire dalle statuette, sarebbe come voler fare l’antro-
pologia delle donne francesi del giorno d’oggi partendo dalle
31
C arlo C asi

opere di Picasso o di Bernard


Buffet”, ha scritto André Le-
roi-Gourhan (Fig. 3).
La stessa concezione è
riconoscibile anche nei con-
temporanei bassorilievi di
Laussel (riparo sotto roccia
in Dordogna, Francia) che
presentano alcuni soggetti
femminili scolpiti, tra i qua-
li spicca una donna obesa,
senza lineamenti del viso
ma con seni, fianchi e ventre
molto accentuati che regge
un oggetto particolare, forse
un corno di bisonte.
Altri esempi di rappre-
Fig. 3, Venere di Willendorf, ca. 25000 a. C.,
sentazioni femminili con la
Museo di Storia Naturale di Vienna. tecnica del bassorilievo si
conoscono all’Abrì Pataud e
a Terme Pialat (Dordogna, Francia). Poche sono anche le
immagini femminili nell’arte parietale di questo perio-
do e sono state rinvenute solo a Pech-Merle e Cussac. A
Pech-Merle vi sono tre figure femminili intrecciate insie-
me a tre mammut che decorano una zona del soffitto e
un gruppo di otto silhouettes femminili che ricordano il
profilo del dorso di un bisonte, motivo per cui sono state
denominate les femmes-bisons. A Cussac è presente una fi-
gura femminile incisa su una parete della grotta recente-
mente scoperta, soprannominata per le sue matronesche
forme “la signora di Cussac”.
Per un certo periodo di tempo le statuette femmini-
li sembrano scomparire e soltanto intorno al 15.000 a.C.
ricompaiono di nuovo, ma di uno stile completamente
diverso, “non più di aspetto fortemente adiposo, bensì carat-
terizzato da un processo di estrema schematizzazione, in cui
la testa scompare del tutto e il corpo tende a divenire un pro-
filo ritagliato visto di profilo” (De Marinis 2006/2007). Le
più antiche sono quelle rinvenute a M´ezine in Ucraina e
sono di piccole dimensioni, in avorio, osso, corno, a volte
di pietra; esse mantengono solo il ricordo dell’ipertrofia
delle veneri più antiche e tendono a riprodurre sola-
32
L a Donna neLL ’a ntichità

Fig. 4, figurina di Isturiz.

mente l’asse del corpo, con una o due sporgenze e con le


estremità appuntite.
Famose sono le 11 figurine di avorio, corno e osso,
risalenti a ca. 13.00 o anni fa, e le circa 500 placchette di
scisto che recano figure incise sia femminili che di ani-
mali (mammuth, cavallo, rinoceronte, bovidi, volpe), da
Gonnersdorf (sulla destra del Reno a nord di Coblenza).
Si ricordano anche le figure incise in modo realistico su
osso provenienti da Laugerie-Basse, dove una donna in-
cinta giace sotto una renna, e da Isturiz con due donne
ravvicinate (ca. 12.000 a.C.) (Fig. 4). In Italia spicca per
importanza il ritrovamento della Grotta dell’Addaura
sul Monte Pellegrino, presso Palermo, all’interno della
quale sono rappresentate una serie di figure, fra le quali
quella di una donna incinta che porta una specie di sacco
sulle spalle, risalente al 10.000 a.C. (Battaglia Infra).
Nel Mesolitico (8.000-6.000 a.C.), le rappresentazioni
artistiche tendono a diventare sempre più antropomorfe,
abbandonando via via, soprattutto nelle pitture rupestri,
il soggetto, fino allora, principale: quello animalistico.
In Spagna sono state rinvenute, in ripari sotto roccia ed
in piccole grotte, pitture che, seppur non dimostrando
la bellezza e la perfezione delle pitture del Paleolitico
Superiore, riproducono cacciatori muniti di archi, frecce
e zagaglie e figure di donne vestite, intente a raccoglie-
re frutta e miele o a danzare, come nel riparo di Cogul
(Lèrida, Tarragona) dove queste figure femminili indos-
sano una gonna a forma di campana dipinta in rosso con
delle strisce oblique in nero, o nella vita familiare quale
è rappresentata a Minateda (Albacete) dove una donna
tiene per mano un bambino. La suddivisione dei compi-
ti è perfettamente descritta: caccia con le armi, l’uomo e

33
C arlo C asi

raccolta, la donna. In Italia si conoscono alcune sepolture


femminili mesolitiche vicino Trento. Una è stata messa in
luce nel Riparo di Vatte di Zambana ed è relativa ad una
donna di circa cinquant’anni, alta 1,52 m. Un tumulo di
pietre la ricopriva e non disponeva di alcun oggetto di
corredo, ma presentava tracce d’ocra al di sotto del cra-
nio (ca. 6000 a.C). Un’altra è quella ritrovata a Borgonuo-
vo di Mezzocorona, anche qui la copertura della fossa era
costituita da un piccolo tumulo di pietre, all’interno della
quale vi era adagiata una donna di ca. 30 anni (6500-6000
a.C.). Anch’essa senza corredo e con tracce di ocra rossa,
la stessa che si ritrova anche all’esterno su resti di cervo,
probabilmente coinvolti in una qualche forma di rituale.
Sempre dall’area trentina e più in particolare dal Riparo
Gaban proviene un bassorilievo scolpito su un frammen-
to di corno cervino che risente chiaramente degli influssi
stilistici delle Veneri paleolitiche.
Nel Neolitico (6000-3500 a.C.), con il passaggio da
un’economia predatrice (caccia e raccolta) ad una pro-
duttrice (agricoltura e allevamento), si assiste alla nascita
di altre forme di attività che causarono necessariamente
nuove specializzazioni e suddivisioni del lavoro, deter-
minando anche un nuovo assetto sociale. Se sino ad al-
lora la caccia aveva rappresentato la base economica ed
era sicuramente prerogativa esclusiva dell’uomo, nella
società agricola la donna poteva svolgere diverse man-
sioni, sia nel lavoro dei campi che nella neonata produ-
zione ceramica, come dimostrato anche dalle pitture di
Cinto de las Letras (Dos Aguas, Valencia), dove compa-
iono scene legate ad un’agricoltura rudimentale con ba-
stoni da scavo utilizzati da donne.
Questa maggiore importanza nella vita sociale po-
trebbe essere riconosciuta anche nelle gigantesche figure
femminili di Val de Charco e di La Arana (Spagna), po-
ste in posizione predominante nel settore di pittura che
occupano. Seni, glutei e gonne continuano ad essere gli
elementi fondamentali di distinzione femminile nell’ar-
te del levante spagnolo; inoltre le donne non portano
mai armi e non prendono mai parte alle cacce. Gli orna-
menti e le acconciature non differiscono molto da quelli
maschili; le donne hanno solitamente il capo ornato di
piume, portano nastri appesi alle braccia, braccialetti e
34
L a Donna neLL ’a ntichità

gonne, a volte con bacchette e nacchere quali strumenti


d’accompagnamento alla danza.
L’uso di rappresentare la donna, in funzione di culti
legati alla fertilità, riprende, in questo periodo, in modo
importante, anche a seguito della scoperta della cerami-
ca che viene utilizzata per la realizzazione di statuette
più definite, grazie alla migliore plasmaticità dell’argil-
la rispetto alla pietra, che comunque continua ad essere
utilizzata. Alcuni autori hanno rilevato che la distribu-
zione e la successiva perdita d’importanza di queste fi-
gurine può forse essere posta in relazione con un cam-
biamento della condizione femminile (Ehremberg 1992).
Rinvenimenti sono segnalati un po’ ovunque in Europa
e nell’Asia sud-occidentale e spesso presentano caratte-
ri particolari a seconda della zona. In Sardegna alcune
ricordano particolarmente quelle maltesi, mentre altre
(cultura di Ozieri) somigliano più a quelle cicladiche
nelle quali si nota il tentativo a volte quasi esasperato
della stilizzazione (venere dalla necropoli di Portofer-
ro (Sassari) IV millennio a.C.). A Creta ad esempio non
hanno caratteri sessuali pronunciati e la compresenza di
alcuni idoletti sicuramente maschili, insieme all’assenza
di contesti cultuali o funerari, rende difficile associare
queste a riti della fertliità o a “divinità madri”. Altre si
conoscono dall’Europa orientale come dalla Moldavia
(venere di Cucuteni 4200-3200 a.C., Museo dell’Istituto
di Archeologia di Chisinau) o dalla Russia. Anche al Vho
di Piadena ne sono stati trovati alcuni esemplari tra cui
se ne segnala uno bicefalo quasi integro. Si tratta di una
statuetta femminile con due teste poste su un unico cor-
po; realizzata in terracotta, parrebbe mettere in dubbio
l’idea della rappresentazione simbolica della fertilità:
pur avendo i glutei sporgenti il seno è appena accenna-
to e l’organo sessuale femminile non è rappresentato.
Inoltre queste figurine sono state trovate spesso in aree
abitative, almeno apparentemente non legate a luoghi o
manifestazioni sacrali. Esse infatti provengono da con-
testi stratigrafici relativi alla frequentazione quotidiana:
pare quindi che le “veneri” fossero custodite nelle abita-
zioni e non concentrate in un luogo di culto pubblico. Il
contesto domestico, e più in particolare i focolari dove
spesso sono state ritrovate, è alla base dell’ipotesi di
35
C arlo C asi

un legame della donna nella famiglia e nella casa quale


“creatrice del fuoco”. Gli idoletti potrebbero essere quin-
di degli spiriti protettivi della casa e dei suoi abitanti
(Ehremberg 1992). Il carattere propiziatorio è invece sug-
gerito dal comportamento delle donne Zuni che quando
vogliono avere un figlio portano con se una statuina, che
ricorda le forme di una femmina incinta, sino a quando
non hanno ottenuto quello che vogliono; dopodiché vie-
ne spesso gettata. I ritrovamenti archeologici effettuati a
volte, oltre che nelle capanne e nei villaggi, tra i rifiuti,
potrebbero rafforzare la teoria che vede come alquanto
improbabile il getto di un’immagine sacra, mentre ac-
cetta tranquillamente l’eliminazione dell’oggetto simbo-
lico, una volta svolto il suo compito. In altre occasioni è
stata rilevata la presenza di idoletti femminili in alcu-
ne tombe del Vicino Oriente, dell’Europa sud-orientale,
della Sardegna e a Vicofertile in provincia di Parma. La
statuetta qui ritrovata, che è di ceramica d’impasto nero
ed è lunga quasi 20 cm, rappresenta una figura femmini-
le seduta e fa parte del corredo funerario di una donna
matura, risalente al 5000 a.C. (Bernabò Brea 2006). L’im-
portanza della sepolta si evince anche dalla posizione
centrale che la sua tomba ha rispetto alle altre quattro
presenti, peraltro tutte maschili (Fig. 5). L’uso di deporre
le statuine femminili nelle tombe si ritrova anche tra i
Senufo (Africa occidentale), i quali le assegnano ai ra-
gazzini nella pubertà al fine di propiziare loro un futuro
prospero.
La tomba di Vicofertile è importante non solo per il
rinvenimento della “Venere”, ma anche perché ci segnala
un ruolo primario della defunta. Importanza che anche
la donna, inusualmente incinerata a Ponte Ghiara (Fiden-
za, Parma) e accompagnata da un cane e da una perlina
in calcite, doveva sicuramente avere. Ancora dall’Emilia
e in particolare da Chiozza di Scandiano (RE), si segnala
la Tomba I nella quale la donna è stata sepolta con una
collana fatta con oltre 800 minuscoli dischetti di steatite
di 2 mm di diametro.
Anche in Sardegna sono stati effettuati ritrovamenti
analoghi per importanza, come quello della necropoli
di Cùccuru S’Arriu di Cabras (Oristano) dove è docu-
mentata in tutte le sepolture la presenza di una statuetta
36
L a Donna neLL ’a ntichità

Fig. 5, la sepoltura di donna con idoletto femminile in corso di scavo, 5000 a. C., Tomba III di
Vicofertile (PR).

femminile. Nella Tomba 387, insieme a quattro vasi, tra


cui una ciotola con due conchiglie aperte incrostate di
ocra rossa, un mazzo di punte in osso posto sopra la te-
sta, altre quattro punte di zagaglia presso le ginocchia,
diverse perline e schegge di ossidiana, era presente un
esempio di “Venere”, probabilmente stretto nella mano
destra. Mentre nella Tomba 386 si segnala un’esemplare
di idoletto di particolare plasticità, che presenta un ori-
ginale e prezioso copricapo con eleganti copriorecchie a
trafori. In questo caso non possiamo escludere la possi-
bilità che gli idoletti femminili abbiano svolto anche una
funzione apotropaica, chiaramente a protezione del de-
funto, fors’anche quando era in vita.
Altra situazione molto originale è quella rilevata nella
Grotta Continenza (Trasacco, AQ), dove al suo interno,
tra gli altri e oltre ad alcune statuine femminili, vi sono
tracce di un culto basato sulla cremazione. In un anfratto
della parete erano stati deposti quattro vasi, due dei qua-
li contenevano i resti di altrettanti incinerati, apparte-

37
C arlo C asi

nenti a due bambini di 4


e 8 anni, coperti dai resti
di una donna anch’essa
cremata.
Gli idoletti femmi-
nili compaiono anche
nelle manifestazioni ar-
tistiche pittoriche, come
nella Grotta del Geno-
vese di Levanzo (Tra-
pani) dove ve ne sono
quattordici, otto dei
quali hanno forma cilin-
drica e i restanti sei sono
“a violino”.
Fig. 6, Statua-stele di Vado all’Arancio (Massa Ma- Anche nella Grotta
rittima, Grosseto), III millennio a.C., Museo Arche- dei Cervi di Porto Ba-
ologico di Massa Marittima. disco (Otranto, Lecce),
a fianco alle numerose
rappresentazioni di scene di caccia, vi sono alcune raf-
figurazioni femminili, poste sempre però in posizione
marginale.
Gli studiosi di preistoria tendono comunque a con-
siderare il fenomeno delle “Veneri” come relativo ad
un’emanazione del mondo ideologico e spirituale delle
civiltà anatoliche, passante in primo luogo nelle cultu-
re neolitiche balcaniche e indi arrivato in Italia, che rac-
chiudono in sé i significati di fecondità, già presenti nella
concezione paleolitica, arricchiti dei motivi della fertilità
dei campi e dei cicli stagionali (Bagolini 1992).
Nell’Eneolitico (3500-2300 a.C.), nonostante alcuni re-
sti scheletrici di armati siano stati attribuiti a individui
femminili (Corrain-Capitanio 1981), il ruolo maschile
delle armi, e delle conseguenti attività di caccia e guerra,
non sembra messo in discussione. Nella necropoli di Spi-
lamberto (Modena), ad esempio, nessuna tomba di ma-
schio adulto risulta priva di armi, mentre quest’ultime
non compaiono mai sulle statue-stele femminili, ritro-
vate in larga parte d’Europa, come sull’isola di Thassos
(Grecia) o a Sion (Svizzera) e in Italia, come in Lunigiana,
ad Aosta, ad Arco di Trento e vicino Massa Marittima
(Fig 6).
38
L a Donna neLL ’a ntichità

A Sion è venuta in luce una necropoli megalitica, co-


stituita da dolmen (dal bretone “tavola di pietra”), conte-
nenti numerose sepolture e molte stele. Qui i personaggi
rappresentati (almeno per le stele del III gruppo) sono
riconoscibili sessualmente grazie a due diverse tipologie
decorative: motivi a scacchiera con arco e frecce, per gli
uomini; motivi a rombi, triangoli e zig zag con collare a
più giri, per le donne.
Anche a Saint-Martin-de-Corleans (Aosta), dove gli
scavi hanno messo in luce un’area cultuale e sepolcrale,
i tipi decorativi sono distintivi del sesso: quelli maschili
presentano un ricco collare a più giri, associato ad armi
(arco con frecce, ascia, pugnale), mentre quelli femmini-
li, pur mantenendo un complesso apparato decorativo,
vengono definiti tali, principalmente, per l’assenza di
armi.
Le statue-stele o statue-menhir (dal bretone men =
pietra e hir = lunga) hanno forma antropomorfa e spes-
so vi sono riportati anche elementi distintivi del sesso:
l’evidenziazione del seno per la donna e le armi per l’uo-
mo, come ad esempio in quelle della Lunigiana. Ritro-
vate all’interno di luoghi di culto o in contesti funerari,
vengono interpretate come raffigurazioni di personaggi
eminenti, di defunti di alto rango o immagini di divinità.
Il fatto che molte di queste rappresentino immagini fem-
minili può far pensare che alcune donne possano aver
assunto ruoli sociali di rilievo all’interno delle comunità
eneolitiche.
Importanza che sembra dimostrata anche dai ritrova-
menti effettuati sull’isola di Malta, attribuiti al III mil-
lennio, tra i quali si segnala quello, in uno dei quattro
templi megalitici di Tarxien, di una statua femminile che,
pur mancante della parte superiore, si doveva avvicinare
molto ai 3 metri di altezza. Rassomigliava probabilmen-
te alle statuine femminili rinvenute nel vicino tempio di
Hagar Qim, raffiguranti divinità obese, con volute accen-
tuazioni delle proporzioni di cosce e glutei.
Non molto dissimile, comunque, dalla “Dea Dor-
miente” dall’ipogeo di Hal Saflieni, grassa figura femmi-
nile a busto scoperto, che dorme su un lettino con la testa
appoggiata sul braccio piegato (Fig. 7), o dalla “Venere
di Malta”, statuina scolpita mettendo in evidenza un cor-
39
C arlo C asi

Fig. 7, Signora Dormiente, Malta.

po generoso con grandi seni (proveniente anch’essa da


Hagar Qim). Bisogna notare che i ritrovamenti maltesi si
collocano a partire dagli inizi dell’Eneolitico, pur essen-
do di chiara tradizione neolitica.
Le forme particolarmente procaci delle statuine ricor-
dano molto quelle delle Veneri paleolitiche, tant’è che
anche a queste è stato dato il nome della dea romana.
Probabilmente, proprio come le precedenti, anch’esse
sono relative ad un culto della fecondità, come sembra
suggerire la compresenza negli stessi luoghi di rappre-
sentazioni itifalliche (Due figurine gemelle, una delle
quali mostra una statuetta della dea, Xaghra (Malta) Mu-
seo Archeologico di Gozo).
Un caso particolare è quello rappresentato dalla tom-
ba eneolitica detta “della vedovella” (necropoli di Pon-
te San Pietro, Ischia di Castro (VT), nella quale sono
compresenti gli scheletri di un uomo e di una donna e
sull’esterno, presso la lastra di chiusura, quello di un
cane (Cardini-Rittatore 1951 e 1958). Il corredo era net-
tamente differenziato ed era così suddiviso (Miari 1993):
per l’uomo un vaso a fiasco, una scodella decorata a stra-
lucido, un pugnale in rame, un’ascia a martello, un’ascia
in rame, un pendaglio di steatite, un manufatto in corno
di cervo e 15 punte di freccia; per la donna un vaso a
fiasco, tre vaghi di collana in antimonio e una lesina in
rame. Il fatto poi che la donna presentasse il cranio sfon-
40
L a Donna neLL ’a ntichità

dato fece ipotizzare agli scopritori che questa fosse dece-


duta grazie alla frattura intenzionale o rituale del cranio.
Molto suggestiva è la pagina scritta da Renato Peroni
(Peroni 1971) a riguardo:”Nella grotticella scavata nel tufo
riposa, raccolto sul fianco sinistro, le mani congiunte a far da
guanciale al capo, un guerriero sulla trentina, circondato dalle
sue armi, pronte per essere brandite ancora una volta; giacché
la sua maschera funebre di rosso cinabro ci attesta che una for-
za numinosa gli ha infuso una qualche nuova forma di vita. In
due recipienti, vaso a fiasco e scodella, bevanda e cibo sono a
portata di mano. Ai suoi piedi giace una giovinetta, umilmente
rannicchiata presso la parete per lasciare più spazio al suo si-
gnore, verso il quale volge lo sguardo; giacché per lui è morta.
Nella sua tempia si apre l’ampio e profondo squarcio della feri-
ta che non il coltello sacrificale, ma l’arma dei guerrieri, l’ascia
da battaglia, le ha inferto: dignità a lei dovuta per il vincolo
d’amore o di sangue che la legava al defunto.”Certamente
permangono seri dubbi sul fatto di trovarci effettiva-
mente di fronte ad un sacrificio umano che avrebbe pre-
visto l’uccisione rituale della compagna a seguito della
morte dell’uomo, un po’ come succedeva in alcune zone
dell’India sino al secolo scorso. Sicuramente, al di là del
rituale sacrificale, anche la suddivisione del corredo del-
la “tomba della vedovella”, ci suggerisce di ritenere con
una certa ragionevolezza che la società eneolitica avesse
degli spiccati caratteri patriarcali e guerrieri, relegando
il ruolo della donna, salvo eccezioni, in una posizione
quanto mai subalterna.
Minor dubbi sono invece quelli relativi al sacrificio
umano maschile, consumato a Creta, nel sito di Anemo-
spilia, (vicino Arhànes, 18 km a sud di Iraklio). Qui, negli
anni ’80, durante lo scavo di un tempio, gli archeologi
trovarono i resti di un giovane che era stato legato stret-
tamente su un altare e che era poi stato trafitto da un
grosso stiletto sacrificale in bronzo con incisa una figu-
ra simile a un cinghiale (anch’esso ritrovato durante gli
scavi). I resti di altri due scheletri trovati nella vicinan-
ze, interpretati come quelli di una sacerdotessa e di un
assistente, sembrano indicare che la morte del giovane
facesse parte di un rito sacrificale. Forse il sacrificio fu ef-
fettuato quando iniziò il terremoto del XVII sec. a.C., nel
disperato tentativo della popolazione di placare gli dèi.
41
C arlo C asi

La figura femminile, identifi-


cata come una sacerdotessa,
c’introduce all’interno della
vita sociale minoica, nella
quale le donne sembra oc-
cupassero posizioni di pre-
stigio. Gli affreschi denotano
con dovizia di particolari
quanto raffinati fossero le ac-
conciature e gli abiti, spesso
aderenti e scollati, delle don-
ne e, come in quelli egiziani,
esse sono ritratte sempre con
la pelle chiara, al contrario
degli uomini che invece ce
Fig. 8, Dea dei Serpenti, da Cnosso, Museo
Archeologico di Iraklion.
l’hanno sempre abbronzata.
Le pitture dimostrano anche
come le donne partecipassero ai giochi, alla caccia e a
tutte le feste pubbliche e religiose, facendo supporre a
molti studiosi che esse godessero di una notevole libertà
e autonomia.
Anche tra le divinità minoiche si annoverano cul-
ti femminili, come ben dimostra la cosiddetta “dea dei
serpenti”, statuetta rinvenuta all’interno del palazzo di
Cnosso. Qui la donna è raffigurata con la tipica gonna a
falde ricadenti bloccata sui fianchi e con uno stretto cor-
petto che le lascia scoperto il seno, mentre tra le mani
tiene due serpenti e sulla testa un copricapo, forse con un
gatto. L’immagine proposta della donna cretese è molto
realistica e corrisponde al modo di vestire e acconciarsi
dell’epoca (XVII-XVI sec. a.C.), anche se i riferimenti agli
aspetti cultuali non mancano. Probabilmente la divinità
è collegata alla fertilità grazie al serpente, ma anche ai
miti ctonii visto che esso sbuca dalla terra; la presenza
del gatto, invece, potrebbe essere un’ulteriore conferma
dei rapporti con l’Egitto, dove questi era indissolubil-
mente legato ad una divinità collegata alla procreazione
(Fig. 8).
Fu solo con la conquista operata dai micenei (1450
a.C.) che la cultura minoica sparisce, portando con se
anche l’alta considerazione della donna che i greci non
rispolvereranno mai più, relegandola ad un ruolo chiara-
42
L a Donna neLL ’a ntichità

mente subordinato. La produzione di gioielli e di sigilli


in pietra fu rimpiazzata da quella di armi, un passaggio
che rispecchiava l’influenza dei belligeranti micenei sul-
la pacifica civiltà minoica.
Delle donne micenee, grazie all’Iliade, conosciamo la
suddivisione in due gruppi sociali differenziati: le mogli
e le figlie degli eroi da una parte e le serve dall’altra. A
questi bisogna comunque aggiungere un terzo gruppo
che è quello delle prigioniere, spesso di famiglie reali,
che in quanto bottino sono votate alla perenne umilia-
zione. Alle mogli invece spettava una triplice parte: esse
erano spose, regine e padrone di casa. I matrimoni era-
no combinati e lo scambio delle donne veniva utilizzato
come un mezzo per creare vincoli stringenti tra i con-
traenti. Il padre della futura sposa sceglieva il genero
tra coloro che gli potevano offrire maggiori doni nuziali
(hedna), oppure sulla base di un accordo commerciale o
di ricompensa, come fa Agamennone offrendo ad Achil-
le per riportarlo in guerra, oltre a splendidi oggetti, una
delle sue tre figlie: “Si porti quella che vuole nella dimora di
Peleo, senza offrirmi alcun dono” (Iliade, IX, 146-147; 288-
289).
Le funzioni delle donne sembrano molto limitate dal
rigido ordinamento patriarcale su cui si fondava la so-
cietà dei primi greci. Esemplare è quanto dice Ettore ad
Andromaca, sicuramente la coppia modello dell’Iliade:
“Ritorna a casa, occupati dei tuoi lavori, del telaio, della co-
nocchia, e ordina alle tue serve di accudire ai loro mestieri”
(Iliade, VI, 490-492). Filare e tessere, oltre alla gestione
delle serve, sembrano quindi essere le principali attività
domestiche della donna. Esempio è dato anche da Elena
che a Troia è occupata a tessere “una grande tela, un manto
di porpora, su cui istoriava le fatiche dei Troiani domatori di
giumente e degli Achei dalle armature di bronzo” (Iliade, III,
125-127). Ma l’esempio più famoso, citato nell’Odissea,
è sicuramente quello della tela di Penelope, quale abile
stratagemma per ritardare la scelta del nuovo marito in
“sostituzione” dello scomparso Ulisse, re di Itaca. Egli
trasporta le vicissitudini degli Atridi micenei nel mon-
do “geometrico”, descrivendo usi, costumi e situazioni,
probabilmente contemporanei ad Omero (VIII sec. a.C.).
Ma l’immagine della donna non sembra mutare e agli
43
C arlo C asi

inizi del I millennio a.C. potremmo descriverla così: le-


gata al focolare domestico, comandava le serve e vive-
va principalmente nelle sue stanze (quando ne aveva a
disposizione) filando, tessendo e rimanendo lontana dai
luoghi di cerimonia e dai banchetti. Telemaco dice a sua
madre Penelope:”Va’ nella tua camera, veglia alle opere del
tuo sesso, telaio e conocchia, ordina alle tue ancelle di occupar-
si dei loro compiti; il parlare riguarda gli uomini, e me sopra
tutto, perché il padrone di casa sono io”.

44
Da TanaqUiLLa a LarThia
SeianTi: La Donna eTrUSca
neL PUbbLico e neL PrivaTo
di Simona Rafanelli

“P
er colmo di sventura, il quadro dei costumi etru-
schi è stato dipinto, ne varietur, da un pittore tanto
eloquente quanto menzognero, Teopompo, scritto-
re della metà del IV secolo..... in generale, come disse bene Cor-
nelio Nepote, la lingua più malevola (maledicentissimus) di
tutta la letteratura: ghiotto soprattutto di aneddoti scabrosi e
di pettegolezzi piccanti”.

Con queste parole Jacques Heurgon, nella sua anco-


ra fondamentale “Vita quotidiana degli Etruschi” (Heu-
rgon 1961,) introduce il capitolo sul “carattere morale”,
riportando per intero il brano dello storico greco. Egli
ricorda che Teopompo ha profondamente influenzato
alcuni degli storici, filosofi e letterati che costituiscono
per noi le sole fonti scritte relative ai costumi ed alle
usanze del popolo etrusco: un popolo che, al tempo del-
la riforma amministrativa dell’Italia promossa dall’im-
peratore Augusto, era sostanzialmente confinato nella
VII Regio, corrispondente nelle grandi linee all’attuale
Toscana.
Infatti, il ritratto che degli Etruschi ci ha lasciato il fi-
losofo greco Posidonio, che visse tra la fine del II ed il I
secolo a. C., dunque circa due secoli dopo Teopompo, ap-
pare orientato nella stessa direzione: per lui si trattava di
un popolo molle ed ozioso, amante dei piaceri e del lusso
sfrenato, che “aveva perduto il vigore per cui era famoso nei
tempi antichi e a forza di banchetti e di piaceri effemminati ha
perduto la reputazione che i suoi avi avevano conseguito in
guerra ..” (Posidonio, in Diodoro Siculo, V, 40).

45
simona rafanelli

In un quadro dalle tinte così forti, la parte riservata


alla donna era sicuramente rilevante.
Coacervo di vizi e di mollezze, la donna etrusca era al
centro dei pettegolezzi malevoli e delle maldicenze degli
scrittori antichi, sia greci che romani.
Illuminante appare, al riguardo, per l’appunto il bra-
no di Teopompo, riportato di seguito, che Ateneo ci ha
conservato ne “I sofisti a banchetto” (“Deipnosofisti”,
XII, 517 d) (trad. di A. Cettuzzi):

“Teopompo, nel libro CLIII della sua storia, dice che presso i
Tirreni le donne sono tenute in comune, che hanno molta cura
del loro corpo e che si presentano nude, spesso, tra uomini,
talora fra di esse, in quanto non è disdicevole il mostrarsi nude.
Stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo
venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono
forti bevitrici e molto belle da vedere.
I Tirreni allevano tutti i bambini ignorando chi sia il padre
di ciascuno di essi; questi ragazzi vivono nello stesso modo di
chi li mantiene, passando parte del tempo ubriacandosi e nel
commercio con tutte le donne indistintamente.
Non è riprovevole per i Tirreni essere visti abbandonarsi
in pubblico ad atti sessuali e neppure a subirli, essendo an-
che questo un uso del paese. Sono tanto alieni dal considerare
vergognosa questa condotta che quando il padrone di casa sta
facendo all’amore e si chiede di lui, essi dicono “Fa questo o
quello”, dando impudicamente a tale genere di occupazione il
suo vero nome.
In occasione di riunione di società o di parentado, si com-
portano come segue: anzitutto, quando hanno finito di bere e si
dispongono a dormire, i servi fanno entrare, mentre le fiaccole
sono ancora accese, ora cortigiane ora bellissimi giovani e qual-
che volta le loro mogli. Dopo aver soddisfatto le loro voglie con
le une o con gli altri fanno coricare giovani vigorosi con questi o
con quelle. Fanno all’amore e si danno ai loro piaceri talvolta alla
presenza gli uni degli altri, ma più spesso circondano i loro letti
di paraventi di rami intrecciati, sui quali stendono i mantelli.
Hanno certamente frequenti rapporti con le donne, ma ta-
lora si divertono con ragazzi e giovani efebi che nel loro paese
sono bellissimi da vedere perché vivono nel lusso e hanno il
corpo depilato. Infatti tutti i barbari che abitano a Occidente si
strofinano il corpo con la pece e lo rasano.
46
L a Donna neLL ’a ntichità

Fig. 9, Tarquinia, particolare dell’affresco della tomba dell’”Orco” - (metà IV sec. a.C.) con il volto
di Velia, moglie di Arnth Velchas.

Presso i Tirreni vi sono, inoltre, molte botteghe condotte da


specialisti per questa operazione, come vi sono i barbieri presso
di noi. Quando le frequentano, si prestano al necessario in tut-
te le maniere, senza vergognarsi di essere visti dai passanti.”

Di fronte a queste parole che non sembrano ammette-


re repliche, il tentativo di recuperare un’immagine della
donna etrusca (fig. 9) depurata dalle maldicenze e libe-
rata dai pregiudizi che secoli di storia le hanno cucito
addosso, un’immagine quanto più possibile obiettiva e
capace di restituirle la sua perduta ma indubbia origina-
ria dignità, risulta impresa quasi disperata.
47
simona rafanelli

Gli ultimi decenni del secolo passato hanno visto


però il tentativo di alcuni studiosi di porsi sulla scia di
Heurgon (cfr. Rallo (a cura di) 1989; Sordi 1981), cercan-
do di gettare un po’ di luce sulle abitudini sociali di un
popolo cui l’estrema povertà di fonti letterarie dirette ha
contribuito a conferire quell’alone di mistero che gli etru-
scologi moderni cercano oggi di dissipare.
“Quella che riappare, di tra le maldicenze degli autori
antichi, è una donna diversa così dalla donna greca” - confi-
nata entro gli angusti confini di un gineceo - “come dalla
donna romana”(Gasperini 1989) - relegata dalla società
negli spazi domestici della propria abitazione, una
donna nobile ed elegante, curata nel corpo e nell’abi-
to, una donna abituata a mostrarsi in pubblico a fianco
dell’uomo, una donna padrona dei propri spazi, nella
sfera del pubblico e del privato. Una donna “moder-
na” potremmo dire, titolare dei propri diritti e dove-
ri al pari dell’uomo, una donna libera che ha pagato,
con un giudizio troppo severo da parte degli antichi,
il prezzo di questa sua libertà, inconcepibile agli occhi
di un mondo “classico”, dominato dal maschilismo e
dalla misoginia.

La donna romana
“Pudica, lanifica, domiseda”: riservata, filatrice di lana,
seduta nell’atrio della casa: questi gli epiteti apposti so-
lennemente dai romani, sulle lapidi funerarie, ad eterno
commento delle virtù delle loro mogli; questo l’”elogium”
ad esse riservato. Un elogio che sommamente si attaglia
alla più virtuosa di tutte le donne romane, la nobile Lu-
crezia, moglie di Tarquinio Collatino.
La vicenda, che ha fatto di questo personaggio mi-
tistorico il paradigma della donna romana, si svolge al
tempo di Tarquinio il Superbo, l’ultimo esponente di
quella stirpe di re etruschi che per circa un secolo domi-
nò Roma. Collatino, nipote del re, irrompendo inatteso
nel cuore della notte, trova la moglie seduta nell’atrio
della casa, circondata dalle ancelle alla luce soffusa di
una lanterna, intenta alla più nobile delle attività dome-
stiche, la filatura della lana.
48
L a Donna neLL ’a ntichità

Sublime si staglia, nel racconto dello storico romano


Tito Livio, la figura della pudica Lucrezia, sullo sfondo
licenzioso dei banchetti ove sono coinvolte le nuore del
re, sorprese dai principi, loro consorti, ad intrattenersi
“cum aequalibus” - donne dello stesso livello sociale - in
sontuosi e sfrenati festini.

Abitavano Ardea i Rutuli, popolazione per quel territorio e


per quei tempi ricchissima ; e fu appunto questa la causa della
guerra, perché il re di Roma (Tarquinio il Superbo), impoverito
dalle opere pubbliche, desiderava non solo arricchirsi egli stes-
so, ma anche placare col bottino l’animosità dei plebei, ostili
al regno, oltre che per l’abituale superbia del sovrano, anche
perché si dolevano d’essere stati impiegati da lui, per sì lungo
tempo, in servizi da operai e in fatiche da schiavi.
Si cercò di prendere Ardea al primo assalto. Poiché il tenta-
tivo ebbe scarso successo, si cominciò a trincerarsi e a stringere
il nemico d’assedio. Durante questa forzata inattività, come
avviene in una guerra più lunga che aspra, le licenze venivano
concesse con una certa larghezza, più agli ufficiali però, che ai
soldati; i principi, ad esempio, di tanto in tanto se la spassava-
no in banchetti e gozzoviglie.
Mentre costoro facevano baldoria presso Sesto Tarquinio,
dove si trovava a cena anche Tarquinio Collatino, figlio di Ege-
rio, per caso il discorso venne a cadere sulle loro mogli. Ognu-
no esaltava la propria; accesasi una disputa, Collatino disse che
non v’era bisogno di tante parole, chè entro poche ore si sarebbe
potuto constatare quanto la sua Lucrezia fosse migliore di tutte
le altre.
“Perché, se è vero che siamo nel vigore della giovinezza,
non montiamo a cavallo e non andiamo a vedere di persona le
abitudini delle nostre spose ? Ciò che si offrirà agli occhi di cia-
scuno di noi, all’arrivo inaspettato del marito, costituirà una
prova irrefutabile”. Il vino li aveva eccitati. “Su andiamo!”
gridano tutti; e a spron battuto volano a Roma.
Giuntivi verso l’imbrunire, proseguono di là per Collazia,
dove trovano Lucrezia non già come le nuore del re, che essi
avevano visto spassarsela in sontuosi banchetti insieme con
le compagne, ma seduta in mezzo all’atrio, benché fosse notte
inoltrata, intenta alle sue lane fra le ancelle che vegliavano al
lume della lucerna.
La vittoria in quella gara muliebre toccò a Lucrezia.
49
simona rafanelli

Al loro arrivo il marito e i Tarquini furono accolti cortese-


mente; il marito vincitore invitò gentilmente a cena i principi.
Ivi Sesto Tarquinio è preso dall’infame capriccio di far violenza
a Lucrezia; lo eccitano, non solo la sua bellezza, ma anche la
sua specchiata onestà.
Ma per il momento, dopo quel notturno svago giovanile,
essi tornano al campo”. (Livio, I, 57, trad. it. di M. Scando-
la, Milano 1982).

La donna etrusca
“Domum servavit, lanam fecit”, “Custodì la casa, filò
la lana”: così recita il più celebre degli epigrammi fune-
rari romani. (Bucheler, Carm. Lat. Epigr., 52, 8)

Ma era dunque così diversa l’attività svolta dalla


donna etrusca nella gestione della vita familiare e quo-
tidiana? Qual era l’occupazione principale di questa
donna tanto biasimata dai suoi contemporanei, che oggi
cerchiamo di riscoprire attraverso una documentazione
lacunosa e quanto meno parziale perché riferibile agli
individui appartenenti alle classi dirigenti, i soli archeo-
logicamente documentati?
In assenza di documenti letterari diretti, per la co-
noscenza della civiltà etrusca, parlano infatti le fonti

Fig. 10a-b, Bologna, Museo Civico Archeologico. Tintinnabulo in bronzo dalla Tomba degli Ori.

50
L a Donna neLL ’a ntichità

archeologiche. Un ruolo documentario di primo piano


rivestono i materiali restituiti dai corredi funerari rela-
tivi a sepolture femminili e le rappresentazioni figurate
sui monumenti della scultura, della pittura parietale e di
quella vascolare, indubbiamente le più eloquenti, nella
loro sorprendente freschezza, nell’offrirci con immedia-
tezza uno spaccato di vita quotidiana sul popolo etrusco.
Un documento assolutamente eccezionale, il tintinna-
bulo in bronzo rinvenuto nel corredo della tomba degli
Ori della necropoli dell’Arsenale Militare di Bologna,
databile alla fine del VII secolo a.C., presenta sulle due
facce una serie di scene connesse rispettivamente alla fi-
latura ed alla tessitura (fig. 10a-b).
Protagoniste delle scene sono alcune figure femmini-
li, stanti o sedute su troni dall’alta spalliera ricurva, in-
tente a formare le matasse di lana ed a filarle, munite di
conocchie e di fusi.
Al culmine del ciclo della lavorazione, è rappresenta-
ta la fase della tessitura, che avviene mediante un gran-
de telaio a due piani, del quale il monumento bolognese
conserva la più antica rappresentazione. La sua singola-
re conformazione doveva consentire di ottenere una fa-
scia più lunga di tessuto senza dover cambiare e staccare
i pesi che tendevano in basso i fili dell’ordito.
La più antica raffigurazione etrusca di una donna che
attende ad un’attività domestica mette in scena dunque
personaggi impegnati nella filatura e nella tessitura; le
protagoniste delle operazioni non sono serve o ancelle,
ma, come attestano inequivocabilmente, da una parte
l’abbigliamento, costituito da una lunga tunica ricamata
e dal mantello tirato sul capo, e, dall’altra, il seggio ad
esse riservato, il grande trono dall’alta spalliera ricurva,
individui di rango elevato, in una parola “dominae”, pa-
drone della casa.
Rango sociale, posa e occupazioni della signora etru-
sca del tintinnabulo bolognese coincidono dunque per-
fettamente con quelli che caratterizzano, appena un se-
colo più tardi, l’icona di Lucrezia, considerata il modello
della donna romana.

L’esame dei corredi funerari più antichi, pertinenti


alla fase culturale villanoviana (X-VIII sec. a.C.), confer-
51
simona rafanelli

ma quanto il tintinnabulo bolognese raffigura: innume-


revoli sono gli strumenti per la filatura e per la tessitura
- rocchetti e fuseruole di terracotta, fusi e conocchie in
bronzo nelle deposizioni femminili, anche in quelle di
maggiore ricchezza e prestigio.
Dunque “se produrre - nell’antichità - ed educare è il de-
stino della donna”, per riprendere con Gilda Bartoloni le
parole di Mosey I. Finley (Bartoloni 1989), “filare la lana
ne è l’emblema”, un emblema già profondamente impres-
so, per la donna etrusca, nella cultura villanoviana.
Si tratta di un modo di raffigurazione simbolica del-
lo status di domina, che connota finanche un’aristocratica
etrusca come Tanaquilla, sposa di colui che diverrà re di
Roma con il nome di Tarquinio Prisco: questa donna stra-
ordinaria, principessa etrusca e regina romana, gli autori
romani definiranno “summa lanifica” (eccellente filatrice)
per guadagnarla alla storia ed alla tradizione nazionale;
ancora in età repubblicana, alla sua statua, adorna degli at-
tributi del fuso e della conocchia, le giovani spose di Roma
leveranno invocazioni nel momento che precede le nozze.

Ma se il fuso o la conocchia in bronzo, deposti nei cor-


redi aristocratici, qualificano la defunta come “domina
lanifica”, amministratrice dei beni e delle ricchezze del
proprio casato, di cui la lana del proprio “pecus” costi-
tuiva parte integrante, la presenza di fuseruole in argilla
all’interno di corredi più modesti conferma che questo
tipo di rappresentazione simbolica caratterizza tutte le
donne etrusche in quanto filatrici.
Dalle mani di queste filatrici dovettero uscire i pesan-
ti abiti e mantelli di lana, decorati con il tipico ornato
a riquadri o a losanghe reticolate, che caratterizzano il
periodo più antico della storia di Etruria, quali vengono
riprodotti su numerosi monumenti etruschi di VII secolo
a C. - sul biconico di Monte Abatone, nella figura femmi-
nile vestita di lunga tunica, o sulle statuette in terracotta
dalla tomba delle Cinque Sedie di Cerveteri (Bonfante
1989).
Le mani tra esse più abili dovettero attendere alla re-
alizzazione delle vesti di lino, tese sui telai forniti di pesi
più leggeri, delle tende variopinte raffigurate nelle tombe
arcaiche di Tarquinia, delle vele per le navi per le quali
52
L a Donna neLL ’a ntichità

la stessa Tarquinia andava famosa ancora al tempo della


seconda spedizione di Roma contro Annibale (205 a. C.).
Di lino erano confezionati anche i preziosissimi libri,
che conservavano i più importanti testi religiosi o le me-
morie delle grandi casate, gelosamente custodite negli
archivi familiari.

Le domestiche
Ma, accanto alle innumerevoli filatrici e tessitrici, delle
quali unicamente le fuseruole o i rocchetti in impasto, for-
se associati a perduti fusi e conocchie in legno, testimo-
niano all’interno dei corredi tombali il sesso e la funzione,
molti erano i volti femminili che componevano, nell’am-
bito stesso degli spazi domestici, il quadro delle serve
della domina, una parte di quel “nugolo” di servi ricordati
dal filosofo greco Posidonio d’Apamea, tra i quali “Al-
cuni ... sono di rara bellezza, gli altri sono abbigliati con vesti
più ricche di quanto convenga allo stato servile”(Posidonio, in
Diodoro Siculo, Biblioteca, V, 40 ss).
Rilievi chiusini in pietra, specchi in bronzo, vasi di-
pinti ritraggono più volte la donna etrusca in scene di
bagno e di toeletta, ove solerti “ancillae” pettinatrici, un-
guentarie, esperte di cosmesi si affaccendano intorno alla
“domina” mollemente adagiata su un comodo sgabello,
frequentemente munito di poggiapiedi, al centro della
scena: gentili ed
esperte, le fan-
ciulle sono raffi-
gurate nel gesto
di ungere la si-
gnora con oli pro-
fumati o in quello
di acconciarle le
chiome a seconda
della moda del
tempo (fig. 11).
Assimilata alla
greca Elena di Fig. 11, Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Pettine in
bellezza impareg- begna (675-650 a.C.).
avorio dalla tomba a Circolo degli Avori di Marsiliana d’Al-

giabile o all’etru-
53
simona rafanelli

sca Turan, dea dell’amore, corrispondente alla greca


Afrodite, e spesso con quelle alternata o confusa, la figu-
ra femminile campeggia sul retro degli specchi bronzei
d’epoca classica ed ellenistica, considerati il dono nuzia-
le per eccellenza.
Vestita talora unicamente di pregiate calzature ap-
puntite e ricoperta di raffinati gioielli che le impreziosi-
scono il collo, le orecchie, le braccia e persino la nuca, con
alti diademi, la donna delle più tarde rappresentazioni
figurate etrusche offre tenero il fianco alle maldicenze di
Teopompo, nelle scene che la ritraggono nuda presso il
“louterion” (bacile su alto sostegno), mentre esce dai ba-
gni, affidata alle cure delle domestiche.

i gioielli
Collane composte da grani, ad uno o più fili, o con
“bullae” pendenti, orecchini “a grappolo” o a disco con
pendenti ovali, a goccia o piramidati, armille (bracciali)
a filo liscio, ritorto o munite anch’esse di bullae pendenti,
realizzati in oro, in ambra, in pietre preziose, compaiono
nei corredi più ricchi sin dal periodo orientalizzante (VII

Fig. 12a-b, Firenze, Museo Ar-


cheologico Nazionale: fibula
(spilla) in oro con arco a sfinge
e decorazione animale a pulvi-
scolo sulla staffa dalla tomba
del Littore di Vetulonia (fig.
10a); collana a pendenti in oro
in forma di teste di Satiro e di
Menade, da Volterra (fig. 10b).

54
L a Donna neLL ’a ntichità

sec. a.C.), talora associati al fuso in bronzo, per protrarsi


sino all’età ellenistica (IV-III sec. a.C.) in forme elaborate
e complesse, in sagome ricercate che coniugano il viva-
ce gusto locale agli influssi stilistici greci ed orientali, in
formulazioni pregiate ove spicca l’uso sapiente delle tec-
niche a filigrana ed a granulazione di origine orientale
(figg. 12a-b).
Il gioiello, al pari del fuso in bronzo, posto all’interno
del corredo funerario, connota la defunta, qualificando-
ne il sesso e la condizione sociale: la “domina” elegante,
che ostenta lo splendore del suo corpo lenito dagli aromi
e dei suoi gioielli, e l’”eccellente filatrice” convergono
nell’unica figura femminile che, in questa straordinaria
e per così dire “moderna” fusione, finisce con il divenire
un “unicum” nel mondo antico ad essa coevo, attirando-
ne invidia e maldicenze.

i giochi, le danze, la musica


Vestita di tunica e mantello al pari dell’uomo (Bon-
fante 1989), provvista di scarpe, cintura, e copricapo,
la donna etrusca, come sottolineava già Heurgon, esce
dalle pareti domestiche per prendere parte, a fianco del
consorte, ai momenti salienti della vita pubblica e fa
sfoggio di sé negli stadi, ai concerti, agli spettacoli, nei
banchetti, sdraiata a fianco dell’uomo sui letti (klìnai)
conviviali.
Gli affreschi parietali che adornano gli interni delle
tombe arcaiche di Tarquinia ci offrono, quasi scattate da
un reporter indiscreto, una serie di istantanee su alcuni
frammenti di vita reale, pubblica e privata, di questa pe-
culiare figura femminile.
Ora protagonista, ora spettatrice, eccola, nella parete
di fondo della tomba dei Giocolieri (520 a.C.), con una
lunga tunica leggera ed un farsetto a corte maniche in
tessuto più pesante, vestire i panni di una disinvolta gio-
coliera ed esibirsi, professionista esperta, alla stregua de-
gli attori e dei saltimbanchi, in un numero di maestria e
di equilibrio con altri giovani artisti dello spettacolo. Nel
cosiddetto fregio minore della tomba delle Bighe (500
a.C.), eccola invece, questa volta nel ruolo di aristocratica
55
simona rafanelli

spettatrice, mescolarsi nella platea vivace e scherzosa dei


giovani etruschi benestanti seduti nelle tribune, vestita
di tutto punto, con il tutulus o con il mantello sollevato
sul capo, pronta ad assistere alle gare degli atleti, ad ap-
plaudire, a commentarne l’esito.
Ed infine, amante delle danze, eccola atteggiare le
mani ed il resto del corpo nei gesti studiati e composti
di una danza “familiare”, in onore del consorte, sulla
parete di fondo della tomba delle Leonesse (520 a.C.),
alla sinistra dei musici e del grande cratere bronzeo
del simposio, mentre riappare sulla destra, “spoglia-
ta” degli abiti della “domina” ed indossati quelli leg-
geri e trasparenti di una abile ballerina professionista,
impegnata ad intrecciare una danza sfrenata dai carat-
teri orgiastici con un giovane efebo dai lunghi riccioli
biondi.
Signora aristocratica che sa intraprendere liete danze
nel consesso familiare, ove - come nella tomba Cardarelli
(520 a.C.) - possono essere coinvolti marito e figli o dan-
zatrice professionista assoldata nei giochi, nei funerali o
nei banchetti, la donna etrusca si rivela capace, all’inter-
no dei ranghi che la sua condizione sociale le impone, di
ricoprire un’ampia gamma di competenze nella sfera del
pubblico e del privato, totalmente sconosciute alle donne
greche e romane.
Questo vale anche per la sfera musicale, dal momen-
to che alcuni fregi pittorici delle tombe tarquiniesi rap-
presentano figure femminili colte nell’atto di suonare il
doppio flauto.
E se il frontoncino della parete di fondo della seconda
camera della tomba della Caccia e della Pesca (520 a.C.)
mette in scena una giovane aulèta, vestita di tunichetta
leggera e di corto giubbotto pesante, in una scena di so-
brio e commosso banchetto familiare, ove alcune dome-
stiche sono intente ad intrecciare ghirlande (fig. 13) per
la domina ed il suo consorte, dichiaratamente pubblico è
il contesto entro il quale si muove la flautista raffigurata
sulla parete laterale sinistra della tomba delle Bighe (500
a.C.).
Questa, avvolta in una lunga tunica trasparente e rica-
mata e le spalle coperte da un ampio mantello ricadente
dagli avambracci, avanza in un corteo di ballerine ugual-
56
L a Donna neLL ’a ntichità

Fig. 13, Tarquinia, necropoli dei Monterozzi, tomba della Caccia e della Pesca, parete di fondo:
particolare con fanciulle che intrecciano ghirlande.

mente abbigliate e di danzatori professionisti, chiamati


ad allietare il sontuoso banchetto che si svolge nel gran-
de fregio della parete di fondo della camera funeraria.

La cosmesi
Documento importante, per l’eccezionale stato di
conservazione dei colori, la parete di fondo della tomba
dei Leopardi leva il sipario su un festoso convito che esi-
bisce tre coppie di banchettanti semidistesi sulle klìnai in
atto di conversare amabilmente, deliziandosi delle gioie
della musica e del vino. Sfarzo di ricchezza e di colori
sgargianti emana dagli abiti femminili ricamati con mo-
tivi in rosso, dai mantelli rossi e bianchi, bordati da stri-
sce gialle, verdi ed azzurre, che cingono al torace tutti i
partecipanti al banchetto, dalle coperte di lana decorate
a scacchi.
Truccate, agghindate con lunghe vesti, adornate di
corone di alloro e di gioielli, le donne, adagiate a fianco
dell’uomo sulla klìne conviviale, esibiscono con osten-
57
simona rafanelli

Fig. 14, Tarquinia, necropoli dei Monterozzi, tomba dei Leopardi, parete di fondo: particolare
della scena di banchetto.

tazione corte e ricciute chiome bionde (fig. 14). Alcuni


studiosi (Rallo 1989) hanno voluto cogliere in queste
rappresentazioni, così coloristicamente efficaci, le tracce
di un avito sapere connesso alla pratica della cosmesi,
ritenuta nel mondo classico una branca della medicina
ed indiziabile, presso gli etruschi, dalla fama di cui essi
godevano come fabbricatori di farmaci (Teofrasto, Hist.
Plant. IX, 15, 1).
Sbiondimento delle chiome, in uso per gli uomini e
per le donne, tinture scure ottenute da prodotti vegetali,
ombretti colorati tra i quali quello giallo, derivato secon-
do Ovidio dai fiori del croco, maschere di bellezza a base
di amido etrusco e di miele dovevano in effetti, come è
lecito in parte dedurre dalle rappresentazioni pittoriche,
essere noti anche agli Etruschi prima che ai Romani, se
tipico prodotto etrusco era il celebre “far clusinum” (farro
di Chiusi) dal quale si otteneva una farina finissima e
bianchissima utilizzata ancora come belletto - a detta di
Ovidio - dalle matrone romane in età imperiale.

banchetto e gestualità
Stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo
venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono
forti bevitrici e molto belle da vedere.
58
L a Donna neLL ’a ntichità

Fig. 15, Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Sarcofago in terracotta cosiddetto “de-
gli sposi” (520 a.C.).

È in effetti estremamente difficile, di fronte alla scena


di banchetto riprodotta nella tomba dei Leopardi (470
a.C.), non incorrere nella tentazione di cedere alle maldi-
cenze di Teopompo, tanto gli affreschi sembrano illustra-
re a colori vivaci il suo salace commento, ma per buona
sorte della donna etrusca e della sua reputazione, nume-
rosi e celebri monumenti tramandati sino ai nostri giorni
valgono a giustificare una differente versione dei fatti.
Bastino, fra tutti, quei manufatti d’arte incompara-
bili rappresentati dai cosiddetti sarcofagi degli sposi da
Cerveteri, in realtà cinerari, conservati rispettivamente a
Roma, nel museo di Villa Giulia e a Parigi, nel Museo del
Louvre, a commento dei quali siano sufficienti le parole
di Heurgon il quale, nel presentare “i coniugi anonimi di
Caere, adagiati l’uno accanto all’altra sul letto funebre”,
sottolinea il loro “atteggiamento dignitoso e familiare, la
protezione affettuosa del marito, la tenera fiducia della
moglie”, che “esprimono la felicità coniugale in ciò che
vi ha di più universale” (fig. 15) (J. Heurgon 1961).
E ancora, due secoli più tardi, la coppia dei defun-
ti nudi, teneramente abbracciati sotto lo stesso mantel-
lo sul coperchio di sarcofago di Ramtha Visnai, da Vulci,

59
simona rafanelli

conservato al Museum of Fine Arts di Boston – sembra


farsi portavoce, fin nell’Aldilà, della medesima profonda
felicità coniugale.
Abbracci, sguardi, tenere carezze caratterizzano la
gestualità affettiva di questa donna etrusca, fragile ed
audace, che invoca la protezione del compagno e sfida
spavalda, senza arrossire - dirà lo storico romano Tito
Livio a proposito della Tullia sposa del re Tarquinio il
Superbo - lo sguardo della folla.
“Alla destra del suo sposo, ora gli dona una carezza, ora ne
riceve l’abbraccio, ora gli tende un oggetto”: così Gasperini
(Gasperini 1989) commenta la figura femminile che in
molti affreschi funerari tarquiniesi vediamo distesa sulla
klìne accanto all’amato consorte.
Sommamente composte e soffuse di dolce intimità, ci
appaiono queste scene di banchetto familiare riservate
alla signora di casa ed al suo sposo, attorniati da un ri-
stretto nugolo di servitori e di domestiche impegnati a
preparare ed a servire le bevande, a suonare il flauto o la
cetra e ad intrecciare ghirlande da porre sulla testa o sul
petto dei loro signori.
Esplicite, al riguardo, sono le rappresentazioni arcai-
che di banchetto coniugale nel frontoncino della seconda
camera funeraria nella tomba della Caccia e della Pesca
(520 a.C.), dove la domina offre con la sinistra una ghir-
landa al suo sposo, toccandogli con la destra il mento in
segno di dolce rispetto mentre lo sposo la attira a sé in
un tenero abbraccio – o nella parete di fondo della tomba
dei Vasi Dipinti (520 a.C.), in cui è lo sposo, munito nella
sinistra della grande coppa per bere, ad accarezzare con
la destra il mento della sua sposa.
O ancora nella parete di fondo della tomba del Vec-
chio (520 a.C.), dove la giovane sposa, elegantemente
abbigliata, porge una corona intrecciata all’anziano
consorte, ricevendone in cambio una tenera e com-
piaciuta carezza sul viso ed infine, in ugual posizio-
ne, nella tomba ellenistica degli Scudi (seconda metà
IV secolo a. C.), dove la sposa pone amorevolmente la
mano sulla spalla del compagno, mentre con l’altra gli
porge un oggetto che egli si appresta, solerte e premu-
roso, ad accettare.

60
L a Donna neLL ’a ntichità

La regina
Ed è con un tenero abbraccio che persino Tanaquil-
la, donna etrusca di alto lignaggio e sposa di Lucumone,
consola ed esorta colui che si appresta a divenire, con
favorevoli auspici, il futuro re di Roma con il nome di
Tarquinio Prisco.
Con rapide ed efficaci pennellate, lo storico romano
Tito Livio offre allo sguardo dei posteri una Roma ancora
all’inizio della sua storia fatta di capanne, che i due spo-
si, Lucumone e Tanaquilla, contemplano dal sommo del
Gianicolo seduti sul carro carico di masserizie e di segre-
te ed ambiziose speranze, che li ha condotti sino a Roma.

“Durante il regno di Anco, Lucumone, uomo attivo e facol-


toso, si trasferì a Roma, a ciò indotto soprattutto dall’ambizio-
sa speranza di conseguire quegli onori che a Tarquinia - poiché
anche là era di origine straniera - non aveva avuto la possibi-
lità di ottenere.
Era figlio del corinzio Demarato, il quale, fuggito dalla patria
in seguito a dei disordini e stabilitosi per caso a Tarquinia, vi
aveva preso moglie e ne aveva avuto due figli. Costoro si chia-
mavano Lucumone e Arrunte. Lucumone sopravvisse al padre
ereditandone tutti i beni; Arrunte premorì al padre lasciando la
moglie incinta. Né il padre rimase a lungo in vita dopo di lui; e
poiché, ignorando che la nuora portava una creatura in grembo,
era morto senza far menzione nel testamento del nipote, al bim-
bo nato dopo la morte del nonno senza che gli toccasse alcuna
parte dei suoi beni, fu dato per la sua povertà il nome di Egerio.
Lucumone invece, che già la ricchezza, erede com’era di
tutti i beni, rendeva superbo, ancor più lo divenne in seguito
al matrimonio con Tanaquilla, donna d’alto lignaggio e tale da
non accettare facilmente che le condizioni della famiglia di cui
entrava a far parte col suo matrimonio fossero più modeste di
quelle in cui era nata.
E poiché gli Etruschi disprezzavano Lucumone ch’era
nato da un esule straniero, non poté sopportare l’oltraggio, e,
obliando l’innato amor di patria, pur di vedere onorato il mari-
to, prese la determinazione di emigrare da Tarquinia. Roma le
parve la città più adatta a tal fine: in quel popolo nuovo, in cui
ogni nobiltà era di data recente e fondata sul merito, vi sarebbe
stato posto per un uomo forte e valoroso; vi aveva regnato Ta-
61
simona rafanelli

zio, un Sabino, vi era stato chiamato al regno Numa, oriundo


di Curi, e Anco era figlio di madre sabina e nobile soltanto
perché vantava come antenato Numa.
Le fu facile persuadere il marito, avido com’era di onori, e
dato che Tarquinia era sua patria solo per parte di madre, presi
dunque i loro averi, si trasferiscono a Roma.
Erano giunti per caso nei pressi del Gianicolo. Qui, mentre
è seduto sul cocchio con la moglie, un’aquila calatasi lenta-
mente ad ali tese gli porta via il pileo, e svolazzando sul cocchio
con grande strepito glielo rimette di nuovo acconciamente sul
capo, come se fosse stata mandata dagli dei a compiere una
missione; quindi si levò nel cielo.
Si dice che Tanaquilla, donna esperta di prodigi celesti,
come lo sono in genere gli Etruschi, abbia accolto lietamente
quell’augurio. Abbracciando il marito, gli fa sperare alti onori:
gli spiega che si trattava del tale uccello, ch’era venuto dalla
tal parte del cielo e messaggero della tale divinità; che aveva
dato l’auspicio sulla parte più alta del corpo; che aveva tolto
l’ornamento posto sul suo capo umano, onde rimetterglielo per
volontà divina.
Nutrendo in cuore queste speranze e questi pensieri, en-
trarono in città, e, procuratisi un alloggio, dichiararono come
nome quello di Lucio Tarquinio Prisco” (Livio, I, 34, trad. it.
di M.Scandola, Milano 1982).

Livio ci regala su Tanaquilla un’informazione prezio-


sa, la nomina esperta di prodigi celesti (...“perita, ut vulgo
etrusci, caelestium prodigiorum”...): una donna, al pari de-
gli uomini dunque, capace di trarre gli auspici dal volo
degli uccelli nel cielo, una versione femminile di quel
tipo particolare di sacerdote più volte riprodotto nei do-
cumenti figurati etruschi.
Ed ecco si presenta del tutto inattesa, di fronte ai no-
stri occhi, una donna etrusca versata nelle operazioni
rituali, colta ed esperta di cose religiose: un dato che po-
trebbe trovare un qualche conforto nell’esame di alcuni
corredi funerari femminili che mostrano, accanto alle
canoniche fuseruole o ai gioielli, pugnaletti e coltellini
forse utilizzabili, oltreché nelle operazioni della filatura,
anche nella sfera rituale.
Rare, se pure presenti, sono del resto le rappresenta-
zioni figurate che mostrano figure femminili armate del
62
L a Donna neLL ’a ntichità

coltello sacrificale (machaira), pronte a versare il sangue


delle vittime animali da offrire in dono alle divinità: un
ruolo che nell’antichità sembra altrove riservato univer-
salmente ed esclusivamente all’uomo, sacerdote e sacri-
ficatore (magheiros).
D’altra parte, quasi nulle sono per noi le notizie di un
eventuale sacerdozio o collegio religioso femminile, fatta
eccezione per le “ierodoule” di Pyrgi, le sacre prostitute
della dea Astarte che seppero suggerire al servo Lampa-
dione il malizioso commento sulle donne etrusche, “co-
strette a procacciarsi la dote, vendendo il loro corpo” (Plauto,
Cistellaria).
“non enim hic, ubi ex tusco modo, tute tibi indigne quaeras
corpore”.

e... la cucina?
Domina, principessa, regina, atleta, musicista e bal-
lerina, la donna etrusca ricopre, nella documentazione
iconografica, un ruolo da protagonista. E così doveva es-
sere, all’interno della casa, anche in cucina, per quanto le
rappresentazioni figurate non ci mostrino affatto donne
impegnate nella preparazione della tavola o delle vivan-
de.
Al contrario, la sola e completa rappresentazione
di scene di cucina etrusca, conservata sulle pareti della
tomba Golini I di Orvieto (seconda metà IV sec. a.C.),
riproduce un folto numero di personaggi maschili, che
lo stesso modesto abbigliamento qualifica come servi,
intenti a compiere le diverse operazioni necessarie all’al-
lestimento di un banchetto.
Sulle pareti della camera funeraria bipartita si susse-
guono servitori nei differenti atti di tagliare le carni, cuo-
cerle sui fornelli, imbandire con uova, focacce e grappoli
d’uva tavolinetti a tre piedi da destinare ai vari commen-
sali, persino nell’atto di macinare le spezie in un bacino
con appositi pestelli al fine di ottenere gustosi intingoli
con i quali insaporire le pietanze.
Un solo personaggio femminile compare nell’intera
rappresentazione, posto alle spalle dei servitori affac-
cendati nella preparazione delle mense, nel probabile
63
simona rafanelli

atteggiamento di impartire comandi e di controllare lo


svolgimento delle operazioni.
Se la formula onomastica, estremamente lacuno-
sa, non consente di riconoscere con sicurezza in questo
personaggio la padrona di casa, è tuttavia evidente,
come ha notato F.H.Peirault, l’imitazione della “domina”
nell’abbigliamento e nell’autorità di cui la figura sembra
investita, abbigliamento ed autorità che la pongono ine-
quivocabilmente in una posizione superiore a quella dei
domestici.
Possiamo dunque seguire la studiosa francese nell’in-
terpretare questa figura femminile come una dispensie-
ra, la “tamìa” dei testi greci contemporanei.

L’anagrafe
Lo straordinario sarcofago fittile policromo, con il
quale concludo questa nota sulla donna etrusca, presenta
effettivamente l’immagine di una signora dell’aristocra-
zia chiusina nella prima metà del II secolo a.C. (fig. 16).
Abbigliata con una ricca “parure” di gioielli, la dama
solleva con la sinistra uno specchio, mentre con la de-
stra scosta il velo dal volto, nel tipico gesto della sposa.
Bellezza, nobiltà, austerità irradiano dal volto della no-
bildonna, comodamente distesa sul letto conviviale, che
costituisce il coperchio del suo sarcofago.

Fig. 16, Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Sarcofago di Larthia Seianti da Chiusi.

64
L a Donna neLL ’a ntichità

Il monumento presenta un interesse particolare, dato


che, alla base del coperchio, sulla fronte, è iscritto il nome
della defunta: “Larthia Seianti”.
Questa formula onomastica si distingue nettamente
da quella in vigore in Grecia e a Roma: in essa si rileva
infatti la presenza di un nome proprio - il romano “pra-
enomen”, il nostro nome - “Larthia”, e di un gentilizio o
nome di famiglia - il romano “nomen”, il nostro cognome
- “Seianti”.
Gli eruditi e gli studiosi del ‘700 e dell’800 colsero con
immediatezza questa peculiarità che poneva la donna,
sul piano anagrafico, e presumibilmente dunque anche
su quello sociale, in una posizione di parità rispetto
all’uomo, comunemente contrassegnato, come nel mon-
do romano, da un nome personale e da un gentilizio.
Così, mentre a Roma, una donna appartenente alla
“gens” Cornelia, si chiama semplicemente Cornelia (e,
nel caso di sorelle, avremo ad esempio una Cornelia Ma-
ior ed una Cornelia Minor), la documentazione epigrafi-
ca etrusca ci propone di volta in volta una “Larthia Seian-
ti”, una “Ramtha Seianti”, e così via.
La parità anagrafica uomo-donna trova, d’altra par-
te, una clamorosa conferma nelle genealogie che accom-
pagnano il nome dei defunti negli epitaffi: al nome e al
gentilizio dell’individuo ed al nome del padre, seguono
infatti il prenome e il gentilizio della madre.
Il pretore di Tarquinia “Larth Plecus”, non sarà dun-
que unicamente “Arnthal clan”, ovvero “figlio di Arnth”,
ma anche “Ramthasc Apatrual (clan)”, ovvero “(figlio di)
Ramtha Apatrui”: e questo proprio in virtù del fatto che -
come sottolinea Gasperini - la donna etrusca “è in grado
di dare un nome ai figli, perché ha essa stessa un nome” (Ga-
sperini 1989).
La presenza del matronimico nelle formule onoma-
stiche che caratterizzano ciascun individuo fece favo-
leggiare gli studiosi, sin dall’Ottocento, su un presunto
matriarcato etrusco e questa ipotesi contò tra le schiere
dei suoi sostenitori valenti letterati del calibro di J.J. Ba-
chofen (Bachofen 1870).
Tuttavia, per riprendere le parole di Marta Sordi -
studiosa della storia antica che ha dedicato a “La donna
etrusca” (Sordi 1981) alcune pagine acute, “...al di là di un
65
simona rafanelli

presunto matriarcato, la posizione della donna etrusca si dif-


ferenzia da quella della donna romana, ed ancor più da quella
della donna greca, per la libertà e per la responsabilità di cui è
partecipe nella casa e nella famiglia, per il rapporto che essa ha,
anche giuridicamente, come rivela l’onomastica, con i genitori,
con il marito e con i figli...”
D’altra parte, l’attenta lettura di un passo del greco
Erodoto, in cui lo storico fornisce un’accurata descrizio-
ne di un reale matriarcato, quello vigente presso i Lidi,
può essere sufficiente a rivelarci l’inconsistenza di un
matriarcato etrusco.
Così - per citare ancora Heurgon - “Nella società etru-
sca, il pater familias faceva la legge, ma la mater familias aveva
la sua parola da dire, parola che spesso era l’ultima” (Heur-
gon 1961).

