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NELL’ANTICHITÀ
Archeologia e storia
della condizione femminile
dalla Preistoria al Medioevo
SOPRINTENDENZA
ARCHEOLOGICA DEL LAZIO
E DELL’ETRURIA MERIDIONALE
© 2016
Tutti i diritti letterari ed artistici sono riservati.
Editrice LAURUM
Via Brodolini Trav. A, 27
58017 Pitigliano (Gr)
www.editricelaurum.it
info@editricelaurum.it
ISBN: 978-88-
Collana: Kronos
Luigi Sepiacci
Direttore Accademia di Belle Arti “Lorenzo da Viterbo”
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Prefazione
D
a bambina divoravo libri d’avventure nei
quali i protagonisti erano solo uomini e tutti
correvano rischi terribili.
Erano sempre sul punto di cadere in qualche agguato,
di essere bolliti in enormi pentole, passati a fil di spada,
privati della cotenna, impalati, impiccati, fucilati, (…).
Ma gli andava sempre bene.
Qualche volta c’era un personaggio femminile, in
queste storie, ma era del tutto marginale. Aspettava
soltanto, sognando il ritorno dell’eroe. La storia im-
portante era una storia di uomini e le donne erano solo
un’appendice trascurabile.
Singolare, plurale
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avevano per oggetto coloro che, esclusi in modo più o meno
radicale dalla vita pubblica, hanno lasciato solo tracce indi-
rette: donne, bambini, schiavi... L’insieme dei contributi di
questo libro, scritto in gran parte da archeologi, restituisce al
contrario un’immagine non antiquaria ma varia e aggiornata
e recupera quell’ottica plurale che sola ci può far avvicinare
ai mondi delle donne antiche. L’archeologia, d’altra parte, è
una scienza che, attraverso le fonti materiali, riesce a dare una
voce, sia pure flebile, sia pure indiretta e spezzata, ai soggetti
subalterni: gli spazi delle abitazioni, gli strumenti e i luoghi di
lavoro, i riti funerari, le testimonianze di credenze e di culti, le
rappresentazioni figurate, ma anche le ossa umane e animali e
i resti paleobotanici restituiscono informazioni sull’identità et-
nica, sui ruoli nella famiglia e nella società, sui livelli di censo,
sulla disponibilità e la qualità del cibo, sull’aspettativa di vita
e sulle cause di morte.
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incinte, è evidente l’importanza sociale della fertilità delle
donne, responsabili della riproduzione della comunità. Ma c’è
un ulteriore dato che, con infinite varianti nel tempo e nello
spazio, si deve sottolineare: le donne, portatrici del mistero del
ciclo mestruale, del concepimento e della nascita, in tempi più
e meno remoti hanno rappresentato l’irrazionale da tenere sot-
to controllo. Questo ha assicurato alle donne spazi importanti
nel culto, che erano spesso anche spazi di libertà, come è am-
piamente dimostrato dalle fonti di età storica. Negli altri campi
della vita invece la soggezione era la norma: la necessità de-
gli uomini di assicurarsi la certezza della propria discendenza
impose il controllo delle donne. Quando questo sia accaduto
è difficile dirlo, ma già nella protostoria, quando la trasmis-
sione del potere e poi l’affermazione della proprietà privata
acquistarono un ruolo cruciale nei gruppi sociali, la situazione
delle donne doveva essere già definita nel senso che abbiamo
già detto. Si tratta di fenomeni che in età storica sono già in
atto e che si possono leggere nel sistema onomastico, patrilin-
eare e gentilizio, che si afferma fra i popoli italici. L’immagine
della giovane vedova sacrificata con il cranio sfondato nella
tomba del marito, insieme con il cane, presumibilmente sacrifi-
cato anch’esso (Tomba della Vedovella, necropoli di Ponte San
Pietro, Ischia di castro, VT), pur essendo un unicum nel pan-
orama dell’Eneolitico italiano, testimonia con una evidenza
che colpisce ancora oggi lo status della donna come proprietà
del marito.
Carlo Casi conclude con l’immagine delle donne omeriche
che, anche se figlie sorelle e mogli di principi, dedicavano le
loro giornate alla filatura e alla tessitura. Su questo tema sarà
necessario tornare in conclusione.
etrusche
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culti, resti di case e tombe, cultura materiale illustrano, spesso
da angolazioni del tutto parziali, aspetti e momenti della vita
delle donne. Ma le voci che ci giungono ancora oggi rischiano
di essere sovrastate dall’eco di quelle duecento parole di Teo-
pompo, responsabili di aver inquinato per millenni la percezione
dell’immagine delle donne etrusche.
Se poi consideriamo che la storia degli etruschi si è svilup-
pata su un arco di tempo di circa mille anni, l’insufficienza dei
dati appare sconfortante: la condizione della donna deve essere
stata influenzata profondamente dai mutamenti politici e so-
ciali talvolta drammatici che hanno caratterizzato l’Etruria nel
lungo periodo (si pensi solo al passaggio epocale dalla protos-
toria alla storia, con l’abbandono di una organizzazione tribale
della società, l’affermazione della proprietà privata e la nascita
dei centri protourbani e poi delle città), ma di tutto questo ci è
giunto solo un quadro frammentario e approssimativo.
Ogni ricostruzione troppo ambiziosa è perciò tuttora un
rischio, e dobbiamo accontentarci di poche risposte certe e
di molte domande ancora senza riscontro. La chiave scelta
da Simona Rafanelli, nell’affrontare l’argomento, è prudente
e corretta: l’integrazione fra fonti latine e greche (a partire
dall’ineludibile Teopompo) e documentazione archeologica e
il confronto con mondi vicini agli etruschi ma più noti, fanno
da filo conduttore nell’esame delle testimonianze più dispa-
rate - dall’abbigliamento alla cucina, dalla capacità giuridica
alla gestualità all’onomastica - e distribuite lungo un periodo
che va dall’età arcaica di Tanaquilla, moglie di Lucumone-
Tarquinio Prisco, al II secolo a.C. della dama chiusina Larthia
Seianti.
Alla fine della rassegna, la folla di immagini di coppie dis-
tese a banchetto, dal Sarcofago degli Sposi di Cerveteri alle
scene rappresentate nella pittura funeraria di Tarquinia, carat-
terizzate dal reciproco atteggiamento affettuoso e protettivo,
riesce forse a mettere a tacere Teopompo che, evidentemente,
non era in grado di capire e apprezzare relazioni fra uomo e
donna basate sull’amore e sulla possibilità di condividere
momenti importanti della vita. Anche l’insinuazione che gli
etruschi allevassero tutti i bambini ignorando chi ne fosse il
padre potrebbe significare che gli etruschi non praticassero
l’infanticidio alla nascita, tanto diffuso nel mondo greco e ro-
mano.
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Distanza
Misoginia
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in questo contesto, forse il documento più esteso e significativo:
Giovenale la scrisse per dissuadere l’amico Postumo che aveva
deciso di sposarsi, ma è anche l’occasione di esprimere il rimpi-
anto per quel periodo in cui la cultura ellenistica non aveva an-
cora corrotto i costumi dei Romani, un topos letterario presente
nella cultura e nella letteratura latina almeno da Catone a Rutilio
Namaziano. Per Giovenale “la malvagia psicologia femminile”
diventa la “metafora dello sconquasso subito dalla società ro-
mana” (Giovenale, Satire, a cura di G.Viansino, Milano 1990), una
società in cui il denaro e il lusso avevano allontanato le donne dai
ruoli tradizionali e svirilizzato gli uomini.
L’argomento ispirò a Giovenale il più lungo dei suoi com-
ponimenti: la VI satira conta infatti 661 versi. Qui se ne ripro-
pongono solo una trentina, che pur non contenendo i brani più
crudi, danno un’idea dell’atmosfera dell’opera e conservano,
ai versi 347-8, una delle più note e utilizzate citazioni latine
(Quis custodiet ipsos custodes?).
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Miei vecchi amici, lo so, da sempre mi dite:
‘Metti il catenaccio e chiudila in casa!’.
Ma chi custodirà poi i custodi?
Mia moglie è prudente e comincerà proprio da quelli.
Nobili e plebee sono tutte affamate di sesso:
quella che batte il sudicio selciato non è migliore
dell’altra che si fa portare a spalle da schiavi siriani.
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date con diffidenza; erano inferiori, fragili, infantili, ma soprat-
tutto erano tentazione e peccato: “Tu sei la porta del diavolo”
scrive Tertulliano in un famoso passo dell’opera Sugli ornamenti
delle donne. Il matrimonio di conseguenza è un male da consi-
gliare solo ai deboli, come già aveva affermato lapidariamente
San Paolo.
Tutto considerato, la cultura romano-pagana non era mai
stata così misogina.
Ma c’è forse un altro filo che unisce molti dei testi di questo
libro. Lo possiamo riconoscere nella già sottolineata importanza
delle donne nella riproduzione e nella perpetuazione nel tempo
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del gruppo etnico o sociale di appartenenza. I figli, futuri sol-
dati o potenziale forza-lavoro, principi ereditari o schiavi, erano
la materia prima per la costruzione di qualsiasi sopravvivenza,
che si parli dei nomadi paleolitici, dei contadini neolitici, dei
guerrieri dell’età del Bronzo, degli etruschi, dei Romani alla
conquista del mondo. Gli ex-voto che invadono l’Italia centrale
fra IV e II secolo a.C., attribuibili a contadini etruschi e italici ma
anche a coloni romani inviati a romanizzare territori incogniti e
ingrati, ripetono all’infinito l’alfabeto della fertilità: uteri, falli,
mammelle, bambini in fasce con cuffie e amuleti. Accumulati nei
pressi di sorgenti di acque salutari o accanto alle grotte lattaie,
talvolta frequentate ininterrottamente dalla protostoria all’età
contemporanea, dove lo stillicidio dell’acqua ricordava per
magica analogia il fluire del latte materno, dimostrano l’eterna
ansia per la sopravvivenza della prole, sia pure destinata a una
vita di fatica e incertezza.
