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Il problema dell’assegnazione di genere negli scavi archeologici tra bias e stereotipi tradizionali

Uno degli aspetti più recentemente dibattuti all’interno della comunità archeologica riguarda il peso giocato
da preconcetti e bias cognitivi nel lavoro di analisi dei ritrovamenti. L’archeologia, come qualunque altra
disciplina scientifica, non è affatto immune da elementi di discriminazione e stereotipi che interessano la
società contemporanea. Ciò rappresenta un problema laddove pratiche sociali di discriminazione diffuse e
consolidate rischiano di portare a una manipolazione dei risultati.

Tra i fattori di rischio principiale rientra senza dubbio il sessismo.Ancora oggi accade che l’analisi
archeologica cerchi in maniera più o meno consapevole conferme che anche nel passato, in maniera del
tutto trasversale, sia sempre esistita una spiccata divisione dei ruoli tra uomini e donne con caratteristiche
di genere correlate “maschili e femminili” tradizionalmente associati nella società contemporanea,
nonostante le conquiste ottenute dai movimenti femministi nel corso degli ultimi due secoli.

Già nel 1984 Margaret W. Conkey e Janet D. Spector pubblicarono un articolo dal titolo “Archaeology and
the Study of Gender” puntando il dito su come stereotipi e ruoli di genere intrinsechi nella società moderna
influenzassero il lavoro degli archeologi.Il femminismo in Archeologia, esattamente come per altre
discipline scientifiche, da semplice elemento di “controllo etico” ha il potenziale per diventare sempre più
uno strumento che controbilanci bias di genere e sessismo diffuso all’interno della comunità di archeologi.

Un caso eclatantedi come il sessismo possa farsi elemento d’intralcio nel lavoro di ricerca è quello che ha
coinvolto gli archeologi dell’università di Irkutske al ritrovamento da parte loro di due tombe mongole in
Siberia. Al loro interno sono stati rinvenuti i resti di due donne, e una in particolare ha destato l’attenzione
degli studiosi. In primoluogo, per la sua insolita statura, almeno 180 cm di altezza, in secondo luogo per il
corredo funebre, ricco di armi. Presumibilmente una guerriera, dunque, una figura considerata atipica nella
società mongola medievale secondo la storiografia tradizionale.

La prudenza mostrata dall’equipe di archeologi nel considerare la donna rinvenuta quale appartenente alla
classe guerriera mongola costituisce l’ennesimo caso di come considerazioni sociali e stereotipi di genere
contemporanei influenzino l’interpretazione archeologica. La definizione di “amazzone”, figura mitica
dell’antica Grecia, usata dalla stampa generalista in merito alla donna rinvenuta nella tomba, rende l’idea di
quanto sia considerato straordinario e insolito tale ritrovamento.

Un altro caso particolarmente noto e recente è stato quello della tomba vichinga di X secolo a Birka, in
Svezia, che ospita al suo interno un guerriero di alto rango. Nel 2017 un nuovo studio genomico condotto
sui resti della persona sepolta ha mostrato senza possibilità d’appello che i resti sono appartenuti a una
donna. Una conclusione che ha suscitato reazioni intense e molte polemiche, con continue richieste di
“ripetere” le rilevazioni genomiche. A tal riguardo, una delle componenti del team di archeologici che ha
operato lo studio, la Professoressa Charlotte Hedenstierna-Jonson dell’Università di Uppsala, ha
commentato:

“Ciò che trovo interessante è che fin da quando la tomba è stata scavata nel 1870, quest’ultima è stata
interpretata come la tomba di un guerriero in quanto ne ha tutto l’aspetto ed è situata in un punto tra il
presidio e il fortino. Nessuno ha contestato questo elemento fin quando non abbiamo provato che lo
scheletro all’interno della tomba sia quello di una donna e da quel punto in poi l’idea che sia la tomba di una
guerriera non è più considerata una valida interpretazione”

La possibilità che in società passate le donne abbiano avuto ruoli militari porta a unulteriore scenario, ossia
che le donne, o almeno alcune donne particolarmente privilegiate, possano aver avuto ruoli di potere e di
prestigio in una misura assai più frequente di quella solitamente immaginata. A venir messa in discussione
sarebbe quindi l’idea moderna della donna di potere quale “maschio onorario”, una figura più unica che
rara (un esempio emblematico è, per esempio, la Regina Elisabetta I d’Inghilterra) ma che non va a
intaccare minimamente il canovaccio che associa dimensione militare e conseguente dimensione di potere
ad un ambito strettamente maschile.