Donne imprenditrici
Ma non possiamo concludere questo breve ritrat-
to della donna etrusca, senza accennare ad un aspetto
emerso soltanto negli ultimi anni, grazie alle ricerche
condotte sulla documentazione epigrafica.
Alcune iscrizioni su bolli mercantili impressi su vasi
a vernice rossa di età ellenistica attestano l’esistenza di
botteghe di ceramisti, nelle quali lavoravano degli schia-
vi, di proprietà di donne di elevato ceto sociale.
Donne impegnate nell’”imprenditoria”, capaci di dire
l’ultima parola anche in questo campo e dotate in somma
misura di quell’ “audacia muliebris” vantata dalla nobile
Tullia Maggiore (Livio, I, 46,6), figlia di Servio Tullio e
sposa in seconde nozze dell’ultimo re etrusco di Roma,
Tarquinio il Superbo.

epilogo
La vicenda, narrata ancora da Livio, ci racconta infatti
come, avendo Servio Tullio due figlie, una mite ed una
violenta, dette in moglie ai due figli di Tarquinio Prisco
e di Tanaquilla, parimenti di opposta indole, la mite al
superbo e l’indomita al mite. Liberatisi barbaramente
66
L a Donna neLL ’a ntichità

dei due rispettivi e miti consorti, i due principi violenti


Tullia Maggiore e Tarquinio il Superbo unirono la loro
perversa audacia per conseguire la meta del “regnum”,
convolando a seconde nozze.
Violenza ed audacia caratterizzeranno del resto, nei
racconti degli storici romani, tutte le principesse di san-
gue etrusco. È lo storico Tacito (Annales, II, 34; IV, 21, 2 ;
22) a narrarci le gesta dell’ultima di queste, Urgulania,
divenuta intima amica di Livia, sposa dell’imperatore
Augusto, che riuscirà ad unire in matrimonio la nipote
Urgulanilla con il principe Claudio, il futuro imperatore
“etruscologo”.
Sfortunatamente perduti sono i suoi venti libri sul-
la “Storia degli Etruschi”, intitolata “Tyrrhenikà”, ove
sicuramente erano confluiti molti dei segreti di questo
popolo gelosamente custoditi negli archivi delle nobili
famiglie, ai quali egli, solo in quanto sposo di un’etrusca
d’alto rango, aveva probabilmente avuto facile accesso.

67
La Donna neL MonDo roMano
di Luciano Frazzoni

L
e fonti letterarie antiche ci hanno tramandato mol-
te vicende che vedono protagoniste donne roma-
ne esemplari, le cui figure erano considerate già in
epoca imperiale fulgidi esempi di grandezza morale e di
attaccamento ai propri mariti.
Una delle più celebri è Arria Maggiore, moglie del
senatore Caecina Peto. Quest’ultimo, coinvolto nella
repressione della rivolta di Scriboniano contro l’im-
peratore Claudio nel 42 d.C., fu arrestato nell’Illirico
e condotto a Roma, dove Arria lo seguì. Peto, come
molti senatori condannati a morte, preferì il suicidio,
in quanto i condannati alla pena capitale rimaneva-
no insepolti e i loro beni venivano confiscati, mentre
i suicidi avevano diritto alla sepoltura, e il loro testa-
mento aveva valore legale. Al momento di mettere in
atto il suo proposito, la moglie per incoraggiarlo, trasse
dall’abito un pugnale e dopo esserselo conficcato nel
petto, lo offrì al marito pronunciando le parole “Tene
Paete, non dolet” (prendi, Peto, non fa male). Tale epi-
sodio, ricordato per le fonti antiche da Plinio il Giova-
ne (Epistole, 3.16), Marziale (Epigrammi, I, XIII), Tacito
(Annali, 6.29; 16.10), oltre che da numerosi autori mo-
derni (Carcopino 1984; Cantarella 1989, p. 608; Ceneri-
ni 200 p. 207; Cantarella 2011) può essere preso come
paradigmatico per comprendere, almeno in parte, il
ruolo delle donne a Roma e il rapporto che esse hanno
svolto nella storia dello sviluppo della cultura romana.
A differenza delle donne greche infatti, il cui solo com-
pito sociale era quello di riprodurre biologicamente i
cittadini, le donne romane avevano, oltre naturalmente
il compito di assicurare la discendenza, quello impor-
tantissimo di trasmettere ai figli i valori dei padri, e di

69
l uCiano frazzoni

infondere in loro tutte quelle virtù che ne avrebbero


fatto dei perfetti cives romani. Da questo derivava loro
non solo una maggiore libertà e la possibilità di cre-
scita culturale, ma anche la consapevolezza di sentirsi
parte fondante della città, per la quale svolgevano un
compito fondamentale che, se svolto correttamente, le
avrebbe ricompensate con una vita gratificante e con il
rispetto da parte dei cittadini.
Anche le fonti epigrafiche, pur nelle scarne formule
ripetitive che riportano soltanto il nome della defunta,
gli anni di vita e poco altro, possono essere utili per com-
prendere le tappe della vita di una donna romana, e la
sua condizione sociale. Una di queste recita:
“Straniero, ho poco da dire, fermati e leggi:
Questo è il sepolcro non bello di una donna bella.
I genitori la chiamarono Claudia.
Amò il marito con tutto il cuore.
Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra,
l’altro lo ha deposto sotto terra.
Amabile nel parlare, onesta nel portamento.
Custodì la casa, filò la lana. Ho detto tutto. Va’ pure”.

Come si può notare, al di là delle formule generiche


proprie della retorica dei carmina epigrafici, il testo for-
nisce poche ma precise informazioni sulla vita e la con-
dizione femminile, scandita dalle tappe fondamentali:
il matrimonio, la nascita dei figli (il fatto che, di due fi-
gli avuti, uno sia già morto, è una cruda testimonianza
dell’alta mortalità infantile nell’antichità, pari a circa il
200%, vale a dire un quinto dei neonati), che pone come
altro problema anche l’alto numero delle donne morte di
parto (secondo alcuni studi tra il 5 e il 10% delle parto-
rienti moriva durante il parto o per le sue conseguenze,
per infezioni o per altre cause, in quanto il forcipe non
era conosciuto e il taglio cesareo veniva praticato solo
dopo la morte della partoriente). Segue una breve descri-
zione della persona, dal conversare piacevole e dal por-
tamento onesto, e un breve accenno alle uniche attività
alle quali la matrona romana degna di rispetto doveva
dedicarsi, vale a dire la custodia della casa e la filatura
della lana. Basterebbe questo per comprendere la condi-
zione della donna nel mondo romano, ma anche questi
70
L a Donna neLL ’a ntichità

brevi argomenti meritano di essere opportunamente af-


frontati, cercando di inserirli nel giusto contesto storico,
sociale e giuridico. Nel presente contributo, si cercherà
pertanto di tenere presente anche i profondi mutamen-
ti strutturali, economici e politici, che inevitabilmente
hanno influito nella mentalità e nell’ordinamento sociale
della storia romana in un arco cronologico di circa mille
anni, cambiamenti che inevitabilmente hanno coinvolto
anche l’universo femminile (Figg. 17 e 18).
Inoltre, è fondamentale tener presente che il mondo
antico è caratterizzato dalla distinzione non solo tra ceti
ricchi e poveri, ma tra cittadini liberi e schiavi, con tutte
le differenziazioni che questo comporta.

L’onomastica femminile
Il sistema onomastico romano prevedeva tre ele-
menti per gli uomini, il praenomen, il nomen e il cogno-
men, mentre per le donne ne bastava uno solo, riferito
alla gens di appartenenza (Iulia, Claudia, Aemilia, etc.),
seguito dal patronimico, ad es. T(iti) f(ilia) che attestava

Fig. 18: Mosaico con ritratto femminile (Napoli,


Museo Archeologico nazionale).

Fig. 17: Affresco con figura femminile da Pom-


pei (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).

71
l uCiano frazzoni

la nascita libera e non servile. Questo perché la donna


era esclusa dalla vita pubblica, pertanto non c’era bi-
sogno di distinguerla attraverso un elemento onoma-
stico identificativo come il praenomen. A livello privato
però, a causa della frequente omonimia, spesso le don-
ne all’interno della famiglia avevano nomi personali,
riferiti generalmente alla successione cronologica della
nascita (Prima, Secunda, o Maior, Minor, etc.). Dalla fine
dell’età repubblicana, si viene affermando anche per le
donne l’uso pubblico del cognomen, soprattutto tra il
ceto medio. Pertanto l’unico elemento per distinguere
una ingenua (di nascita libera) e una liberta rimane il
patronimico o il patronato anche questo modellato sul
patronimico come T(iti) l(iberta), che attesta l’origine
servile; una volta liberata l’ex schiava mutuava il suo
nome dal gentilizio del patrono, come ad esempio Sabi-
na C(ai) l(iberta) Myrtale.

Definizione di famiglia
Nel latino classico la parola familia non era usata
per indicare il nucleo famigliare in senso odierno (pa-
dre, madre e figli), ma, con un particolare significa-
to tecnico-giuridico, poteva indicare in senso molto
generale tutti coloro che erano imparentati per linea
maschile con un antenato comune, con un significato
sinonimo di gens o clan; più spesso veniva riferita alla
componente servile di una casa o una villa, escludendo
la famiglia vera e propria del padrone, per la quale si
usava il termine domus, comprendente in senso gene-
rale la famiglia compresi gli schiavi domestici. Dalle
fonti epigrafiche risulta comunque chiaramente che i
padroni facevano una netta distinzione tra la loro fa-
miglia (in senso moderno) e quella dei loro schiavi e
liberti, distinzione radicata nelle famiglie romane di
qualsiasi livello sociale, dalle più ricche, dove pote-
vano essere presenti centinaia di schiavi, a quelle più
povere, dove la presenza schiavile si riduceva a poche
unità (Garusey-Saller 1989; Saller 1989; Saller 1990).

72
L a Donna neLL ’a ntichità

La donna nell’ambito della famiglia


Il principio basilare della teoria giuridica romana pre-
vedeva che la donna, a qualunque strato sociale appar-
tenesse, fosse sottoposta alla tutela dei maschi. Secondo
le XII Tavole, il più antico codice giuridico romano (risa-
lente secondo la tradizione al 451-450 a.C.), qualunque
membro della famiglia, sia maschio che femmina, era
sottoposto all’autorità del pater familias, cioè il più vec-
chio rappresentante di sesso maschile della famiglia, che
aveva diritto di vita e di morte su tutti i membri della fa-
miglia. Il padre poteva anche vendere i propri figli come
schiavi, stipularne o farne rompere il matrimonio, e sotto
di lui ricadeva la proprietà esclusiva dei beni familiari.
È interessante notare che, stando alla cultura e alle
leggi romane, per essere definito pater familias, non occor-
reva aver generato figli, ma avere la posizione di ultimo
grado di ascendenza nell’ambito della famiglia; pertan-
to, giuridicamente (e si potrebbe dire, paradossalmente),
quello che faceva di un uomo romano un pater familias
non era la nascita di un figlio, ma la morte del padre. Il
termine pater infatti non aveva molto a che vedere con la
paternità, ma con il patrimonio (Thomas 2009).
Un figlio adulto non poteva possedere alcun bene
fino alla morte del padre, che poteva disporre libera-
mente delle sue proprietà nel testamento. Benché molti
imperatori e giuristi abbiano modificato questi poteri, li-
mitando notevolmente anche il diritto di vita e di morte
del pater familias in epoca imperiale, tuttavia tali poteri
non vennero mai aboliti (anzi Augusto riaffermò il dirit-
to del padre di pronunciare una sentenza di morte contro
il figlio adulto), tanto che il giurista Giustino, ancora nel
II secolo d.C., scrisse che la patria potestas “è la caratteri-
stica peculiare dei cittadini romani; infatti non vi sono
altri uomini che abbiano sui figli un potere quale quello
che abbiamo noi”(Gaio, Istituzioni, I.55). Mentre però i fi-
gli maschi, anche se sposati, venivano automaticamente
emancipati alla morte del genitore, per le femmine l’uni-
ca esenzione dall’autorità del pater familias prevista dalla
legge era quella accordata alle fanciulle che diventavano
Vestali, il cui ruolo era riservato a pochissime. Per il re-
sto, la donna continuava, anche dopo la morte del pater
73
l uCiano frazzoni

familias, ad essere sottoposta all’autorità di un tutore ma-


schio, rappresentato dal più stretto parente (adgnatus), a
meno che il padre per testamento non avesse designato
un altro tutore. Anche le donne sposate non sono sempre
sottoposte alla tutela del marito, ma continuano a subire
l’autorità del pater familias o di un altro tutore, sempre
però nell’ambito della famiglia di origine (sul matrimo-
nio si veda quanto detto infra).
Il diritto di vendita dei figli da parte del padre venne
limitato dalle XII Tavole, in cui si stabilì che se un pa-
dre vendeva per tre volte il figlio, dopo la terza vendita
il figlio diventava sui iuris, cioè libero dalla sua patria
potestà; per la figlia femmina invece bastava una sola
vendita. Questo non sta a indicare una maggiore tutela
per le donne, ma soltanto il minor valore attribuito alle
femmine.
La tutela delle femmine, benché in vigore in linea di
principio fino a Diocleziano (285-305 d.C.), perse con il
passare dei secoli e con l’evolversi della storia romana
gran parte del suo potere, grazie a espedienti giuridici
che permisero a molte donne di amministrare da sole i
propri interessi. Già alla fine della Repubblica, infatti,
mentre per gli uomini che dovevano esercitarla, la tutela
sulle donne era considerata un peso, per le donne non
era altro che una lieve limitazione. Ad esempio, Cornelia,
madre dei Gracchi, figura emblematica di donna romana
virtuosa, amministrava da sola la sua famiglia, e addi-
rittura respinse la proposta di matrimonio di Tolomeo
Evergete, senza aver consultato prima alcun tutore. Con
Augusto si stabilì che le donne libere, per avere il diritto
di uscire dalla tutela, dovevano aver generato tre figli;
le schiave affrancate, invece, ne dovevano aver dato alla
luce quattro (ius liberorum). Questo perché, contribuendo
fattivamente alla crescita di Roma, dandole i figli di cui
aveva bisogno, dimostravano in tal modo di essere capa-
ci di vivere e agire senza un tutore maschio. In ogni caso,
erano molte le donne che, anche prima della legislazione
augustea, si erano liberate dall’influenza dei loro tutori
senza dovere per forza generare tre figli, benché conti-
nuassero ad avvalersi dell’assistenza dei parenti maschi
in caso di transazioni commerciali.

74
L a Donna neLL ’a ntichità

La vita della donna dalla nascita


al matrimonio
L’esposizione dei neonati e il diritto di vendita dei figli

La vita dei romani, come si è detto, era sottoposta al


potere assoluto del pater familias.
Al momento della nascita, il neonato sia maschio che
femmina veniva posto ai piedi del pater, il quale, senza
alcuna giustificazione, poteva decidere di sollevarlo e
dunque riconoscerlo, oppure lasciarlo dove era stato de-
posto, abbandonandolo dunque alla propria sorte che, se
non fosse giunto qualche passante a raccoglierlo, sarebbe
stata sicuramente la morte. Nel caso di una figlia femmi-
na, la cerimonia prevedeva che il padre, se intendeva ac-
coglierla nella famiglia, dovesse esplicitamente ordinare
di allattarla. Questo atto, secondo le fonti, doveva risul-
tare più raro del sollevare un figlio maschio e, secondo
una disposizione risalente addirittura a Romolo, mentre
esporre un figlio maschio comportava sempre una san-
zione equivalente alla confisca di metà del patrimonio,
esporre una figlia femmina (tranne la primogenita), non
comportava alcuna pena. Pertanto anche il padre che
avesse deciso di allevare la primogenita, poteva impu-
nemente esporre tutte le altre figlie nate successivamen-
te. Questo dell’esposizione dei figli è un retaggio tipico
delle società a carattere agricolo, come quella romana
delle origini. Mentre, infatti, un figlio maschio è utile per
il lavoro nei campi, allevare una femmina costituisce un
investimento passivo, tanto più considerando che, una
volta raggiunta l’età per lavorare, la regola prevedeva
che andasse in sposa trasferendosi ad altro gruppo fa-
miliare portando con sé una dote. Questo è dunque il
motivo per cui presso i popoli, come quello romano, che
praticavano l’esposizione dei neonati, le femmine fos-
sero le vittime privilegiate. E anche se la sanzione per
chi esponeva la primogenita con la confisca di metà del
patrimonio tentava di limitare tale pratica che, se incon-
trollata, avrebbe avuto gravi conseguenze per l’esistenza
stessa di un gruppo familiare, le neonate esposte dove-
vano essere numerose.

75
l uCiano frazzoni

Molte delle femmine esposte però, non erano destinate


a morte certa. Anzi, spesso per una neonata essere raccolta
e allevata da un estraneo era più frequente che per un ma-
schio; una volta raggiunta la pubertà infatti, poteva essere
venduta come schiava o avviata alla prostituzione, costi-
tuendo comunque per il suo “salvatore” un ottimo inve-
stimento. Le conseguenze dell’esposizione erano dunque
di eliminare le femmine in eccesso, e aumentare il numero
di donne destinate a soddisfare i desideri sessuali maschi-
li (Saller 1989; Saller 1990; Veyue 1990).
Anche la figlia che veniva riconosciuta e adottata
dal padre, era sottoposta comunque al potere di vita e
di morte da parte di questi, il quale poteva anche ven-
derla. Per meglio comprendere la severità dei padri nei
confronti delle figlie, dalle quali esigevano un comporta-
mento altamente morale, si può citare un famoso episo-
dio riportato da Livio e risalente al 449 a.C. Appio Clau-
dio, uno dei decemviri che aveva emanato le XII Tavole,
fu preso dal desiderio verso una giovane di nome Virgi-
nia. Il padre della ragazza, dopo aver compiuto invano
ogni sforzo per impedire alla figlia di cadere nelle mani
di Appio Claudio, la uccise dichiarando che, non avendo
ella potuto vivere castamente, egli con quel gesto le ave-
va dato una morte onorevole, seppur pietosa (Livio, III,
44-58; Dionisio di Alicarnasso, Storia antica di Roma, XI,
28-49; Diodoro Siculo, XII, 24).

il matrimonio: forme e significati giuridici


Il matrimonio, per i Romani, è prevalentemente un
dovere civico, dettato da questioni patrimoniali e da
alleanze politiche. Pertanto, a meno che non vi fossero
costretti, tendevano ad evitarlo. Famoso è il discorso at-
tribuito da Aulo Gellio al censore Metello Macedonico
nel 131 a.C., indice della preoccupazione delle autorità
verso il dilagante fenomeno del celibato, e il conseguen-
te calo demografico: “Se noi, o Quiriti, potessimo vivere
senza mogli, noi tutti faremmo a meno di tale fastidio;
ma poiché la natura ha disposto le cose in modo che non
si può né vivere abbastanza bene con una donna, né in
alcun modo senza di essa, bisogna pensare piuttosto al
76
L a Donna neLL ’a ntichità

benessere durevole che non a un breve piacere” Questo


discorso fu letto cento anni dopo da Augusto in Senato,
per convincere i Romani a sposarsi, e ancora due secoli
dopo, come riporta ancora Gellio, il retore Tito Castricio
arriva a concludere che Metello aveva fatto bene a pro-
nunciare tale discorso, concludendo che lo Stato Romano
non poteva sussistere senza un gran numero di matrimo-
ni (Aulo Gellio, Notti Attiche, I, 6.2). Il matrimonio per i
Romani era dettato dunque da considerazioni pratiche, e
il suo fine principale era la procreazione, sia per assicu-
rare una discendenza legittima, onde evitare l’estinzione
della famiglia, sia per la necessità di generare i futuri cit-
tadini dello Stato romano, e in questo senso era percepito
come un dovere civico (Cantarella 2003b). Questo spiega
anche la politica a favore della famiglia e del matrimonio
attuata da Augusto (si veda quanto detto più avanti).
Da un punto di vista sociale e giuridico, si rileva che
il matrimonio per i romani era un atto privato, non sot-
toposto al riconoscimento di un’istituzione pubblica, e
non scritto; in effetti, più che di contratto di matrimonio
si trattava di contratto di dote. Benché, nonostante il ma-
trimonio seguisse un cerimoniale ben preciso, tuttavia
questo non era indispensabile, e poteva svolgersi senza
alcun atto formale. Il matrimonio romano era dunque un
semplice evento privato; ma era importante sapere se i
coniugi erano uniti da nozze legittime, in quanto questo
aveva precise conseguenze giuridiche: i figli nati da que-
sta unione erano figli legittimi, che prendevano il nome
del padre e continuavano la stirpe, e alla sua morte su-
bentravano nella proprietà del patrimonio di famiglia.
Dato il carattere privato del matrimonio, in caso di lite
per l’eredità, per stabilire se un uomo e una donna fos-
sero legittimamente sposati, i giudici non potevano fare
altro che avvalersi di indizi che indicassero la volontà dei
coniugi di essere marito e moglie, oppure della testimo-
nianza di testimoni che avevano assistito alla cerimonia
nuziale.
Per la legge delle XII Tavole il tipo di matrimonio ri-
conosciuto era quello con manus, (fig. 19) il quale portava
la donna sotto l’autorità del marito (in loco filiae, nella po-
sizione di una figlia); la sua dote passava nella proprie-
tà del marito (Pomeroy 1978; Saller 1989). In ogni caso,
77
l uCiano frazzoni

spettava al pater familias stabilire se essa dovesse essere


sposata con questo tipo di matrimonio, che l’avrebbe sot-
tratta alla sua autorità per trasferirla a quella del marito.
Il divorzio era ammesso solo nei casi di cattiva condot-
ta del marito o della moglie, e la parte colpevole veniva
duramente penalizzata nella divisione della proprietà.
Da questo derivava che i divorzi fossero abbastanza rari
nella Roma più antica.
Tre erano le cerimonie con cui la moglie diveni-
va soggetta alla manus (che per molti aspetti aveva lo
stesso peso della patria potestas). Il rito più antico era
quello della confarreatio, che derivava da una focaccia di
farro che gli sposi dividevano come simbolo della loro
vita comune. Tale cerimonia cadde presto in disuso, e
fu mantenuta soltanto in occasione del matrimonio del
Flamen Dialis, carica sacerdotale la cui moglie si chia-
mava Flaminica Dialis. Un altro modo era la coemptio,
cioè una vendita fittizia con cui il marito comprava la
moglie, applicazione della mancipatio, antica forma uti-
lizzata per acquistare la terra, gli schiavi o gli animali
da tiro.
Infine, il terzo
modo era costitu-
ito dall’usus, deri-
vato dal concetto
di usucapione,
cioè il possesso e
l’uso di un bene
protratto per un
certo periodo
di tempo. Così,
dopo la convi-
venza di un anno,
l’uomo acquista-
va la manus sulla
donna.
Con il matri-
monio con ma-
nus, inoltre, per
la sposa cambia-
Fig. 19: Sarcofago con due coniugi nell’atto della dextra-
rum iunctio, fine III-inizi IV secolo d.C. (Portogruaro, Museo
Nazionale Concordiese). vano i culti do-
mestici: la moglie
78
L a Donna neLL ’a ntichità

rinunciava alla religione del padre e onorava i Lari del


marito, i cui antenati diventavano i suoi. Al contrario, la
donna sposata senza manus non era obbligata a parteci-
pare ai culti del marito, ma continuava a prender parte ai
riti della propria famiglia d’origine.
Già alla metà del V secolo a.C., le XII Tavole stabiliro-
no che la donna sposata senza confarreatio e senza coem-
ptio, se si allontanava ogni anno per tre notti dalla casa
del marito, con l’atto chiamato trinoctis o trinoctis usurpa-
tio, impedendo dunque che il termine dell’usucapione si
compisse, benché ancora coniugata, restava sotto la po-
testas del padre. Tuttavia non bisogna pensare che que-
sta norma fosse uno strumento a favore delle donne per
sfuggire ad una situazione di subalternità poco gradita
da parte del marito, e che la potestà paterna fosse meno
gravosa di quella del coniuge. Piuttosto, si può leggere
come un tentativo, da parte dei suoi parenti maschili (ad-
gnati) destinati a diventare eredi, di mantenere i legami
con la donna, specie se questa si trovava ad essere sui iu-
ris (dunque avendo la capacità giuridica, ma comunque
sottoposta al controllo di un tutore) e disponeva di un
ingente patrimonio. Dunque il trinoctium era un’istitu-
zione esclusivamente maschile, che riportava la donna
anche sposata sotto l’autorità del padre o dei suoi adgnati
(Cantarella 1989).
Con il II secolo a.C. il matrimonio cum manus cadde
in disuso (come la confarreatio e la coemptio), e subentrò
il matrimonio cosiddetto consensuale (sine manu). Non è
un caso se questo tipo di matrimonio cominci ad essere
utilizzato in questo periodo (benché sia già presente nelle
XII Tavole). Con le guerre di conquista infatti, soprattutto
dopo le guerre puniche, Roma conosce un notevole au-
mento di ricchezza. Molte donne appartenenti a famiglie
altolocate, si trovarono a disporre direttamente di ingen-
ti patrimoni, a causa della morte in guerra del marito o
di altri parenti in linea maschile. Pertanto, il matrimonio
senza manus era preferibile in quanto in questo modo le
proprietà della donna rimanevano nella disponibilità del-
la famiglia d’origine; per lo stesso motivo, spesso questo
era scelto anche dalla famiglia dello sposo, in quanto il
matrimonio cum manus riconosceva alla moglie alcuni di-
ritti sulle proprietà del marito.
79
l uCiano frazzoni

Come si vede, la scelta del tipo di matrimonio era


spesso concordata tra gli uomini a vantaggio sia politico
che economico delle famiglie interessate, anche se il ma-
trimonio senza manus dava alla donna maggiore libertà.
Dalle fonti, si ha notizia di molte alleanze contratte at-
traverso matrimoni; per contro, molte unioni coniugali
finivano con il divorzio, quando queste alleanze politi-
che si trasformavano in rivalità e contrasti. Un esempio
è il caso di Ottavia, il cui matrimonio fu combinato dal
fratello Ottaviano con Marco Antonio. Quando questi
divenne suo avversario politico, Ottaviano chiese alla
sorella di divorziare; questa disobbedì, ed anzi alla mor-
te di Marco Antonio si prese cura dei figli che il marito
aveva avuto dalla prima moglie e da Cleopatra. Tale di-
sobbedienza da parte di Ottavia, può dimostrare che ella
provava vero affetto per Marco Antonio, o che non vole-
va essere manovrata dal fratello per i suoi scopi politici
(Pomeroy 1978).

Età del matrimonio

Le fonti letterarie e giuridiche indicano che le donne


romane delle classi più agiate si fidanzavano e contrae-
vano il loro primo matrimonio molto precocemente, tra
i dodici e i quindici anni, mentre gli uomini intorno ai
vent’anni. Per i medici dell’antichità, le fanciulle rag-
giungevano l’età della pubertà verso i 14 anni, pertanto
si deve ritenere che molti matrimoni avvenissero quando
le donne erano ancora in età prepuberale. Per i Romani,
sposare le ragazze prima della pubertà era pertanto una
necessità che si basava su motivazioni di ordine scien-
tifico; si riteneva, infatti, che un rapporto sessuale pre-
coce, facilitasse il flusso delle mestruazioni. Soprattutto
in età imperiale il matrimonio prepuberale era diffuso a
Roma, e addirittura, dato che il matrimonio aveva effetto
legale solo a partire dai 12 anni e la donna aveva l’ob-
bligo della fedeltà, il diritto romano (su istanza dei ma-
riti) prevedeva l’accusa di adulterio anche per le mogli
inferiori ai 12 anni; questo indica che, a prescindere dal
riconoscimento legale del vincolo matrimoniale, spesso
la donna andava ad abitare con il marito anche prima
80
L a Donna neLL ’a ntichità

dei 12 anni, quando era ancora una bambina (Rousselle


2009). Per le classi sociali più basse, le iscrizioni funerarie
indicano un’età più avanzata per il primo matrimonio,
tra i quindici e i vent’anni per le donne e i venticinque e i
trenta per gli uomini. Questa differenza di età tra marito
e moglie deve essere considerato tipico di un certo at-
teggiamento paternalistico del marito nei confronti della
consorte, di cui ci dà un quadro eloquente Plinio il Gio-
vane nell’elogio della sua terza moglie Calpurnia, ancora
adolescente (Plinio, Epistole, 4. 19). Nella lettera che egli
scrive alla zia di Calpurnia, la descrive come una perso-
na oculata e parsimoniosa, che gli vuole bene e che per
affetto nei suoi riguardi ha sviluppato una vera passione
per la letteratura. Non solo legge gli scritti del marito,
ma li impara anche a memoria, e prova ansia quando egli
deve parlare in tribunale, al punto da pagare messaggeri
perché le riferiscano al più presto il consenso ricevuto e
l’esito della causa da lui discussa.
La differenza di età per il primo matrimonio delle
donne delle classi elevate e di quelle più basse, può es-
sere spiegata con il fatto che nelle famiglie umili l’econo-
mia domestica non poteva essere affidata a una moglie
dodicenne, mentre nelle case ricche il numeroso perso-
nale schiavile avrebbe potuto facilmente supplire alla
inesperienza della padrona di casa (Saller 1989).
Matrimoni tanto precoci, esponevano naturalmente
le donne, che nella loro vita potevano avere diverse gra-
vidanze, al concreto rischio di morire di parto (secondo
alcune percentuali tra il 5 e il 10 per cento delle parto-
rienti moriva di parto). Bisogna però considerare che le
donne romane si rassegnavano a tali situazioni, sia per-
ché anche la mortalità infantile era molto alta (e questo
rendeva necessarie molte gravidanze; pochi infatti erano
i figli che raggiungevano l’età adulta; si veda l’esempio
di Cornelia, che pur avendo avuto dodici figli, ne perse
dieci in età ancora infantile, e vide morire assassinati gli
unici due sopravvissuti, i famosi tribuni), sia perché era-
no assillate dalla sterilità, che poteva essere motivo di
ripudio da parte del marito (Rousselle 2009).
Dalle fonti epigrafiche si ricava inoltre un dato impor-
tante dal punto di vista sociale del matrimonio, cioè che i
Romani sposavano il più delle volte donne appartenenti
81
l uCiano frazzoni

allo stesso ceto sociale. I figli di senatori sposavano figlie


discendenti anch’esse da famiglie senatorie o che entra-
vano nell’ordine senatoriale, mentre nella scala più bas-
sa, i liberti e i liberi di umili condizioni sceglievano come
compagne delle liberte o delle donne libere ma povere
come loro. I ricchi liberti imperiali che sposavano don-
ne libere sono da considerarsi un’anomalia nella società
romana, così attenta alla posizione sociale (Saller 1989).
(Fig. 20)

I riti del matrimonio

Anche con il matrimonio sine manu l’inizio della con-


vivenza degli sposi avveniva secondo cerimonie solenni
che si protraevano per più giorni, e che rendevano pub-
blica la nascita del nuovo focolare domestico. Molti au-
tori antichi (Cicerone, Plauto,
Catullo, Plutarco) ci descrivo-
no tale cerimonia: dopo aver
preso gli auspici e compiuti i
sacrifici, nella casa della sposa
veniva offerto un banchetto.
Poi, alla luce delle torce, ella
veniva accompagnata in pro-
cessione alla casa del marito,
mentre gli amici dello sposo
cantavano canzoni che esalta-
vano la sua virilità e gettava-
no delle noci come augurio di
fecondità. Giunta nella futura
casa, il marito prendeva sulle
braccia la sposa e varcava la
soglia; qui la moglie offriva
agli dei acqua e fuoco e pro-
nunciava la frase: ubi tu Gaius,
ego Gaia. Comunque, nessuna
di queste cerimonie era tassa-
tiva, e il matrimonio poteva
essere più o meno solenne
Fig. 20: Matrona romana, da Cartoceto,
50-30 a.C. (Pergola, Museo dei Bronzi secondo la classe sociale degli
Dorati). sposi, la loro età, o se si tratta-
82
L a Donna neLL ’a ntichità

va del primo, del secondo o del terzo matrimonio. Il ma-


trimonio aveva valore costitutivo semplicemente se due
persone stabilivano una convivenza basata sulla maritalis
affectio, cioè sull’intenzione di essere marito e moglie. Si
badi bene che questo nulla ha a che vedere con il rappor-
to sentimentale tra i coniugi; la parola affectio infatti non
significa affetto, ma intenzione, pertanto si può pensare
che il matrimonio romano spesso prescindeva dall’amo-
re, ma si basava spesso (soprattutto per le classi più ele-
vate) su interessi legati al patrimonio familiare.
Ma tutto ciò, sebbene costituisca un notevole cambia-
mento rispetto ai primi secoli della storia di Roma, non
significa che il matrimonio fosse basato esclusivamente
sulla volontà degli sposi. Anche in epoca imperiale infat-
ti, il matrimonio per avere valore deve avere il consenso,
oltre che degli sposi, dei rispettivi patres familias o di co-
loro che hanno la patria potestas. Anzi, da alcuni autori
ricaviamo che il matrimonio è valido anche se il figlio
o la figlia sono costretti dal padre a sposarsi contro la
propria volontà.

Il concubinato

Come si è visto precedentemente, i matrimoni nella


società romana avvenivano prevalentemente tra membri
dello stesso ceto. Una valida alternativa, comunemente
accettata e anzi considerata da molti giuristi come rela-
zione monogamica sostitutiva (non aggiuntiva) del ma-
trimonio, dove poteva avvenire l’unione tra un uomo e
una donna provenienti da ceti diversi e di differente con-
dizione (ad esempio con l’uomo libero e la donna schia-
va), era il concubinato, inteso non come incontro casuale
tra il padrone e la schiava della sua casa o con una prosti-
tuta (che indubbiamente dovevano essere frequenti), ma
come rapporto duraturo con una donna di condizione
inferiore.
Il termine concubina presso i romani poteva avere
due significati, uno dispregiativo, riferito a donne con
cui un uomo, sposato o no, aveva rapporti intimi (l’im-
peratore Claudio ad esempio, si portava a letto due con-
cubine alla volta), l’altro onorevole. Con il passare del
83
l uCiano frazzoni

tempo infatti, quando la relazione con una concubina di-


ventava esclusiva e duratura, il concubinato perse pres-
so l’opinione pubblica ogni valore dispregiativo, ed anzi
venne ad essere paragonato al matrimonio. Nei casi in
cui solo l’inferiorità sociale della donna impediva ad un
uomo di trasformare la sua relazione in matrimonio le-
gittimo, il concubinato era considerato come istituzione
comunemente accettata. Anche i giuristi erano di questo
parere, ma perché fosse considerato in tutto e per tutto
simile al matrimonio, la concubina doveva essere libe-
ra e l’unione monogamica. Non era permesso avere una
concubina essendo sposati, o averne due contemporane-
amente. Ma, nonostante dal punto di vista giuridico il
concubinato fosse accettato, e i figli nati da un onorevole
concubinato fossero di condizione libera, non potevano
portare il nome del padre ma solo quello della madre, e
potevano ereditare soltanto da lei e non dal padre natu-
rale. Si potevano anche verificare casi in cui il patrono
sposasse la sua schiava affrancata e concubina, forman-
do in questo modo una famiglia composta da un uomo,
dalla sua moglie-concubina e dai figli naturali, di cui si
hanno testimonianze dalle fonti epigrafiche in cui la mo-
glie definisce il defunto con i titoli di “patrono e marito”,
in cui il primo termine risulta più importante del secon-
do, sottolineando così in modo indelebile, a livello socia-
le, l’inferiorità di condizione della moglie (Veyne 1988,
pp. 53-54).
Le fonti epigrafiche mostrano che tale pratica era co-
mune tra i romani più umili, artigiani e liberti, che non
possedevano la piena cittadinanza necessaria per un ma-
trimonio riconosciuto legalmente (iustum matrimonium).
Ma, mentre la concubina era prevalentemente di origine
umile e servile, il compagno maschio poteva appartene-
re anche ai ceti più elevati, e addirittura sappiamo che
ben tre imperatori, Vespasiano, Antonino Pio e Marco
Aurelio, vissero apertamente con delle concubine dopo
la morte delle loro mogli (Svetonio, Vita di Vespasiano, 3;
Historia Augusta, Vita di Antonino Pio, 8; Historia Augu-
sta, Vita di Marco Aurelio, 29).
La ragione per la quale un uomo appartenente ad
una classe agiata preferisse prendere una concubina al
posto di una nuova moglie legittima può dipendere sia
84
L a Donna neLL ’a ntichità

dal ciclo vitale che dalla situazione familiare. Mentre in-


fatti era considerato accettabile che un giovane, nel lasso
di tempo tra la pubertà e l’età del matrimonio, potesse
prendersi una schiava o una liberta come concubina, che
poteva tranquillamente essere congedata senza alcuna
ripercussione sociale al momento di contrarre matrimo-
nio, per un anziano vedovo il concubinato era senz’altro
più conveniente di un nuovo matrimonio con un’altra
moglie, magari con figli, che avrebbe potuto interferire
nella distribuzione del patrimonio. Una parte di lettera-
tura ci ha infatti trasmesso notizie negative sulla figura
della matrigna (noverca), vista come colei che il più delle
volte sconvolgeva a favore suo e dei propri figli la di-
visione del patrimonio della sua nuova famiglia. Una
concubina, al contrario, anche se avesse generato dei
figli non avrebbe potuto avanzare alcuna pretesa sulla
trasmissione del patrimonio del suo compagno-padrone.
I figli nati da questa unione infatti erano considerati libe-
ri naturales (figli naturali) e non legittimi, e dunque non
avevano alcun diritto nella successione. Viceversa, la leg-
ge (soprattutto sotto Augusto con le sue leggi a favore
della famiglia tradizionale) puniva gli uomini nel fiore
degli anni che sceglievano il concubinato per evitare il
peso della famiglia legittima.
Come si vede, anche il concubinato, al pari dell’espo-
sizione dei neonati, costituiva per i Romani, da un punto
di vista sociale, un utile strumento per evitare l’espansio-
ne della famiglia in un’epoca in cui la fertilità non poteva
essere controllata, evitando la dispersione del patrimo-
nio. Questo spiega perché tali istituzioni fossero diffuse
sia nei livelli più bassi, che tra le classi più agiate della
società romana. Inoltre, risulta anche chiara la suprema-
zia maschile nei confronti della donna, spesso conside-
rata come un mero strumento per soddisfare gli impul-
si sessuali, senza poter far riconoscere i propri diritti e
quelli dei propri figli. Perfino Sant’Agostino (Confessio-
ni 4.2), ricorda come il suo concubinato costituisse un
modo conveniente per la propria soddisfazione sessuale
nel periodo prima del matrimonio, benché dichiari di es-
sere stato fedele alla sua compagna e, nel caso fossero
nati dei figli, di non poter fare a meno di amarli. (Saller
1989; Saller 1990; Rousselle 2009).
85
l uCiano frazzoni

Il divorzio e l’adulterio

In epoca antica, lo scioglimento del matrimonio, se


celebrato con il rito della confarreatio o della coemptio,
prevedeva un atto formale e solenne, con il quale la spo-
sa rinunciava al culto familiare del marito (difarreatio), o
con un atto che riportava la donna sotto la potestà del
paterfamilias (remancipatio). Con la diffusione del matri-
monio sine manu, perché il matrimonio venisse sciolto,
bastava che i coniugi, venuta meno l’intenzione di essere
marito e moglie, cessassero di convivere. La frase con cui
si accompagnava il divorzio tuas res tibi habeto, riprendi-
ti le tue cose, pronunciata dal marito alla moglie, altro
non era che una formalità destinata a rendere esplicita
la volontà di divorziare, che poteva servire anche come
eventuale prova.
Il divorzio poteva avvenire per iniziativa di una o di
entrambe la parti interessate al matrimonio, spesso per
iniziativa dei padri, che avevano interesse a far divor-
ziare i figli ancora sottoposti alla loro autorità, per creare
attraverso un nuovo matrimonio alleanze più favorevo-
li. Anche se si ha notizia di donne che hanno divorziato
di propria iniziativa, per lo più queste pratiche erano in
mano agli uomini. Con gli Antonimi la volontà paterna
cessò di essere una delle cause per sciogliere il matrimo-
nio. Ma altre cause, indipendenti dalla volontà dei coniu-
gi, potevano portare allo scioglimento del matrimonio; le
principali erano: se uno dei coniugi (prevalentemente il
marito) perdeva lo stato di uomo libero in seguito alla
prigionia in guerra; anche se i cittadini romani, tornando
in patria, riacquistavano i diritti perduti durante la pri-
gionia, il matrimonio non si ricostituiva automaticamen-
te; un’altra causa era la perdita della libertà in seguito a
condanna penale, o se uno dei coniugi avesse perso la
cittadinanza romana.
Ma nella prassi, molte altre erano le cause di divorzio.
Il divorzio poteva avvenire per condotta immorale della
moglie, nel qual caso il marito aveva diritto di trattenere
una parte della dote; più spesso la causa era la sterili-
tà del matrimonio, che era attribuita sempre alla donna.
Per la classe aristocratica, avere figli legittimi, dunque
una discendenza, era una questione di sopravvivenza,
86
L a Donna neLL ’a ntichità

ed anche se era praticata l’adozione (utilizzata da molti


imperatori che non avevano successori diretti), i roma-
ni avevano un altro modo per assicurarsi un figlio: si
scambiavano (o, per meglio dire, si prestavano) le donne
fertili, o addirittura già incinte. Emblematico è il caso di
Ortensio e Catone (per cui si veda in particolare Canta-
rella 2003b). Dato che Ortensio voleva un figlio, chiese
in moglie a Catone la figlia Porcia; dato che questa era
già sposata con Bibulo, Ortensio si dichiarò disposto a
restituirla al marito dopo che avesse svolto la sua funzio-
ne “biologica”; ma Catone rifiutò. Allora Ortensio fece
una seconda richiesta: che fosse Catone a dargli sua mo-
glie Marcia. Catone, dopo aver consultato il suocero, ac-
consentì. Così Marcia, dopo aver divorziato da Catone,
sposò Ortensio e, dopo avergli dato il figlio desiderato,
alla morte di Ortensio risposò Catone. È da notare inoltre
che, quando Marcia sposò Ortensio, ella era già incinta
di Catone. Benché il caso venisse molto discusso nelle
scuole di retorica, quello che veniva ritenuto riprovevole
da parte di Catone non era il fatto di aver prestato la mo-
glie, quanto l’esser stato mosso da interesse e avidità di
denaro (alla sua morte infatti Ortensio lasciò alla moglie
di Catone un ricco patrimonio). Questo dimostra che tale
pratica era ampiamente diffusa tra i romani. Altri esempi
illustri sono quello di Silla, che fece divorziare la moglie
già incinta per darla in moglie a Pompeo, e di Ottaviano,
che sposò la moglie incinta di Tiberio Nerone. Quello che
risalta da questa pratica, è la totale remissione delle don-
ne, che accettano in maniera passiva le decisioni degli
uomini (non risulta infatti che a Marcia sia stato chiesto
alcun parere al proposito). In altri casi, come quello di
Turia, della quale ci è stato tramandato il lungo encomio
di sposa modello, è la donna stessa che, non potendo
dare figli al marito e non volendo privarlo della paterni-
tà, propone al coniuge di avere figli con un’altra donna,
che lei avrebbe considerati come suoi. In questo caso, è il
marito a rifiutare, preferendo una moglie buona ad una
sconosciuta che poteva non esserlo.
Una delle cause prevalenti di divorzio era il flagrante
adulterio della moglie (mentre scarse sono le notizie di
donne che hanno divorziato dai mariti adulteri). Alla fine
della Repubblica e nei primi anni dell’impero, a Roma la
87
l uCiano frazzoni

vita familiare era molto cambiata. Spesso infatti, gli uo-


mini erano costretti da ragioni legate all’amministrazio-
ne dell’Impero, o per combattere guerre di conquista, ad
allontanarsi per lungo tempo da casa. In rari casi le mogli
seguivano i mariti in posti tanto lontani; la maggioranza
di queste rimanevano a Roma, spesso in accordo con il
marito per continuare a gestire il patrimonio, e per in-
trattenere rapporti sociali e politici indispensabili per ac-
celerare il ritorno in patria. Ma in molti casi, l’assenza del
marito era una buona occasione per disporre liberamen-
te del suo patrimonio e per darsi alla bella vita. Per porre
rimedio a tale situazione, che aveva come diretta conse-
guenza anche un preoccupante calo delle nascite, furono
promulgate da Augusto nell’ambito della sua politica di
ribadire gli antichi mores maiorum e riconfermare il valo-
re morale e politico della vita matrimoniale, una serie di
leggi, tra cui le famose lex Iulia de maritandis ordinibus, e
la lex Iulia de adulteriis, votate tra il 18 e il 9 a.C. Con la
prima si stabiliva l’obbligo per tutti gli uomini tra i ven-
ticinque e i sessant’anni, e per tutte le donne tra i venti e
i cinquanta (anche vedove o divorziate, la vedova dopo
un anno, la divorziata entro sei mesi), di contrarre ma-
trimonio, pena la perdita di alcune capacità patrimonia-
li (Rousselle 2009). Con la seconda legge veniva punita
come reato pubblico qualunque relazione extraconiugale
intrattenuta da una donna, sia che fosse coniugata, ver-
gine o vedova (ad esclusione delle prostitute e del rap-
porto di concubinato). Tale legge non si limitava dunque
a punire l’infedeltà coniugale, ma aveva un forte intento
moralizzatore. Inoltre, la denuncia dell’adulterio non era
necessariamente limitata al marito e al padre dell’adul-
tera, ma poteva essere fatta da qualunque cittadino. Se-
condo la legge, il marito e il padre della donna colpevole,
avevano sessanta giorni per denunciarla e per ripudiar-
la; se il coniuge non lo faceva, poteva essere accusato di
lenocinio. Scaduto tale termine, l’accusa poteva essere
formulata da un estraneo, nel termine di quattro mesi. La
pena per entrambi i colpevoli (l’adultera e l’amante) era
l’esilio su un’isola, oltre a sanzioni patrimoniali. Inoltre,
in caso di flagranza all’interno delle mura domestiche,
sia il marito che il padre potevano esercitare lo ius occi-
dendi, seppure con alcune limitazioni e in casi particolari.
88
L a Donna neLL ’a ntichità

Il padre infatti poteva uccidere la figlia e il complice, se


li sorprendeva in casa sua o in casa del genero, ma dove-
va ucciderli subito e simultaneamente, in preda ad uno
stato d’ira, non a sangue freddo. Se invece uccideva solo
il complice e risparmiava la figlia, era accusato di omici-
dio. Il marito invece, poteva uccidere solo l’amante della
moglie, sempre a condizione che lo avesse sorpreso in
flagrante all’interno delle mura domestiche e che questi
appartenesse ad una categoria sociale più bassa, cioè se
fosse uno schiavo, un liberto, un gladiatore, un comme-
diante, un ballerino, etc. Questa differenza di ruoli tra
padre e marito, è stata spiegata con il fatto che in realtà
era il padre che era più irato per l’adulterio della figlia, in
quanto lui solo rimaneva padrone della sessualità delle
figlie, dunque il diritto lo obbligava ad uccidere la figlia
adultera insieme all’amante; per il marito, invece, ucci-
dere la moglie aveva poca importanza, ed egli puniva
semmai l’intruso che aveva disonorato la compostezza
della sua casa; il fatto che il marito uccidesse l’amante
della moglie sorpreso in flagranza dentro le mura dome-
stiche, era dunque più la vendetta del capofamiglia che
vuole essere padrone in casa propria, che una questione
di tradimento (Veyne 1990).
Dunque rispetto ai secoli precedenti, quando sia il pa-
dre che il marito potevano uccidere quasi impunemente
la figlia e la moglie, con la legislazione augustea furono
poste notevoli limitazioni allo ius occidendi. Con il passare
dei secoli però queste limitazioni andarono scomparen-
do, e divenne ammissibile che il marito potesse uccidere
anche la moglie e il suo complice, anche in mancanza di
flagranza di reato e a prescindere da dove l’adulterio fos-
se stato commesso e dal rango sociale.
Con Antonino Pio, e poi con Marco Aurelio e Commo-
do, si stabilì che al marito che uccideva la moglie adultera
venisse applicata una pena più lieve di quella prevista per
l’omicidio; una pena più lieve fu stabilita anche per chi
avesse ucciso l’amante della moglie, al di là delle condi-
zioni di luogo e di rango sociale. Tali disposizioni vennero
confermate anche successivamente, e addirittura nel 506
Alarico II stabilì che al marito che avesse ucciso la moglie
adultera venisse garantita la completa immunità. (Canta-
rella 1989; Cantarella 2003a; Cantarella 2011).
89
l uCiano frazzoni

Un inasprimento delle pene per il reato di adulte-


rio si ebbe con gli imperatori cristiani, diventando un
reato punibile con la pena di morte. Sotto Costante e
Costanzo nel 339 d.C. infatti, all’esilio su un’isola, fu so-
stituita la pena capitale eseguita bruciando gli adulteri
sul rogo o mediante la poena cullei, l’antico supplizio
riservato ai parricidi; il condannato, dopo essere stato
fustigato, veniva rinchiuso in un sacco ricoperto di pece
insieme a un cane, un gallo, una vipera e una scimmia
e gettato in un corso d’acqua o nel mare. Con la morale
cristiana dunque, la violazione della fedeltà coniugale
veniva punita con crescente severità, ma solo quando la
colpevole era la moglie, mentre il marito continuava a
godere di assoluta impunità in caso di rapporti sessuali
con una prostituta o con una schiava. E se è vero che
veniva punito anche il complice dell’adultera, era solo
per aver leso il diritto del marito all’esclusività sessuale
sulla propria moglie.
Giustiniano nel 556 d.C., spinto dal desiderio di limi-
tare le condanne a morte, ma pur continuando a ritene-
re l’adulterio una colpa gravissima, stabilì che l’adulte-
ra venisse rinchiusa in un monastero, dal quale poteva
uscire solo se il marito la perdonava entro due anni; se
il perdono non veniva concesso, o se il marito moriva
prima dei due anni, la moglie colpevole era condannata
a rimanere reclusa per tutta la vita. L’adulterio divenne
così il primo reato, per la legge romana, punito con una
condanna paragonabile all’ergastolo.
Ma tornando al I secolo d.C., subito dopo la promul-
gazione della lex Iulia de adulteriis, sembra che questa
non abbia ottenuto i risultati sperati, stando a quanto
afferma Giovenale, quando dice “ubi lex Iulia, dormis?”.
In effetti, sembra proprio che la legge dormisse, perché
le adultere continuavano ad essere impunite. Tra le cau-
se della mancata denuncia di adulterio, si può pensare
che i romani preferissero mantenere certe questioni un
fatto privato; ed anche il fatto che l’adulterio poteva
essere denunciato da terzi, se da una parte poteva es-
sere una forma di vendetta verso un nemico politico,
dall’altra poteva rivelarsi un’arma a doppio taglio, in
quanto il delatore poteva diventare a sua volta vittima
della stessa legge.
90
L a Donna neLL ’a ntichità

L’emancipazione delle donne


A partire dal II secolo a.C. e soprattutto con l’inizio
dell’impero, una serie di provvedimenti, volti a tutela-
re gli interessi delle donne, stabilirono limiti sempre più
forti al potere da parte del marito di disporre a piacimen-
to dei beni portati in dote dalla moglie, riconoscendo alla
donna il diritto di controllare direttamente i suoi beni, e
di recuperare la dote in caso di scioglimento del matri-
monio. Sempre a partire dagli ultimi secoli della Repub-
blica, anche le norme relative alla tutela perpetua delle
donne avevano subito notevoli trasformazioni, tanto che
con l’atto chiamato coemptio fiduciae causa, queste poteva-
no sostituire il tutore legittimo (un parente maschio) con
una persona di loro fiducia, in pratica un prestanome che
lasciava loro ampia libertà di decisione. Durante il prin-
cipato la donna, alla quale il tutore non aveva concesso
l’autorizzazione a compiere determinati atti, poteva far
ricorso contro di lui, mentre sotto Claudio venne abolita
la tutela legittima sulle donne libere (mentre restava per
le liberte che continuavano ad essere sottoposte all’ex
padrone); a partire dall’epoca di Costantino la tutela
muliebre scompare. Inoltre, durante il periodo imperia-
le, spesso la tutela poteva essere esercitata dalle donne,
e nel 390 d.C. le vedove furono ammesse alla tutela sui
figli e sui nipoti, sia pure solo in mancanza di tutori legit-
timi e testamentari, e a patto che non si fossero risposate.
Nel 530 d.C., infine, Giustiniano estese il diritto alla tute-
la anche alla madre naturale.
Altri provvedimenti apportarono anche cambiamen-
ti, a favore delle donne, per quanto riguarda il ricono-
scimento della parentela sui figli (anticamente l’unica
riconosciuta dal diritto era quella in linea maschile), sul
diritto di custodia di questi ultimi e sulla successione.
Questi cambiamenti in campo giuridico, si può dire
che portarono tra la fine della Repubblica e l’età imperia-
le, ad una emancipazione femminile, ampiamente docu-
mentata dalle fonti, che descrivono figure di donne libere
dalla tradizionale sottomissione all’uomo, che si occupa-
no di arti e letteratura, sono istruite, frequentano i bagni
pubblici, bevono vino (cosa altamente proibita alle donne

91
l uCiano frazzoni

nei tempi antichi), tengono orazioni in pubblico, divorzia-


no a loro piacimento e godono di una libertà sessuale pri-
ma assolutamente impensabile (Cantarella 2011). Inoltre,
le donne delle classi elevate romane svolgono una parte
importante nelle attività dei mariti, a differenza di quanto
accadeva ad esempio per le donne ateniesi, tenute lontane
dalla politica e dalle attività sociali maschili. Le matrone
romane frequentavano infatti i banchetti insieme ai mariti
e addirittura in alcuni casi, presero ad accompagnarli du-
rante i loro incarichi di governatori provinciali. Insomma,
la donna non è più soltanto la padrona della casa, la cui
unica occupazione è fare figli, seguire la cura delle fac-
cende domestiche e filare la lana (secondo i canoni tradi-
zionali, riportati su numerose epigrafi che definiscono la
donna pia, pudica, casta, domiseda - cioè addetta alla casa – e
lanifica – che lavora la lana). Ma se indubbiamente le don-
ne in questo periodo godono di maggiore libertà, non per
questo si deve considerare cambiata l’idea che della don-
na avevano gli uomini. I Romani infatti, continuano a con-
siderare le donne, per quanto emancipate, esseri inferiori
che devono essere sottomesse. Molti autori antichi (e non
è un caso che sia la storiografia che la letteratura latina
sia praticata da uomini), mettono in guardia dai pericoli
che possono derivare dalle nuove tendenze a concedere
maggiori libertà alle donne. Così Livio (XXXIV, 3) affer-
ma che “già le donne erano difficili da controllare quando
erano incatenate dal diritto antico. Ma se daremo loro la
libertà, se concederemo diritti uguali ai nostri, che cosa
accadrà mai? Quando saranno uguali, ci comanderanno”.
Per non parlare delle figure di donne dissolute, adultere e
dall’insaziabile incontinenza sessuale descritte da Marzia-
le e soprattutto da Giovenale. E benché per quest’ultimo
la misoginia sia da considerare quasi un fatto patologico,
e l’avversione del poeta verso tutto il genere femminile
tocchi livelli di ferocia che non si riscontra in altri autori (si
veda la famosissima VI Satira), tuttavia bisogna ritenere
che questa immagine negativa della donna facesse parte
del comune sentire dell’epoca.
Uno degli effetti dell’emancipazione femminile dei
primi secoli dell’impero, è il preoccupante calo demo-
grafico, legato al sempre più diffuso ricorso, da parte
delle donne, ad anticoncezionali e all’aborto.
92
L a Donna neLL ’a ntichità

L’aborto
A partire dal I secolo d.C., molti sono i riferimenti
all’aborto da parte delle fonti (non solo letterarie, ma me-
diche e anche astrologiche) che documentano come tale
pratica fosse particolarmente diffusa.
L’aborto, in una società come quella romana in cui si
praticava l’esposizione dei neonati, pur essendo ritenuto
una colpa gravissima da parte della donna, non era puni-
bile in quanto soppressione di una vita umana, secondo
la concezione cristiana, ma era considerato una faccenda
privata esclusivamente familiare, dunque sottratto ad ogni
intervento statale. L’interruzione di gravidanza non era
neppure considerata riprovevole, se decisa dal marito che
non desiderava avere figli, o dal padrone nel caso di una
gravidanza di una sua schiava. Secondo i giuristi infatti,
il feto non era considerato una persona, ma solo una “spes
animantis”, la speranza di una vita. Quello che i romani non
approvavano nell’aborto, era il fatto che fossero esclusiva-
mente le donne a scegliere di interrompere la gravidanza,
privando l’uomo del diritto di decidere. L’aborto era infatti
punito solo se procurato per iniziativa della donna all’in-
saputa del marito; la donna colpevole di “avvelenamento
della prole” poteva essere ripudiata. Così, per tutelare l’in-
teresse del marito ed impedire che la donna incinta potesse
abortire a sua insaputa, fu creato sotto Marco Aurelio e Lu-
cio Vero un nuovo istituto giuridico, il custode del ventre,
il quale aveva il compito di controllare che la moglie non
abortisse. Parimenti, sotto Settimio Severo fu emanata la
prima legge pubblica che puniva l’aborto con l’esilio; l’oc-
casione fu fornita dal caso di una donna che, dopo il divor-
zio, aveva abortito senza il consenso del marito, poiché gli
aveva sottratto illegittimamente il figlio. In questo caso, lo
Stato interviene su una questione privata, facendola diven-
tare pubblica, in quanto andava a difendere la morale fami-
liare e il diritto del capofamiglia di prendere le decisioni che
riguardavano il gruppo familiare sottoposto al suo potere,
come era avvenuto due secoli prima con le leggi augustee
contro l’adulterio. L’aborto deciso dalle donne in maniera
autonoma costituiva dunque un serio problema sociale, in
quanto defraudava gli uomini di un loro diritto fondamen-

93
l uCiano frazzoni

tale, cioè controllare la moglie e soprattutto la discendenza,


dunque mettendo in discussione lo stesso potere maschile.
Per i testi giuridici, se durante un intervento chirurgico
abortivo la paziente moriva, l’accusa per chi aveva prati-
cato l’aborto era di omicidio, mentre se la morte avveniva
in seguito all’assunzione di una pozione, l’accusa era di
veneficio per chi aveva preparato e somministrato la be-
vanda letale, che generalmente era una donna. Oggetto
della condanna non era dunque l’aborto in sé o la soppres-
sione del bambino, la cui vita apparteneva al padre, ma la
morte della donna.
Con Caracalla, fu decretato l’esilio (o la morte nel
caso la paziente fosse deceduta), per chi somministrava
farmaci abortivi, anche se la legge tendeva probabilmen-
te più a punire i trafficanti di droghe che l’aborto vero e
proprio.
Dunque, la punizione dell’aborto da parte dello Sta-
to romano non avviene per influenza del cristianesimo,
ma, come dice il giurista Marciano “perché era indegno
che la donna potesse impunemente defraudare il marito
della prole (Digesto, 50.17.2)”.
Le tecniche contraccettive erano numerose: tra quelle
non efficaci, vi erano pozioni (che spesso venivano fatte
bere al partner ignaro per renderlo sterile), amuleti e in-
cantesimi; tra i metodi più efficaci, vi era l’uso di agenti
occlusivi (come un semplice panno di lana morbida) che
ostruivano la cervice dell’utero, imbevuti di oli, miele,
aceto e unguenti. Ma anche le donne utilizzavano po-
zioni, la cui composizione era simile a quelle con effetti
abortivi, come quelle a base di elleboro, pur essendo con-
sapevoli del rischio mortale cui si esponevano. Benché la
pratica anticoncezionale venisse lasciata alle donne, era-
no raccomandate anche alcune tecniche maschili, come
unguenti spermicidi e la vescica di capra, primitiva ver-
sione del profilattico.

incapacità “pubblica” delle donne


Se, come si è visto, le donne romane dell’aristocra-
zia conobbero un momento di notevole emancipazione
e videro aumentare la propria libertà, potendo disporre
94
L a Donna neLL ’a ntichità

direttamente dei loro patrimoni, tuttavia alcuni principi


rimasero ben radicati nella società romana. Innanzitutto
quelli relativi alla moralità familiare (che diverranno an-
cora più radicati con il cristianesimo), e in secondo luogo
il concetto che sanciva l’incapacità “pubblica” delle don-
ne, cioè il non essere in grado di partecipare al governo
dello Stato (per tale incapacità e la situazione di inferiorità
che confinava le donne nella sfera delle attività domesti-
che, lasciando ai cittadini maschi il monopolio delle rela-
zioni pubbliche della politica (Thomas 2009). Il compito di
amministrare e governare infatti, faceva parte dei compiti
che solo gli uomini erano in grado di svolgere (virilia offi-
cia). Tale principio fu solennemente sancito dal punto di
vista giuridico, come riportato nel Digesto: “le donne non
possono accedere né agli uffici civili né a quelli pubblici
(Digesto, 50.17.2)”, pertanto non possono essere giudici né
accedere all’amministrazione. Anche se si ha notizia di al-
cune donne che avevano sostenuto in giudizio le proprie
ragioni, senza l’assistenza di un avvocato maschio, come
Ortensia, Mesia Sentinate e una certa Afrania, il giudizio
da parte delle fonti (ad esempio Valerio Massimo), è cer-
tamente negativo. È vero però che le donne, in giudizio,
potevano difendere solo se stesse, dunque era loro pre-
clusa l’avvocatura, in quanto non potevano svolgere atti
per conto di terzi; pertanto le donne erano escluse dalle
operazioni di banca e di cambio, non potevano garantire
debiti altrui, ed erano escluse dalla rappresentanza, dalla
procura e dalla postulazione per conto di altri (Thomas
2009). Benché alcuni studiosi ritengano che le donne non
avrebbero potuto testimoniare in giudizio, sembra che
tale divieto fosse limitato alle adultere. È da ritenere infat-
ti che, essendo la testimonianza manifestazione di cono-
scenza e non dichiarazione di volontà, le donne potevano
non esserne escluse (Cantarella 1989; Thomas 2009).
Se però le donne non avevano accesso alle cariche dello
Stato, potevano incrementare il loro patrimonio con investi-
menti finanziari o con attività di tipo mercantile e imprendi-
toriale. Anche se la documentazione a tal proposito è scar-
sa, in quanto la partecipazione delle classi aristocratiche al
commercio e alle attività economiche era ritenuta disono-
revole, pertanto ufficialmente veniva svolta da prestanome
e agenti di condizione servile o libertina, tuttavia si hanno
95
l uCiano frazzoni

notizie di donne “imprenditrici” (per le quali la figura del


tutore era soltanto formale), ad esempio come proprietarie
sia di cave di argilla sia di officine di prodotti laterizi; altre
donne risultano proprietarie di fabbriche di vetri o di chio-
di, mentre una Caedicia Victrix, compare su bolli di anfore
vinarie rinvenute in Italia, Spagna, Africa, Gallia e Grecia.
Benchè l’identificazione di questa matrona sia incerta (alcu-
ni studiosi la ritengono la moglie del console Flavius Scaevi-
nus, vissuta in epoca neroniana e proprietaria di tabernae e
vigneti nella regione campana, dove si produceva il famoso
vino falerno, esportato in tutto il mediterraneo, altri invece
con una donna vissuta tra la fine del I e il primo quarto
del II secolo d.C.), è interessante notare come l’attività da
lei gestita fosse legata a prodotti diffusi in tutto l’impero.
Abbiamo anche notizia di donne proprietarie di navi e re-
sponsabili di compagnie di navigazione.
Ben diversa è la situazione se si vanno ad esaminare
le classi più basse della società romana, comprendente
liberi e schiavi. In questo caso la documentazione, pre-
valentemente epigrafica, ci fa conoscere, oltre al nome,
anche il mestiere svolto dalle donne, attraverso precise
raffigurazioni o semplicemente rappresentando gli at-
trezzi di lavoro.
Un gruppo di sculture in marmo o terracotta prove-
nienti da Ostia e dalla ne-
cropoli di Porto, raffigura
scene di attività femmini-
li: tra queste sono attesta-
te una pollivendola (Fig.
21), una fruttivendola
e un’ostetrica (Fig. 22).
Oltre al mestiere di oste-
trica, si ha testimonianza
Fig. 22: Lastra in terracotta
di Scribonia Attrice, 140
d.C. circa (Ostia, Museo
Ostiense).

Fig. 21: Pollivendola (Ostia, Museo Ostiense).

96
L a Donna neLL ’a ntichità

dalle fonti epigrafiche, letterarie e archeologiche, di altri


lavori svolti dalle donne, come la nutrice e il medico.
Se la filatura e la tessitura della lana erano conside-
rate l’unica attività femminile consentita alle matrone,
da svolgere in casa, già dalla seconda metà del III secolo
a.C. sono attestati collegi professionali nel campo della
tessitura, che presuppongono dunque un’organizzazio-
ne professionale e una produzione organizzata in veri e
propri laboratori, in grado di far fronte ad un mercato
sempre più specializzato. Nell’ambito di tali officine tes-
sili dovevano lavorare operaie altamente specializzate,
ognuna con un compito ben preciso, come ricordano al-
cune epigrafi: le pesatrici della lana (lanipendae), le filatri-
ci (quasillariae), le tessitrici (textrices), le sarte (sarcinatrices
e vestificae; Thomas 2009, pp. 163-164). Tutte queste la-
voratrici erano di condizione servile o libertina, che po-
tevano raggiungere anche un certo livello di agiatezza,
grazie al loro lavoro specializzato, tanto da poter avere, a
loro volta, una piccola familia di servi e di liberti.
Altri mestieri femminili documentati dalle epigrafi
sono la profumiera (unguentaria), la segretaria (libraria), la
parrucchiera (ornatix), (Fig. 23) la guardarobiera (vestipli-
ca), l’ungitrice e la massaggiatrice (untrix, tractatrix), la for-
naia (furnaria) e la pescivendola (piscatrix), come l’Aurelia
Nais piscatrix de horreis Galbae citata anche da Giovenale
(Satire, V, 98) e nota dal suo altare funerario, e la commer-
ciante di granaglie e legumi (negotiatrix frumentaria et le-
gumenaria). Se la maggior parte delle donne che svolgeva-
no questi mestieri erano liberte, le locandiere e le ostesse
(popinariae, cauponae, vinariae), svolgendo mestieri di scar-
sa considerazione sociale o addirittura immorali (molte
taverne ave-
vano stanze al
piano superiore
dove si prati-
cava anche la
prostituzione),
erano prevalen-
temente di con-
dizione servile
(Cenerini 2002, Fig. 23: iscrizione sepolcrale di ornatrix (da Bianchi C., Spilloni
in osso di età romana. Problematiche generali e rinvenimenti in
pp. 173-178). Lombardia, Milano 1995).