Viene da chiedersi: le società antiche e preindustriali, ap-
prezzavano forse il ruolo della donna come unico tramite della
riproduzione più della attuale? Verrebbe naturale rispondere di
sì dopo aver letto le storie narrate in un recente libro (C. Valen-
tini, O i figli o il lavoro, Bari 2011) in cui si dimostra come oggi, nel
2015 d.C., una intera generazione di donne sia posta di fronte a
un aut aut innaturale e crudele, mentre la società sembra subire
questo danno collettivo senza averne coscienza, né reagire.
Ma anche questo rischia di essere un tentativo di ras-
sicurazione privo di giustificazione storica: la coscienza
dell’importanza della riproduzione non indica in modo au-
tomatico che il ruolo delle donne fosse valorizzato. Anche
nell’antichità le cose, per le donne, non erano mai così semplici
come ci piacerebbe immaginare.
Mariagrazia Celuzza
Direttrice Museo Archeologico e d’Arte della Maremma
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ParTe PriMa
iL TeMPo
La PreiSToria DeLLe Donne
di Carlo Casi
“L
’evoluzione umana è stata sempre letta attraverso il
ruolo dell’uomo cacciatore: la creazione di armi ed
utensili per catturare e macellare le prede; l’appren-
dimento della postura eretta, necessaria per scorgere la preda al
di sopra della savana, rispetto agli animali, il suo successo nella
caccia perché collaborava con altri uomini, apprendendo così il
valore della cooperazione. E che cosa faceva la donna nel frattem-
po? Rimaneva forse seduta in casa a girarsi i pollici, aspettando
che l’uomo procacciasse il cibo e diventasse così più abile fino a
trasformarsi in Homo sapiens sapiens?” (Ehrenberg 1992).
Alcuni recenti studi sull’argomento sembrano dimo-
strare che nelle epoche più antiche della storia umana esi-
stesse in realtà una sostanziale parità tra i sessi, dovuta ad
un probabile equilibrio delle mansioni relative al comune
sostentamento. Difficile è pensare che l’attività di raccol-
ta della donna fosse meno importante di quella svolta
dall’uomo cacciatore, come avviene ancora oggi tra gli Ya-
mana e i Bambuti per i quali alcuni autori hanno parlato
addirittura di “uguaglianza tra i sessi” (Grottanelli 1964).
Certamente l’idea risulta molto suggestiva anche se
forse è applicabile solamente a quelle popolazioni che,
secondo Marvin Harris (Harris 1977), hanno in comune
la totale mancanza di attività bellica come gli Andamane-
si (India), i Mission (California), gli Shoshoni (California
e Nevada), gli Yahgani (Patagonia), i Tasaday (Filippine)
e i Semai (Malasya). Dobbiamo comunque precisare che
i dati relativi alle popolazioni attuali provengono essen-
zialmente da indagini etnologiche e come precisa Alber-
to Cazzella (Cazzella 1989) “… la documentazione su socie-
tà osservate dal vivo fornisce elementi diretti sul rapporto tra
azioni e resti materiali che producono, mentre sulle corrispon-
denze nel significato di tali azioni fornisce soltanto spunti.”
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C arlo C asi
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L a Donna neLL ’a ntichità
33
C arlo C asi
Fig. 5, la sepoltura di donna con idoletto femminile in corso di scavo, 5000 a. C., Tomba III di
Vicofertile (PR).
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C arlo C asi
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Da TanaqUiLLa a LarThia
SeianTi: La Donna eTrUSca
neL PUbbLico e neL PrivaTo
di Simona Rafanelli
“P
er colmo di sventura, il quadro dei costumi etru-
schi è stato dipinto, ne varietur, da un pittore tanto
eloquente quanto menzognero, Teopompo, scritto-
re della metà del IV secolo..... in generale, come disse bene Cor-
nelio Nepote, la lingua più malevola (maledicentissimus) di
tutta la letteratura: ghiotto soprattutto di aneddoti scabrosi e
di pettegolezzi piccanti”.
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simona rafanelli
“Teopompo, nel libro CLIII della sua storia, dice che presso i
Tirreni le donne sono tenute in comune, che hanno molta cura
del loro corpo e che si presentano nude, spesso, tra uomini,
talora fra di esse, in quanto non è disdicevole il mostrarsi nude.
Stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo
venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono
forti bevitrici e molto belle da vedere.
I Tirreni allevano tutti i bambini ignorando chi sia il padre
di ciascuno di essi; questi ragazzi vivono nello stesso modo di
chi li mantiene, passando parte del tempo ubriacandosi e nel
commercio con tutte le donne indistintamente.
Non è riprovevole per i Tirreni essere visti abbandonarsi
in pubblico ad atti sessuali e neppure a subirli, essendo an-
che questo un uso del paese. Sono tanto alieni dal considerare
vergognosa questa condotta che quando il padrone di casa sta
facendo all’amore e si chiede di lui, essi dicono “Fa questo o
quello”, dando impudicamente a tale genere di occupazione il
suo vero nome.
In occasione di riunione di società o di parentado, si com-
portano come segue: anzitutto, quando hanno finito di bere e si
dispongono a dormire, i servi fanno entrare, mentre le fiaccole
sono ancora accese, ora cortigiane ora bellissimi giovani e qual-
che volta le loro mogli. Dopo aver soddisfatto le loro voglie con
le une o con gli altri fanno coricare giovani vigorosi con questi o
con quelle. Fanno all’amore e si danno ai loro piaceri talvolta alla
presenza gli uni degli altri, ma più spesso circondano i loro letti
di paraventi di rami intrecciati, sui quali stendono i mantelli.
Hanno certamente frequenti rapporti con le donne, ma ta-
lora si divertono con ragazzi e giovani efebi che nel loro paese
sono bellissimi da vedere perché vivono nel lusso e hanno il
corpo depilato. Infatti tutti i barbari che abitano a Occidente si
strofinano il corpo con la pece e lo rasano.
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L a Donna neLL ’a ntichità
Fig. 9, Tarquinia, particolare dell’affresco della tomba dell’”Orco” - (metà IV sec. a.C.) con il volto
di Velia, moglie di Arnth Velchas.
La donna romana
“Pudica, lanifica, domiseda”: riservata, filatrice di lana,
seduta nell’atrio della casa: questi gli epiteti apposti so-
lennemente dai romani, sulle lapidi funerarie, ad eterno
commento delle virtù delle loro mogli; questo l’”elogium”
ad esse riservato. Un elogio che sommamente si attaglia
alla più virtuosa di tutte le donne romane, la nobile Lu-
crezia, moglie di Tarquinio Collatino.
La vicenda, che ha fatto di questo personaggio mi-
tistorico il paradigma della donna romana, si svolge al
tempo di Tarquinio il Superbo, l’ultimo esponente di
quella stirpe di re etruschi che per circa un secolo domi-
nò Roma. Collatino, nipote del re, irrompendo inatteso
nel cuore della notte, trova la moglie seduta nell’atrio
della casa, circondata dalle ancelle alla luce soffusa di
una lanterna, intenta alla più nobile delle attività dome-
stiche, la filatura della lana.
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L a Donna neLL ’a ntichità
La donna etrusca
“Domum servavit, lanam fecit”, “Custodì la casa, filò
la lana”: così recita il più celebre degli epigrammi fune-
rari romani. (Bucheler, Carm. Lat. Epigr., 52, 8)
Fig. 10a-b, Bologna, Museo Civico Archeologico. Tintinnabulo in bronzo dalla Tomba degli Ori.
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L a Donna neLL ’a ntichità
Le domestiche
Ma, accanto alle innumerevoli filatrici e tessitrici, delle
quali unicamente le fuseruole o i rocchetti in impasto, for-
se associati a perduti fusi e conocchie in legno, testimo-
niano all’interno dei corredi tombali il sesso e la funzione,
molti erano i volti femminili che componevano, nell’am-
bito stesso degli spazi domestici, il quadro delle serve
della domina, una parte di quel “nugolo” di servi ricordati
dal filosofo greco Posidonio d’Apamea, tra i quali “Al-
cuni ... sono di rara bellezza, gli altri sono abbigliati con vesti
più ricche di quanto convenga allo stato servile”(Posidonio, in
Diodoro Siculo, Biblioteca, V, 40 ss).
Rilievi chiusini in pietra, specchi in bronzo, vasi di-
pinti ritraggono più volte la donna etrusca in scene di
bagno e di toeletta, ove solerti “ancillae” pettinatrici, un-
guentarie, esperte di cosmesi si affaccendano intorno alla
“domina” mollemente adagiata su un comodo sgabello,
frequentemente munito di poggiapiedi, al centro della
scena: gentili ed
esperte, le fan-
ciulle sono raffi-
gurate nel gesto
di ungere la si-
gnora con oli pro-
fumati o in quello
di acconciarle le
chiome a seconda
della moda del
tempo (fig. 11).
Assimilata alla
greca Elena di Fig. 11, Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Pettine in
bellezza impareg- begna (675-650 a.C.).
avorio dalla tomba a Circolo degli Avori di Marsiliana d’Al-
giabile o all’etru-
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simona rafanelli
i gioielli
Collane composte da grani, ad uno o più fili, o con
“bullae” pendenti, orecchini “a grappolo” o a disco con
pendenti ovali, a goccia o piramidati, armille (bracciali)
a filo liscio, ritorto o munite anch’esse di bullae pendenti,
realizzati in oro, in ambra, in pietre preziose, compaiono
nei corredi più ricchi sin dal periodo orientalizzante (VII
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L a Donna neLL ’a ntichità
Fig. 13, Tarquinia, necropoli dei Monterozzi, tomba della Caccia e della Pesca, parete di fondo:
particolare con fanciulle che intrecciano ghirlande.
La cosmesi
Documento importante, per l’eccezionale stato di
conservazione dei colori, la parete di fondo della tomba
dei Leopardi leva il sipario su un festoso convito che esi-
bisce tre coppie di banchettanti semidistesi sulle klìnai in
atto di conversare amabilmente, deliziandosi delle gioie
della musica e del vino. Sfarzo di ricchezza e di colori
sgargianti emana dagli abiti femminili ricamati con mo-
tivi in rosso, dai mantelli rossi e bianchi, bordati da stri-
sce gialle, verdi ed azzurre, che cingono al torace tutti i
partecipanti al banchetto, dalle coperte di lana decorate
a scacchi.