Per certi versi l’associazione delle donne a dimensioni di prestigio e potere nell’ambito dell’interpretazione
dei resti archeologici è ancor più complicata. In questo caso, infatti, spesso non è sufficiente neppure il
ritrovamento di opulenti manufatti i quali, per lusso e prestigio sociale, se fossero rivenuti in una sepoltura
maschile sarebbero con ogni probabilità ricondotti all’inumazione di un uomo con posizione sociale e
politica di rilievo.

Uno dei casi più dibattuti e ricchi di elementi è senza dubbio quello che coinvolge le sepolture femminili
etrusche. Storicamente è noto che le donne etrusche di nobile famiglia godessero di un livello di
emancipazione molto più ampio rispetto a quello delle donne romane e greche della stessa epoca. Diverse
fonti storiografiche raccontano dello sgomento da parte dei cronisti greci nel constatare ciò che le donne
etrusche avevano la possibilità di fare. Celebre è ad esempio il passo di Teopompo di Chio in merito. Ciò
nonostante, non mancano in ambito archeologico casi di mal interpretazione del sesso di persone rivenute
a causa di bias legati al genere. A Tarquinia, nel 2013, il ritrovamento di una tomba con un corredo
principesco pressoché intatto, ha fatto dapprima pensare che a riposarvi fosse un principe. Le successive
analisi delle ossa, tuttavia, hanno dimostrato che i resti della persona sepolta con lancia e mantello regali
sono quelli di una donna. Ironia della sorte, il misgendering ha colpito anche i resti cremati contenuti in
un’urna presente sempre all’interno della tomba; in un primo luogo sono stati associati a una donna,
presumibilmente la consorte del “principe”, salvo poi scoprire, sempre tramite l’analisi osteologica, che i
resti presenti all’interno dell’urna erano appartenuti ad un uomo.

L’utilizzo dell’analisi osteologica al momento sembra quindi lo strumento più immediato per scongiurare
interpretazioni errate causate dal bias di genere. Uno studio condotto da Laurynas Kurila dell’Università di
Vilnus in Lituania su diversi siti sepolcrali lituani tra il V e il V secolo e tra l’XI e il XII secolo si è posto
l’obiettivo di verificare l’effettiva correlazione tra associazione biologica del sesso derivata da parametri
osteologici e associazione di genere dettata dai manufatti presenti all’interno dei corredi funebri secondo
l’interpretazione tradizionale fornita dalla storiografia.I risultati ottenuti hanno mostrato che tombe
univocamente associabili a uno specifico sesso biologico e che al contempo hanno corredi associati a ruoli
di genere “maschili” e “femminili” non sono affatto preponderanti. In particolar modo, la correlazione tra
tombe al cui interno sono ospitati esclusivamente uomini con manufatti associati esclusivamente al genere
maschile si è rilevata essere sorprendentemente bassa. Per Kurila la presenza in diverse tombe di uomini di
manufatti considerati “femminili” costituisce uno degli elementi esemplificatori del fatto che il genere quale
costruzione sociale nella società lituana medievale avesse con ogni probabilità valori e caratteristiche molto
lontani da quelli attuali. Pertanto, l’associazione “maschile/femminile” sui manufatti che compongono i
corredi funebri rischia di causare storture che l’analisi osteologica può risolvere soltanto in parte.

Gli studi di genere non sono certo un elemento nuovo all’interno della disciplina archeologica. Del resto,
spesso il loro ambito d’applicazione è stato relegato in una dimensione di analisi “a posteriori”. Eppure, il
progresso tecnologico sta sempre più mostrando quanto il bias di genere abbia portato a conclusioni e
analisierrate, soprattutto nel non riconoscere alle donne delle società passate ruoli di prestigio e potere.
Potrebbe quindi esser arrivato il momento di utilizzare gli strumenti di analisi degli studi di genere non più
solo a posteriori, bensì “a priori”, consentendo di fornire un’interpretazione dei reperti un po’ meno viziata
dalle proiezioni sociali e culturali del presente.

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