97
l uCiano frazzoni

La nuova concezione della famiglia


Se si esaminano i cambiamenti dell’etica romana in
età imperiale, si ritiene che questi siano stati condizionati
dalla progressiva cristianizzazione della società, secon-
do cui, stando a quanto dice San Paolo, non vi era diffe-
renza tra ebreo e cristiano, e tra uomo e donna; questo
avrebbe modificato anche la concezione del matrimonio,
visto ormai come unione paritaria, e il rapporto coniu-
gale avrebbe assunto nuova dignità al pari di un sacra-
mento, la fedeltà sarebbe divenuta un valore e la con-
dizione femminile sarebbe stata elevata: la moglie viene
vista come compagna del marito e non più sottoposta a
lui (o al pater familias), e gli viene riconosciuta la dignità
di persona.
Ma, a ben vedere, questo cambiamento nella concezio-
ne della morale del matrimonio non è conseguenza diretta
del cristianesimo. Come è stato infatti giustamente osser-
vato da Paul Veyne (Veyne 1988), tra l’età di Cicerone e
quella degli Antonini, si sono verificati dei cambiamenti
nei costumi sessuali dei Romani e nella morale del matri-
monio; al termine di questo cambiamento, la morale pa-
gana e quella cristiana del matrimonio si troveranno ad
essere assolutamente identiche, ma indipendentemente
da qualunque influenza cristiana. La causa di questo cam-
biamento, per lo studioso francese, è da porre in rappor-
to con il passaggio da una “aristocrazia concorrenziale”
(in cui le rivalità tra clan sono feroci e ogni famiglia ten-
de a prevalere sulle altre), ad una “aristocrazia di servi-
zio”, dove i capi famiglia aristocratici si trovano ad essere
semplicemente sudditi del principe, tutti uguali tra loro e
ugualmente soggetti a un potere che rendeva vana la loro
tradizionale autorità e arroganza, riducendoli a semplici
funzionari imperiali, la cui carriera era garantita e favorita
instaurando buoni rapporti con i propri pari (Veyne 1990;
Cantarella 1989; Rousselle 2009).
Questo portò ad un radicale cambiamento sia nel loro
stile di vita che nella loro psicologia, che si riflette anche
nei comportamenti sessuali. La sessualità tradizionale
del cittadino romano, capo incontrastato di un potente
gruppo familiare su cui nessuno può dettare legge, è es-
senzialmente una sessualità “di stupro”; il pater familias
98
L a Donna neLL ’a ntichità

può avere rapporti sessuali con la moglie, con le schiave


e i paggi della sua casa Ma quando questi si trova nella
condizione di essere uno dei tanti sudditi e funzionari
sottoposti all’autorità imperiale, non potendo più dare
ordini all’esterno, deve inventarsi anche una nuova mo-
rale sessuale. Come deve essere rispettoso dei suoi pari,
così deve esserlo verso la moglie, che è anch’essa una sua
pari. Si dà quindi una regola di rispettabilità, che si ri-
flette non solo sulla società, ma anche sul piano privato,
quindi anche sul piano sessuale. Non avendo più autori-
tà nella società globale, egli non osa più dare ordini ne-
anche a sua moglie, pertanto si inventa il mito dell’amo-
re coniugale, affinché gli si obbedisca per amore, senza
bisogno di comandare. La moglie diviene quindi una
persona da rispettare, a cui essere fedele, una compagna
e un sostegno con cui presentarsi in società. Nasce così
una “morale di coppia” (Cantarella 1989) che, benché
nata negli ambienti più elevati, si diffonde anche tra i ceti
inferiori della società. Secondo Veyne, anche le classi più
basse risentono di un meccanismo psicologico, che vede
nell’ ”autorepressione plebea” (o moralismo sessuale
alla Giovenale), quindi nella capacità di autodeterminar-
si rendendo il loro comportamento simile a quello delle
classi più potenti, un motivo di riscatto sociale e morale,
che contribuisce a confermare il loro status di cittadini
liberi (questo stato di fatto si riscontra infatti tra i liberi di
condizione meno elevata, non tra gli schiavi).
Ma la repressione e l’astinenza sessuale, già ben ra-
dicata nella morale popolare pagana, era presente anche
nelle prescrizioni mediche (secondo le quali il controllo
del desiderio, e se possibile l’astinenza, erano la nuova
regola sanitaria) e nel pensiero filosofico (per ragioni
diverse, al controllo del desiderio sessuale guardavano
con favore sia i pitagorici, sia Platone, sia gli epicurei che
gli stoici; Musonio Rufo, stoico, nel I secolo insegnava
che il sesso, se non finalizzato alla riproduzione, era ri-
provevole anche nel matrimonio). Pertanto, la contrap-
posizione tra corpo e spirito, tra impulso e ragione, non
è un’idea introdotta dal cristianesimo, ma è già presen-
te nella cultura pagana, che si diffonde soprattutto nei
primi due secoli della nostra èra indipendentemente dal
cristianesimo.
99
l uCiano frazzoni

Quanto esposto, avrà importanti riflessi nella con-


dizione femminile. Per la prima volta infatti, la donna,
nell’ambito della famiglia e del matrimonio, non è più
lo strumento per ottenere vantaggi economici o per as-
sicurarsi una discendenza, ma è una persona degna di
affetto e rispetto, e diventa così parte integrante di un
nuovo soggetto sociale a due, la coppia in cui si espli-
ca la felicità coniugale. Questa nuova morale di coppia,
contribuì notevolmente a rendere la vita delle donne più
soddisfacente. Mentre prima la donna era virtuosa per la
città e per il bene comune dello Stato romano (secondo i
molti esempi tramandati dalla tradizione, valga per tutti
quello di Cornelia), ora ella lo è per il marito, dunque in
un’ottica privata e individuale.
Come si è detto, il rispetto verso la donna e il rappor-
to paritario tra i sessi nel matrimonio, è presente anche
nel cristianesimo, che in maniera del tutto rivoluziona-
ria rispetto alle concezioni romana ed ebraica (dove la
donna è considerata un essere inferiore e vista solo come
strumento per la procreazione, totalmente sottoposta al
potere del marito, che poteva avere anche più mogli e
ripudiarle a piacimento), considera il matrimonio mo-
nogamico e indissolubile. Ma, accanto all’affermazione
della parità tra i sessi, si può notare anche nel cristiane-
simo una contraddizione nei numerosi riferimenti alla
posizione di preminenza maschile nella famiglia e nel-
la subordinazione della donna (“l’uomo è il capo della
donna”: Paolo, I Lettera ai Corinzi, 11,3). Un altro concetto
che, come si è visto precedentemente, è presente nella
nuova morale pagana della famiglia, e che, seppur con
motivazioni diverse, si ritrova nel cristianesimo, è quello
della castità, anche all’interno del matrimonio. Se l’unio-
ne coniugale è vista anche come un modo per evitare le
tentazioni della carne, per i cristiani chi vive in castità
è più vicino al regno dei cieli. E principalmente grazie
al culto di Maria, che si diffuse rapidamente soprattutto
dopo il riconoscimento del cristianesimo come religione
di Stato con Costantino, la castità e la verginità venne-
ro esaltati e considerati il più alto modello di comporta-
mento.
Questa esaltazione della castità come gratificante con-
quista di equilibrio, sia per gli uomini che per le donne, e
100
L a Donna neLL ’a ntichità

la diffusione del cristianesimo a tutti i livelli della società


romana, portarono però ad una netta inversione di ten-
denza nei confronti dell’emancipazione femminile, che
come si è visto si era realizzata tra la fine della repubblica
e i primi secoli dell’impero, sia sul piano giuridico che
sociale. Nel tardo impero infatti, vi fu un inasprimen-
to delle pene nei riguardi delle donne, ritenute dirette
responsabili della crisi politica ed economica che stava
attraversando l’impero romano a causa dei loro compor-
tamenti dissoluti e del lusso sfrenato in cui vivevano, so-
prattutto in materia di adulterio, di divorzio e di aborto.
All’esaltazione della castità e al culto verso la figura
della Vergine Maria, viene contrapposta l’immagine di
tutte le altre donne, viste come esseri da demonizzare in
quanto fatte di carne e materia, dunque fonte di tentazio-
ne verso il peccato e strumento del male. Questa demo-
nizzazione della donna, nuovamente considerata essere
inferiore rispetto all’uomo e che deve essere a lui sotto-
messa, è presente in tutti i testi dei Padri della Chiesa,
pieni di invettive contro il genere femminile. Basti citare
Tertulliano (“donna, tu sei la porta del diavolo”, De cul-
tu foeminarum, I, 1,2) e Clemente Alessandrino (“a ogni
donna reca vergogna il solo pensare che è donna”, Paeda-
gogus, VIII, 429), per non parlare di Sant’Agostino, con il
quale il cristianesimo raggiunge l’apice della misoginia.
Per Agostino infatti, lo stato di grazia si può ottenere solo
esorcizzando la donna, e anche l’unione carnale, unico
modo per avere dei figli, deve essere vissuta con dolore.
Con il cristianesimo viene così a consolidarsi, dopo
alcuni secoli di emancipazione femminile, l’idea di infe-
riorità della donna, costantemente presente nella cultura
antica, accentuata dal fatto che, secondo l’ottica cristiana,
l’uomo è immagine e gloria di Dio, mentre la donna no,
pertanto la sua sottomissione rientra nell’ordine naturale
delle cose, concetto che verrà successivamente sancito in
pieno medioevo dal diritto canonico (Cantarella 2011).

101
inconTro aLLe Donne
DeL MeDioevo
iMMagini e archeoLogia in iTaLia
di Manuela Paganelli

Donne ch’avete intelletto d’amore,


i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.

Dante, Vita Nova, XIX

D
ante si rivolgeva – complice - alle donne, a quelle
che conoscevano Amore.
Come oggi, le donne del Medioevo erano ai
vertici del potere, o al contrario inabissate nei deliri di
guerre, fughe, esili. Erano donne devote, o al contrario
inerpicate lungo l’impervio sentiero della ribellione. Era-
no figlie, spose e madri comunque illuminate da “intel-
letto d’amore”.
Di queste donne le chiese, i castelli, i palazzi, gli ar-
chivi ed i musei italiani custodiscono immagini che le
ritraggono ed oggetti che gli appartennero. I loro luoghi.
Arte e archeologia quindi come strumenti per avvici-
nare quelle donne, punti di vista privilegiati per affron-
tare un tema altrimenti da esplorare attraverso “infinite
inquadrature”.
Occorre allora indicare un punto di partenza e preci-
sare il concetto astratto di donna, stabilendo i ruoli che la
società medievale le assegnava e le riconosceva, a partire
dall’analisi delle fonti scritte. Queste però, dalle raccolte
di leggi ai documenti privati, furono per lo più redatte
dalla mano di uomini che non avevano alcun interesse
a descrivere e definire il mondo muliebre qual esso real-
mente era. Ad una prima analisi questi scritti sembrereb-
103
m anuela Paganelli

bero incapaci di precisare i ruoli domestici e quelli pub-


blici della donna ed inadatti a scavare nel suo pensiero
più intimo e nelle sue attese.
Con un forte ritardo, e solamente sulla scia delle ri-
vendicazioni femministe, la storiografia ha iniziato -ne-
gli anni Settanta in America e nei decenni successivi in
Europa- ad interessarsi alle donne, e già negli anni No-
vanta la complessità dell’indagine evidenziava che una
storia al femminile dell’Età medievale non potesse pre-
scindere dagli apporti di discipline diverse: studi sulla
letteratura scritta da mani femminili e su quella a carat-
tere didattico e pastorale rivolta alle donne; ricerche mi-
rate negli archivi ed analisi di demografia storica. Come
ha sapientemente puntualizzato Adele Cilento, solamen-
te dalla coralità delle voci emerge il ritratto di un Me-
dioevo muliebre che sia in grado di offrire un “terreno
di scontro e dibattito per temi antichi e sempre attuali”
(Cilento 1998).
Ecco, è proprio il pensiero del prodigioso, tenero, lu-
minoso e straziante universo femminile contemporaneo
che rende attuale il confronto con le donne del Medioevo.
Purtroppo, allora come oggi, anche la più approfondita
delle analisi non potrà restituire le aspirazioni inconfes-
sate, le gioie interiori ed i timori quotidiani delle donne
comuni che nel vortice del ciclo vitale naturale hanno co-
struito e costruiscono, senza accorgersene, istante dopo
istante, la storia dell’uomo.
Arte e Archeologia allora come asili, rifugi. Un invito
a partire, a scoprire luoghi.
Per illudersi di sentire l’etereo calore ed ascoltare
l’impalpabile respiro delle donne del Medioevo.

Le norme giuridiche
Diverse culture hanno concorso a definire il concetto
di donna nel Medioevo: quella romana, il cui Diritto ha
permeato anche le legislazioni più recenti; quella ger-
manica, che nei territori occupati ha elaborato specifiche
culture giuridiche; ed infine il pensiero cristiano che, di-
rompente nei confronti del sistema etico-socio-politico,
si è rivelato assai meno incisivo nel processo di “emanci-
pazione” del concetto di donna.
104
L a Donna neLL ’a ntichità

La visione della donna nel diritto antico era sicura-


mente svilente rispetto a quella dell’altro sesso ed in
ognuna di queste componenti possiamo facilmente in-
dividuare la connotazione negativa che avvolgeva l’idea
stessa della donna.

il pensiero cristiano
Le parole rivolte alle donne dai primi seguaci di
Cristo non comunicarono tolleranza ed ammirazione.
Tutt’altro. Stonano alla mente di un lettore dei giorni
d’oggi le parole di Paolo: «non permetto alla donna di
insegnare, né di dominare sull’uomo, ma voglio che stia
in silenzio» (I Epistola a Timoteo, 2,11-13); «le donne nel-
le assemblee tacciano; non si permetta loro di parlare, ma
stiano sottomesse, come dice anche la legge» (I Lettera ai
Corinzi, 14, 34-35). La donna paolina era ancora un es-
sere inferiore all’uomo, lui sì immagine e gloria di Dio e
la sua idea pesò ancora nei secoli successivi, durante un
processo continuo di esclusioni e svilimento che relegò
la donna al margine di qualsiasi ruolo attivo nella Chiesa
e per di più le attribuì a lungo un connotato fortemente
negativo (Gatto 2009).
Fu comunque con l’avvento degli imperatori cristiani
che alcune delle istituzioni in cui si esercitava una forte
discriminazione nei confronti del sesso femminile furono
definitivamente soppresse: la norma più esecrabile, il ius
vitae ac necis, venne definitivamente abolita nel 365 dagli
imperatori Valentiniano e Valente. Nel 410 gli imperatori
Onorio e Teodosio II concessero a tutte le donne il ius libero-
rum, sciogliendole dalla tutela e consentendogli la facoltà di
disporre in autonomia dei propri beni, che potevano final-
mente essere trasmessi ai figli (Fayer 2005).
L’Imperatore Giustiniano (527-565), oltre a decretare
l’abolizione del ius exponendi, nella sua vasta opera legi-
slativa affrontò numerosi altri temi giuridici sulla fami-
glia, in parte spinto da interessi personali: dall’ abroga-
zione delle norme che vietavano ai senatori i matrimoni
con donne di rango inferiore, alla leggittimazione dei
figli nati da concubinato lecito; dalla parità di diritti tra
genitori, alla riduzione ad un usufrutto dell’autorità del
pater sui patrimoni acquisiti dai figli (Lazzari 2010). Rap-
105
m anuela Paganelli

portata a quanto accadeva a Roma, la legislazione giu-


stinianea fu più favorevole alle donne anche in campo
religioso e mentre l’Occidente si affannava a precludere
alle donne tutti i ruoli nella gerarchia ecclesiastica, Giu-
stiniano disciplinò i ruoli delle diaconesse specificando,
tra le altre cose, che fossero economicamente sostenute
dalla chiesa di appartenenza e che fossero attivamente
impegnate nella dispensa del battesimo e delle altre fun-
zioni religiose.
Se quindi da un lato le leggi dell’Impero andava-
no riconoscendo i primi aliti di fisionomia propria alla
donna, dall’altro la penetrazione del sentire cristiano
la rigettava contraddittoriamente in un nuovo baratro.
È così che il Concilio di Auxerre nel 588 d.C. vietò alle
donne di ricevere la Santa Eucarestia a mani nude e
di toccare i Sacramenti sacri. Lo stesso Gregorio Ma-
gno, sul soglio pontificio dal 590 al 604, “consigliò”
alle puerpere e alle mestruate di non accostarsi ai sa-
cramenti; Teodoro, arcivescovo di Canterbury dal 668
al 690, condannò a tre giorni di digiuno chi non avesse
osservato questa raccomandazione, obbligando inoltre
le donne che avevano appena partorito ad un periodo
di purificazione lungo 40 giorni. Pesano poi le parole
di Graziano, antesignano del Diritto Canonico con il
suo Decretum del 1140, il quale spiegò l’etimologia del
termine donna come “debolezza della mente” e definì
canoni che la mortificarono pesantemente.
Non deve stupire quindi se proprio una delle grandi
menti femminili del Medioevo, la badessa Ildegarda di
Bingen (1098-1179), paragonò le donne ad “un abitacolo
debole e fragile” (Urso 2005).

Le donne germaniche
Alla fine del I secolo d.C., nell’opera De origine et situ
Germanorum Liber, Tacito si interessò anche alle donne
dei popoli germanici. Stando alle sue parole risulta che
a loro fosse demandata non solo la cura della casa ma
anche quella dei campi, visto che gli uomini oziavano o
erano in guerra! Tacito le descrisse abbigliate allo stesso
modo degli uomini, o tutt’al più con una sopravveste
di lino, con le braccia scoperte come anche la parte su-
106
L a Donna neLL ’a ntichità

periore del petto. Si premurò comunque di sottoline-


are che, nonostante le apparenze dei costumi, i matri-
moni avevano una severa regolamentazione e che -ad
eccezione di pochissimi nobili- ogni uomo era pago di
una sola moglie, gli adulteri erano rarissimi e le donne
rimaste vedove non si risposavano. Lo storico ricorda
anche che esse rappresentavano un valido sostegno al
fianco dei loro compagni in guerra quando alcune era-
no intente a leggere presagi e vaticini sull’andamento
della battaglia, altre usavano incitare i guerrieri profe-
tizzando una possibile prigionia delle mogli in caso di
sconfitta ed altre ancora rifornivano di cibo e prestava-
no le prime cure mediche sul campo, dove «soffrivano
come i mariti e avevano il loro stesso coraggio» (Caso-
rati et al. 2011).
A partire dal V secolo i popoli germanici dilagarono-
no nei territori dell’Impero romano.
L’incontro tra le diverse culture portò nel tempo alla
stesura di codici e raccolte di leggi che disciplinavano
anche la vita delle donne, suggerendo ai nostri occhi, an-
cora una volta, la difficoltà delle loro esistenze.
Attraverso l’istituto del mundio la donna germanica
era costantemente sottomessa ad una autorità maschile
(il padre, il marito, il fratello o anche “la mano del re”)
che amministrava le sue proprietà e la rappresentava nei
tribunali. Nonostante questa “incapacità di azione”, al
contrario della donna romana, quella germanica svolge-
va un ruolo attivo nella trasmissione ai figli sia della con-
dizione sociale (lo status di libero-aldio-servo derivava
dalla condizione materna), sia dei beni di famiglia (che
venivano trasferiti agli eredi previo il consenso di colui
sotto il cui mundio si trovava la donna).
Nella pratica ereditaria però, le figlie erano general-
mente considerate inferiori ai maschi e per questo appa-
re assai innovativa la legge longobarda voluta da re Liu-
tprando (713) che garantiva l’eredità alle figlie femmine,
anche se limitatamente al caso in cui l’uomo fosse morto
senza lasciare eredi maschi (Lazzari 2010).
La visione negativa dell’essere femminile si rivela anche
nella composizione delle pene, fortemente sbilanciata a fa-
vore degli uomini. Nel secolo VI la legge dei Burgundi sta-
biliva che in caso di adulterio la donna dovesse essere affo-
107
m anuela Paganelli

gata nelle paludi, pena non prevista se il reo fosse stato un


uomo. La legge degli Alamanni prevedeva che per discol-
parsi dall’accusa di stregoneria la donna fosse sottoposta
a prove terribili, quali la graticola o la botte piena d’acqua
dove veniva rinchiusa rischiando d’annegare. I Longobar-
di condannavano l’uomo che avesse usato violenza su una
donna e l’avesse poi presa in moglie contro la sua volon-
tà, al pagamento di un’ammenda da destinare metà al re
e metà ai parenti dell’offesa, non ritenendo in alcun modo
coinvolto e leso il sentimento proprio della donna.
Nonostante una visione della donna così mortificante,
alcune leggi germaniche punivano severamente le mole-
stie o le violenze sulle donne: già all’epoca destò grande
stupore il divieto di violentare le donne romane imposto
da re Totila ai suoi soldati in occasione del saccheggio di
Roma nel 546.
Di contro però, le leggi permettevano di dare in spo-
sa le fanciulle ancora in tenera età, a partire cioè da 12
anni: ai nostri occhi anche questa è violenza, terribile
violenza.
Tra le diverse etnie, quella dei Visigoti mostra una
maggiore apertura nei confronti del sesso femminile:
presso questo popolo la donna poteva amministrare da
sola le sue proprietà, aveva il diritto di rappresentarsi in
tribunale e di testimoniare nei processi e, dopo i venti
anni, poteva occuparsi personalmente del proprio patri-
monio.
Nel complesso, l’articolato sistema socio-politico che
si istaurò in Europa a seguito delle migrazioni germani-
che comportò il confronto tra diverse tradizioni e culture
senza che questo favorisse un processo di emancipazio-
ne dei ruoli e delle condizioni femminili.
Ma ora andiamo incontro alle donne del Medioevo.

Donne al potere, donne in guerra


Teodora
Nel Medioevo, epoca che si vuole plasmata e costruita
dalla volontà e dalle azioni di Imperatori, Re, feudatari,
Santi e Papi, accadde che alcune donne ricoprirono ruo-
li all’apice del potere: la “Gloriosa Femina” governava al
108
L a Donna neLL ’a ntichità

fianco del suo uomo oppure assumeva il ruolo di reggente


in assenza del marito in guerra, in pellegrinaggio o agli
ordini del re, o magari in attesa che l’erede designato rag-
giungesse l’età per governare.
Misurate nell’esercizio del loro mandato come le re-
gine sveve, o meno sobrie come quelle franche (Gatto
2009), a loro non furono comunque risparmiate guerre
da fronteggiare, dissidi da sedare, intrighi di corte da
sventare, ma seppero sempre destreggiarsi con estremo
senso del dovere dando esempio di virtù politiche al pari
degli uomini, e quando si trovarono a dover difendere
l’unità di un regno o degli estesi patrimoni di famiglia,
non esitarono a scontrarsi con tutti, figli compresi.
Tuttavia il principale compito demandato alle donne,
anche a quelle di potere, rimaneva la maternità attra-
verso la quale regine ed imperatrici dovevano assicurare
la discendenza al regno. Inevitabilmente il loro ruolo po-
litico era subordinato a quello maschile (Arce 2007).
La narrazione storica sovente le trascura e le pone in
secondo piano.
Tutte tranne una: l’imperatrice Teodora di Bisanzio, la
più amata, la più odiata.
Amata dal marito, l’imperatore Giustiniano, il quale
per sposarla fece ritirare la legge che impediva i matrimo-
ni dei senatori con donne di rango inferiore, essendo Te-
odora una famosa attrice di mimo per di più proveniente
da un’infanzia sbarcata negli ambienti più popolari della
città insieme alle due sorelle e alla madre rimasta presto
vedova. Teodora, il cui nome significa “dono di Dio”, sep-
pe conquistare il suo ruolo di Augusta con grande tenacia
ed intelligenza. Seppe riprendersi, ancora giovanissima,
da esperienze che l’avevano segnata, essendo partita a soli
diciotto anni per l’ Africa con Ecebalo di Tiro, governatore
della Pentapoli Cirenaica, dal quale volle presto dividersi;
ed essendo divenuta presto madre di un figlio, Giovanni,
che si dice abbandonò al padre rimasto sconosciuto.
Nel 523 Teodora sposò Giustiniano, di venti anni più
grande di lei, e con lui dal momento della loro incorona-
zione avvenuta nel 527, ridisegnò l’impero. Non fu certo
una principiante nel tessere intrighi e nel mantenere il
comando del potere, e proprio le esperienze passate le
servirono per avere un più lucido controllo del proprio
109
m anuela Paganelli

operato. Consapevole di quanto aveva raggiunto e co-


struito, sembrava non dimenticare le difficoltà delle don-
ne, soprattutto di quelle in balia degli uomini e legiferò
in loro favore autorizzando il divorzio, permettendo loro
di ereditare beni, punendo gli sfruttatori ed assicurando
alle prostitute la protezione e l’assistenza nel percorso
rieducativo.
Più di una volta Giustiniano riconobbe la loro sag-
gia condivisione della gestione del potere, amministrato
da entrambi “per volere di Dio”, e Teodora rappresentò
sempre un sicuro sostegno al suo fianco: fu lei a salvare il
marito e lo stesso impero durante la “rivolta di Nika” (Co-
stantinopoli, 543) quando esortò gli uomini, e per primo
Giustiniano, al loro dovere politico evitando che l’impera-
tore fuggisse lasciando la città in mano ai rivoltosi.
Unico grande rimpianto, quello di non aver dato un
erede a Giustiniano e all’Impero.
Odiata da Procopio di Cesarea, l’uomo che distrus-
se la sua memoria relegandola nel più infame postribo-
lo che l’antichità ci abbia consegnato, diffamando il suo
nome che legò al vizio del sesso; lo storico che attribuì
alla coppia imperiale la colpa di tutte le sciagure che si
riversavano sulla popolazione inondata, terremotata ed
appestata (Ravegnani in www.retimedievali.it).
Teodora è ancora lì, nelle strade pullulanti e speziate
di Istanbul, con le donne che ridono, occhi scuri e vesti
colorate e mosse dal vento, la sagoma di Santa Sofia che
incombe sui riflessi color oro dell’acqua del Bosforo.
Ed è ancora lì, nella luce sacra e silenziosa di San Vitale
a Ravenna, capolavoro dell’architettura bizantina in Italia,
iniziata sotto il Vescovo Ecclesio (†532) e finalmente con-
sacrata dal Vescovo Massimiano nel 547, l’anno che prece-
dette la morte dell’imperatrice cinquantunenne, avvenuta
a Costantinopoli il 28 giugno del 548, si dice per cancro.
Mani sapienti rivestirono le pareti del presbiterio
della Chiesa di San Vitale con mosaici dai colori sfavil-
lanti, per celebrare il Trionfo del Regno di Cristo (nel
catino absidale) e della coppia imperiale, i vicari di Dio
in terra. Teodora e Giustiniano sono ritratti nei due
pannelli che ai lati dell’abside ripropongono la scena
dell’Oblatio Augusti et Augustae, il rito proprio del ceri-
moniale costantinopolitano che prevedeva l’offerta del-
110
L a Donna neLL ’a ntichità

la patena aurea (Giu-


stiniano, a sinistra) e
del calice tempestato
da gemme (Teodora, a
destra) (fig. 24) in oc-
casione della consacra-
zione di una chiesa, in
questo caso San Vitale,
Fig.24: Ravenna, San Vitale, Corte di Teodora.
rappresentata dal ve-
scovo Massimiano nel
pannello di sinistra.
A destra dell’abside, Teodora è raffigurata con il suo
seguito, immersa in un’atmosfera densa, lo sfondo do-
rato che sembra avvolgerla e proteggerla, isolandola ed
innalzandola in una dimensione che non è la nostra.
È facile immaginare come il bianco delle perle che pen-
devano numerose dal ricco copricapo, rendesse ancor più
luminoso il volto di Teodora e come gli smeraldi e zaffi-
ri dei lunghi orecchini e della collana creassero un nobile
contrasto con la sua pelle chiara. (fig. 25)
Teodora, al centro della composizione, porge il prezio-
so calice con un ampio gesto che evidenzia l’eleganza del-
le sue vesti.
Splendide le stoffe indossate dalle altre donne, in
particolare quelle delle due figure femminili che trova-
no posto accanto all’imperatrice (fig. 26), forse Comitò e
Anastasia sorelle di Teodora, o più probabilmente Anto-
nina e Giovannina, moglie e figlia del generale Belisario,

Fig. 25: Ravenna, San Vitale, Teo- Fig. 26: Ravenna, San Vitale. Corte di Teodora
dora (part.). (part.).

111
m anuela Paganelli

uomo di fiducia di Giustiniano, ritratto accanto all’Impe-


ratore nel pannello di fronte. Per queste raffinate dame,
sobriamente ingioiellate, tuniche e manti finemente rica-
mati con i colori caldi di Costantinopoli -il porpora, il ros-
so e l’oro- ed eleganti geometrie e figure ricamate. Stoffe
nobili, pesanti e morbide, che fanno tornare alla mente la
leggenda secondo la quale furono proprio due monaci in-
viati in Cina dall’imperatrice Teodora a portare in Occi-
dente i primi bachi da seta, dando il via alla produzione
locale di tessuti preziosi.
Il mosaico del corteo di Teodora, dunque, mostra lo
splendore e la ricchezza della corte imperiale, il suo fasto
e la sua opulenza.
Davanti a queste figure sembra ancora oggi doveroso
restare in silenzio come in un reverente eterno omaggio.
Pare di poter ascoltare il fruscio delle sete che avanzano
sul pavimento della Chiesa e di poter respirare l’aria resa
corposa dall’incenso. Teodora, imperatrice dell’Impero
Romano, ha conquistato il diritto ad essere raffigurata
partecipe dell’autorità -divina e terrena al tempo stesso-
che governa l’Universo.
Osservando un’immagine così viva si ha la sensazione
che Teodora possa tornare ed allora, con abilità e determina-
tezza, sarebbe nuovamente ai vertici del potere a dimostrare
che la volontà delle donne può cambiare il loro destino.

Le donne longobarde
Da millenni l’uomo fugge dalle sue terre e ancora oggi,
come allora, migrano interi popoli che aspirano ad una
vita migliore o, più tragicamente, alla sola sopravvivenza.
Durante i primi secoli dell’Età Medievale si assiste in
tutta Europa a sconvolgenti spostamenti di genti alla ri-
cerca di più stabili condizioni di vita ed in molti giunsero
in Italia.
Nel 568 fu la volta dell’intero popolo longobardo.
Stanziati da qualche anno nelle pianure della Pannonia,
circa 100mila individui guidati da re Alboino attraver-
sarono le Alpi Giulie per dilagare nella nostra penisola,
travolgere l’ordine sociale, strappare le terre ai possesso-
ri locali, e fondare un regno che rimodellò questa regione
(Brogiolo, Chavarría Arnau 2007).
112
L a Donna neLL ’a ntichità

Ogni volta che una nuova etnia si stanziava sul suolo


italico, il confronto tra le diverse culture era inevitabile e
l’esito poteva essere assai complesso.
Oggi la ricerca archeologica possiede gli strumenti e le
metodologie necessarie per avviare indagini sulle dina-
miche di convivenza tra popolazione locale ed immigrati
(Giostra 2011a). E proprio l’archeologia, più delle scarne
fonti scritte, consente di avvicinare le donne longobarde,
quelle che affidarono la loro vita ai compagni guerrie-
ri, che videro incendiate le proprie case e saccheggiati
i propri cimiteri per non lasciare in patria alcun valore,
che durante il lungo e faticoso viaggio verso terre scono-
sciute trovarono comunque il modo di accudire i propri
figli, e che -forse- furono le prime a radicarsi alle nuove
terre per necessità, per spirito di sopravvivenza, contri-
buendo in modo istintivo e determinante all’inevitabile
processo di integrazione tra le genti.
I monili di corredo rinvenuti nelle tombe, possono
fornire interessanti indizi circa la volontà delle donne
longobarde di attenersi agli usi più tradizionali della pro-
pria gente, oppure al contrario, di sperimentare le mode
in auge nei territori conquistati, o ancora di riproporre
oggetti “simbolici” di famiglia, trasmessi di generazione
in generazione, facendone però un uso diverso (sono gli
oggetti rinvenuti in posizioni che ne attestano un uso al-
terato) oppure modificandone parzialmente l’aspetto ad
imitazione del gusto autoctono (Giostra 2011b; id. 2011c).
Nel Museo Nazionale dell’Alto Medioevo, allestito a
Roma dal 1967 nel Palazzo delle Scienze all’Eur, è possi-
bile ammirare tra i tanti reperti, anche quelli provenien-
ti dalla necropoli longobarda di Nocera Umbra, località
posta lungo il tracciato della Via Flaminia, conquistata
nel 571 e subito annessa al potente Ducato di Spoleto.
Negli anni che vanno da 571 al 620-630 quattro nuclei
familiari corrispondenti alle fare seppellirono i propri
defunti nella necropoli.
Il costume delle donne longobarde immigrate a No-
cera Umbra, appartenenti a gruppi non particolarmente
ricchi, prevedeva che il mantello fosse chiuso dalle fibule
a S, (fig. 27) secondo gli usi attestati già in Pannonia. Si
modifica invece l’uso delle caratteristiche fibule ad arco,
fino ad allora usate per chiudere l’abito all’altezza del-
113
m anuela Paganelli

la vita o delle spalle,


ed ora agganciate ad
una striscia di stoffa
che pendeva dal-
la vita: indossate in
questo modo le fibu-
le ad arco, decorate
con i tipici motivi zo-
omorfi stilizzati ed
intrecciati sconosciu-
Fig. 27: Coppia di fibule a S da Nocera Umbra - Tomba 10.
ti al gusto romano,
acquisirono una fun-
zione fortemente simbolica sottolineando l’appartenen-
za al gruppo dominante attraverso un forte rimando al
costume degli antenati. Altro elemento proprio dell’ab-
bigliamento femminile longobardo era il cd. “pendente”,
che partiva dalla fibbia della cintura, al quale erano ap-
pesi oggetti per lo più minuti, funzionali (il coltello, la
borsetta) o amuleti (conchiglie, sfere di cristallo di rocca,
dischi in bronzo). Le donne venivano sepolte con il capo
coperto da una cuffia o da un velo fermati da aghi crinali
o spilloni e, ad eccezione di collane per lo più in pasta
vitrea, non usavano altri monili.
Intorno al 600 però, proprio lo scambio di esperienze
con il mondo romano-bizantino, dove l’uso del corredo
era ormai episodico, porta le don-
ne longobarde ad uniformarsi alle
esperienze autoctone attraverso
una progressiva riduzione quan-
titativa degli oggetti inseriti nelle
sepolture ed una maggiore sobrie-
tà dell’abito, che conserva ancora
per pochi anni un’unica fibula ad
arco, ora prodotta in Italia: in que-
sto periodo viene introdotto l’uso
delle crocette in lamina d’oro cu-
cite sul velo funebre, realizzate a
probabile imitazione degli arredi
bizantini ed indici comunque di
una nuova sensibilità religiosa
Fig. 28: Fibula longobarda da No- (figg. 28-29) (Bonomi Ponzi–Paro-
cera Umbra - Tomba 162. li-Profumo 1997).
114
L a Donna neLL ’a ntichità

È interessante il fatto
che siano le sepolture
femminili ad anticipare
quelle dell’altro sesso
nel processo di omo-
logazione alla cultura
propria delle terre con-
quistate. L’amministra-
zione del potere richie-
deva evidentemente
una conferma della spe-
cificità del gruppo di
comando, che si attuava
Fig. 29: Crocetta aurea da Nocera Umbra - Tomba 17. anche attraverso il man-
tenimento dei costumi e
gli usi della propria gente. Le donne invece, addette alla ge-
stione della famiglia e legate alla terra che le ospita da vin-
coli quasi ancestrali, potrebbero aver allentato prima questa
tensione e essere riuscita a fondersi in anticipo con le altre
genti. Sarebbe interessante se la ricerca archeologica riuscis-
se a trovare le chiavi per indagare questo aspetto e definire
se il ruolo di madre possa aver favorito l’attaccamento alle
nuove terre: al termine di un avventuroso e lungo viaggio di
guerra, le donne che erano riuscite a portare in salvo i propri
figli potrebbero aver atteso più degli altri il momento in cui
si sarebbero finalmente sentite di nuovo al sicuro.
Un ritratto collettivo espresso attraverso la sola de-
scrizione di oggetti e costumi può però risultare freddo
e distaccato, ma se proviamo a dare un nome a queste
donne, agli oggetti che potrebbero aver usato e agli uo-
mini che avevano accanto, la loro presenza diventerà più
tangibile. Eccole dunque: Audeperga e Bertruda, giova-
ni figlie di Brando, intente a tessere fazzoletti bianchi e
candide federe. Ecco Ermengarda e Lisberga, con i loro
compagni Aldo e Guido: mangiano un brodo caldo, un
po’ di arrosto e altra carne riscaldata sulla brace, bevono
birra. Osserviamo Matilda mentre nella stalla prepara il
suo destriero e con abilità maneggia staffe e speroni.
Loro, le donne longobarde, sono ancora tra noi a di-
mostrare che i figli dei loro figli sono gli antenati dei
nostri antenati e che i nati nella nostra nazione hanno il
diritto di essere italiani.
115
m anuela Paganelli

Donne devote. Donne ribelli


Donne sante
Mai come nel Medioevo la devozione e la ribellione
hanno rappresentato aspetti strettamente connessi alla
trasformazione di una società, quella pagana, travolta da
un inesorabile percorso di adesione di massa al Cristia-
nesimo. L’aspettativa di un Regno dei Cieli dove potesse
governare l’uguaglianza tra gli esseri umani (Paolo, Ga-
lati, 3, 26-29), e l’attesa della sua proiezione in Terra, che
anche per le donne rappresentò fin dagli inizi la motiva-
zione di una lotta spinta in molti casi fino al martirio, fu
ben presto disattesa e proprio la Chiesa di Roma contri-
buì fin dall’inizio ad avvilire la donna e a relegarla nelle
zone della comunità più in ombra, contrastando nei fatti
quanto le parole di maggior apertura di alcuni dei Padri
della Chiesa andavano “sottilmente” enunciando.
Un ruolo attivo femminile a favore della Chiesa delle
origini è testimoniato dal ricordo delle donne martiriz-
zate e di quelle che misero a disposizione della comunità
le loro proprietà ed i loro beni. È anche attestato dalla
menzione di intraprendenti pellegrine nei luoghi della
Terra Santa e dalla citazione della committenza femmini-
le riguardo la fondazione di chiese e monasteri.
Alle origini la Chiesa non disdegnò una presenza
delle donne anche nella sua organizzazione interna:
alle vedove che avevano superato i cinquanta anni, ad
esempio, venivano demandate funzioni esclusivamente
assistenziali, che non implicavano l’ordinazione ma solo
la sottomissione ai vescovi e diaconi e l’osservanza alla
continenza ed alla preghiera. Diverso il caso delle diaco-
nesse, la cui esistenza è testimoniata dalle fonti più anti-
che: Paolo nella sua lettera ai Romani raccomanda Febe
nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre [...] e
chiede loro di salutare Prisca e Aquila, miei collaboratori
in Gesù Cristo: essi per salvarmi la vita hanno rischiato
la loro testa (Romani 16, 1-3), mentre nel Libro VIII delle
Costituzioni Apostoliche è descritta la cerimonia di ordi-
nazione delle «serve designate per il diaconato». Già nel
VI secolo però, Roma cercò di ridurre fortemente il ruolo
di questo istituto (Concilio Epaunense, 517) limitandone
116
L a Donna neLL ’a ntichità

l’accesso alle sole vedove ed esaurendo a sola penitenza,


e non più ordinazione, la benedizione imposta alle no-
velle diaconesse. Attraverso tale mortificazione la Chie-
sa voleva confinare i compiti del diaconato femminile al
solo servizio delle preghiere, ma nei secoli che seguirono
il Concilio Epaunense accadde che alcune donne di alto
rango venissero ordinate diaconesse, sebbene non più
vergini e maritate (Radegonda, moglie di Clotario I dei
Merovingi, VI secolo), e che venisse stabilita a 40 anni
l’età minima per accedere al diaconato femminile (Con-
cilio di Worms, 868), infine si verificò che il vescovo di
Porto venisse autorizzato da Papa Leone IX ad ordina-
re diaconesse (1049): avvenimenti episodici, certo, non
la norma, ma comunque testimonianze di un uso che
non accennava a tramontare. Solamente nell’ XI secolo
questa esperienza si esaurì definitivamente e il termine
diaconessa, talvolta forse utilizzato al posto o al fianco di
“badessa”, passerà poi ad indicare più semplicemente la
moglie del diacono (Urso 2005).
Il mondo muliebre si mostrò particolarmente recet-
tivo nei confronti del monachesimo fin dal suo primo
manifestarsi. Nella favorevole accoglienza che le donne
rivolsero alla proposta di una vita casta e ritirata è pos-
sibile vedere anche il riflesso di un’ insoddisfazione pro-
fonda, di una ricerca di alternative che consentissero di
dare finalmente una forma alla propria identità troppo
spesso mortificata. L’eroica negazione del proprio cor-
po e dell’appartenenza al consesso degli uomini poteva
essere una radicale forma di ribellione ad imposizioni e
soggezioni che la società imponeva alle donne, poteva
costituire l’unica salvezza davanti ad un matrimonio in-
desiderato.
In altri casi il ritiro a vita monastica andava invece
a ribadire con maggiore fermezza, ed all’interno di un
disegno politico ben orchestrato, un ruolo privilegiato
già acquisito: alcuni monasteri godevano infatti di estesi
privilegi ed in alcuni casi le loro badesse, spesso prove-
nienti dalle casate reali o dalle famiglie più potenti, eser-
citavano un potere economico (controllando vasti patri-
moni) e civile (esercitando la giustizia) su ampi territori.
Questa “laicizzazione” del magistero monastico dovette
apparire ben presto cosa pericolosa, tanto che il Conci-
117
m anuela Paganelli

lio di Aquisgrana (816) richiamò le religiose a quelle che


erano le norme basilari ma ormai disattese della vita in
comune: l’isolamento e l’austerità. Lo stesso concilio si
prese cura di definire persino la dieta alla quale le mona-
che dovevano attenersi, premurandosi di assicurare ad
ogni consorella circa un litro e mezzo di vino al giorno o,
se questo scarseggiava, di birra!
Come già accaduto in altre questioni, a partire dall’XI
secolo la Chiesa pose rimedio all’autorità femminile an-
che in campo monastico, affidando progressivamente il
controllo delle diverse istituzioni agli abati.
In contrasto alla progressiva tendenza ad isolare la
donna e ad allontanarla dalla leadership della Chiesa,
vengono acclamate numerose “sante” , scelte tra donne
di potere o più umili serve di Dio.
La letteraura pedagogica dell’epoca sembra sottoin-
tendere una scala di santità articolata sulla rinuncia ai
piaceri della carne. Ai vertici di questa scala si distinguo-
no le vergini, integre nel corpo, pulite nelle intenzioni,
vittoriose grazie alla fermezza d’animo e della mente sui
pensieri insani; alcune di loro, le mistiche, moduleranno
la loro vita partecipando alla comunione con Dio attra-
verso esperienze forti e dirette, che non necessitavano di
intercessioni da parte del clero. Le donne che sceglieva-
no questo difficile percorso di salvezza prevedevano di
ignorare qualsiasi aspirazione alla maternità, che costi-
tuiva una pericolosa discesa verso gli appetiti carnali.
Subito sotto le vergini stavano le vedove che, liberatesi
dall’obbligo dell’obbedienza coniugale, si trovavano or-
mai nella condizione di poter raggiungere le vette della
santità imponendosi la rinuncia ai piaceri carnali. Alla
base della scala trovavano infine posto le donne sposate,
virtuose e caste dal momento che la loro vita sessuale
era comunque volta alla procreazione e all’obbedienza ai
desideri del marito (Casagrande, 1990).
Una delle più raffinate immagini di Sante del Medio-
evo italiano si trova in un edificio all’apparenza pesan-
te e massiccio di Cividale del Friuli, l’antica Forum Iulii,
importante gastaldìa longobarda. Le poderose mura del
complesso monastico a cui appartiene l’Oratorio di San-
ta Maria in Valle nulla fanno presagire della straordina-
ria raffinatezza della decorazione interna della cappella,
118
L a Donna neLL ’a ntichità

oggi nota come “Tempiet-


to Longobardo”, risalen-
te con molta probabilità
ai decenni a cavallo della
metà dell’VIII secolo, tra
il 733 ed il 766 (regno di
Astolfo o di re Desiderio).
(fig. 30)
Entrando nell’aula qua-
drata, che una misurata
iconostasi separa dal pre-
sbiterio tripartito, si viene
inondati dal bianco che
Fig. 30: Cividale, cd. Tempietto Longobardo, interno.
oggi domina lo spazio e
che contrasta nettamente
con gli arredi lignei del coro, e si ha subito la percezione
della prodigiosa combinazione di spiriti artistici ai quali
si deve questo capolavoro. Il bianco è quello dello stucco
con il quale venne eseguito l’apparato decorativo, leggero
come se si trattasse di sottili ricami, ma non è quello ori-
ginale poiché un tempo le decorazioni erano policrome e
le volte, a crociera nell’aula e a botte nel presbiterio, erano
ricoperte da mosaici. La decorazione, che ormai si svolge
solamente sulla parete d’ingresso dell’aula, è distribuita
su due registri dei quali quello
superiore è occupato dalla teoria
di figure femminili nimbate, ese-
guite a grandezza di poco supe-
riore al naturale e distribuite in
ritmo ternario ai lati di una mo-
nofora cieca. Le due figure più
interne sono leggermente rivolte
verso l’apertura e si distinguono
dalle altre per le vesti che indos-
sano, la tunica ed il mantello o
palla, rialzato a coprire il capo.
Le altre donne sono rappresen-
tate frontalmente ed indossano
vesti ed ornamenti preziosi dif-
ferenti l’una dall’altra, e recano
in mano i simboli del martirio, la Fig. 31: Cividale, cd. Tempietto Lon-
croce e la corona (fig. 31). Da qui gobardo - teoria di sante (part.).
119
m anuela Paganelli

l’identificazione delle figure come martiri e la proposta di


individuare in alcune le sante Chiona, Irene, Agape e So-
fia. Di queste figure incanta la solennità data dalle pose di
ascendenza bizantina, sottolineate dai panneggi profondi
e geometrici sui quali scorre la luce creando forti contrasti;
ed incantano i volti ben più terreni, più veri delle icone
orientali.
Osservando ammirati queste figure, i minuti che scor-
rono sembrano temporaneamente sospesi nella luce ir-
reale dell’aula. La solenne calma dei loro gesti misurati
sembra formare una sorta di barriera alle nostre inquie-
tudini, sembra anticipare le nostre parole e chiederci una
pausa: qui a Cividale i ruoli si invertono e noi spettatori
siamo scrutati dai loro occhi che osservano i nostri gesti
ed indagano il nostro pensiero. Le loro bocche sembrano
voler suggerire, a noi che abbiamo forse smarrito la ca-
pacità di sospendere i giudizi e non sappiamo più allun-
gare le nostre pause, di prendere tempo.

Donne martiri
Come in uno “scontro di forze uguali e contrastan-
ti”, la devozione a Cristo fu la forza dilagante che diede
la spinta alla nascita del Medioevo. Accadde poi che la
ribellione –che alle origini era stata un tutt’uno con la
devozione -non trovando gli spazi dove essere ascoltata,
tornò con forza al punto d’origine, ritorcendosi contro la
natura stessa che l’aveva generata.
La vasta e rapida conversione al Cristianesimo
dell’Impero Romano fu opera anche dei ribelli che paga-
rono con la vita la volontà di vivere nella fede in Cristo.
Intorno al V secolo la Chiesa, superata anche l’ultima
grande persecuzione voluta da Giuliano l’Apostata (361-
363), riordinò le testimonianze sulla vita e sulla morte dei
martiri, ricucì le loro memorie e diede degna sepoltura
ai loro corpi. L’epoca della ribellione sembrava dunque
finita, la Chiesa aveva trionfato e sui luoghi del martirio
potevano sorgere maestosi edifici ed apparire struggen-
ti immagini a ricordo degli eventi. Ne è dimostrazione
una drammmatica testimonianza, un affresco dipinto in
una delle abitazioni romane conservate al di sotto del-
la Chiesa dei SS.Giovanni e Paolo al Celio: sulla destra
120
L a Donna neLL ’a ntichità

della finestrella che consentiva di onorare la sepoltura


dei martiri, venne affrescata una scena di martirio di
alcuni personaggi. Tra essi è chiaramente individuabile
una donna, inginocchiata e con le mani legate dietro alla
schiena, accanto al carnefice. Immagine antica e contem-
poranea, orribilmente contemporanea. (fig. 32)
Il percorso storico del Cristianesimo non è stato certo
privo di altre contestazioni e ribellioni. Le dispute teolo-
giche impegnarono fin dagli inizi la Chiesa nella risolu-
zione di rotture, eresie e scismi. Ma esisteva una ribellio-
ne più sottile, nascosta, a volte inconsapevole. E non era
solo quella delle donne che, incanalate nei sentieri spiri-
tuali che la Chiesa riusciva ancora a controllare, trovava-
no libertà e celeste soddisfazione nell’adesione alla vita
eremitica, a quella monastica o ascetica, in un percorso di
una simbiosi con Cristo sempre più radicale.
Nei secoli bassomedievali accadde anche che molte
donne dovettero rinunciare ad entrare nei monasteri,
non disponendo della dote richiesta; e che molte altre
scelsero di vivere la propria esperienza mistica organiz-
zandosi in gruppi o comunità libere da ogni vincolo con
la chiesa ufficiale. In questo modo si crearono le condi-
zioni affinchè le energie femminili che Roma non riusci-
va -non voleva- imbrigliare andassero spontaneamente
a cercare rifugio in nuove formule religiose al di fuori
delle regole approvate, dando luogo a contrasti anche
molto aspri e violenti.
Nella seconda metà del XII secolo si sviluppò il “mo-
vimento” delle Beghine, termine con il quale si suole
indicare le
donne appar-
tenenti alle
più disparate
categorie so-
ciali che nei
territori delle
Fiandre e della
Renania pri-
ma, nelle altre
nazioni euro-
pee poi, senza Fig. 32: Roma, Case romane al Celio, affresco con scena di martirio
prendere i voti (part.).
121
m anuela Paganelli

si dedicarono alla vita comunitaria e soprattutto alla


contemplazione, alla castità e all’espiazione delle colpe
in forme così radicali di digiuno che talvolta giunsero
a degenerare in suicidi collettivi, similmente a quanto
accadeva fra i Catari. La Chiesa condannò severamen-
te questi movimenti eretici giungendo all’esecuzione
sul rogo delle donne coinvolte. Un esempio fra i molti:
Margherita Porete, che nel 1310 fu data alle fiamme in-
sieme alla sua opera “Le mirouer des simples âmes”, un
dialogo tra Amore, Anima e Ragione sul percorso di
congiunzione a Dio.
In quel periodo l’ascendenza dei Catari sulle donne
deluse dalla Chiesa di Roma fu grande: essi le acco-
glievano con maggiore coinvolgimento, le consacrava-
no consentendo di accedere a tutti i gradi della gerar-
chia catara, gli concedevano il diritto della parola e
l’officio dei sacramenti. Le donne furono nuovamente
tradite e relegate a ruoli di scarso rilievo quando que-
sti movimenti si “istituzionalizzarono” e tornarono ad
una organizzazione misogina. Il sentimento dispregia-
tivo che circondava la donna era troppo diffuso per-
chè giungesse l’atteso riconoscimento di uguaglianza
(Urso 2005).
La pena inflitta a Margherita Porete e ad altri nu-
merosi eretici, il rogo, viene collegata nell’immagina-
rio collettivo alla caccia alle streghe, triste fenomeno
che si scatenò proprio alla fine del Medioevo. In realtà
la consuetudine alla magia ed i ricorsi alle fatture – e
di conseguenza il terrore di queste pratiche - rimanda-
no a tempi assai più antichi, pertanto non deve mera-
vigliare il divieto di uccidere una «strigam, quam dicunt
mascam» riportato nell’Editto di Rotari: “Nessuno pre-
suma uccidere un’aldia o una serva altrui come se fos-
se una strega, che chiamano masca, perchè per menti
cristiane non è in alcun modo possibile che una don-
na possa divorare un uomo vivo intero [...]” (Lazzari
2010). La tradizione della “masca” è ancora oggi viva
in Piemonte, dove con questo termine si suole indicare
una donna assai anziana e dall’ aspetto molto sgrade-
vole, capace di trasformarsi in animale ed in grado di
fare del male alle persone, agli animali e ai raccolti che
si dicono così “ammascati”... una strega, insomma!
122
L a Donna neLL ’a ntichità

Donne ribelli
Non tutta la vita della donna medievale si esauriva
nel rapporto con la fede e con la cura della famiglia: nel-
le miniature dei codici appaiono donne impegnate nella
vendita di merci all’interno di botteghe cittadine, donne al
lavoro nei campi, donne intente all’assistenza dei malati e
persino donne guerriere!
Non fu semplice per le donne imporsi in alcuni campi,
specialmente in quelli che necessitavano un approfondi-
to percorso di studi, troppo spesso riservato agli uomini.
Una delle esperienze più interessanti e all’avanguardia
fu la Scuola Salernitana, aperta già nel IX secolo anche
agli insegnamenti del sapere greco, ebreo ed arabo. La
Scuola accoglieva le donne interessate ad esercitare l’arte
medica: tra queste la più famosa è Trotula de Ruggiero i
cui rimedi e cure furono presto citate ed esercitate non
solo a Salerno ma in tutta l’Europa medievale. Trotula
stessa nell’opera De passionibus mulierum ante, in, et post
partum, scritta alla fine dell’XI secolo, ricorda di essere
divenuta medico per aiutare le donne che, per pudore e
vergogna, preferivano soffrire pene infinite piuttosto che
farsi visitare da un uomo (Fumagalli, Trotula in www.en-
ciclopediadelledonne.it).
Lo sforzo delle donne e la loro tensione all’uguaglian-
za, sembra trovare finalmente una voce narrante nel Li-
vre de la Cité des Dames, opera di Christine di Pizan (1364-
1430), ricordata come grande figura della letteratura
medievale ed unica scrittrice che fece fonte di guadagno
della sua arte. Christine de Pizan potè studiare grazie
alla volontà del padre che la spinse a istruirsi affinché il
suo intelletto si aprisse a tutte le discipline, come faceva-
no all’epoca gli uomini. E proprio la parità intellettuale
tra uomini e donne è il tema dirompente e rivoluzionario
affrontato nella sua opera.
Le donne del Medioevo dunque, hanno lottato per
arrivare ad affermare la propria individualità. A lungo
hanno dovuto percorrere solo “sentieri” che altri pre-
paravano per loro, ma ciò non ha impedito che alcune
deviassero da quelle indicazioni per raggiungere le più
alte vette della conoscenza e del sapere. I loro scritti sono

123
m anuela Paganelli

ancora qui per ricordare di non fermarsi, di percorrere le


altre vie.
Ma allora, quante donne dovranno ancora subire
mortificanti ed atroci ingiurie, e quante saranno ancora
annientate dalla cecità intellettuale che in nome della re-
ligione o delle tradizioni culturali travolge i loro destini,
accomunando nel silenzio complice le società di tutto il
mondo?

figlie, spose e madri


fanciulle
Gli storici concordano nel ritenere che il Medioevo
non fosse epoca interessata all’infanzia. Ancora una
volta gravavano su un pensiero così lontano dalla no-
stra sensibilità le parole della Chiesa di Roma che ri-
conosceva all’infanzia un unico miracolo, quello della
nascita di Gesù, e poi la rigettava nella naturale incli-
nazione al male che dannava l’uomo, nell’incrimina-
zione del peccato originale, nell’incapacità intellettiva
e spirituale propria degli infanti che gli impedisce di
raggiungere le più alte vette della Verità e di discernere
il bene dal male.
Pertanto non dolcezza con i figli ma “verga e corre-
zione”, così nella Bibbia e così ancora Gregorio Magno (†
604) che condannava l’eccessiva bontà di genitori nella
quale vedeva la causa dell’affievolita disciplina (Giallon-
go 1990).
Secondo Isidoro di Siviglia c’era un’età per l’infantia,
quella da 0 a 7 anni; un’età della puerizia, da 7 a 14 anni,
il cui inizio coincideva con l’avvio all’educazione scola-
stica; e l’età della adolescentia, da 14 a 21 anni.
Ancora una volta a discapito delle femmine, l’età ave-
va un valore diverso quando si trattava di considerare
le attitudini dei fanciulli per avviarli alla vita futura, ed
ancora nel XIV secolo si riteneva opportuno che i maschi
fossero avviati all’istruzione scolastica a 7 anni, età in cui
le femmine potevano essere avviate proficuamente ai la-
vori domestici dal momento che a 10 anni erano ormai
considerate adulte, e pronte per essere date in sposa.
124
L a Donna neLL ’a ntichità

Ecco dunque l’unica vocazione pensata per le femmi-


ne: diventare spose e madri.
Al di fuori della prospettiva del matrimonio e della
maternità, le femmine erano “inutili”, in particolar modo
nella prima fascia d’età, e questo lo dimostra il fatto che
il valore delle più piccole fosse decisamente inferiore a
quello dei maschi. Non erano quindi le benvenute, ed è
presumibile che con le nasciture si ricorresse all’abban-
dono e al ricorso all’infanticidio più frequentemente di
quanto accadesse con i maschi. “Dio t’allevi”, “Dio t’aiu-
ti” era l’ appellativo che indicava i trovatelli e gli orfani
nei conventi e monasteri, che ritroviamo tra gli attuali
cognomi italiani, i Diotallevi, Diotaiuti e Diotisalvi, me-
moria delle sofferenze inferte all’infanzia per troppi se-
coli. Altra testimonianza di abbandoni di neonati fu l’in-
venzione della “ruota”, introdotta in Italia si dice dalla
Francia per volere di Papa Urbano III (1185-1187) il quale
sperò di risolvere così l’ orribile pratica di disfarsi dei
neonati gettandoli nel Tevere.
Almeno fino all’XI secolo ci fu poi un’altra pratica as-
sai usuale, quella di scegliere per i propri figli il ritiro nei
conventi, una vita di privazioni e contemplazione dalla
quale non si poteva più tornare indietro se non attraver-
so la fuga.
Non era solo una profonda religiosità a spingere i
genitori ad affidare ad un monastero la propria figlia: si
malignava già in antico che taluni accompagnassero lì le
figlie malformi che non avrebbero potuto maritare o che
si ricorreva all’oblatio per evitare di dover racimolare la
dote che accompagnava la sposa mettendo mano ai beni
di famiglia!
Non sono mancate in tutto il Medioevo voci relativa-
mente più sensibili alla fanciullezza: la regola benedetti-
na riconosceva la specificità delle diverse età dell’uomo
e si preoccupava delle forme punitive da adottare nei
confronti di fanciulli (pene corporali, prolungati digiuni)
che dovevano essere diverse da quelle dei monaci più
anziani (Cap.XXX). Rare invece le voci che si levano a
sottolineare gli aspetti più teneri dell’infanzia che, d’altra
parte, era stata un’età particolarmente amata da Gesù.
Ancora una volta è Christine di Pizan a restituire un
sentimento quasi attuale dell’infanzia quando la ricorda
125
m anuela Paganelli

come un’età felice dedicata ai giochi e “non al cucito”,


un’età allegra che le fu concessa meravigliosamente dal
padre che per primo aveva intuito ed assecondato le sue
grandi doti intellettive.
Immagini di giochi, distrazioni e scene di vita fanciul-
lesca sono dunque banditi dall’iconografia medievale,
ed è per questo che desta una serena e condivisa ammi-
razione la vista di una rarissima immagine di fanciulle
che giocano a palle di neve.
La scena fa parte del Ciclo dei Mesi affrescato nel-
la Torre dell’Aquila nel Castello del Buonconsiglio a
Trento, opera attribuita all’artista boemo maestro Ven-
ceslao, datata agli anni a cavallo tra XIV e XV secolo e
commissionata dal principe-vescovo di Trento, Giorgio
di Liechtenstein (fig. 33). I temi, le iconografie ed i sen-
timenti rimandano alle più tipiche manifestazioni del
Gotico internazionale, dell’ambiente cortese. Immersi
in un paesaggio invernale caratterizzato dalla neve e
dominato dalla grande mole del castello in secondo pia-
no, con le montagne trentine sullo sfondo, verso le quali
sembrano dirigersi due cacciatori, stanno due gruppi
di personaggi maschili e femminili intenti a giocare ad
una divertente battaglia di palle di neve. Il gruppo a
sinistra è composto da due dame dalle vesti morbide
ed ampie, realizzate con
stoffe pesanti, l’una ver-
de e l’altra rossa, orlate di
ricami dorati. La donna
in verde, dai capelli bion-
di raccolti da una treccia
intorno al volto, è colta
nell’atto di lanciare la
palla di neve con la mano
destra, mentre con l’altra
trattiene un’ampia piega
delle veste nella quale
ha riposto altri due “pro-
iettili” di neve. La dama
in rosso è invece china a
preparare la palla di neve
Fig. 33: Trento, Castello del Buon Consiglio, Ciclo con un lieve movimento
dei Mesi, Gennaio (part.). rotatorio delle mani: la
126
L a Donna neLL ’a ntichità

sua veste, più mossa dell’altra, lascia intravedere la ric-


ca tessitura interna, il bordo dello scollo è elaborato e i
suoi lunghi capelli biondi quasi toccano terra. L’imma-
gine è bella, fresca e raffinata allo stesso tempo e l’alle-
gria delle fanciulle continua a far sorridere.
Osservando la felice immagine di donne del nostro Me-
dioevo nella mente stride una domanda che cerca una ri-
sposta: a quante bambine sarà ancora rinnegata l’infanzia
e a quante bambine sarà vietato un futuro di amore e pace?

Spose
Solamente nel 1215 il Concilio Lateranense IV regola-
mentò ufficialmente il matrimonio. A partire dal IX seco-
lo, però, la Chiesa aveva tentato di codificarlo in modo
tale che la norma civile si unificasse a quella religiosa,
definendone i tre momenti fondamentali: il consenso dei
genitori, gli accordi economici, l’avvenuta consumazio-
ne alla prima notte di nozze.
Gli sforzi della Chiesa volevano infatti porre fine ad
un contemporaneo svolgersi di formule matrimoniali di-
verse, dovute alla coesistenza delle numerose componenti
etnico-culturali del periodo altomedievale.
Alla donna veniva assegnato un ruolo passivo, in alcu-
ni addirittura colpevole, come si evince dalle disposizioni
relative alle cause di infedeltà e divorzi. Nella maggior
parte delle culture giuridiche altomedievali, tra le giuste
cause di divorzio era la sterilità femminile ma quando
questa non fosse inconfutabilmente accertata, l’uomo po-
teva comunque liberarsi dal vincolo matrimoniale pagan-
do alla donna un compenso in denaro. Ovviamente alla
donna che avesse osato richiedere il divorzio i Burgundi,
ad esempio, riservavano la morte per soffocamento nelle
paludi fangose. Ancora una volta fu la legislazione giu-
stinianea quella più egualitaria, stabilendo che il divorzio
dovesse essere consensuale e dovesse fondarsi su una giu-
sta causa, quale poteva essere l’adulterio, l’infertilità o la
pronuncia del voto di castità.
Infine, un’ ultima osservazione per riflettere ancora
sulla disparità tra uomo e donna nel Medioevo, partendo
questa volta dalla concezione cristiana del matrimonio, se-
condo la quale l’unione con un uomo non era necessaria-
127
m anuela Paganelli

mente la migliore strada che le donne potessero percorrere,


dal momento che solo a quelle che sceglievano la castità, le
spose di Cristo, si sarebbero spalancate le porte del Regno
dei Cieli. Quello che stupisce, e che conferma ancora una
volta la concezione negativa che si abbatteva in epoca me-
dievale sulla donna, è che mentre la Chiesa si industriava
a proporre modelli femminili di castità e verginità, doveva
fronteggiare il fenomeno non poi così circoscritto dei sacer-
doti sposati, definendo i rapporti che essi intrattenevano
con le mogli “incestuosi”, disponendo il divieto a celebrare
le funzioni e allontanando le leggittime consorti ora consi-
derate adultere. Agli uomini di chiesa non rimaneva che
consolarsi con concubine e prostitute.
Sulle tante parole che possono essere dette circa il
concetto e la pratica del matrimonio nei secoli medievali
si impone però con infinita dolcezza l’immagine di una
tomba del VI-VII secolo rinvenuta a Modena nel 2009
nel corso di scavi diretti dalla Soprintendenza per i Beni
Archeologici dell’Emilia Romagna (fig. 34). La tomba
conteneva gli scheletri di una coppia, la donna a destra
e l’uomo a sinistra. Le tombe bisome, seppure non così
frequenti, non sono comunque una novità: quello che
desta una grande emozione è il fatto che qui i defunti
furono sepolti con-
temporaneamente
e tenendosi tene-
ramente per mano,
con le teste rivolte
l’una verso l’altra,
a guardarsi e sfio-
rarsi per l’eternità.
La morte li colse
non più giovani.
Lo studio dello
straordinario ri-
trovamento prose-
gue: gli scheletri
saranno sottoposti
ad analisi antropo-
logiche che ci resti-
tuiranno informa-
Fig.34: Modena, Tomba degli Amanti. zioni preziose sui
128
L a Donna neLL ’a ntichità

due personaggi e sulle cause della loro morte. Una morte


apparente però, perchè la loro storia, riportata sapiente-
mente alla luce dagli autori della scoperta archeologica,
da ora non avrà più fine: ogni generazione potrà con-
frontarsi con le loro mani congiunte nell’atto di sostener-
si, di non abbandonarsi nell’ultimo viaggio, così come
sicuramente avevano fatto in vita.
Il loro ritrovamento sembra incoraggiarci a credere
nella durata eterna dell’amore ed esortarci a cercare il
calore di un contatto che possa aiutare a vincere la paura
di quello che sarà. Vuole suggerirci di non lasciare quella
stretta di mano che, anche se a volte è distratta o stanca,
dà un senso alla nostra quotidianità.

Madri
Il tema della maternità si è affacciato spesso nel corso
dei diversi “viaggi” affrontati in queste note. Si è affac-
ciato nella storia dell’Imperatrice Teodora, che sperimen-
tò il fallimento di una maternità negatale dalla natura.
Ed è apparso nelle vicende delle madri longobarde, so-
lidi riferimenti per i figli che vivevano la guerra. Torna
nella storia delle spose di Cristo, che vedevano nella ma-
ternità un impedimento all’attesa congiunzione spiritua-
le con l’Amato. È la giustificazione stessa delle storie di
quelle donne che si dedicarono alla cura di chi stava per
diventare madre. Lo troviamo nelle storie di tante figlie,
dolorosamente abbandonate dalle madri nella prospetti-
va di un futuro migliore; ed in quelle di tante spose che
diventarono madri così giovani che dovevano ancora es-
sere figlie.
Come in tutte le epoche, le vicende della maternità
nel Medioevo racchiudono il fluire stesso della storia,
dalla quotidianità del legame naturale all’eccezionalità
dei rapporti ai vertici del potere, dalla sua completa ac-
cettazione alla più sofferta negazione.
Ancora una volta, la Chiesa potè ispirare l’uno o l’al-
tro atteggiamento.
A Castelseprio, nel Varesotto, nella chiesa di Santa Ma-
ria foris Portas, un anonimo pittore o un gruppo di pittori-
di sicura ascendenza bizantina, affrescò le pareti dell’aula
di culto in un periodo che gli studiosi non sono ancora ri-
129
m anuela Paganelli

usciti a restringere oltre un ampio arco cronologico che va


dal VI all’VIII secolo. Gli affreschi hanno per tema l’infan-
zia di Cristo e rappresentano scene tratte dalla tradizione
dei Vangeli Apocrifi. Nella scena della Natività (fig. 35),
come in tutto il ciclo, le figure sono elegantemente fluide,
i colori armoniosi e le lumeggiature sapienti. Eppure, è
proprio nella Natività che traspare un grave sentimento
di isolamento fisico e spirituale delle figure di Maria e di
Giuseppe, una mesta barriera sensoriale tra lo spettatore
e l’evento. Seguendo la tradizione bizantina il pittore di-
pinse Maria nel momento in cui ella ha appena partorito,
distesa sul letto accanto al quale trova posto la levatrice
che, avendo tentato di aiutarla durante il parto, si ritrova
con il braccio paralizzato. Pur essendo centrale e maesto-
sa, Maria esprime una malinconia infinita, l’espressione
immersa nei pensieri, lo sguardo che vaga distante dalla
scena che si svolge poco più in basso, dove le levatrici
sono intente a lavare il neonato. Isolata ed ancora più
estranea ai fatti è poi la figura di Giuseppe, seduto in
basso volgendo le spalle alla moglie, la testa rassegnata
appoggiata alla mano sinistra, lo sguardo distrattamente
indirizzato a Gesù. Il neonato è raffigurato due volte, tra
le ancelle ed in una culla alle spalle di Maria, dove viene
riscaldato dal bue e dall’asino. Non c’è alcun moto che
coinvolga i personaggi, e se non fosse per i movimenti
delle levatrici lo spazio sembrerebbe non esistere. Maria

Fig.35: Castelseprio, Santa Maria foris Portas, Natività (part.).