Truccate, agghindate con lunghe vesti, adornate di
corone di alloro e di gioielli, le donne, adagiate a fianco
dell’uomo sulla klìne conviviale, esibiscono con osten-
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simona rafanelli
Fig. 14, Tarquinia, necropoli dei Monterozzi, tomba dei Leopardi, parete di fondo: particolare
della scena di banchetto.
banchetto e gestualità
Stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo
venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono
forti bevitrici e molto belle da vedere.
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L a Donna neLL ’a ntichità
Fig. 15, Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Sarcofago in terracotta cosiddetto “de-
gli sposi” (520 a.C.).
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simona rafanelli
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L a Donna neLL ’a ntichità
La regina
Ed è con un tenero abbraccio che persino Tanaquil-
la, donna etrusca di alto lignaggio e sposa di Lucumone,
consola ed esorta colui che si appresta a divenire, con
favorevoli auspici, il futuro re di Roma con il nome di
Tarquinio Prisco.
Con rapide ed efficaci pennellate, lo storico romano
Tito Livio offre allo sguardo dei posteri una Roma ancora
all’inizio della sua storia fatta di capanne, che i due spo-
si, Lucumone e Tanaquilla, contemplano dal sommo del
Gianicolo seduti sul carro carico di masserizie e di segre-
te ed ambiziose speranze, che li ha condotti sino a Roma.
e... la cucina?
Domina, principessa, regina, atleta, musicista e bal-
lerina, la donna etrusca ricopre, nella documentazione
iconografica, un ruolo da protagonista. E così doveva es-
sere, all’interno della casa, anche in cucina, per quanto le
rappresentazioni figurate non ci mostrino affatto donne
impegnate nella preparazione della tavola o delle vivan-
de.
Al contrario, la sola e completa rappresentazione
di scene di cucina etrusca, conservata sulle pareti della
tomba Golini I di Orvieto (seconda metà IV sec. a.C.),
riproduce un folto numero di personaggi maschili, che
lo stesso modesto abbigliamento qualifica come servi,
intenti a compiere le diverse operazioni necessarie all’al-
lestimento di un banchetto.
Sulle pareti della camera funeraria bipartita si susse-
guono servitori nei differenti atti di tagliare le carni, cuo-
cerle sui fornelli, imbandire con uova, focacce e grappoli
d’uva tavolinetti a tre piedi da destinare ai vari commen-
sali, persino nell’atto di macinare le spezie in un bacino
con appositi pestelli al fine di ottenere gustosi intingoli
con i quali insaporire le pietanze.
Un solo personaggio femminile compare nell’intera
rappresentazione, posto alle spalle dei servitori affac-
cendati nella preparazione delle mense, nel probabile
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simona rafanelli
L’anagrafe
Lo straordinario sarcofago fittile policromo, con il
quale concludo questa nota sulla donna etrusca, presenta
effettivamente l’immagine di una signora dell’aristocra-
zia chiusina nella prima metà del II secolo a.C. (fig. 16).
Abbigliata con una ricca “parure” di gioielli, la dama
solleva con la sinistra uno specchio, mentre con la de-
stra scosta il velo dal volto, nel tipico gesto della sposa.
Bellezza, nobiltà, austerità irradiano dal volto della no-
bildonna, comodamente distesa sul letto conviviale, che
costituisce il coperchio del suo sarcofago.
Fig. 16, Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Sarcofago di Larthia Seianti da Chiusi.
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L a Donna neLL ’a ntichità
Donne imprenditrici
Ma non possiamo concludere questo breve ritrat-
to della donna etrusca, senza accennare ad un aspetto
emerso soltanto negli ultimi anni, grazie alle ricerche
condotte sulla documentazione epigrafica.
Alcune iscrizioni su bolli mercantili impressi su vasi
a vernice rossa di età ellenistica attestano l’esistenza di
botteghe di ceramisti, nelle quali lavoravano degli schia-
vi, di proprietà di donne di elevato ceto sociale.
Donne impegnate nell’”imprenditoria”, capaci di dire
l’ultima parola anche in questo campo e dotate in somma
misura di quell’ “audacia muliebris” vantata dalla nobile
Tullia Maggiore (Livio, I, 46,6), figlia di Servio Tullio e
sposa in seconde nozze dell’ultimo re etrusco di Roma,
Tarquinio il Superbo.
epilogo
La vicenda, narrata ancora da Livio, ci racconta infatti
come, avendo Servio Tullio due figlie, una mite ed una
violenta, dette in moglie ai due figli di Tarquinio Prisco
e di Tanaquilla, parimenti di opposta indole, la mite al
superbo e l’indomita al mite. Liberatisi barbaramente
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L a Donna neLL ’a ntichità
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La Donna neL MonDo roMano
di Luciano Frazzoni
L
e fonti letterarie antiche ci hanno tramandato mol-
te vicende che vedono protagoniste donne roma-
ne esemplari, le cui figure erano considerate già in
epoca imperiale fulgidi esempi di grandezza morale e di
attaccamento ai propri mariti.
Una delle più celebri è Arria Maggiore, moglie del
senatore Caecina Peto. Quest’ultimo, coinvolto nella
repressione della rivolta di Scriboniano contro l’im-
peratore Claudio nel 42 d.C., fu arrestato nell’Illirico
e condotto a Roma, dove Arria lo seguì. Peto, come
molti senatori condannati a morte, preferì il suicidio,
in quanto i condannati alla pena capitale rimaneva-
no insepolti e i loro beni venivano confiscati, mentre
i suicidi avevano diritto alla sepoltura, e il loro testa-
mento aveva valore legale. Al momento di mettere in
atto il suo proposito, la moglie per incoraggiarlo, trasse
dall’abito un pugnale e dopo esserselo conficcato nel
petto, lo offrì al marito pronunciando le parole “Tene
Paete, non dolet” (prendi, Peto, non fa male). Tale epi-
sodio, ricordato per le fonti antiche da Plinio il Giova-
ne (Epistole, 3.16), Marziale (Epigrammi, I, XIII), Tacito
(Annali, 6.29; 16.10), oltre che da numerosi autori mo-
derni (Carcopino 1984; Cantarella 1989, p. 608; Ceneri-
ni 200 p. 207; Cantarella 2011) può essere preso come
paradigmatico per comprendere, almeno in parte, il
ruolo delle donne a Roma e il rapporto che esse hanno
svolto nella storia dello sviluppo della cultura romana.
A differenza delle donne greche infatti, il cui solo com-
pito sociale era quello di riprodurre biologicamente i
cittadini, le donne romane avevano, oltre naturalmente
il compito di assicurare la discendenza, quello impor-
tantissimo di trasmettere ai figli i valori dei padri, e di
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l uCiano frazzoni
L’onomastica femminile
Il sistema onomastico romano prevedeva tre ele-
menti per gli uomini, il praenomen, il nomen e il cogno-
men, mentre per le donne ne bastava uno solo, riferito
alla gens di appartenenza (Iulia, Claudia, Aemilia, etc.),
seguito dal patronimico, ad es. T(iti) f(ilia) che attestava
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l uCiano frazzoni
Definizione di famiglia
Nel latino classico la parola familia non era usata
per indicare il nucleo famigliare in senso odierno (pa-
dre, madre e figli), ma, con un particolare significa-
to tecnico-giuridico, poteva indicare in senso molto
generale tutti coloro che erano imparentati per linea
maschile con un antenato comune, con un significato
sinonimo di gens o clan; più spesso veniva riferita alla
componente servile di una casa o una villa, escludendo
la famiglia vera e propria del padrone, per la quale si
usava il termine domus, comprendente in senso gene-
rale la famiglia compresi gli schiavi domestici. Dalle
fonti epigrafiche risulta comunque chiaramente che i
padroni facevano una netta distinzione tra la loro fa-
miglia (in senso moderno) e quella dei loro schiavi e
liberti, distinzione radicata nelle famiglie romane di
qualsiasi livello sociale, dalle più ricche, dove pote-
vano essere presenti centinaia di schiavi, a quelle più
povere, dove la presenza schiavile si riduceva a poche
unità (Garusey-Saller 1989; Saller 1989; Saller 1990).
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L a Donna neLL ’a ntichità
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L a Donna neLL ’a ntichità
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l uCiano frazzoni
Il concubinato
Il divorzio e l’adulterio
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l uCiano frazzoni
L’aborto
A partire dal I secolo d.C., molti sono i riferimenti
all’aborto da parte delle fonti (non solo letterarie, ma me-
diche e anche astrologiche) che documentano come tale
pratica fosse particolarmente diffusa.
L’aborto, in una società come quella romana in cui si
praticava l’esposizione dei neonati, pur essendo ritenuto
una colpa gravissima da parte della donna, non era puni-
bile in quanto soppressione di una vita umana, secondo
la concezione cristiana, ma era considerato una faccenda
privata esclusivamente familiare, dunque sottratto ad ogni
intervento statale. L’interruzione di gravidanza non era
neppure considerata riprovevole, se decisa dal marito che
non desiderava avere figli, o dal padrone nel caso di una
gravidanza di una sua schiava. Secondo i giuristi infatti,
il feto non era considerato una persona, ma solo una “spes
animantis”, la speranza di una vita. Quello che i romani non
approvavano nell’aborto, era il fatto che fossero esclusiva-
mente le donne a scegliere di interrompere la gravidanza,
privando l’uomo del diritto di decidere. L’aborto era infatti
punito solo se procurato per iniziativa della donna all’in-
saputa del marito; la donna colpevole di “avvelenamento
della prole” poteva essere ripudiata. Così, per tutelare l’in-
teresse del marito ed impedire che la donna incinta potesse
abortire a sua insaputa, fu creato sotto Marco Aurelio e Lu-
cio Vero un nuovo istituto giuridico, il custode del ventre,
il quale aveva il compito di controllare che la moglie non
abortisse. Parimenti, sotto Settimio Severo fu emanata la
prima legge pubblica che puniva l’aborto con l’esilio; l’oc-
casione fu fornita dal caso di una donna che, dopo il divor-
zio, aveva abortito senza il consenso del marito, poiché gli
aveva sottratto illegittimamente il figlio. In questo caso, lo
Stato interviene su una questione privata, facendola diven-
tare pubblica, in quanto andava a difendere la morale fami-
liare e il diritto del capofamiglia di prendere le decisioni che
riguardavano il gruppo familiare sottoposto al suo potere,
come era avvenuto due secoli prima con le leggi augustee
contro l’adulterio. L’aborto deciso dalle donne in maniera
autonoma costituiva dunque un serio problema sociale, in
quanto defraudava gli uomini di un loro diritto fondamen-
93
l uCiano frazzoni
96
L a Donna neLL ’a ntichità
97
l uCiano frazzoni
101
inconTro aLLe Donne
DeL MeDioevo
iMMagini e archeoLogia in iTaLia
di Manuela Paganelli
D
ante si rivolgeva – complice - alle donne, a quelle
che conoscevano Amore.
Come oggi, le donne del Medioevo erano ai
vertici del potere, o al contrario inabissate nei deliri di
guerre, fughe, esili. Erano donne devote, o al contrario
inerpicate lungo l’impervio sentiero della ribellione. Era-
no figlie, spose e madri comunque illuminate da “intel-
letto d’amore”.
Di queste donne le chiese, i castelli, i palazzi, gli ar-
chivi ed i musei italiani custodiscono immagini che le
ritraggono ed oggetti che gli appartennero. I loro luoghi.
Arte e archeologia quindi come strumenti per avvici-
nare quelle donne, punti di vista privilegiati per affron-
tare un tema altrimenti da esplorare attraverso “infinite
inquadrature”.
Occorre allora indicare un punto di partenza e preci-
sare il concetto astratto di donna, stabilendo i ruoli che la
società medievale le assegnava e le riconosceva, a partire
dall’analisi delle fonti scritte. Queste però, dalle raccolte
di leggi ai documenti privati, furono per lo più redatte
dalla mano di uomini che non avevano alcun interesse
a descrivere e definire il mondo muliebre qual esso real-
mente era. Ad una prima analisi questi scritti sembrereb-
103
m anuela Paganelli
Le norme giuridiche
Diverse culture hanno concorso a definire il concetto
di donna nel Medioevo: quella romana, il cui Diritto ha
permeato anche le legislazioni più recenti; quella ger-
manica, che nei territori occupati ha elaborato specifiche
culture giuridiche; ed infine il pensiero cristiano che, di-
rompente nei confronti del sistema etico-socio-politico,
si è rivelato assai meno incisivo nel processo di “emanci-
pazione” del concetto di donna.
104
L a Donna neLL ’a ntichità
il pensiero cristiano
Le parole rivolte alle donne dai primi seguaci di
Cristo non comunicarono tolleranza ed ammirazione.
Tutt’altro. Stonano alla mente di un lettore dei giorni
d’oggi le parole di Paolo: «non permetto alla donna di
insegnare, né di dominare sull’uomo, ma voglio che stia
in silenzio» (I Epistola a Timoteo, 2,11-13); «le donne nel-
le assemblee tacciano; non si permetta loro di parlare, ma
stiano sottomesse, come dice anche la legge» (I Lettera ai
Corinzi, 14, 34-35). La donna paolina era ancora un es-
sere inferiore all’uomo, lui sì immagine e gloria di Dio e
la sua idea pesò ancora nei secoli successivi, durante un
processo continuo di esclusioni e svilimento che relegò
la donna al margine di qualsiasi ruolo attivo nella Chiesa
e per di più le attribuì a lungo un connotato fortemente
negativo (Gatto 2009).
Fu comunque con l’avvento degli imperatori cristiani
che alcune delle istituzioni in cui si esercitava una forte
discriminazione nei confronti del sesso femminile furono
definitivamente soppresse: la norma più esecrabile, il ius
vitae ac necis, venne definitivamente abolita nel 365 dagli
imperatori Valentiniano e Valente. Nel 410 gli imperatori
Onorio e Teodosio II concessero a tutte le donne il ius libero-
rum, sciogliendole dalla tutela e consentendogli la facoltà di
disporre in autonomia dei propri beni, che potevano final-
mente essere trasmessi ai figli (Fayer 2005).
L’Imperatore Giustiniano (527-565), oltre a decretare
l’abolizione del ius exponendi, nella sua vasta opera legi-
slativa affrontò numerosi altri temi giuridici sulla fami-
glia, in parte spinto da interessi personali: dall’ abroga-
zione delle norme che vietavano ai senatori i matrimoni
con donne di rango inferiore, alla leggittimazione dei
figli nati da concubinato lecito; dalla parità di diritti tra
genitori, alla riduzione ad un usufrutto dell’autorità del
pater sui patrimoni acquisiti dai figli (Lazzari 2010). Rap-
105
m anuela Paganelli
Le donne germaniche
Alla fine del I secolo d.C., nell’opera De origine et situ
Germanorum Liber, Tacito si interessò anche alle donne
dei popoli germanici. Stando alle sue parole risulta che
a loro fosse demandata non solo la cura della casa ma
anche quella dei campi, visto che gli uomini oziavano o
erano in guerra! Tacito le descrisse abbigliate allo stesso
modo degli uomini, o tutt’al più con una sopravveste
di lino, con le braccia scoperte come anche la parte su-
106
L a Donna neLL ’a ntichità
Fig. 25: Ravenna, San Vitale, Teo- Fig. 26: Ravenna, San Vitale. Corte di Teodora
dora (part.). (part.).
111
m anuela Paganelli
Le donne longobarde
Da millenni l’uomo fugge dalle sue terre e ancora oggi,
come allora, migrano interi popoli che aspirano ad una
vita migliore o, più tragicamente, alla sola sopravvivenza.
Durante i primi secoli dell’Età Medievale si assiste in
tutta Europa a sconvolgenti spostamenti di genti alla ri-
cerca di più stabili condizioni di vita ed in molti giunsero
in Italia.
Nel 568 fu la volta dell’intero popolo longobardo.
Stanziati da qualche anno nelle pianure della Pannonia,
circa 100mila individui guidati da re Alboino attraver-
sarono le Alpi Giulie per dilagare nella nostra penisola,
travolgere l’ordine sociale, strappare le terre ai possesso-
ri locali, e fondare un regno che rimodellò questa regione
(Brogiolo, Chavarría Arnau 2007).
112
L a Donna neLL ’a ntichità
È interessante il fatto
che siano le sepolture
femminili ad anticipare
quelle dell’altro sesso
nel processo di omo-
logazione alla cultura
propria delle terre con-
quistate. L’amministra-
zione del potere richie-
deva evidentemente
una conferma della spe-
cificità del gruppo di
comando, che si attuava
Fig. 29: Crocetta aurea da Nocera Umbra - Tomba 17. anche attraverso il man-
tenimento dei costumi e
gli usi della propria gente. Le donne invece, addette alla ge-
stione della famiglia e legate alla terra che le ospita da vin-
coli quasi ancestrali, potrebbero aver allentato prima questa
tensione e essere riuscita a fondersi in anticipo con le altre
genti. Sarebbe interessante se la ricerca archeologica riuscis-
se a trovare le chiavi per indagare questo aspetto e definire
se il ruolo di madre possa aver favorito l’attaccamento alle
nuove terre: al termine di un avventuroso e lungo viaggio di
guerra, le donne che erano riuscite a portare in salvo i propri
figli potrebbero aver atteso più degli altri il momento in cui
si sarebbero finalmente sentite di nuovo al sicuro.
Un ritratto collettivo espresso attraverso la sola de-
scrizione di oggetti e costumi può però risultare freddo
e distaccato, ma se proviamo a dare un nome a queste
donne, agli oggetti che potrebbero aver usato e agli uo-
mini che avevano accanto, la loro presenza diventerà più
tangibile. Eccole dunque: Audeperga e Bertruda, giova-
ni figlie di Brando, intente a tessere fazzoletti bianchi e
candide federe. Ecco Ermengarda e Lisberga, con i loro
compagni Aldo e Guido: mangiano un brodo caldo, un
po’ di arrosto e altra carne riscaldata sulla brace, bevono
birra. Osserviamo Matilda mentre nella stalla prepara il
suo destriero e con abilità maneggia staffe e speroni.
Loro, le donne longobarde, sono ancora tra noi a di-
mostrare che i figli dei loro figli sono gli antenati dei
nostri antenati e che i nati nella nostra nazione hanno il
diritto di essere italiani.
115
m anuela Paganelli
Donne martiri
Come in uno “scontro di forze uguali e contrastan-
ti”, la devozione a Cristo fu la forza dilagante che diede
la spinta alla nascita del Medioevo. Accadde poi che la
ribellione –che alle origini era stata un tutt’uno con la
devozione -non trovando gli spazi dove essere ascoltata,
tornò con forza al punto d’origine, ritorcendosi contro la
natura stessa che l’aveva generata.
La vasta e rapida conversione al Cristianesimo
dell’Impero Romano fu opera anche dei ribelli che paga-
rono con la vita la volontà di vivere nella fede in Cristo.
Intorno al V secolo la Chiesa, superata anche l’ultima
grande persecuzione voluta da Giuliano l’Apostata (361-
363), riordinò le testimonianze sulla vita e sulla morte dei
martiri, ricucì le loro memorie e diede degna sepoltura
ai loro corpi. L’epoca della ribellione sembrava dunque
finita, la Chiesa aveva trionfato e sui luoghi del martirio
potevano sorgere maestosi edifici ed apparire struggen-
ti immagini a ricordo degli eventi. Ne è dimostrazione
una drammmatica testimonianza, un affresco dipinto in
una delle abitazioni romane conservate al di sotto del-
la Chiesa dei SS.Giovanni e Paolo al Celio: sulla destra
120
L a Donna neLL ’a ntichità
Donne ribelli
Non tutta la vita della donna medievale si esauriva
nel rapporto con la fede e con la cura della famiglia: nel-
le miniature dei codici appaiono donne impegnate nella
vendita di merci all’interno di botteghe cittadine, donne al
lavoro nei campi, donne intente all’assistenza dei malati e
persino donne guerriere!
Non fu semplice per le donne imporsi in alcuni campi,
specialmente in quelli che necessitavano un approfondi-
to percorso di studi, troppo spesso riservato agli uomini.