130
L a Donna neLL ’a ntichità

presaga del futuro, medita già sulle sorti del Figlio; Giu-
seppe, più umano, allontana i dubbi dal suo cuore… Su
tutti comunque incombe un ineluttabile destino di dolore.
Le donne del Medioevo erano soprattutto madri e
questo lo sapevano fin dalla nascita. Durante il Medio-
evo si sono sviluppate tutte le forme ed ogni sfumatu-
ra del rapporto tra madre e figli. Un legame profondo
anche quando non si manifesta apertamente, un vincolo
nascosto ed indissolubile a volte non compreso, a vol-
te rifiutato, a volte appena sopito. Nel Medioevo mol-
te madri furono costrette ad interrompere quel legame
per assecondare volontà politiche, regole religiose o più
semplicemente per offrire ai propri figli un destino mi-
gliore; ne soffrivano ma non potevano manifestare il do-
lore della lontananza.
Lo fa invece la contessa di Barcellona e marchesa di
Settimania, Dhuoda: suo figlio Guglielmo è stato affi-
dato come ostaggio all’imperatore Carlo il Calvo dal
padre e lei, per illudersi di essergli vicino, nell’anno
843 gli dedica uno scritto, il Liber Manualis. Il testo è
una lunga riflessione sui doveri, sulla vita e le difficol-
tà che Guglielmo affronta e dovrà affrontare, proposta
attraverso citazioni di testi sacri, di autori classici, di
riferimenti allegorici ritmati sui numeri sacri. Dhuoda
vuole fornire a Guglielmo gli strumenti per affrontare
la vita terrena e raggiungere la felicità spirituale, af-
fidandoli all’inchiostro e non alla voce, con la quale
avrebbe voluto istruirlo. E scrive anche perchè un gior-
no Guiglielmo, leggendo la sua opera, pensi a lei che è
così lontana.
Le misurate e sommesse parole con le quali ella apre
il suo libro, non riescono però a nascondere tutta la te-
nerezza di una madre che vorrebbe avere accanto a se’ il
proprio figlio: «La maggior parte delle madri di questo
mondo può godere della vicinanza delle sue creature,
mentre io, Dhuoda, sono tanto lontana da te, figlio mio
Guglielmo, e perciò piena di ansia e di desiderio di es-
serti utile; così ti invio questa piccola opera scritta a mio
nome, affinché tu la legga per tua formazione; sarò felice
se, pur essendo io assente fisicamente, proprio questo li-
bretto ti riporterà alla mente, quando lo leggerai, ciò che
devi fare per me» ed ancora «Ciò che mi sta più a cuore,
131
m anuela Paganelli

o figlio Guglielmo, è rivolgerti parole di salvezza, tra le


quali il mio cuore ardente e vigile brama che tu abbia la
testimonianza della tua nascita con l’aiuto di Dio, anno-
tata in questo libretto per mio desiderio» (trad. da www.
ub.edu)
A noi che siamo abituate a comunicare velocemente, a
volte distrattamente, ovunque e sempre, l’idea di scrive-
re parole d’amore potrebbe apparire ormai lontana.
Oppure no.
Perchè l’intelletto d’amore, che muove le religioni, le
ribellioni e la sete del sapere, e che accompagna la vita
delle bambine, delle spose e delle madri, è una forza di-
rompente che non accenna a scemare. Dovremmo però
imparare a non sprecarne neanche un alito. E la storia
delle donne nel Medioevo potrebbe aiutarci a riuscire in
questo intento.

132
ParTe SeconDa
Le STorie
La Donna neLL’anTico egiTTo
di Mara Monticone Cimmino

U
nitamente alle testimonianze archeologiche, le
fonti storiche concorrono ad attribuire alla donna
egizia una posizione pressoché paritaria all’uo-
mo, dal punto di vista dei diritti economici, giuridici, ci-
vili e sociali. In breve, essa era considerata pienamente
“individuo”. (Fig. 36)
Dalle parole dello storico greco Erodoto, ad esempio,
si deduce quanto progressista nel Mediterraneo dell’epo-
ca fosse il ruolo della donna nell’antico Egitto, di con-
cezione talmente “moderna”, al punto da destare quasi
scandalo: “Da loro, per esempio, sono
le donne che vanno al mercato ed eser-
citano il commercio” (Erodoto, “Sto-
rie”, II-35).

D’altra parte, si ha testimo-


nianza persino di donne-faraone.
Molto si sa di Hatshepsut, (Fig.
37) energica sovrana che regnò dal
1479 al 1458 a.C., in qualità di reg-

Fig. 36: Statuetta in calcare della


dama Tanofret (Nuovo Regno,
XVIII dinastia). Museo Egizio di
Torino (Da Civiltà degli Egizi.
La vita quotidiana, Ist. Bancario Fig. 37: Testa di statua colossale raffigurante la regina
San Paolo, Torino 1988) Hatshepsut. Particolare. Museo Egizio del Cairo.

135
m ara m ontiCone C immino

gente al posto del nipote ancora bambino, Tuthmosi III.


Ma la storia ha conservato i nomi di altre eccellenti prin-
cipesse e sovrane, di epoche anche più antiche, sebbene
meno note.
Mereneith, vissuta nella I dinastia, ebbe due sepolture
come i faraoni dell’Antico Regno: una ad Abido, a sud,
e una a Saqqara, a nord (a ricordare l’unione delle due
terre) circondate da tombe di funzionari e artigiani, una
specie di corte.
Nella lista regale del Canone Regio di Torino, compa-
re il nome di Nitocris affiancato dal titolo di Re dell’Alto
e del Basso Egitto: è la prima donna-faraone a tutti gli
effetti. Regnò durante la VI dinastia, intorno al 2184 a.C.
circa, dopo Pepi II e fu l’ultimo faraone dell’Antico Re-
gno.
Anche Sobeknefrura (1790-1785 a.C.) figlia di Ame-
nemhat III e sorella o moglie di Amenemhat IV, regnò
come faraone, ma il suo esercito non fu in grado di arre-
stare l’avanzata Hyksos, che si concluse con l’occupazio-
ne del paese.
Tausret, sposa di Sethi II, prese la reggenza alla morte
del marito, al posto del troppo giovane Merneptah Sip-
tah e regnò 8 anni, dal 1196 al 1188 a.C.
Infine non possiamo non ricordare Cleopatra, ultima
regina egizia, il cui nome esercita ancora oggi fascino e
mistero.

Oltre a questi eccezionali casi di sovrane, nell’antico


Egitto era del tutto normale che una donna potesse esse-
re direttrice di una provincia, di una città o di una circo-
scrizione amministrativa, ispettrice del Tesoro, capo del-
le stoffe e della casa della tessitura, capo delle cantatrici
e delle danzatrici, della camera delle parrucche, etc. Si
ha notizia di molte donne medico, perlopiù specializzate
in ginecologia e ostetricia. In pratica, a parte l’esercito,
le donne egizie avevano accesso a quasi tutte le attività.
Già fonti dell’Antico Regno ci tramandano i nomi di
queste donne “in carriera”: ad esempio Nebet principes-
sa ereditaria, giudice e visir, Peseshet capo dei medici,
Hemetra vera e propria imprenditrice, con al suo servi-
zio un intendente e parecchi scribi, e Idut, scriba e pro-
prietaria terriera.
136
L a Donna neLL ’a ntichità

Più prodiga è la documentazione del Nuovo Regno.


Una certa Henuttaui, cantatrice di Amon a Tebe durante
il Regno di Ramesse XI, sostituì suo marito (scriba della
necropoli, partito per una missione) nell’importante in-
carico di sovrintendenza all’arrivo dei carichi di cereali
destinati agli artigiani di Deir el-Medina; svolgendo tale
lavoro constatò un errore e avviò un’indagine per identi-
ficare i responsabili.
Un interessante documento porta alla luce un caso di
vera e propria solidarietà femminile: Takare gestiva un
certo numero di capi di bestiame per conto del legitti-
mo proprietario il quale, non contento dei suoi servigi,
la licenziò e si rivolse ad un’altra donna. Quest’ultima
assunse Takare alle sue dipendenze e, ritenendo che essa
fosse stata ingiustamente licenziata, si alleò con lei per
far causa al proprietario; la loro istanza giunse fino al tri-
bunale del visir!
La donna poteva inoltre ricoprire le più alte cariche
sacre e in tali contesti, condizione sociale e patrimonio
non avevano alcun peso: ciò che più contava era la pu-
rezza di cuore.
A partire dall’XI secolo prese corpo il clero delle di-
vine adoratrici, (Fig. 38) sacerdotesse nubili e senza figli
che decidevano di consacrare la loro vita al servizio del-
la divinità. Il loro insediamento nel tempio era parago-
nabile a una cerimonia
di incoronazione rega-
le. Le divine adoratrici,
come i faraoni avevano
i loro nomi inscritti nei
cartigli, e potevano con-
sacrare monumenti e
offerte divine, dirigere
riti di fondazione, deli-
mitare aree templari e
sacrificare animali. Esse
non possono però esse-
re considerate sovrane a
tutti gli effetti, in quanto
i loro anni di regno sono
(Epoca Tarda, XXV dinastia). Particolare. Museo compresi tra quelli del
Fig. 38: Statua della divina adoratrice Amenirdis

Egizio del Cairo. faraone in carica.


137
m ara m ontiCone C immino

Se alcune donne approdarono ad alti e importanti in-


carichi professionali, la maggior parte della popolazione
femminile egizia era analfabeta e di umile condizione,
pertanto destinata a ruoli più modesti, come le attività
contadine e artigianali. La tessitura (Fig. 39) fu ad esem-
pio un mestiere esclusivamente femminile e molte don-
ne trovarono impiego come parrucchiere e profumiere;
si ha persino notizia di una donna pilota, manovratrice
di timone su una barca da trasporto. Molte fanciulle, poi,
lavoravano al servizio di altre dame di alto rango e vi-
vevano nelle ville come domestiche, cameriere e addette
alla persona.
Particolare è invece il caso del villaggio operaio di
Deir el-Medina (Tebe ovest), dove vivevano, insieme alle
loro famiglie, gli operai addetti alla costruzione e deco-
razione delle tombe regali della Valle dei Re; qui è stata
rinvenuta la corrispondenza privata di molte donne di
quella piccola comunità, a dimostrazione che l’istruzio-
ne era accessibile in egual misura a maschi e a femmine,
senza preclusioni di sorta.

Nella vita privata e famigliare, l’egiziana non era qua-


si mai designata come “moglie di”, piuttosto come “figlia
di”: aveva un nome
proprio che mante-
neva anche dopo il
matrimonio, quando
acquisiva il titolo di
nebet per, “signora
della casa”. Per gli
egizi l’amore coniu-
gale costituiva una
meta da raggiungere
e si cercava di attuar-
la anche con insegna-
menti morali che ve-
nivano impartiti sin
dall’infanzia: “ama
tua moglie con ardore,
Fig. 39: Modellino ligneo raffigurante un laboratorio riempi il suo stomaco e

(Medio Regno, XI dinastia). Particolare. Museo Egizio vesti il suo dorso: l’un-
tessile, rinvenuto nella tomba del cancelliere Meket-Ra

del Cairo. guento è un rimedio


138
L a Donna neLL ’a ntichità

per il corpo […] Falla pro-


sperare nella tua casa!”
(“Insegnamento di
Ptahotep”, XI-XII dina-
stia). Le giovani egizie
si sposavano in un’età
compresa tra i dodici e
i quindici anni e, dalle
testimonianze lettera-
rie, si deduce che fosse-
ro lasciate piuttosto li-
bere di scegliere il pro-
prio compagno: “Il mio
diletto turba il mio cuore
con la sua voce […] il mio
cuore è turbato quando
penso a lui; l’amore per
lui mi ha resa prigionie- Fig. 40: Gruppo statuario in calcare dell’operaio Pen-
ra” (Lirica d’amore del dua con la moglie (da Deir el-Medina, Nuovo Regno,
Nuovo Regno).
XIX dinastia). Museo Egizio di Torino (Da Civiltà degli
Egizi. Le arti della celebrazione, Ist. Bancario San Pa-
Il matrimonio non olo, Torino 1988).
era regolato da un co-
dice civile o religioso, pertanto non se ne sa molto. Se-
condo le fonti antiche, gli sposi dovevano pronunciare
le frasi “Io ti ho resa mia moglie” – “Tu mi hai resa tua
moglie”, dopo di che la coabitazione rendeva di fatto le-
gittima l’unione. Probabilmente la sera della data desi-
gnata, il padre portava la figlia con la dote presso la casa
del futuro sposo, il quale offriva una grande festa cui in-
tervenivano numerosi ospiti. Dopo i festeggiamenti gli
sposi iniziavano la loro vita in comune. In egiziano anti-
co, matrimonio è detto hemes o hemesi irem, ossia “sedersi
con”. Questo termine ci riporta alle odierne cerimonie di
matrimonio in Egitto, durante le quali gli sposi, seduti
su due poltrone sfarzose affiancate vengono “esposti” su
una pedana alla vista di parenti e invitati che li festeg-
giano con un grande pranzo, tra balli e canti. E se ci fac-
ciamo caso, nella statuaria egizia i coniugi sono sempre
ritratti seduti l’uno a fianco all’altro, stretti in un abbrac-
cio... (Fig. 40) I coniugi si chiamavano affettuosamente
“fratello” e “sorella”, il che non implica necessariamente
un rapporto incestuoso: tra la gente comune erano con-
139
m ara m ontiCone C immino

sentiti i matrimoni tra cugini, mentre quelli tra genitore-


figlio o tra fratelli potevano avvenire all’interno della
famiglia reale, al solo scopo di garantire la successione,
mantenendo una “pura” discendenza.
Analogamente al matrimonio, il divorzio non neces-
sitava di alcuna formalità né della redazione di qualche
documento: era sufficiente una comunicazione orale,
forse alla presenza di testimoni. Le cause più frequenti di
divorzio erano l’adulterio (punibile anche con la condan-
na a morte dell’adultero), l’incompatibilità di carattere o
la sterilità. Così come il matrimonio era un atto privato,
anche il divorzio non era bandito in alcun modo dalla
morale religiosa, tuttavia l’unità famigliare era tutelata
dal timore delle spese cui si andava incontro in caso di
divorzio. Se una donna sposata con una ricca dote veniva
ripudiata dal marito senza una buona motivazione, a lei
spettavano, oltre ad una eventuale penalità di divorzio, i
suoi beni personali, quelli portati in dote, un capitale per
l’alimentazione (mantenimento) e parte del patrimonio
personale del marito.
Con simili impegni, il ménage diventava quasi in-
separabile e le unioni furono prevalentemente mono-
gamiche. La poligamia fu raramente praticata e rimase
appannaggio pressoché esclusivo del faraone che, oltre
alla “Grande sposa regale”, legittima consorte e madre
dell’erede al trono, aveva molte altre mogli, spesso prin-
cipesse di paesi stranieri attraverso le quali cementava
alleanze strategiche e politiche.
Questa vasta comunità femminile viveva all’interno
di un harem. Il nome egiziano corretto è Kheneret, che
significa “luogo chiuso”, anche se le donne che viveva-
no al suo interno non erano prigioniere: regine e spose
secondarie vi facevano educare i loro figli, in una sor-
ta di scuola superiore chiamata Kep e dame importanti
come la regina Teye vi passarono la vecchiaia, in quanto
gli harem erano luoghi tranquilli. Un harem era dotato
di servizi amministrativi e laboratori, disponeva di ren-
dite e sussisteva dei prodotti delle sue terre. Era insom-
ma un organismo autonomo simile ai grandi complessi
templari, cui erano ammessi alti funzionari, amministra-
tori, artigiani, servitori, uomini e donne che formavano
una sorta di micro-società. Data la loro natura chiusa e
140
L a Donna neLL ’a ntichità

Fig. 41: Particolare degli atti del processo, redatti su papiro, contro i congiurati che attentaro-
no alla vita di Ramesse III (Nuovo Regno, fine XX dinastia). Museo Egizio di Torino (Da Civiltà
degli Egizi. La vita quotidiana, Ist. Bancario San Paolo, Torino 1988).

isolata, all’interno degli harem si svilupparono intrighi


di varia natura: famoso è il papiro conservato a Torino
(Fig. 41) che riporta gli atti del processo intentato ver-
so la fine della XX dinastia contro ventotto uomini e un
gruppo non ben definito di donne, aizzati da una delle
spose reali di nome Tiy, che misero a punto un tentativo
di eliminazione del faraone Ramesse III, per garantire la
successione al trono secondo dinamiche diverse da quel-
le previste dal faraone stesso. I cospiratori misero in atto
ogni misura, anche la magia, e predisposero di entrare in
azione durante la Bella festa della Valle; vennero tuttavia
scoperti e si costituì una corte speciale per giudicarli. Al-
cuni degli imputati furono costretti al suicidio, altri subi-
rono la mutilazione del naso e delle orecchie; nulla si sa
circa la sorte della fomentatrice della rivolta, ma possia-
mo supporre che l’ira del faraone sia stata implacabile.

Mentre nel mondo giudaico-cristiano la figura di Eva


porta le donne ad una innegabile condizione di inferio-
rità spirituale, nell’universo egizio la figura femminile di
riferimento era Iside, sposa di Osiride che, affrontando
dure prove, aveva scoperto il segreto della rinascita. E in
effetti l’universo divino egizio era popolato da divinità
maschili e femminili in egual misura e di pari importan-
za.
Così, accanto a Iside, incarnazione della maternità e
della regalità femminile, troviamo una vasta schiera di
dee che rispecchiano varie sfaccettature della femmi-
nilità: Neith, la guerriera armata di arco e frecce; Sekh-
141
m ara m ontiCone C immino

met dalla testa leonina, terribile dea della guerra e delle


malattie, patrona dei medici, che può trasformarsi nella
benevola Bastet a testa di gatta, dea dell’amore, della fa-
miglia e della casa; Hathor, talvolta dall’aspetto bovino,
dolce dea dell’amore e della musica; Tauret, dal corpo di
ippopotamo con il ventre rigonfio e testa di coccodrillo,
dea tutelare preposta alle nascite. (Fig. 42) E l’elenco po-
trebbe continuare ancora.

In conclusione, gli egiziani furono pienamente con-


sci delle differenti peculiarità dei sessi, ritenendo perciò
naturale una certa diversità di ruoli, da non confondersi
assolutamente con la sottomissione o il ruolo subalterno
dell’una rispetto all’altro: semplicemente tale consape-
volezza vedeva l’uomo maggiormente proiettato verso il
mantenimento della famiglia e la donna verso la forma-
zione e l’accudimento della famiglia stessa.
Peraltro, nell’Egitto antico le donne come gli uomini
avevano il diritto - e quindi la possibilità - di accedere
all’istruzione, di farsi una posizione in campo lavorativo
e sociale, di scegliere uno sposo di loro gradimento, pos-
sedere beni, ereditarne e lasciarne a loro volta in eredi-
tà del tutto autonomamente;
potevano anche decidere di
divorziare dal marito.
Tale condizione agli occhi
del resto del mondo antico
doveva parere veramente
inconcepibile, al punto che
- verso la metà del II seco-
lo a.C. - Tolomeo Filopatore
sconvolse in gran parte il di-
ritto egizio, rivedendo i prin-
cipi di uguaglianza tra i sessi
e negando di fatto una libertà
di cui, per troppo tempo, le
donne egizie avrebbero ap-
profittato.
Fig. 42: Statua lignea raffigurante la dea
Tauret, protettrice delle nascite. Museo
Egizio di Torino (Da Civiltà degli Egizi.
Le credenze religiose, Ist. Bancario San
Paolo, Torino 1988)

142
Le PriMe SiciLiane
di Giuseppina Battaglia

il Paleolitico

L
’uomo moderno ha una grande capacità di adat-
tamento a tutti gli ambienti naturali e saranno
gruppi di uomini moderni che raggiungeranno la
Sicilia e che vi si stanzieranno in maniera stabile circa
30.000 anni fa, durante una fase avanzata del Paleolitico
Superiore, come ci raccontano i reperti rinvenuti nel Ri-
paro di Fontana Nuova a Marina di Ragusa. Durante il
Pleniglaciale Superiore (25.000 – 15.000 anni fa) i fondali
marini che oggi circondano l’Isola fino ad una profon-
dità di 120 - 130 metri erano terre emerse, le isole Ega-
di erano unite alla costa trapanese, una penisola molto
estesa partiva dalla zona di Mazara del Vallo fino quasi
alla costa africana, una grande penisola univa l’arcipela-
go maltese alla costa sud orientale della Sicilia. In questo
modo l’Isola doveva essere unita alla terraferma: non si
sa bene se alla costa africana (come si è sempre creduto)
o alla costa italiana (come oggi sembra più probabile).
Comunque fu attraverso un “ponte” che arrivarono pri-
ma gli animali e poi l’uomo. La Sicilia doveva essere una
regione steppica, ad aree cespugliose alternate a zone di
prateria alpina e con alcuni ghiacciai montani.
Molto probabilmente l’Isola era già stata “scoperta”
in epoche precedenti, ma le tracce di questi passaggi
umani sono confuse e richiedono ulteriori ricerche, studi
e scavi eseguiti con metodo scientifico. Per trovare i resti
dei primi abitanti umani dobbiamo arrivare nella grotta
di San Teodoro (Acquedolci, ME) dove sono stati trovati
gli scheletri di 4 uomini e 3 donne in posizione supina
di decubito, arti distesi, all’interno di fosse di forma ret-
tangolare deposti in uno strato di ocra (che simboleggia

143
g iusePPina B attaglia

il potere vivificante del


sangue), ciottoli leviga-
ti, lame e punteruoli in
selce e denti di cervo
forati per collane. Fra
tutti spicca Thea, trova-
ta nel 1937, una donna
di circa 30 anni, alta m.
1,65, vissuta circa 14.750
anni fa, che presenta le
caratteristiche proprie
del Sapiens Sapiens, la
sepoltura era ricoperta
da un piccolo strato di
terra rossa. Oggi è espo-
sta al Museo “G. Gem-
Fig. 43 Ricostruzione del volto di Thea, Museo “G.
Gemmellaro” di Palermo.
mellaro” di Palermo e
recentemente è stato ricostruito il volto. (fig. 43)
Nel panorama italiano, la Sicilia Occidentale è la zona
che conta la maggiore concentrazione di siti con presen-
za di arte rupestre paleolitica. In una delle prime e più
importanti raffigurazioni artistiche del Paleolitico su-
periore, quella nella Grotta delle Incisioni, all’Addaura,
su Monte Pellegrino (PA), vediamo una scena con sette
figure maschili, a corpo nudo, cinque con la testa rico-
perta da una maschera a becco d’uccello e da una folta
capigliatura, disposti in cerchio all’interno del quale vi
sono due individui, più snelli, calvi, con i corpi contrap-
posti che indossano astucci fallici, in atteggiamento acro-
batico; secondo alcuni si tratta di un rito di iniziazione,
per altri di un sacrificio umano e per altri ancora di una
gara acrobatica. Forse un adolescente (o una donna?) - la
figura è priva dell’astuccio fallico come sembra indicare
l’assenza del laccio in vita, elemento presente nelle altre
figure e della maschera a becco d’uccello - è raffigurata
all’interno del cerchio della scena principale, nell’atto di
chinarsi a raccogliere qualcosa.
Sulla stessa parete, nella zona sottostante questa sce-
na, ci sono altre figure animali e umane fra cui una donna,
in evidente stato di gravidanza, che cammina in direzio-
ne opposta alla scena rituale e che porta sulle spalle un
grande zaino. Tali raffigurazioni si datano a circa 12.000
144
L a Donna neLL ’a ntichità

anni fa, e mostrano uno stile naturalistico che testimonia


un livello di esecuzione molto raffinato. (fig. 44)

il Mesolitico
Il passaggio climatico dal Pleistocene all’Olocene,
ossia l’era attuale, con tutte le conseguenze ambientali,
segna anche un nuovo modo di vita e di sussistenza pe-
culiare di questo periodo che precede l’inizio dell’agri-
coltura e dell’allevamento. Lo scioglimento dei ghiacciai
portò all’inabissamento di vaste zone costiere e sparì il
“ponte” che univa la Sicilia al continente. Nell’Isola, mai
coinvolta da fenomeni glaciali, sembra credibile che ci
siano stati brevi periodi di freddo intenso, corrisponden-
ti alla fine del Pleistocene, cui seguì una lunga fase di
clima temperato caldo, corrispondente ai primi millenni
dell’Olocene.
Nella Grotta d’Oriente a Favignana (Egadi, Trapani) è
documentata una frequentazione saltuaria della grotta,
stagionale e possibilmente legata ai riti inumativi. Nel sito
sono state infatti rinvenute tre sepolture in fosse coperte
da pietre: A e C sono attribuibili al Paleolitico Superiore
(epigravettiano finale), B è attribuibile al Mesolitico.
La sepoltura A è un uomo con un corredo composto
da un ciottolo e una lama, un grattatoio di selce e una
collana di conchiglie forate; la
sepoltura B è databile al Me-
solitico ed è una donna di età
adulta il cui corredo è costitu-
ito da una collana di conchi-
glie, tre ciottoli rotondi e un
punteruolo; i resti della donna
hanno gli arti in posizione in-
consueta.

il neolitico
Già agli inizi del VI millen-
nio a.C. si vede nella Sicilia Fig. 44 Scena rituale nella
occidentale una precoce neoli- grotta dell’Addaura (PA).

145
g iusePPina B attaglia

tizzazione. Durante il neolitico


antico si assiste al cambiamen-
to della funzione della grotta,
da abitativa a destinazione
pastorale, cultuale o funeraria.
Un ruolo particolare sembra
che sia svolto dalle grotte in cui
sgorgano acque termali come
ad esempio la Grotta Scaloria
(Manfredonia, Fg), e la Grotta
di Monte Kronio (Sciacca, Ag).
Quest’ultima probabilmente
fu utilizzata come una sorta
di santuario, meta e sede di
riti. Nella cavità della grotta,
in una fossa terragna non ben
delimitata, furono rinvenuti Fig. 45 Statuetta con corpo femminile a
forma di violino, Piano Vento (Palma di
pochi resti scheletrici riferibi- Montechiaro, AG).
li ad un soggetto femminile. Da Piano Vento (Palma di
Montechiaro, AG) (fig. 45) proviene una statuetta con
corpo femminile a forma di violino, collo lungo e testa
d’uccello, che presenta una serie di incisioni che danno
l’idea del piumaggio; dalla Grotta del Kronio proviene
una testina in pietra verde (giadeite) raffigurante una
testa d’uccello che potrebbe essere attribuibile a questa
particolare immagine femminile. Vale la pena ricordare
che anche nella grande scena rituale dell’Addaura gli
“spettatori” indossano una maschera a becco d’uccello,
ma in questo caso le maschere sono indossate da uomini.
Sembrerebbe di cogliere un culto legato agli uccelli per
un lunghissimo periodo, oltre seimila anni, che nel corso
del tempo abbia subito delle profonde trasformazioni. Se
la dea-uccello è attestata in maniera diffusa nel mondo
antico, gli uomini-uccello dell’Addaura rappresentano
una variante locale?

L’eneolitico
Databili a tempi più recenti (5.000 – 3.000 a.C.), ossia
fra Neolitico ed Eneolitico, nella grotta Mirabella presso
San Giuseppe Jato (PA) vi è un gruppo di figure dipin-
146
L a Donna neLL ’a ntichità

te con ocra rossa:


due sono zoo-
morfe, forse cani,
e le altre sono
femminili. Que-
ste figure sono
stilizzate e sche-
matiche, hanno
perso la natura-
lezza di quelle
dell’Addaura, ma Fig. 46 Figure femminili dipinte con ocra rossa, San Giuseppe
questo passaggio Jato (PA).
è presente nell’arte figurativa di tutta Europa (fig. 46).
Caratteristica dell’Eneolitico è la frequentazione di
grotte che non avendo più un uso abitativo alcune sa-
rebbero state utilizzate come riparo temporaneo forse
in occasione di transumanze, altre come sepolcreto e
altre come luogo di culto. Sepolture in grotte naturali
sono attestate soprattutto nel tardo Eneolitico in Italia
meridionale e in Sicilia. La Grotta del Vecchiuzzo si tro-
va a mezza costa della Rocca delle Balate, di fronte al
centro di Petralia Sottana (PA) (fig. 47). Venne scavata
nel biennio 1937/38 per tagli di circa 20 centimetri cia-
scuno. Ciò ha comportato la perdita, in maniera irrepa-
rabile, dei dati stratigrafici. La pubblicazione avvenne
oltre 40 anni dopo (1979), a cura di Jole Bovio Marconi
che aveva diretto la seconda campagna di scavo. La Bo-
vio Marconi è convinta che la grotta fu destinata ad uso
abitativo, vista la presenza di diversi focolari e l’abbon-
danza di fram-
menti cera-
mici; Paolino
Mingazzini, il
direttore della
prima campa-
gna di scavo,
è più propenso
a vedervi un
luogo di culto.
In anni più re-
centi (1995), vi
Fig. 47 Grotta del Vecchiuzzo, Petralia Sottana (PA). fu uno studio
147
g iusePPina B attaglia

sulle ossa rinvenute nella grotta, da cui si rileva la pre-


senza di almeno 16 individui di età diverse, sia maschi
che femmine. Recentemente è stata trovata, dentro il
magazzino del Museo Archeologico “Salinas” di Paler-
mo, l’unica deposizione riconosciuta come tale da Min-
gazzini: “alla profondità di cm 60, furono rinvenute nuova-
mente ossa umane, questa volta raccolte entro la parte infe-
riore di un vaso rotto tronco conico, circondato da tre lastre
irregolari di pietra poggiate su di una orizzontale.” Si tratta
di una deposizione entro un vaso di grandi dimensio-
ni (pithos), di cui se ne conserva circa un terzo (corpo/
fondo) al cui interno si sono rinvenute alcune ossa di
un individuo di età adulta, di sesso femminile. Il fatto
di trovare solo alcune ossa documenterebbe una prati-
ca diffusa in tutta Italia in questo periodo: la manipo-
lazione delle ossa. Si può, pertanto, affermare con una
discreta ragionevolezza, che la grotta venne utilizzata
come necropoli rupestre, nella quale probabilmente si
svolgevano complicati rituali che dal momento della
deposizione del defunto arrivavano alla definitiva as-
sociazione dei suoi resti con quelli degli antenati. La
necropoli di Piano Vento (Palma di Montechiaro, AG),
scavata in epoca recente, offre una possibile chiave di
lettura per la grotta del Vecchiuzzo: sacrifici di bovini
e ovicaprini che venivano cremati sopra le tombe e in
apposite fosse votive e la rottura intenzionale del va-
sellame e di oggetti di pregio, seguita dalla dispersione
delle ceramiche sembra che possa spiegare i dati rac-
colti nelle vecchie campagne di scavo. Nel caso della
Grotta del Vecchiuzzo, visto che il vaso contenente le
ossa era collocato dentro una struttura (cista litica) la
donna che vi era stata deposta potrebbe avere ricoperto
un ruolo di rilievo nella comunità. Nelle necropoli di
questo periodo non si colgono differenze fra uomini e
donne, né fra un gruppo e l’altro. È verosimile che la
base dell’organizzazione sociale sia la parentela e che
la determinazione dei ruoli sociali avvenga in base al
sesso e all’età.
Un carattere comune a tutta l’età del rame in Sicilia
è l’assenza di tombe di guerrieri (presenza di armi nel
corredo funerario) mentre nella Penisola questo è una
caratteristica ricorrente.
148
L a Donna neLL ’a ntichità

L’ antica età del bronzo


La Sicilia sud-orientale con le sue spettacolari cave,
ossia canyon, che solcano l’altopiano degli Iblei, nelle cui
pareti a strapiombo sono scavate migliaia e migliaia di
tombe a grotticella fornisce la maggiore quantità di in-
formazioni per questo periodo. Castelluccio (Noto, SR),
il sito eponimo dell’età del bronzo antico in Sicilia, venne
scavato oltre cento anni fa da Paolo Orsi, il padre dell’ar-
cheologia siciliana (fig. 48).
Attribuibile a questo periodo vi è un gruppo di ogget-
ti sicuramente collegati all’ambito magico-religioso: gli
idoletti in ceramica sia antropomorfi che zoomorfi pro-
venienti da varie zone della Sicilia che trovano confronti
con Malta, come del resto indicano anche altri elementi
quali la struttura delle tombe, alcuni classi ceramiche e
gli “ossi a globuli”. In particolare, fra gli idoletti antropo-
morfi ve ne sono alcuni con caratteristiche femminili: si
tratta di piccole statuette, nessuna integra, rinvenute nel
passato, spesso in maniera fortuita, con il corpo a disco
o a losanga ma con la rappresentazione stilizzata degli
arti, delle mammelle e del collo, con superfici dipinte a
punti, a bande incrociate sul davanti e a fitti reticoli di
linee. È una variante siciliana di un tipo molto comune
a Malta che presenta decorazione incisa. La parte discoi-
dale di questi idoletti è stata interpretata come la stilizza-
zione di rigide cappe sacerdotali particolarmente ornate
e ricoprenti tutto il torace.

Fig. 48 Castelluccio, Noto (SR).

149
g iusePPina B attaglia

La tarda età del bronzo e la prima età del ferro


Il centro principale nella Sicilia sud-orientale, in que-
sto periodo, è certamente Pantalica (Ferla, SR) (fig. 49).
Posta alla confluenza dell’Anapo e del Bottigliera, su un
ampio pianoro in posizione naturalmente difesa dalle
pareti rocciose a strapiombo si colloca il nucleo abitati-
vo, mentre le necropoli con le tombe a grotticella artifi-
ciale sono scavate nelle pareti delle cave. In questo sito
nella fase iniziale (XIII sec. a.C.) sembrerebbe di vede-
re una struttura sociale tendenzialmente matrilineare
come indicherebbero, da una parte le tombe con donna
+ bambino/i e i ricchi corredi femminili, dall’altra parte,
l’assenza di tombe “coniugali” (uomo + donna) e l’as-
senza di ricchi corredi maschili. È ovvio però che linee di
discendenza non vanno confuse con la gestione dell’au-
torità e del potere. Rapidamente, però, questo quadro si
trasforma se già verso la fine dell’XI sec. a.C. iniziano a
comparire e le ricche tombe maschili (senza armi) e le
tombe “coniugali”. Sembrerebbe ossia di vedere una tra-
sformazione verso una società patrilineare, con a capo
una famiglia o un clan familiare.
Il prestigio della posizione della donna come indi-
viduo attivo nell’economia domestica e comunitaria è
rappresentato dalla particolare complessità dei corredi
funebri femminili.
Donne con un ruolo elevato, forse sacerdotale, sem-
brano presenti nella comunità legata alla necropoli di

Fig. 49 Pantalica , Ferla (SR).

150
L a Donna neLL ’a ntichità

Molino della Badia – Madonna del Piano (Mineo, CT)


databile alla tarda età del bronzo, infatti le tombe 5 e 39
presentano un ricco corredo femminile definito di “dan-
zatrice” o “sacerdotessa”, un corredo con caratteristiche
simili si trova anche nella tomba 17 della necropoli di
Cugno Carrubbe (Carlentini, SR).
In un paesaggio collinare, nell’alta valle del Fiume
Grande, nella Sicilia occidentale, si erge la collina di Mo-
karta (Salemi, TP), isolata da ogni parte, gli affioramenti
rocciosi e i ripidi pendii la rendono una rocca natural-
mente fortificata. Sulla sommità della collina, che domi-
na tutta la vallata circostante, si trovava l’abitato proto-
storico, mentre le necropoli si trovano nei pendii nord e
sud. La struttura funeraria è a grotticella artificiale con
pianta circolare e qualche volta con un breve corridoio
d’accesso (dromos) con diversi inumati in ogni tomba. I
corredi funerari indicano un periodo di utilizzo attribui-
bile alla tarda età del bronzo. Due piccoli nuclei di tombe
a grotticella, posti a nord-est e sud-ovest, sono databili al
Bronzo Antico. Il villaggio, che doveva occupare un’am-
pia superficie, era costituito da capanne a pianta circola-
re, con l’ingresso “a tenaglia”, ossia con doppio ingresso
con vestibolo, e al momento in Sicilia non si conoscono
altri esempi di questo tipo. L’alzato doveva essere co-
stituito da argilla e legno, impostato su di uno spesso
muretto, la copertura probabilmente era a spiovente con
apertura centrale. Al centro del pavimento si trova il fo-
colare, attorno al quale si dovevano svolgere una serie
di attività quali la tessitura, come indicano i pesi da te-
laio, la molitura, come suggeriscono le macine in pietra
e vasi per contenere le derrate. In alcune abitazioni sono
presenti degli ambienti quadrangolari annessi, forse con
funzione di magazzino. Il villaggio ebbe una fine violen-
ta nel corso del X sec. a.C.: nell’incendio che lo distrusse,
probabilmente provocato da nemici, una giovane donna
morì cadendo sulla soglia della capanna e tenendo un
vaso fra le mani.
Vi sono alcuni elementi comuni nei vari siti siciliani di
questo periodo: la capanna a pianta circolare di piccole
dimensioni indicherebbe una struttura monofamiliare.
La tomba a grotticella artificiale a celle multiple sugge-
risce una struttura patrilineare e la formazione di gruppi
151
g iusePPina B attaglia

“gentilizi”. In un periodo come questo, caratterizzato da


un ridotto scambio con l’esterno, i beni esotici sparisco-
no e così i beni disponibili sono quelli locali, facilmente
reperibili per tutti i membri della comunità, ma anche in
questa fase alcuni corredi funerari femminili con monili
in bronzo e ferro indicherebbero il ruolo emergente della
famiglia di appartenenza attraverso le donne, dato che
accomuna la Sicilia alla penisola.

152
L’iMMagine DeLLa Donna
in eTà nUragica
di Anna Depalmas

N
ell’ambito della Sardegna di epoca protostorica,
le raffigurazioni di soggetti umani riguardano le
produzioni di bronzi relative alle fasi più avan-
zate della civiltà nuragica (il ciclo di sviluppo protostori-
co della Sardegna, dalla fine del Bronzo antico alla prima
età del ferro), in particolare, alla prima età del ferro.
Un elemento caratteristico e significativo delle mani-
festazioni artigianali ed artistiche di tale fase è, infatti,
costituito dai bronzetti, miniature di persone, animali,
edifici ed oggetti d’uso quotidiano.
Sono noti più di 600 bronzetti, numero in costante au-
mento, grazie alle scoperte che avvengono con regolari
attività di ricerca ma anche per le “riscoperte” in raccolte
private, che incrementano il deprecabile fenomeno della
decontestualizzazione di questi straordinari documenti
(Depalmas 2008).
La mancanza, per gran parte delle fasi di sviluppo del
periodo nuragico, di forme di seppellimento individuale
limita la nostra capacità di distinguere indicatori utili per
comprendere la struttura della società e, nello specifico,
il ruolo della donna.
Uno strumento importante, in questo senso, è costi-
tuito da quanto emerge dall’osservazione dei bronzetti,
che sulla base della varietà dei soggetti rappresentati e
delle loro iconografie, costituiscono la fonte documenta-
ria primaria sulla stratificazione sociale della prima età
del ferro, determinatasi forse a partire dal Bronzo Finale.
Nell’ambito degli studi sulla civiltà nuragica, la trat-
tazione dei bronzi figurati occupa un posto di grande ri-
lievo per numero di lavori e per l’ampio dibattito, sorto
soprattutto nell’ultimo ventennio, in relazione ai proble-
153
anna DePalmas

mi relativi all’attribuzione cronologica e ai caratteri stili-


stici delle figurine.
La trattazione tematica è limitata ad alcune catego-
rie di oggetti mentre un più rilevante numero di studi
è dedicato a riflessioni sul significato, sulle ragioni e sui
tempi di tali produzioni.
Indubbiamente la maggiore attenzione si è focalizzata
intorno alle figure umane che costituiscono un dettaglia-
to archivio iconografico di generi, ruoli, abbigliamenti e
atteggiamenti espressi dagli artisti nuragici nell’ambito
di una produzione presumibilmente eseguita apposita-
mente per la sfera votiva e cultuale.
Ancora insuperata per ampiezza e organicità della
trattazione è l’opera di Giovanni Lilliu che raccoglie il
repertorio noto sino al 1966 (Lilliu 1966), alla quale si af-
fiancano altri lavori di catalogazione che danno conto di
acquisizioni successive, solo in parte edite nell’ambito di
pubblicazioni d’insieme (AA.VV. 1980; AA.VV. 1993). In
più occasioni è stata ribadita la presenza di esemplari pa-
lesemente falsi nell’ambito delle collezioni pubblicate in
questi cataloghi (es. Lilliu 1985): nell’ambito della presen-
te analisi non ho, quindi, preso in considerazione l’esem-
plare n.141 illustrato in AA.VV. 1980, che pare discostarsi
con una certa evidenza dalle iconografie accertate.
Nel lavoro del 1949 Giovanni Lilliu propose una prima
classificazione stilistica in tre gruppi, quello di Uta defi-
nito “cubistico-volumetrico”, quello di Abini “decorativi-
stico” e quello barbaricino “popolare e libero” (Lilliu, Pe-
sce 1949; Contu 1998). In seguito, nel 1966, lo stesso Lilliu
propose di considerare Uta e Abini “un unico gruppo ben
caratterizzato” (Lilliu 1966).

Egli individuò quindi, sulla base di differenze stilistiche,


due gruppi principali: il gruppo Uta-Abini, che egli ricolle-
gò alla committenza aristocratica e aulica caratterizzato da
un’illustrazione rigorosa e vicina alla realtà, e il gruppo bar-
baricino-mediterraneizzante, proprio di un mondo popola-
resco e recessivo che si esprime attraverso una riproduzione
più schematica e semplificata, talvolta quasi caricaturale.
La resa dei tratti fisionomici sembra seguire regole di
standardizzazione, ma mantiene comunque una certa
variabilità.
154
L a Donna neLL ’a ntichità

Sono elementi ricorrenti: le proporzioni equilibrate


del corpo, la compostezza della postura, la cura detta-
gliata nella riproduzione del vestiario, l’espressione au-
stera del viso determinata dall’incisione della bocca sot-
tile, dallo schema a T delle sopracciglia orizzontali e del
naso prominente.
Nel gruppo Uta-Abini prevalgono le figure di guer-
rieri o di personaggi di un certo rango.
Molto più indefinibili sono i tratti degli esemplari at-
tribuiti al gruppo barbaricino - mediterraneizzante.
Benché, infatti, anch’essi evochino raramente soggetti
in movimento o nell’atto di compiere un’azione, è fre-
quente una certa scompostezza della figura.
Dal punto di vista della resa espressiva emerge come
il gruppo “barbaricino-mediterraneizzante” trasmetta
immagini di un mondo in cui la figura umana è trat-
teggiata con una riproduzione più schematica, talvolta
quasi caricaturale, senza soffermarsi né in dettagli fisi-
ci né in descrizioni dell’abbigliamento, che appare al-
quanto semplificato e limitato a un semplice gonnellino
corto o a una tunichetta sopra il ginocchio, quando il
corpo non appaia del tutto nudo o con una lunga tuni-
ca.
Nella rappresentazione delle figurine di questo
gruppo sembra di poter intravedere delle illustrazioni
di precisi tipi fisici, mentre nell’ambito dello stile Uta-
Abini, nella descrizione rigorosa, ben caratterizzata
e vicina alla realtà è possibile riconoscere l’intento di
dare corpo a una ritrattistica di categoria (Depalmas
cs).
Se si considerano le sole figurine femminili ogget-
to di questa nota si osserva che la netta maggioranza
appartiene allo stile “Uta-Abini (90%) mentre solo tre
figurine relative ad immagini di offerenti (Lilliu 1966,
nn. 186-187; Fadda 1991, p. 34) e una figura stante nuda
(Lilliu 1966, n. 185) sono riportabili al gruppo “mediter-
raneizzante”.
Se la maggior parte dei bronzetti a figura umana raf-
figura armati (42%), numerosi altri soggetti, comprese le
figure femminili, sono rappresentati senza attributi mili-
tari e sembrano riferibili a differenti occupazioni o stati
sociali.
155
anna DePalmas

L’atto devozionale è particolarmente sottolineato dal-


la presentazione di un’offerta di varia natura (43%), in
genere tenuta con la mano sinistra (81%) o destra (11,5%)
o anche con entrambe (7,5%).
Nell’ambito dei bronzi che rappresentano sogget-
ti umani, il rapporto tra raffigurazioni femminili (15%,
16% se si considerano tre elementi di incerta attribuzio-
ne) e quelle maschili (84%) è fortemente sbilanciato a fa-
vore di queste ultime.
Se però si considera solo l’iconografia dell’offerente,
appare molto significativo il fatto che nella distinzione di
genere le offerenti di sesso femminile siano ben rappre-
sentate (37,5%) rispetto alle figure maschili (62,5%); se si
prendono in considerazione le statuine lacunose ma ri-
conducibili con sufficiente approssimazione ad offeren-
ti, la percentuale di personaggi femminili (46%) è quasi
equivalente a quella di figure maschili (54%).
Le statuine a soggetto femminile misurano in media
12,5 cm (con valori compresi tra 5,5 e 20,7 cm) e risul-
tano perciò di dimensioni più piccole rispetto a quelle
maschili (valore medio di 14,3 cm, range compreso tra 3,2
e 39 cm) (Depalmas 2008).
Nell’ambito dei generi non si notano differenze nella
caratterizzazione dei tratti somatici; per quanto riguarda
le donne, essi sono resi in prevalenza attraverso occhi a
globetto (64%) e a mandorla (18%), in misura minore con
occhi incavati (10%); le sopracciglia sono a T o ad arco,
talvolta segnate da tratti obliqui (27%), le orecchie non
sono spesso raffigurate (26%), il naso è aquilino, la bocca
incisa, in alcuni casi con labbra in rilievo.
Eccetto i casi isolati in cui la donna è nuda (Lilliu 1966,
n. 185) o seminuda, coperta solo da una corta gonna sui
fianchi (Ibidem, n. 186), le figure riprodotte restituiscono
immagini piuttosto ben caratterizzate per ciò che riguar-
da l’abbigliamento.
Nell’ambito del catalogo dei bronzi figurati Lilliu utiliz-
zò la denominazione di matriarca per definire le figure che
presentano un abbigliamento particolare e un atteggiamen-
to solenne, e che si possono identificare come sacerdotesse
o donne dell’aristocrazia (Ibidem, pp. 12, 137, 152, 224).
Elemento connotante è il mantello lungo sino ai
polpacci (63%), poggiato sulle spalle, a volte ferma-
156
L a Donna neLL ’a ntichità

to superiormente sul petto (Ibi-


dem, n. 77), altre volte sospeso
attraverso un laccio non ben di-
stinguibile (o una fibula?) (Fig.
50) e ricadente morbidamente
sopra le braccia.
Nelle figure con le braccia
aperte è particolarmente evi-
dente – all’interno del lato sini-
stro - una piega in verticale che
sembra interpretabile come una
soluzione per ridurre l’ampiezza
della stoffa (Lilliu 1966, nn. 72-
73, 75-76); tale particolare non si
nota nei manti dei cd capi-tribu’
e sembra quindi una prerogativa
del vestiario femminile, anche se
non è presente in tutte le donne
ammantate.
Fig. 50: Figura femminile da Mon-
Numerosi sono i particolari
te Sant’Antonio, Siligo (da Lo decorativi del mantello: frange
Schiavo 1992). all’interno dei bordi (Ibidem, n.
72) o sul dorso (Ibidem, n. 69),
motivi a bande parallele riempite di tratteggi sulle spalle
(Ibidem, nn. 73-74), sui lembi frontali (Ibidem, nn. 77-80),
e con un ulteriore motivo a treccia sulle spalle (Ibidem, n.
120).
In un caso, la donna che offre con entrambe le mani
una focaccia non ha mantello ma una stola posta a ban-
doliera (un mantello ripiegato?), una lunga veste con
balze ornate a spina di pesce, e un cappello a turbante
decorato sull’orlo da linee oblique (Ibidem, n. 143).
È documentata anche la mantella corta (12%) quasi
sempre chiusa sul davanti alla base del collo (Ibidem, nn.
121, 144), eccezionalmente – nell’esemplare di Nurdole-
associata ad una gonna corta (Fadda 1991, p. 34).
Le vesti sono, infatti, lunghe e impreziosite da ele-
menti decorativi (41%) quali le balze doppie o triple,
lisce o a frange, disposte presso l’orlo inferiore della tu-
nica, che in un caso sembra avere la gonna plissettata
(Lilliu 1966, n. 121). La parte alta dell’abito, al di sotto
del mantello, può presentare un panneggio trasversa-
157
anna DePalmas

le sul petto (Fig. 51) (Ibidem,


nn. 75-76) o addirittura una
cappa a mantellina (Ibidem, n.
79) mentre eccezionalmente la
tunica liscia è segnata da una
sorta di cintura (Ibidem, n. 72).
Le donne raffigurate ap-
paiono connotate dal capo
coperto da un velo (27%), da
un cappuccio che vela la testa
(12%) o da un cappello conico
“a petaso” (27%) (Fig. 53-55)
(in due casi arricchito dalla
presenza del velo, in altri due
dalla pettinatura a trecce), più
raramente con un copricapo a
Fig. 51: Figura femminile da località calottina (5%) o anche con i ca-
pelli sciolti, lisci e con scrimi-
sconosciuta (da Lilliu 1966).

natura centrale (27%).


Il cappello conico – che compare, pur se meno diffu-
samente, anche come attributo maschile (es. Cavalupo-
Ponte Rotto, Vulci, Ibidem, n. 111) - è rappresentato sia
con dimensioni contenute e sviluppo sostanzialmente
verticale (Fig. 53-54) (Ibidem, nn. 79, 120, 145-147 ), sia

Fig. 52: La “madre dell’ucciso” da Sa Fig. 53: Figura femminile con petaso
Domu ’e S’Orku, Urzulei (da AA.VV. 1980). da Seléni, Lanusei (da Lilliu 1966).

158
L a Donna neLL ’a ntichità

con ampia falda orizzontale “a


sombrero” (Fig. 55) (Ibidem, nn.
80-81).
Che il vestiario sopra illustra-
to, con mantello e lunga veste,
sia quello che identifica le donne
di rango è confermato dal fatto
che risultano abbigliate in modo
analogo anche le figure prota-
goniste di piccole scene, come le
ben note “madri”rappresentate
sedute su uno sgabello circo-
lare a cinque piedi e recanti in
grembo un adulto (Fig. 52) (Ibi-
dem, nn. 68, 123) o un bambino Fig. 54: Figura femminile con petaso da
(Ibidem, n. 124; non seduta ma in Nurdòle, Orani, NU (da Fadda 1991).
piedi è la statuina pubblicata in
AA.VV. 1980, n. 139).
Si tratta di un’iconografia di particolare significato che
potrebbe rimandare alla commemorazione di un mito o di
un racconto celebrativo nell’ambito del patrimonio narrati-
vo delle comunità nuragiche. Il fatto che lo stesso sgabello
sia evocato nella riproduzione di pietra delle capanne delle
riunioni (es. Palmavera, Lilliu 1999, pp. 134, 184, fig. 216)
e riprodotto da solo sotto forma
di tintinnabulum è un indicatore
del forte valore simbolico corre-
lato a questo elemento, con tutta
probabilità rievocativo di un at-
tributo legato a ruoli di prestigio
e potere.
L’atteggiamento della don-
na rappresentata è, nella mag-
gior parte dei casi riconoscibili
(22 statuine su 41), quello del
saluto compiuto con la mano
destra (90%) o, più raramente,
con la sinistra (10%). Il gesto è
stato ricondotto a un’espres-
sione di devozione e preghiera
Fig. 55: Probabile figura femminile da nei riguardi della divinità a cui
Abini, Teti, NU (da Lilliu 1966). è rivolta la riconoscenza per la
159
anna DePalmas

grazia ottenuta (ex-voto) o domandata e qualifica la per-


sona che lo compie come orante (Lilliu 1966, pp. 11-13).
L’atto devozionale è particolarmente sottolineato dal-
la presentazione di un’offerta di varia natura, in genere
tenuta con la mano sinistra. Non sempre è possibile ri-
conoscere ciò che viene ostentato (30%), ma quando ciò
accade si individua un pane o focaccia (20%) riprodotto
con un incavo al centro e delle incisioni radiali (Ibidem, n.
143) anche se sembra di poter riconoscere altri alimenti,
come quelli ravvisabili negli oggetti a panetto cilindrico
(formaggio?) (Ibidem, nn. 75-76).
Particolare interesse rivestono le fogge vascolari che
riproducono più di frequente forme non molto caratteriz-
zate come le scodelle emisferiche (23%) con un contenu-
to non ben precisabile (4 oggetti sferici: frutta?) (Ibidem,
n. 72), ma più frequentemente vuote
(Ibidem, n. 120) e con incisioni radiali
all’interno (Ibidem, nn. 74, 77, 144).
Qualche indizio più dettaglia-
to può venire dalle ciotole carenate
con incisioni interne a raggiera, una
riprodotta in un esemplare da San-
ta Vittoria di Serri (Ibidem, n. 77; tale
elemento potrebbe rientrare nel tipo
377 o 411 della classificazione Cam-
pus, Leonelli 2000) e in un altro di
provenienza sconosciuta (Ibidem, n.
122, non classificabile chiaramente a
livello tipologico).
Tra gli altri manufatti che non rien-
trano nella categoria delle forme vasco-
lari, vi sono una lampada ardente (?)
nella mano della donna con capo velato
di Sa Domo ’e S’Orgia di Esterzili (Fad-
da 2001, p. 74) e delle stoffe (?) sorrette
da una figura con petaso di Nurdòle di
Orani (Fig. 54) (Ibidem, p. 67).
Il vaso tenuto mediante un cercine
sulla testa del personaggio femminile
seminudo di Olbia (Fig. 56) (Lilliu 1966,
n. 186) sembrerebbe un tipo di olla a Fig. 56: Figura femminile
che porta un’olla biansata
orlo ingrossato con larghe anse a nastro, da Olbia (da Santoni 1989).
160
L a Donna neLL ’a ntichità

se non a gomito rovescio (Cam-


pus, Leonelli 2000, tipi 907C;
831; Lo Schiavo 1991, p. 44).
Tra gli altri manufatti che
non rientrano nella categoria
delle forme vascolari, vi è un
cesto di fibre vegetali (?) sor-
retto sulla testa di una don-
na con lunga veste ritrovata
in una località sconosciuta di
Villasor (Lilliu 1966, n. 187).
Le figure effigiate, pur rien-
trando in un’evidente volontà
di ostentazione delle élite, non
sembrano riconducibili a cicli
celebrativi del gruppo familia-
re, giacché mancano nelle raf- Fig. 57: Carta di distribuzione dei conte-
figurazioni sia le associazioni sti che hanno restituito figure femminili:
1. Nuraghe Cabu, Abbas, Olbia; 2. pozzo
uomo/donna/bambino, sia le sacro Su Pedrighinosu, Alà dei Sardi; 3.
rappresentazioni di questi ulti- complesso cultuale Monte Sant’Antonio,
mi (tranne i casi, di dubbia in- norva; 5. fonte sacra Su Tempiesu, Orune;
Siligo; 4. pozzo sacro Cantaru Addes, Bo-

terpretazione, succitati). L’unico 6. complesso cultuale di Nurdòle, Orani;


esempio, in tal senso, è rappre- 7.8. ripostiglio di Tuvàmini, Aidomaggiore;
fonte sacra di Abini, Teti; 9. grotta Sa
sentato dalla coppia di Nurdole, Domu ’e S’Orku, Urzulei; 10. tomba di gi-
Orani (Fadda 1991, p. 34), in cui ganti di Sullulè, Urzulei; 11. pozzo sacro di
un personaggio maschile e uno Domu de Orgia, Esterzili; 13. pozzo sacro
Selèni, Lanusei; 12. tempio a megaron di

femminile appaiono affiancati. di Coni-Santu Millanu, Nuragus; 14. com-


In realtà alcune raffigurazio- plesso cultuale di Santa Vittoria, Serri; 15.
ripostiglio di S’Arrideli, Terralba.
ni femminili recanti un recipien-
te sul capo (Lilliu 1966, nn. 186-187) ricalcano un’iconogra-
fia che, in altri ambiti culturali come quello villanoviano, si
identifica con la mater familias portatrice di cibi e bevande e
che, associata al maschio armato, compone la coppia mari-
tale fondamento della società aristocratica (per la sua raffi-
gurazione nel carrello di Bisenzio: Torelli 1997; Cupitò 2003).
Di rilievo è tuttavia, in ambito nuragico, la raffigura-
zione di soggetti femminili con abbigliamento distintivo
(lunga tunica, stola, petaso) che rimandano a ruoli non
confinati al solo ambito domestico (sull’argomento, Alba
2005, pp. 91-98, 110-115).
Solo per il 60% degli esemplari si conosce il contesto di
provenienza (Fig. 57) che rimanda a monumenti e com-
161
anna DePalmas

plessi cultuali in prevalenza connessi al culto delle acque.


Si tratta dei complessi cultuali di Monte Sant’Antonio, Si-
ligo (1 esemplare), Nurdòle, Orani (2), Santa Vittoria, Serri
(3); fonti sacre di Su Tempiesu, Orune (1), Abini, Teti (5); dei
pozzi sacri di Su Pedrighinosu (1), Cantaru Addes, Bonor-
va (1), Coni, Nuragus (1), Selèni, Lanusei (1); del tempio a
megaron di Domu de Orgia, Esterzili (1). Altri rinvenimenti
di figure femminili, provengono dal nuraghe Cabu Abbas,
Olbia (1), dalla tomba di giganti di Sullulè, Urzulei (1), dalla
grotta di Sa Domu ’e S’Orku, Urzulei (1) e dai ripostigli di
Tuvàmini, Aidomaggiore (1) e S’Arrideli, Terralba (4).
Tale peculiarità consente di rapportare l’iconografia
femminile proposta dai bronzi all’ambito santuariale e ai
riti in cui le donne dovevano svolgere un ruolo di parte-
cipazione attiva, anche connesso a un rango sacerdotale.
Dalle informazioni che emergono dalla bronzistica fi-
gurata sembra quindi possibile ipotizzare che negli spa-
zi dei santuari, nell’ambito delle attività rituali legate ai
culti, un ruolo specifico fosse riservato alle donne.
Un elemento a favore di tale ipotesi è anche quello
suggerito dal fatto che le figure maschili identificabili
con sacerdoti sono molto poche, limitate al “sacerdote-
pugilatore” con petaso di Cavalupo-Ponte Rotto di Vulci
(da ultimo Moretti Sgubini, Arancio, Pellegrini 2010) e a
una figura avvolta in un mantello e munita di un com-
plesso apparato legato sul capo - forse uno strumento
musicale (tamburo?) (Lilliu 1966, n. 113 e, solo per lo
strumento sul capo, n. 114), mentre un altro bronzo, con
manto, petaso e scodella, dal nuraghe Albucciu (Ibidem,
n. 148) non presenta elementi certi per un’identificazione
con un personaggio maschile.
Tranne i casi della donna di Olbia che porta sul capo
un’anfora (Lilliu 1966, n. 186) e della “nuda” (Ibidem, n.
185), l’effige della donna è sempre caratterizzata da un
abbigliamento “canonico” che prevede una veste quasi
sempre lunga, un mantello o una stola, un cappello o un
velo o lunghi capelli sciolti sule spalle.
Anche l’offerta di un recipiente (scodella o ciotola) ri-
porta a un rituale che, nella maggior parte dei casi, dove-
va svolgersi nell’ambito degli spazi santuariali connessi
al culto dell’acqua da cui la maggior parte delle rappre-
sentazioni femminili proviene.
162
L’ULTiMa MaDre
di Roberta Tulli

L
’ultima madre.
Questa è la definizione che da di se stessa l’an-
ziana accabadora nel romanzo scritto da Michela
Murgia.
Madre pietosa o vile assassina... Una figura contro-
versa, dai tratti leggendari, suscitatrice di emozioni pro-
fonde e contrastanti, che se da un lato ci conduce a tema-
tiche di stretta attualità, dall’altro affonda le sue radici in
un passato che intuiamo assai lontano.
E indietro nel tempo, curiosamente, è il mondo della
grande Dea, così come è stato delineato dall’archeologa
americana di origini lituane Marija Gimbutas, ad aver at-
tirato la nostra attenzione.
La Gimbutas concentrò i suoi studi sul Neolitico eu-
ropeo ed anatolico, riconoscendovi i tratti di una comu-
ne cultura pre-indoeuropea, definita dell’Europa Antica,
dal carattere agricolo e sostanzialmente pacifico, fiorente
dal punto di vista artistico e architettonico e con un siste-
ma sociale equilibrato.
Le donne vi avrebbero svolto un ruolo centrale, pro-
prio come la Dea, la cui religione, “come sistema di idee
coeso e persistente”, avrebbe permeato tutta l’area euro-
pea fino al sud-est e il Mediterraneo fino al Medio Orien-
te (Gimbutas 2008).
Tra il 4300 e il 2800 a.C., l’invasione di una popola-
zione proto-indoeuropea avrebbe messo fine a questa
cultura.
Questa popolazione, denominata Kurgan (dal nome
russo che significa “tumulo”, cioè il tumulo circolare
in cui usavano seppellire i loro morti), sarebbe migrata
ad ondate successive, a partire dal 4400 - 4200 a.C., dal
suo nucleo originario nel bacino del Volga, imponendosi

163
roBerta tulli

sulle genti indigene dell’Europa


Antica.
I bellicosi Kurgan portarono il
loro mondo pastorale, patriarcale
e patrilineare, armi letali e cavalli
addomesticati, ed una religione
in cui le divinità femminili erano
ridotte al rango di spose di dei
guerrieri, signori del tuono o del
cielo, perdendo così la loro fun-
zione una volta legata all’intero
ciclo di vita, morte e rigenerazio-
ne.
Nell’ambito di questa teoria
si muove la singolare ricerca di
questa autrice che, guidata dal-
la convinzione che sia possibile
risalire “al significato dell’arte
e della religione preistoriche”,
ha esaminato un gran numero
di manufatti soprattutto neoli-
tici, ma includendone anche al-
Fig. :58 Pettine in varie forme.
- 1 Neolitico Svizzero, Cortalloid
4000a.C. - 2 e 3 Età del Ferro Sviz- cuni del Paleolitico Superiore e
zera, La Tene (da Gimbutas 2008).
scendendo poi fino alle culture
dell’età del Ferro.
Le decorazioni che ricoprono ceramiche, statuette,
sculture, tombe e templi, così come le strutture architet-
toniche stesse, non avrebbero uno scopo puramente este-
tico, bensì rappresenterebbero simbolicamente le varie
caratteristiche, o meglio le molteplici funzioni della Dea,
tutte pur ricomprese nella sua unicità.
Nel corpus di simboli individuati e classificati dalla
Gimbutas ve n’è qualcuno che ci ha colpito per il suo
ricorrere nelle credenze correlate alla nostra accabadora.
Il pettine è uno di questi. Interpretato, tra gli altri,
come un simbolo di energia e del tempo ciclico, in quan-
to legato al movimento, al processo del divenire e al flus-
so di energia vitale senza fine, il pettine si ritrova, con
seni e testa, sotto forma di pendente nel Neolitico sviz-
zero, e ancora fino al periodo celtico La Tène nell’Europa
centrale, sempre in combinazione con l’immagine divina
femminile (fig. 58).
164
L a Donna neLL ’a ntichità

I contadini europei tutt’oggi


usano il pettine come protezione
contro le malattie e a scopo te-
rapeutico, e lo indossano anche
neonati e puerpere, sul davanti
o sulla schiena, allo stesso modo
in cui ci mostra una statuetta
(fig. 59) appartenente alla cultu-
ra Cucuteni B (4000 – 3500 a.C.)
dell’Ucraina (Gimbutas 2008).
Anche nei paesi della Barba-
gia il pettine era considerato pro-
piziatorio per la vita, venendo
posto ad esempio sotto le galline
durante la cova, perché proteg-
gesse i pulcini da tuoni e lampi zato al collo in funzione di prote-
Fig. 59: Statuetta con pettine stiliz-

(Turchi 2008). zione – Cucuteni B. Bilcze Zlote, alto


Legate alla Dea come simboli Dnjiester, Ucrania 45000 – 3500
a.C. (da Gimbutas 2008)
di rigenerazione troviamo anche
le api (fig. 60), peraltro ritenute in intima connessione
con il toro (Gimbutas 2008).
Per far capire in che modo intendesse tale relazione
tra api e toro, è opportuno trascrivere un passo di Por-
firio citato dalla Gimbutas, passo che riecheggerebbe
“inconsapevolmente concetti religiosi risalenti al Neo-
litico”: “La luna [Artemide], cui competeva condurre
alla nascita, veniva chiamata da loro [gli antichi] Melis-
sa [ape], poiché le api
sono generate dai tori
e la luna – come pure
il suo ascendere – è un
toro. E le anime che
passano alla terra sono
generate da tori.”
L’osservazione di
un fenomeno naturale
come la comparsa di
insetti dalla carcassa
di un animale potrebbe
aver suggerito questa
Fig. 60: La Dea in forma di ape reca due serie di cor-
na di toro e una farfalla a forma di bipenne – Tardo
idea della generazione
Minoico II, Cnosso, Creta, XV a.C. (da Gimbutas 2008) dal toro, qui comunque

165
roBerta tulli

interpretato come “per-


sonificazione della forza
generativa della Dea (Gim-
butas 2008), con un ribalta-
mento della usuale visione
che lo vuole simbolo della
divinità maschile e della
sua virilità.
Nell’arte del Vicino
Oriente e dell’Europa An-
tica le rappresentazioni del
Fig. 61: Corna di toro raffigurate su false
toro, delle sue corna e del
porte a garanzia della rigenerazione, sopra bucranio (teschio di toro)
di esse tre vulve dipinte in rosso – Tardo ne- sono innumerevoli (figg.
61 e 62).
olitico sardo Tisiennari Bortigiadas , fine IV
millennio AC (da Gimbutas 2008).
Sulla preminenza del
ruolo di questo animale tra
i simboli della rigenerazione e del divenire viene fornita
una spiegazione singolare.
La tesi, avanzata da Dorothy Cameron nel suo libro
“Symbols of birth and death in the Neolithic Era” (Came-
ron 1981 in Gimbutas 2008) e condivisa dalla Gimbutas,
è quella della somiglianza, davvero sorprendente, degli
organi riproduttivi femminili, utero e tube di Falloppio,
con la testa e le corna del toro (fig. 63).
Tutto ciò prevede una conoscenza anatomica, pur ad
un livello elementare, che sarebbe stata probabilmente
acquisita con lo sviluppo
del processo di scarnifica-
zione nelle sepolture (Ca-
meron 1981 in Gimbutas
2008).
E visto che siamo en-
trati nel dominio dell’ar-
cheomitologia, cediamo
alla tentazione di far ri-
entrare in questa analogia
anche le tombe di giganti
della Sardegna.
Fig. 62: Vaso di marmo antropomorfo delle iso- Le tombe di giganti,
denza dell’addome come fosse l’ utero – Cicla- cosiddette perché l’im-
le Cicladi. La testa di toro e’ posta in corrispon-

dico Antico 1 3000a.C. (da Gimbutas 2008). maginazione popolare


166
L a Donna neLL ’a ntichità

le immaginava sepolture di un
uomo gigante, sono i monumen-
ti funerari delle genti nuragiche,
che accoglievano al loro interno
inumazioni collettive.
Esse hanno uno schema pla-
nimetrico comune, con la camera
funeraria di forma rettangolare
inclusa in un corpo tombale dai
lati più o meno rettilinei, absida-
to nella parte posteriore, mentre
sulla fronte si sviluppa in una
esedra semicircolare (fig. 64).
In sostanza, al di là del lin-
guaggio tecnico, il corpo tomba-
le, rettangolare ai lati ma curvili-
neo nella sua parte finale, con le
ali dell’esedra a completamento,
evoca senza ombra di dubbio
una protome taurina (fig. 65).
Riproduzione, più o meno
intenzionale, di testa e corna di
Fig. 63: Il simbolismo del toro
toro, così comunemente si inter-
nell’Europa Antica e’ probabil- preta la planimetria di queste
mente riconducibile alla forma tombe, ma se seguiamo il filo

li; la somiglianza e’ evidente nel di- suggestivo teso dalla Gimbutas


degli organi riproduttori femmini-

segno ripreso da un testo medico perché non ritenerle invece utero


(da Gimbutas 2008).
e tube, il grembo della Dea, che
come ha fatto scaturire la vita,
così accoglie la morte, per rigenerare e condurre a nuova
vita, in un processo circolare e continuo.