Una delle esperienze più interessanti e all’avanguardia
fu la Scuola Salernitana, aperta già nel IX secolo anche
agli insegnamenti del sapere greco, ebreo ed arabo. La
Scuola accoglieva le donne interessate ad esercitare l’arte
medica: tra queste la più famosa è Trotula de Ruggiero i
cui rimedi e cure furono presto citate ed esercitate non
solo a Salerno ma in tutta l’Europa medievale. Trotula
stessa nell’opera De passionibus mulierum ante, in, et post
partum, scritta alla fine dell’XI secolo, ricorda di essere
divenuta medico per aiutare le donne che, per pudore e
vergogna, preferivano soffrire pene infinite piuttosto che
farsi visitare da un uomo (Fumagalli, Trotula in www.en-
ciclopediadelledonne.it).
Lo sforzo delle donne e la loro tensione all’uguaglian-
za, sembra trovare finalmente una voce narrante nel Li-
vre de la Cité des Dames, opera di Christine di Pizan (1364-
1430), ricordata come grande figura della letteratura
medievale ed unica scrittrice che fece fonte di guadagno
della sua arte. Christine de Pizan potè studiare grazie
alla volontà del padre che la spinse a istruirsi affinché il
suo intelletto si aprisse a tutte le discipline, come faceva-
no all’epoca gli uomini. E proprio la parità intellettuale
tra uomini e donne è il tema dirompente e rivoluzionario
affrontato nella sua opera.
Le donne del Medioevo dunque, hanno lottato per
arrivare ad affermare la propria individualità. A lungo
hanno dovuto percorrere solo “sentieri” che altri pre-
paravano per loro, ma ciò non ha impedito che alcune
deviassero da quelle indicazioni per raggiungere le più
alte vette della conoscenza e del sapere. I loro scritti sono
123
m anuela Paganelli
Spose
Solamente nel 1215 il Concilio Lateranense IV regola-
mentò ufficialmente il matrimonio. A partire dal IX seco-
lo, però, la Chiesa aveva tentato di codificarlo in modo
tale che la norma civile si unificasse a quella religiosa,
definendone i tre momenti fondamentali: il consenso dei
genitori, gli accordi economici, l’avvenuta consumazio-
ne alla prima notte di nozze.
Gli sforzi della Chiesa volevano infatti porre fine ad
un contemporaneo svolgersi di formule matrimoniali di-
verse, dovute alla coesistenza delle numerose componenti
etnico-culturali del periodo altomedievale.
Alla donna veniva assegnato un ruolo passivo, in alcu-
ni addirittura colpevole, come si evince dalle disposizioni
relative alle cause di infedeltà e divorzi. Nella maggior
parte delle culture giuridiche altomedievali, tra le giuste
cause di divorzio era la sterilità femminile ma quando
questa non fosse inconfutabilmente accertata, l’uomo po-
teva comunque liberarsi dal vincolo matrimoniale pagan-
do alla donna un compenso in denaro. Ovviamente alla
donna che avesse osato richiedere il divorzio i Burgundi,
ad esempio, riservavano la morte per soffocamento nelle
paludi fangose. Ancora una volta fu la legislazione giu-
stinianea quella più egualitaria, stabilendo che il divorzio
dovesse essere consensuale e dovesse fondarsi su una giu-
sta causa, quale poteva essere l’adulterio, l’infertilità o la
pronuncia del voto di castità.
Infine, un’ ultima osservazione per riflettere ancora
sulla disparità tra uomo e donna nel Medioevo, partendo
questa volta dalla concezione cristiana del matrimonio, se-
condo la quale l’unione con un uomo non era necessaria-
127
m anuela Paganelli
Madri
Il tema della maternità si è affacciato spesso nel corso
dei diversi “viaggi” affrontati in queste note. Si è affac-
ciato nella storia dell’Imperatrice Teodora, che sperimen-
tò il fallimento di una maternità negatale dalla natura.
Ed è apparso nelle vicende delle madri longobarde, so-
lidi riferimenti per i figli che vivevano la guerra. Torna
nella storia delle spose di Cristo, che vedevano nella ma-
ternità un impedimento all’attesa congiunzione spiritua-
le con l’Amato. È la giustificazione stessa delle storie di
quelle donne che si dedicarono alla cura di chi stava per
diventare madre. Lo troviamo nelle storie di tante figlie,
dolorosamente abbandonate dalle madri nella prospetti-
va di un futuro migliore; ed in quelle di tante spose che
diventarono madri così giovani che dovevano ancora es-
sere figlie.
Come in tutte le epoche, le vicende della maternità
nel Medioevo racchiudono il fluire stesso della storia,
dalla quotidianità del legame naturale all’eccezionalità
dei rapporti ai vertici del potere, dalla sua completa ac-
cettazione alla più sofferta negazione.
Ancora una volta, la Chiesa potè ispirare l’uno o l’al-
tro atteggiamento.
A Castelseprio, nel Varesotto, nella chiesa di Santa Ma-
ria foris Portas, un anonimo pittore o un gruppo di pittori-
di sicura ascendenza bizantina, affrescò le pareti dell’aula
di culto in un periodo che gli studiosi non sono ancora ri-
129
m anuela Paganelli
130
L a Donna neLL ’a ntichità
presaga del futuro, medita già sulle sorti del Figlio; Giu-
seppe, più umano, allontana i dubbi dal suo cuore… Su
tutti comunque incombe un ineluttabile destino di dolore.
Le donne del Medioevo erano soprattutto madri e
questo lo sapevano fin dalla nascita. Durante il Medio-
evo si sono sviluppate tutte le forme ed ogni sfumatu-
ra del rapporto tra madre e figli. Un legame profondo
anche quando non si manifesta apertamente, un vincolo
nascosto ed indissolubile a volte non compreso, a vol-
te rifiutato, a volte appena sopito. Nel Medioevo mol-
te madri furono costrette ad interrompere quel legame
per assecondare volontà politiche, regole religiose o più
semplicemente per offrire ai propri figli un destino mi-
gliore; ne soffrivano ma non potevano manifestare il do-
lore della lontananza.
Lo fa invece la contessa di Barcellona e marchesa di
Settimania, Dhuoda: suo figlio Guglielmo è stato affi-
dato come ostaggio all’imperatore Carlo il Calvo dal
padre e lei, per illudersi di essergli vicino, nell’anno
843 gli dedica uno scritto, il Liber Manualis. Il testo è
una lunga riflessione sui doveri, sulla vita e le difficol-
tà che Guglielmo affronta e dovrà affrontare, proposta
attraverso citazioni di testi sacri, di autori classici, di
riferimenti allegorici ritmati sui numeri sacri. Dhuoda
vuole fornire a Guglielmo gli strumenti per affrontare
la vita terrena e raggiungere la felicità spirituale, af-
fidandoli all’inchiostro e non alla voce, con la quale
avrebbe voluto istruirlo. E scrive anche perchè un gior-
no Guiglielmo, leggendo la sua opera, pensi a lei che è
così lontana.
Le misurate e sommesse parole con le quali ella apre
il suo libro, non riescono però a nascondere tutta la te-
nerezza di una madre che vorrebbe avere accanto a se’ il
proprio figlio: «La maggior parte delle madri di questo
mondo può godere della vicinanza delle sue creature,
mentre io, Dhuoda, sono tanto lontana da te, figlio mio
Guglielmo, e perciò piena di ansia e di desiderio di es-
serti utile; così ti invio questa piccola opera scritta a mio
nome, affinché tu la legga per tua formazione; sarò felice
se, pur essendo io assente fisicamente, proprio questo li-
bretto ti riporterà alla mente, quando lo leggerai, ciò che
devi fare per me» ed ancora «Ciò che mi sta più a cuore,
131
m anuela Paganelli
132
ParTe SeconDa
Le STorie
La Donna neLL’anTico egiTTo
di Mara Monticone Cimmino
U
nitamente alle testimonianze archeologiche, le
fonti storiche concorrono ad attribuire alla donna
egizia una posizione pressoché paritaria all’uo-
mo, dal punto di vista dei diritti economici, giuridici, ci-
vili e sociali. In breve, essa era considerata pienamente
“individuo”. (Fig. 36)
Dalle parole dello storico greco Erodoto, ad esempio,
si deduce quanto progressista nel Mediterraneo dell’epo-
ca fosse il ruolo della donna nell’antico Egitto, di con-
cezione talmente “moderna”, al punto da destare quasi
scandalo: “Da loro, per esempio, sono
le donne che vanno al mercato ed eser-
citano il commercio” (Erodoto, “Sto-
rie”, II-35).
135
m ara m ontiCone C immino
(Medio Regno, XI dinastia). Particolare. Museo Egizio vesti il suo dorso: l’un-
tessile, rinvenuto nella tomba del cancelliere Meket-Ra
Fig. 41: Particolare degli atti del processo, redatti su papiro, contro i congiurati che attentaro-
no alla vita di Ramesse III (Nuovo Regno, fine XX dinastia). Museo Egizio di Torino (Da Civiltà
degli Egizi. La vita quotidiana, Ist. Bancario San Paolo, Torino 1988).
142
Le PriMe SiciLiane
di Giuseppina Battaglia
il Paleolitico
L
’uomo moderno ha una grande capacità di adat-
tamento a tutti gli ambienti naturali e saranno
gruppi di uomini moderni che raggiungeranno la
Sicilia e che vi si stanzieranno in maniera stabile circa
30.000 anni fa, durante una fase avanzata del Paleolitico
Superiore, come ci raccontano i reperti rinvenuti nel Ri-
paro di Fontana Nuova a Marina di Ragusa. Durante il
Pleniglaciale Superiore (25.000 – 15.000 anni fa) i fondali
marini che oggi circondano l’Isola fino ad una profon-
dità di 120 - 130 metri erano terre emerse, le isole Ega-
di erano unite alla costa trapanese, una penisola molto
estesa partiva dalla zona di Mazara del Vallo fino quasi
alla costa africana, una grande penisola univa l’arcipela-
go maltese alla costa sud orientale della Sicilia. In questo
modo l’Isola doveva essere unita alla terraferma: non si
sa bene se alla costa africana (come si è sempre creduto)
o alla costa italiana (come oggi sembra più probabile).
Comunque fu attraverso un “ponte” che arrivarono pri-
ma gli animali e poi l’uomo. La Sicilia doveva essere una
regione steppica, ad aree cespugliose alternate a zone di
prateria alpina e con alcuni ghiacciai montani.
Molto probabilmente l’Isola era già stata “scoperta”
in epoche precedenti, ma le tracce di questi passaggi
umani sono confuse e richiedono ulteriori ricerche, studi
e scavi eseguiti con metodo scientifico. Per trovare i resti
dei primi abitanti umani dobbiamo arrivare nella grotta
di San Teodoro (Acquedolci, ME) dove sono stati trovati
gli scheletri di 4 uomini e 3 donne in posizione supina
di decubito, arti distesi, all’interno di fosse di forma ret-
tangolare deposti in uno strato di ocra (che simboleggia
143
g iusePPina B attaglia
il Mesolitico
Il passaggio climatico dal Pleistocene all’Olocene,
ossia l’era attuale, con tutte le conseguenze ambientali,
segna anche un nuovo modo di vita e di sussistenza pe-
culiare di questo periodo che precede l’inizio dell’agri-
coltura e dell’allevamento. Lo scioglimento dei ghiacciai
portò all’inabissamento di vaste zone costiere e sparì il
“ponte” che univa la Sicilia al continente. Nell’Isola, mai
coinvolta da fenomeni glaciali, sembra credibile che ci
siano stati brevi periodi di freddo intenso, corrisponden-
ti alla fine del Pleistocene, cui seguì una lunga fase di
clima temperato caldo, corrispondente ai primi millenni
dell’Olocene.
Nella Grotta d’Oriente a Favignana (Egadi, Trapani) è
documentata una frequentazione saltuaria della grotta,
stagionale e possibilmente legata ai riti inumativi. Nel sito
sono state infatti rinvenute tre sepolture in fosse coperte
da pietre: A e C sono attribuibili al Paleolitico Superiore
(epigravettiano finale), B è attribuibile al Mesolitico.
La sepoltura A è un uomo con un corredo composto
da un ciottolo e una lama, un grattatoio di selce e una
collana di conchiglie forate; la
sepoltura B è databile al Me-
solitico ed è una donna di età
adulta il cui corredo è costitu-
ito da una collana di conchi-
glie, tre ciottoli rotondi e un
punteruolo; i resti della donna
hanno gli arti in posizione in-
consueta.
il neolitico
Già agli inizi del VI millen-
nio a.C. si vede nella Sicilia Fig. 44 Scena rituale nella
occidentale una precoce neoli- grotta dell’Addaura (PA).
145
g iusePPina B attaglia
L’eneolitico
Databili a tempi più recenti (5.000 – 3.000 a.C.), ossia
fra Neolitico ed Eneolitico, nella grotta Mirabella presso
San Giuseppe Jato (PA) vi è un gruppo di figure dipin-
146
L a Donna neLL ’a ntichità
149
g iusePPina B attaglia
150
L a Donna neLL ’a ntichità
152
L’iMMagine DeLLa Donna
in eTà nUragica
di Anna Depalmas
N
ell’ambito della Sardegna di epoca protostorica,
le raffigurazioni di soggetti umani riguardano le
produzioni di bronzi relative alle fasi più avan-
zate della civiltà nuragica (il ciclo di sviluppo protostori-
co della Sardegna, dalla fine del Bronzo antico alla prima
età del ferro), in particolare, alla prima età del ferro.
Un elemento caratteristico e significativo delle mani-
festazioni artigianali ed artistiche di tale fase è, infatti,
costituito dai bronzetti, miniature di persone, animali,
edifici ed oggetti d’uso quotidiano.
Sono noti più di 600 bronzetti, numero in costante au-
mento, grazie alle scoperte che avvengono con regolari
attività di ricerca ma anche per le “riscoperte” in raccolte
private, che incrementano il deprecabile fenomeno della
decontestualizzazione di questi straordinari documenti
(Depalmas 2008).
La mancanza, per gran parte delle fasi di sviluppo del
periodo nuragico, di forme di seppellimento individuale
limita la nostra capacità di distinguere indicatori utili per
comprendere la struttura della società e, nello specifico,
il ruolo della donna.
Uno strumento importante, in questo senso, è costi-
tuito da quanto emerge dall’osservazione dei bronzetti,
che sulla base della varietà dei soggetti rappresentati e
delle loro iconografie, costituiscono la fonte documenta-
ria primaria sulla stratificazione sociale della prima età
del ferro, determinatasi forse a partire dal Bronzo Finale.
Nell’ambito degli studi sulla civiltà nuragica, la trat-
tazione dei bronzi figurati occupa un posto di grande ri-
lievo per numero di lavori e per l’ampio dibattito, sorto
soprattutto nell’ultimo ventennio, in relazione ai proble-
153
anna DePalmas
Fig. 52: La “madre dell’ucciso” da Sa Fig. 53: Figura femminile con petaso
Domu ’e S’Orku, Urzulei (da AA.VV. 1980). da Seléni, Lanusei (da Lilliu 1966).
158
L a Donna neLL ’a ntichità
L
’ultima madre.
Questa è la definizione che da di se stessa l’an-
ziana accabadora nel romanzo scritto da Michela
Murgia.
Madre pietosa o vile assassina... Una figura contro-
versa, dai tratti leggendari, suscitatrice di emozioni pro-
fonde e contrastanti, che se da un lato ci conduce a tema-
tiche di stretta attualità, dall’altro affonda le sue radici in
un passato che intuiamo assai lontano.
E indietro nel tempo, curiosamente, è il mondo della
grande Dea, così come è stato delineato dall’archeologa
americana di origini lituane Marija Gimbutas, ad aver at-
tirato la nostra attenzione.
La Gimbutas concentrò i suoi studi sul Neolitico eu-
ropeo ed anatolico, riconoscendovi i tratti di una comu-
ne cultura pre-indoeuropea, definita dell’Europa Antica,
dal carattere agricolo e sostanzialmente pacifico, fiorente
dal punto di vista artistico e architettonico e con un siste-
ma sociale equilibrato.
Le donne vi avrebbero svolto un ruolo centrale, pro-
prio come la Dea, la cui religione, “come sistema di idee
coeso e persistente”, avrebbe permeato tutta l’area euro-
pea fino al sud-est e il Mediterraneo fino al Medio Orien-
te (Gimbutas 2008).
Tra il 4300 e il 2800 a.C., l’invasione di una popola-
zione proto-indoeuropea avrebbe messo fine a questa
cultura.
Questa popolazione, denominata Kurgan (dal nome
russo che significa “tumulo”, cioè il tumulo circolare
in cui usavano seppellire i loro morti), sarebbe migrata
ad ondate successive, a partire dal 4400 - 4200 a.C., dal
suo nucleo originario nel bacino del Volga, imponendosi
163
roBerta tulli
165
roBerta tulli
le immaginava sepolture di un
uomo gigante, sono i monumen-
ti funerari delle genti nuragiche,
che accoglievano al loro interno
inumazioni collettive.
Esse hanno uno schema pla-
nimetrico comune, con la camera
funeraria di forma rettangolare
inclusa in un corpo tombale dai
lati più o meno rettilinei, absida-
to nella parte posteriore, mentre
sulla fronte si sviluppa in una
esedra semicircolare (fig. 64).
In sostanza, al di là del lin-
guaggio tecnico, il corpo tomba-
le, rettangolare ai lati ma curvili-
neo nella sua parte finale, con le
ali dell’esedra a completamento,
evoca senza ombra di dubbio
una protome taurina (fig. 65).
Riproduzione, più o meno
intenzionale, di testa e corna di
Fig. 63: Il simbolismo del toro
toro, così comunemente si inter-
nell’Europa Antica e’ probabil- preta la planimetria di queste
mente riconducibile alla forma tombe, ma se seguiamo il filo
Fig. 64: Tomba di giganti di Li Mizzani – Fig. 65: Ricostruzione ideale di tomba di giganti (in
Palau (pianta) (da Lilliu 2003). basso sezione della camera) (da Lilliu 2003).
167
roBerta tulli
senza conseguenze
anche attraverso il
periodo dell’Inqui-
sizione.
L’esistenza de
s’accabadora è or-
mai definitivamen-
te accertata e tra gli
Fig. 66: Su Jualeddu esemplare custodito presso il Museo
Etnografico Galluras a Luras (da Bucarelli–Lubrano 2003).
ultimi episodi di
accabadura di cui si
ha testimonianza
indiretta uno avvenne a Luras nel 1929.
In questo caso fu l’ostetrica del paese, significativa-
mente proprio colei che aiuta ad uscire alla vita, a con-
durre alla morte un uomo di settant’anni, e i carabinieri e
il Procuratore di Tempio Pausania concordarono sull’ar-
chiviazione del procedimento, riconoscendo il suo inten-
to umanitario.
L’altro caso accadde in Barbagia, con tutta probabilità
ad Orgosolo, addirittura nel 1952 (Bucarelli – Lubrano
2003).
Recentemente è stata pubblicata (Turchi 2008) l’inter-
vista, fatta nel 2008, alla allora novantenne Paolina Con-
cas di Gadoni, la quale ha raccontato che, recatasi nel pa-
ese di Seùlo per fare visita ad una zia ormai agonizzante,
ha visto con i suoi occhi l’accabadora provocarne la rapida
morte, mettendogli sotto il collo su jualeddu, non prima
però di aver tolto tutti gli oggetti sacri dalla stanza e gli
amuleti dalla persona, poiché per la loro funzione protet-
tiva avrebbero ostacolato la dipartita.
L’episodio è stato situato più o meno nei primi anni
Quaranta del 1900.
Su jualeddu, ovvero un piccolo giogo, uguale a quello
usato per i buoi, sarebbe stato uno degli strumenti di cui
si servivano le accabadoras per assolvere al loro compito
(fig. 66).
Probabilmente in origine una mano veloce e precisa
faceva battere la nuca del moribondo contro il pesante
giogo (juale) di un aratro o di un carro a buoi, provocan-
done il trapasso.