Fig. 64: Tomba di giganti di Li Mizzani – Fig. 65: Ricostruzione ideale di tomba di giganti (in
Palau (pianta) (da Lilliu 2003). basso sezione della camera) (da Lilliu 2003).

167
roBerta tulli

È vero che le tombe di giganti appartengono alla più


recente età del Bronzo, ma di questa antica religione del-
la Dea se ne possono seguire le tracce fino ai nostri gior-
ni, ricercandone le sopravvivenze nella mitologia, nella
linguistica e nel folclore delle varie epoche e dei vari luo-
ghi (Gimbutas 2005).
Chissà che anche la nostra accabadora non sia una di
queste sopravvivenze, una specie di sacerdotessa con il
compito di ricondurre alla Dea coloro i quali sono ormai
destinati, affinchè il ciclo vita-morte-rinascita si chiuda e
non resti sospeso.
La sarda accabadora, infatti, era colei che poneva fine
alla vita, praticando una sorta di eutanasia con cui por-
tava a compimento il trapasso di coloro i quali, non riu-
scendo ad abbandonare il mondo terreno, erano condan-
nati alle sofferenze di una lunga agonia.
Il termine accabadoras, dato come logudorese e solo al
femminile plurale, viene tradotto nel “Vocabolario sar-
do-italiano” del canonico Giovanni Spano del 1851 con
“ucciditrici-uccidenti”, e il verbo accabare è fatto derivare
dal fenicio-arabo hacab , che significa “porre fine”.
Un’altra probabile etimologia potrebbe ricondurre ac-
cabare al catalano acabar, che nella forma transitiva vuol
dire “portare a fine”, “terminare” (Bucarelli – Lubrano
2003).
Rarissimi i casi in cui si ritiene che ad accabare potreb-
bero essere stati anche degli uomini.
È sempre di donne che si parla, donne a cui com-
peteva gestire il momento della nascita e la cura delle
malattie come anche il momento della morte, in qualche
caso evidentemente non solo per quel che riguarda i riti
funebri.
Vari autori, nel corso del tempo, hanno scritto intorno
a s’accabadora, non sempre concordi sulla sua reale esi-
stenza.
Iniziamo un breve excursus delle testimonianze let-
terarie (da Turchi 2001 e 2008) dal piemontese Alberto
Della Marmora, che menziona questa usanza nel suo li-
bro “Voyage en Sardaigne”, la cui prima edizione venne
pubblicata a Parigi nel 1826.
La definisce un “resto di barbarie”, per fortuna “feli-
cemente scomparso da un centinaio d’anni…”.
168
L a Donna neLL ’a ntichità

Due anni dopo, nel 1828, il viaggiatore inglese Wil-


liam Henry Smyth pubblica i suoi diari, in cui annota
tale “costume”, circoscrivendolo alla Barbagia e dandolo
per “abolito sessanta o settant’anni fa dal Padre Vassal-
lo…”.
Il Della Marmora e lo Smyth, due stranieri, passarono
quasi inosservati agli intellettuali isolani, che però inne-
scarono violente polemiche quando fu un religioso sar-
do, l’abate Vittorio Angius, a parlare di sas accabadoras nel
“Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale
degli Stati di S.M. il re di Sardegna” a cura di Goffredo
Casalis (Torino 1833), di cui scrisse le voci riguardanti i
paesi dell’isola.
A questo punto Della Marmora, legato da amicizia
all’Angius, che anzi potrebbe avergli fornito informa-
zioni sulle accabadoras, cerca di gettare acqua sul fuoco
e nella seconda edizione del “Voyage”, nel 1839, modifi-
ca l’affermazione precedente, parlando di tale usanza in
forma dubitativa e concludendo con un secco “…il fatto
è che ai nostri giorni non ne esiste traccia alcuna.”
La testimonianza decisiva, che delinea nettamente la
realtà de s’accabadora, sta invece tutta nelle poesie di Bo-
naventura Licheri, un giovane gesuita nativo di Neoneli,
che spesso accompagnava il piemontese Padre Giovanni
Battista Vassallo nel corso della sua missione.
Padre Vassallo intraprese la sua attività missionaria in
Sardegna per cinquant’anni, dal 1725 al 1775, anno della
sua morte, dedicandosi all’evangelizzazione della parte
centrale dell’isola, in cui persisteva una radicata ritualità
di origine pagana.
Il Licheri, rievocando sotto forma poetica tali predica-
zioni, si scaglia con furia contro quelle donne che ancora
facevano le accabadoras, descrivendole come “demonie in
terra”, “figlie dell’inferno” e “mercanti della morte”, epi-
teto quest’ultimo che si riferisce al compenso che avreb-
bero percepito, contrariamente a quanto generalmente
ci dicono le testimonianze più recenti, per le quali esse
prestavano la loro opera gratuitamente al solo scopo
umanitario.
Queste donne comunque, nel corso del tempo, de-
vono aver goduto da parte del popolo di una rete di si-
lenzio e di protezione totale, che permise loro di passare
169
roBerta tulli

senza conseguenze
anche attraverso il
periodo dell’Inqui-
sizione.
L’esistenza de
s’accabadora è or-
mai definitivamen-
te accertata e tra gli
Fig. 66: Su Jualeddu esemplare custodito presso il Museo
Etnografico Galluras a Luras (da Bucarelli–Lubrano 2003).
ultimi episodi di
accabadura di cui si
ha testimonianza
indiretta uno avvenne a Luras nel 1929.
In questo caso fu l’ostetrica del paese, significativa-
mente proprio colei che aiuta ad uscire alla vita, a con-
durre alla morte un uomo di settant’anni, e i carabinieri e
il Procuratore di Tempio Pausania concordarono sull’ar-
chiviazione del procedimento, riconoscendo il suo inten-
to umanitario.
L’altro caso accadde in Barbagia, con tutta probabilità
ad Orgosolo, addirittura nel 1952 (Bucarelli – Lubrano
2003).
Recentemente è stata pubblicata (Turchi 2008) l’inter-
vista, fatta nel 2008, alla allora novantenne Paolina Con-
cas di Gadoni, la quale ha raccontato che, recatasi nel pa-
ese di Seùlo per fare visita ad una zia ormai agonizzante,
ha visto con i suoi occhi l’accabadora provocarne la rapida
morte, mettendogli sotto il collo su jualeddu, non prima
però di aver tolto tutti gli oggetti sacri dalla stanza e gli
amuleti dalla persona, poiché per la loro funzione protet-
tiva avrebbero ostacolato la dipartita.
L’episodio è stato situato più o meno nei primi anni
Quaranta del 1900.
Su jualeddu, ovvero un piccolo giogo, uguale a quello
usato per i buoi, sarebbe stato uno degli strumenti di cui
si servivano le accabadoras per assolvere al loro compito
(fig. 66).
Probabilmente in origine una mano veloce e precisa
faceva battere la nuca del moribondo contro il pesante
giogo (juale) di un aratro o di un carro a buoi, provocan-
done il trapasso.
In seguito l’oggetto acquisisce sempre più una funzio-
ne simbolica e magica, e viene sostituito da un modellino
170
L a Donna neLL ’a ntichità

in legno d’olivo o olivastro, che deve essere intagliato in


chiesa la domenica delle palme o il giovedì santo duran-
te il canto del Passio, commemorazione della passione di
Cristo, pena la sua inefficacia.
Un attrezzo meno ingombrante avrebbe invece con-
cretamente compiuto l’operazione.
Si tratta di su mazzoccu o mazzolu, una sorta di martel-
lo intagliato in un ramo di olivastro, di cui un esemplare
è conservato nel Museo Etnografico “Galluras” di Luras
(fig. 67).
Un anziano signore di Stintino riferisce che s’accaba-
dora arrivava col buio al capezzale del malato, gli carez-
zava la testa e lo blandiva cantando il rosario, e infine
gli assestava il colpo mortale con quest’attrezzo avvolto
nell’orbace, oppure poteva soffocarlo chiudendo bocca e
naso con entrambe le mani, per poi andarsene silenzio-
samente col capo e il viso coperti da un fazzoletto nero
(Bucarelli – Lubrano 2003).
Il patire le sofferenze di una lunga agonia era conside-
rato come l’espiazione di gravi peccati commessi in vita.
Le colpe di cui i poveri moribondi si sarebbero mac-
chiati non sono, come la morale odierna potrebbe sug-
gerire, atti gravissimi quali ad esempio l’omicidio, bensì
atti, tra i più disparati, ritenuti, per noi incomprensibil-
mente, sacrileghi.
Rubare o bruciare un giogo, ma anche altri arnesi agri-
coli, spostare pietre di confine, bruciare un pettine, ruba-
re un alveare, olio o cera, uccidere un gatto e, in qualche
paese, anche bruciare uno scanno… queste le azioni de-
gne di essere pu-
nite nell’ora della
morte.
Sono stati so-
prattutto il pet-
tine e l’alveare,
in quanto ovvia-
mente legato alle
api, ad evocarci
la suggestione di
una analogia con
le rappresenta- Fig. 67: Su mazzolu esemplare custodito presso il Museo Etno-
zioni simboliche grafico Galluras a Luras (da Bucarelli–Lubrano 2003).
171
roBerta tulli

dei vari aspetti della Dea preistorica, di cui abbiamo pre-


cedentemente parlato.
Il giogo invece ci ha ricondotto, forse un po’ ardita-
mente, al toro e al suo ruolo nel processo di rigenerazio-
ne, senza dimenticare anche quello di animale sacrificale.
Non è sicuramente facile il compito di chi si ponesse
l’obiettivo di capire il perché della gravità di tali atti.
Certamente si potrebbe ricorrere ad una spiegazione
socio-economica, a suggerire che in una società agro-
pastorale distruggere attrezzi agricoli, privare di materie
per l’illuminazione ed eliminare felini che provvedevano
a disinfestare dai topi, proteggendo le derrate alimentari,
equivaleva a mettere in pericolo la sopravvivenza di chi
subiva questi atti (Bucarelli – Lubrano 2003).
Tra l’altro, casualmente, leggendo un saggio sulla
scomparsa di un villaggio sardo nel Settecento (Sonis
2010), abbiamo appreso dell’esistenza di liste dei posses-
sori di gioghi da lavoro, di cui converrebbe però sapere
di più su cosa comportasse il farne parte.
Un’altra interpretazione pone invece l’accento sulla
particolare sacralità che devono aver assunto gli oggetti
in questione, sì da attirare la punizione su chi osasse sot-
trarli o distruggerli (Turchi 2001 e 2008).
A corroborare questa ipotesi si potrebbe citare il fatto
che, ad esempio, il furto di un giogo non è contempla-
to nella Carta de Logu, codice di leggi promulgato dalla
giudicessa Eleonora d’Arborea nel 1392, che prevedeva
pene molto severe per i danni patrimoniali, tra cui figu-
rava invece il furto di buoi, ed in verità anche quello di
alveari o l’abbattimento di recinzioni.
Il carattere sacro del giogo, l’oggetto generalmente più
menzionato, sarebbe da mettere in relazione con il mito di
Dioniso, il dio che lo inventò e lo donò agli uomini, ed an-
che con l’orfismo, incentrato sulla figura mitica di Orfeo.
In breve si ipotizza che, come gli orfici ritenevano che
negli uomini vi fosse un dualismo tra la parte dionisia-
ca, l’anima, e la parte materiale, il corpo, così nel mon-
do agrario proprio il giogo sarebbe assurto a simbolo di
questa unione, rappresentando una sorta di ponte tra la
vita dell’anima, appunto, e quella del corpo.
Il giogo ricordava come i due elementi dovessero
restare uniti fino al momento del trapasso, e quindi lo
172
L a Donna neLL ’a ntichità

stesso giogo doveva presenziare anche al momento della


nascita (in molti paesi sardi veniva posto sotto il letto
o dietro la porta di casa della partoriente), cosicchè “…
l’anima, dopo il giudizio, potesse reincarnarsi” (Turchi
2008).
L’anima, per gli orfici, si purificava dalla parte mal-
vagia del corpo attraverso una serie di rinascite, in cui
condurre vite sempre più virtuose fino a liberarsi dalle
reincarnazioni stesse.
La distruzione del giogo quale simbolo del dualismo
avrebbe alterato l’equilibrio, ostacolando il trapasso e
quindi anche la rinascita.
Anticamente sarebbe toccato ad una sorta di sacer-
dotessa della morte, poi divenuta s’accabadora, ristabilire
l’equilibrio, favorendo il trapasso tramite l’imposizione
del giogo, stavolta reale.
Però, anche ammettendo che gli orfici si servissero di
uno strumento esemplificativo (il giogo) della loro dot-
trina per i livelli più bassi di iniziazione, pensiamo che
dell’uso di tale strumento si sarebbe dovuta pur conser-
vare una qualche traccia, come è avvenuto per le cosid-
dette laminette orfiche, contenenti le “istruzioni” per il
viaggio nell’aldilà.
Interessante la citazione (Ofelia Pinna 1921 in Turchi
2008) che menziona l’usanza, presso il popolo sassarese,
di mettere una mazza nel letto dell’agonizzante, pensan-
do che nella sua vita ne avesse bruciata qualcuna ricava-
ta dal legno di un giogo di buoi.
La colpa dunque era aver distrutto il giogo, anche se
trasformato in un altro oggetto, oppure aver bruciato il
legno con cui era stato costruito?
Potrebbe valer la pena indagare oltre in questa dire-
zione.
Per quel che riguarda il furto dell’alveare, contraria-
mente alla nostra sottolineatura delle api come epifania
della Dea, senza per altro dimenticare che miele veniva
anticamente offerto in libagione ai defunti e che la stessa
Persefone, dea dell’oltretomba era detta Melitòdes, cioè
“Mellita”, un’altra ipotesi focalizza l’attenzione sulla sot-
trazione della cera. Partendo dall’assunto che la cera era
data probabilmente per l’illuminazione dei templi e in
seguito delle chiese, e basandosi anche su una testimo-
173
roBerta tulli

nianza orale, giunge alla conclusione che “rubare la cera


significava quindi rubare la luce alla divinità”.
Abbiamo tralasciato gatti e pietre di confine, con-
centrandoci sui peccati più frequentemente riferiti, ben
consci che molto si potrebbe ancora dire e soprattutto
investigare, poiché la figura dell’accabadora sembrerebbe
superare i confini della Sardegna, essendo presenti an-
che in altre regioni d’Italia, e non solo, prescrizioni simili
al fine di accelerare un difficile trapasso.
Al di là degli aspetti “tecnici” ci piace comunque con-
tinuare ad immaginarla come la figura commovente trat-
teggiata dalla Murgia: l’ultima madre.

174
cULTi feMMiniLi e rUoLo
DeLLa Donna: anaLogie Tra
LoCRi EPizEFiRii e reaLTà
Laconico-SParTana
di Simona Montagnani

i culti femminili a Locri Epizefirii

I
culti delle divinità femminili si sono manifestati a
Locri Epizefirii come in nessun’altra polis della Magna
Grecia e hanno destato l’attenzione sia dei moderni
sia dei contemporanei. Le prime ricerche sul sito della
città, a carattere eminentemente erudito-antiquario, ri-
salgono alla metà del Cinquecento (Sabbione e Costa-
magna 1990). Un taglio più topografico fu dato a partire
dal Settecento (Arias 1991). Tra la fine dell’Ottocento e
gli inizi del secolo scorso furono intraprese le prime cam-
pagne di scavo con carattere sistematico, in gran parte
condotte da Paolo Orsi. Le sue indagini, che dettero, fra
l’altro, impulso alle successive ricerche, protrattesi fino
ad oggi, hanno consentito di raccogliere una notevole
mole di dati archeologici, dai quali è emersa con chia-
rezza l’esistenza di santuari femminili dalle specifiche
caratteristiche topografiche, cronologiche e funzionali
(Sabbione 1996). In generale, è possibile notare che la re-
altà archeologica e cultuale locrese comprende santuari
intramuranei e suburbani, questi ultimi situati all’esterno
delle mura ma in loro prossimità. Verso la chora della cit-
tà, in un luogo alquanto suggestivo fra i colli Abbadessa
e Mannella, si trova un santuario suburbano indiscutibil-
mente attribuito a Persefone, regina dell’Oltretomba, as-
sociata con alcune divinità maschili quali Hades, Dioniso,
Hermes, Ares, Apollo, i Dioscuri e Trittolemo. Si tratta di
un complesso cultuale dalla vita molto lunga, scandita
175
simona m ontagnani

in una fase ar-


caica di fine VII
- inizi VI secolo
a.C.; una clas-
sica compresa
tra V e IV secolo
a.C., nella quale
va ravvisato un
importante mo-
mento costrutti-
vo e ricostruttivo
con ampliamenti
degli spazi a di-
Fig. 68: Pinax tipo Zancani M. 2/22 e Prückner 59: scena di
ratto (Fonte: Lissi Caronna et al. 1999).
sposizione (se-
conda metà-fine V secolo a.C.) per l’intera area; infine
una fase ellenistica di III-II secolo a.C., protrattasi fino
all’età imperiale. Per quel che concerne la documenta-
zione archeologica, reperti fondamentali provenienti
dal Persephoneion sono i pinakes (490-470 a.C.), tavolette
votive raffiguranti prevalentemente riti pre-nuziali e nu-
ziali che sono state oggetto di accurate analisi (Prückner
1968; Sourvinou Inwood 1985; Mertens Horn 2006; Lissi
Caronna et al. 1999/ 2000-2003). Nei pinakes il passaggio
dallo stato di Kore fanciulla a quello di Persefone spo-
sa di Hades/Plutone, nonché madre e regina dell’Oltre-
tomba, è riprodotto grazie a complesse iconografie, nelle
quali dominano le scene di ratto (Fig. 68) e le scene dei
due sposi in trono oppure di Persefone da sola nell’atto
di ricevere altre divinità, tra cui alcune maschili (Fig. 69).
Risulta inoltre estremamente importante l’attestazione
di offerte d’armi nel santuario. I pinakes attestano infat-
ti la frequentazione femminile del luogo sacro, le armi
quella maschile; in ogni caso i doni votivi rimandano
ad una cultualità e ritualità dalle evidenti valenze ini-
ziatiche. Spostandoci all’interno di Locri, in zona Marasà
nord è ubicato un santuario poliade, per lo più attribu-
ito ad Afrodite. La complessa vicenda architettonica del
santuario testimonia la vitalità e l’importanza dell’area
che vide sorgere un sacello arcaico alla fine del VII secolo
a.C., successivamente ristrutturato intorno alla metà del
VI secolo a.C. (Gullini 1987). L’edificio arcaico, abbattuto
all’incirca all’inizio del V secolo a.C. (480-470 a.C.), lasciò
176
L a Donna neLL ’a ntichità

spazio alla realizzazione del tempio ionico di matrice


samio-siracusana sottoposto anch’esso, come il Persepho-
neion, a lavori di ristrutturazione alla fine del V secolo
a.C. (Torelli 1979). All’Aphrodision sono state ascritte al-
cune opere trovate in contesti casuali: il ‘Trono Ludovisi’,
raffigurante la nascita di Afrodite dalle acque; il ‘Trono
di Boston’, recante una scena con Afrodite e Persefone o
Demetra addolorate; il rilievo Albani, con l’immagine di
Demetra in trono che riceve una donna con la figlia; il ri-
lievo di Houston, che presenta un banchettante nell’atto
di accogliere una fanciulla, ed infine il gruppo scultoreo
dei Dioscuri, riprodotti come cavalieri sorretti da tritoni
(Guzzo 1984).
Non molto lontano, fuori dal circuito murario in di-
rezione del mare, è possibile individuare il complesso
cultuale nei pressi di Centocamere (con la Stoà ad U) e
quello di Marasà sud (con il sacello di Afrodite e la so-
vrastante ‘Casa dei leoni’). La Stoà ad U, realizzata in due
fasi (fine VII - inizi VI secolo a.C. e metà del VI a.C., con il
raddoppiamento delle stanzette), viste le numerose iscri-
zioni rinvenute, è associata al culto di Afrodite-Cibele e,
per molti studiosi, alla pratica della prostituzione sacra
d’origine greco-orientale, presumibilmente praticata ne-
gli oikoi della struttura. Anche il culto di Afrodite protet-
trice dei naviganti e
del mare, documen-
tato a partire dalla
fine del VI - inizi del
V secolo a.C., trovò
una sua espressione
nel sacello di Ma-
rasà sud sul quale
più tardi (metà del
IV a.C.), quando ter-
minò pure l’utiliz-
zo della Stoà ad U,
s’impostò la cosid-
detta ‘Casa dei leo-
ni’ (Barra Bagnasco
1996a). Quest’ultima
era sede del culto Fig. 69: Pinax tipo Zancani M. 8/29, Prückner 30: Perse-
di Adone, fanciullo fone in trono che riceve Ares. (Fonte: Atti Taranto 1977).
177
simona m ontagnani

dalla breve vita che rinasce ogni anno, legato nel mito sia
a Persefone sia ad Afrodite.
Ad una prima osservazione si può rilevare che i primi
santuari fondati nella polis, il santuario suburbano della
Mannella, il santuario urbano di Marasà nord e la Stoà ad
U fuori dalle mura, introducono ab origine alla cultualità
tipicamente femminile di Locri che riconosce in Afrodi-
te e Persefone le principali divinità. Afrodite campeggia
dentro la città e in prossimità del mare, presumibilmen-
te in forme e con valenze semantiche diverse (Sabbione
1996); Persefone invece domina l’interno della chora. La
diversa dislocazione topografica dei santuari che indica
il legame della prima dea con le acque e l’esterno, del-
la seconda con la terra, elemento ctonio per eccellenza,
suggerisce un differente ambito di funzionalità delle due
divinità femminili che risultano allo stesso tempo oppo-
ste e complementari.
Più a nord, nei pressi di una sorgente naturale, si col-
loca il santuario agreste di Grotta Caruso, sorto in epo-
ca arcaica (VI secolo a.C.), con una vitalità ridotta nel
periodo classico ed una forte ripresa in età ellenistica e
fino alla seconda metà del II secolo a.C. Considerata la
sua peculiare dislocazione topografica, risulta pressoché
sicura l’appartenenza di Grotta Caruso ad un contesto
cultuale dedicato alle Ninfe e alle acque, associate, in
ogni caso, ad altre divinità femminili (Afrodite ed Arte-
mide) e maschili (Acheloos ed Euthymos), e frequentato
dalle giovani locresi in procinto di sposarsi e di divenire
madri. In relazione al culto demetriaco, la quasi totale
assenza di Demetra al Persephoneion è stata compensa-
ta dal ritrovamento, in anni recenti, di un Thesmophorion
suburbano in zona Parapezza poco distante da Marasà
nord, che ha restituito abbondanti ed interessanti mate-
riali archeologici (Milanesio 2005). Le due principali fasi
di vita del santuario, da inquadrarsi l’una tra la metà
del VI e il V secolo a.C., l’altra tra la metà del IV e il III
secolo a.C., fanno pensare ad una funzione importante
di questo culto, legato alla fertilità intesa in senso lato,
connessa al matrimonio e ai riti di passaggio femminili
ma anche allo sviluppo della polis, poiché in rapporto ad
aspetti eugenetici (riproduzione e sostentamento di forti
cittadini).
178
L a Donna neLL ’a ntichità

A questi elementi cultuali più manifesti se ne aggiun-


gono altri minori, quantunque non meno significativi: la
stipe in zona Quote S. Francesco (tratto sud-occidentale
delle mura) dedicata presumibilmente ad una dea fem-
minile (Kore?) e una statuetta proveniente dalla stipe del
teatro interpretata come Afrodite Urania. Appare altresì
rilevante la conferma della presenza di Artemide, regina
delle acque terrestri, che presiede ai passaggi di status
femminili, tanto a Grotta Caruso quanto nei contesti di
abitato.
Dentro la città sono localizzati i santuari poliadi
dell’Athenaion della Mannella verosimilmente sorto alla
fine del VI secolo a.C. e del tempio di Casa Marafioti
con la vicina teca dell’archivio di Zeus Olimpio (secon-
da metà del IV - primi decenni del III secolo a.C.). Per
quanto attiene l’Athenaion, la divinità garante chiamata
in causa è Atena promachos; rimangono invece tuttora in-
certezze di attribuzione per il tempio di Marafioti, eret-
to poco dopo la metà del VI secolo a.C. (540-530 a.C.) e
ristrutturato alla fine del V secolo a.C. in sincronia con
i lavori di restauro eseguiti al Persephoneion e al tempio
ionico di Marasà nord. Alcuni ricercatori hanno voluto
includere il santuario di Marafioti nel temenos del san-
tuario di Zeus Olimpio, la cui esistenza è indiziata dalla
teca dell’archivio e da evidenze intercettate nei pressi di
essa (Cardosa e Barello 1996). Anche in questo santuario,
che pure svolge una funzione ‘civica’ per antonomasia,
hanno grande importanza i culti femminili: infatti, era
dai proventi della prostituzione sacra che ad esso con-
fluivano risorse economiche molto importanti per la vita
economica e politica della polis.
Infine, l’esistenza di un substrato cultuale maschile
è documentata dal deposito dedicato a Zeus Saettante
vicino a Parapezza ed in prossimità delle mura, una di-
vinità dalle forti valenze ctonie (Barra Bagnasco 1996b).

questioni sulla cultualità femminile a Locri


Sulla base dei dati raccolti, Locri Epizefirii appare
come una polis posta sotto la quasi esclusiva protezione
di divinità femminili, di cui le più rappresentative sono
179
simona m ontagnani

senz’altro Persefone e Afrodite. Di fronte a questa pecu-


liare evidenza archeologica, caso unico nel contesto delle
colonie magno-greche, sono sorte due questioni. La pri-
ma concerne i motivi che stanno alla base del dominio dei
culti femminili a Locri. La seconda riguarda le eventuali
relazioni fra queste evidenze cultuali e il modus vivendi
delle donne locresi, cioè con la loro vita reale e quotidia-
na. Le due questioni non hanno trovato soluzione nelle
letture interpretative fornite fino ad oggi dagli studiosi
dei culti locresi. Alcuni ricercatori (Costabile 1996, Parra
1990), di fatto, si sono limitati ad analizzare i rapporti
tra le due divinità principali, solitamente senza metterli
in relazione con la cultualità locrese nel suo complesso
e con le caratteristiche socio-culturali della polis italiota.
Per tentare di ampliare l’ambito metodologico utile
alla ricerca di una o più risposte, si è operato utilizzando
il modello interpretativo post-processuale della ‘Gender
Archaeology’ (Manacorda 2004; Stig Sorensen 2000; Mil-
ledge Nelson 2006; Giannichedda 2002).
L’archeologia di ‘genere’, così come è stata definita
da Ian Hodder nel 1985, si è sviluppata nell’ambito della
archeologia post-processuale (Diaz Andreu 1999 e 2005)
inglese a partire dagli anni Ottanta e Novanta, come
critica all’approccio metodologico neopositivista della
cosiddetta archeologia processuale o ‘New Archaeology’.
La ‘Gender Archaeology’ studia l’antichità dando voce alle
varie categorie di ‘generi’ ed alle loro dinamiche. Uno
dei suoi assunti principali è la critica all’impostazione
androcentrica dell’archeologia tradizionale, che non ha
sufficientemente analizzato il ruolo della donna e più
in generale dei sessi. Pertanto, essa mira a rileggere gli
studi storico-archeologici in una più aggiornata prospet-
tiva, capace di valutare l’importanza della ‘identità di
genere’ culturalmente e storicamente determinata nelle
società umane di ogni tempo. In base a tale impostazione
teorica nella ricerca archeologica diventa centrale inda-
gare le relazioni tra i ‘generi’ nonché le resistenze cultu-
rali –“inconsce”- (Cuozzo 1999), frutto di una ‘trattativa’
del rapporto sociale uomo-donna all’interno dei diversi
ambiti storici. Importanti conseguenze interpretative di
siffatto approccio sono state, innanzitutto, il constatare
che, se in un contesto sociale il lavoro è diviso sulla base
180
L a Donna neLL ’a ntichità

di una specializzazione di genere, questo fornisce, come


sostiene M. Diaz Andreu, la misura di una differenza e
non di una “[...] gerarchizzazione nella valorizzazione dei la-
vori attribuiti ai diversi sessi, come ha supposto l’archeologia
tradizionale [...]” (Diaz Andreu 1999). Inoltre la classica
divisione tra ambito privato o domestico e ambito pub-
blico, difesa dall’archeologia tradizionale (Diaz Andreu
1999), per cui al primo, caratterizzato da un valore infe-
riore si associavano le donne ed al secondo gli uomini,
viene superata. In effetti l’archeologia di ‘genere’, consa-
pevole di come le ideologie contemporanee sui rapporti
tra ‘generi’ abbiano influenzato le analisi interpretative
sul passato, si è rifiutata di aderire a simili schematismi
pre-costituiti, preferendo sostenere in alternativa una vi-
sione più dinamica del rapporto tra lo spazio sociale ed
i ‘generi’, per riaffermare che “[…] la differenziazione non
suppone la gerarchia, poiché la complementarità di genere è
anche un’alternativa che si deve contemplare e discutere […]”
(Diaz Andreu 1999).
In sostanza, l’archeologia di ‘genere’ si fonda sull’in-
dagine storica che, una volta inserita nel contesto socio-
culturale e antropologico, permette una lettura di più
ampio respiro delle realtà archeologiche.

il ruolo dei culti femminili nella storia


di Locri Epizefirii
Sulla scorta di queste suggestioni metodologiche,
ulteriori approfondimenti sulla storia di Locri Epizefirii
fanno emergere inequivocabilmente la costante pre-
senza di contatti tra la polis italiota ed il mondo dorico-
peloponnesiaco, con particolare riferimento alla regione
laconico-spartana. Questi contatti sono, in parte, riflesso
di quelli esistenti nella madrepatria della colonia, la Lo-
cride greca Opunzia e Ozolia. Gli elementi che attestano
queste affinità, a tratti profonde, sono rintracciabili sia
negli aspetti socio-istituzionali e politici, sia nelle forme
propriamente culturali e cultuali. In madrepatria e nel-
la città magno-greca, come si evince a più riprese dagli
studi di D. Musti (Musti 2005), esisteva un’aristocrazia
femminile ereditaria e titolare di proprietà terriere (‘Cen-
181
simona m ontagnani

to Case’), che ebbe un ruolo determinante sia nella fonda-


zione della polis (inizio VII secolo a.C.) sia nell’esercizio
di specifiche funzioni cultuali. Quest’ultime spesso rie-
vocate, come nel caso della prostituzione sacra sottoforma
di votum ad Afrodite, in momenti particolarmente difficili
della città e segnatamente nel corso dell’attacco reggino
del 477 a.C. e al tempo della minaccia lucana nel IV seco-
lo a.C. Nello specifico, come testimoniano prima Aristo-
tele poi Polibio (Musti 1977), le donne delle ‘Cento Case’
si unirono a uomini di rango servile, rendendo così pos-
sibile in virtù dell’incremento demografico, l’apoikia di
Locri Epizefirii. Anche l’apertura verso i soggetti di rango
servile è una caratteristica delle società doriche con forti
connotazioni aristocratiche e guerriere, come quella di
Sparta, perché per lunghi periodi la polis rimaneva nelle
mani delle donne che ne garantivano la sopravvivenza
solo in virtù di unioni estranee al matrimonio. Va osser-
vato che proprio questi elementi hanno portato in pas-
sato alcuni studiosi ad ipotizzare l’esistenza a Locri di
un matriarcato (Gallo 1983), peraltro mai dimostrato, e
probabilmente influenzato dall’evoluzionismo socio-
religioso dello storico J. J. Bachofen (Bachofen 1861). Dal
punto di vista sociale e normativo Locri si presenta come
una polis strutturata su base tribale retta da magistrature
ternarie, con una legislazione, quella di Zaleuco, molto
simile a quella spartana di Licurgo. I forti legami diplo-
matici e politici col mondo dorico-peloponnesiaco sono
testimoniati dall’aiuto offerto da Sparta a Locri allorché
quest’ultima fu attaccata da Crotone nella prima metà
del VI secolo a.C. Lo scontro si risolse con la vittoria lo-
crese al fiume Sagra grazie, stando ad una nota leggenda,
all’intervento dei Dioscuri giunti dalla città lacedemone.
Nel V e nel IV secolo a.C., soprattutto nella circostanza
della guerra del Peloponneso, i rapporti tra Locri e la
Siracusa dei Dinomenidi si consolidarono in funzione
filo-spartana. Tale alleanza fu rinsaldata dall’adesione di
Locri, nel 397 a.C., alla proposta siracusana di epigamia
tra Dionisio I e Doride di Locri (Diod. XIV 44, 4-6), figlia
di Xen(ain)etos, appartenente ad una delle più illustri fa-
miglie dell’aristocrazia locrese. In virtù di questo vinco-
lo matrimoniale, alcuni anni dopo, nel 356 a.C., Dionisio
II, cacciato da Siracusa, potè rifugiarsi a Locri, in qualità
182
L a Donna neLL ’a ntichità

di erede legittimo del patrimonio della madre Doride.


Inoltre, sempre nel IV a.C. va collocato il trattato di iso-
politeia tra Locri ed i Locresi di Grecia citato da Polibio
(XII, 9-11), che attinge da Timeo. Esso testimonierebbe
l’esistenza, anche in un periodo più tardo, di relazioni
con la madrepatria e quindi indirettamente ancora con
l’ethnos dorico.

La cultura religiosa locrese


e il mondo dorico-peloponnesiaco
Sulla base dei legami storici, sociali e istituzionali tra
la città magno-greca e l’ambito dorico-peloponnesiaco
si ipotizza l’esistenza anche di nessi piuttosto stretti ri-
spetto alla cultura religiosa che qui analizziamo. In La-
conia spiccano, su tutti, due santuari di frontiera mon-
tani, quello di Artemide Limnàtis, situato sul confine con
la Messenia e quello di Artemide Karyàtis collocato sul
confine con l’Arcadia. Nei due santuari le fanciulle spar-
tane onoravano Artemide, nel primo già in epoca molto
arcaica, al tempo della prima guerra messenica (iniziata
tra il 743 ed il 736 a.C.), nel secondo con molta verosi-
miglianza già nel VII secolo a.C. (Calame 1985). I due
santuari artemisici rappresentavano presumibilmente
luoghi di culto nei quali si officiavano riti di passaggio
femminili: le fanciulle, non più bambine ma non ancora
donne, rifiutando la sessualità adulta espressa sottofor-
ma di hybris (ratto-stupro) fino ad arrivare al suicidio, vi-
vevano un momento di caos lontane dall’ordine antico e
non ancora aperte a quello nuovo della vita adulta che le
attendeva. Quindi, Artemide si configura come una dea
addomesticatrice/educatrice, protettrice delle unioni fe-
conde e in questo senso collegata ai passaggi di status
femminili (Giuman 1999).
Per quanto riguarda Sparta, sull’acropoli erano col-
locati culti prevalentemente incentrati sulla sfera politi-
co-guerriera, ovvero il culto poliadico per eccellenza di
Atena Chalkioikos (dal bronzeo tempio) e quello di Zeus
Kosmetas. Era presente anche un santuario dedicato ad
Afrodite Areia e Basilis, guerriera e regina, una dea pro-
babilmente xoanica ed uranica di un tipo orientale (Isthar)
183
simona m ontagnani

molto antico (Osanna 1990). Oltre a ciò, esistevano il


santuario delle Muse, legato alle partenze per la guer-
ra dell’esercito spartano e il culto arcaicissimo di Zeus
Hypsistos.
Al di fuori dell’acropoli, M. Torelli (Torelli 1977) se-
gnala una complessa area sacra, forse realizzata tra il
tardo VII secolo a.C. e la metà del VI secolo a.C., dove si
trovava un tempio di Kore Soteira posto di fronte a quello
di Afrodite Olimpia (Paus. III, 13, 2). Un’analoga associa-
zione fra divinità femminili con scene allusive alle attività
del thiasos era presente sull’altare del santuario di Apol-
lo presso Amicle, uno dei luoghi di culto più importanti
della Laconia. Sul trono di Amicle una complessa sim-
bologia documenta l’importanza dei passaggi di status
femminili ed il valore della donna in quanto detentrice
e veicolatrice del potere per mezzo del ratto-matrimonio
(saga del ratto delle Leukippides, principesse messeniche,
da parte dei Dioscuri, figli del re spartano Tyndareos). Su
una piccola altura spartana si trovava un santuario a due
piani in onore di Afrodite Hoplisméne-Morpho con dupli-
ce statua (armata e velata con le catene ai piedi), culto
doppio virginale e matronale connesso alla guerra ed al
fato, dalle chiare implicazioni di natura matrimoniale e
mercantile. Questa importante Afrodite era portatrice di
forti valenze correlate alla sfera della fecondità e il suo
culto verosimilmente dominava sia fisicamente sia ide-
ologicamente l’area in cui era ubicato il santuario delle
Leukippides, confermando la vocazione matrimoniale di
questa zona (Faustoferri 1996). Infatti nel luogo sacro si
conservava il famoso uovo di Leda, simbolo di fertilità
ma anche dei valori cosmici e del fato incarnati nella Mor-
pho. Nella località detta Limneo Pausania indica anche il
santuario di Artemide Orthia, arcaicissimo polo religio-
so-politico (Nafissi 1991); l’epiteto della dea, rappresen-
tata come signora delle fiere, evoca evidentemente i suoi
poteri riproduttori. L’attributo di Kourotrophos, con forte
allusione al ruolo della dea nell’educazione dei giova-
ni mostra quanto il culto si legasse alla transizione degli
efebi ed ai riti matrimoniali. Vanno altresì citati i due cul-
ti arcaici di Gaia presenti nella città laconica: l’uno nella
località detta Gasepton in associazione ad Apollo, l’altro
nell’agorà, connesso a Zeus ed Apollo. Per finire, come
184
L a Donna neLL ’a ntichità

osserva C. Calame (Calame 1977), esistevano due luoghi


sacri dedicati a Elena. Il primo si trovava nelle vicinanze
del Platanistas (zona piena di platani e circondato dall’ac-
qua) a sud-est di Sparta nella piana del fiume Eurota; il
secondo era collocato a Terapne, sull’altra sponda. Al Pla-
tanistas Elena rappresentava una figura intermedia tra
l’adolescenza e l’età adulta, assumendo così caratteristi-
che simili a quelle delle Leukippides; viceversa nel santua-
rio di Terapne l’eroina era onorata in tutta la sua bellezza
come donna sposata. Infine, sul promontorio del Tenaro
sono attestati un tempio di Demetra e uno di Afrodite,
mentre sull’acropoli di Corinto templi dedicati a Deme-
tra e Kore, Hera Bunaia e Afrodite (Torelli 1977).

osservazioni sul genere femminile


e sui culti a Locri Epizefirii
Da un punto di vista socio-antropologico è noto che
molte sono le fonti indicanti la presenza di un ruolo sui
generis delle donne in ambito dorico, soprattutto nell’area
della Laconia. In generale, la maggior parte degli studio-
si (Piccirilli 1978; Gallo 1983) concorda sul fatto che in
una società guerriera e conservatrice come quella sparta-
na, dove l’elemento maschile era numericamente labile e
suscettibile di consistente contrazione (oligandria), solo
la donna garantiva la stabilità e la continuità dei rappor-
ti patrimoniali. L’educazione impartita alle fanciulle era
molto simile a quella dei maschi; al riguardo, P. Vidal
Naquet (Vidal Naquet 1988) sostiene che nella polis la-
conica le istituzioni educative femminili erano il calco di
quelle maschili a tal punto che la fanciulla spartana fini-
va per divenire un ‘ragazzo mancato’. La donna aveva
una grande libertà di movimento che le permetteva di
frequentare spazi comunemente frequentati dagli uomi-
ni come la palestra.
Tornando a Locri Epizefirii, è stato possibile rilevare pun-
tuali affinità cultuali e sociali con la Laconia e in particola-
re con Sparta. Nella città magno-greca una delle principali
divinità femminili del pantheon greco, Afrodite, riceveva il
culto in forme e con valenze diverse dentro e fuori l’area

185
simona m ontagnani

urbana. Stando a Torelli, l’Afrodite poliade di Marasà nord


si distingueva per la sua doppiezza di divinità guerriera/
matronale e virginale/nuda; ad essa erano devote le nobili
locresi appartenenti alle ‘Cento Case’, che dimostravano la
loro venerazione donandole ex voto assai preziosi. Indub-
biamente la dea locrese, per i suoi attributi, presenta forti
corrispondenze con l’Afrodite Areia e Basilis, guerriera e
regina, individuata sull’acropoli di Sparta. Anche il grup-
po scultoreo dei Dioscuri, che semanticamente rimanda,
allo stesso modo del giovane cavaliere su sfinge (Dioscuro)
proveniente dall’altro santuario poliade di Casa Marafioti,
al legame con un mondo maschile aristocratico-guerriero,
crea un nesso con la Laconia, dove come abbiamo visto i
due gemelli erano molto conosciuti. L’Afrodite-Cibele di
Centocamere-Stoà ad U si presenta come una dea molto
aperta all’esterno, che accoglieva gli stranieri in qualità di
‘protettrice dei naviganti e del mare’, siano stati essi com-
mercianti o pellegrini, attraverso l’antico rituale greco-
orientale della prostituzione sacra. Questa, giunta a Locri
grazie alla mediazione di Sparta e Corinto, era con molta
probabilità praticata costantemente da donne di condizio-
ne servile o sacerdotesse; secondo alcuni, nei casi di grave
pericolo per la polis, poteva prendere la forma di un pros-
senetismo aristocratico da parte delle ragazze nobili delle
‘Cento Case’. Quanto esposto suggerisce l’idea di un fem-
minile che pare svolgesse un ruolo definito e riconosciuto
sia nell’ambito economico della città legato ai commerci,
vale a dire ad aspetti di reciprocità e scambio come in altre
zone del mondo greco, sia nel corso di gravi eventi bellici.
Tale situazione cultuale sembra trovare un confronto diret-
to nel santuario spartano dedicato ad Afrodite Hoplisméne-
Morpho che aveva valenze matrimoniali e mercantili. L’area
di Marasà sud, sede di un sacello ad Afrodite e della cosid-
detta ‘Casa dei leoni’, rimanda ad una ritualità connessa al
culto di Adone in cui s’inserisce, come si evince dal mito,
Artemide in qualità di divinità garante dei passaggi di sta-
tus. La cultualità e la ritualità artemisica richiama indub-
biamente quella collegata alla Persefone locrese, associata a
riti pre-nuziali e nuziali ispirati al mito di Kore/Persefone,
esemplarmente reso nei pinakes donati alla dea dalle giova-
ni donne in procinto di sposarsi. All’ambito pre-nuziale e
nuziale si riferisce anche la devozione alle Ninfe di Grotta
186
L a Donna neLL ’a ntichità

Caruso e ad Artemide nell’abitato di Centocamere; divinità


chiaramente associate all’acqua. Abbiamo visto che un tipo
di cultualità-ritualità connessa ai riti di passaggio femmini-
li e congiunta ad un evento violento (ratto-stupro), è rico-
noscibile nei santuari arcaici laconici di Artemide Limnàtis e
di Artemide Karyàtis. È quindi ravvisabile l’esistenza di un
legame tra l’Artemide laconica e la Persefone locrese; in-
fatti, entrambe le divinità femminili svolgono le medesime
funzioni personificando un eros maturo ‘istituzionalizza-
to’, nel senso che esse sovrintendono ai passaggi di status
delle fanciulle al ruolo di mogli e madri. A conferma delle
suddette analogie valga anche la corrispondenza di alcuni
doni offerti al santuario di Artemide Limnàtis prò gamoio con
anathémata donati al Persephoneion locrese (Torelli 1977) ed il
carattere multiforme dell’Artemide Orthia di Sparta legata
ai riti matrimoniali, alle nascite ed alla fecondità. Sotto il
profilo socio-antropologico, gli stessi pinakes consentono di
comprendere il passaggio dal piano simbolico a quello rea-
le. Essi, oltre ad essere rappresentazioni simboliche, sicura-
mente avevano un rapporto diretto col modus vivendi fem-
minile locrese; nei pinakes, infatti, si ritrovano evidenziati
certi costumi pre-nuziali e nuziali quali il taglio dei capelli
o il rito del matrimo-
nio al cui interno era
eseguito un ratto si-
mulato, comuni an-
che a Sparta. Partico-
larmente significativo
è stato il constatare la
stretta attinenza tra
la consuetudine per
le donne laconiche
di praticare attività
ginniche (Fig. 70) ed
alcune evidenze ar-
cheologiche locresi.
Una di queste è cer-
tamente l’iconografia
che vede donne usare
lo strigile, raffigurata
su alcuni vasi come Fig. 70: Arte della Laconia 540-530 a.C., da Dodona: don-
il cratere a calice del na che corre (Fonte: Charbonneaux-Martin-Villard, 1997).
187
simona m ontagnani

IV secolo inol-
trato (Fig. 71) del
pittore di Locri
(necropoli di
Lucifero tomba
1119) pubblica-
to da Orsi nel
1917, in cui lo
studioso vede
una scena di pa-
lestra con donna
Fig. 71: IV sec. a.C. inoltrato, vaso di ignota fabbrica italiota con
scena di palestra proveniente dalla necropoli di Lucifero di Locri
palestrita (da
E. (Fonte: Orsi, 1917). non confondere
assolutamente
con l’eroina mitologica Atalanta). Lo strigile compare ma-
terialmente nei corredi di tombe femminili dalla necropoli
di Lucifero, ed è raffigurato anche su uno dei pinakes (tipo
Zancani 6/1 Prückner 44) (Fig. 72) provenienti dal Perse-
phoneion. “[…] L’esercizio sportivo non sembra […] essere una
prerogativa esclusivamente maschile a Locri, come testimoniano
la presenza di strigili in corredi riconosciuti pertinenti ad indivi-
dui femminili […]” (Costamagna 1987). Si potrebbe obiettare
che si tratta di un numero limitato di evidenze materiali,
ma se si guarda ad esse non in una prospettiva quantitativa
bensì qualitativa (e post-processuale), contestualizzandole,
è possibile conferire loro un diverso peso e suggerire una
nuova possibilità di analisi della realtà locrese.
Per terminare l’esame dei santuari dedicati alle divinità
femminili, occorre considerare, in relazione al sostentamento
e alla crescita della polis, il culto di Demetra, che si connette,
in generale, alla fertilità ed ai passaggi di status delle fanciulle
a donne sposate capaci di procreare figli legittimi e cittadini
forti da inserire come valorosi guerrieri nel corpus maschile
della società. Analogamente, nel contesto dorico, Demetra è
posta in associazione ad Afrodite sul promontorio laconico
del Tenaro ed a Corinto, sull’acropoli, dove è presente anche
Kore. Emergono aspetti diversi del “femminino”, per usare le
parole di Snell (Snell 1963), a quanto pare sanciti dalle diver-
se dislocazioni topografiche delle aree cultuali. Afrodite pur
collocandosi come a Sparta dentro la polis, è legata ai contatti
con l’esterno. Persefone appare rivolta verso l’interno della
chora. I culti di Athena e di Zeus Olimpio propriamente polia-
188
L a Donna neLL ’a ntichità

di sembrano configurarsi come ‘culti dovuti’, richiamando


senza indugio i santuari di Athena Chalkioikos e di Zeus Ko-
smetas-Hypsistos sull’acropoli di Sparta. Soprattutto il culto
di Zeus Olimpio risulta più direttamente connesso alla vita
civile ed economico-politica della città in quanto luogo di af-
flusso di donazioni provenienti dagli altri santuari ed eroga-
tore di prestiti in denaro utilizzati per le opere pubbliche. Fra
le largizioni vanno inclusi i tributi versati dalle sacerdotesse
della Stoà ad U, a testimonianza di una plausibile partecipa-
zione delle donne nelle questioni economiche pubbliche. A
proposito della prostituzione sacra occorre aprire una breve
parentesi, trattandosi di una questione estremamente im-
portante dal punto di vista antropologico e dell’immagina-
rio collettivo. Tale pratica viene spesso definita nei termini
di un assoggettamento del femminile al maschile (erotismo
maschile) (Torelli 1977). In realtà, autorevoli studi antropolo-
gici dimostrano che, nel mondo antico, la prostituzione sacra
aveva una diversa connotazione (Frazer 1950) e perciò essa
non può essere letta né attraverso la lente deformante dei
moralismi attuali né alla luce di condizionamenti derivanti
dai comportamenti attuali.

In conclusione, la realtà cultuale locrese risulta specu-


lare a quella attestata in ambito laconico-spartano: “ […]
Le forti affinità tra i culti spartani e locresi […] non possono
essere casuali: la “libertà” delle donne spartane a casa chiama-
te désponai (Plut. Lyc.
14) e la eugéneia delle
donne locresi sono due
aspetti apparentemen-
te diversi di una stessa
realtà, le cui fondamen-
ta poggiano su di una
formazione economico-
sociale simile. […]”
(Torelli 1977).
Dunque, Locri si
configura come una
società maschile aristo-
cratico-guerriera cui fa
da contrappeso, in un zione, due figure femminili di cui una con strigile poste ai
Fig. 72: Pinax tipo 6/1 Zancani M., 44 Prückner: ricostru-

rapporto di comple- lati di un loutérion (Fonte: Lissi Caronna et al. 2000-2003).


189
simona m ontagnani

mentarità, un femminile a cui è riconosciuto collettivamente


un’innegabile importanza sociale. Particolarmente signifi-
cativa in questo senso la constatazione della plausibile pre-
senza a Locri Epizefirii di donne atlete impegnate in attività
ginniche come si desume dalla frequente associazione dello
strigile a figure muliebri. Per queste ragioni al posto, da un
lato, dell’utopica teoria sulla presenza di un matriarcato nella
polis magnogreca, dall’altro di una sottovalutazione dell’evi-
denza archeologica indiscutibilmente improntata a vari livel-
li al femminile, si preferisce ipotizzare a Locri l’esistenza di
una dinamica fra generi (maschile/femminile) che alla luce
di queste, preliminari, riflessioni meriterebbe un ulteriore
approfondimento. In particolare, si tratterebbe di analizza-
re con maggiore attenzione i corredi femminili con strigili
provenienti dalla necropoli di Lucifero, nonché di rileggere
e rivalutare gli studi condotti finora attraverso la lente d’in-
grandimento della Gender Archaeology. Il presente lavoro si
configura solo come un modesto contributo all’argomento.

PrinciPaLi DiviniTà PrinciPaLi DiviniTà


LocreSi Laconico-SParTane
Afrodite poliade di Marasà Afrodite Areia e Basilis
nord sull’acropoli di Sparta
Afrodite-Cibele di Centocamere- Afrodite Hoplismene Morphò
Stoà ad U, protettrice dei di Sparta con valenze
naviganti e del mare matrimoniali e mercantili
Artemide Limnàtis e
Persefone sul colle
Karyàtis sulle frontiere fra
Mannella associata ai
Laconia, Messenia e Arcadia.
passaggi di status femminili
Artemide Orthia di Sparta.
attraverso riti pre-nuziali e
Associate ai passaggi di
nuziali
status femminili
Demetra in associazione ad
Demetra di Parapezza Afrodite sul promontorio
laconico del Tenaro
Athena Chalkioikos e
Athena promachos e Zeus
Zeus Kosmetas-Hypsistos
Olimpio
sull’acropoli di Sparta
Tavola sinottica: divinità locresi e laconico-spartane, analogie e differenze.

190
Lo SPecchio, iL fUSo, iL TirSo:
fraMMenTi Di viTa Di Donne
greche e iTaLiche
di Cristina Marchegiani

“….tu sei per me padre e nobile madre


e fratello, tu sei il mio sposo fiorente…“

(Iliade, VI, 429 ss.).

C
osì Andromaca si rivolge al suo sposo, Ettore, il
più valoroso tra i figli di Priamo, re di Troia. Il fu-
gace incontro tra Ettore, salito alla rocca di Ilio, e
Andromaca è indubbiamente una pagina di lirica inten-
sa e di assoluta modernità, in uno dei poemi più antichi
e “maschili” quale è l’Iliade (fig. 73).
Il dialogo tra i due sposi è stimolo ad alcune riflessio-
ni sulla condizione della donna nella società descritta da
Omero e sullo svolgersi
della sua vita, all’inter-
no del contesto fami-
gliare e cittadino. Ettore
lascia i panni di spietato
guerriero e si svela ap-
prensivo marito e pa-
dre, quando, giungendo
alla sua dimora, non
trova ne moglie ne fi-
glio. Interroga le schiave
“dove andò Andromaca
braccio bianco fuori di
casa? dalle sorelle mie
o dalle cognate bei pe-
Fig. 73: Andromaca ed Ettore. Cratere a figure nere pli, o forse al tempio di
da Vulci (540 a.C. )Museo di Wurzburg.

191
C ristina m arChegiani

Atena, dove l’altre Troiane riccioli belli la dea terribile


placano?”. E la risposta della dispensiera: “...non dalle
tue sorelle…., ma si recò sulla gran torre d’Ilio, perché ha
sentito che i Troiani son vinti….ed ella è corsa alle mura,
tutta affannata, come una pazza; la balia le porta dietro il
bambino…” (Iliade, VI, 377 ss.).
Il poema restituisce l’immagine di una donna soffe-
rente e preoccupata per la sorte del proprio marito e, di
conseguenza, anche per la sua. Andromaca è “affannata
e pazza” mentre corre sulle mura della città per avere
notizie di Ettore e quando lo incontra gli si rivolge con
parole accorate, pregandolo di non lasciare lei e il figlio-
letto soli e quindi in mano al nemico.
La “società omerica”, pur nella problematicità inter-
pretativa che pone la genesi stessa dell’opera, traman-
da usi e regole di un mondo, databile al più tardi al IX
sec. a.C., fondato sul principio della forza e del potere,
dove l’elemento maschile è predominante. Tuttavia si di-
stinguono donne con una personalità definita e, sembra,
libere di avere con il proprio compagno un sincero rap-
porto d’amore e di confidenza.
La visibilità “famigliare” e sociale è conseguenza del-
lo status ufficiale di moglie e madre che la donna ottiene
con il matrimonio. “In quanto parte della “casa”, la don-
na che mette al mondo i figli legittimi a differenza delle altre
donne, ha un’esistenza sociale riconosciuta” (Leduc 2000). Il
complesso saggio “Come darla in matrimonio”, di cui fa
parte il brano sopra citato, analizza, dal punto di vista
antropologico, il nucleo famigliare omerico con le dina-
miche che conosciamo dalla letteratura e quindi il ruolo
dato alla donna. Nei rituali prematrimoniali la fanciulla
riceve “gioielli stupendi” dallo sposo e porta “doni stu-
pendi” alla sua nuova casa, offerti dal padre. La sposa
non è data via come uno scarto, la sua prima casa non
la rifiuta; allo stesso tempo i “doni stupendi” del marito
indicano che la donna diventa un suo possesso, ma un
possesso preziosissimo che la casa incorpora con grande
cura.
I privilegi di Andromaca, dovuti al suo status di mo-
glie e madre, sono messi in pericolo dall’andamento del-
la guerra: “...meglio per me scendere sottoterra, priva di
te perché nessun altra dolcezza, se tu soccombi al destino
192
L a Donna neLL ’a ntichità

avrò mai, solo pene! Il padre non l’ho, non ho la nobile


madre” (Iliade, VI, 410 ss.).
Ettore risponde ribadendo il suo ruolo di difensore
della città unito alla consapevolezza della sconfitta ”…
non tanto dolore io ne avrò per i Teucri…quanto per
te, che qualche acheo chitone di bronzo, trascinerà via
piangente, libero giorno togliendoti: allora, vivendo in
Argo, dovrai per altra tessere tela e portar acqua di Mes-
seide o Iperea, costretta a tutto: grave destino sarà su di
te” (Iliade, VI, 450 ss.). Andromaca sa che con la morte
del marito, non avendo più il padre da cui rifugiarsi
e che ha il potere di riscattarla e farla tornare a casa,
sarà presa prigioniera da qualche principe acheo. Nella
nuova condizione, come ricorda il marito, sarà costretta
a tutto, dal “tessere tela per altra” a dividere il letto con
il suo nuovo padrone. Passerà dallo stato riconosciuto
di padrona della casa alla situazione di prigioniera di
guerra, senza più diritti e senza più un focolare, di cui
era signora.
Il “principe-guerriero” omerico nella stessa casa
può avere la moglie legittima che partorisce figli le-
gittimi a cui trasmettere il proprio nome e i propri
averi, e una o più concubine e prigioniere di guerra.
La concubina è una donna “acquistata” dal padre, pa-
gata e non donata con una dote più o meno sfarzosa.
In quanto tale avrà sempre un ruolo secondario nella
casa, d’ombra, così come la sua prole. Nel primo libro
dell’Odissea Telemaco è accompagnato alla sua stanza
dalla “saggia, fedele” Euriclea “…che un giorno La-
erte si comprò con i suoi beni, giovanissima ancora e
pagò venti buoi…”(Odissea, I, 430 ss.). La donna entra
a far parte della casa di Laerte che se ne invaghisce e la
onora come “fedele sposa”, senza unirsi mai a lei, per
timore delle ire della moglie. La concubina è rappre-
sentata ormai vecchia, ma per un attimo la sua figu-
ra esce dall’anonimato nella descrizione del rapporto
con Telemaco, che “molto tra tutte le schiave amava e
aveva nutrito da bimbo”(Odissea, I, 434 ss.). L’Odissea
svela fugacemente l’esistenza di queste donne all’in-
terno dei palazzi principeschi, donne che vivono tutta
la vita ai margini del nucleo famigliare riconosciuto,
ma che spesso allevano e amano figli non loro con
193
C ristina m arChegiani

amore e attenzioni materne. Euriclea che accompagna


Telemaco nella sua stanza, piega con cura la tunica e
chiude la porta per assicurare un tranquillo sonno al
giovane si muove come una madre.
I poemi omerici, punto di partenza scelto per questo
breve saggio, ci presentano storie di donne vissute in una
società molto antica, prettamente maschile e maschilista,
dove l’essere femminile assume valore relativamente al
posto che l’uomo le assegna nel suo gruppo sociale. Sono
figure che si muovono all’interno delle mura domesti-
che, comunque sottomesse alla volontà dell’uomo, mari-
to o padrone che sia.
Ettore per consolare e rassicurare Andromaca la ri-
chiama ai suoi doveri di padrona di casa: “…su torna
a casa, e pensa alle opere tue, telaio e fuso e alle ancelle
comanda di badare al lavoro; alla guerra penseran gli uo-
mini tutti e io sopra tutti, quanti nacquero ad Ilio” (Iliade,
VI, 490 ss.).
Tracciare una storia della donna greca da qui in poi
non è impresa facile; si rischia di essere approssimativi
e banali su un argomento di cui esiste una corposa let-
teratura specialistica. La Grecia postomerica ha una sto-
ria articolata e complessa nelle vicende socio-politiche,
diversa da regione a regione. Al suo interno si sviluppa
parallelamente una microstoria femminile, quasi sempre
invisibile che noi percepiamo in frammenti, solitamen-
te mediata da uomini, qualsiasi sia la fonte. L’ambiente
scelto per questa breve analisi è il mondo attico che ci
aiuta con importanti testimonianze iconografiche.
Nella Atene di V secolo, Pericle, rivolgendosi alle
donne, dice: “...grande è la reputazione di quella donna
di cui, per lode o biasimo, si parli il meno possibile fra gli
uomini” (Tucidide, Storie, II, 45).
La società ateniese è assolutamente misogina nei con-
fronti delle donne, la più restrittiva di tutto il mondo gre-
co.
Il contratto matrimoniale poneva la moglie in una
condizione di sottomissione nei confronti del marito,
sotto la sua tutela, alla pari di un minore. Il matrimonio
concedeva uno status riconosciuto, ma la vita si svolge-
va quasi esclusivamente celata negli ambienti femminili
della casa (il gineceo). La vita sociale è invece permessa
194
L a Donna neLL ’a ntichità

alle etere e alle suonatrici che partecipano liberamente


ai simposi, dove diventano strumento di intrattenimento
e di piacere dei convitati, e, diversamente, alle sacerdo-
tesse o comunque alle donne impegnate in festività reli-
giose. Nella sfera religiosa sembra esserci il momento di
maggiore autonomia femminile.
“Gli Egiziani hanno costumi e leggi contrari a quel-
li di tutti gli altri popoli. Presso di loro le donne vanno
al mercato e commerciano, mentre gli uomini restano
a casa e tessono” (II, 35). Questo ribaltamento dei ruoli
scandalizzò Erodoto nel suo viaggio in Egitto.
Complementare alle fonti scritte è l’apparato icono-
grafico costituito soprattutto dai vasi figurati. La pittura
vascolare, eco di una più complessa produzione parie-
tale andata perduta, restituisce molte e diverse scene di
vita femminile.
François Lissarrague (Lissarrague 2000) nell’analiz-
zare i temi presenti sui vasi figurati ateniesi evidenzia
come, eccetto il banchetto, le raffigurazioni entro spazi
chiusi siano solitamente pertinenti al mondo muliebre,
anche se non mancano momenti aggregativi femminili
rappresentati in luoghi aperti.
La decorazione vascolare e la forma del vaso sono
complementari. Ecco allora che sulle pissidi o sulle
lekythoi, contenitori di profumi o di gioielli, conserva-
ti negli spazi più intimi della casa, prendono vita fan-
ciulle impegnate a farsi belle o intente a filare. Gruppi
“vocianti” di donne raffigurate su hydrie fanno scorta
di acqua in grosse hydriae. L’acqua è un bene primario
nella casa, compito della buone moglie è controllare che
non manchi mai. La presenza dell’ hydria in deposizioni
funerarie femminili connota la defunta come padrona
dell’oikos.
Anche la forma degli ambienti domestici e l’arreda-
mento delle stanze nascoste escono dall’oblio e rivivo-
no sulle superfici dei vasi: mobili, sedie, letti ricoperti di
preziosi tessuti.
L’osservazione dei vasi figurati, prodotti soprattutto
ad Atene e poi in Magna Grecia, restituisce un ambien-
te nettamente diviso dagli spazi riservati all’uomo nella
quotidianità della vita; tuttavia la gestualità e l’espres-
sione di queste donne “mute” rivelano la loro capacità
195
C ristina m arChegiani

di crearsi rapporti e amicizie reciproche, in una cerchia


esclusivamente femminile (figg. 74).
Timareta, giovane sposa della Laconia, può essere
eletta a simbolo di tutte le fanciulle greche che con il
matrimonio si affacciano ad un nuovo stato della vita,
lasciando la casa paterna:
«Dea di Limnes nel momento di maritarsi, Timareta ti ha
consacrato i tamburelli, la palla che amava, la retina che tratte-
neva i capelli, e le sue bambole le ha dedicate, come
era giusto, essa vergine, alla dea vergine, coi loro vestiti. In
cambio, figlia di Latona,
stendi la mano sulla figlia di Timareto e veglia religiosa-
mente su questa devota figlia» (Antologia, VI, 280).
Dopo il matrimonio le donne entrano a far parte della
comunità dell’oikos, che funziona quotidianamente come
collante aggregativo e solidale intorno alla padrona di casa,
ma anche tra una dimora e l’altra, con un reciproco aiuto. La
sposa è a fianco del marito nei rituali all’interno della casa,
dirige lei stessa la sua piccola comunità religiosa domestica,
ma può uscire per andare al santuario a compiere riti (Bruit
Zaidman 2000). Il lavoro non è contemplato come attività,
ma è auspicata la laboriosità; una delle virtù più importanti
della buona sposa, già nel mondo omerico, era l’operosità,
che viene spesso evidenziata
nella pittura vascolare dove
la signora della casa è ritratta
con fuso e conocchia. Le don-
ne della lekythos di Amasis (fig.
75), intente a lavorare la lana
restituiscono un raro spaccato
di attività femminile descritta
minuziosamente. Fermando-
ci ad un’osservazione e valu-
Figg. 74: Pisside a figure rosse, British Museum
(460 ca.).

196
L a Donna neLL ’a ntichità

tazione “iconografica”, senz’al-


tro la prima e più superficiale,
è innegabile il recupero di dati
che queste immagini offrono
per ricostruire momenti e og-
getti perduti. L’occhio archeolo-
gico va alla minuziosa rappre-
sentazione del telaio verticale,
oggetto mai trovato interamen-
te in scavi archeologici.
L’unicità della lekythos di
Amasis si ritrova nella bella
Fig. 75: Lekythos di Amasis, Metropolitan hydria del pittore di Leningra-
Museum (550-530). do (figg. 76), dove, in un ate-
lier di vasai, è raffigurata una
piccola figura femminile intenta a lavorare. Chi è questa
donna che vediamo concentrata a decorare un grande
cratere, la sola del gruppo che non riceve una corona da
Atena o dalle Nikai?
Donne e uomini sono raffigurati insieme in particolari
momenti della vita comunitaria: matrimoni, riti funerari,
cerimonie religiose, partenza per la guerra. In quest’ulti-
mo caso la donna (moglie o madre) porge al guerriero le
armi per la sua vestizione, assistendolo nella fase delica-
ta che precede la partenza per il combattimento. Nei vasi
con queste scene il ruolo della donna ha una maggiore
centralità rispetto alle fonti scritte.
Ai margini della società femminile “ordinata” e rego-
lamentata dall’uomo troviamo “le donne folli di Dioni-

Figg. 76: Hydria del Pittore di Leningrado. Collezione Intesa San Paolo (460 a.C. ca).