In seguito l’oggetto acquisisce sempre più una funzio-
ne simbolica e magica, e viene sostituito da un modellino
170
L a Donna neLL ’a ntichità
174
cULTi feMMiniLi e rUoLo
DeLLa Donna: anaLogie Tra
LoCRi EPizEFiRii e reaLTà
Laconico-SParTana
di Simona Montagnani
I
culti delle divinità femminili si sono manifestati a
Locri Epizefirii come in nessun’altra polis della Magna
Grecia e hanno destato l’attenzione sia dei moderni
sia dei contemporanei. Le prime ricerche sul sito della
città, a carattere eminentemente erudito-antiquario, ri-
salgono alla metà del Cinquecento (Sabbione e Costa-
magna 1990). Un taglio più topografico fu dato a partire
dal Settecento (Arias 1991). Tra la fine dell’Ottocento e
gli inizi del secolo scorso furono intraprese le prime cam-
pagne di scavo con carattere sistematico, in gran parte
condotte da Paolo Orsi. Le sue indagini, che dettero, fra
l’altro, impulso alle successive ricerche, protrattesi fino
ad oggi, hanno consentito di raccogliere una notevole
mole di dati archeologici, dai quali è emersa con chia-
rezza l’esistenza di santuari femminili dalle specifiche
caratteristiche topografiche, cronologiche e funzionali
(Sabbione 1996). In generale, è possibile notare che la re-
altà archeologica e cultuale locrese comprende santuari
intramuranei e suburbani, questi ultimi situati all’esterno
delle mura ma in loro prossimità. Verso la chora della cit-
tà, in un luogo alquanto suggestivo fra i colli Abbadessa
e Mannella, si trova un santuario suburbano indiscutibil-
mente attribuito a Persefone, regina dell’Oltretomba, as-
sociata con alcune divinità maschili quali Hades, Dioniso,
Hermes, Ares, Apollo, i Dioscuri e Trittolemo. Si tratta di
un complesso cultuale dalla vita molto lunga, scandita
175
simona m ontagnani
dalla breve vita che rinasce ogni anno, legato nel mito sia
a Persefone sia ad Afrodite.
Ad una prima osservazione si può rilevare che i primi
santuari fondati nella polis, il santuario suburbano della
Mannella, il santuario urbano di Marasà nord e la Stoà ad
U fuori dalle mura, introducono ab origine alla cultualità
tipicamente femminile di Locri che riconosce in Afrodi-
te e Persefone le principali divinità. Afrodite campeggia
dentro la città e in prossimità del mare, presumibilmen-
te in forme e con valenze semantiche diverse (Sabbione
1996); Persefone invece domina l’interno della chora. La
diversa dislocazione topografica dei santuari che indica
il legame della prima dea con le acque e l’esterno, del-
la seconda con la terra, elemento ctonio per eccellenza,
suggerisce un differente ambito di funzionalità delle due
divinità femminili che risultano allo stesso tempo oppo-
ste e complementari.
Più a nord, nei pressi di una sorgente naturale, si col-
loca il santuario agreste di Grotta Caruso, sorto in epo-
ca arcaica (VI secolo a.C.), con una vitalità ridotta nel
periodo classico ed una forte ripresa in età ellenistica e
fino alla seconda metà del II secolo a.C. Considerata la
sua peculiare dislocazione topografica, risulta pressoché
sicura l’appartenenza di Grotta Caruso ad un contesto
cultuale dedicato alle Ninfe e alle acque, associate, in
ogni caso, ad altre divinità femminili (Afrodite ed Arte-
mide) e maschili (Acheloos ed Euthymos), e frequentato
dalle giovani locresi in procinto di sposarsi e di divenire
madri. In relazione al culto demetriaco, la quasi totale
assenza di Demetra al Persephoneion è stata compensa-
ta dal ritrovamento, in anni recenti, di un Thesmophorion
suburbano in zona Parapezza poco distante da Marasà
nord, che ha restituito abbondanti ed interessanti mate-
riali archeologici (Milanesio 2005). Le due principali fasi
di vita del santuario, da inquadrarsi l’una tra la metà
del VI e il V secolo a.C., l’altra tra la metà del IV e il III
secolo a.C., fanno pensare ad una funzione importante
di questo culto, legato alla fertilità intesa in senso lato,
connessa al matrimonio e ai riti di passaggio femminili
ma anche allo sviluppo della polis, poiché in rapporto ad
aspetti eugenetici (riproduzione e sostentamento di forti
cittadini).
178
L a Donna neLL ’a ntichità
185
simona m ontagnani
IV secolo inol-
trato (Fig. 71) del
pittore di Locri
(necropoli di
Lucifero tomba
1119) pubblica-
to da Orsi nel
1917, in cui lo
studioso vede
una scena di pa-
lestra con donna
Fig. 71: IV sec. a.C. inoltrato, vaso di ignota fabbrica italiota con
scena di palestra proveniente dalla necropoli di Lucifero di Locri
palestrita (da
E. (Fonte: Orsi, 1917). non confondere
assolutamente
con l’eroina mitologica Atalanta). Lo strigile compare ma-
terialmente nei corredi di tombe femminili dalla necropoli
di Lucifero, ed è raffigurato anche su uno dei pinakes (tipo
Zancani 6/1 Prückner 44) (Fig. 72) provenienti dal Perse-
phoneion. “[…] L’esercizio sportivo non sembra […] essere una
prerogativa esclusivamente maschile a Locri, come testimoniano
la presenza di strigili in corredi riconosciuti pertinenti ad indivi-
dui femminili […]” (Costamagna 1987). Si potrebbe obiettare
che si tratta di un numero limitato di evidenze materiali,
ma se si guarda ad esse non in una prospettiva quantitativa
bensì qualitativa (e post-processuale), contestualizzandole,
è possibile conferire loro un diverso peso e suggerire una
nuova possibilità di analisi della realtà locrese.
Per terminare l’esame dei santuari dedicati alle divinità
femminili, occorre considerare, in relazione al sostentamento
e alla crescita della polis, il culto di Demetra, che si connette,
in generale, alla fertilità ed ai passaggi di status delle fanciulle
a donne sposate capaci di procreare figli legittimi e cittadini
forti da inserire come valorosi guerrieri nel corpus maschile
della società. Analogamente, nel contesto dorico, Demetra è
posta in associazione ad Afrodite sul promontorio laconico
del Tenaro ed a Corinto, sull’acropoli, dove è presente anche
Kore. Emergono aspetti diversi del “femminino”, per usare le
parole di Snell (Snell 1963), a quanto pare sanciti dalle diver-
se dislocazioni topografiche delle aree cultuali. Afrodite pur
collocandosi come a Sparta dentro la polis, è legata ai contatti
con l’esterno. Persefone appare rivolta verso l’interno della
chora. I culti di Athena e di Zeus Olimpio propriamente polia-
188
L a Donna neLL ’a ntichità
190
Lo SPecchio, iL fUSo, iL TirSo:
fraMMenTi Di viTa Di Donne
greche e iTaLiche
di Cristina Marchegiani
C
osì Andromaca si rivolge al suo sposo, Ettore, il
più valoroso tra i figli di Priamo, re di Troia. Il fu-
gace incontro tra Ettore, salito alla rocca di Ilio, e
Andromaca è indubbiamente una pagina di lirica inten-
sa e di assoluta modernità, in uno dei poemi più antichi
e “maschili” quale è l’Iliade (fig. 73).
Il dialogo tra i due sposi è stimolo ad alcune riflessio-
ni sulla condizione della donna nella società descritta da
Omero e sullo svolgersi
della sua vita, all’inter-
no del contesto fami-
gliare e cittadino. Ettore
lascia i panni di spietato
guerriero e si svela ap-
prensivo marito e pa-
dre, quando, giungendo
alla sua dimora, non
trova ne moglie ne fi-
glio. Interroga le schiave
“dove andò Andromaca
braccio bianco fuori di
casa? dalle sorelle mie
o dalle cognate bei pe-
Fig. 73: Andromaca ed Ettore. Cratere a figure nere pli, o forse al tempio di
da Vulci (540 a.C. )Museo di Wurzburg.
191
C ristina m arChegiani
196
L a Donna neLL ’a ntichità
Figg. 76: Hydria del Pittore di Leningrado. Collezione Intesa San Paolo (460 a.C. ca).
197
C ristina m arChegiani
Figg. 78: Proposta di ricostruzione di parure ornamentale dalla tomba 324 di Alianello. (VII sec. a.C. )
(da Museo Archeologico Nazionale di Metaponto. Ornamenti femminili in Basilicata)
“grembiule” in elementi di bronzo dalla tomba 324 di Alianello. (VII sec. a.C. )
(da Museo Archeologico Nazionale di Metaponto. Ornamenti femminili in Basilicata)
Parure dalla tomba 205 di Chiaromonte (VII sec. a.C.).
199
C ristina m arChegiani
200
agriPPina Minore
e La SUa aUTobiografia
di Alessandra Lazzeretti
Q
uesto contributo trae origine da un mio testo edi-
to, ormai, una quindicina di anni fa (Lazzeretti
2000). Numerosi sono gli studi pubblicati, nel
frattempo, su Agrippina, su vari aspetti della sua vita,
sulle fonti che la riguardano, ma in essi la sua autobio-
grafia rimane oggetto appena di qualche citazione. Per-
tanto, mi propongo qui di analizzare, approfondire e svi-
luppare alcuni spunti che in precedenza avevo soltanto
accennato.
Tacito (Ann. IV, 53, 2) fornisce quella che può essere in-
tesa come una definizione concisa del contenuto dell’ope-
ra autobiografica di Agrippina minore: “...Neronis principis
mater vitam suam et casus suorum posteris memoravit...”, la
narrazione ai posteri dei fatti salienti della sua vita, dalla
nascita al momento della stesura, ma anche delle vicen-
de riguardanti la sua famiglia, una delle quali è proprio
oggetto del racconto tacitiano (per un commento all’inte-
ro capitolo 53 del IV libro degli Annales cfr. Köestermann
1965, pp. 166-168 e Martin - Woodman 1989, pp. 218-219).