197
C ristina m arChegiani

so” (Bruit Zaidman 2000), le


Baccanti. Esse esprimono il
rovesciamento della società,
sono mogli che non assolvo-
no più ai loro doveri e madri
che dilaniano i propri figli.
Diverse sono le tradizio-
ni dei rituali dionisiaci nei
vari luoghi della Grecia, il
punto di partenza è il rifiuto
del culto di Dioniso da parte
Fig. 77: Baccante col caratteristico tirso ed delle Miniadi, tre sorelle che
un animale in spalla. Vaso attico a figure vivevano nella città beota di
Orcomeno. La leggenda nar-
rosse, 480 a.C. circa. Museo del Louvre.

ra che esse si rifiutarono di seguire le altre donne sulla


montagna per compiere i riti di iniziazione, ma restarono
a casa “ai loro telai”. Dioniso, adirato, le punì renden-
do i telai inutilizzabili. Esse, assalite dalla follia, uccisero
uno dei loro figli e salirono sui monti per fare le Baccanti.
Vennero poi punite dalle altre donne e trasformate in uc-
celli della notte.
In questo mito si intrecciano le varie “anime” delle
donne greche e forse i tormenti interiori che intaccavano
la facciata di “operosa sposa” che le fonti scritte e i vasi
figurati ci hanno restituito. Le Miniadi sconfessano i due
cardini della padrona dell’oikos: la tessitura e la materni-
tà (Bruit Zaidman 2000). La Donna non ha più il fuso tra
le mani, ma un capretto dilaniato (fig. 77).
Tra le regioni dell’Italia meridionale interessate dalla
grande colonizzazione greca, la Basilicata è tra quelle che
hanno restituito importantissime testimonianze archeo-
logiche della fase preellenica, in un ambito in cui manca-
no fonti scritte ed iconografiche.
In questo contesto le donne della Basilicata antica
tornano a vivere attraverso la stupefacente ricchezza dei
loro corredi funerari.
La donna enotria della prima età del ferro viene sep-
pellita “ricoperta” di ornamenti. Il dato archeologico
parla chiaramente a favore della centralità del ruolo fem-
minile nella società di appartenenza e, quindi, nell’oikos.
A Chiaromonte lo scavo di una sepoltura (tomba 635) ha
messo in luce un’inumata con un fuso di bronzo nella
198
L a Donna neLL ’a ntichità

mano sinistra. Il fuso è il corrispettivo archeologico del


telaio omerico; l’anonima signora enotria, che vive in un
nucleo famigliare rilevante all’interno di una società tri-
bale, utilizza gli stessi simboli distintivi delle più famose
spose omeriche a lei contemporanee. Per questa donna,
che vive in un mondo dove la distinzione sociale inizia
dal possesso della terra e di animali, il fuso può richia-
mare anche la proprietà di greggi (Bianco 2002). Le di-
scendenti delle donne enotrie mantengono l’abitudine di
ornarsi vistosamente con parures articolate e pesanti da
portare, tanto che si ipotizza che verosimilmente l’intero
apparato decorativo fosse indossato raramente durante
la vita, mentre diventa una chiara dichiarazione di status
sociale deposto come corredo funerario. La donna scen-
de nel regno dei morti con i segni preziosi del suo status,
parte dei quali verosimilmen-
te sono la dote nuziale (Bottini
1996) (figg. 78).
Tra questi bellissimi e per
noi abbastanza importabili
oggetti di ornamento spiccano
per maestosità e raffinatezza
le ambre, la cui lavorazione si
attribuisce ad artigiani etru-
sco-campani.
In territorio in-
digeno il dato
archeologico
resta per molto
tempo l’unica
documentazio-
ne, anche dopo
il contatto con
i Greci delle
colonie; pos-
siamo dunque

Figg. 78: Proposta di ricostruzione di parure ornamentale dalla tomba 324 di Alianello. (VII sec. a.C. )
(da Museo Archeologico Nazionale di Metaponto. Ornamenti femminili in Basilicata)
“grembiule” in elementi di bronzo dalla tomba 324 di Alianello. (VII sec. a.C. )
(da Museo Archeologico Nazionale di Metaponto. Ornamenti femminili in Basilicata)
Parure dalla tomba 205 di Chiaromonte (VII sec. a.C.).

199
C ristina m arChegiani

continuare a seguire la presenza femminile in questo


contesto solo attraverso i corredi funerari, almeno fino al
V secolo. Alcune sepolture di “altissimo rango” rinvenu-
te a Chiaromonte hanno restituito, insieme a ceramiche
e ornamenti, parte del set per il banchetto, spiedi, ferri
per il fuoco, alari. Quale significato hanno questi oggetti?
Possiamo pensare ad una partecipazione ai banchetti, a
fianco dei propri mariti, in una situazione paritaria e di
scandalo per le vicine greche? O forse sono solo deposi-
zioni simboliche, per rimarcare il prestigio della proprie-
taria della tomba? (Bottini – Setari 1996).
A differenza del mondo greco, dove la letteratura e
l’iconografia tramandano storie e volti della intera so-
cietà femminile, qui la variegata schiera di donne che
non appartengono al ceto dominante resta sconosciuta,
la stessa signora dell’oikos ci appare solo nella sua veste
istituzionale.
Queste donne non hanno volti, non hanno acconcia-
tue e vesti che non siano i tentativi di ricostruzione dai
dati archeologici. A questo riguardo è suggestiva l’ipote-
si dell’utilizzo di guanti preziosamente ricamati sugge-
rita dal confronto tra l’apparato iconografico delle stele
daunie (che descrivono ornamenti molto simili a quelli
della Basilicata) e il ritrovamento di frammenti di tessu-
to conservati sugli anelli in ferro indossati dalla defunta
(Nava 2002).

200
agriPPina Minore
e La SUa aUTobiografia
di Alessandra Lazzeretti

Q
uesto contributo trae origine da un mio testo edi-
to, ormai, una quindicina di anni fa (Lazzeretti
2000). Numerosi sono gli studi pubblicati, nel
frattempo, su Agrippina, su vari aspetti della sua vita,
sulle fonti che la riguardano, ma in essi la sua autobio-
grafia rimane oggetto appena di qualche citazione. Per-
tanto, mi propongo qui di analizzare, approfondire e svi-
luppare alcuni spunti che in precedenza avevo soltanto
accennato.

agrippina Minore: una sintetica biografia


Agrippina minore (Lackeit 1918; Raepsaet-Charlier
1987, n. 426, pp. 365-367 con bibliografia precedente; Eck
1993. Barrett 1996; Ginsburg 2006; Burns 2007, pp. 58-83;
Moltesen – Nielsen 2007) è la sola donna e l’unica esponen-
te femminile della famiglia imperiale di cui le fonti (Tac.
Ann. IV, 53,1-2; Plin. N. H. VII, Praef. e 46; Cass. Dio LX,
33,1) ricordano esplicitamente la stesura, in lingua latina,
di un’opera di carattere autobiografico, purtroppo non
pervenutaci. Pierre Grimal ha immaginato, per così dire,
di ricrearla nel suo “Mémoires d’Agrippine”, composto in
prima persona singolare, come se fosse Agrippina stessa a
parlare, pubblicato in Francia nel 1992 e tradotto in italiano
due anni dopo (Grimal 1992). Non possiamo escludere che
anche altre donne di rango imperiale abbiano scritto delle
opere autobiografiche di cui non ci è giunta notizia, ma,
per quanto ne sappiamo, nel mondo latino l’autobiografia
al femminile era tutt’altro che diffusa (cfr. Noè 1980, p. 172
nota n. 57 con bibl.).
201
alessanDra l azzeretti

Un simile scritto può essere espressione della eccezio-


nalità della sua figura fra le donne della famiglia imperia-
le, ben evidenziata dal maggiore storico dell’epoca, Tacito,
nei suoi Annales, redatti in latino, in 16 libri giuntici incom-
pleti, aventi come oggetto gli anni che vanno dall’ascesa
al principato di Tiberio (14 d. C.) alla morte di Nerone (68
d. C.). Tacito la indicò (Ann. XII, 42, 3), infatti, come donna
che, figlia di un generale (Germanico), sorella di colui che
si era impadronito dello stato (Caligola), moglie e madre di
imperatore (rispettivamente Claudio e Nerone) - in latino
tutti ruoli resi con lo stesso vocabolo, imperator - fino a quel
momento era un caso unico: “...quam imperatore genitam,
sorore eius, qui rerum potitus sit, et coniugem et matrem fuisse
unicum ad hunc diem exemplum est...”.
Sarà utile ricordare che, per Tacito, Agrippina ha una
doppia natura; tipico “prototipo imperiale della donna
con attributi virili”, è, cioè, una donna “...quasi virile...”
(Tac. Ann. XII, 7, 3), una donna che si comporta da uomo
(da ultimo Ginsburg 2006, pp. 9-33 per dettagliata analisi
dell’immagine letteraria di Agrippina in Tacito, pp. 107-
130 per gli stereotipi retorici con i quali viene rappresenta-
ta). In estrema sintesi si può affermare che negli Annales la
sua figura ha la specifica funzione argomentativa e narra-
tiva di incarnare un tipo negativo di femminilità (Ginsburg
2006, p. 20; Cenerini 2009, pp. 68 e 78). Agrippina è una
virago, che ha travalicato, o tentato di travalicare, i ruoli ti-
pici della donna romana, quelli domestici di figlia, moglie,
madre, che antepone il potere ad ogni altra cosa (Tac. Ann.
XII, 65, 2), con una personalità instabile e contraddittoria,
esemplificata dalla nota affermazione tacitiana (Tac. Ann.
XII, 64, 3) secondo cui ella voleva dare l’impero al figlio
ma, poi, non riusciva a tollerarlo al potere (da ultimo Ce-
nerini 2009, p. 79).
Una biografia decisamente peculiare, la sua. Riper-
corriamola per sommi capi. La madre, omonima, detta
maggiore proprio per distinguerla dalla figlia (Raepsaet
– Charlier 1987, n. 812, pp. 634-635, con bibliografia pre-
cedente; Kienast 1996; Burns 2007, pp. 40-57), era nata dal
prolifico matrimonio fra Giulia, l’unica figlia di Augusto,
avuta dalla prima moglie, Scribonia, e Marco Vipsanio
Agrippa (Roddaz 1994), coetaneo, amico e successore desi-
gnato dell’imperatore. Agrippina maggiore sposò Germa-
202
L a Donna neLL ’a ntichità

nico (figlio di Druso maggiore, a sua volta figlio di Tiberio


Claudio Nerone e Livia, divenuta la seconda moglie di
Augusto) e dalla loro unione nacquero numerosi figli (Tac.
Ann. I, 33, l), pronipoti di Augusto e suoi soli discenden-
ti diretti. Agrippina, detta anche minore (Humprey 1979,
pp. 125-143), che in quanto prima delle femmine assunse
lo stesso nome della madre, venne alla luce il 6 novembre
del 15 d. C. in un accampamento presso l’insediamento di
Ara Ubiorum (Tac. Ann. XII, 27), sulla sponda sinistra del
Reno, dove la famiglia aveva seguito Germanico nelle sue
spedizioni militari (Barrett 1996, pp. 230-232).
Durante l’infanzia Agrippina assisté agli intrighi e alle
macchinazioni dell’imperatore Tiberio contro i suoi con-
giunti. Geloso del consenso che Germanico riscuoteva, an-
che grazie alla propria abilità militare (celebrò un trionfo,
in cui i figli lo accompagnarono, cfr. Tac. Ann. II, 41, 4), e
consapevole che la sua prole era l’unica discendenza augu-
stea, Tiberio fu, con ogni probabilità, direttamente respon-
sabile della sua fine misteriosa, avvenuta, forse per avve-
lenamento, presso Antiochia, il 10 ottobre del 19 d. C. (Tac.
Ann. II, 69-73; Suet. Cal. 1, 2; Ios. Ant. Jud. XVIII 54; Cass.
Dio LVII, 18), e indirettamente della morte di sua moglie,
nel 33 d. C., in esilio a Ventotene, dove era stata relegata.
Nel 28 d. C., all’età di 13 anni, per volere di Tiberio (Tac.
Ann. IV, 75), Agrippina contrasse il primo dei suoi matri-
moni (per i quali cfr., ad esempio, Corbier 1995), quello con
il nobile Gneo Domizio Enobarbo; l’imperatore lo aveva
scelto come marito per lei sia per l’antichità della sua fa-
miglia sia perché vantava una consanguineità con la casa
imperiale, essendo figlio di Lucio Domizio Enobarbo e
Antonia maggiore, a sua volta figlia di Marco Antonio e
di Ottavia, sorella di Augusto (Tac. Ann. IV, 75). Gli sposi,
quindi, erano cugini di secondo grado. Dopo 12 anni, pro-
babilmente il 15 dicembre del 37 d. C., dalla loro unione
nacque l’unico figlio di Agrippina, Lucio Domizio Enobar-
bo, il futuro Nerone (Barrett 1996, p. 234 sulle discordanze
tra le fonti pervenuteci riguardo alla data esatta della na-
scita). La scelta di procreare un solo erede era determinata
dalla volontà di mantenere indiviso il patrimonio familia-
re dei Domizi Enobarbi (Ginsburg 2006, p. 21). Accusata
di coinvolgimento nelle congiure ordite contro il fratello,
l’imperatore Caligola, da Gneo Cornelio Lentulo Getulico
203
alessanDra l azzeretti

e Marco Emilio Lepido, alla fine del 39 o all’inizio del 40


d. C. venne allontanata dalla corte e da Roma, dove tornò
nel 41 d. C., dopo l’assassinio di Caligola e l’acclamazione
al soglio imperiale di Claudio, suo zio, a quel tempo spo-
sato con la ventunenne cugina di secondo grado Valeria
Messalina, la sua terza moglie, che gli aveva dato due figli,
Ottavia e Britannico. Nello stesso anno il nuovo impera-
tore chiese a Gaio Sallustio Passieno Crispo, allora marito
di una delle sorelle di Gneo Domizio Enobarbo, Domizia
Lepida maggiore (Barrett 1996, p. 233), di divorziare e spo-
sare Agrippina (Plin. N. H. XVI, 242); l’unione durò fino
al 47 d. C. quando l’uomo morì, lasciando la moglie unica
erede. L’anno successivo, dopo l’oscuro episodio del suo
“adulterio-matrimonio” con Gaio Silio, secondo Tac. Ann.
XII, 12, 2 l’uomo più bello di Roma, Messalina fu condan-
nata a morte con l’accusa di aver attentato alla vita di Clau-
dio (cfr. da ultimo Cenerini 2010 con bibl. e proposta di
interpretazione dell’accaduto in chiave politica). L’impera-
tore doveva, quindi, cercarsi una nuova consorte. Agrip-
pina ebbe facile gioco nello sbaragliare Elia Petina e Lollia
Paolina, le altre principali pretendenti al matrimonio con
Claudio, che circuì, riuscendo a farsi sposare, il 1° gennaio
del 49 d. C., pur essendo sua nipote, grazie ad un decreto
con cui il senato (Tac. Ann. XII, 7, 2; Suet. Claud. XXVI) an-
nullò l’impedimento legale (Malitz 1984, p. 29). Decisivo
appare in Tacito (Tac. Ann. XII, 5-7) il discorso pronunciato
da Vitellio, il futuro imperatore per pochi mesi nel 69 d. C.,
il quale, fra l’altro (Tac. Ann. XII, 6, 3), indica come comune
presso altre genti il matrimonio con la figlia del fratello, del
resto non vietato da nessuna legge romana, e ricorda come
anche le unioni fra cugini fossero divenute col tempo più
frequenti. In occasione delle nozze alla coppia venne dona-
ta quella che è oggi conosciuta come Gemma Claudia, un
cammeo in cui gli sposi sono raffigurati di fronte a Germa-
nico e Agrippina maggiore, tutti ritratti su cornucopie, con
al centro l’aquila che rivolge lo sguardo verso l’imperatore
(per la gemma cfr., ad esempio, Ginsburg 2006, pp. 91-93 e
da ultimo, Talamo 2007). Anche sulla scorta di questa im-
magine, alcuni ritengono che Claudio avrebbe deciso que-
sto matrimonio per sottoporre ad un più stretto controllo
Agrippina (Cenerini 2009, p. 67), sia perché in lei scorre-
va il sangue di Augusto, sia perché l’averla come moglie
204
L a Donna neLL ’a ntichità

contribuiva a rafforzare la sua posizione di princeps (Le-


vick 1990, pp. 70-79), esaltando il suo legame con il fratello
Germanico e la cognata Agrippina maggiore, il cui buon
ricordo era vivo presso il popolo e le truppe, basi fonda-
mentali del consenso imperiale (Cenerini 2010, p. 189). Pri-
ma ancora di sposare Claudio, Agrippina, certa che il suo
matrimonio con lo zio si sarebbe celebrato (Tac. Ann. XII,
3), aveva cominciato ad operare con l’intento di far salire il
figlio al trono. Ne aveva organizzato il fidanzamento con
la figlia di Claudio, Ottavia, che allora aveva 9 anni ed era
già promessa a Lucio Giunio Silano, il quale, ingiustamen-
te accusato di incesto con la sorella Giunia Calvina, venne
espulso dal senato (Tac. Ann. XII, 3-4) e si uccise il gior-
no stesso delle nozze fra Claudio e Agrippina. Per farne il
precettore del figlio, Agrippina ottenne, inoltre, il ritorno
dall’esilio di Lucio Anneo Seneca, uno dei più noti intel-
lettuali dell’epoca (che era stato relegato in Corsica perché
accusato di adulterio con la sorella di Agrippina, Livilla,
cfr. Cass. Dio LX, 8, 5), facendogli ottenere anche la pretu-
ra (Tac. Ann. XII, 8, 2). Claudio aveva avuto da Messalina
un figlio maschio, Britannico, nato 20 giorni dopo la sua
ascesa al trono (Suet. Claud. XXVII, 2), il 12 febbraio 41 d.
C. (Griffin 1984, p. 27), suo legittimo erede e successore,
ma ciò non fu di ostacolo all’adozione (Cass. Dio LX, 32),
la prima nel ramo patrizio della gens Claudia (Tac. Ann. XII,
25), cfr. infra, di Lucio Domizio Enobarbo, che il 25 febbraio
del 50 d. C., all’età di 11 anni (Suet. Nero VII), assunse il
nome di Tiberio Claudio Nerone Cesare, o, più semplice-
mente, Nerone (Tac. Ann. XII, 26). Nel 53 d. C. venne ce-
lebrato il matrimonio (Suet. Nero VII. Cass. Dio LX, 32), il
primo per Nerone, che sanciva ulteriormente il suo legame
con la famiglia di Claudio.
Divenuta “imperatrice” Agrippina ottenne per sé ono-
ri speciali: spostarsi su un cocchio, il carpentum (Tac. Ann.
XII, 42, 2. Cass. Dio LX, 33, 21), il titolo di Augusta, confe-
ritole (per la prima volta in vita) il giorno dell’adozione di
Nerone (Tac. Ann. XII, 26. Cass. Dio LX, 33, 2a), coniazio-
ni di monete con la sua effigie (anche in questo caso per
la prima volta in vita per una donna, cfr. Kolb 2010, pp.
20-21; cfr. anche ampia trattazione sull’effigie monetale di
Agrippina in Ginsburg 2006, pp. 57-79), la proclamazione,
sempre nel 50 d. C., della Colonia Agrippina (oggi Colonia),
205
alessanDra l azzeretti

nel luogo dove era nata e dove andarono a stanziarsi i ve-


terani del padre (Tac. Ann. XII, 27), sulla quale cfr. da ulti-
mo Lamberti 2006 e Kolb 2010, pp. 18-19. In seguito, una
guardia personale di germani, al comando del fedele Sesto
Afranio Burro, prefetto del pretorio.
Il 12 ottobre 54 d. C. Claudio morì, forse per avvele-
namento (Tac. Ann. XII, 67). Pur essendo l’accaduto fun-
zionale ai piani di Agrippina, pur essendoci stati sempre
sospetti su sue eventuali responsabilità (oltre a numerose
altre fonti, cfr., ad esempio, Tac. Ann. XII, 66; Suet. Claud.,
XLIV; Cass. Dio LX, 34, 2, e 3), sarà opportuno ricordare
che non c’è nessuna prova di un avvelenamento volonta-
rio (Levick 1990, pp. 77-80; Cenerini 2009, p. 70). Il giorno
seguente, a mezzogiorno, Nerone, a soli 16 anni e 10 mesi,
fu proclamato imperatore, dopo che il senato ebbe ratifica-
to l’acclamazione dei pretoriani (Tac. Ann. XII, 69, 3; Suet.
Nero, VIII): il disegno di Agrippina si era, così, compiuto.
Nuovi onori eccezionali le furono decretati dal senato: due
littori e la carica di sacerdotessa del divo Claudio (Tac.
Ann. XIII, 2, 6), come era accaduto in precedenza per la bi-
snonna Livia nel caso di Augusto (cfr. Fasolini 2006, p. 177,
nota n. 11).
Burrascosi, alterni e storicamente controversi furono i
rapporti fra madre e figlio (da ultimo Ginsburg 2006, pp.
35-45), il quale, appena salito al trono, scelse come parola
d’ordine per le guardie “Optima mater”, “la migliore del-
le madri” (Tac. Ann. XII, 2, 3. Suet. Nero IX), proprio a ri-
marcare lo stretto legame esistente fra loro e, forse, anche
il fatto che doveva solamente a lei l’impero (come lei stessa
urla nella versione tacitiana di Ann. XIII, 14, 3, cfr. anche
infra, che trova ampia corrispondenza in Cass. Dio LXI, 7,
3 dove Agrippina ricorda a Nerone che era stata lei a farlo
diventare imperatore, cosa che egli pare ammettere aper-
tamente, cfr. Cass. Dio LXI, 13, 2, solo nel salutarla prima
del fallito tentativo di assassinarla nel naufragio, cfr. infra).
Mentre Agrippina sollecitava Nerone perché avesse
quanto prima un erede da Ottavia, egli intrecciò una rela-
zione con la liberta Claudia Atte; quando la madre lo ven-
ne a sapere lo rimproverò aspramente ma senza riuscire a
far cessare il rapporto, pur osteggiandolo (Tac. Ann. XIII,
12, 1). Furibonda, fece, tra l’altro, giungere alle orecchie del
figlio il suo appoggio a Britannico (Tac. Ann. XIII, 12, 2),
206
L a Donna neLL ’a ntichità

cfr. anche infra, che stava per raggiungere la maggiore età


(Tac. Ann. XIII, 15, 1). Nel 55 d. C., durante un banchetto,
anche Britannico, già sfuggito ad analogo tentativo di as-
sassinio da parte dei suoi stessi pedagoghi corrotti da Ne-
rone (Tac. Ann. XIII, 15, 4), morì per avvelenamento (Tac.
Ann. XIII, 16, 3), con ogni probabilità ordinato proprio da
Nerone (Tac. Ann. XIII, 15, 3; Suet. Nero, XXXIII), all’oscuro
di Agrippina, che, presente all’accaduto, non riuscì a celare
lo spavento che si dipinse sul suo volto (Tac. Ann. XIII, 16,
4); nell’assassinio di Britannico vedeva, infatti, un presa-
gio della sua stessa fine (Tac. Ann. XIII, 16, 4), del resto già
profetizzatale: suo figlio era destinato a regnare, ma anche
ad uccidere la madre (Tac. Ann. XIV, 9, 3; Cass. Dio LXI, 2,
2). Contemporaneamente Nerone la estromise dalla corte,
riservando a sé il palazzo e assegnandole la dimora che
una volta era stata di Antonia - la figlia che Claudio aveva
avuto dalla seconda moglie, Elia Petina - , allontanandola
da ogni coinvolgimento sulla scena politica, la privò di tut-
ti i suoi onori e privilegi, togliendole non solo le guardie
pretoriane che aveva avuto prima come moglie dell’im-
peratore e che aveva conservato come madre del nuovo
principe (Tac. Ann. XIII, 18, 3), ma anche la scorta di ger-
mani (Suet. Nero XXXIV), da poco assegnatale come segno
di particolare onore (Tac. Ann. XIII, 18, 3). La sua immagine
scomparve anche dalla monetazione (cfr. da ultimo Cada-
rio 2011, p. 180).
Già difficilissimi e molto tesi, i loro rapporti si incrina-
rono in modo definitivo nel 58 d. C., dopo il ripudio di Ot-
tavia e il matrimonio di Nerone con Poppea Sabina (Suet.
Nero XXXV), ex moglie di Otone, un altro dei futuri effime-
ri detentori del potere del 69 d. C., e già da qualche tempo
nuova amante dell’imperatore. Nerone maturò il propo-
sito di liberarsi della madre (Tac. Ann. XIV, 3, 1) perché,
in qualunque luogo ella fosse, anche lontano dalla corte,
riteneva la sua presenza pericolosa, dato che Agrippina,
dal 55 d. C., rinsaldati i rapporti con Ottavia, tessendo una
fitta rete di amicizie e di alleanze, non aveva cessato di cer-
care appoggi e alleati tra i senatori e i pretoriani, nonché di
accumulare scorte di denaro (Tac. Ann. XIII, 18, 2). Tentò
di avvelenarla in più occasioni ma lei, sospettandolo, ri-
uscì a sopravvivere perché si era premunita con antidoti
(Tac. Ann. XIV, 3, 2; Suet. Nero XXXIV). Il 4 marzo del 59
207
alessanDra l azzeretti

d. C. Nerone, cambiata strategia, mise in atto un altro pia-


no: con il pretesto di una riconciliazione, invitò la madre a
Baia, inscenando un finto naufragio nel quale ella avrebbe
dovuto trovare la morte, apparentemente per un incidente
(Tac. Ann. XIV, 4-5; Cass. Dio LXI, 13, 3). Ma Agrippina si
salvò a nuoto, rifugiandosi nella sua villa al lago Lucrino
(Tac. Ann. XIV, 6-7; Cass. Dio LXI, 13, 4); qui la raggiunse
il sicario cui il figlio aveva dato un pugnale con l’espresso
ordine di ucciderla: le sue ultime parole, dirette all’assas-
sino, furono “colpisci il ventre” (Tac. Ann. XIV, 8, 5. Cass.
Dio LXI, 13, 5); intendendo, con questo, che il colpo di
grazia avrebbe dovuto esserle sferrato al ventre che aveva
generato Nerone (per la morte di Agrippina cfr. da ultimo
Ginsburg 2006, pp. 46-53).

Definizione e contenuto dell’opera autobiografica


di agrippina, tempi di redazione
Commentarii è il vocabolo con cui Tacito indica lo scritto
autobiografico di Agrippina minore (Ann. IV, 53, 2), defini-
zione che trova un esatto parallelo nel greco τά υπομνήματα
di Cassio Dione (LX, 33, 1). Con esso si designavano, fin
dal III sec. a. C., i sintetici rapporti sul proprio operato bel-
lico, contenuti in epistole che i comandanti inviavano al se-
nato (von Premerstein 1901; Lewis 1993, pp. 633 e 652). Nel
corso del tempo il significato della parola si estese ad indi-
care ogni sorta di racconto riguardante una propria espe-
rienza, non necessariamente legata alla sfera militare, ma
a qualsiasi ambito dell’intera vita dell’autore, in sostanza
ad ogni opera di carattere autobiografico. Con la redazio-
ne di una autobiografia Agrippina si inseriva in un filone
che, nel mondo romano, aveva avuto origine nella tarda
età repubblicana, al termine del II sec. a. C., in corrispon-
denza con l’emergere di magistrati che avevano avvertito
l’esigenza di difendere il proprio operato politico (per una
sintesi, cfr., ad esempio, Lazzeretti 2000, pp. 178-181). Una
attività, quella di scrivere le proprie memorie, di carattere
tipicamente maschile, dunque, cfr. supra. La redazione di
una autobiografia può essere considerato un altro dei se-
gni della duplice natura di Agrippina minore, cfr. supra, un
altro dei modi in cui si manifesta il suo essere “quasi virile”?
208
L a Donna neLL ’a ntichità

Tacito (Ann. IV, 53, 2) fornisce quella che può essere in-
tesa come una definizione concisa del contenuto dell’ope-
ra autobiografica di Agrippina minore: “...Neronis principis
mater vitam suam et casus suorum posteris memoravit...”, la
narrazione ai posteri dei fatti salienti della sua vita, dalla
nascita al momento della stesura, ma anche delle vicen-
de riguardanti la sua famiglia, una delle quali è proprio
oggetto del racconto tacitiano (per un commento all’inte-
ro capitolo 53 del IV libro degli Annales cfr. Köestermann
1965, pp. 166-168 e Martin - Woodman 1989, pp. 218-219).
Lo storico ne trae la notizia della richiesta avanzata a
Tiberio, nel 26 d. C., da Agrippina maggiore, di trovarle
un nuovo marito (Tac. Ann. IV, 53. Peter, HRR, fr. 1), cosa
che sarebbe avvenuta senza difficoltà perché molti uomi-
ni avrebbero sicuramente ritenuto un onore accogliere la
vedova e i figli di Germanico (Ann. IV, 53; l). Ma l’impera-
tore, consapevole di quale importanza avesse per lo stato
un nuovo matrimonio di Agrippina maggiore, e tuttavia
non volendo manifestare apertamente la sua avversione
o il suo timore, la lasciò senza alcuna risposta (Ann. IV,
53, 2). Non diversamente era accaduto l’anno precedente
quando Livilla, sorella di Germanico e vedova di Druso
minore, morto nel 23 d. C, gli aveva chiesto il permesso
di sposare Seiano (Tac. Ann. IV, 39-41). Pur facendo uso
in altri casi, come in seguito per la stessa Agrippina mi-
nore, di strategie matrimoniali (cfr. ad esempio, Corbier
1995, pp. 188-189), Tiberio manifestò una decisa volontà
di non concedere il permesso per un nuovo matrimonio
ad Agrippina maggiore. L’opinione al riguardo non è
univoca fra gli studiosi: c’è chi, come Syme (Syme 1967,
vol. I, p. 367), ha osservato che la richiesta di Agrippi-
na maggiore era importante per le implicazioni che un
nuovo matrimonio della vedova di Germanico avrebbe
avuto; chi, come Barrett (Barrett 1996, pp. 198-199), pur
rilevando la correttezza dell’interpretazione di Syme,
evidenzia che le nuove nozze non ebbero luogo e ritiene
che Tacito narri l’episodio, precisando che non era noto
da altre fonti, non per rimarcarne l’importanza politica,
ma soprattutto per mostrare la sua accuratezza nel do-
cumentarsi; infine chi, come Lewis (Lewis 1993, p. 653
nota nr. 76), pensa che l’interpretazione in chiave politica
della richiesta di Agrippina maggiore a Tiberio fosse già
209
alessanDra l azzeretti

esplicita nell’opera della figlia e che Tacito si sarebbe sol-


tanto limitato a riprenderla.

Nella definizione di Tacito rientrano anche i brani degli


altri due autori che citano esplicitamente l’opera, Plinio e
Cassio Dione. Il primo, di rango equestre, uomo politico
(fu tra l’altro capo della flotta di Miseno, veste nella qua-
le trovò la morte durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.
C.) ed erudito, redasse, nel I sec. d. C., la Naturalis Histo-
ria, un’opera enciclopedica in latino, in 37 libri; il secon-
do, anch’egli uomo politico (fu, tra l’altro, console per due
volte) di età severiana, originario della Bitinia, scrisse, in
greco, una storia romana, in 80 libri, giuntaci in modo in-
completo, narrando gli eventi dalla venuta di Enea nella
penisola italica al suo secondo consolato, nel 229 d. C.
Nel libro VII della Naturalis Historia, dedicato all’essere
umano, Plinio racconta un elemento riguardante sia le vicis-
situdini familiari di Agrippina sia la sua vita, cioè il partico-
lare della venuta al mondo per i piedi di Nerone (Ν. H. VII,
46; Peter, HRR, fr. 2), nel 37 d. C., nascita che Plinio (N. H. VII,
45) definisce contro natura, perché i bambini generalmente
nascono per la testa (N. H. VII, 46). Era venuto alla luce in
questo modo anche il bisnonno di Nerone, Marco Vipsanio
Agrippa, padre di Agrippina maggiore (cfr. supra), il quale,
secondo Plinio, aveva derivato il suo cognomen proprio da
questa particolare modalità di nascita (N. H. VII, 45).
Cassio Dione, o la sua fonte, in un passo sfuggito ai più
(LX, 33, Ι Excerpta Valesiana 231 p. 678) come esplicita indi-
cazione di citazione (Peter non lo inserì nel suo elenco, cfr.
Peter, HRR, e nessuno degli autori di testi monografici su
Agrippina o di contributi specifici riguardanti, almeno in
parte, i suoi commentarii, ha citato il brano di Cassio Dione
fra quelli indicati espressamente come derivati dall’opera;
Barrett 1996, p. 198, anzi, ribadisce che oltre a Tac. Ann.
IV, 53 e Plin., N. H. VII, 46 non possediamo altre citazio-
ni esplicite dei commentarii, pur avendo incluso il brano di
Cassio Dione nell’elenco completo delle fonti letterarie su
di lei, cfr. p. 213), trae dall’opera una circostanza riguar-
dante la vita di Agrippina quando ella è moglie dell’im-
peratore Claudio, affermando che era solita salutare pub-
blicamente coloro che lo desideravano. Il saluto pubblico
di Agrippina viene ricordato nella narrazione degli eventi
210
L a Donna neLL ’a ntichità

del 51 d. C. come testimonianza del ruolo da lei assunto


accanto a Claudio, nella connotazione fortemente negativa
datane da Cassio Dione: Agrippina aveva ormai maggior
potere di lui in vari settori (cfr. anche Cass. Dio LX, 33, 3a)
e nessuno tentava in alcun modo di opporlesi (per l’imma-
gine letteraria di Agrippina in Cassio Dione cfr. da ultimo
Ginsburg 2006, pp. 33-35).

Con ogni probabilità Tacito consultò l’opera di Agrip-


pina direttamente (Ann. IV, 53, 2: “repperi in commentariis
Agrippinae filiae”, “ho trovato nei commentari di Agrippina
minore”), mentre rimane difficile stabilire se Plinio e Cas-
sio Dione (per il quale cfr. Sordi 1999, pp. 17 e 23) ne abbia-
no fatto un uso diretto o attraverso una fonte intermedia.

I tre episodi trattati da Tacito, Plinio e Cassio Dione si ri-


feriscono a tre momenti ben diversi della vita di Agrippina
e dei suoi familiari: la richiesta di poter contrarre un nuovo
matrimonio fu avanzata da Agrippina maggiore a Tiberio
quando la figlia aveva 11 anni; Agrippina minore parto-
rì Nerone all’età di 22 anni (26 per Ios. Ant. Jud. XX, 149);
dopo aver sposato, nel 49 d. C., quando aveva 34 anni,
l’imperatore Claudio, ella assunse accanto a lui un ruolo di
sempre maggior rilevanza. Sono tre fasi ben distinte: nella
prima Agrippina è ancora la figlia di Germanico e Agrip-
pina maggiore, nella seconda è la madre di Nerone, nella
terza è la moglie di Claudio.
Le diverse circostanze esplicitamente indicate dalle fon-
ti come tratte dai suoi commentarii suggeriscono differenti
ipotesi sui loro tempi di redazione (Barrett 1996, p. 198
elenca e discute le differenti tesi degli studiosi al riguar-
do). Sinteticamente, a giudizio di alcuni ella li compose
durante il regno di Claudio, per pianificare la successione
del figlio, usando la sua propaganda anche per bilanciare
la chiara ostilità di Messalina nei suoi confronti e in quelli
di Nerone (ostilità per la quale cfr. da ultimo Cenerini 2010,
p. 189): in tal caso avrebbe cessato di scriverli al momento
in cui sarebbe divenuta la moglie di Claudio; secondo altri,
quando Nerone era già divenuto imperatore, dopo il 55 d.
C., durante il periodo di forzata assenza dalla scena politi-
ca, e li pubblicò nel giro di poco tempo, per legittimarne il
potere (Bardon 1953, p. 172).
211
alessanDra l azzeretti

altri brani che potrebbero derivare dall’opera

Ci si potrebbe chiedere se altri brani, soprattutto degli


Annales di Tacito, ma non solo, possano risalire all’autobio-
grafia di Agrippina. Le differenti tesi riguardo alla possi-
bilità di riconoscere un’eco dell’opera in altri autori sono
elencate e discusse da ultimo in Barrett 1996, pp. 199-208,
in particolare p. 199 per Tacito e Plinio, pp. 203-204 per
Cassio Dione. L’attenzione degli studiosi si è concentrata,
per lo più, sul testo di Tacito. Molto brevemente, si va dalla
posizione Motzo (Motzo 1927) che sosteneva la derivazio-
ne dall’autobiografia di Agrippina di tutti i brani tacitiani
riguardanti i familiari della donna, a quella di Fabia (Fa-
bia 1893), con cui in seguito ha concordato Walker (Walker
1952), secondo il quale la citazione esplicita contrassegna
l’unico caso in cui Tacito ha utilizzato l’opera, che viene
espressamente indicata proprio perché non è una fonte di
cui lo storico si serve abitualmente. Syme (Syme 1967, vol.
I, p. 367, nota n. 39) riteneva quelle di Motzo e di Fabia
“...ipotesi estreme...”. Più recentemente Sage (Sage 1990,
pp. 1007 e nota n. 797 con bibliografia precedente) pensa
che non ci siano chiare evidenze dell’uso dei commentarii
di Agrippina da parte di Tacito in altri passi degli Annales.
Minore l’interesse degli studiosi per Plinio e Cassio Dione:
Motzo, ad esempio, pensava che Plinio potesse aver tratto
dai commentarii di Agrippina tutto il materiale relativo alla
fertilità di alcune delle donne della casa imperiale, come
Livia e Agrippina maggiore, nonché quello riguardante gli
ultimi tempi del principato augusteo e gli intrighi di Ti-
berio, mentre riteneva più difficile individuare quanto ne
avesse ricavato Cassio Dione, anche perché il suo testo ci è
pervenuto per lo più tramandato da epitomi.

Tacito racconta la preghiera di Agrippina maggiore a


Tiberio (Tac. Ann. IV, 53) in un contesto riguardante i dif-
ficili rapporti (per i quali cfr. anche Suet. Tib. LIII) fra la
vedova di Germanico e l’imperatore. Anche se è difficile
dire in quale misura (Lewis 1993, p. 655), tutti e tre i capi-
toli (Ann. IV, 52-54) potrebbero derivare, almeno in parte,
dall’opera autobiografica di Agrippina (la pensa così, ad
esempio, Wood 1988, p. 424: lo storico citerebbe espressa-

212
L a Donna neLL ’a ntichità

mente i commentarii solo in un caso perché gli altri episodi


erano a lui noti anche da altre fonti).
Nel capitolo precedente (Ann. IV, 52) Tacito mostra
Agrippina maggiore, che, venuta a conoscenza delle accu-
se mosse contro la cugina Claudia Pulcra, accorre dall’im-
peratore e, trovatolo intento a compiere un sacrificio al
padre, lo rimprovera perché mentre sacrifica vittime al
divino Augusto contemporaneamente ne perseguita i di-
scendenti. Ella si proclama (Ann. IV, 52, 3) imago vera del
divino Augusto, caelesti sanguine orta, “immagine vera del
divino Augusto, nata da stirpe divina” (per l’idea dinastica
della discendenza da Augusto cfr., ad esempio, Gagè 1931,
p. 18), parole che scatenano la veemente reazione di Tibe-
rio il quale, afferratala per una mano, le grida, citando un
verso greco, che “la vera ragione per cui si sentiva offesa
era perché non regnava”.
In occasione dei funerali di Germanico, Tiberio era sta-
to fortemente impressionato dalle accese simpatie che tutti
mostravano verso la vedova, che chiamavano “onore del-
la patria, sola vera discendente di Augusto, unico esem-
pio dell’antica virtù” “...cum decus patriae, solum Augusti
sanguinem, unicum antiquitatis specimen appellarent...” (Tac.
Ann. III, 4, 2). Agrippina Maggiore era già apparsa come
discendente dell’ “ultimo sangue” di Augusto in altri
due momenti fondamentali (per il leit-motiv di Agrippina
maggiore presentata negli Annales di Tacito come ultimo
sangue di Augusto cfr. Questa 1960, p. 145 e nota n. 60).
Durante le operazioni belliche in Germania, ella, con un
figlio piccolo e incinta del secondo, si rifiutava di lasciare il
marito per mettersi al sicuro affermando che “...cum se divo
Augusto ortam neque degenerem ad pericula testaretur...”, “co-
lei che aveva avuto origine dal divino Augusto non era de-
genere di fronte ai pericoli” (Ann. I, 40, 3). Nel discorso che
aveva rivolto agli amici sul letto di morte, Germanico ave-
va ricordato che la moglie era “...divi Augusti nepotem...”,
“nipote del divino Augusto” (Ann. II, 71, 4), espressione
usata da Tacito anche nella prima occasione in cui l’aveva
presentata (Ann. I, 33, l).
Nel capitolo successivo (Ann. IV, 54) si narrano, invece,
le manovre ordite da Seiano per mettere in guardia Agrip-
pina maggiore dal partecipare ai ricevimenti di Tiberio, fa-
cendole credere, tramite persone che le si fingono amiche,
213
alessanDra l azzeretti

che questi sta pensando di avvelenarla; durante un ban-


chetto ufficiale ella non tocca cibo e passa direttamente ai
servi, senza accostarle alla bocca, delle mele offertegli per-
sonalmente dall’imperatore. Tiberio non le rivolge parola
ma dice a Livia che non si sarebbe meravigliato se fosse
stato costretto a prendere qualche severo provvedimento
contro colei dal quale era accusato di veneficio (cfr. anche
Suet. Tib. LIII).
La derivazione di questi passi (Ann. IV, 52 e 54) dai com-
mentarii di Agrippina potrebbe trovare una conferma nel
brano in cui l’opera autobiografica è espressamente citata
(Tac. Ann. IV, 53). La figlia deve aver difeso la madre, par-
lando dei difficili rapporti che Agrippina maggiore aveva
con Tiberio, di fronte al quale ella insisteva sul suo caelestis
sanguis e sulla sua discendenza dal fondatore dell’impe-
ro. La figura della madre deve essere stata per Agrippina
minore un importante punto di riferimento ed è stato os-
servato come ella tendeva a dare di sé (come avviene, ad
esempio, nelle arti figurative, cfr. Wood 1988, pp. 423-424)
un’immagine modellata su quella di Agrippina maggiore,
per attirare simpatia per le proprie sorti, presentandosi
come vera discendente di Augusto.
Da questi brani si evincerebbe che lo scopo di Agrip-
pina con la stesura della sua autobiografia era, tra l’altro,
quello di confutare ogni scusa addotta da Tiberio per giu-
stificare il suo comportamento nei confronti della famiglia
di Germanico e di gettare discredito su colui che era stato il
principale nemico dei suoi genitori e dei suoi fratelli (Syme
1993, p. 209), in particolare, tra essi, di Nerone maggiore e
Druso maggiore (per le loro morti cfr. Noè 1980, p. 168).
Il primo era stato relegato a Ponza, dove, nel 31 d. C, fu
costretto a suicidarsi dal carnefice che, come se fosse sta-
to inviato dal Senato, gli mostrò gli strumenti con il quale
lo avrebbe ucciso (Suet. Tib. LIV); il secondo fu rinchiuso
nelle segrete del Palatino, dove, privato degli alimenti, si
spense per inedia nel 35 d. C. (Suet. Tib. LIV. Tac. Ann. VI,
23-24). Del suo rapporto con la famiglia di Germanico l’im-
peratore doveva aver dato la propria versione nella sua
opera autobiografica. Suetonio - biografo di età adrianea,
che come ab epistulis (Hist. Aug. Hadr. 11, 3), a studiis e a
bybliothecis aveva accesso diretto agli archivi imperiali, e
che fu autore di quelle che noi definiamo le “vite dei 12
214
L a Donna neLL ’a ntichità

cesari”, biografie, in latino, degli imperatori da Cesare, da


lui considerato il vero fondatore della forma di governo
imperiale, a Domiziano - sostiene (Suet. Tib. LXI), infatti,
che Tiberio, nel suo commentarius de vita sua (Peter, HRR,
II, CXVIIII e p. 92), redatto in latino (Suet. Tib. LXI), ave-
va osato scrivere di aver ucciso Seiano, punendolo dopo
aver scoperto il suo odio nei confronti dei figli di Germa-
nico, mentre proprio lui aveva fatto uccidere uno di essi
quando Seiano era già in disgrazia, e l’altro quando era
già caduto. Indipendentemente dal problema se vi fosse
nell’opera autobiografica di Tiberio una tendenza apolo-
getica o se egli avesse voluto solo dare un breve resoconto
del suo principato (a favore della tendenza apologetica cfr.
Questa 1960, p. 191; Noè 1980, p. 168; contro Lewis 1993,
p. 655), uno degli intenti con cui Agrippina scrisse i suoi
commentarii potrebbe essere stato proprio quello di mettere
nella giusta luce quanto l’imperatore aveva sostenuto nel-
la sua autobiografia riguardo alle vicende di Germanico,
di Agrippina maggiore e dei loro figli. La propaganda del
ramo giulio della dinastia imperiale doveva costituire uno
dei temi principali (Lewis 1993, p. 655) dei commentarii di
Agrippina (per il valore della propaganda del ramo giulio
della famiglia imperiale cfr. ad esempio Trillmich 1978, p.
185).
Anche il particolare della nascita podalica di Nerone
(non menzionato da Suetonio, che, pure, racconta fre-
quentemente prodigi e segni) potrebbe essere stato narrato
nell’autobiografia di Agrippina. Ricordandone la venuta al
mondo per i piedi, generalmente valutata come un evento
che ella aveva raccontato per il trauma che le aveva causato
(è l’opinione di Barrett 1996, p. 198), Agrippina potrebbe,
invece, a mio giudizio, aver voluto accomunare il figlio al
bisnonno Agrippa, dal cui matrimonio con Giulia, la figlia
di Augusto, aveva avuto origine il ramo giulio della dina-
stia imperiale, ramo da cui Nerone discendeva (cfr. supra).
A favore dell’interpretazione che propongo sarà opportu-
no segnalare, per inciso, come la discendenza di Agrippi-
na da Agrippa sia messa in rilievo da Cassio Dione (LXI,
14, 1) il quale, al momento della morte, la definisce “figlia
di Germanico, nipote di Agrippa, pronipote di Augusto”.
Agrippina poteva collegare, così, la nascita podalica con
il diritto all’imperium, diritto che Nerone avrebbe avuto
215
alessanDra l azzeretti

non solo come progenie del sangue di Augusto, in linea


esclusivamente femminile (Cenerini 2002, p. 83), ma anche
come discendente del successore da lui designato (dopo la
morte prematura, nel 23 d. C., di Marcello, figlio della so-
rella di Augusto, Ottavia, il primo prescelto a succedergli).
In tal caso, quello che era generalmente ritenuto un presa-
gio negativo (e che appare tale anche nella formulazione
di Plinio N. H. VIl, 45-46 dove Agrippa è indicato come
l’unico esempio di felicità tra tutti coloro che erano nati in
quel modo, ma tale assunto positivo iniziale viene subito
corretto da una lunga serie di elementi negativi), nascere
per i piedi, sarebbe divenuto, nella propaganda di Agrip-
pina in favore del figlio, un augurium da interpretare po-
sitivamente. A mio avviso non si spiega altrimenti perché
ella ne avrebbe parlato, soprattutto se si confronta questo
con altri segni, in questo caso di buon augurium, cfr. anche
infra, ricordati da altre fonti. Per Lewis (Lewis 1993, p. 653)
due sono le sole opzioni possibili riguardo alla menzio-
ne della nascita podalica neroniana: Agrippina potrebbe
averla ritenuta di cattivo augurium e averla ricordata solo
se compose i suoi commentarii quando i rapporti fra lei e il
figlio erano ormai deteriorati; oppure potrebbe non aver-
gli attribuito una connotazione negativa e averla citata per
sottolineare il suo legame con il figlio nel momento in cui
Nerone cominciava a staccarsi da lei. Mi sembra difficile
sostenere che Agrippina non ritenesse la nascita per i piedi
di cattivo augurio; proprio perché sapeva bene che que-
sta era la credenza comune l’aveva, secondo me, ricordata
nelle sue memorie, ribaltandone il significato attraverso
l’illustre precedente di suo nonno, che aveva saputo tra-
sformare l’iniziale presagio negativo di questa nascita in
una vita illustre e prestigiosa, fino ad essere designato da
Augusto come suo successore, e a consentire, attraverso la
sua progenie, la prosecuzione del ramo giulio della fami-
glia imperiale.
Pur in assenza di dichiarazione esplicita, Plinio po-
trebbe aver utilizzato lo scritto di Agrippina anche in altre
parti della sua opera (sulle diverse posizioni degli studiosi
cfr. Barrett 1996, p. 199), in particolare nello stesso VII li-
bro dove ella compare ex auctoribus, nell’elenco delle fon-
ti, come Agrippina Claudi. È probabile che sia questo, ad
esempio, il caso di un altro particolare personale, scevro
216
L a Donna neLL ’a ntichità

da evidenti significati storico-politici, ma semplice detta-


glio privato avvicinabile a quello della nascita podalica di
Nerone, il doppio canino che Agrippina aveva nella parte
destra della mascella superiore, segno di buon augurio: chi
aveva questa singolare dentatura era baciato dalla fortuna
(N. H. VII, 71); ci si potrebbe spingere ad ipotizzare che lei
abbia ricordato questo particolare nella sua autobiografia
proprio come sicuro simbolo positivo, per sé e per la pro-
pria discendenza.

Potrebbe derivare dai commentarii di Agrippina anche


una notizia positiva riferita da Suetonio, secondo il quale
Nerone era nato “... exoriente sole...”, “al primo sorgere del
sole, i cui raggi l’avevano toccato quasi prima della terra”
(Suet. Nero VI), e confermata da Cassio Dione (Cass. Dio
LXI, 2, 1), secondo cui i raggi luminosi che lo avvolsero
alla sua nascita, prima dell’alba, non avevano origine dal
sole. D’altronde, la sua venuta al mondo fu segnata da altri
elementi sicuramente negativi: dalla sua nascita molti tras-
sero tremende congetture (Suet. Nero VI) e il padre stesso
affermò che da lui e dalla moglie non poteva nascere nien-
te di buono (Suet. Nero VI; Cass. Dio LXI, 2, 3).
Agrippina avrà voluto opporre a questi presagi negati-
vi, nascita podalica compresa, una propaganda favorevole,
facendo, probabilmente, ricorso alla narrazione di segni e
prodigi che dovevano mostrare il diritto del figlio all’impe-
rium, e interpretando in tal senso anche la nascita podalica
grazie al precedente familiare dinastico di Agrippa: il suo
scritto presenterebbe caratteristiche proprie dell’autobio-
grafia cosiddetta di tipo “carismatico” (Momigliano 1974,
p. 75), cioè di quella autobiografia, originaria del mondo
greco, largamente diffusa nel mondo romano, che faceva
largo ricorso a segni, prodigi e presagi favorevoli per mo-
strare il personaggio oggetto del racconto come investito
di una missione divina e ribadire il suo diritto divino a de-
tenere il potere. Abbiamo già visto, cfr. supra, come Agrip-
pina considerasse l’impero “una sorta di proprietà perso-
nale” e che, proprio sulla base del sangue, rivendicasse “il
diritto di avere una parte attiva nella scelta del princeps”
(cfr. rispettivamente Cenerini 2009, pp. 83 e 79). Bastino tre
indizi, tra quelli ricordati dalle fonti, della spes dominationis
(Tac. Ann. XIV, 2, 2), cfr. anche infra, che la animava, del suo
217
alessanDra l azzeretti

desiderio di esercitare il potere, che, tuttavia, nel mondo


romano era allora impensabile per una donna, se non at-
traverso la mediazione maschile (Ginsburg 2006, p. 47; Ce-
nerini 2009, p. 79). Due sono relativi al principato di Clau-
dio, l’altro agli inizi di quello di Nerone. Durante il trionfo
di Claudio sulla Britannia, Agrippina, che assisteva al cor-
teo trionfale assisa su un suggestum non lontano da quello
dell’imperatore, ricevette al pari di Claudio l’ossequio del
capo britannico catturato, Carataco, e dei suoi familiari;
“era una cosa nuova e contraria agli antichi costumi che
una donna sedesse dinanzi alle insegne delle coorti roma-
ne: Agrippina voleva imporre se stessa, come partecipe di
un impero che i suoi antenati avevano fondato” (Tac. Ann.
XII, 37, 4). Alla battaglia navale nel lago Fucino, allestita
per celebrare la realizzazione di un canale di collegamento
dello specchio d’acqua con il fiume Liri, Agrippina presen-
ziò, non lontano da Claudio, vestita di una “chlamys aura-
ta” (Tac. Ann. XII, 56, 3; Plin. N. H. XXXIII, 63; Cass. Dio LX,
33, 3), una “clamide dorata”, abbigliamento decisamente
inusuale per le donne, equiparabile al paludamentum mi-
litare maschile, indossato nell’occasione dall’imperatore
(Kaplan 1979). Mentre Nerone riceveva gli ambasciatori
degli Armeni, Agrippina – che assisteva non vista, nasco-
sta dietro una cortina, alle sedute senatoriali, per questo
convocate appositamente nel palazzo (Tac. Ann. XIII, 5, 1;
Cass. Dio LXI, 3, 3-4) – si preparò a salire sul suggestum im-
periale e a sederglisi accanto, pericolo evitato in extremis da
Seneca che invitò Nerone ad andare incontro alla madre,
ovviando allo scandalo che il comportamento di Agrippi-
na avrebbe causato, con il pretesto di un gesto filiale (Tac.
Ann. XIII, 5, 2) o, secondo Cassio Dione, da Seneca e da
Burro insieme (Cass. Dio LXI, 3, 3-4).

Il motivo del serpente, da un lato tradizionalmente


associato con una nascita divina e dall’altro interpretato
come un presagio di regno, presente, pur in forme diverse,
in tutte e tre le principali fonti conservate relative a que-
sto periodo (nel racconto degli avvenimenti degli anni del
principato neroniano ci sono chiaramente delle fonti comu-
ni fra Tacito, Suetonio e Cassio Dione, cfr. da ultimo Sage
1990, pp. 1015-1016 e Gowing 1997, pp. 2563-2554, entram-
bi con bibliografia precedente), potrebbe risalire anch’esso
218
L a Donna neLL ’a ntichità

ad Agrippina, la quale così si ricollegava forse non tanto


alla tradizione romana di Scipione e dei suoi nipoti Tiberio
e Gaio Gracco, quanto ad Alessandro Magno (cfr. per Ales-
sandro Plut. Alex., 2, 6-9 e 3, 1-3; per Scipione Liv. XXVI, 19;
per i Gracchi Plut. Tib. e C. Gracchi 1, 4). Secondo Tacito “...
vulgabaturque adfuisse infantiae eius dracones in modum custo-
dum...” “si narrava che, da bambino, dei serpenti si fossero
presentati a lui Nerone come protettori” (Ann. XI, 11, 3),
dicerie che egli liquida come “...fabulosa et externis miraculis
adsimilata...” “fantasie, create ad imitazione di favole stra-
niere”, ricordando che era lo stesso Nerone, “...haudqua-
quam sui detractor...”, “che per nulla avrebbe diminuito se
stesso”, a sminuirle. Il racconto tacitiano trova un confron-
to in Suetonio (per le concordanze e le differenze fra Tacito,
Suetonio e Cassio Dione cfr. Momigliano 1932 = 1975, pp.
812- 820; per quello fra Tacito e Suetonio cfr. Questa 1960,
pp. 91-103), secondo il quale i sicari mandati da Messalina
ad uccidere nel sonno Nerone, perché ella vedeva in lui
un rivale del figlio Britannico, fuggirono, spaventati da un
serpente che si alzava da sotto il suo cuscino (Suet. Nero
VI). Il biografo afferma che questa leggenda ebbe origine
dal ritrovamento, vicino al guanciale di Nerone, di una
muta di serpente; Agrippina volle inserirla in un monile
d’oro che il figlio portò al braccio destro fino a quando il
suo rapporto con la madre si deteriorò. Un collegamento
esplicito fra la successione e un serpente, il quale diventa
chiaramente un omen imperii, un “presagio di regno”, ap-
pare nel racconto di Cassio Dione: quando Nerone era an-
cora piccolo fu trovata sul suo collo la pelle di un serpente,
circostanza interpretata dagli indovini come il segno che
egli avrebbe ricevuto un grande potere da un uomo già
avanti con l’età (Cass. Dio LXI, 2, 4).

Nel racconto di Tacito, il ruolo rilevante del ramo


giulio della famiglia imperiale, che doveva essere uno
dei temi centrali dell’autobiografia di Agrippina (Lewis
1993, p. 655), viene colto da Pallante, il quale, quando,
dopo l’uccisione di Messalina, i liberti dell’imperato-
re esaminano fra varie candidate colei che possa essere
per Claudio la moglie più opportuna, caldeggia Agrip-
pina soprattutto “...quod Germanici nepotem secum trahe-
ret...” “avrebbe portato con sé il nipote di Germanico”
219
alessanDra l azzeretti

(Tac. Ann. XII, 2, 3). Il liberto richiama qui direttamente


la discendenza di Nerone dal nonno materno, ma non
quella da Augusto, cui si allude solo indirettamente. In
questo noto passo di Tacito Pallante dà voce a quella che
doveva essere la propaganda di Agrippina minore e lo
storico potrebbe aver messo in bocca al liberto quanto
ella sosteneva nel suo scritto autobiografico. Mentre gli
altri due liberti imperiali, Narcisso e Callisto, propongo-
no entrambi come candidate al matrimonio con Claudio
due donne che, per motivi diversi, si sarebbero prese
cura dei figli che l’imperatore aveva avuto da Messalina
(Tac. Ann. XII, 2, 1-2), Pallante, invece, non accenna af-
fatto a Britannico e Ottavia e alla salvaguardia della loro
posizione, ma appoggia Agrippina minore soprattutto
perché è la figlia di Germanico (Tac. Ann. XII, 2, 3).
Per inciso ricordiamo che alla discendenza di Agrip-
pina da Germanico si allude in altri due cruciali passi
tacitiani, quello in cui Agrippina stessa si autodefinisce
“Germanici filia”, “figlia di Germanico”, proprio mentre
rinfaccia a Nerone che solo grazie a lei deteneva l’impero
(Ann. XIII, 14, 3), cfr. anche infra; e quello del fallito tenta-
tivo di ucciderla nel finto naufragio (Tac. Ann. XIV, 7, 4),
quando Burro fa presente a Nerone che non era opportu-
no affidare l’incarico di assassinarla ai pretoriani perché
essi, “...memores... Germanici nihil adversus progeniem eius
atrox...”, “memori di Germanico, non avrebbero com-
messo niente di atroce verso la sua progenie”, cfr. anche
Cass. Dio LXI, 13, 5, con accenti del tutto simili.
L’intero discorso, in oratio obliqua, di Pallante (Tac. Ann.
XII, 2, 3) è incentrato solamente sul futuro Nerone che vie-
ne indicato come “...dignum prorsus imperatoria fortuna...”,
“degno di essere principe imperiale”. II matrimonio di
Claudio con Agrippina minore avrebbe consentito, così,
di “...stirpem nobilem et familiae Claudiaeque posteros coniu-
gere...”, “di unire un nobile discendente della gens Giulia
alla gens Claudia” e di evitare che “...femina experta fecundi-
tatis, integra iuventa, claritudinem Caesarum aliam in domum
ferret...”, “una donna di ben nota fecondità, nel pieno della
giovinezza, trasferisse in un’altra casa la gloria della gens
Giulia“ (Tac. Ann. XII, 2, 3). Secondo alcuni, “tale insistenza
sulla prolificità della giovane donna potrebbe far pensare
che si spingesse Claudio a sposare Agrippina in modo da
220
L a Donna neLL ’a ntichità

evitare, per l’avvenire, qualche pretesa sul trono da parte


del possibile futuro marito” di lei (cfr. Fasolini 2006, p. 31).
Il liberto mostra come vantaggioso per Claudio ciò che in
realtà è di esclusivo interesse per Nerone e Agrippina mi-
nore, fra l’altro senza fare alcun cenno alle difficoltà di un
matrimonio fra zio e nipote. Se 1’immagine che Pallante
offre di Nerone non deriva direttamente dai commentarii
della madre, potrebbe, comunque, riflettere il modo con
cui ella intendeva presentarlo e il contenuto di quella che
doveva essere la propaganda da lei attuata in suo favore
(per gli scopi propagandistici di Agrippina riguardo a Ne-
rone cfr., tra gli altri, Noe’ 1980, p. 172 e nota n. 60).
Un riflesso dell’autobiografia di Agrippina o, quanto
meno, della sua propaganda in sostegno al figlio, potrebbe
essere contenuto anche nella breve parafrasi tacitiana di un
altro discorso pronunciato da Pallante, quello con cui l’in-
fluente liberto, nel 50 d. C., sollecitava l’adozione di Nerone
(Tac. Ann. XII, 25, 1), orazione che Claudio si sarebbe limi-
tato a ripetere, in modo abbastanza fedele, per annunciare
in Senato la sua decisione (Tac. Ann. XII, 25, 2), cfr., per un
commento all’intero capitolo, Köestermann 1965, Band III,
pp. 148-151. Già artefice, come abbiamo visto, del matri-
monio di Claudio con Agrippina (Ann. XII, 2, 3; XII, 25, 2;
XIII, 2, 2), oltre che amante di lei (Ann. XII, 65, 3), Pallante
fa leva, per convincere l’imperatore, su quello che presenta
come l’analogo comportamento dei suoi predecessori: Au-
gusto, che pur appoggiandosi soprattutto ai nipoti, aveva
tenuto in grande autorità i figliastri (Cenerini 2009, p. 68),
e Tiberio, che aveva posto Germanico al di sopra dei suoi
stessi figli. Ma Augusto, a ben vedere, a partire da Mar-
cello, il figlio della sorella Ottavia, primo destinato alla
successione morto prematuramente nel 23 d. C., cfr. anche
supra, aveva dato la precedenza come successori designati
a coloro nelle cui vene scorreva il proprio sangue, risolven-
dosi ad adottare Tiberio, figlio della seconda moglie, Livia,
solo quando nella gens Giulia non era rimasto nessun di-
scendente maschio considerato affidabile per regnare: il 26
giugno del 4 d. C., infatti, dopo la morte anche di Gaio Ce-
sare, Augusto adottò Agrippa Postumo, l’ultimo dei figli
di Giulia e Agrippa, e contemporaneamente Tiberio, a cui
impose di adottare a sua volta il nipote Germanico (Suet.
Aug. 65, 3; Suet. Tib. 15, 2; Vell. 2, 103, 3-4 e 104, 1; Tac. Ann.
221
alessanDra l azzeretti

I, 3; IV, 57, 3; XII, 25, 1; Cass. Dio LV, 13, 2). Il ragionamento
di Pallante, a mio parere non del tutto calzante, potrebbe
riflettere gli argomenti usati da Agrippina nell’intento di
elevare il figlio al trono. Non sfugge, infatti, che l’altra ar-
gomentazione utilizzata da Pallante per caldeggiare l’ado-
zione di Nerone, proteggere la giovane età di Britannico,
secondo Tacito di tre anni minore rispetto a Nerone (Tac.
Ann. XII, 25, 1), era solo un pretesto, e che gli interessi che
Pallante intendeva tutelare non erano quelli di Britannico
ma quelli di Nerone e Agrippina. Anche in questo passo,
come in Tac. Ann. XII, 2, 3, cfr. supra, Pallante incarna e per-
sonifica la propaganda di Agrippina in favore di Nerone.
Si potrebbe ipotizzare che nella redazione di questo breve
ma fondamentale capitolo Tacito abbia utilizzato insieme i
commentarii di Agrippina e altre fonti, a lei ostili o, quanto
meno, non favorevoli e maggiormente equilibrate, di cui
si conserverebbe un’eco nella constatazione che lo chiude,
probabile espressione della riflessione sviluppatasi intorno
all’argomento: con la sua decisione, inaudita e inaspettata,
Claudio introduceva addirittura un elemento di assoluta
novità e di rottura della tradizione e delle consuetudini
perfino all’interno della sua stessa gens, nel ramo patrizio
della quale non esisteva nessun precedente di adozione fin
dai tempi di Appio Claudio, il suo fondatore (Tac. Ann. XII,
25, 2), come Claudio stesso afferma in Suet. Claud. XXXIX,
cfr. anche infra. Se quanto propongo è sensato, potrei spin-
germi a ritenere che Tacito possa aver messo in bocca a Pal-
lante (che appare sempre come il portavoce degli intenti di
Agrippina, fino a quando, proprio perché appoggiava la
superbia della donna, Nerone non lo rimosse dall’incarico,
cfr. Tac. Ann. XIII, 14, 1), non solo in questo passo, ma an-
che negli altri in cui egli compare in un ruolo attivo, argo-
menti e parole tratte dagli stessi commentarii di Agrippina.
Pallante potrebbe, cioè, essere la figura cui lo storico affida
negli Annales quanto aveva tratto dalla consultazione di-
retta dell’autobiografia dell’Augusta.