Lo storico ne trae la notizia della richiesta avanzata a
Tiberio, nel 26 d. C., da Agrippina maggiore, di trovarle
un nuovo marito (Tac. Ann. IV, 53. Peter, HRR, fr. 1), cosa
che sarebbe avvenuta senza difficoltà perché molti uomi-
ni avrebbero sicuramente ritenuto un onore accogliere la
vedova e i figli di Germanico (Ann. IV, 53; l). Ma l’impera-
tore, consapevole di quale importanza avesse per lo stato
un nuovo matrimonio di Agrippina maggiore, e tuttavia
non volendo manifestare apertamente la sua avversione
o il suo timore, la lasciò senza alcuna risposta (Ann. IV,
53, 2). Non diversamente era accaduto l’anno precedente
quando Livilla, sorella di Germanico e vedova di Druso
minore, morto nel 23 d. C, gli aveva chiesto il permesso
di sposare Seiano (Tac. Ann. IV, 39-41). Pur facendo uso
in altri casi, come in seguito per la stessa Agrippina mi-
nore, di strategie matrimoniali (cfr. ad esempio, Corbier
1995, pp. 188-189), Tiberio manifestò una decisa volontà
di non concedere il permesso per un nuovo matrimonio
ad Agrippina maggiore. L’opinione al riguardo non è
univoca fra gli studiosi: c’è chi, come Syme (Syme 1967,
vol. I, p. 367), ha osservato che la richiesta di Agrippi-
na maggiore era importante per le implicazioni che un
nuovo matrimonio della vedova di Germanico avrebbe
avuto; chi, come Barrett (Barrett 1996, pp. 198-199), pur
rilevando la correttezza dell’interpretazione di Syme,
evidenzia che le nuove nozze non ebbero luogo e ritiene
che Tacito narri l’episodio, precisando che non era noto
da altre fonti, non per rimarcarne l’importanza politica,
ma soprattutto per mostrare la sua accuratezza nel do-
cumentarsi; infine chi, come Lewis (Lewis 1993, p. 653
nota nr. 76), pensa che l’interpretazione in chiave politica
della richiesta di Agrippina maggiore a Tiberio fosse già
209
alessanDra l azzeretti
212
L a Donna neLL ’a ntichità
I, 3; IV, 57, 3; XII, 25, 1; Cass. Dio LV, 13, 2). Il ragionamento
di Pallante, a mio parere non del tutto calzante, potrebbe
riflettere gli argomenti usati da Agrippina nell’intento di
elevare il figlio al trono. Non sfugge, infatti, che l’altra ar-
gomentazione utilizzata da Pallante per caldeggiare l’ado-
zione di Nerone, proteggere la giovane età di Britannico,
secondo Tacito di tre anni minore rispetto a Nerone (Tac.
Ann. XII, 25, 1), era solo un pretesto, e che gli interessi che
Pallante intendeva tutelare non erano quelli di Britannico
ma quelli di Nerone e Agrippina. Anche in questo passo,
come in Tac. Ann. XII, 2, 3, cfr. supra, Pallante incarna e per-
sonifica la propaganda di Agrippina in favore di Nerone.
Si potrebbe ipotizzare che nella redazione di questo breve
ma fondamentale capitolo Tacito abbia utilizzato insieme i
commentarii di Agrippina e altre fonti, a lei ostili o, quanto
meno, non favorevoli e maggiormente equilibrate, di cui
si conserverebbe un’eco nella constatazione che lo chiude,
probabile espressione della riflessione sviluppatasi intorno
all’argomento: con la sua decisione, inaudita e inaspettata,
Claudio introduceva addirittura un elemento di assoluta
novità e di rottura della tradizione e delle consuetudini
perfino all’interno della sua stessa gens, nel ramo patrizio
della quale non esisteva nessun precedente di adozione fin
dai tempi di Appio Claudio, il suo fondatore (Tac. Ann. XII,
25, 2), come Claudio stesso afferma in Suet. Claud. XXXIX,
cfr. anche infra. Se quanto propongo è sensato, potrei spin-
germi a ritenere che Tacito possa aver messo in bocca a Pal-
lante (che appare sempre come il portavoce degli intenti di
Agrippina, fino a quando, proprio perché appoggiava la
superbia della donna, Nerone non lo rimosse dall’incarico,
cfr. Tac. Ann. XIII, 14, 1), non solo in questo passo, ma an-
che negli altri in cui egli compare in un ruolo attivo, argo-
menti e parole tratte dagli stessi commentarii di Agrippina.
Pallante potrebbe, cioè, essere la figura cui lo storico affida
negli Annales quanto aveva tratto dalla consultazione di-
retta dell’autobiografia dell’Augusta.
230
iL nUDo Di Donna neLLa SToria.
MeDioevo: Sogno eLiSio
TorMenTo SabbaTico
di Fulvio Ricci
L
’analisi delle forme artistiche fin dal suo primo
procedere nella realtà della vita ha evidenziato
come il momento centrale delle rappresentazioni
figurate è essenzialmente incentrato sul corpo umano e
sul corpo umano nudo in particolare. Nulla esprime in
maniera più puntuale e con tale ricchezza di addentellati
significanti lo spirito di un’epoca e di una civiltà quanto
i modi di rappresentazione della figura umana e delle
figura umana espressa nella sua nudità.
Narra il mito come Persefone la bellissima figlia di
Demetra, dea madre della Terra, mentre giocava con i
fiori fu rapita da Ade, dio degli Inferi. Le urla di Persefo-
ne, trascinata nella voragine infera si fecero sempre più
flebili fino a perdersi del tutto. Demetra disperata vaga-
va sulla terra alla ricerca della figlia chiamandola a gran
voce, la lunga folle ricerca di Demetra era vana, pianse,
invocò compassione, lei, immortale, invocò la morte ma
non trovò la figlia, il suo sorriso si spense. Allora la dea
feconda maledisse tutto ciò che era fertile: nessun bam-
bino poteva nascere, non cresceva il grano, non sboccia-
vano i fiori, tutto divenne grigio ed arido; il lungo pe-
regrinare della dea triste e folle di dolore la portò in un
villaggio dove le si parò davanti la vecchia Baubo, una
strana creatura femminile, priva di testa, con i capezzoli
al posto degli occhi e la vagina in luogo della bocca, la
donna danzò con movenze equivoche e con la sua par-
ticolare bocca intrattenne Demetra con storielle piccanti,
il sorriso tornò sulla bocca della dea, tornò l’energia per
ritrovare Persefone e con il buon esito della vicenda la
231
fulvio riCCi
235
fulvio riCCi
Fig. 82: San gallo, Stadtbibliothek, Coniunctio da Rosarium Philosophorum di Arnaldo da Vil-
lanova.
241
fulvio riCCi
244
L a Donna neLL ’a ntichità
260
iL veLeno Di LUcrezia
di Giovanni Antonio Baragliu
«O
mnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam
existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit».
Tutto è veleno, nulla esiste che non sia vele-
no. Solo la dose fa, dato che il veleno non fa nulla. Nulla
è di per sé veleno, tutto è di per sé veleno, è la dose che
fa il veleno. (Paracelso)
261
g iovanni antonio Baragliu
Da questa re-
lazione nacquero
ben quattro figli:
Giovanni o Juan
(1474-1497), Ce-
sare (1475- 1507),
Lucrezia (1480-
1519) e Goffredo
(1481-1516).
Alessandro
VI ebbe inoltre
un altro figlio,
Giovanni Bor-
gia (1498-1530)
da Giulia la Bel-
la, l’incantevole
sorella di Ales-
sandro Farnese,
Fig. 87: Tiziano Vecellio. Ritratto di Vannozza Cattanei.
la venere papale
che con il suo concubinato spianò la strada al cardinalato
al fratello, futuro papa Paolo III.
È nota anche un’altra figlia: Isabel (1467-1547), nata
da madre sconosciuta.
L’ambizione sconfinata, la torbida lussuria, la simonia
palese e lo sfrenato nepotismo furono le maggiori pecche
di papa Borgia, uno dei pontefici più chiacchierati della
storia. La famiglia dominava le scene italiane alle soglie
del Cinquecento. I suoi componenti di spicco, soprattut-
to Rodrigo e Cesare, personaggi machiavellici per anto-
nomasia, violenti, privi di scrupoli ed arrivisti, cercarono
in ogni modo di creare e mantenere il loro potere.
Tutto questo getterà su tutti i membri del casato om-
bre oscure, di torbidi intrighi, uccisioni, venefici, relazio-
ni incestuose di Lucrezia con il padre e i fratelli, fratrici-
dio di Giovanni da parte di Cesare e mille altre velenose
dicerie alimentate da una circolazione di libelli e pette-
golezzi mandati in giro dai molti nemici.
Si diceva che Lucrezia uccidesse usando sostanze tos-
siche, Cesare con la spada e il papa per mezzo di sica-
ri prezzolati. Gran parte di queste voci provenivano da
Burcardo di Strasburgo, maestro cerimoniere in Vaticano.
Fu esso a raccontare del “ballo delle castagne” avvenuto
272
L a Donna neLL ’a ntichità
tanto Alessandro VI
(1503), quanto Ce-
sare (1507) moriro-
no: l’uno nel modo
descritto più sopra,
l’altro in una oscura
battaglia al seguito
del re di Navarra.
Le mai sopite paure
si affievolirono ed
iniziarono anni tran-
quilli, nei quali Lu-
crezia viene descritta
come moglie e ma-
dre esemplare, che
Fig. 90: Dosso Dossi, Alfonso d’Este.
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Da Tanaquilla a Larthia Seianti: la donna etrusca » 45
nel pubblico e nel privato di Simona Rafanelli
La donna nel mondo romano di Luciano Frazzoni » 69
incontro alle donne del Medioevo. » 103
immagini e archeologia in italia di Manuela Paganelli
ParTe 2 – Le STorie
La donna nell’antico Egitto di Mara Monticone Cimmino » 135
Le prime siciliane di Giuseppina Battaglia » 143
L’immagine della donna in età nuragica di Anna Depalmas » 153
L’ultima madre di Roberta Tulli » 163
Culti femminili e ruolo della donna: analogie tra » 175
Locri epizefirii e realtà laconico-spartana
di Simona Montagnani
Lo specchio, il fuso, il tirso: frammenti di vita » 191
di donne greche e italiche di Cristina Marchegiani
Agrippina minore e la sua autobiografia » 201
di Alessandra Lazzeretti
il nudo di donna nella storia. Medioevo: sogno elisio » 231
tormento sabbatico di Fulvio Ricci
il veleno di Lucrezia di Giovanni Antonio Baragliu » 261
Bibliografia » 283
Finito di stampare
nel mese di Marzo 2016
dalla Grafiche ATLA di Pitigliano
www.graficheatla.com