Probabilmente l’opera autobiografica di Agrippina


aveva anche delle forti motivazioni di autodifesa e di auto-
giustificazione delle proprie azioni e del proprio compor-
tamento, spesso a dir poco discutibili: Agrippina doveva
giustificarsi per i suoi rapporti con Claudio prima che ne
222
L a Donna neLL ’a ntichità

divenisse ufficialmente la moglie e, dopo, per i suoi lega-


mi con Pallante (Tac. Ann. XII, 25 e 65, 3); per aver avuto
numerosi altri amanti, a cominciare da quel Lepido cui,
secondo Tacito (Tac. Ann. XIV, 2, 2), “si era data giovanissi-
ma”, “spe dominationis”, “per sete di potere”; doveva mo-
tivare il matrimonio fra lei e Claudio e difendersi dall’ac-
cusa di averlo avvelenato (Tac. Ann. XIII, 14, 3: “...suae...
nuptiae, suum veneficium...”,“il suo stesso matrimonio, il
suo veneficio”), come da quella di essere responsabile, in
tempi diversi della sua vita, di numerosi altri assassinii.
Due per tutti. Quello di Lollia Paolina, già moglie di Ca-
ligola, che Agrippina (per la quale Tacito utilizza, qui, in
Ann. XII, 22, 1, per la prima volta, l’aggettivo atrox come
riferito ad una figura femminile storicamente esistita, cfr.
Kaplan 1979) odiava solo perché aveva osato competere
con lei per sposare Claudio (Tac. Ann. XII, 22, 1; Cass. Dio
LX, 32, 3), spinta al suicidio (Tac. Ann. XII, 22, 3) dopo
essere stata condannata alla confisca dei beni e all’esilio
fuori dalla penisola italica con l’accusa di aver consultato
astrologi (Tac. Ann. XII, 22, 1-2). Quello di Domizia Lepida
minore, sorella del suo primo marito (Tac. Ann. XII, 64,
1) e madre di Messalina, che pure aveva tenuto con sé e
allevato il piccolo Nerone durante l’esilio comminato ad
Agrippina da Caligola, cfr. supra, rovinata dalla cognata,
preoccupata del suo ascendente presso Nerone (Tac. Ann.
XII, 64, 3), solo “muliebribus causis”, “per ragioni puramen-
te femminili” (Tac. Ann. XII, 64, 2), condannata e messa a
morte con un’accusa simile a quella di Lollia (Tac. Ann.
XII, 65, 1), cfr. sintetico riepilogo in Cenerini 2009, p. 69.
Potrebbe esservi traccia dello scritto di Agrippina anche
nella narrazione di Tacito sui momenti cruciali che prece-
dettero l’avvelenamento di Claudio (l’ipotesi è di Alessan-
dro Galimberti, curatore delle note del volume Cassio Dione,
Storia romana (Libri LVII-LXIII), Milano 1999, cfr. Galiberti
1999 (note a cura di), pp. 396-397 nota n. 272.). Lo storico
racconta che Narcisso, fedele liberto dell’imperatore, colto
da una malattia si recò a Sinuessa per curarsi con le acque
salutari e l’ottimo clima della cittadina campana (Ann. XII,
66, 1) ma Cassio Dione (LX, 34, 4) fornisce un altro reso-
conto dei fatti secondo il quale fu proprio Agrippina ad
inviare Narcisso in Campania, perché con lui presente non
avrebbe potuto portare a compimento il suo piano di ucci-
223
alessanDra l azzeretti

dere il marito (per le concordanze e le discordanze fra Taci-


to e Cassio Dione cfr. ad esempio Momigliano 1932 = 1975,
pp. 812-820 e Questa 1960, pp. 29-18). La versione tacitiana,
più favorevole, in questo caso, ad Agrippina, poiché non
accenna ad alcuna sua responsabilità nell’allontanamento
del liberto, potrebbe derivare proprio dai suoi commentarii.
Narcisso, infatti, “...Agrippinam magis magisque suspectans
prompisse inter próximos ferebatur certam sibi perniciem...”,
“nutrendo sempre più sospetti contro Agrippina, aveva
detto agli amici che la rovina per lui era certa”, ma non si
sarebbe mai allontanato di sua volontà, dato che “aveva
ricevuto da Claudio favori tali che avrebbe sacrificato per
lui anche la vita” “...verum ita de se meritum Caesarem, ut vi-
tam usui eius impenderet...” (Tac. Ann. XII, 65, 1), come con-
ferma Cassio Dione (LX, 34, 4). Gli scontri e le divergenze
fra Narcisso e Agrippina erano stati frequenti e in Tacito è
significativamente lui ad esporre quello che doveva esse-
re il contenuto delle accuse mosse ad Agrippina per il suo
rapporto con Pallante (Ann. XII, 65, 3).
L’adulterio della moglie dell’imperatore con il liberto
incaricato da Claudio a rationibus dovette destare parti-
colare scalpore ed essere uno degli argomenti che neces-
sitavano di un’autodifesa da parte di Agrippina nella sua
opera autobiografica. Le veniva, infatti, imputato di essere
disposta a tutto, anche a divenire l’amante di un liberto del
marito, pur di possedere il potere (Ann. XII, 65, 3). Oltre
ad aver rivestito, almeno secondo Tacito, un ruolo decisivo
nel matrimonio fra Claudio e Agrippina e nell’adozione di
Nerone (Ann. XII, 2, 3; XII, 25, 2; XIII, 2, 2), cfr. supra, Pallan-
te, detentore di una carica che ne faceva quasi un arbitro
dello stato (Tac. Ann. XIII, 14, 1), poteva essere lo strumen-
to attraverso cui Agrippina poteva esercitare, soprattutto
dopo la morte di Claudio, un controllo sull’amministrazio-
ne del tesoro imperiale, intromettendosi, così, nella gestio-
ne di un potere che il figlio deteneva grazie a lei ma dal
quale era determinato a tenerla lontana.
Nella versione di Tacito è, infatti, l’allontanamento di
Pallante ordinato da Nerone (Ann. XIII, 14, 1) a scatenare
l’ira e le minacce di Agrippina (Ann. XIII, 14, 2) e a segnare
l’inizio della definitiva incrinatura dei rapporti fra il figlio
e la madre. Si ritiene che l’intera scenata di Agrippina al
figlio (Ann. XIII, 14, 2-3) possa derivare proprio dai suoi
224
L a Donna neLL ’a ntichità

commentarii (Wood 1988, p. 424 nota n. 42; Eck 1993, p. 83,


nota n. 52). Nel suo furore Agrippina ammette i suoi mi-
sfatti, le sue manovre a favore del figlio, dichiarando aper-
tamente (Ann. XIII, 14, 2), fra l’altro, che “Britannico era or-
mai adulto, vero successore e degno di succedere al padre
in quell’impero che un intruso e adottato occupava grazie
agli intrighi della madre” (cfr. Köstermann 1965, Band III,
pp. 260-261 per un commento a questo passo).
Dalle parole di Agrippina Nerone, in quanto “insitus
et adoptivus” appare usurpatore, grazie a lei, di una posi-
zione che spettava, in realtà, a Britannico, “vera dignaque
stirpe suscipiendo patris imperio” (Ann. XIII, 14, 2). Eppure
c’è chi ha sostenuto che Nerone fosse figlio naturale di
Claudio o che Claudio potesse crederlo tale (Burns 1996).
La supposizione è basata soprattutto sulla ben nota spre-
giudicatezza sessuale dei componenti della casa impe-
riale e su un passo di Suetonio (Suet. Nero, VI) secondo
cui, al momento della scelta del nome da dare al neonato,
Agrippina interpellò il fratello, l’allora imperatore Ca-
ligola, il quale, indicando lo zio, presente anch’egli alla
cerimonia, disse di volerlo chiamare Claudio, come lui.
Ma Agrippina non seguì il suggerimento imperiale e tra
i due nomi che si alternavano presso i Domizi Enobarbi,
Gaio e Lucio, scelse Lucio. Suetonio liquida l’episodio so-
stenendo che Caligola non parlava sul serio. E, in effetti,
parrebbe strano che la giovane Agrippina avesse avuto
rapporti sessuali con lo zio, tutt’altro che attraente e, a
quel tempo, “lo zimbello di tutta la corte” (Suet. Nero, VI).
Ma 12 anni dopo i due si sposarono, quasi a coronamen-
to di una predilezione che Claudio sembra aver sempre
manifestato per la nipote, che definiva “sua pupilla, nata
e cresciuta sulle sue ginocchia”(Suet. Claud. XXXIX). Inol-
tre, prima di adottare Nerone, egli ripeteva a chiunque
glielo chiedesse che “nessuno era mai entrato per ado-
zione nella gens Claudia” (Suet. Claud. XXXIX), cfr. supra,
anche Tac. Ann. XII, 25, 2: intendeva, forse, dire che Nero-
ne era già un Claudio per nascita? Queste testimonianze
sparse in due biografie suetoniane potrebbero adombrare
un segreto familiare gelosamente custodito (Burns 1996).
Indipendentemente da tale problematica, legata, ma
solo in parte, alla successione, sulla fondamentale e, per
noi dubbia, questione del successore designato da Clau-
225
alessanDra l azzeretti

dio varie sono le ipotesi finora avanzate. Fin dal momen-


to dell’ascesa al potere di Claudio, il 1° gennaio del 41 d.
C., Messalina si preoccupò di assicurare la successione a
Britannico (Ehrhardt 1978 e Cogitore 2002, pp. 202-211),
trovando in un primo tempo concorde il marito (Griffin
1994, p. 76), ma, poi, deve essere accaduto qualcosa che
la indusse a non ritenere più sicura la posizione del figlio;
il tutto potrebbe essere collegabile con il ritorno a corte di
Agrippina, avvenuto nello stesso anno, cfr. supra, e con la
sua sempre più incalzante presenza, che creò numerosi
contrasti, ricordati dalle fonti, tra le due donne, entram-
be discendenti dal sangue di Augusto (Cenerini 2010, pp.
188-189): Agrippina vedeva Messalina come una nemica e
Messalina interpretava la crescente popolarità di Nerone
come un pericolo per Britannico (Griffin 1984, pp. 28-29).
Mentre, a parere di alcuni, dopo la morte di Messalina, al
momento del nuovo matrimonio, la scelta operata dall’im-
peratore di una nuova consorte significava anche la scelta
di un successore (Fasolini 2006, p. 27 con bibliografia pre-
cedente) da individuare, quindi, in Nerone, vista la prefe-
renza per Agrippina, per Bellen (Bellen 1974), nell’ultima
fase della sua vita Claudio avrebbe di nuovo dato la prece-
denza a Britannico, mentre la Levick (Levick 1980, pp. 78-
79) ipotizza che l’imperatore pensasse ad una diarchia del
figlio naturale e di quello adottivo (consapevole, però, che
il potere sarebbe andato a Nerone), diarchia che potrebbe
essere adombrata anche in una serie di emissioni monetali
che li raffigurano insieme (per le quali cfr. Rebuffat 1998).
Cruciali appaiono, quindi, nelle fonti i momenti che
seguirono la morte di Claudio. Tacito (Tac. Ann. XII, 69)
potrebbe averne dato una versione in parte derivata, anche
in questo caso, dai commentarii di Agrippina. L’interessante
e condivisibile proposta, che cerco qui di sviluppare e ap-
profondire, è anch’essa di Alessandro Galimberti (Galim-
berti 1999 (note a cura di), pp. 400-401, nota n. 4). In questo
brano, come in altri già esaminati supra, Tacito potrebbe
essersi servito contemporaneamente dei commentarii di
Agrippina e di altre fonti a lei sfavorevoli ma più vicine
alla realtà delle cose. L’affermazione che chiude il capito-
lo (Tac. Ann. XII, 69, 3), che, cioè, il testamento di Claudio
non venne reso pubblico perché il fatto di aver anteposto il
figliastro al figlio non urtasse l’animo del popolo, è scarsa-
226
L a Donna neLL ’a ntichità

mente credibile e sembra, più che altro, una scusa. Cassio


Dione (LXI, 1) sostiene, invece, che Nerone fece deliberata-
mente sparire le ultime volontà di Claudio; e tale decisione
è spiegabile solo con il fatto che esse contenessero qualcosa
di pericoloso per lui. La versione di Tacito, anche in questo
frangente più favorevole a Nerone, potrebbe derivare pro-
prio dai commentarii della madre. Agrippina potrebbe aver
dato un suo racconto dei fatti teso a presentare il figlio come
successore designato da Claudio; ma vari elementi potreb-
bero smascherarla e mostrare una diversa realtà, cioè che
Claudio, pur avendo adottato Nerone nel 50 d. C., adozio-
ne che poteva prefigurare per lui la successione, cfr. supra
passim, al tempo in cui morì, 4 anni dopo, pensasse che a
succedergli dovesse essere Britannico: si dice (“ferunt”) che
alcuni dei pretoriani furono chiaramente sorpresi di tro-
varsi di fronte Nerone, che venne acclamato dalla guardia
pretoria solo su esortazione del prefetto del pretorio, Se-
sto Afranio Burro, fedele ad Agrippina, e si guardavano
intorno, titubanti, per vedere dove fosse Britannico, come
se si attendessero lui come successore e fossero al corrente
che Claudio avesse questa intenzione; solo perché il tempo
passò senza che nessuno prendesse un’iniziativa contra-
ria, più tardi si adattarono all’accaduto e, dopo il discorso
scritto appositamente da Seneca e pronunciato di fronte a
loro da Nerone, lo salutarono “imperator” (Tac. Ann. XII, 69,
1). Concorderebbero con una tale ricostruzione dei fatti al-
tri elementi presenti in Cassio Dione e in Suetonio: in Cass.
Dio LX, 34, 1 appare una progressiva presa di coscienza
da parte di Claudio delle manovre di Agrippina a favore
di Nerone e ai danni di Britannico, da lei tenuto il più pos-
sibile lontano dal padre (cfr. anche Cass. Dio LX, 32, 6) ed
emarginato in ogni modo (cfr. anche Cass. Dio LX, 32, e LX,
32, 5), facendo, fra l’altro, diffondere ad arte voci infondate
secondo le quali era demente e affetto da epilessia (Cass.
Dio LX, 33, 9). A quello che lo storico definisce (Cass. Dio
LX, 34, 1), ancora una volta (cfr. supra, LX, 33), come un
vero e proprio potere della donna, l’imperatore intendeva
porre fine con l’assunzione della toga virile da parte del
figlio naturale e la sua nomina a successore; proprio perché
impaurita che questo accadesse Agrippina avrebbe avvele-
nato il marito (Cass. Dio LX, 34, 2). In Suet. Claud., XLIII,
il biografo sostiene che verso la fine della sua vita l’impe-
227
alessanDra l azzeretti

ratore diede indubbi segni (signa ...nec obscura) di essersi


pentito del matrimonio con Agrippina e dell’adozione di
Nerone. Tra questi segni Suetonio - il quale ricorda anche
la redazione, da parte di Claudio, di un testamento fatto
autenticare dalle firme di tutti i magistrati (Suet. Claud.
XLIV) - include anch’egli (Suet. Claud., XLIII) la decisione
dell’imperatore di far assumere la toga virile a Britannico
prima dell’età prescritta, affinché finalmente il popolo ro-
mano potesse avere un vero Cesare, e una frase di Claudio
sulla necessità di non lasciare impunite le mogli adultere,
che trova un evidente parallelo in Tac. Ann. XII, 64, 2, passo
in cui un Claudio ubriaco terrorizza Agrippina con l’affer-
mazione che era fatale per lui sopportare i delitti delle mo-
gli, per poi punirle. Sia Tacito (Tac. Ann. XII, 64, 2) sia Cas-
sio Dione (Cass. Dio LX, 34, 2) insistono significativamente
sulla “paura” che questo nuovo atteggiamento di Claudio
genera in Agrippina. Suetonio, inoltre, mette l’accento sul
fatto che la morte dell’imperatore venne tenuta nascosta
fino a quando non fosse stato predisposto tutto per la suc-
cessione (Suet. Claud. XLV). E chi, se non Agrippina, aveva
interesse a mantenere celata la morte del marito per far ac-
clamare Nerone suo successore? A mio parere, se il succes-
sore designato chiaramente da Claudio fosse stato Nerone,
non ci sarebbe stata alcuna necessità di prendere tempo,
sarebbe bastato il volere dell’imperatore, espresso per te-
stamento. Il rinvio dell’annuncio della morte di Claudio è
funzionale solo ad Agrippina e ai suoi scopi, come mostra
chiaramente Tacito, e può essere dettato solo dalla neces-
sità, per lei, di organizzare la successione in modo diverso
da quanto voluto e predisposto da Claudio. Da qui anche
l’esigenza di non rendere pubblico il suo testamento. Men-
tre il corpo del principe ormai morto viene avvolto in vesti
e bende, il senato, ignaro, si riunisce per innalzare voti per
la sua pronta guarigione; e, nel frattempo, tutto è opportu-
namente preparato per assicurare l’impero a Nerone (Tac.
Ann. XII, 68, 1). In Suet. Claud. XLV oltre alle preghiere per
la guarigione, è presente il particolare della chiamata a cor-
te di comici, escogitata per fingere che l’imperatore li aves-
se chiesti per distrarsi. Agrippina, abile dissimulatrice, ab-
braccia Britannico, definendolo immagine vera del padre,
trattenendolo variis artibus, “con i più svariati artifici”, per-
ché non esca dalla stanza (Tac. Ann. XII, 68, 1); tiene presso
228
L a Donna neLL ’a ntichità

di sé anche le due sorelle del giovane, Ottavia e Antonia,


mentre, fatti chiudere tutti gli accessi al palazzo, continua
a diffondere notizie positive sullo stato di salute dell’impe-
ratore, per rianimare i soldati e attendere il momento pro-
pizio alla proclamazione imperiale del figlio (Tac. Ann. XII,
68, 3). Basterà il parallelo con quanto accadde anni dopo,
nel 117 d. C., alla morte di Traiano, in circostanze che mo-
strano con questa forti analogie: la vedova dell’imperatore,
Plotina, favorì la successione di Adriano, mai chiaramente
designato dal defunto zio Traiano come successore, con lo
stesso stratagemma di ritardare la diffusione della notizia
della morte del marito (Turcan 1991).
Anche altri elementi potrebbero confermare, secon-
do me, che il testamento di Claudio fosse favorevole a
Britannico. Cassio Dione riferisce una circostanza non
nota né a Tacito né a Suetonio, quella di una malattia di
Claudio, nel 52 d. C., che offrì a Nerone l’opportunità di
mettersi in mostra promettendo una gara ippica nel caso
di una sua guarigione (Cass. Dio LX, 33, 9), promessa
mantenuta l’anno successivo quando ciò effettivamente
avvenne (Cass. Dio LX, 33, 11). Cogliendo l’opportuni-
tà del suo malfermo stato di salute, Agrippina avrebbe
persuaso Claudio a notificare al popolo con una procla-
mazione e al senato con una lettera - così si esprime Cas-
sio Dione - che, se egli fosse morto, Nerone era già in
grado di amministrare gli affari di stato (Cass. Dio LX,
33, 10). Due anni dopo l’adozione, quindi, essa non sem-
bra essere sufficiente per individuare, in modo univoco,
in Nerone il successore. A mio giudizio, non ci sarebbe
stato bisogno di documenti del genere se egli fosse stato
chiaramente indicato come tale da Claudio. Agrippina
pare, invece, insistere per avere documenti ufficiali su
cui basare la rivendicazione al trono da parte del figlio,
evidentemente in assenza di disposizioni testamentarie
in suo favore: Cassio Dione ribadisce che ella “tentava
ogni via possibile per ingraziarsi la moltitudine e fare
in modo che suo figlio venisse ritenuto l’unico succes-
sore al potere imperiale” (Cass. Dio LX, 33, 9). Al mio
ragionamento si potrebbe obiettare che l’episodio è ri-
ferito al 52 d. C., quando mancano ancora due anni alla
morte di Claudio, due anni in cui egli avrebbe potuto
prendere una decisione a favore di Nerone. Si potrebbe
229
alessanDra l azzeretti

sostenere che nel 52 d. C. Nerone non era ancora dive-


nuto genero dell’imperatore, ma, evidentemente, nem-
meno il suo matrimonio con Ottavia, avvenuto nel 53 d.
C., cfr. supra, pur accrescendo la sua posizione a corte e
rendendo palese il fatto che ormai era adulto (Cass. Dio
LX, 33, 11), aveva posto fine alla questione; e la situazio-
ne non si era evoluta in suo favore nemmeno nell’anno
successivo, anzi, come abbiamo visto, cfr. supra, l’ultimo
periodo della vita di Claudio sembra essere quello in cui
egli cominciò a prendere le distanze dalla moglie e dal
suo operato. La perdita del De vita sua di Claudio, l’auto-
biografia che l’imperatore, avviato allo scrivere di storia
da Tito Livio, aveva redatto in 8 libri (Suet. Claud., XLI),
per la quale cfr. da ultimo Sordi 1993, e delle sue lettere
private in cui erano contenute informazioni segrete su
Agrippina e su altri personaggi, bruciate, prima di mori-
re, dal suo incaricato ad epistulis, Narcisso (Cass. Dio LX,
34, 4), ci priva della possibilità di conoscere la versione
dei fatti data da Claudio stesso.

Per concludere, dai passi, soprattutto tacitiani, ma


non solo, che si potrebbero ricondurre ai commentarii di
Agrippina emerge, a mio avviso, che la stesura dell’ope-
ra era motivata soprattutto da fini apologetici (cfr. già
Lazzeretti 2000, p. 190): ella intendeva difendere e giu-
stificare in primo luogo la madre e la sua famiglia di ori-
gine in generale, esaltandola soprattutto contro Tiberio
e la versione dei fatti che questi aveva esposto nel suo
scritto autobiografico; poi il figlio, nei confronti del qua-
le ella aveva messo in atto una formidabile campagna
propagandistica tesa a presentarlo come predestinato a
detenere l’imperium in quanto discendente di Augusto
attraverso Giulia e Agrippa, Agrippina maggiore e Ger-
manico (contro Barrett 1996, p. 198, che non condivide
l’idea che la stesura dei commentarii di Agrippina sia
stata motivata da ragioni di carattere politico); infine, se
stessa, “…cuncta...mala...” e “... tot...facinora...”, per tutte
le sue azioni, per “tutti i misfatti” e “tutte le scelleratezze
che aveva commesso” nel corso della vita (Tac. Ann. XIII,
14, 3).

230
iL nUDo Di Donna neLLa SToria.
MeDioevo: Sogno eLiSio
TorMenTo SabbaTico
di Fulvio Ricci

L
’analisi delle forme artistiche fin dal suo primo
procedere nella realtà della vita ha evidenziato
come il momento centrale delle rappresentazioni
figurate è essenzialmente incentrato sul corpo umano e
sul corpo umano nudo in particolare. Nulla esprime in
maniera più puntuale e con tale ricchezza di addentellati
significanti lo spirito di un’epoca e di una civiltà quanto
i modi di rappresentazione della figura umana e delle
figura umana espressa nella sua nudità.
Narra il mito come Persefone la bellissima figlia di
Demetra, dea madre della Terra, mentre giocava con i
fiori fu rapita da Ade, dio degli Inferi. Le urla di Persefo-
ne, trascinata nella voragine infera si fecero sempre più
flebili fino a perdersi del tutto. Demetra disperata vaga-
va sulla terra alla ricerca della figlia chiamandola a gran
voce, la lunga folle ricerca di Demetra era vana, pianse,
invocò compassione, lei, immortale, invocò la morte ma
non trovò la figlia, il suo sorriso si spense. Allora la dea
feconda maledisse tutto ciò che era fertile: nessun bam-
bino poteva nascere, non cresceva il grano, non sboccia-
vano i fiori, tutto divenne grigio ed arido; il lungo pe-
regrinare della dea triste e folle di dolore la portò in un
villaggio dove le si parò davanti la vecchia Baubo, una
strana creatura femminile, priva di testa, con i capezzoli
al posto degli occhi e la vagina in luogo della bocca, la
donna danzò con movenze equivoche e con la sua par-
ticolare bocca intrattenne Demetra con storielle piccanti,
il sorriso tornò sulla bocca della dea, tornò l’energia per
ritrovare Persefone e con il buon esito della vicenda la

231
fulvio riCCi

terra e il ventre delle donne e degli animali tornarono


vivi e fecondi.
I passaggi critici nella economia sociale e culturale dei
singoli individui e delle comunità trovano storicamente
la loro elaborazione in modelli comportamentali che at-
tingono al mito e operano tramite il rito, eros e thanatos
ancora operano in profondità, il superamento dell’«at-
tanassamento», termine riportato da de Martino nelle
sue ricerche in Lucania, si avvale dei modelli antichi
dell’ostensione oscena in una metastorica sospensione
erotico-sessuale e dell’inversione comica atta a suscitare
il riso rivivificatore (De Martino 2000, 2004). La ricerca
storica e, ovviamente, la ricerca storico-artistica non può
permettersi di rigettare o sorvolare su metodi e problema-
tiche proprie delle altre discipline sociali (antropologia,
etnologia, sociologia…); perché privarsi dei potenziali
meccanismi di comprensione dei fenomeni complessi at-
traverso l’analisi di rituali, miti, prodotti dell’immagina-
rio quali fiabe e racconti e prodotti della cultura materia-
le e della creazione artigiana. Gli esempi sopra menzio-
nati, come il filo di Arianna, ci guidano a percorrere vie
poco frequentate, a capire mondi finora lasciati in remo-
te aree oscure ma che hanno al centro l’uomo, non solo
l’intellettuale, l’aristocratico, il chierico, il guerriero ma
l’uomo che compone il
complesso dell’umani-
tà; l’uomo con il suo cor-
po che vive, che narra,
che ama, che soffre, che
muore; il corpo con le
sue pulsioni, le sue mi-
serie, le sue grandezze.
Il corpo è restituito alla
storia, la storia recupera
una concezione del cor-
po, il suo spazio nella
società e la sua presenza
nell’immaginario e nella
realtà (J Le Goff, 2008).
Il percorso obbligato
Fig. 79: Modena, cattedrale, Wiligelmus, Adamo e
alla ricerca dell’«Uomo»
Eva permette di trovare an-
232
L a Donna neLL ’a ntichità

che nelle manifestazioni artistiche nuovi protagonisti e


nuovi temi per una più ricca ed articolata ermeneutica
sociale, irrompe sul palcoscenico della storia un nuovo
protagonista: il «popolo», la compagnia dei «senzasto-
ria», sentina di ogni errore, di ogni superstizione, idioti
che hanno alimentato collettivamente la sfera tradizio-
nale del mondo folclorico ma privi dello statuto di in-
dividui; il popolo, portatore di una langue esclusa dallo
spazio della storia e della memoria. Solo il soffio caldo
della tradizione orale che di bocca in bocca, di era in era,
trasmette l’incessante mormorio che narra di miti, di riti,
di antiche leggende, scioglie ancora antiche testimonian-
ze, le parole, le grida, le verità rauche, le sconcezze di un
mondo arcaico, afasico, marginalizzato ma non morto;
un mondo che ancora racconta le vicende dei santi e del-
le streghe, degli Innocenti, dei Clerici Vagantes, dei buf-
foni, dei folli, della umanità dolente e marginale, spesso
sporca e cattiva, una memoria espressa nei documenti
iconici del patrimonio artistico come evidenziazione del-
le forme del vissuto quotidiano che essendo storia reale
è insieme espressione dell’alto concettuale e del basso/
corporale grottesco, voci lontane di un passato negato
ma non ancora sepolto che si esprime in gran parte per
il tramite di manifestazioni relegate ormai nel limbo del
folclore o della superstizione. Non mancano certo i do-
cumenti iconici ma la loro complessità e, in particolare, il
rarefarsi delle possibilità di applicazione di un univoco
codice ermeneutico di lettura, creano le condizioni per
l’insorgere di una Metalepsi iconica. La ricerca nel cam-
po del linguaggio dell’arte richiede una delimitazione
dell’oggetto di studio e del metodo di indagine per un
conseguente inquadramento epistemologico che renda
evidenti percorsi ed obiettivi cognitivi. Un’opera d’arte
costituisce la manifestazione di un programma culturale
dotato di precise motivazioni, essa transita nella realtà
attraverso la mediazione dell’artista ma è sempre e co-
munque testimonianza comunicativa del contesto stori-
co e sociale che produce sia l’artista, sia la sua opera. Le
sconvolgenti tecniche di analisi poste in essere da Aby
Warburg e dalla complessa cerchia di studiosi che gravi-
tavano intorno alla sua scuola negli anni a cavallo tra Ot-
tocento e Novecento avevano già ad evidenza elaborato
233
fulvio riCCi

una spregiudicata concezione della storia dell’arte che


facesse perno sulle analisi dei problemi religiosi, sociali,
economici, iconografici ponendo su un piano di assoluta
pari dignità concettuale sia le grandi opere canoniche,
sia la messe di opere anonime spesso marginalizzate sot-
to la equivoca definizione di «popolare». I pionieristici
studi di Warburg e della sua scuola rappresentarono una
spinta decisiva per la definizione di un nuovo campo
epistemologico di ricerca e di interpretazione dei docu-
menti artistici quali frutto dell’azione di singole, concre-
te strutture sociali.
Le complesse condizioni socio-politiche e religiose
forgiano la morale cristiana - sempre più centrale
nell’Autunno dell’Impero Romano d’Occidente e
nell’epoca metastoricamente definita “Medioevo” - nella
direzione di un deciso rigorismo nei costumi con una
netta condanna di ogni mollezza o indulgenza verso mo-
delli di vita inclini al piacere, particolarmente verso la
sessualità; anche il matrimonio seguendo la lezione pao-
lina era definito come remedium concupiscentiae. Le ripe-
tute condanne della sessualità espresse nelle epistole di
Paolo (Rom. I - 26,27; Gal. V - 16; Cor., I - 7,29) sono per
secoli alla base della sessuofobia istituzionalizzata del
mondo cristiano - un fine intellettuale come Origene in
nome della purezza giunge al limite dell’autoevirazio-
ne-. La familiarità nell’arte sia del nudo, sia di modelli
espliciti o allusivi alle funzioni sessuali, particolarmente
diffusi nel sistema delle immagini del mondo pagano
vengono rapidamente a ridursi nel sistema figurativo
funzionale al pensiero cristiano che procede nella dire-
zione della rappresentazione di una umanità asessuata e
destrutturata nella sua articolazione anatomica. Si evi-
denzia una forma censoria che accetta il postulato di una
normativa iconografica avversa alla esplicita rappresen-
tazione di quanto afferisce alla sfera della sessualità
(Pace 2005). Il corpo, che papa Gregorio Magno definisce
come «…abominevole rivestimento dell’anima…», di-
venta il grande sconfitto del peccato di Adamo ed Eva,
peccato che nel Medioevo è identificato solo come pecca-
to sessuale. Il luogo retorico, religioso e filosofico, del
«disprezzo del corpo» e della centralità vitale della «esal-
tazione del corpo» vengono a rappresentare il filo con-
234
L a Donna neLL ’a ntichità

duttore della civiltà medioevale uscita dalla crisi della


caduta dell’Impero. La nuova società che emerge dalla
crisi è intrisa di una religiosità che trasforma il corpo in
un nemico difficilmente controllabile, fonte continua di
tentazioni carnali, ne sono testimonianza incontroverti-
bile gli antichi inni liturgici e la letteratura penitenziale.
Nel corso dei secoli XI e XII si assiste alla nascita di un
genere letterario incentrato sul tema ascetico del disprez-
zo del mondo, il capolavoro del genere è il De contemptu
mundi di Lotario di Segni, poi divenuto papa Innocenzo
III, un senso di angoscia e disperazione grava su
quest’opera, che nel descrivere la miserabile condizione
dell’uomo, corrotto dal peccato fin dal momento della
nascita, usa un linguaggio dai toni di allucinato e violen-
to realismo: «…Duplice è la colpa che il concepimento
comporta, una sta nel seme, l’altra in ciò che da questo
seme nasce; la prima viene commessa e la seconda viene
contratta. I genitori, infatti, commettono la prima colpa,
la prole la seconda. Chi, infatti, non sa che il coito, anche
se coniugale, non può mai verificarsi senza il prurito del-
la carne, senza l’ardore della libidine e senza il fetore del-
la lussuria? Per questo i semi concepiti insozzano, si
macchiano, si corrompono, onde l’anima in questi infu-
sa, contrae la tabe del peccato, la macchia delle colpe, la
sozzura dell’iniquità». Parole di inconcepibile durezza

Fig. 80: Autun, Musée Rolin, Gislebertus (1130), Eva.

235
fulvio riCCi

che delineano una visione del mondo terrificante e nega-


tiva dove il corpo, in particolare il corpo femminile, vie-
ne ad assumere una valenza totalmente negativa, dove
sessualità e nudità ne sono l’ambigua cifra caratterizzan-
te. L’ascetica visione lotariana o più latamente ecclesia-
stica, ha però il suo rovescio in una corporeità, vista
come sessualità, esibita, alimentata, esaltata, dove il sa-
cro e il profano, l’anima e il corpo divengono il polo reto-
rico, poetico, comico e grottesco testimoniato anche in
letteratura da opere quali il Decamerone o i Racconti di
Canterbury. Ma il corpo sessuato, dimenticato e censura-
to dalla storia e, salvo eccezioni anche di valore, dagli
storici, si prende le sue rivincite: scomparsi i luoghi clas-
sici romani dell’esposizione del corpo: terme e teatri,
questo si taglia i suoi spazi nelle strade, sulle piazze, nel
quotidiano e in manifestazioni collettive di tipo festivo
come il Carnevale e i Charivari (Ginzburg 1977); perfino
nelle corti, nelle chiese e nei conventi la sua presenza
spesso comica e grottesca, talvolta crudele ed inquietan-
te, si impone sfacciata e prepotente. Le novelle, i roman-
zi, i fabliaux, attingono le loro storie dalla quotidianità
con una messa in scena convenzionale della sessualità;
anche l’arte figurativa sfugge censure e divieti ed inseri-
sce con frequenza attori ed attrici di questo mondo terra-
gno nelle sue rappre-
sentazioni, quasi sem-
pre nei margini ombrosi
di miniature, pitture e
decorazioni scultoree.
L’angoscia per la corpo-
reità simboleggiata nel
cibo e nel sesso assume
atteggiamenti esagerati
fino al parossismo, il
corporeo diviene sino-
nimo di diabolico e stre-
gonesco, l’azione inqui-
sitoria che questo tiene
a contrastare si trasfor-
ma in una assurda e lai-
da lezione di anatomia
Fig. 81: Pisa, G. Pisano, La Fortezza e la Prudenza. alla ricerca del seme
236
L a Donna neLL ’a ntichità

diabolico. Esempio celebre quanto inquietante il Malleus


maleficarum degli inquisitori domenicani Heinrich Krä-
mer e Jacob Sprenger che nel loro manuale per inquisito-
ri avvertono: «…che pensare …di quelle streghe che rac-
colgono membri virili…e li mettono nei nidi degli uccelli
o in uno scrigno in cui essi si muovono come membri
vivi mangiando avena…come comunemente corre
voce». Lo scenario dell’orrore e le pulsioni sociali verso
una felicità fatta di totale soddisfacimento degli atavici
bisogni umani rimane uguale nei secoli. L’arte, la lettera-
tura colta e folclorica, il teatro, l’affabulazione orale po-
polare, attestano un immaginario collettivo assetato di
agi, ricchezze, bellezza, eterna giovinezza, tutte cose vie-
tate ai poveri, ai brutti, agli ammalati, alle masse dei di-
seredati cui rimaneva solo il sogno sabbatico del rove-
sciamento del vissuto quotidiano, visione onirica che
trasportava nel proibito regno del piacere, degli Horti de-
liciarum ricchi di profumi, colori, erbe salutifere, sedu-
zioni aromatiche e musicali, fontane o sorgenti di eterna
giovinezza che perpetuava nel tempo le delizie dell’amor
carnalis; ma popolata anche di simboli sinistri e terrifi-
canti. Un paradiso di gioie e delizie fisiche e corporali
più che spirituali, un «Paese di cuccagna» che convive
con il mito dell’antro infernale, sotterraneo di tortura
buio, pieno di strida e fetori. Si ripropone fino alla vigilia
del Concilio tridentino la conflittualità profonda tra due
visioni tanto antitetiche quanto complementari: il con-
flitto tra un «teatro missionario» impegnato in una capil-
lare cristianizzazione di massa e il «teatro popolare», …
indegno mestiere di ciarlatani…gente incallita nel vizio…le
quali col portare sul palco donne sfrontate, senza vergogna…
che coll’oscenità delle loro commedie erano di grande incentivo
a mal fare (Camporesi 1994). Il lungo periodo che va dalla
caduta dell’impero romano d’occidente fino agli albori
del nuovo millennio non vede l’arte figurativa interes-
sarsi delle rappresentazioni del corpo. L’arte barbarica
gota e longobarda, quella delle rinascenze dei periodi ca-
rolingio ed ottoniano, sembra refrattaria ad inserire mo-
delli iconografici che si rifanno visualmente al corpo
nudo, alla sua ostensione, alla rappresentazione delle
funzioni afferenti alla sfera della sessualità; la disfatta
del corpo sessuato nella sfera visuale e in quella dottri-
237
fulvio riCCi

nale, specie quello femminile, sembra essere totale. È il


mondo delle feste con le sue rappresentazioni sacre e
profane che conserva la centralità del corpo con manife-
stazioni pubbliche collettive ricche di importanti impli-
cazioni spettacolari: …Juxta ecclesiam in die vel nocte…
lamentava s. Bonifacio in una lettera a papa Zaccaria
(metà dell’VIII secolo), circa le consuetudini e i riti che si
perpetuavano a Roma in occasione delle feste di fine
anno, le Libertates Decembris che occupavano i giorni tra
Natale e l’Epifania, manifestazioni ad alto tasso di spre-
giudicatezze paganeggianti con l’emblematico uso di
maschere -ripetutamente proibito agli ecclesiastici a par-
tire dall’epoca carolingia fino al decretale di Innocenzo
III del 1207- e il ricorso a forme scenico-rituali che recu-
peravano lo spirito dei Ludi antichi. Oltre al popolo inter-
venivano alle feste anche rappresentanti professionali
specialisti: Joculatores, histriones, saltatores, balatrones (bal-
lerini), scurrae (dicitori di facezie, spesso sconce), bufones,
praestigiatores, divini (indovini), grallatores (trampolisti),
funamboli… È la letteratura che contribuisce a documen-
tare come quello che non ci è giunto in documentazione
iconica fosse però estremamente familiare alle strutture
mentali e visuali delle popolazioni dell’epoca con la cre-
azione di maschere di rara efficacia: frammenti di testi di
teatro profano dove eccelle il rifacimento ad opera di Ra-
bano Mauro del mimo conviviale bizzarro e spregiudica-
to della Coena Cypriani, elaborata su una irriverente for-
ma parodistica delle sacre scritture, o di eccezionali do-
cumenti letterari quali l’Antapodosis e la Relatio de Legatio-
ne Costantinopolitana, opere del vescovo di Cremona non-
ché messo imperiale degli Ottoni, Liutprando, nelle cui
pagine si annidano blasfemie e scurrilità che rimandano
al teatro satirico di Terenzio. Una vena sottile di ironia
salace e grassa come in una miniatura del Sacramentario
di Warmondo, del X secolo, dove nella “O” iniziale del
passo Om(ni)p(oten)s sempiterne deus qui ecclesiam tuam
nova sempre p(ro)le fecundas compaiono due figure nude
dove la donna sembra invitare l’uomo a compiere l’atto
fecondativo richiamato nel testo. Il Medioevo vede au-
mentare progressivamente anche nelle rappresentazioni
artistiche la rivincita del corpo: il folle e l’istrione, il giul-
lare e la meretrice, tutti accomunati nella sfera semantica
238
L a Donna neLL ’a ntichità

della turpitudine, sono uniti nella condanna per l’uso il-


lecito del corpo o anche solo per la gestualità incontinen-
te e sguaiata. Le figure del giullare, della meretrice, quel-
la del folle, i ministri Satanae condannati dalla Chiesa, e le
loro attività che si avvalgono della fascinazione attraver-
so il corpo, la parola, la danza e la musica divengono i
protagonisti delle rappresentazioni artistiche; i luoghi
privilegiati della loro apparizione sono i margini delle
miniature, i capitelli e le lunette; i temi preferiti sono le
allegorie contro le fascinazioni della musica e delle dan-
ze e i Giudizi Universali. La festa, sia a contenuto religioso
sia a contenuto profano, coinvolge le classi della «grande
tradizione», quella dei ristretti gruppi aristocratici, e
quelli della «piccola tradizione», le masse incolte e anal-
fabete. La piccola tradizione eludeva gli ambienti chiusi,
elitari, sofisticati degli intellettuali, dei dottori in scienza
e logica, la sua potenza creativa e vitalistica nasceva
nell’osteria, nel mercato, nella chiesa dei predicatori po-
polari, dei suddiaconi buffoni, nelle subculture dei me-
stieri, nelle controculture dei mendicanti, dei ladri. L’af-
francazione economica delle città non coincise con una
affrancazione dai modelli culturali agrari, l’essoterismo
orale si opponeva all’esoterismo scritto come trasmetti-
tore della memoria delle comunità basse. Per un para-
dossale giuoco della storia quello che sappiamo sia sulle
classi aristocratiche sia sulle masse incolte dei loro servi
lo dobbiamo all’azione di esigue minoranze specializza-
te di letterati che coincidevano in gran parte con i chieri-
ci e alla moltitudine anonima di artisti che hanno tra-
smesso i segni di una storia ignorata e rimossa, negata e
combattuta ma pervicacemente presente ed attiva. A loro
dobbiamo la creazione delle mappe culturali del mondo
e i codici per interpretarle. Il cerimoniale religioso, quo-
tidiano dramma liturgico che richiamava in occasione di
particolari feste giullari, «saltatrici», istrioni, clerices va-
gantes: …gente vile di vile vita… che trasformava la scena;
nelle piazze, nelle chiese, sui sagrati entravano il giuoco,
il riso, …scurrilitates et stultiloquia, obscenas jocationes…. I
sacerdoti erano interdetti a partecipare ma sappiamo che
partecipavano; dove arrivavano questi attori della vita lì
accorreva la gente: la farsa sostituiva il dramma, il comi-
co detronizzava il tragico. Questi avevano il potere di
239
fulvio riCCi

esorcizzare la morte: sulla scena sacra diaconi e buffoni


unificano le loro competenze per onorare l’Asino folle, il
Festum stultorum, le Feste degli Innocenti, o le Feste dei Cor-
nuti, ricreare l’equilibrio vitalistico attraverso l’inversio-
ne; è il «Mondo alla rovescia». Scriveva papa Innocenzo
III ad Enrico di Gnesen: «Accade che nelle chiese si svol-
gano spesso rappresentazioni teatrali e non solo vi si in-
troducono maschere mostruose di scene profane ma du-
rante le tre feste che seguono Natale i diaconi, i suddia-
coni e i preti prendono loro stessi parte a simile vergogna
dandosi a danze e gesti osceni…». Il Parroco/buffone
aveva il compito di calarsi nel realismo popolare del ri-
sus paschalis, nel naturalismo sordido della cultura agra-
ria per propiziare magicamente la rinascita tramite
l’esorcismo primordiale del riso fecondatore (Jacobelli
2001). È il modello carnevalesco, caotico, propiziatorio e
creativo; è la vitalissima forza del comico popolare bas-
so, dello spirito della festa collettiva connessa alla parata
dei folli, delle grandi processioni a sfondo fallico e ripro-
duttivo. La compagnia degli scacciati, demonizzata, ri-
provata, interdetta, perseguitata passava trionfalmente
dalle curie, ai monasteri, alle bettole, ponte culturale tra
due sfere che, apparentemente estranee, si riconosceva-
no nel momento esorcistico del riso liberatorio. La cultu-
ra della povertà sfila come allucinante parata dell’altro
mondo: la cultura nata fra le malattie, gli stracci, la fatica,
il dolore, l’umiliazione; la cultura servile degli infami e
dei turpi è cultura ridens, orgiastica, legata al corpo, alle
sue pulsioni più carnali e ai suoi umori, imbevuta di paz-
zia carnevalesca; il buffone medioevale, mistagogo della
scatologia sacra, è l’erede della sacertà pagana dei riti di
passaggio tra mondo dei vivi e mondo dei morti; nel IX
secolo papa Leone IV stigmatizzò energicamente alcuni
usi funebri quali l’allegria rituale e le esibizioni oscene
del buffone e delle lamentatrici prezzolate che non di
rado sfociavano in eccessi sessuali. Il percorso che per il
tramite della letteratura e del teatro configura rapporti
con l’arte figurativa porta ad individuare, proprio nella
recitazione, i prodromi di un nuovo stile figurativo dove
si inserisce all’interno della narrazione artistica una fina-
lità non solo rappresentativa ma anche narrativa. Nel ce-
lebre Arazzo di Bayeux i protagonisti si rivolgono agli
240
L a Donna neLL ’a ntichità

spettatori mediante gesti e modalità sceniche, sui suoi


bordi allignano ammiccanti figurette nude che oscena-
mente ostentano la propria nudità: sottostante all’episo-
dio dove Wido adduxit Haroldum ad Wiligelmum norman-
norum ducem compare un uomo nudo itifallico che insi-
dia una donna, sempre nuda, che sembra però ritrarsi;
ulteriori scene patentemente erotiche compaiono in cor-
rispondenza dell’episodio con …milites exieruntde He-
stenga et venerunt ad prelium contra Haroldum rege(m),
dove avviene l’incontro tra un uomo e una donna nudi;
una ulteriore scenetta vede un uomo e una donna nudi
che si invitano a vicenda; in corrispondenza dell’episo-
dio dove ubi unus clericus et Aelfgyva, l’erotismo sordido
dell’uomo nudo che ostenta il proprio sesso si complica
con il particolare scatologico del mostrare l’espletamento
di una funzione corporale (Wilson 1985). Il Medioevo
ascetico, spesso censurato nelle sue manifestazioni arti-
stiche, conosciuto nella immagine ufficiale mediata dalla
Chiesa, lascia dietro di se testimonianze sconvolgenti di
una struttura culturale di ben diverso impasto, dagli in-
gredienti contradditori: immagini e letteratura sono por-
tatrici di messaggi ambigui e, spesso, crudeli e sordidi
che possono essere icasticamente riassunti nella formula

Fig. 82: San gallo, Stadtbibliothek, Coniunctio da Rosarium Philosophorum di Arnaldo da Vil-
lanova.

241
fulvio riCCi

della esaltazione delle virtù signorili -o dei potenti- e del-


le immoralità dei deboli -o dei soccombenti-, immoralità
che sono canoniche nel mondo femminile, specie ancilla-
re. In molte città europee l’adulterio era stigmatizzato e
punito con teatrali ostensioni degli organi preposti al
peccato: gli adulteri erano trascinati nudi per la città con
la donna che camminava avanti tenendo un capo di una
corda cui era legato il membro dell’uomo. Testimonianze
iconografiche di siffatte punizioni compaiono in uno
stallo ligneo della chiesa di S. Materna a Walcourt e in
una incisione di un manoscritto tolosano, quest’ultima
scena vede la coppia degli adulteri ignominiosamente
esposti preceduti da un frate che suona una chiarina da
banditore e seguiti da soldato con scudo e lancia.
Anche la forma poetica della «Pastorella», ad una
analisi attenta si rivela essere un polo comico recitativo
di tipo erotico-carnascialesco, intessuto di doppi sensi
osceni; una sublimazione artistica dello stupro. Illumi-
nante un verso di Guido Cavalcanti, il tormentato spirito
dell’amore filosofico, che naturalmente esercitando il
privilegio signorile al possesso del «corpo subalterno» in
una sua canzone così celebra il veloce amplesso con una
giovanissima popolana: …fra me stesso diss’ì’: Or è stagio-
ne/di questa pastorella gio’ pigliare…; e ancora in una antica
canzone pubblicata nel 1622 da Giovan Battista de Rossi
è possibile notare come i privilegi signorili siano stati fat-
ti propri dai borghesi cittadini che li esercitavano nei
confronti delle «villanelle» campagnole anche se restie:
… Seguila, pigliala, cercala, trovala,/ Fin che l’hai in to’ do-
min/ Pigliala, stringela, tienila, chiamela…/ Tochela, palpela,
mirela, guardela/ Se tu voi spasso fin/ Poi come sarai conten-
to…/sprezzala, scacciela, fuggila, lassela…; nobili di corte e
chierici di curia discettano sull’amore rusticorum equipa-
rando gli uomini dei campi alle bestie e teorizzano la li-
ceità della violenza verso le donne del volgo, ritenute res
nullius. Più contenuta, forse solo più censurata, la docu-
mentazione iconica, il corpus di immagini giunto fino a
noi permette però di liberare il Medioevo da non poche
inibizioni morbose o censure a posteriori, la nudità ma-
schile e femminile compare con notevole frequenza nella
iconografia sacra: Creazione, Cacciata dal Paradiso, Ubria-
chezza di Noè, Giudizio Universale, Battesimo di Gesù, in
242
L a Donna neLL ’a ntichità

quante scene bibliche le varie «Betsabee al bagno» o «Su-


sanne con i vecchioni» sono occasione per la rappresen-
tazione non solo di voluttuosi e affascinanti nudi di don-
ne, eroine falsamente pudiche nelle loro nudità esibite,
ma anche per mettere in scena situazioni e contesti asso-
lutamente pruriginosi, volutamente ambigui ed eccitan-
ti? O ancora nelle agiografie della nuova era, quante san-
te Caterine, Cristine, Agate… sono le inconsapevoli attri-
ci di scene suppliziali intrise di ambiguità ad alto tenore
erotiche? Ancora più morbose perché inferte a teneri cor-
pi esposti nudi ed indifesi. La scultura monumentale, la
pittura murale e le decorazioni miniate sono fonti ricche
di immagini attinenti la sessualità con significazioni
criptiche o equivoche, dove la volontà di rilanciare mes-
saggi moralizzati si affida ad un lessico dagli umori forti,
spesso sconcertanti, che lasciano il dubbio sulle vere in-
tenzioni sottese a rappresentazioni inequivocabilmente
allusive, quando non esplicitamente oscene. Wiligelmo a
Modena o Giselbertus ad Autun, nella cattedrale di
Saint-Lazare, solo per indicare due vertici dell’arte scul-
torea, giocano arditamente sull’ambiguità del nudo stra-
tegicamente appena coperto da foglie sulle parti intime;
in relazione a questo modello gestuale che accomuna sia
opere in scultura che in pittura è di particolare rilievo
verificare come spesso, specie nella miniatura di X/XI
secolo, le figure di Adamo ed Eva non solo si coprono
con le foglie di fico, conformemente al dettato della Ge-
nesi come lo conosciamo dalle traduzioni della Vulgata,
ma lo stesso frutto che viene loro donato dal serpente
tentatore è un fico, frutto emblematico che simboleggia
l’albero dei frutti proibiti, di conseguenza si viene a crea-
re una tradizione che si lega al connesso simbolismo del
frutto con l’organo sessuale femminile come avveniva in
antico -il termine greco σιχέ aveva lo stesso significato
simbolico- e come è ancora in uso nel linguaggio parlato
triviale odierno. L’esposizione del sesso o di pratiche ses-
suali nello spazio sacrale delle chiese, all’esterno come
all’interno, è tanto ampia quanto ardua ne rimane la con-
testualizzazione culturale, ne sono un patente esempio
la miriade di scene che segnano molte delle chiese distri-
buite lungo il Camino de Santiago de Compostela, nel duo-
mo di Friburgo uno dei gargouille è una figura femmini-
243
fulvio riCCi

le nuda colta in un atto di autoerotismo; giullari e salta-


trici, attori turpi in preda a frenesie esibizionistiche o
sessuali sia singolarmente che in coppia ornano capitelli
e portali; scene per le quali un importante contributo in-
terpretativo rimane quello della teologa morale israelia-
na Kenaan-Kedar che inquadra le scene in un contesto di
«commedia umana» (Kenaan-Kedar 1995), tranche de vie
che illustrano un mondo marginale, spesso moralmente
infimo ma sempre presente e portatore di semiotica cor-
porea le cui valenze sono ancora da definire compiuta-
mente. La raffigurazione di personaggi contrassegnati
da evidenti, spesso esagerati, attributi sessuali nella scul-
tura monumentale ecclesiale a partire dal secolo XII è di
così ampia diffusione in Europa da esimere da ogni sfor-
zo dimostrativo, nonostante che nel trascorrere dei seco-
li più volte si siano verificate le condizioni per un pesan-
te intervento censorio su una miriade di simili testimo-
nianze. Rimane criptica la funzione di tali immagini,
anche se è certo che la griglia ermeneutica da sovrappor-
re a queste serie iconografiche non può assolutamente
essere solo una, è il contesto che deve guidare sul percor-
so necessario a carpire a molte di queste raffigurazioni i
loro contenuti di storia, la loro funzione di trasmettitori
di saperi, il riscontro di elementi significanti diversi, coe-

Fig. 83: Gubbio, S. Maria Nova Madonna del Belvedere.

244
L a Donna neLL ’a ntichità

renti e convergenti in un univoco insieme rivelatore del


retroterra culturale dei temi e dei motivi iconografici
rappresentati: espressioni della cultura orale, credenze,
racconti, fiabe, proverbi, fabliaux e sotties… che di bocca
in bocca di generazione in generazione hanno trasmesso
il sapere del volgo rifornendo di senso immagini ed alle-
gorie espressioni della quotidiana fatica del vivere e dei
riti esorcistici, spesso sguaiati, messi in opera per alle-
viarne il peso; oppure più articolati e complessi saperi
frutto di elite colte sia clericali sia laiche che nella produ-
zione di figure vedevano il modello ideale per diffondere
immagini il cui senso fattuale ed espressivo era com-
prensibile ai soli membri delle minoranze intellettuali o
agli iniziati di sette, gilde e corporazioni professionali.
Certo alcune di queste rappresentazioni lasciano alquan-
to perplessi sul loro portato significante e sulla loro spe-
cifica funzione, un esempio emblematico è rappresentato
dalla affascinante giovane donna nuda che in un capitel-
lo della cattedrale di Auxerre cavalca un capro; o la pre-
senza di immagini di figurine femminili completamente
calve con le gambe divaricate nell’atto di una laida osten-
sione del sesso spesso evidenziandolo con le mani, le
Shela-na-Gig, a decine presenti sulle chiese irlandesi
(Wright 1957); queste figurine hanno il loro corrispettivo
maschile in figure che ostentano il fallo e che general-
mente vengono posti in relazione alle sopravvivenze di
antichi culti fallici (Castelli 1995). Il bagaglio iconografi-
co medioevale, le cui vie di trasmissione, intuibili a
sprazzi, restano in sostanza ancora da ricostruire in quei
peculiari percorsi che riportano alle radici della cultura
classica, recupera temi antichi come la donna dai seni
morsi da serpenti o draghi, letta ora come simbolo della
lussuria, ora come quello della terra; e anche frammenti
dell’antico repertorio dionisiaco con la rappresentazione
di satiri, baccanti e menadi, come avviene in alcuni capi-
telli delle chiese romaniche del Casentino o del Valdar-
no, nelle pievi di Gaville a Figline Valdarno, S. Martino a
Vado, Stia, Gropina. In quest’ultima località, nella pieve
di S. Pietro, il celebre pulpito più volte preso in esame
dalla critica specialistica, presenta una serie di figurine
equamente suddivise tra maschili e femminili che pon-
gono in particolare evidenza, senza alcun ritegno, le loro
245
fulvio riCCi

nudità, inoltre su due delle lastre torna ossessivo il tema


della Lussuria simboleggiata dalla Sirena tentatrice e da
un uomo a gambe divaricate; la pieve di Gropina presen-
ta anche nei capitelli la raffigurazione di baccanti che,
come nella pieve di S. Romolo a Gaville, sono affiancate
da una misteriosa figura di vecchio che si tira la barba.
La lettura iconologica di questi complessi decorativi vie-
ne proposta come una traduzione moralizzata delle im-
magini che sono funzionali ad una esplicita ed ossessiva
condanna violenta e diretta della lussuria, in assoluto il
più deprecato dei peccati capitali; si tratta di una lussuria
ritualizzata attraverso l’evocazione della danza della
baccante affiancata dal satiro che evoca una dimensione
demoniaca che trasferisce la scena nella dimensione del
sabba stregonesco dove si adombra la precisa volontà di
stigmatizzare comportamenti e credenze nel contesto
delle popolazioni contadine. In quel lasso di tempo con
papa Innocenzo III sarebbero cominciate le prime prese
di posizione ufficiali della Chiesa per contrastare il feno-
meno.
L’ostentazione di immagini fortemente caratterizza-
te sessualmente o di simboli attinenti alla sfera sessuale
nelle chiese italiane, per quanto molto meno indagata che
in altre aree europee, si presenta notevolmente ricca e ar-
ticolata nei suoi portati semantici. Invisibili ai più sono
transitate fino a noi immagini che la cultura attuale, forse
in virtù del suo essere figlia dell’etica post-tridentina, tro-
va incongrue, ridicole, comiche o curiose ma comunque
vuote di senso, rimangono mute allo spirito contempora-
neo immagini come i seni femminili che campiscono una
arcatella pensile o la scena di coito sul muro esterno della
chiesa di S. Secondo a Cortazzone; così come del tutto
ermetici rimangono i significati sottesi alle due figurine
nude, un uomo e una donna, che compaiono sulla base
della semicolonna che affianca l’abside nella chiesa di S.
Maria Nova a Viterbo -a renderne ancora più complica-
ta l’interpretazione è da notare come la figura maschile
presenta una maschera animale-; criptica resta anche la
celebre rappresentazione plastica della Potta di Modena,
una delle metope più celebri del duomo. La metopa, at-
tualmente conservata nel Museo Lapidario della città,
datata al primo trentennio del XII secolo, rappresenta
246
L a Donna neLL ’a ntichità

una delle più sconcertanti iconografie messe in scena


dall’arte romanica sulle pareti del celebre duomo mode-
nese: un personaggio androgino con le gambe spalancate
che mostra impudicamente l’ambigua sessualità. Anche
un altro rilievo pressappoco coevo alla metopa modene-
se, la Putta di Porta Tosa a Milano, variamente datata tra
XII e XIII secolo -oggi conservato nel Museo del Castello
Sforzesco- solleva pruriginose curiosità ma rimane mi-
sterioso ed enigmatico sulle sue reali significazioni; in
questo caso però viene comunemente accettata la lettura
che vede nella statua una immagine di anasyrma, rappre-
sentazione apotropaica con un valore ingiurioso verso
potenziali nemici ostili alla città connesso alla oscena
ostensione della donna in atto di rasarsi il pube. Antiche
tradizioni identificano nella figura ora una prostituta che
con il suo gesto distrae le truppe di Federico Barbarossa
permettendo ai milanesi di rinforzare le difese della por-
ta e respingere gli invasori; ora la stessa Beatrice di Lo-
rena, moglie dell’imperatore, così effigiata per dileggio.
In scultura la rappresentazione del nudo raggiunge vet-
te altissime con il recupero classico della statuaria gotica
che in Italia, pur non disdegnando scenette di genere che
sembrano attingere alla tradizione faceta orale come le
due figurine allocate sulle basi delle colonnine che fian-
cheggiano il portale del S. Fortunato di Todi, con il frate
nudo in erezione che punta la suora sul lato opposto che
con la tonaca alzata mostra le terga nude mentre è morsa
al calcagno da una salamandra, simbolo di lussuria, tro-
va apici sublimi nella produzione di Nicola Pisano e del
figlio Giovanni, nel pulpito del duomo di Pisa, la Pruden-
za, ad evidenza esemplata su un prototipo antico della
Venere pudica, si pone come una delle più belle immagini
di un nudo di donna di tutto il Medioevo.
Il percorso ermeneutico tra le significazioni connesse
alla rappresentazione del corpo nudo o delle funzioni ad
esso connesse, sessuali o naturali, simboliche o connesse
a tranche de vie, ludiche o infamanti, lecite ed illecite, trova
sbocchi impensati ed imprevedibili. Lo spaccato storico e
sociologico che si delinea dalla analisi dei documenti ico-
nici tra mille difficoltà giunti fino ai nostri giorni delinea
un discrimine socio-culturale tra un mondo moderno e
un mondo antico che può approssimativamente iden-
247
fulvio riCCi

tificarsi nelle strutture del nuovo ethos che emerge dai


grandi fenomeni riformatori che segnano il XVI secolo:
la riforma protestante e la riforma cattolica. Un mondo
vecchio, panpsichistico e carnale marginalizzato e reso
afasico ma non debellato, un mondo che parla ancora
nelle manifestazioni trasfigurate e moralizzate delle epi-
fanie folcloriche, delle feste, delle tradizioni, dei modi di
dire, della cultura orale infarcita di simbolismi gestuali e
linguistici. Il complesso delle cognizioni che costituisco-
no il nucleo della civiltà contemporanea tende a relega-
re nello spazio sordido delle subculture urbane o rurali
forme di rappresentazione visuale che, al contrario, nelle
società più antiche occupavano spazi prestigiosi pubblici
a destinazione civica o anche, come sopra documentato,
a destinazione religiosa. Come leggere la scena carica di
intenso erotismo che compare dipinta sulla facciata del
Palazzo dell’Arengo a Novara? Una dama, i cui abiti ele-
ganti ma aperti a mostrare le intime nudità qualificano
per una nobile, afferra energica e decisa il fallo eretto di
un uomo dal volto stravolto dalla tensione orgasmica, il
tratto pesante del segno che definisce le figure, i colori
vivaci accentuano la carnalità lussuriosa dell’episodio,
parte di un ciclo profano di pittura che si distende per
37 ml. suddiviso in scene diverse e non collegate da rife-
rimenti logici di interdipendenza che rappresentano epi-
sodi di amministrazione del potere politico e giudiziario:
tornei, lotte con draghi e il citato episodio erotico. Il ciclo
fu commissionato intorno al 1260 dai Milites novaresi,
classe di aristocratici che avevano conquistato il potere
in città già agli inizi del XIII secolo frustrandone tutte
le aspirazioni di libero comune. L’episodio novarese un
unicum, almeno a quanto è dato conoscere, nella assoluta
icasticità rappresentativa, non lo è però nella rappresen-
tazione della tematica sessuale esibita sulle pareti di un
pubblico edificio, coevo al ciclo dell’Arengo è quello che
campisce una delle pareti della fontana pubblica di Mas-
sa Marittima. L’affresco, datato al 1265, rappresenta un
grande albero fronzuto i cui frutti sono costituiti da falli
intorno ai quali volano degli uccelli, alcune donne sono
intente a cercare di cogliere tali frutti, due di queste sono
colte in atto di accapigliarsi furiosamente per il possesso
di uno degli speciali «frutti»; un simile motivo iconogra-
248
L a Donna neLL ’a ntichità

fico compare in una miniatura che correda una edizione


trecentesca del Roman de la Rose: una suora raccoglie frut-
ti a forma di fallo che cadono da un albero e li ripone nel
suo canestro.
Di grande rilevanza in relazione all’argomento in esa-
me sono poi, infine, due ulteriori aspetti dove il corpo
nudo immortalato in una miriade di documenti iconici
comprensibili solo ad un pubblico di iniziati, diviene
protagonista di comportamenti, usanze, riti dove vengo-
no riscontrate le forme più sordide e ributtanti di rituali
scatologici, o raffinate e rarefatte speculazioni intellet-
tualistiche che transitano nel reale tramite immagini di
complessa formulazione.
Al primo genere di tali documenti appartengono le
innumerevoli rappresentazioni di attori protagonisti
dei cerimoniali misteriosi e segreti delle iniziazioni per
l’ingresso nelle corporazioni delle arti e dei mestieri.
Leggende, racconti, proverbi, santi patroni relativi alle
attività quotidiane legate alla sapienza manuale e ai ci-
cli stagionali, comportano rituali e simbolismi registrati
anche dalle arti visive. I segreti dei mestieri dei tessitori,
dei carpentieri, dei muratori procedono da ascendenti
mitici: Noè, Nemrod, Salomone, Hiram e si protraggo-
no nelle generazioni per secoli nella tragica ambiguità di
chi operando modifica cose e ambienti che Dio ha creato
per rimanere immutabili. Gli stalli di numerose chiese
presentano strani personaggi che piegati a 90° con le bra-
che calate e il grembiule di cuoio sollevato offrono il po-
steriore al sozzo cerimoniale del bacio anale (gaignebet,
lajoux 1986). Tale pratica che ad una superficiale osser-
vazione sembra rispondere alle fole delle chiacchiere o
dei giochi infantili rivela invece una continuità nella sto-
ria stupefacente: l’azione laida, momento centrale dei riti
iniziatici delle arti e professioni, diverrà il contrappunto
comico nelle recite carnevalesche e nel teatro di strada,
ma sarà evocata anche in rapporto ad un gran numero
di eresie, le descrizioni medioevali del sabba trovano
come punto comune di accordo la pratica di simile bacio
al diavolo in forma di caprone. Il «Folle», il «Leccatore»,
ma anche il «Sodomita», la «Meretrice», la «Mezzana»,
protagonisti di un linguaggio perduto, ancora nel XV
secolo si ritrovano su capitelli, stalli lignei, rilievi archi-
249
fulvio riCCi

tettonici, importanti palcoscenici dove riproporre i loro


antichi e dissacranti messaggi di inversione o denuncia
sociale che dei ludi scatologici e dell’esaltazione del bas-
so corporale fanno il mezzo della loro comunicazione. È
il realismo della cultura occidentale che aveva già avuto
un suo eccezionale precedente concettuale nella rivolu-
zione di Dante nella lingua e Giotto nelle arti figurative.
È nella introspezione filologica filtrata attraverso la pro-
spettiva folclorica che viene a illuminarsi di nuova luce
la farsa dei diavoli nei canti XXI e XXII dell’Inferno, la …
diversa cennamella… di Barbariccia, diavolo/caprone che
propone un suo grottesco contrappunto sonoro all’azio-
ne dei diavoli queruli e litigiosi, segna il culmine di un
processo di carnevalizzazione che porta il minaccioso
teatro dell’aldilà dantesco verso la parodia nutrita della
volgarità e della viscida lubricità scatologica propria del-
le manifestazioni della cultura rurale o suburbana. Così
come in Giotto l’osservazione della natura e dell’uomo
nel suo quotidiano proporsi negli aspetti della vita porta
alla creazione di capolavori naturalistici, il maestro nel-
la sua fatica patavina crea immagini di assoluta novità
quali il vaso con melegrane, fiori, ricci con castagne e spi-
ghe -la prima raffinata natura morta successiva all’estin-
guersi dell’arte imperiale- ma anche il naturalistico nudo
nella allegoria dell’Ingiustizia con la donna spogliata da
un malfattore, mostrata nella sua umana sofferenza con
la pancia laidamente gonfia. Una nuova barriera sem-
bra crollata, viene a riproporsi il problema della rappre-
sentazione dei corpi nudi o di scene ad alto contenuto
erotico nell’ambito dello spazio sacro perdurato almeno
fino all’applicazione dei decreti tridentini. Sotto questo
aspetto un documento eccezionale è rappresentato da un
capolavoro del tardo gotico quale la raffinata Madonna
del Belvedere dipinta nel 1403 dal maestro eugubino Ot-
taviano Nelli: nelle colonne tortili monocrome che fan-
no da cornice al gruppo della Vergine affiancata da santi
compaiono dei piccoli clipei con la rappresentazione di
icastiche scene erotiche.
Serie di motivi iconografici dove la rappresentazione
del nudo assume peculiari significati simbolici sono rap-
presentate da temi afferenti alla medicina e all’alchimia.
Il concetto di una profonda interrelazione tra l’uomo e
250
L a Donna neLL ’a ntichità

le forze cosmiche ebbe tra i primi teorizzatori Ippocrate


e Democrito, l’apparato speculativo connesso a questo
aspetto è alla base della elaborazione di una disciplina,
la Melothesia, che occupa uno spazio indefinito tra la me-
dicina e la cura del corpo -Marco Manilio nel suo Astro-
nomica introdurrà le basi della iatromathematica o della ia-
troastrologia-, la filosofia, la teologia, l’esoterismo. Quello
che emerge ad evidenza è il protagonismo e la centralità
del corpo umano nella sua fisicità ed articolazione anato-
mica, è il corpo inteso come modello anatomico, presen-
tato nella sua nudità quale immagine ideale della iden-
tità tra macrocosmo e microcosmo. L’antropocentrismo
figurale che procede da questa peculiare temperie filoso-
fico-culturale pone l’uomo come centro degli influssi che
possono derivare dalle potenze celesti o, secondo visioni
diverse, dalle potenze astrali che spesso vengono a com-
plicarsi con particolari teorie che fanno riferimento alla
cultura sapienziale di matrice alchemica (Calvesi 1993).
La riconquista di una centralità speculativa del corpo
umano funzionale ad interventi terapeutici è foriera di
produzione di cospicue serie iconografiche con illustra-
zioni didattiche di tipo medico ma dove, non di rado,
si insinua una ambigua indulgenza alla esplicita rap-
presentazione di piaceri carnali. Il miniatore lombardo
che illustra il raffinato Tacuinum sanitatis della Bibliotéque
Nazionale de Paris, presenta una esplicita rappresentazio-
ne del Cohitus, accompagnato dalla legenda: …unione di
due al fine di immettere sperma. Ma è nella illustrazione dei
bagni dove le calde fantasie degli illustratori si liberano
nelle più esplicite raffigurazioni di uomini e donne nudi
che talvolta da soli in singole tinozze, più spesso in totale
promiscuità si bagnano in appositi edifici termali; il tema
oltre che nella produzione miniata è trattato negli affre-
schi di Memmo di Filippuccio, datati al 1318, nella Ca-
mera del Podestà a S. Gimignano dove il contesto figura-
tivo illustra l’iniziazione al sesso di un giovane. Nel XIII
secolo si assiste ad un forte rilancio del termalismo che
la Chiesa gratificò sempre di una sospettosa attenzione,
anche se non mirò mai ad una abolizione quanto al con-
trollo e alla moralizzazione, così da evitare la degenera-
zione nel diversivum vitiorum già condannato da Seneca.
La fioritura dell’idrotermalismo sembra non conoscere
251
fulvio riCCi

soluzioni di spazio nell’Europa medioevale, la testimo-


nianza più eclatante viene ad essere rappresentata dal
poema composto nella seconda decade del XIII secolo da
Pietro da Eboli dedicato all’imperatore Federico II che
descrive le qualità di 35 sorgenti nell’antica area termale
dei Campi Flegrei, già famose in età classica, dove as-
solvevano sia a funzioni terapeutiche e ludiche sia a più
piccanti godimenti: Marziale ironizzava sul fatto che le
donne arrivavano ai Campi quali novelle Penelopi e se
ne ripartivano trasformate in licenziose Elene. I Bagni
riconquistano la fama di luoghi di delizie, qui il mitema
letterario ed iconografico della «Fontana di Giovinezza»
edulcorato di ogni connotazione mistica e religiosa sem-
bra tradursi in affascinante realtà. Le miniature dei codici
del De Balneis riflettono questo aspetto indulgendo sulla
rappresentazione di uomini e donne nudi promiscua-
mente immersi nelle acque. La gioiosa riscoperta della
corporeità avvenuta nella promiscuità dei centri termali
conosce una emblematica testimonianza nella corrispon-
denza tra dotti umanisti, medici ed aristocratici in cerca
di piccanti diversivi: in una lettera scritta all’amico Nic-
colò Niccoli da Poggio Bracciolini, in viaggio in Germa-
nia per le sue funzioni di segretario di papa Bonifacio IX,
questi osserva con stupita ammirazione la promiscuità
tra donne e uomini nelle vasche delle terme di Baden che
il dotto e disinvolto umanista fiorentino battezza come
una riproposizione delle felicità dell’Eden; mentre in una
missiva del medico bolognese Floriano Delfo, inviata al
marchese Francesco Gonzaga -noto per la sua disinvol-
tura e voracità sessuale- per magnificare le acque di Por-
retta Terme si richiama ancora l’antichità edenica ma de-
cisamente in termini molto più scabrosi nella illuminante
descrizione del luogo e dei suoi frequentatori: «…l’acqua
del bagno de la Porreta… mi pare essere simile a quella
piscina probativa narrata da santo Joanne… in questo
solo loco fra tutti i loci de’ cristiani se adora et mantene la
vera libertate che mi resemela quella prima etade aurea
che senza alcuna discrezione et cognizione de pronomi
ogni soa cosa era in comune. Ogni reverentia et pudore
è alieno da li bagnaroli che non si vergognano di pedere,
cacare, rutare et pissare in pubblico monstrando spessis-
sime volte senza rubore li culli, cazi, et pete et perché il
252
L a Donna neLL ’a ntichità

coito dicono esser nocivo a le done che beno l’acqua per


amore della matrice si contentano et consentono queste
damiselle esser fottute nel buso del cullo. Insieme ma-
schi e femmine entrano nell’acqua ignudi et qui il marito
non ha gelosia de la moglie, il padre de la figlia, el fra-
tello de la sorella, sapendo che la morte qui custodisse la
corruptione» (Chambers 1998).
Il nudo è spesso attore in episodi che, oggettivamente
afferenti alla sfera sessuale o alla rappresentazione mo-
struosa, sono però trasfigurati in significati altri attraver-
so il filtro della visione ermetico-filosofica. La rappresen-
tazione del nudo nell’arte, particolarmente ricco nei par-
ticolari anatomici e nella esplicita gestualità, raggiunge
vette altissime con il Manierismo, lo studio delle propor-
zioni e dell’anatomia, la particolare temperie culturale di
matrice ermetico-esoterica che trova riscontro in com-
plessi simbolismi dove la figura umana ha una funzione
centrale, porta maestri come Leonardo e Dürer e la pleto-
ra degli epigoni o degli imitatori a cimentarvisi ripetuta-
mente. Sono noti i numerosi disegni a tema erotico, spes-
so anche apertamente goliardico, descritti da Lomazzo
prima della loro distruzione, realizzati da Leonardo, il
tenore di tali opere può essere ben esemplato dal disegno
con l’Angelo incarnato, dove la efebica figura -sembra uno
studio del celebre Giovanni Battista del Louvre-, per la
quale aveva ad evidenza posato come modello il terribile
allievo Gian Giacomo Salai, mostra un grande fallo in
erezione evidenziato anche dalle sfumature di pastello
rosso. Qui si ripropone il problema dei contenuti sottesi
a simili performance artistiche, più volte è stato sottoli-
neato dagli studiosi che vi si sono cimentati, come dietro
a molte delle esecuzioni leonardesche si trovassero le ri-
flessioni sui suoi studi anatomici -è facile inserire in que-
sta serie la tavola del 1492 con rappresentazione in sezio-
ne di due figure nell’atto del coito- o filosofico-esoterici
ma dove dobbiamo cogliere la linea di discrimine tra
queste riflessioni e un più triviale e personale diverti-
sment di natura erotica, complice anche l’ambiguo ami-
co-garzone Salai? Sulla medesima linea si colloca anche
Dürer, il suo trattato delle proporzioni pubblicato solo
nel 1528 rappresenta la tappa di arrivo di un lungo per-
corso di riflessione sul tema che attraversa tutta la sua
253
fulvio riCCi

produzione ma come è lecito interpretare uno dei suoi


numerosi autoritratti, quello dello Schlossmuseum di
Weimar, che lo vede raffigurato completamente nudo
senza, almeno in apparenza, nessun tipo di giustificazio-
ne didattica? Per il maestro di Norimberga il legame tra
la raffigurazione di corpi nudi e i significati alchemici è,
peraltro, abbondantemente documentata, i suoi disegni
datati al 1496 con Donne al bagno e Uomini al bagno, hanno
un ampio riscontro in numerose tavole realizzate per
corredare testi di alchimia. Con il significato di Purifica-
zione della materia le scene del bagno compaiono in testi
di alchimia fin dal XV secolo, celebre la tavola dello
Splendor Solis di Trismosin in un codice del 1582, copia di
un originale perduto, dove alla base del riquadro con
l’Arbor Philosophorum compare la scena di Bagno delle
donne. Il risorgente neoplatonismo ermetico è il brodo di
coltura per il recupero di un nuovo modello speculativo
ricco di spiccati elementi mistici, magici, esoterici che
contraddistinguono tutte le attività intellettuali, non ulti-
me quelle inerenti le arti figurative. Esso dissolvendo le
solide basi del razionalismo aristotelico viene a rappre-
sentare lo sfondo ideologico sul quale si impiantarono in
forme più o meno selettive le arti figurative ricercando
nel simbolismo di natura magico-esoterico un nuovo ap-
prodo per la rappresentazione dell’uomo, del suo mon-
do fisico ed interiore. L’arte figurativa comporta al pari
dell’Opus alchemica, una travagliata riduzione fisica della
materia dall’informe alla forma tramite un faticoso pro-
cesso creativo che attinge allo spirituale e aspira alla bel-
lezza, al sublime. La scoperta inattesa di una tradizione
esoterica creò fermenti e sensazioni nuove nel mondo in-
tellettuale, anche in quello di stretta osservanza religio-
sa, Pico della Mirandola sottolineava come il processo
speculativo incentrato sui dogmi di fede e sui temi trini-
tari e cristologici aveva ora tutta una nuova potenzialità
di comprensione grazie alle scienze magiche e cabalisti-
che. Il fiorire delle speculazioni, teologiche, teosofiche,
filosofiche ebbe nel processo artistico esiti molto diffe-
renziati: dai criptici ed articolati messaggi veicolati da
opere complesse, ricche di implicazioni significanti a più
immediate allegorie dove il manto del messaggio intel-
lettualistico alto, ricco di addentellati con le leggende del
254
L a Donna neLL ’a ntichità

mito classico rilette in chiave moralizzata, con difficoltà


riveste più palesi inni vitalistici e pansessualistici. Alla
produzione delle immagini moralizzate appartengono la
pletora delle riproduzioni degli antichi miti dove la pale-
se intenzione di contrapporre dialetticamente la lotta tra
i vizi e le virtù favorisce una delle più imponenti produ-
zioni di figure nude, spesso ammantate solo da una am-
bigua frenesia vitalistica e carnale. Le eroine dei miti Eu-
ropa, Andromeda, Leda, Io, Danae, Callisto, Dafne, Si-
ringa, le Nereidi…, insidiate da divinità marine ed olim-
piche, da satiri infoiati, celebrate da Ovidio nelle sue
Metamorfosi; e il recupero di antiche divinità come Diana,
Fortuna, Occasio, e ancora Priapo, divengono altrettanti
pretesti per creare scene di spinto quanto ambiguo eroti-
smo. Il codice rappresentativo di queste immagini, stili-
sticamente e culturalmente alto, quasi essenzialmente
destinate ad una classe di fruitori d’élite, creava le condi-
zioni per lo sviluppo di un più articolato codice visivo
che comportava nelle immagini la compresenza di più
livelli semantici tra i quali sempre maggiore peso veni-
vano ad assumere le funzioni di esaltazione delle fanta-
sie erotiche. È emblematico notare come nei penitenziali
medioevali sono molto rare le implicazioni del peccato
di lussuria connesse alla vista, contrariamente a quanto
avviene per gli altri sensi; nella peculiare koinè culturale
rinascimentale, invece, la vista tende progressivamente
ad emergere come senso erotico privilegiato, a lungo ce-
landosi dietro il mascheramento o della poesia delle fa-
vole antiche, o dell’autorità delle Scritture e delle agio-
grafie santorali. Gli aspetti più alti e complessi di questa
sfrenata e raffinatissima sensualità che diviene cifra ca-
ratteristica delle ricche e colte corti rinascimentali a par-
tire da quella pontificia di Roma, trovano la più compiu-
ta esemplificazione nella vita e nell’opera di Raffaello.
Figura emblematica e quanto mai complessa, aliena dal-
la eccentricità di Leonardo come dal tormentato rovello
creativo ed esistenziale di Michelangelo, Raffaello libera-
to dalla santificatoria leggenda agiografica di Vasari, si
presenta come un personaggio dal fascino totale ed im-
mediato, libero e felice nel suo innamoramento per l’arte,
la vita, le amicizie, specie quelle femminili che segnaro-
no tutta la sua breve esistenza in un clima sensuale di
255
fulvio riCCi

appagante erotismo, cui le persone a lui vicine imputaro-


no la sua stessa morte frutto degli eccessi amorosi del
maestro. Non solo la sua sublime pittura ma anche la
vita di Raffaello furono una vera opera d’arte che simbo-
leggiava al meglio il panpsichismo e il pansessualismo
che imperava nelle corti italiane. Cifre folli venivano
spese per cacce, buffoni, banchetti e soprattutto comme-
die, dove sempre con più frequenza recitavano donne e
uomini nudi in una apoteosi di ostensione di corpi e di
lascivia; le cortigiane che alimentavano quel sogno di
raffinata sensualità sempre più spesso acquisirono un
ruolo importante nella società, Imperia, amante del car-
dinale Domenico Cornaro e regina delle feste romane, o
Albinia assidua del cardinale Bibbiena, o Beatrice ferra-
rese che a detta di Vasari fu la modella della Velata di
Raffaello. La licenziosità nei costumi sessuali, spesso
sfrenati, sia etero sia omosessuali, era propria anche dei
personaggi più importanti dell’aristocrazia laica come
anche di prelati, compresi i papi. Emblematico per defi-
nire un peculiare aspetto della cultura e della mentalità
dell’epoca, al di la della sua veridicità, il crudo sonetto di
anonimo che ha per oggetto i vizi di Giulio II: «provisto
de Corso, de Tribiam, de Malvasia, e de’ bei modi assai
de sodomia, menor biasimo te fia col Squarcia e Curzio
nel sacro palazo tenir la bocha il fiasco e in cullo el cazo»
(Niccoli 2005).
La voluttuosa sensualità elegante, raffinata ma non di
rado decisamente esplicita, che impregnava le opere di
Raffaello e dei suoi allievi fu la felicità dei suoi commit-
tenti. Sulle volte della Villa suburbana di Agostino Chigi,
culla del suo amore per la cortigiana veneziana France-
sca Ordeaschi, Baldassarre Peruzzi, Sebastiano del Piom-
bo, il Sodoma ma in particolare Raffaello misero in scena
uno dei più eccellenti episodi di pittura profana ispirata
ai miti classici; Raffaello nel Trionfo di Galatea e nella Log-
gia di Psiche raggiunse apici ineguagliati di grazia e di
malizia, il virginale nudo di Galatea si erge rigoglioso ed
indifferente ai licenziosi giochi d’amore che si intreccia-
no nel suo seguito di mostri marini, l’atmosfera di sottile
erotismo che spira in questa scena come in quelle dipinte
nella Loggia di Psiche, trova il suo icastico simbolo nel fe-
stone di fiori e frutti che sormonta il pennacchio con la
256
L a Donna neLL ’a ntichità

raffigurazione di Mercurio, qui un grande fallo formato


da zucche e melanzane si indirizza verso un fico scuro
dalla buccia impudicamente aperta a mostrare la polpa
rossa, allusione al sesso femminile.
L’aura liberatoria che spirava nel complice rapporto
tra committenti e artisti è foriera dell’esplosione di una
notevole produzione artistica di contenuti volutamente e
prepotentemente pornografica, l’episodio fondamentale
sotto questo aspetto è senza ombra di dubbio da ricon-
nettere con la creazione de’ I Modi. L’opera vide la luce
sullo scorcio del 1524 grazie ai disegni di Giulio Romano
all’epoca, dopo la morte di Raffaello, il pittore più pre-
stigioso sulla piazza romana; incisi dal raffinatissimo
bolognese Marcantonio Raimondi; diffusi a stampa da
Baviero de’ Carocci. A distanza di qualche tempo Pietro
Aretino vi aggiunse a commento i suoi Sonetti lussuriosi.
Il successo fu clamoroso, vi furono repliche più o meno
raffinate in tutta Europa, lo stile elevatissimo che tradiva
le profonde riflessioni e lo studio sul movimento e sulla
anatomia umana -sia maschile sia femminile-, espressa
nella più alta perfezione del canone classico ed esplorata
nelle più ardite delle possibilità dinamiche, non attenua-
va minimamente la eccezionale carica eversiva audace
e spregiudicata dei contenuti, tanto più audace perché
nulla era celato sotto la cornice della favola mitologica,
l’opera era intenzionalmente inserita in una esplicita ca-
tegoria di immagini ad altissimo tasso di contenuto por-
nografico, tanto da provocare una forte azione di censura
da parte di papa Clemente VII che portò all’imprigiona-
mento di Raimondi. I Modi sono stati letti anche alla luce
di un modello interpretativo di matrice alchemica, le
sedici tavole viste come una rappresentazione della Co-
niunctio, o «Matrimonio alchemico» in forma più espli-
cita chiamato dagli iniziati coitus. Il termine, nel luogo
semantico proprio degli iniziati alle discipline ermetiche,
era utilizzato come rappresentazione della riconciliazio-
ne degli opposti, l’unione del principio maschile e quello
femminile; la trattatistica alchemica vedeva codificato
questo assunto con l’esplicita rappresentazione di un
uomo e una donna nell’atto di copulare. L’emblematica
alchemica è luogo di elaborazione di una immensa quan-
tità di temi e motivi iconografici che se estrapolati dal
257
fulvio riCCi

loro specifico ambito simbolico appaiono quantomeno


sconcertanti, è in questo spazio semantico che vengono
prodotti motivi iconografici quali il Rebis, l’androgino a
due teste; la Fons Mercurialis, magica fontana che ridona
vita e giovinezza; il coitus della coppia regale che esplici-
tamente esprime una apologia all’incesto alchemico.
Il potere di turbare, esaltare, eccitare, inquietare attra-
verso immagini che definiscono controverse aree seman-
tiche e sono portatrici di complessi significati simbolici
trova un suo interprete privilegiato nel visionario pittore
fiammingo Hieronimus Bosch. Le centinaia di personag-
gi ed allegorie che affollano le sue opere sono ormai qua-
si unanimemente interpretate come allusioni al mondo
alchemico, nella summa della concentrazione delle signi-
ficazioni ermetiche elaborate da Bosch nelle sue opere,
rappresentata dal Trittico delle Delizie esposto al Prado
di Madrid, compaiono numerose le allusioni al mondo
della alchimia: le figure di donne nude nere e quella vil-
losa che allude al Selvaggio, figura mitica del folclore eu-
ropeo; i numerosi congiungimenti amorosi nell’acqua e
la proliferazione di nudi in sfere di cristallo, nelle vasche
d’acqua, in fontane dalle complicate architetture; nello
sconcertante carosello dionisiaco con uomini e donne
nudi su improbabili animali, una apoteosi della sensua-
lità esibita (Gombrich 1986). Bosch rappresenta un pun-
to di riferimento nuovo nella pittura, l’immagine della
donna sensuale, seducente, mitizzata ai massimi livelli
nell’arte del Rinascimento italiano che la sublima in una
apoteosi di eleganze voluttuose, conosce una più ambi-
gua e sconcertante riproposizione in ambito fiammingo e
tedesco. L’avversione verso le immagini sacre seguita in
ambito nordico alla svolta luterana di Wittemberg, deter-
mina un parallelo sviluppo dei temi profani: scene di ge-
nere, ritrattistica, nature morte, temi storici e mitologici.
In questo nuovo clima culturale viene ad acquisire una
funzione di grande rilievo la rappresentazione del nudo,
spesso espresso nelle sue valenze più carnali e con uno
stile decisamente anticlassico, sulle orme sublimi ed alte
impresse da Dürer e sulla via aperta da Bosch si avvia-
no artisti di fama quali Lucas Chranach e Hans Baldung
Green, seguiti da una pletora di maestri minori, spesso
anonimi, che operano alacremente per soddisfare le esi-
258
L a Donna neLL ’a ntichità

genze di un mercato avido all’inverosimile di immagini


che dietro il mascheramento del mito o della storia vel-
licavano le più riposte pulsioni umane. Una pletora di
dee, ninfe, Grazie, rigorosamente nude ed ammiccanti
vanno a popolare le corti, i palazzi e le case borghesi dei
ricchi signori tedeschi e fiamminghi; una parata di nudi
femminili che non conosce pari nell’Europa del Cinque-
cento. Ma erano questi i temi che i committenti cercavano
nei corpi esposti delle ninfe dormienti en plein air, di Lu-
crezia e Giuditta, oppure erano maggiormente invoglia-
ti dalla frivola, ambigua sensualità che promanava da
queste figure? Se analizzati più in profondità i sontuosi
nudi dei maestri italiani veneti e fiorentini, e le gallerie
delle eroine nordiche sembrano invece riproporre dietro
la raffinata e sublime patina estetica l’antico tema della
rivalità tra i sessi, dove il naturalmente virtuoso uomo
è incline alle umane debolezze attraverso le tentazioni
muliebri, o il pensiero misogino dell’inganno che proce-
de dalle donne, le quali usano il loro fascino per domi-
nare l’uomo, anche il più virtuoso. Le eroine del mito o
i celebri personaggi biblici divengono altrettanti esempi
dell’ingannevole, spesso tragico, potere femminile. Eva,
Giuditta, Sisara, Betsabea, Dalila, Salomè, Onfale, le figlie
incestuose di Lot, le innocenti ninfe perennemente con-
cupite da dei e satiri, divengono altrettanti esempi delle
misteriose arti magiche femminili, emblematico il moti-
vo di Aristotile cavalcato da Fillide, tema umanistico per
eccellenza che trova la sua rappresentazione nelle deco-
razioni dei palazzi umanistici quali il Palazzo Farnese di
Gradoli, o in opere di grande diffusione quali le incisioni
e quadri -celebri quelli realizzati da Cranach e Green-.
Un vago spirito comico e giocoso non nascondeva mini-
mamente il concetto corrente di un rapporto strettamen-
te gerarchico tra uomo e donna che vedeva quest’ultima
sempre come il diabolico strumento della tentazione e
della perdizione umana. I riferimenti a forme e contenuti
che procedono da antiche strutture culturali e nutrite di
credenze, leggende, favole che tendono a manifestarsi in
forme artistiche che aborriscono le limpide eleganze del-
la classicità e prediligono il linguaggio del comico, dello
stravagante, dell’osceno. Un gusto per il macabro che
precede il pensiero barocco e crea su un canovaccio di
259
fulvio riCCi

controcultura bassa e popolare, un repertorio di imma-


gini dove tra le rappresentazioni più o meno laide e ter-
rificanti di streghe, sabba satanici densi di spunti copro-
filiaci e zoofiliaci, eccelle una produzione destinata alle
classi alte dove l’allievo/amico di Dürer, Hans Baldung
Green e suoi seguaci producono serialmente nudi fem-
minili protagonisti di un tema iconografico ad alto tasso
di laida ed inquietante teatralità quale La morte e la fan-
ciulla. L’acme dell’orrore si raggiunge nel contrasto tra il
corpo nudo ed invitante della fanciulla e quello putrido e
spaventevole del corpo morto che, non di rado, avvolge
la donna in un ripugnante abbraccio sensuale inserendo
le mani nelle sue parti intime -particolarmente sconcer-
tante il numero firmato da Niklas Manuel Deutsch nel
1517, oggi al Kunstmuseum di Basilea-. Tragico memento
mori dove il messaggio moralizzante sembra intridersi
con una ambigua e compiaciuta valenza erotica.

260
iL veLeno Di LUcrezia
di Giovanni Antonio Baragliu

«O
mnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam
existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit».
Tutto è veleno, nulla esiste che non sia vele-
no. Solo la dose fa, dato che il veleno non fa nulla. Nulla
è di per sé veleno, tutto è di per sé veleno, è la dose che
fa il veleno. (Paracelso)

La vita dell’umanità è stata costellata, fin dai tempi


più remoti, da avvelenamenti acuti o cronici, molto spes-
so casuali, per ingestione di funghi, frutti ed erbe, o per
morsi di animali come i serpenti; talvolta per volontà
omicida, o per giustiziare dei condannati. Spesso intossi-
cazioni “controllate” sono state utilizzate per raggiunge-
re stati di allucinazione, o profonda trance, propedeutici
ai voli magici dei culti sciamanici.
L’uccisione con il veleno (il veneficio), nel corso dei
millenni, ha rappresentato un modo subdolo ed insidioso
di eliminare altri esseri umani (siano stati essi avversari
politici, coniugi, o come nel caso dei lager nazisti, interi
popoli), agendo nell’ombra; di modo che l’autore rimane-
va spesso sconosciuto e, in qualche caso l’azione venefica
poteva essere assimilata, o scambiata, con una malattia.
La storia è costellata di morti sospette, spesso accom-
pagnate da sofferenze inaudibili, le cui cause possono
essere rimandate all’utilizzo di pozioni preparate ad hoc
con veleni vegetali (a base, per esempio, di cicuta, bella-
donna, aconito o derivati dell’oppio), animali (basti pen-
sare alla cantaridina, estratta da alcuni coleotteri, o alle
batracotossine con cui alcuni indios dell’Amazzonia av-
velenano le loro frecce) e minerali (soprattutto l’arsenico,
alla cui tossicità – 200 milligrammi uccidono un uomo
– vennero attribuite le morti improvvise, forse per inala-

261
g iovanni antonio Baragliu

zione di polveri, di minatori che estraevano il minerale


sul Monte Amiata, alcuni secoli prima di Cristo).
Per millenni, farmacopoli, alchimisti e scienziati sono
stati stimolati e costretti ad elaborare tossici sempre più
subdoli e letali. Ancora oggi, in molti centri di ricerca
militare, si studiano e preparano armi di distruzione di
massa, come i gas nervini.
Già nell’antica Roma, al tempo dell’imperatore Anto-
nino Pio si riteneva molto più grave l’omicidio commes-
so con il veleno rispetto a quello con la spada (plus est
nomine estinguere veneno, quam occidere gladio) e, ancora
oggi, per il codice penale italiano, l’uso del veleno co-
stituisce un’aggravante dell’omicidio e viene punito con
l’ergastolo.
D’altronde l’antica farmacologia era già a conoscenza
del fatto che un veleno, a piccole dosi, poteva compor-
tarsi da medicamento; mentre una medicina ad alte dosi
poteva diventare un vero e proprio veleno. Per gli anti-
chi Greci il termine: φάρμακον aveva tanto il significato di
rimedio, quanto quello di sostanza tossica.
Il Rinascimento conobbe uno sviluppo senza prece-
denti delle arti e delle scienze, compresa la chimica e,
con essa spogliandola dei panni della magia e del mi-
stero, la scienza dei veleni. Dall’antimonio, riscoperto
dal misterioso monaco
benedettino ed alchi-
mista tedesco Basilio
Valentino (vissuto, per
quanto si può ricavare
dalle opere attribuite-
gli, tra la fine del XIV
e gli inizi del XV seco-
lo ad Erfurt); ad alcuni
nitrati elaborati da Pa-
racelso (Philippus Au-
reolus Theophrastus
Bombastus von Ho-
henheim detto Paracel-
sus o Paracelso nato ad
Einsiedeln in Svizzera
il 14 novembre 1493 e
Fig. 84: Paracelso. morto a Salisburgo il
262
L a Donna neLL ’a ntichità

24 settembre 1541. Tra


le figure più rappresen-
tative del Rinascimen-
to, è stato un rinomato
alchimista, astrologo e
medico); alla pozione
a base di calce viva,
fibra di vetro, aconi-
to, arsenico giallo (or-
pimento) e mandorle
amare amalgamati nel
miele, del napoletano
Giovanni Battista del-
la Porta (nato a Vico
Equense il primo no-
vembre del 1535 e mor- Fig. 85: Giovanni Battista della Porta.
to a Napoli il 4 febbraio
1615. Filosofo, alchimista ed autore di opere teatrali).
Né poteva mancare il grande Leonardo da Vinci, pre-
cursore in questo caso delle armi chimiche di distruzione
di massa, che propose l’uso di solfuro di arsenico e verde-
rame nelle guerre navali: «gettare veleno in forma di pol-
vere sulle galee. Gesso, solfuro d’arsenico triturato, e ver-
derame in polvere si possono lanciare sulle navi nemiche
per mezzo di piccoli mangani, e tutti coloro che respiran-
do inaleranno la polvere nei polmoni saranno asfissiati».
Nel 1502 Leonardo passò al servizio di Cesare Borgia
in qualità di ingegnere militare ed esperto di armi e fortifi-
cazioni. Probabilmente un personaggio come il Valentino
non potette esimersi dal richiedere al grande scienziato,
tra le altre cose, di preparare un veleno tale da sfuggire
all’analisi sensoriale degli assaggiatori al seguito di nobili
ed ecclesiastici, possibili attori e vittime di veneficio.
Gli assaggiatori, come oggi i sommelier, avevano affi-
nato le tecniche e le papille gustative ed olfattive, per po-
ter riconoscere, in piccole porzioni di cibi e nelle bevan-
de, i pressoché impercettibili sapori ed odori di sostanze
estranee potenzialmente tossiche. Brutto mestiere il loro
e rischioso non poco, tanto che potevano appellarsi ad
un santo guaritore (San Benedetto da Norcia o San Firmi-
no) ed ottenere un sacco di indulgenze in caso di morte,
per causa di servizio. Oltre agli assaggiatori, nobili ed
263
g iovanni antonio Baragliu

ecclesiastici, per bere, solevano utilizzare calici ricavati


dal dente del narvalo; scambiato allora per il corno del
liocorno, che aveva fama di annullare, per contatto, la
tossicità dei veleni.
L’avvelenamento avveniva normalmente durante un
pranzo od una cena, ed il dosaggio della sostanza tossica
doveva essere tale da non uccidere immediatamente il
malcapitato; ma in un lasso di tempo più o meno lungo,
in modo da poter simulare l’intervento di una malattia o
di un infarto.
Per questo ebbe una sua notevole fortuna l’arsenico;
che somministrato, con continuità, in dosi sub letali, po-
teva simulare, attraverso un progressivo deperimento
dell’intossicato, il decorso di una malattia mortale.
L’uso dei veleni non si limitava naturalmente soltanto
alla tavola. In Italia, a detta di Pietro d’Abano (alchimi-
sta e insegnante di medicina, filosofia ed astrologia, nelle
Università di Parigi e Padova, negli anni a cavallo tra il
Duecento ed il Trecento), le lame delle spade venivano
cosparse con il mortale succo di Aconito. Utilizzata pure
era la cosiddetta “camicia all’italiana”, la cui tossicità era
dovuta all’arsenico depositato nelle fibre dell’indumen-
to, per lungo strofinamento con un sapone. Allora il cam-
bio delle vesti avveniva con scarsa frequenza e, quindi,
il lungo contatto con la sostanza velenosa portava lenta-
mente alla morte la malcapitata vittima.
In Italia gli avvelenamenti erano talmente diffusi che,
a detta del Machiavelli: “erano diventati una consuetu-
dine così radicata da non suscitare più interesse o indi-
gnazione da parte degli italiani”.

La leggenda nera dei borgia


“Son questi Borgia inver sul buon cammino, / oprando ge-
sta gloriose e degne / del serpente, di Giuda e di Caino”
“Qui giace Alessandro sesto. È sepolto con lui / quanto ve-
nerò: il lusso, la discordia, l’inganno, / la violenza, il delitto”.
(Pasquino)

In particolare furono i Borgia a rispolverare, disinvol-


tamente, l’uso del veleno come strumento di sopraffazio-
264
L a Donna neLL ’a ntichità

ne ed eliminazione politica. Si racconta che realizzarono


una polvere bianca a base di arsenico, e con altri com-
ponenti sconosciuti, detta la “Cantarella”, perfettamen-
te insapore, da mescolare con vino, latte ed altri liquidi,
senza che la sua presenza fosse individuata, anche dal
più esperto degli assaggiatori. Il segreto della sua prepa-
razione è morto con loro. Solo dai sintomi delle vittime,
pervenutici attraverso i racconti (violenti spasmi gastrici,
vomito, diarrea emorragica, collasso, convulsioni e mor-
te) la moderna tossicologia può collegare il veleno ai de-
rivati dell’arsenico. Probabilmente le ricette tossiche dei
Borgia erano variegate. Si racconta infatti che alcune loro
vittime siano morte nel sonno, dopo aver partecipato ad
una cena da loro offerta, mentre altri sono passati all’al-
tro mondo con inenarrabili sofferenze, durate settimane,
con caduta di capelli e perdita di denti, tra le manife-
stazioni sintomatiche. Sicuramente la famiglia mantene-
va uno stuolo di chimici con profonde conoscenze nel
campo della tossicologia dei veleni minerali (arsenico,
fosforo, mercurio) e vegetali (aconito, giusquiamo, cicu-
ta, papavero ed altri).
Vi è molta letteratura sulla cantarella, forse troppa.
La sua stessa composizione non è ben conosciuta, per
cui nei secoli, ad alimentare la leggenda nera dei Borgia
come avvelenatori ed assassini, si è parlato di un veleno
dalle proprietà straordinarie, capace di uccidere nell’ar-
co delle ventiquattrore, per sinergismo d’azione dell’ar-
senico con altre sostanze tossiche, dal fosforo, al piombo,
alla cantaridina, ai semi di ricino tritati; utilizzato disin-
voltamente per vere e proprie eliminazioni di massa, allo
scopo di appropriarsi dei beni delle vittime.
Paolo Giovio (Como 21 aprile 1483- Firenze 12 dicem-
bre 1552. Medico, storico, biografo e vescovo, legato alla
famiglia dei Medici, come medico del Cardinale Giulio
dei Medici, che diventerà papa con il nome di Clemen-
te VII) lo descrive come una polvere bianchissima, poco
diversa dallo zucchero, di sapore non tanto spiacevole
e capace di ingannare chiunque; molto simile in pratica
all’Anidride arseniosa. Diversi autori, in seguito cerche-
ranno di dare consistenza a questo veleno assimilandolo
via via ad altri tossici conosciuti: dall’acquetta di Peru-
gia (ricavata dal cadavere di un maiale, impregnato di
265
g iovanni antonio Baragliu

arsenico) all’acqua Tofana (liquido insapore, incolore ed


inodore contenente arsenico, piombo e forse belladonna
o cantaridina che, soltanto a Roma, uccise almeno seicen-
to persone negli anni intorno alla metà del XVII secolo)
alla cantaridina, un afrodisiaco maschile ricavato da un
coleottero, cantaride o cantarella, che a dosi elevate è tos-
sico. Si è scritto che la “cantarella” veniva ottenuta per
combinazione di sali di rame, arsenico e sali di fosforo
oppure per evaporazione dell’orina umana in conteni-
tori di rame e mescolando con l’arsenico i sali ottenuti;
o, ancora, utilizzando un maiale intossicato con dosi sub
letali di arsenico e cospargendo, dopo la sua uccisione,
i visceri sempre coll’arsenico. Tali visceri erano lasciati
putrefare in un recipiente per trenta giorni. Il liquido
formatosi veniva evaporato fino ad ottenere una polve-
re bianca, simile allo zucchero o alla farina (la farina dei
Borgia), mortale a piccole dosi. I prodotti della putrefa-
zione potenziavano l’attività dell’acido arsenioso forma-
tosi, dando appunto un veleno irriconoscibile al palato,
capace di spedire all’altro mondo un uomo, nell’arco di
ventiquattro ore, tra atroci sofferenze. L’arsenico letteral-
mente distrugge le mucose intestinali.
Un proverbio romano affermava che “chi beve l’acqua
in Vaticano morirà presto” e “bere alla coppa dei Borgia”
significava morire avvelenati. In pratica, un invito a cena
dai Borgia, poteva equivalere ad una condanna a morte.
Oggi, la tendenza degli studiosi è quella di ridimen-
sionare la leggenda nera. Non è mai esistito un veleno
specifico dei Borgia efficace e rapido. Tanto Papa Ales-
sandro VI (al secolo Rodrigo Borgia), quanto suo figlio
Cesare si servirono di preparati a base di arsenico, me-
scolato con nitrato d’argento, antimonio ed acetato neu-
tro di piombo. Con queste sostanze avvelenarono, ucci-
dendoli, otto cardinali, anche se si può avere una confer-
ma certa per soli tre. Questo riporta il dott. Luca Zucchi,
dell’Università di Ferrara nel saggio: ‘’I Borgia e il sapere
tossicologico rinascimentale’’ nel volume ‘’Lucrezia Bor-
gia - Storia e mito’’ (Olschki editore) a cura di Michele
Bordin e Paolo Trovato.
In realtà, il tentativo di uccidere un quarto cardina-
le - anche questo fa parte delle storie che si raccontano
sulla trista famiglia - durante un banchetto, forse per uno
266
L a Donna neLL ’a ntichità

scambio di bicchieri, portò Alessadro VI a morte in otto


giorni tra atroci sofferenze (si parlò di malaria) e suo fi-
glio sull’orlo della tomba.
Il cosiddetto “liquore delle successioni” sembra sia
stato usato dai Borgia, nell’ambito di amici, parenti e
personaggi a loro vicini; anche perché la morte di costo-
ro permetteva loro di appropriarsi delle ricchezze e pro-
prietà delle vittime. Soprattutto i cardinali di cui il Papa
aveva comprato, a caro prezzo, il voto per la sua elezio-
ne, rischiavano la morte per far riavere al Borgia, soldi,
terre ed uffici utilizzati al tempo del conclave.
In particolare due ricchi esponenti del sacro collegio:
il cardinale Orsini ed il cardinale Michiel, entrarono nelle
mire del Pontefice. Per il primo si tentò una intossica-
zione lunga, per accumulo, utilizzando piccole dosi di
arsenico, mentre era stato rinchiuso, per un banale pre-
testo, nelle segrete di Castel Sant’Angelo. Le sue ricchez-
ze erano tenute lontano ed in luogo segreto. Bisognava
convincere i parenti a pagare. Alla comparsa dei primi
sintomi, vomito, infiammazione e spasmi gastroenteri-
ci, però i parenti, per quanto allarmati, non allargarono i
cordoni della borsa. Solo la vecchia madre, donando una
perla preziosissima al Papa, ottenne di poter fornire essa
stessa il cibo al condannato. Il veleno, comunque, conti-
nuò ad essere somministrato attraverso gli alimenti for-
niti dalla madre. Dopo una settimana, visto che nessuno
pagava; al povero cardinale venne posto l’aut aut: o bere
una dose letale di veleno od essere strangolato da uno
dei più feroci sicari del Pontefice, lo spagnolo Micheletto.
L’Orsini preferì bere dalla coppa dei Borgia e morì dopo
un’ora.
Per il cardinale Michiel, Cesare Borgia, che aveva di-
sperato bisogno di denaro per il proprio esercito, si ser-
vì del tradimento di un servo del porporato, il diacono
Asquino de Colloredo, che provvide all’avvelenamento,
utilizzando un dosaggio di cantarella nel cibo e nelle be-
vande del padrone, tale da dare una morte lenta in quat-
tro giorni. Sotto il papa Giulio II il Colloredo, reo confes-
so, finirà sul rogo.
Stessa sorte per il ricchissimo cardinale Ferrari di Mo-
dena, avvelenato anch’esso tramite un proprio servito-
re, il giovane prete Sebastiano Pinzon. L’agonia durata
267
g iovanni antonio Baragliu

due giorni fu accompagnata da inenarrabili sofferenze.


Dopo che Alessandro VI si era appropriato delle ricchez-
ze del cardinale, il sicario venne ampiamente ripagato.
Anch’egli però, reo confesso, fu giustiziato, per decapi-
tazione, sotto il Papa Leone X.
Ma l’avidità dei Borgia era sconfinata, per cui si ren-
deva necessario trovare una nuova vittima.
La scelta cadde sul cardinale Adriano Castellesi o
Adriano da Corneto (per il suo luogo di origine) (c. 1450
– c. 1521), proprietario di una ricchezza sconfinata. Que-
sti era stato elevato al cardinalato, con il titolo di San
Crisogono, proprio da papa Borgia nel 1503. L’occasione
venne fornita da una cena, organizzata dal cardinale in
una sua villa presso il Vaticano, a cui tanto Alessandro
VI quanto suo figlio Cesare, con fare diplomatico, si au-
toinvitarono.
Lo stesso Cesare, alcune ore prima, secondo il Guic-
ciardini, tramite un suo servo, aveva mandato alcuni fia-
schi di ottimo vino avvelenato con la cantarella. Precise
istruzioni, al capo degli inservienti, probabilmente com-
plice, indicavano che tale bevanda doveva essere servita
solo con l’autorizzazione del medesimo Cesare. Non si
sa bene come andarono le cose. Forse il papa, essendo
arrivato molto
prima dell’inizio
del banchetto e
tormentato dalla
sete, aveva chie-
sto del vino ed un
inserviente, igna-
ro degli ordini al
riguardo, aveva
offerto ad esso ed
al figlio, appena
sopraggiunto,
proprio quello
avvelenato, cre-
dendo che fosse
destinato ad essi.
Forse il cardinale
Fig. 86: Il Papa Alessandro VI, in un affresco del Pinturicchio,negli Castellesi venne
appartamenti Borgia in Vaticano. avvisato dal col-
268
L a Donna neLL ’a ntichità

lega Giuliano della Rovere. Di conseguenza il capo dei


servi venne messo sotto torchio e sotto la minaccia di
crudeli tormenti confessò la macchinazione. La vendetta
del cardinale si servì degli stessi mezzi dei suoi persecu-
tori. Gratificato l’inserviente con una somma doppia di
quella versata dai Borgia, per ironia della sorte a bere il
vino micidiale furono proprio loro due. Nella concitazio-
ne, o forse perché il capo dei servi non voleva far torto
a nessuno dei suoi mandanti, o per non destare sospetti,
anche il cardinale sorseggiò, con una certa cautela, un
po’ della bevanda avvelenata. Secondo i dispacci di alcu-
ni ambasciatori ai loro capi di stato, tanto Alessandro VI,
quanto Cesare, mostrarono in breve tempo gli inconfon-
dibili sintomi dell’avvelenamento da cantarella: febbre,
vomito e depressione accompagnati da diarrea sangui-
nolenta. Il Papa, che aveva più di settantatre anni, for-
temente debilitato dagli effetti tossici, e dai salassi pro-
pinatigli dai medici, entrato in coma, morì la sera del 18
agosto 1503, ed il suo corpo, a detta degli storici si era
gonfiato abnormemente ed appariva più nero del diavo-
lo. Secondo l’ambasciatore di Venezia era il più ripugna-
te, mostruoso e spaventoso cadavere che fosse stato mai
visto; senza forma ed aspetto umano. Cesare sopravvis-
se; ma con la morte del padre crollò il castello di carte del
suo potere.
In un’altra versione, la cena si protrasse, all’aperto,
fino a tarda sera e più o meno tutti furono vittime del-
le punture delle zanzare, le terribili anofeli, vettori del
plasmodio della malaria. In particolare, Alessandro VI
contrasse la febbre perniciosa che lo portò a morte, in
breve tempo.
A detta di alcuni storici il Borgia aveva tentato una
falsa riconciliazione con un suo vecchio e potente avver-
sario all’interno del Sacro Collegio: il cardinale Giuliano
della Rovere, futuro papa Giulio II ed alleato del cardina-
le Adriano da Corneto, invitandolo ad una cena di ricon-
ciliazione, assieme ai suoi sostenitori. Alessandro VI, con
il figlio Cesare anch’egli presente al banchetto, cercarono
di eliminare il cardinale da Corneto con del vino avve-
lenato. Per un caso inspiegabile di “giustizia divina”, o
perché il Della Rovere avvisò la vittima, il vino tossico
venne bevuto dai Borgia.
269
g iovanni antonio Baragliu

Infinite furono le uccisioni attribuite alla celebre fa-


miglia rinascimentale di origine spagnola: da Giovanni
Maria Gazullo, a Giovanni Cervillon, capitano spagno-
lo degli Aragonesi, al vescovo Ferdinando d’Almeida,
ai cardinali Giovanni Borgia e Giovan Battista Zeno, a
Francesco Troches, segretario pontificio e stretto collabo-
ratore di Cesare Borgia, assieme a tanti altri, per venefi-
cio, strangolamento od accoltellamento.
Tutto questo contribuì a creare la loro leggenda nera,
di depravati, assassini, incestuosi e crudeli senza alcun
freno, che iniziò a circolare in Italia, tramite lettere e li-
belli. Il presunto autore di uno di questi (noto come: Let-
tera ai Sabelli), un napoletano di nome Manciani subì l’ira
feroce di Cesare Borgia e la sua mano destra, con la lin-
gua attaccata al mignolo, penzolò in breve tempo dalla
grata di una finestra in Vaticano.

La trista fama di Lucrezia borgia


La trista fama non risparmiò nessun personaggio
della famiglia; anzi, “cherchez la femme”, più che altro si
accanì e si accanisce, nell’immaginario comune, contro
Lucrezia, la bella figlia di Alessandro VI, ricordata come
terribile regina del veleno, nonché depravata e incestuo-
sa con i membri della propria famiglia. Ad essa è stata
attribuita l’invenzione della cantarella.
Si racconta che sapesse preparare piatti raffinati e
prelibati, a base di funghi velenosi, che offriva ai suoi
sudditi, che si mostravano scomodi. In particolare l’uso
del Cortinarius orellanus (noto come “fungo di Lucrezia”)
ad azione nefrotossica, portava ad una morte dovuta a
gravissimo danno renale procrastinata nel tempo, non
correlabile con la sua assunzione. I sintomi si manife-
stavano generalmente al terzo giorno dopo l’ingestione,
in alcuni casi addirittura dopo due settimane. Sembra,
per quanto si racconta, che la Borgia, oltre che a servire
porzioni di tali miceti, possedesse un anello con castone
cavo, contenente una polvere da essi ricavata, che utiliz-
zava alla bisogna, versandola sugli alimenti. Oppure si
parla di un anello munito di una spilla, che ogni giorno
la bella Lucrezia immergeva nella cantarella e che usava
270
L a Donna neLL ’a ntichità

per pungere le sue ignare vittime. Vittime di tali atten-


zioni erano i sudditi che avevano ricevuto da essa dona-
zioni di terre ed altri possessi; che, dopo la loro morte,
ritornavano ad essa.
Si sa dalla storia che ad ogni avvelenamento corri-
sponde un avvelenatore e che le più capaci in quest’arte
mortale furono le donne.
Lucrezia, figlia di un papa potente e depravato è dive-
nuta nell’immaginario collettivo il simbolo stesso della
donna diabolica, bella, seducente e perfida. Ebbe tre ma-
riti e, forse, molti amanti. Molti ebbero il destino comune
di finire in maniera atroce, con morti violente e misterio-
se. Si raccontava che, una volta stancatasi di loro, li ucci-
desse, con il suo leggendario anello, e ne scaraventasse i
corpi da una finestra.
Probabilmente, gli omicidi ad essa attribuiti, vennero
realizzati dal padre o dal fratello, che la usarono, senza
alcuno scrupolo, come una pedina nel gioco delle allean-
ze matrimoniali con vari potentati italiani.
Una volta, poi, che l’uomo di Lucrezia non era più
utile alla loro causa ed ai loro interessi, o, puta caso, po-
teva rappresentare un pericolo, lo eliminavano senza
tanti ripensamenti, uccidendolo senza pietà, passandolo
per le armi o avvelenandolo.
La fortuna dei Borgia, una famiglia catalana origina-
ria di Xativa, presso Valencia, in Italia era iniziata con
l’elezione di uno di loro: il cardinale Alonso Borgia al So-
glio Pontificio, nel 1455, con il nome di Callisto III. Con
esso si trasferirono a Roma molti elementi della famiglia;
in particolare, il nipote Roderic (Rodrigo), uomo senza
scrupoli, senza fede e senza morale, ben presto eletto car-
dinale e Vicecancelliere di Santa Romana Chiesa a soli
26 anni, assunse un ruolo preminente alla corte papale,
iniziando la scalata che lo avrebbe portato a salire sulla
cattedra di San Pietro.
Pur essendo cardinale, Rodrigo Borgia ebbe una re-
lazione, durata una quindicina d’anni, con una donna
di origine mantovana, la contessa Giovanna de Candia
dei Cattanei, detta Vannozza, donna di avvenente bel-
lezza, come si può evincere dal suo ritratto realizzato da
Tiziano, nel quale un turbante nasconde la sua splendida
chioma.
271
g iovanni antonio Baragliu

Da questa re-
lazione nacquero
ben quattro figli:
Giovanni o Juan
(1474-1497), Ce-
sare (1475- 1507),
Lucrezia (1480-
1519) e Goffredo
(1481-1516).
Alessandro
VI ebbe inoltre
un altro figlio,
Giovanni Bor-
gia (1498-1530)
da Giulia la Bel-
la, l’incantevole
sorella di Ales-
sandro Farnese,
Fig. 87: Tiziano Vecellio. Ritratto di Vannozza Cattanei.

la venere papale
che con il suo concubinato spianò la strada al cardinalato
al fratello, futuro papa Paolo III.
È nota anche un’altra figlia: Isabel (1467-1547), nata
da madre sconosciuta.
L’ambizione sconfinata, la torbida lussuria, la simonia
palese e lo sfrenato nepotismo furono le maggiori pecche
di papa Borgia, uno dei pontefici più chiacchierati della
storia. La famiglia dominava le scene italiane alle soglie
del Cinquecento. I suoi componenti di spicco, soprattut-
to Rodrigo e Cesare, personaggi machiavellici per anto-
nomasia, violenti, privi di scrupoli ed arrivisti, cercarono
in ogni modo di creare e mantenere il loro potere.
Tutto questo getterà su tutti i membri del casato om-
bre oscure, di torbidi intrighi, uccisioni, venefici, relazio-
ni incestuose di Lucrezia con il padre e i fratelli, fratrici-
dio di Giovanni da parte di Cesare e mille altre velenose
dicerie alimentate da una circolazione di libelli e pette-
golezzi mandati in giro dai molti nemici.
Si diceva che Lucrezia uccidesse usando sostanze tos-
siche, Cesare con la spada e il papa per mezzo di sica-
ri prezzolati. Gran parte di queste voci provenivano da
Burcardo di Strasburgo, maestro cerimoniere in Vaticano.
Fu esso a raccontare del “ballo delle castagne” avvenuto
272
L a Donna neLL ’a ntichità

negli appartamenti papali il 31 ottobre 1501. Ideato da


Cesare e realizzato da Lucrezia, fu un vero e proprio sab-
ba orgiastico, con prostitute nude danzanti tra i candela-
bri e che raccoglievano con la bocca, strisciando a terra,
castagne sparse sul pavimento. Lo stesso Burcardo scri-
verà degli incesti a tre e racconterà che l’Infante Romano,
il primo figlio di Lucrezia fosse nato da un rapporto tra
fratelli. La gelosia di Cesare per la sorella sarebbe stata la
causa scatenante di molti dei suoi feroci omicidi.
Queste voci, anche se formalmente decadute in fret-
ta, non si sono mai sopite e la leggenda nera dei Borgia
continua ancora oggi. Alessandro VI viene considerato
uno dei papi più depravati ed immorali di tutti i tempi,
anche se altri pontefici ebbero figli (Innocenzo VIII, Giu-
lio II, Paolo III, per esempio), praticarono la simonia per
accedere alle cariche ecclesiastiche e si macchiarono di
oscuri delitti.
Cesare Borgia detto il duca di Valentino, o il Valenti-
no, eletto dal padre cardinale ed arcivescovo, dopo aver
gettato la tonaca alle ortiche, era divenuto uno dei più
spietati e capaci condottieri italiani, tanto da ispirare a
Machiavelli la figura del Principe. Molti sono gli efferati
delitti a lui attribuiti, dall’omicidio del suo stesso fratel-
lo Giovanni, a quello di Alfonso d’Aragona, marito di
Lucrezia, accoltellato
sulle scale di san Pie-
tro e finito nel letto
della moglie, all’uc-
cisione di Vitellozzo
Vitelli, Oliverotto da
Fermo, Paolo e Fran-
cesco Orsini e tanti
altri.
Lucrezia dipinta
come figlia, moglie
nuora di Alessandro
VI, grazie a tanti li-
bellisti, come il detto
Burcardo, ha la sini-
stra fama di donna
diabolicamente bella
ed astuta, pienamen- Fig. 88: Altobello Melone, Ritratto di Cesare Borgia.
273
g iovanni antonio Baragliu

te addentro agli intrighi della famiglia, depravata or-


giasta e crudele avvelenatrice dei propri amanti. Fama
alimentata, soprattutto nel corso dell’Ottocento dalla
tragedia Lucrèce Borgia di Victor Hugo; da cui Felice Ro-
mani trasse il libretto per l’opera in un prologo e due atti
“Lucrezia Borgia”di Gaetano Donizzetti (1833).
Con molta probabilità fu più vittima che carnefice,
usata dalla propria famiglia come merce di scambio per
soddisfare le insaziabili mire di ricchezza e potere. Si
tratta di una delle figure femminili più mistificate della
storia, contro la stessa evidenza documentale.
Nata a Subiaco il 18 aprile 1480 e morta a Ferrara il 24
giugno 1519, Lucrezia Borgia è stata una delle figure più
celebri del Rinascimento italiano.
Già da piccola la sua educazione venne affidata dap-
prima ad un monastero e quindi ad Adriana de Mila
Orsini, cugina di suo padre. Adriana, donna priva di
scrupoli ed arrivista, aveva portato nel letto del cardina-
le Rodrigo sua nuora, la quattordicenne Giulia Farnese.
Ancora bambina, ad undici anni era stata promessa
in sposa già due volte, ma il papa padre-padrone, per
favorire l’alleanza dello Stato della Chiesa con il Ducato
di Milano, appena tredicenne, fece maritare Lucrezia col
ventiseienne Giovanni Sforza, detto lo Sforzino, signore di
Pesaro ed imparentato con Ludovico il Moro, che domina-
va a Milano. Si racconta che ella fosse bellissima e che per
la cerimonia religiosa del matrimonio indossasse un vesti-
to del valore di 15.000 ducati, anche se il vero sposalizio
era stato fatto per procura, senza la presenza degli sposi.
Soltanto quattro mesi dopo, cambiando la politica
delle alleanze, Alessandro VI cercò di convincere gli
Sforza a favorire il divorzio; pensando ad una più pro-
ficua unione della figlia con Alfonso d’Aragona, duca di
Bisceglie, nipote bastardo del re di Napoli.
Si racconta che Lucrezia era profondamente innamo-
rata del marito, ma si sottomise al volere della famiglia.
Lo Sforzino non ne voleva sapere, anche per l’onta che,
secondo i costumi del tempo gliene poteva derivare. I
Borgia lo accusarono di essere impotente e, quindi, di
non aver consumato il matrimonio. A queste illazioni, il
marito rispose, mandando in giro le voci dei rapporti in-
cestuosi della moglie con il padre ed il fratello.
274
L a Donna neLL ’a ntichità

Probabilmente il matrimonio non era stato consuma-


to per la troppo acerba età della sposa.
Sballottata ed umiliata dagli scandali che gli cadeva-
no addosso, Lucrezia si chiuse nel convento di San Sisto.
Le mai sopite dicerie raccontano che durante la sua
permanenza in convento la Borgia abbia avuto una rela-
zione con un uomo di fiducia del padre, un certo Pedro
Calderon, detto Perotto, e che, a seguito di ciò, partorisse
un figlio in grande segreto. Si dice pure che il Perotto sia
stato ucciso da Cesare a colpi di spada ed il suo cada-
vere gettato nel Tevere con le mani ed i piedi legati. La
paternità del bambino nato da Lucrezia, Giovanni Bor-
gia, denominato in seguito l”Infante Romano”, oltre che
a Pedro Calderon, venne
attribuita anche a Cesare
Borgia e ad Alessandro
VI.
Dopo lunghe pratiche
ed umilianti accertamenti
della verginità della ra-
gazza-madre il matrimo-
nio venne sciolto il 22 di-
cembre del 1497, lo Sforza
dovette restituire la dote
e, nonostante tutto, gli
andò bene. Si ventilava
infatti che Alessandro VI
volesse far eliminare l’in-
comodo marito da sicari
prezzolati e che la stessa
Lucrezia, venuta a cono-
scenza da Cesare delle
macchinazioni, avesse in-
formato il marito, aiutan-
dolo a fuggire.
Dopo queste torbide
manovre, a diciott’anni,
la figlia del papa venne
maritata con il duca di
Bisceglie Alfonso d’Ara-
Caterina (particolare), Sala dei Santi, Apparta- gona, di un anno più gio-
Fig. 89: Lucrezia Borgia nella Disputa di Santa

mento Borgia, Città del Vaticano. vane. Si sa che Lucrezia


275
g iovanni antonio Baragliu

ne era follemente innamorata; ma, ancora una volta


la cieca ragion di stato e gli interessi della famiglia si
andavano a scontrare con gli affetti di questa infelice
ragazza. Il fatto è che i Borgia avevano messo gli occhi
sul Regno di Napoli, per impossessarsene con un con-
torto gioco di successioni. Goffredo, il più giovane dei
figli di Rodrigo e Vannozza Cattanei, venne sposato con
Sancha, figlia illegittima di Alfonso di Calabria, erede
al trono di Ferrante re di Napoli; mentre Cesare, aveva
cercato di sposare Carlotta d’Aragona, che si trovava in
Francia, sotto la protezione del re Luigi XII. La giova-
ne essendo a conoscenza dei trascorsi del pretendente
aveva risposto picche alla proposta di matrimonio. Di
conseguenza peggiorarono i rapporti con il Regno di
Napoli, mentre divennero molto più cordiali quelli col
re di Francia, grande nemico dei napoletani.
Dopo varie vicissitudini, a Cesare venne concesso
di impalmare Carlotta d’Albret, nipote di Luigi XII ed il
titolo di duca di Valentinois, da cui derivò il sopranno-
me di Valentino, con il quale è conosciuto. Il via vai di
rappresentanti francesi alla corte papale che ne conseguì,
mise in allarme Alfonso di Bisceglie, che fuggì a Napoli.
A calmare la disperazione della figlia fu lo stesso
papa che fece ricongiungere a Roma i due sposi ai quali,
nel frattempo, era nato un figlio: Rodrigo.
Il risentimento del Valentino contro gli Aragona co-
vava e si esasperava nel suo animo e così, il 15 luglio del
1500, l’appena ventenne Alfonso venne assalito e ferito
gravemente da alcuni sgherri sulle scale di San Pietro.
Accolto e protetto dal cardinale di Santa Maria in Porti-
co, nella propria casa, venne raggiunto da Lucrezia, che
lo assistette amorevolmente fino alla guarigione.
Il duca di Bisceglie era più che sicuro che il mandante
del tentativo di ucciderlo fosse Cesare, per cui un giorno
che questi passeggiava nei pressi dell’abitazione, gli tirò
una freccia, senza però colpirlo.
Il vendicativo Borgia non tardò a mandare alcuni suoi
uomini che, il 18 agosto, lo strozzarono nel letto di Lu-
crezia. Autore del delitto sembra che fosse Michelotto
Corella, uno dei capitani del Valentino.
Anche in questo caso la ferrea regola degli interessi
familiari finì per rabbonire l’inconsolabile “infelicissi-
276
L a Donna neLL ’a ntichità

ma principessa”, come si firmava in una lettera da Nepi


dove si era ritirata. Essa non sembrò provare alcun ri-
sentimento per il fratello omicida, forse non ritenendolo
responsabile della sua vedovanza.
Dopo questi eventi la pessima fama di Lucrezia Bor-
gia toccò altezze incommensurabili, essendo ritenuta
complice dei crimini del padre e del fratello, oltre che
loro dissoluta ed incestuosa amante. Queste dicerie ven-
nero diffuse, oltre che dal già citato Burcardo, da Jacopo
Sannazaro, Gioviano Pontano e Francesco Guicciardini,
che i Borgia non li poteva proprio digerire. Molte voci
della storiografia attuale, anche a seguito di approfondi-
menti critici delle sue vicissitudini, ritengono che si trat-
ti di vere e proprie calunnie, restituendo dignità a una
donna travolta dal peso insostenibile di appartenere ad
una famiglia diabolica.
Preceduta da questa fama terribile, due volte vedova
a ventidue anni il sei gennaio del 1502, Lucrezia si conge-
dava da un Alessandro VI straziato dalle lacrime e muo-
veva verso Ferrara per raggiungere Alfonso d’Este, figlio
del duca Ercole, sposato per procura sette giorni prima.
Questo matrimonio giovava sicuramente al Valenti-
no, impegnato nella conquista della Romagna e gli Este
furono convinti al passo da una cospicua dote o, forse,
ancor di più dalla paura che loro incutevano i Borgia. In
realtà sembra che Alfonso fosse affascinato dalla rara bel-
lezza di Lucrezia e che fu soprattutto questo a far vincere
i timori. Le pretese dell’Estense, comunque, soddisfatte
dal papa non erano state poche: 100.000 ducati di dote,
la cessione dei castelli di Cento e della Pieve, preziosi
per 75.000 ducati e la riduzione del censo da pagare alla
Santa Sede per il feudo di Ferrara da 4.000 a 100 ducati,
nonché l’investitura diretta di questo ai discendenti suoi
e di Lucrezia, secondo la linea maschile.
La donna non era conosciuta dai suoi nuovi con-
giunti e questi, come si costumava fare allora, chiesero
informazioni al loro ambasciatore a Roma e le notizie
che vennero loro riferite erano entusiasmanti: “....oltre a
essere cortese, essa è pure modesta e discreta, e prati-
ca devotamente la religione cristiana.... la sua bellezza
è meravigliosa, ma più meravigliosa è la sua raffina-
tezza di maniere. Insomma il suo carattere è tale che
277
g iovanni antonio Baragliu

non è possibile sospettare nulla di “sinistro” in lei....”.


Il corteo che accompagnava la sposa era quanto di più
spettacolare si fosse visto a Roma dai tempi dei Cesari.
Il Valentino preparò per la sorella una scorta di duecen-
to soldati a cavallo e inoltre, paggi, servitori, dame di
compagnia, musici ed attori. Il papa mandò a sua volta
cent’ottanta persone, con in testa cinque vescovi. Cen-
tocinquanta muli furono necessari per il trasporto del
corredo tra cui spiccavano un vestito del valore di 15.000
ducati, un cappello che ne valeva 10.000 e duecento cor-
setti stimati cento ducati ciascuno. Ventisette giorni ci
vollero perché Lucrezia sul suo cavallo spagnolo, con la
bardatura di cuoio dorato, raggiungesse Ferrara.
Ventisette giorni in cui la gente si riversava per strada
ad ammirare il corteo e a festeggiare quella donna di cui
si cantava la bellezza e si iniziava ad elogiare le virtù, la
grazia, la modestia, la raffinata eleganza, l’eloquio paca-
to, il pudore dei gesti. Queste voci scavalcavano veloci
l’Appennino, come portate dal vento.
E tutti rimanevano incantati da quegli occhi azzurri
così luminosi, pieni di una infinita speranza di un futuro
sereno, lontano dalle asfissianti attenzioni e dalle infide
trame dei parenti più stretti.
Anche gli Estensi, forse ancora un poco sospettosi e
titubanti, ma già ammaliati dalla fama che precedeva
la sposa, vollero ostentare la propria magnificenza e si
presentarono a riceverla seguiti da un infinito corteo di
nobili, poeti, artisti, studiosi, settantacinque cavalieri ar-
mati di arco, ottanta suonatori di trombe e pifferi e quat-
tordici meravigliose carrozze piene di nobili dame dai
ricchi vestiti.
Per l’occasione e per la gioia del popolo, furono libe-
rati i prigionieri politici ed Alfonso scoppiava di gioia
ed orgoglio per quell’angelo bellissimo ed affascinante,
con lunghi capelli biondi mossi dal vento e la pelle di un
candore alabastrino, che gli cavalcava a fianco.
I precedenti mariti di Lucrezia ed il suo presunto
amante erano vissuti a Roma alla corte papale e questo
li perdette; ciò che salvò Alfonso d’Este fu che rimase
al sicuro nella sua Ferrara e, forse, anche il fatto che
era un osso troppo duro da rodere anche per il suocero
ed il cognato. Il tempo, si sa è galantuomo ed in breve
278
L a Donna neLL ’a ntichità

tanto Alessandro VI
(1503), quanto Ce-
sare (1507) moriro-
no: l’uno nel modo
descritto più sopra,
l’altro in una oscura
battaglia al seguito
del re di Navarra.
Le mai sopite paure
si affievolirono ed
iniziarono anni tran-
quilli, nei quali Lu-
crezia viene descritta
come moglie e ma-
dre esemplare, che
Fig. 90: Dosso Dossi, Alfonso d’Este.

mise alla luce ben sei


figli, di cui quattro morti in tenera età. Si disse che nei
primi anni ebbe degli amanti, tra cui il cardinale poeta
Pietro Bembo. Amore probabilmente più platonico che
reale, ben presto finito.
Conservata in una teca di vetro e malachite nella Bi-
blioteca Ambrosiana di Milano, dove non si sa come sia
giunta c’è una ciocca dei capelli di Lucrezia. “Sono i ca-
pelli più biondi che si possano immaginare, e che mai ho
visto di così biondi…”, iscriveva il poeta George Byron
all’amico John Murray nel 1816.
Si racconta che questa ciocca venne donata da Lucre-
zia al Bembo durante gli anni in cui erano in corrispon-
denza.
Donna colta e raffinata, ben presto a Ferrara diven-
ne la duchessa di tutti, amata e rispettata dai sudditi e
dal proprio consorte. La terribile Borgia della dicerie che
la descrivevano dedita alle peggiori immoralità ed ai
più turpi delitti, fuori dall’ombra nefasta delle propria
famiglia, dimostrò di essere una delle grandi e positive
figure del Rinascimento italiano. Diede impulso alle arti
e protesse artisti e letterari come l’Ariosto, lo Strozzi, il
Trissino ed il Bembo, che resero la corte Estense una delle
più creative e raffinate d’Italia dal punto di vista intel-
lettuale; ma anche magnifica per feste favolose, teatro,
parate, sontuosi banchetti, a cui essa partecipava vestita
da magnifici abiti, dettando l’alta moda del tempo. Un
279
g iovanni antonio Baragliu

suo mantello di raso viola foderato di ermellino riluceva


di ben 84 rubini, 29 diamanti e 115 perle.
Ludovico Ariosto le dedicò versi pieni di ammirazio-
ne. Cassio da Narni nella “Morte del Danese” la elogiò in
ottave come la seguente:

Questa è quella Lucrezia Borgia estense


albergho de virtute et honestate
quella cha dir sue lodi tanto immense
non basta questa o la passata etate,
questa d’honesto amor le membra accense
havea del suo consorte, et tanto grate
gli eran tal fiamme ch’ella istessa il foco
s’accendea intorno ei d’arder prendea gioco.

Una vita serena e felice dunque nei diciassette anni


trascorsi a Ferrara, circondata dall’amore della nuova
famiglia. Adorata da scrittori e poeti e dagli stessi sud-
diti. Donna decorosissima, la descrivono i documenti
del tempo, madre e moglie esemplare. Buona ammini-
stratrice ed imprenditrice bonificò terre paludose, favorì
l’allevamento degli ovini e dei bovini ed ebbe sottoposti
vari artigiani abilissimi in diverse mansioni. Negli ulti-
mi anni della vita venne colta da una profonda crisi reli-
giosa e si diede a pratiche ferventi, esercizi spirituali ed
azioni di penitenza, portava il cilicio. Divenne terziaria
francescana e come tale venne sepolta nel monastero del
Corpus Domini, dopo la sua morte avvenuta il 24 giugno
1519, a 39 anni, probabilmente per setticemia a seguito
dell’ultimo parto. La bambina che aveva dato alla luce,
Isabella Maria, sopravvisse a lei solo alcuni giorni.
Di Lucrezia a Ferrara rimase un buon ricordo e que-
sto ha contribuito, soprattutto negli ultimi anni alla sua
rivalutazione. Un’acqua cheta più che una donna diaboli-
ca. Vittima e schiava, senza possibilità di ribellione, come
tutte le donne del tempo, delle bramosie e trame di potere
della propria famiglia di padri padroni e fratelli crudeli.
Nonostante avesse protetto tanti artisti, di lei non ci
sono rimaste che poche e incerte raffigurazioni. Anche
alcuni ritratti che le vengono attribuiti, potrebbero essere
poco fedeli, in quanto si tratta di copie di originali ormai
scomparsi.
280
L a Donna neLL ’a ntichità

Iconografie certe sono le immagini riportate su due


medaglie fuse a Ferrara, che la raffigurano nella piena
giovinezza; in particolare quella coniata per il suo ma-
trimonio con Alfonso d’Este da Giancristoforo Romano.
Una targa d’argento, opera di Giannantonio Leli, realiz-
zata nel 1512 la mostra in preghiera davanti a San Mau-
rilio per la protezione di Ferrara e degli Estensi.
Sembra che il Pinturicchio la raffigurasse come San-
ta Caterina d’Alessandria, nella disputa con i filosofi
davanti all’Imperatore Massimino. L’affresco si trova in
Vaticano nell’Appartamento Borgia. Lucrezia vi appare
snella, elegantemente vestita, con lunghissimi capelli
biondi e le mani che accompagnano con grazia l’eloquio;
simile in tutto alle descrizioni che i letterati hanno tra-
mandato: non bellissima, ma bella, agile e leggera, con
un’aurea chioma lunghissima, tanto da procurarle forti
emicranie con il suo peso.
L’altro famoso ritratto, copia di un’opera di Bartolo-
meo Veneto, la raffigura biondissima, con i capelli ricci
ed un seno scoperto; ma non si è certi che si tratti proprio
di Lucrezia; forse potrebbe essere una delle dame della
sua corte.
Di recente, a Melbourne, in Australia, è avvenuto il
ritrovamento di un quadro che la ritrarrebbe, attribuito
a Dosso Dossi.
Il volto del
personaggio
scambiato a
lungo per un
ragazzo, per
la presenza del
pomo dell’elsa
di una spada,
ricorda quel-
lo della Santa
Caterina del
Pinturicchio.
Quell’elsa, te-
nuta con le due
mani, potrebbe
a p p a r t e n e r e Fig. 91: Medaglia dell’«Amorino bendato», raffigurante il profilo di
ad un pugnale, Lucrezia Borgia. Autore sconosciuto.
281
g iovanni antonio Baragliu

l’arma con cui si


uccise la Lucrezia
della tradizione
romana.
I capelli rac-
colti, lo sguardo
triste, il volto
bruttino ed im-
bronciato, il ve-
stito scuro e sen-
za fronzoli, quel
pugnale rivolto
verso se stessa,
sembrerebbero
rappresentare la
Borgia nel pie-
no della sua crisi
religiosa. Niente
di più lontano
Fig. 92: Copia da Bartolomeo Veneto. Presunto ritratto di Lucre-
zia Borgia.
dall’ammaliante
bellezza e dalla frivolezza e vacuità di tante descrizioni.
Chissà, forse il ritratto eseguito da Dosso Dossi, potrebbe
essere quello che maggiormente potrebbe corrispondere
alla psicologia della donna, che sentiva su di se tutto il
peso terribile della leggenda nera che aveva circondato
la sua famiglia e che si accollava e scontava, con il rigo-
re della penitenza, i peccati della “sua etade”. Ed è pro-
prio questo ritratto
a restituirle un po’
dell’umanità che
le fu propria e che
traspare attraverso
i documenti della
corte Estense ed il
buon ricordo da
essa lasciato a Fer-
rara.

Fig. 93: Dosso Dossi. Presunto ritratto di Lucrezia Borgia.

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AlfoNsiNA Russo TAglieNTe pag. 5
luigi sePiAcci » 7
Prefazione di MARiAgRAziA celuzzA » 9

ParTe 1 – iL TeMPo
La preistoria delle donne di Carlo Casi » 21
Da Tanaquilla a Larthia Seianti: la donna etrusca » 45
nel pubblico e nel privato di Simona Rafanelli
La donna nel mondo romano di Luciano Frazzoni » 69
incontro alle donne del Medioevo. » 103
immagini e archeologia in italia di Manuela Paganelli

ParTe 2 – Le STorie
La donna nell’antico Egitto di Mara Monticone Cimmino » 135
Le prime siciliane di Giuseppina Battaglia » 143
L’immagine della donna in età nuragica di Anna Depalmas » 153
L’ultima madre di Roberta Tulli » 163
Culti femminili e ruolo della donna: analogie tra » 175
Locri epizefirii e realtà laconico-spartana
di Simona Montagnani
Lo specchio, il fuso, il tirso: frammenti di vita » 191
di donne greche e italiche di Cristina Marchegiani
Agrippina minore e la sua autobiografia » 201
di Alessandra Lazzeretti
il nudo di donna nella storia. Medioevo: sogno elisio » 231
tormento sabbatico di Fulvio Ricci
il veleno di Lucrezia di Giovanni Antonio Baragliu » 261

Bibliografia » 283
Finito di stampare
nel mese di Marzo 2016
dalla Grafiche ATLA di Pitigliano
www.graficheatla.com

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